Tra dire e pensare: casi di grammaticalizzazione in italiano e in siciliano (2011)

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LA LINGUAITALIANA

r i v i s ta a n n ua l e d i r e t ta da m a r i a l u i s a a lt i e r i b i a g i

m au r i z i o da r da n op i e t r o t r i f o n e

g i a n lu c a f r e n g u e l l i

c o m i tat o d i r e da z i o n ee l i s a d e r o b e r t og i a n lu c a c o l e l l a

e m i l i a n o p i c c h i o r r i

c o m i tat o s c i e n t i f i c oz y g m u n t b a r an s k ig e r a l d b e r n h a r dg i o va n n a f r o s i n i

g a s t o n g r o s sc h r i s t o p h e r k l e i n h e n z

a da m l e d g e waya l d o m e n i c h e t t i

f r a n z r a i n e rl o r e n z o t o m a s i n

*

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LA LINGUAITALIANA

storia , strutture, test i

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SOMMARIO

Wolfgang Schweickard, La stratificazione cronologica dei turchismi in italiano 9Francisco Núñez Román, Locuzioni preposizionali nella prosa italiana delle origini 17Giulia De Dominicis, Poi che nella Commedia di Dante : tra tempo, causa e rilievo

informativo 27Francesca Gatta, Prefazioni a traduzioni scientifiche e ‘questione della lingua’ nel

Cinquecento 41Luca D’Onghia, Aspetti della lingua comica di Giovan Battista Andreini 57Giuseppe Polimeni, Il troppo e il vano della lingua : l’ideale della proprietà espressiva

dal dibattito linguistico alla scuola italiana dopo l’Unità 81Silvio Cruschina, Tra dire e pensare : casi di grammaticalizzazione in italiano e in

siciliano 105Ursula Reutner, Varietà regionali e doppiaggio cinematografico : la strategia di Giù

al Nord 127Silvia Capotosto, « Sono il noto che può condurre all’ignoto desiderato » : il dialetto

negli Scritti linguistici di Manzoni 145Elisa De Roberto, Scuola o scola ? Monolinguismo, polimorfia e variazione nei sil-

labari postunitari 159Andrea Viviani, “Alto sentire” : le parole del valore 173

osservatorio linguistico

Erling Strudsholm, Gli studi di linguistica italiana in Danimarca oggi 189

recensioni

Sandra Covino, Giacomo e Monaldo Leopardi falsari trecenteschi. Contraffazione dell’antico, cultura e storia linguistica nell’Ottocento italiano (Laura Ricci) 201

Massimo Palermo, Danilo Poggiogalli, Grammatiche di italiano per stranieri dal ’500 a oggi. Profilo storico e antologia (Francesco Feola) 206

Arnaldo Soldani, La sintassi del sonetto. Petrarca e il Trecento minore (Carlo En-rico Roggia) 209

Ursula Reutner, Sprache und Tabu. Interpretationen zu französischen und italieni-schen Euphemismen (Lucia Bolzoni) 213

Gasparro Fuscolillo, Croniche, edizione critica e studio linguistico a cura di Nadia Ciampaglia (Francesco Bianco) 216

Demetrio Skubic octogenario, a cura di Martina Ožbot, « Linguistica », xlviii (i), xlix (ii), l (iii) (Elisa De Roberto) 218

Abstracts 223

TRA DIRE E PENSARE : CASI DI GRAMMATICALIZZAZIONE

IN ITALIANO E IN SICILIANO

Silvio Cruschina*1

1. Introduzione

U na consolidata tradizione di studi concepisce la grammaticalizzazione come uno sviluppo interno alla lingua, un processo lento, graduale e unidirezionale (Leh-

mann, 1985 ; Traugott/Heine, 1991 ; Bybee/Perkins/Pagliuca, 1994 ; Hopper/Traugott, 2003). La variazione sintattica, sia sincronica sia diacronica, che può contraddistinguere un fenomeno di grammaticalizzazione, è principalmente vista come il riflesso di diversi stadi di sviluppo del processo di grammaticalizzazione stesso, secondo interpretazioni e analisi che lasciano spesso intendere che i cambiamenti linguistici sono regolari e, in un certo senso, anche predicibili. Alcuni studi (Giacalone Ramat, 1998 e 2000 ; Cam-pbell, 2001 ; Janda, 2001) hanno però evidenziato le problematiche connesse ai confini e ai limiti di questo fenomeno linguistico, la cui gradualità viene messa in discussione da casi di grammaticalizzazione interrotta o incompleta, e la cui prevedibilità e direzio-nalità vengono talvolta compromesse da esiti e da percorsi del tutto inattesi o diversi a seconda della lingua.

In questo articolo metteremo a confronto i diversi stadi di grammaticalizzazione di elementi e strutture derivati da verba dicendi e da alcuni verbi o locuzioni modali, in italiano e in siciliano. In alcuni casi si osserva la rianalisi di strutture bifrasali in singole unità con funzione modale; in altri casi, soprattutto in italiano, le proprietà degli ele-menti e delle strutture in questione si caratterizzano come semi-grammaticali, poiché sembrano trovarsi nella fase iniziale di un processo di grammaticalizzazione di cui però non è possibile prevedere l’eventuale stadio successivo.

La grammaticalizzazione dei verba dicendi in elementi funzionali (quali complemen-tatori, congiunzioni subordinative, o introduttori di discorso diretto) è un fenomeno che è stato attestato e documentato in varie lingue del mondo : lingue africane, asia-tiche, e anche creole (Lord, 1976 e 1993 ; Hock, 1982 ; Heine/Reh, 1984 ; Holm, 1988 ; Romaine, 1988 ; Saxena, 1988 ; Kihm, 1990 ; Plag, 1992 ; Manessy, 1995 ; Güldemann, 2001 ; cfr., inoltre, Harris/Campbell, 1995 ; Aikhenvald 2004). Anche i verbi epistemici costitui-scono una fonte comune per lo sviluppo di congiunzioni, particelle modali, espressioni parentetiche o indicatori discorsivi (discourse markers) (Thompson/Mulac, 1991 ; Brin-ton, 1996 ; Nuyts, 2001 ; Hopper/Traugott, 2003 ; Pietrandrea, 2005).

I percorsi di cambiamento che descriveremo, però, non raggiungono quello che è spesso considerato lo stadio ultimo, di morfema legato, della grammaticalizzazione ; anzi, in alcuni casi si tratterà di risultati controversi che in altre lingue sono stati de-scritti come esiti di processi di lessicalizzazione, anziché di grammaticalizzazione. Ci muoveremo quindi tra sviluppi e cambiamenti linguistici che per le loro caratteristiche fondamentali non rappresentano casi di grammaticalizzazione completa o canonica, e

* Università di Manchester.

silvio cruschina106che ci permetteranno di confrontare situazioni differenti a partire dalle stesse categorie di origine. La variazione, inoltre, emergerà dal confronto tra due varietà romanze vici-ne, l’italiano e il siciliano, in cui strutture apparentemente simili sono in realtà diverse o si trovano, presumibilmente, in fasi distinte del processo di grammaticalizzazione.

2. Il verbo dire e l’evidenzialità

Dal verbum dicendi ‘dire’, l’italiano ha sviluppato alcune strutture grammaticalizzate o semi-grammaticalizzate per indicare il discorso diretto e il discorso indiretto. Queste forme sono rappresentative di stadi distinti nel processo di grammaticalizzazione, e sono associate a funzioni specifiche : dice viene utilizzato come indicatore di discorso diretto, mentre dice che segnala il discorso indiretto o riportato (cfr. Lorenzetti, 2002). Tali funzioni sono strettamente connesse all’espressione dell’evidenzialità, la categoria grammaticale il cui significato principale è quello di indicare la fonte dell’informazione e il tipo dell’evidenza su cui il parlante fonda le proprie asserzioni (cfr. Willett, 1988 ; Ai-khenvald, 2004).1 Willett (1988, p. 57) distingue tre tipi di evidenzialità : diretta, indiretta e inferenziale.2 L’evidenzialità diretta è associata all’evidenza di ‘prima mano’, spesso di tipo sensoriale, su cui il parlante basa le proprie affermazioni. L’evidenzialità indiretta indica evidenza riportata, che può essere di ‘seconda mano’, quando viene specificata la fonte dell’informazione, o di ‘terza mano’, quando la fonte dell’informazione rimane incerta o quando si tratta di dicerie e di informazione raccolta e raccontata ‘per sentito dire’. Se il parlante segnala che l’evidenza alla base della sua asserzione è stata dedotta, allora si parla di evidenzialità inferenziale. Nei prossimi paragrafi faremo riferimento principalmente al secondo tipo di evidenzialità, l’evidenzialità indiretta.

2. 1. Indicatori di discorso diretto

Nell’italiano colloquiale, la forma impersonale dice è tipicamente adoperata per intro-durre un discorso di cui il parlante vuole riportare fedelmente, o quasi, le parole. La forma verbale, in questi casi, sembra avere la stessa funzione dei due punti o delle vir-golette impiegati nello scritto. Dice, inoltre, può comparire in posizioni parentetiche, interrompendo il discorso diretto, e può essere ripetuto alla fine della frase riportata (cfr. Calaresu, 2004, pp. 39-41) ;3 si veda infatti:

(1) Il cliente non ha voluto perché dice con i letti _ / con i cosi dice non m’andava di man-giare.

(Calaresu, 2004, p. 39)

Oltre a mostrare le diverse posizioni in cui dice può apparire ed essere ripetuto, l’esem-pio (1) mostra anche l’insensibilità temporale dell’elemento in questione, che rimane morfologicamente invariabile nonostante il tempo passato del discorso. Dice non si flet-te nemmeno per numero :

(2) Il giorno invece sono arrivati anche quegli otto lì e il posto non c’era // allora gli ha proposto

1 Per un’analisi delle strategie linguistiche utilizzate in italiano e in altre lingue romanze per esprimere l’evidenzialità, vedi Squartini (2001e 2004).

2 Altre classificazioni, più complesse, della categoria grammaticale dell’evidenzialità sono state proposte nella letteratura sull’argomento (cfr. Anderson, 1982 ; Plungian, 2001). Ad ogni modo, la tripartizione di Willett sarà sufficiente a illustrare le funzioni degli elementi e delle strutture che descriveremo nei paragrafi successivi. Per una visione d’insieme dei vari sistemi e per una classificazione più elaborata dell’evidenzia-lità, vedi Aikhenvald (2004).

3 In Calaresu il discorso diretto (1) è indicato con il maiuscoletto.

casi di grammaticalizzazione in italiano e in siciliano 107varie soluzioni perché quelli erano scocciati_ giustamente dice noi abbiamo prenotato /siamo venuti qua.

(Calaresu, 2004, p. 40)

Nell’esempio (2) il soggetto a cui il parlante attribuisce il discorso diretto riportato è plurale, come indicato dai costituenti in grassetto. Queste proprietà riflettono la de-categorializzazione di dice, che ha perso i tratti verbali tipicamente espressi tramite la flessione. L’invariabilità di dice come indicatore di discorso diretto, tuttavia, non è asso-luta ; la prima persona singolare del presente indicativo, dico, è normalmente usata per riportare auto-citazioni :

(3) Anche con gli amici ho detto sempre, dico : noi siamo sempre qui.(Rovere, 1977, p. 67)

A parte questa eccezione dell’uso di dico, la perdita generale dei tratti flessivi di dice (cfr. Lorenzetti, 2002), insieme con la sua particolare distribuzione sintattica (cfr. Calaresu, 2004), portano alla conclusione che ci troviamo di fronte ad una forma grammaticaliz-zata, che è stata rianalizzata come appartenente ad una categoria grammaticale diversa : non si tratta più di un verbo lessicale, bensì di un indicatore evidenziale di discorso diret-to. Un’ulteriore prova della grammaticalizzazione di dice è la sua desemanticizzazione : dice non ha soltanto perso i tratti grammaticali tipicamente associati alla categoria ver-bale, ma ha anche perso il significato di verbo del dire. La giustapposizione di dice con forme flesse del verbo dire pertanto non crea nessun effetto di ridondanza semantica :

(4) Quando ho fatto l’esame c’era una ragazza m’ha detto dice guarda io prima di essere in gra-duatoria me ne fregavo ho fatto venti domande alle scuole medie e venti alle superiori.

(Lorenzetti, 2002, p. 211)

L’uso del verbo dire nella forma cristallizzata di terza persona singolare, a segnalare il discorso diretto, è molto comune anche nell’italiano parlato in Sicilia (Rossitto, 1976) :

(5) Mio padre mi disse, dice, dicci a quel signore che…(6) Mario allora mi fa, dice, dicci che non si fa più vedere.

Molto probabilmente quest’uso rispecchia « la frequenza con cui esso è usato in Sicilia e la profondità con cui è radicato nell’uso linguistico» (Rossitto, 1976, p. 173). Così come avviene in italiano, infatti, in molti dialetti d’Italia, compreso il siciliano (cfr. 7 e 8), il discorso diretto è spesso introdotto da una forma invariabile corrispondente a dice : 1

(7) Allura piglià e ci dissi dici…“T’a fidi ? sicuru sì ca t’a fidi ?”.[lett. allora prese e gli disse dice... sei capace? sicuro sei che sei capace?](8) Ia ci telefonavu, dici, e ci dissi ca m’aviva a purtari i sordi, dici, iddu m’arrispunnì dici… veni pigliatilli tu ca u muturinu un parti dici…[lett. io gli telefonai, dice, e gli dissi che mi aveva a portare i soldi dice lui mi rispose, dice,… vieni prenditeli tu che il motore non parte dice…]

La forma invariabile del siciliano dici (o rici, in alcune varietà) ha la stessa funzione dell’italiano dice : segnala il discorso diretto. La fonte del discorso diretto in (7) è attribu-ita dal parlante ad un soggetto di terza persona introdotto dal verbo dire coniugato al passato. Nell’esempio in (8), che rappresenta il racconto di una telefonata, la narrazione

1 In questi esempi siciliani, così come negli esempi siciliani successivi, forniremo soltanto una traduzione letterale. Inoltre, a meno che non venga specificato diversamente, gli esempi siciliani appartengono alla varietà di Mussomeli, nella provincia di Caltanissetta.

silvio cruschina108è più immediata e l’unico elemento che indica che le parole riportate sono direttamente quelle dell’autore dell’atto locutorio è l’elemento morfologicamente invariabile dici, che viene ripetuto in diversi punti del discorso e scandisce il cambio di parlante.

Anche il siciliano, così come l’italiano, ammette un’eccezione all’invariabilità della forma impersonale del verbo dire usata come indicatore di discorso diretto. E anche in questo caso si tratta di una forma di prima persona. Diversamente dall’italiano, però, la forma di prima persona del siciliano è quella del passato remoto preceduta dal clitico dativo ci ‘ci dissi’ (o ‘ci rissi’), che nel parlato veloce diventa spesso ‘c’issi’ e che viene quasi usato come un intercalare :

(9) Ci u cuntavu a ta patri ca t’arricampasti c’u scuru, c’issi, diccillu tu a ta figlia, c’issi, accussì piglia a mala strata, c’issi, jè puru figlia tua, c’issi.[lett. glielo raccontatai a tuo padre che tornasti col buio, gli ho detto, diglielo tu a tua figlia, gli ho detto, così prende la cattiva strada, gli ho detto, è pure figlia tua, gli ho detto]

In questa conversazione tra madre e figlia, la madre usa la forma c’issi per introdurre e segnalare a diverse riprese le esatte parole che aveva rivolto al padre. Anche in questo caso, un indicatore evidenziale di discorso diretto derivato da una forma del verbo dire demarca le frasi pronunciate dall’autore dell’atto locutorio.

La perdita dei tratti morfologici e la libera distribuzione all’interno della frase delle forme derivate dal verbo dire sono chiari riflessi di un processo di grammaticalizzazio-ne. La possibilità di trovare forme di prima persona, al presente indicativo per l’italiano e al passato remoto in siciliano, mostrano che l’invariabilità flessiva di questi indicatori di discorso diretto ammette delle eccezioni. Tuttavia, si potrebbe pensare a sviluppi pa-ralleli di forme derivate dalla stesso verbo, con le forme di prima persona nate dall’esi-genza di segnalare una funzione più specifica, vale a dire la coincidenza tra narratore e autore dell’atto locutorio. Possiamo confrontare questi indicatori di discorso diretto e il loro livello di grammaticalizzazione con altre strutture semi-grammaticalizzate o meno grammaticalizzate usate come indicatori di discorso indiretto. Cominceremo con l’esaminare la forma di terza persona plurale dicono dell’italiano, e passeremo successi-vamente alle forme con complementatore dice che dell’italiano e dicica del siciliano.

2. 2. Le proprietà speciali di dicono in italiano

Le particolari proprietà della forma dicono usata come indicatore evidenziale sono state descritte ed analizzate da Giorgi / Pianesi (2005) e da Giorgi (2010). Secondo tale analisi, quando è utilizzato all’inizio di frase in particolari contesti sintattici, dicono mostra delle caratteristiche speciali e si comporta come un elemento avverbiale evidenziale, indica-tore di discorsi altrui o di fatti riportati ‘per sentito dire’. La struttura che introduce è monofrasale. In questi contesti dicono è usato in maniera impersonale, cioè senza un soggetto esplicito o identificabile sulla base del contesto, e non è seguito dal comple-mentatore :

(10) Dicono Paola sia partita.

Come possiamo vedere in questo esempio quando dicono presenta queste due proprietà (assenza di un soggetto e omissione del complementatore), il verbo successivo appare al congiuntivo. Ciò non è possibile, invece, quando dicono si accompagna ad un soggetto esplicito ed è seguito da un complementatore, che a sua volta introduce la frase dichia-rativa subordinata, in una struttura bifrasale :

(11) a. Gianni e Mario dicono che Paola è partita.

casi di grammaticalizzazione in italiano e in siciliano 109b. *Gianni e Mario dicono che Paola sia partita.c. *Gianni e Mario dicono Paola è partita.

Negli esempi in (11) vediamo che, quando dicono è preceduto da un soggetto ed è segui-to dal complementatore, il congiuntivo nella frase incassata non è possibile (11b).1 Allo stesso modo, l’agrammaticalità emerge se dopo dicono, con soggetto esplicito, viene omesso il complementatore (11c). Inoltre, quando dicono è seguito da un complemento indiretto, l’unica interpretazione possibile è quella per cui dicono ha un soggetto iden-tificabile, se non esplicitamente, sulla base del discorso precedente. A conferma di ciò notiamo che, quando il complemento indiretto è presente, il congiuntivo non è ammes-so (cfr. (12a) vs (12b)) :

(12) a. * Dicono a tutti Maria sia partita. b. Dicono a tutti che Maria è partita.

Appare evidente che nei contesti che abbiamo descritto dicono presenta delle proprietà eccezionali che lo allontanano dal comportamento normale di un elemento verbale pieno. Giorgi/Pianesi (2005) e Giorgi (2005), infatti, lo descrivono come elemento fun-zionale, con un ruolo simile a quello di un avverbio. Rimane da chiarire, tuttavia, la selezione del congiuntivo da parte di questo elemento, che ne costituisce uno dei tratti (ancora) verbali, insieme alla posizione fissa ad inizio di frase.2 Sembra dunque che ci troviamo di fronte a un elemento che ha subito una decategorializzazione parzia-le, come probabile effetto di un processo iniziale di rianalisi. In questo caso è diffici-le parlare di grammaticalizzazione embrionale o in atto, dato che eventuali ulteriori cambiamenti sono tutt’altro che ovvi e prevedibili. Meno controverso è invece lo stato grammaticale degli elementi che verranno discussi nel prossimo paragrafo dedicato al discorso indiretto.

2. 3. Il discorso indiretto e le dicerie : dice che in italiano

Quando introducono un discorso indiretto, le forme del verbo dire sono normalmente seguite dal complementatore, che a sua volta precede la frase dichiarativa subordinata contenente il discorso indiretto riportato. In italiano, la forma invariabile dice accompa-gnata dal complementatore che, quando è adoperata per segnalare l’inizio di un discor-so indiretto, di una diceria, o dell’esposizione di fatti appresi per sentito dire, presenta anch’essa alcuni tratti tipici degli elementi grammaticalizzati :

(13) Dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare.(inizio della canzone ‘4 Marzo 1943’ di Lucio Dalla, citato in Serianni, 1988, p. 255)

(14) […] e poi non sanno cosa gli fanno... dice che li bastonano.(Alberto Moravia, La romana, p. 409, citato in Rohlfs, 1969, §520)

Dagli esempi (13) e (14) si deduce che abbiamo a che fare con una forma impersonale del verbo dire, utilizzata alla terza persone singolare del presente indicativo. Si potrebbe sostenere che dice che non sia altro che l’equivalente della costruzione impersonale si

1 Seguendo una convenzione ormai diffusa, segnaliamo l’agrammaticalità di una frase con un asterisco.2 Bisogna distinguere l’uso di dicono nei contesti appena descritti dall’uso della stessa forma verbale come

espressione parentetica. In quest’ultima funzione, infatti, dicono può occupare diverse posizione nella frase, compresa la posizione finale (per es. Paola è partita, dicono). È chiaro, tuttavia, che si tratta di un uso diverso, dato che nel suo uso parentetico dicono è incompatibile con il congiuntivo (per es. *Paola sia partita, dicono) ; abbiamo visto che il congiuntivo è invece indispensabile quando dicono è usato all’inizio di frase, senza soggetto esplicito e in assenza di complementatore.

silvio cruschina110dice che, in cui si perde il pronome impersonale si. In alternativa, si potrebbe analizzare questa forma come una variante dell’indicatore di discorso diretto dice, a cui si aggiun-ge il complementatore per riportare un discorso indiretto. Entrambe queste ipotesi, tuttavia, sono confutate dai dati, e ciò ci porta alla conclusione che la struttura dice che è nata e si è evoluta indipendentemente, per realizzare una funzione di indicatore di di-scorso indiretto (cfr. Lorenzetti, 2002 ; Giacalone Ramat / Topadze, 2007). Come si dice che, anche dice che è usato in maniera impersonale, cioè non ha un soggetto specifico. Tuttavia, a differenza di si dice che (cfr. si diceva/dicesse che), dice che è morfologicamente invariabile e non può essere flesso per persona, numero, tempo o modo. Nel momento in cui dice che presenta dei tratti morfologici di flessione diversi da quelli di terza persona singolare, presente indicativo, allora il suo significato cambia, ed è possibile solamente un’interpretazione con soggetto referenziale :

(15) Dice che era un bell’uomo.

In questo esempio entrambe le letture sono accettabili. Dice che, nel contesto delle can-zone di Lucio Dalla, è normalmente interpretato come forma impersonale : trovando-si all’inzio della canzone manca, infatti, un possibile soggetto referenziale. Tuttavia, anche l’interpretazione per cui dice che ha un soggetto referenziale di terza persona è possibile, anzi diventa obbligatoria, se si immagina un contesto in cui un referente di terza persona è attivato nel discorso immediatamente precedente in modo da diventare soggetto implicito del verbo dire (per es. Maria ne parla sempre. Dice che era un bell’uomo). Se però cambiamo i tratti morfologici di dice che, allora l’intepretazione referenziale è l’unica possibile, a prescindere dal contesto :

(16) Diceva/disse che era un bell’uomo.

In questo caso, che il personaggio in questione fosse un bell’uomo non è il frutto di una diceria o di una voce che circola all’interno di una comunità. In (16), qualcuno, un sog-getto referenziale implicito, è l’autore dell’atto locutorio. Dice che impersonale, infatti, rimane invariato anche quando l’evento riportato si svolge in un contesto temporale chiaramente passato :

(17) Gianni non ha superato l’esame. Dice che non ha saputo rispondere a nessuna domanda.

Inoltre, contrariamente alla forma verbale dice dell’espressione impersonale si dice che, l’elemento grammaticalizzato dice in dice che non può essere negato né modificato da un avverbio (cfr. per es. non si dice che, si dice spesso che con (18a) e (18b)) :

(18) a. Non dice che era un bell’uomo. b. Dice spesso che era un bell’uomo.

Negli esempi in (18), pertanto, soltanto un’interpretazione referenziale è accettabile, mentre la lettura impersonale ed evidenziale rimane esclusa. Un’altra differenza tra dice che e si dice che emerge nelle interrogative. L’estrazione di un complemento oggetto attraverso l’evidenziale dice che per formulare una domanda diretta non è possibile. An-cora una volta, in un tale contesto l’unica interpretazione ammessa è quella per cui dice che ha un soggetto referenziale di terza persona sottinteso nel discorso :

(19) Che cosa dice che era ?

Al contrario, l’espressione si dice che è accettabile in questo stesso contesto (Che cosa si dice che era ?), mantenendo il suo significato impersonale. L’esempio (19), inoltre, di-mostra che l’evidenziale dice che non manifesta una struttura tematica con un oggetto

casi di grammaticalizzazione in italiano e in siciliano 111diretto proprio, ma ha semplicemente una funzione evidenziale di introduttore di di-scorso indiretto all’interno di una configurazione monofrasale.

Dice che, pertanto, ha la sola funzione di introdurre un discorso indiretto. Viene utiliz-zato per riportare un’evidenza di ‘terza mano’ (cfr. Willett, 1988 ; Aikhenvald, 2004) otte-nuta da una fonte non specificata, sebbene possa essere usato anche per riportare un’evi-denza di ‘seconda mano’ quando il soggetto è identificabile in base al contesto. In (17), per esempio, dice che è normalmente interpretato come una forma impersonale che non fa riferimento ad una specifica fonte dell’informazione riportata. È anche possibile, però, una lettura nella quale l’autore del discorso riportato, e quindi il soggetto referenziale di dice che, è lo stesso del soggetto della discussione, e cioè ‘Gianni’ (e quindi abbiamo : Gian-ni non ha superato l’esame. (Gianni) dice che non ha saputo rispondere a nessuna domanda).

Possiamo quindi escludere che dice che derivi dalla perdita del pronome si nell’espres-sione impersonale si dice che. Le ragioni per cui dice che non deve essere assimilato all’indicatore di discorso diretto dice seguito dal complementatore sono invece di tipo cronologico e geografico. Sembra infatti che ci siano delle differenze cronologiche di attestazione tra i due elementi (Lorenzetti, 2002) ; in particolare, dice che è attestato an-che in italiano antico :1

(20) Il buono re Ricciardo d’Inghilterra [...] fece d’i Saracini sì grande uccisione, che le balie de’ fanciulli dicono, quand’elli piangono : “Ecco il re Ricciardo”, acciò che come la morte fu temuto. Dice che Saladino, veggendo fuggire la gente sua, domandò […].

(Il Novellino, xiii sec., citato in Lorenzetti, 2002, p. 218)

L’uso di dice come indicatore di discorso diretto sembra essere più recente, anche se ovviamente la sua assenza da documenti scritti è facilmente spiegabile con la preferenza accordata alla punteggiatura nell’introdurre nello scritto un discorso diretto.2 Da un punto di vista geografico, poi, l’uso di dice che è più diffuso del semplice dice. Dice, in-fatti, è molto più frequentemente utilizzato nelle regioni centrali e meridionali, mentre l’uso di dice che sembra essere un fenomeno comune a tutta l’Italia.

2. 4. Il discorso indiretto e le dicerie : dicica in siciliano

In siciliano la forma equivalente all’italiano dice che si trova ad uno stadio di grammati-calizzazione più avanzato. Il complementatore del siciliano, ca, si è completamente fuso con la forma verbale che lo precede, creando così un elemento unico e indivisibile, dici-ca, che da un punto di vista sintattico e semantico si comporta come un vero e proprio avverbio. Come vedremo in seguito, questo processo non ha coinvolto soltanto il verbo dire, ma anche altri elementi verbali o aggettivali. Per il momento ci concentreremo su dicica :

(21) Dicica iddu ci cafuddava. [lett. dice-che lui le dava botte]

(22) Dicica Maria un ci po’ viniri ca javi a frevi. [lett. dice-che Maria non ci può venire che ha la febbre]

Da un punto di vista semantico, in questi esempi dicica può essere tradotto con avverbi

1 Sul discorso riportato in italiano antico, vedi Ferraresi / Goldbach (2010). 2 Questo elemento non deve essere però totalmente assimilato ai ‘due punti’ usati nell’ortografia per

indicare il discorso diretto. Abbiamo visto, infatti, che dice si può trovare in diversi punti del discorso diretto, per scandirlo, mentre la punteggiatura viene impiegata per indicare soltanto l’inizio e la fine di un discorso diretto.

silvio cruschina112quali presumibilmente, apparentemente, con le locuzioni a quanto pare, per sentito dire, in base a quanto si dice, stando a quel che si dice, o con forme verbali impersonali quali si dice che, dicono che. Sintatticamente, però, dicica è un avverbio. Vediamone innanzitutto le proprietà fonologiche e morfologiche che ne provano il livello avanzato di grammati-calizzazione.1

Dicica deriva dalla fusione tra il verbo dire nella sua forma di terza persona singolare del presente indicativo e il complementatore ca. Le proprietà di questo elemento si con-formano ai test diagnostici e ai parametri tradizionalmente usati per descrivere i mecca-nismi della grammaticalizzazione (cfr. Heine, 1993 ; Hopper / Traugott, 2003 ; Cruschina / Remberger, 2008 ; Cruschina, 2010a). Da un punto di vista fonologico, in alcune varietà dicica presenta riduzione o erosione, diventando disca (cfr. Piccitto/Tropea, 1977-2002) o ’icica (cfr. Rohlfs, 1968). Come effetto della decategorializzazione, dicica ha perso tutte le proprietà originariamente associate alla categoria verbale. Sincronicamente, si tratta di un elemento cristallizzato non più scomponibile nei suoi elementi di origine, incom-patibile con qualsiasi tratto morfologico di flessione. Non può infatti esprimere alcun tipo di informazione relativa alla persona, al numero, al tempo o al modo :

(23) dicica : *dicivaca (imperf ), *dissica (pass. remoto), *dicissica (cong.), *dicuca (ind., 1sg).

Dicica non ammette alcun tipo di modificazione, né da parte di una negazione (24) né da parte di avverbi che normalmente possono modificare il sintagma verbale (25) :

(24) *Un dicica veni. [lett. non dice-che viene]

(25) *Sempri dicica mangia cosi dunci. [lett. sempre dice-che mangia cose dolci]

Finora abbiamo visto alcune proprietà che il dicica siciliano condivide con il dice che dell’italiano. Il maggior grado di grammaticalizzazione, tuttavia, è testimoniato dalla relativa libertà sintattica di dicica, che, contrariamente a dice che, non è limitato alla posizione iniziale di frase ma può inserirsi in diverse posizioni. Dato che dicica deriva dalla rianalisi di una struttura originariamente bifrasale in un’unità indivisibile, infatti, il complementatore non conserva più la funzione di elemento subordinativo, ma si è semplicemente fuso con la forma verbale, che a sua volta ha perso la sua funzione origi-naria. Pertanto, dicica può essere usato da solo, ad esempio in una risposta ellittica (26), e in diverse posizioni all’interno della frase, come elemento parentetico (27) :2

(26) A : Chi jè veru ca si maritanu dumani ? [lett. che è vero che si sposano domani] B : Dicica !

(27) a. Dicica Maria jè malata. b. Maria dicica jè malata. c. Maria jè malata, dicica.

1 Dato che ci troviamo dinnanzi a un fenomeno di univerbazione tra la forma verbale e il complemen-tatore che ha dato vita ad un nuovo elemento lessicale, sarebbe legittimo analizzare questo caso di cambia-mento linguistico come un processo di lessicalizzazione. Nel paragrafo 5 verranno fornite le motivazioni per cui la grammaticalizzazione è da preferirsi alla lessicalizzazione come chiave di analisi per questo feno-meno (e simili).

2 Ovviamente è possibile stabilire un ordine non marcato per la posizione di dicica, vale a dire quello iniziale (27a). In un ordine marcato, invece, dicica può essere preceduto da un costituente topicale (27b). È anche possibile una sorta di uso parentetico di dicica, in virtù del quale si può trovare alla fine della frase (27c). La posizione di dicica, quindi, non è completamente libera : ciascun ordine corrisponde a condizioni pragmatiche ben precise.

casi di grammaticalizzazione in italiano e in siciliano 113

Dicica non mantiene alcuna proprietà verbale, neppure da un punto di vista semantico. Infatti, ci troviamo di fronte a un chiaro caso di desemanticizzazione : dicica, in sincro-nia, è utilizzato in nuovi contesti e con un significato più astratto. Può trovarsi accanto ad una forma del verbo dire genuinamente verbale senza creare alcuna ridondanza se-mantica :

(28) Maria dici/dissi ca dicica arrubbaru a machina au dutturi. [lett. Maria dice/disse che dice-che rubarono la macchina al dottore]

Questo elemento ha quindi un nuovo ruolo grammaticale, un ruolo avverbiale, che consente al parlante di ‘prendere le distanze’ dai fatti riportati, presentandoli come eventi di cui non ha conoscenza o esperienza diretta, e attribuendoli ad una fonte indefi-nita. Implicitamente, il parlante lascia intendere che ha appreso i fatti narrati in maniera indiretta, piuttosto che da un testimone diretto. L’uso della forma avverbiale dicica in si-ciliano è stato pittorescamente descritto da Leonardo Sciascia in Occhio di Capra, p. 34 :

« dicica. Dice che. Non “si dice che”, ma uno solo, innominato, “dice che”. È l’incipit di ogni aneddotica malignità, di ogni racconto sulle disgrazie altrui. Il “dicica” alleggerisce la responsa-bilità del narratore, come nel “si dice” italiano, ma al tempo stesso rende più segreta, più esclu-siva, più preziosa e godibile la notizia. Non lo sanno tutti. Era uno solo a saperla. E ora siamo in tre».

Dalla nostra descrizione, così come dalla citazione di Sciascia, si evince che dicica ha una funzione prettamente evidenziale che mira a una qualificazione dell’evidenza e della fonte dell’informazione che è alla base delle asserzioni del parlante. In particolare, dicica indica che si tratta di informazione indiretta, di dicerie, di pettegolezzi o di voci che circolano in una determinata comunità.

3. La Modalità Epistemica

Abbiamo visto che molteplici forme del verbo dire, grammaticalizzate o semi-gramma-ticalizzate, si caratterizzano per una funzione modale connessa all’evidenzialità. D’altro canto, anche nell’ambito della modalità epistemica si ritrovano esempi di grammatica-lizzazione di forme verbali. In questo caso, le forme che nascono da verbi modali quali credere e pensare diventano, attraverso la rianalisi e la grammaticalizzazione, indicatori dell’attitudine del parlante, della sua convinzione e del suo grado di sicurezza in merito ad una sua asserzione. A questo punto, come nel dominio del verbo dire e dell’eviden-zialità abbiamo individuato diversi gradi di grammaticalizzazione delle diverse forme, vedremo che anche nel campo dell’epistemicità è possibile confrontare forme che pre-sentano diversi gradi di grammaticalizzazione. Ancora una volta, vedremo che, da que-sto punto di vista, le forme siciliane si trovano ad uno stadio più avanzato rispetto alle forme italiane equivalenti.

3. 1. La grammaticalizzazione di credo in italiano e penzica in siciliano

In italiano, i verbi con valore epistemico (penso, credo, immagino, suppongo) usati alla prima persona del presente indicativo mostrano proprietà speciali in apparente con-traddizione con il loro carattere verbale.1 Seguendo Giorgi / Pianesi (2005) e Giorgi

1 Tutte queste forme verbali alla prima persona singolare possono essere usate in maniera parentetica. Se però compaiono in una posizione diversa da quella iniziale, allora sono incompatibili con il congiuntivo all’interno della frase.

silvio cruschina114(2010), ci occuperemo soltanto della forma credo come rappresentante di questa classe di verbi modali usati alla prima persona in funzione avverbiale. Anche in questo caso, come per dicono, Giorgi / Pianesi (2005) e Giorgi (2010) giungono alla conclusione che le strutture caratterizzate dalla presenza della forma avverbiale epistemica credo sono strutture monofrasali. Il comportamento speciale di credo epistemico diventa evidente in determinati contesti sintattici. Innanzitutto, credo non deve avere un soggetto espli-cito all’interno della frase. In secondo luogo, tali strutture devono essere caratterizzate dall’omissione o cancellazione del complementatore.1 Nei seguenti esempi mettiamo a confronto una struttura bifrasale (29a) in cui credo ha un soggetto referenziale esplicito e in cui la cancellazione del complementatore è opzionale con una struttura monofra-sale (29b) contraddistinta dall’assenza di un soggetto esplicito e dalla cancellazione del complementatore :

(29) a. Mario crede (che) sia partita. b. Credo sia partita.

Un tratto ancora verbale di questa forma epistemica risiede nel fatto che ‘regge’ un verbo al congiuntivo, caratteristica effettivamente strana per un elemento avverbiale in una struttura monofrasale. Altre proprietà, tuttavia, contraddistinguono credo. Nei casi di cancellazione del complementatore con il verbo credere usato nella sua funzione pienamente verbale, nessun costituente può separare tale verbo dal verbo al congiunti-vo della frase incassata, sia esso un soggetto (30),2 un focus (31a) o un topic (31b). Queste restrizioni, invece, non si applicano quando credere è usato alla prima persona singolare del presente indicativo, senza un soggetto esplicito e, nuovamente, in contesti di cancel-lazione del complementatore. Tra credo e il verbo successivo può inserirsi un soggetto (32), un focus (33a) o un topic (33b) :

(30) Gianni crede *(che) Luisa abbia telefonato.(31) a. * Mario crede A PARIGI sia andata (non a Londra).

b. ? ? * Mario crede a Parigi ci sia andata il mese scorso.(32) Credo Luisa abbia telefonato.(33) a. Credo A PARIGI sia andata (non a Londra).

b. Credo a Parigi ci sia andata il mese scorso.

Un altro test utilizzato da Giorgi (2010) per provare il carattere eccezionale di credo con-siste nell’inserzione dell’avverbio francamente. Diversi studi hanno messo in luce che l’avverbio francamente (ingl. frankly) è incompatibile con le frasi incassate ( Jackendoff, 1972 ; Cinque, 1999). La possibilità di inserire questo avverbio subito dopo credo nei con-testi specificati sopra è prova della sua natura non verbale :

(34) a. * Luisa credeva (che), francamente, si fosse comportato male. b. ?( ?) Credo che, francamente, si sia comportato male. c. ?( ?) Credo, francamente, che si sia comportato male. d. Credo, francamente, si sia comportato male.

Come dicono, dunque, anche credo presenta delle proprietà peculiari che lo avvicinano

1 Sul fenomeno della cancellazione del complementatore, si vedano Giorgi / Pianesi (1997 e 2004) e Poletto (2001).

2 L’asterisco prima delle parentesi tonde in (30) indica che la frase è agrammaticale soltanto nel caso in cui il materiale tra parentesi venga omesso. La presenza del complementatore infatti renderebbe la frase perfettamente corretta. Come ammesso dalla stessa Giorgi (2010), non tutti i parlanti, tuttavia, considerano agrammaticale la versione della frase in (30) priva di complementatore.

casi di grammaticalizzazione in italiano e in siciliano 115alla classe degli avverbi (per es. probabilmente), anche se in questo caso il tratto morfo-logico di prima persona è ancora necessario per stabilire un riferimento diretto al par-lante. Anche questo elemento, pertanto, sta attraversando un processo di cambiamento linguistico e di decategorializzazione, in direzione di indicatore epistemico.

Così come per l’indicazione dell’evidenzialità, anche per la modalità epistemica tro-viamo in siciliano una forma con grammaticalizzazione più avanzata. Si tratta di pen-zica. Per questo elemento valgono tutte le proprietà già descritte per dicica. Anche in questo caso, infatti, ci troviamo di fronte a un elemento nato dalla fusione di una forma verbale (penzu, prima persona singolare del presente indicativo di pinzari ‘pensare’)1 e del complementatore ca. Entrambi questi elementi hanno perso le loro caratteristiche originarie e, in seguito a rianalisi e a grammaticalizzazione, penzica ha assunto l’aspetto di un elemento unico e indissolubile con funzione puramente avverbiale. Ripetendo alcuni dei test visti per dicica, possiamo osservare che penzica è morfologicamente in-variabile e fossilizzato, non ammette di essere modificato dalla negazione (35) né da avverbi (36), mostra una distribuzione sintattica libera all’interno della frase (37 e 38) ed è stato oggetto di desemanticizzazione, tanto da potersi accostare ad una forma piena del verbo pensare (39) :

(35) *Un penzica veni. [lett. non penso-che/probabilmente viene]

(36) *Sempri penzica mangia cosi dunci. [lett. sempre penso-che/probabilmente mangia dolci]

(37) A : Chi jè veru ca si maritanu dumani ? [lett. che è vero che si sposano domani] B : Penzica !

(38) a. Penzica Maria jè siddiata. b. Maria penzica jè siddiata. c. Maria jè siddiata, penzica. [lett. (penso-che) Maria (penso-che) è scocciata (penso-che)]

(39) Penzica un ci pinzà a diritillu. [lett. penso-che/probabilmente non ci pensò a dirtelo]

Come abbiamo già accennato, a differenza di dicica, penzica non è un indicatore di evi-denzialità, ma di epistemicità, come del resto ci aspetteremmo da un elemento che deriva da un verbo modale epistemico. Il suo significato è simile a quello dell’avverbio probabilmente.

3. 2. Ancora un caso di esiti diversi : it. capace che e sic. capacica

Finora ci siamo occupati di forme verbali, o comunque di elementi che derivano da verbi. In questo paragrafo, invece, prenderemo in considerazione elementi che hanno origine nell’aggettivo capace, in particolare nell’accezione epistemica che esso assume nella locuzione impersonale è capace che, con significato di possibile, probabile. Notiamo subito che questa locuzione, ritenuta d’uso regionale e diffusa nel Centro e nel Sud dell’Italia, si costruisce con il congiuntivo :

1 La forma più diffusa in Sicilia sembra essere penzica, anche se penzuca è largamente attestato. Data la stretta connessione tra modalità epistemica e parlante possiamo assumere che la forma penzica, che appa-rentemente contiene una forma verbale di terza persona, sia in realtà derivata dalla forma penzuca soltanto dopo la fusione con il complementatore.

silvio cruschina116

(40) È capace che piova.

È interessante osservare che anche in questa circostanza, il confronto tra italiano e sici-liano offre un quadro descrittivo in linea con quanto osservato in precedenza. Da una parte, infatti, l’italiano ha sviluppato una forma semi-grammaticalizzata, capace che, che si discosta dalla categoria grammaticale d’origine in quanto è morfologicamente inde-clinabile e non ha bisogno del congiuntivo (anzi, normalmente è seguita dall’indicativo : capace che piove). D’altra parte, il siciliano ha dato vita ad una forma con complementa-tore fuso, con caratteristiche molto simili a quelle individuate per dicica e penzica, che ancora una volta presenta un grado maggiore di grammaticalizzazione : capacica.

Nella struttura italiana l’aggettivo capace ha perso il suo significato etimologico e l’intera forma capace che ha sviluppato un significato epistemico equivalente a quello degli avverbi possibilmente, probabilmente o alla locuzione è possibile che (cfr. Pietrandrea, 2005) :

(41) Capace che non c’era più posto.(42) In realtà siamo ancora indecisi, ma capace che veniamo anche noi alla festa.

Questa forma non permette alcuna variazione della flessione né la modificazione da parte di avverbi :

(43) *Capaci che sono stanchi.(Pietrandrea, 2005 : p. 65)

(44) *Molto/abbastanza/proprio/veramente capace che era stanco.

La stessa funzione è espressa dal siciliano capacica, traducibile con possibilmente o pro-babilmente ; in questo caso il complementatore ca si è completamente fuso con la forma aggettivale che lo precede, creando così un elemento indivisibile che, da un punto di vista sintattico e semantico, si comporta come un vero e proprio avverbio :1

(45) Pariva ca aviva arrivatu a primavera, mmeci capacica dumani chiovi. [lett. pareva che aveva arrivato la primavera invece capace-che domani piove]

Uno stato più avanzato di grammaticalizzazione molto probabilmente è già presente, anche se non è reso ortograficamente, nei romanzi di Andrea Camilleri. Citiamo qui di seguito alcuni esempi :

(46) Rumorata d’aerei e sparatorie luntane non ne aviva sintute, capace che era successo un qualichi ’ncidenti a un passaggio a livello.

(A. Camilleri, Il Casellante, p. 42)(47) A : “E che problema c’è ? Veni a diri che Totò e io ’nni mittemo a sonari marci militari a modo nostro.”

B : “Ma ai clienti capace che non ci piacino !”(A. Camilleri, Il Casellante, p. 48)

Un altro autore siciliano, Domenico Seminerio, fa un abbondante uso di questa forma epistemica, molto comune nel parlato, in un romanzo nel quale riproduce fedelmente il registro di italiano utilizzato da un professore siciliano :

1 La differenza tra penzica e capacica può essere compresa in riferimento ad una scala epistemica che pone la possibilità dopo la probabilità (cfr. Givon, 1982 ; Cinque, 1999) : certezza > probabilità (penzica) > possibilità (capacica).

casi di grammaticalizzazione in italiano e in siciliano 117

(48) Di me ho paura, della mia dabbenaggine. Capace che in un eccesso di sincerità le spiattelli tutto per filo e per segno.

(D. Seminerio, Il manoscritto di Shakespeare, p. 262)(49) Io ? Come faccio con quella ? Capace che per fare dispetto a me e a suo marito le butta nella spazzatura o le brucia.

(D. Seminerio, Il manoscritto di Shakespeare, p. 281)

In un caso però l’autore attribuisce delle proprietà aggettivali a quella che altrimenti sarebbe una forma (semi-)grammaticalizzata :

(50) Da come mi hanno trattato è meglio non chiedere più niente ad Enzo o alla moglie. Capaci che se la pigliano con me, cominciano a fare voci e teatro.

(D. Seminario, Il manoscritto di Shakespeare, p. 221)

In questo esempio, infatti, capace presenta una desinenza plurale (capac-i). Non è chiaro però se ciò debba essere interpretato come il riflesso di una situazione di rianalisi ancora instabile, o piuttosto come un semplice caso di ipercorrezione, che di fatto non è rara nell’italiano parlato in Sicilia in relazione a tale forma epistemica.

4. Univerbazione e fusione con il complementatore

Il processo di fusione con il complementatore che caratterizza gli elementi avverbiali è un processo abbastanza comune in siciliano, e ha dato vita a diverse forme grammaticalizzate con funzione evidenziale o epistemica. Il problema principale in merito al cambiamento linguistico che ha interessato questi elementi è l’analisi in termini di grammaticalizzazio-ne. Diversi aspetti di questi cambiamenti, infatti, a partire dal prodotto avverbiale finale, porterebbero ad una diversa analisi, più affine alla teoria della lessicalizzazione. Trattere-mo tale questione nel paragrafo 5. Prima di affrontarla, vorremmo aggiungere ulteriori dettagli sul processo di univerbazione tra verbo e complementatore sia in siciliano sia in altre lingue, e fornire nuovi argomenti a favore dell’analisi secondo cui gli elementi che risultano da questo processo sono avverbi modali.

4. 1. La diffusione del fenomeno

La classe degli avverbi modali del siciliano è spesso trascurata sia nelle grammatiche descrittive sia nei lavori di carattere linguistico e comparativo. Ciò è dovuto principal-mente all’incertezza sull’origine delle forme avverbiali in -menti. Avverbi in -menti si trovano già nel siciliano antico e letterario, ma anche nel siciliano moderno, in cui però si ha motivo di ritenere che si tratti di prestiti dall’italiano. Forme come probabilmen-ti e certamenti sono comunemente utilizzate nel linguaggio parlato contemporaneo, ma sembrerebbe trattarsi di casi particolari, di prestiti linguistici dall’italiano, appunto ; Rohlfs (1969), infatti, segnala che la classe degli avverbi è del tutto sconosciuta nelle va-rietà del Sud Italia, nelle quali gli avverbi vengono sostituiti dagli aggettivi (cfr. Cruschi-na, 2010a). Oltre agli aggettivi usati con funzione avverbiale, come abbiamo già avuto modo di vedere, un altro processo di formazione di avverbi modali, caratterizzato dalla rianalisi e dalla fusione di un verbo o di un aggettivo con il complementatore ca, ha generato nuove forme avverbiali impiegate nell’espressione della modalità.

Alle forme discusse finora aggiungiamo parica e vidica.1 Parica deriva dalla terza per-

1 Un altro avverbio epistemico risultato dallo stesso processo di univerbazione è signalica, derivato dalla locuzione jè signali ca (lett. è segnale che) ‘vuol dire che, significa che, probabilmente’ :

silvio cruschina118sona singolare del verbo pariri (‘parere’, ‘sembrare’) e ha una funzione e un significato simili a dicica. Come abbiamo visto, dicica è un indicatore evidenziale di dicerie o di discorso riportato indiretto. Può riferirsi ad un soggetto esplicito, identificando infor-mazione di seconda mano, ma tale soggetto non può essere contenuto nella stessa frase in cui compare dicica. La fonte dell’informazione coincide piuttosto con il soggetto ‘in discussione’, stabilito dal contesto. Allo stesso modo, parica indica evidenza di seconda o terza mano ; la fonte dell’informazione riportata è tipicamente costituita da opinio-ni comuni e/o basate sulle apparenze, ma anche da dicerie e pettegolezzi (traducibile quindi con la locuzione ‘a quanto pare’) :1

(51) Parica lu sigretu d’a filicità è chiddu di stari a la tavula a mangiari.[lett. pare-che il segreto della felicità è quello di stare alla tavola a mangiare]

Più complessa è l’identificazione di una categoria grammaticale o di un tipo di modalità specifica per l’avverbio vidica, spesso fonologicamente ridotto a vica nel parlato veloce. Tale avverbio serve a richiamare l’attenzione dell’interlocutore sulla verità o sull’impor-tanza della proposizione o dello stato di cose enunciato :

(52) a. Vidica telefonà a zia. vedi-che telefonò la zia b. S’unn’a finisci vidica ci cuntu tutti cosi ! se non la finisci vedi-che gli racconto tutte cose c. Vidica spuntà arriri u sulu ! vedi-che spuntò di nuovo il sole

In questi esempi la funzione di vidica è espressa secondo diversi gradi, che vanno dal semplice avvertimento o invito a prendere nota di qualcosa (52a), alla minaccia (52b), al richiamo su qualcosa di cui si dubitava (52c).

Troviamo elementi simili, risultato di un medesimo processo di fusione con il com-plementatore, in calabrese (cfr. Rohlfs, 1968 per dicica, Garzonio / Russo, 2009, per ca-pacica, penzica, e Poletto, 2009, per penzica), e in altri dialetti italiani meridionali. Inoltre, troviamo indicatori di evidenzialità affini anche in altre varietà romanze : dizque nello spagnolo dell’America Latina (Travis, 2006 ; Olbertz, 2007), nachi e bénechi in sardo (Pud-du, 2000), cică e parcă in rumeno, e disque in galiziano (cfr. Cruschina / Remberger, 2008, per un’analisi comparativa di questi elementi nel romanzo).

Come abbiamo già detto all’inizio, la rianalisi di verba dicendi, originariamente pre-senti in una struttura bifrasale che include una frase complemento in una singola uni-tà priva delle caratteristiche grammaticali della costruzione d’origine, è un fenomeno interlinguistico abbastanza comune (cfr. Harris / Campbell, 1995 ; Aikhenvald, 2004, p. 272). In alcune lingue il complementatore rimane escluso da questo processo di gram-

(i) A : Maria un vinni a festa. Maria non venne alla festa B : Signalica si mossi dintra ! segnale-che si rimase a casaQuesta forma però non è conosciuta in tutta la Sicilia. In realtà, l’elenco delle forme in -ca potrebbe varia-

re da zona a zona, qui descriviamo soltanto le forma più diffuse e comuni, molte delle quali sono descritte in Piccitto e Tropea (1977-2002).

1 Molto più frequente è la forma che incorpora il pronome di prima persona singolare ‘mi’ : mi parica. Questa forma è grammaticalizzata al punto da poter essere usata in diverse posizione della frase, come ad esempio quella finale :

(i) Maria e Giuvanni un vennu, mi parica. Maria e Giovanni non vengono mi pare-che.

casi di grammaticalizzazione in italiano e in siciliano 119maticalizzazione (cfr. lei in greco, veli in macedone, kaže in croato, mol in russo e prý in ceco) ; in altre, invece, come nelle lingue romanze viste sopra, il complementatore viene fuso con il verbo d’origine (cfr. Ramat / Ricca, 1994 e 1998).

4. 2. Da strutture bifrasali ad avverbi modali

La caratterizzazione di questi elementi come avverbi modali è confermata dal loro comportamento sintattico e dalla loro funzione semantica. A differenza delle corri-spondenti strutture dell’italiano, infatti, tali elementi ammettono la stessa mobilità e sottostanno alle stesse restrizioni d’uso degli avverbi modali.

L’identificazione di caratteristiche comuni per un’adeguata definizione della classe degli avverbi e delle varie sotto-classi è tutt’altro che semplice. Tuttavia, per quanto ri-guarda la classe degli avverbi modali sono state individuate alcune proprietà sintattiche generali, direttamente correlate alla loro interpretazione semantica ( Jackendoff, 1972 ; Bellert, 1977 ; Belletti, 1990 ; Lonzi, 1991 ; Alexiadou, 1997 ; Cinque, 1999 ; Nuyts, 2001 ; cfr. Cruschina, 2010b). Queste caratteristiche includono una distribuzione alquanto libe-ra all’interno della frase, distribuzione che consente agli avverbi modali di inserirsi in diverse posizioni, soprattutto come conseguenza di un possibile uso parentetico, ma anche una certa sensibilità al tipo frasale, la quale comporta restrizioni ben precise : gli avverbi modali infatti sono incompatibili con la negazione (cfr. 24 e 35 sopra), con le frasi interrogative e imperative (cfr. rispettivamente (53a) e (53b)), e non possono esse-re contenuti nell’apodosi di frasi ipotetiche (53c) o in frasi con un verbo performativo (53d). Abbiamo già avuto modo, a più riprese, nei paragrafi precedenti, di discutere delle caratteristiche distribuzionali degli avverbi in -ca del siciliano. Sulle restrizioni di compatibilità, invece, si vedano gli esempi in (53) :

(53) a. Chi (*dicica/*penzica/*capacica) veni dumani ? che dice-che pensi-che capace-che viene domani b. Veni (*dicica/*penzica/*capacica) ccà dumani ! vieni dice-che pensi-che capace-che qui domani c. Si (*dicica/*penzica/*capacica) jè a pedi, (dicica/penzica/capacica) u va a lassa iddu. se dice-che pensi-che capace-che è a piedi, lo va a lascia lui d. (*Dicica/*Penzica/*Capacica) giuru/promettu ca… dice-che pensi-che capace-che giuro/prometto che…

Il fatto che gli avverbi in -ca del siciliano obbediscano a queste restrizioni conferma ulte-riormente che lo statuto categoriale di tali elementi è quello di veri e propri avverbi mo-dali. Sostituendo l’elemento in -ca nelle traduzioni degli esempi in (53) con un qualsiasi avverbio modale (per es. probabilmente) ci rendiamo subito conto che queste restrizioni valgono anche in italiano, così come in inglese ed in altre lingue.

5. La Grammaticalizzazione a confronto con la Lessicalizzazione

In questo articolo, a partire dal titolo, abbiamo utilizzato il termine grammaticaliz-zazione per definire e descrivere alcuni fenomeni di cambiamento linguistico relati-vi alla sfera del dire e dell’epistemicità. Abbiamo messo in evidenza il fatto che la grammaticalizzazione è un processo graduale e che la variazione interlinguistica, tra lingue tipologicamente vicine, può costituire una piattaforma empirica su cui osser-vare i diversi stadi o livelli del processo, senza per questo essere in grado di dedurre o predire la direzione del cambiamento, o il possibile stadio successivo. Se la teoria della grammaticalizzazione sembra quella più appropriata per descrivere i cambia-

silvio cruschina120menti dell’italiano (e degli indicatori del discorso diretto in generale), più confusa è la situazione per le forma avverbiali in -ca del siciliano. L’univerbazione che caratterizza lo sviluppo di queste forme, infatti, dà origine a forme avverbiali e comporta la perdita della struttura interna di una costruzione complessa, non più analizzabile in modo approssimato. In altre parole, dà vita ad un nuovo elemento lessicale. Sarebbe naturale pertanto interpretare questo fenomeno facendo riferimento ai principi e agli strumen-ti della teoria della lessicalizzazione (cfr. Lehmann, 2002 ; Brinton / Traugott, 2005). Effettivamente, troviamo analisi di questo tipo per dizque dello spagnolo dell’Ameri-ca Latina. Olbertz (2007), in particolare, sottolinea che dizque non è il risultato di un processo di grammaticalizzazione, bensì di un processo di lessicalizzazione : la perdita della struttura interna complessa e l’origine di una nuova forma linguistica dotata di contenuto lessicale sarebbero la conferma di questa ipotesi. Analogamente, Ramat / Ricca (1994) considerano la formazione di avverbi modali epistemici (per es., il francese peut-être e l’inglese maybe) come il tipo più diffuso di lessicalizzazione, notando che, in questo processo di univerbazione, alcune lingue integrano il complementatore nella nuova forma lessicale (cfr. il serbo-croato možda e lo sloveno morda, lett. ‘può-che’, e l’albanese mbase, lett. ‘suppone-che’).

Ci sono due ragioni principali per cui abbiamo preferito adottare la teoria e la pro-spettiva della grammaticalizzazione. La prima ha a che fare con la gradualità del pro-cesso di cambiamento, la seconda con lo statuto categoriale dell’elemento prodotto. Prima di arrivare all’univerbazione tra la forma verbale e il complementatore, è plau-sibile ipotizzare che anche in siciliano vi sia stata una fase in cui entrambi gli elementi avessero perso le rispettive proprietà grammaticali : una fase simile, se non del tutto analoga, a quella dell’italiano moderno. La lessicalizzazione si applicherebbe pertanto solo a una fase finale di fusione, la quale ha interessato due elementi distinti derivati da indipendenti processi di grammaticalizzazione.1 È difficile però pensare che una for-ma verbale possa grammaticalizzarsi, e che questo processo non condizioni allo stesso tempo un elemento grammaticale, qual è il complementatore, la cui funzione dipende fortemente dalla natura verbale dell’elemento reggente. Se si guarda poi alle differenze tra grammaticalizzazione e lessicalizzazione discusse nella letteratura, è chiaro che il processo di rianalisi e di cambiamento linguistico, che ha portato alla formazione degli avverbi in -ca del siciliano, segue il modello della grammaticalizzazione (cfr. Brinton / Traugott, 2005). Soltanto la grammaticalizzazione, infatti, si caratterizza per la de-categorializzazione e la desemanticizzazione degli elementi originali, nonché per un aumento della produttività e della frequenza delle forme derivate. Come abbiamo già osservato, gli avverbi in -ca hanno perso il loro significato etimologico e hanno svilup-pato una nuova funzione più astratta e generale; inoltre occorrono in corrispondenza di un numero più vasto di categorie e costruzioni sintattiche, con tutti i tipi di predicati, sia in frasi principali che in frasi incassate.

Un’altra caratteristica significativa del cambiamento linguistico che ha contrad-distinto la comparsa e lo sviluppo degli avverbi in -ca è il mutamento di prospettiva da soggetto della frase a soggetto dell’enunciato. Queste forme non hanno più un soggetto grammaticale, ma fanno essenzialmente riferimento all’espressione delle

1 Il complementatore è già un elemento grammaticale. Se pensiamo alla grammaticalizzazione come il passaggio da lessicale a grammaticale, sarebbe pertanto inappropriato parlare di ‘grammaticalizzazione del complementatore’. Ciò che vogliamo sottolineare è però il fatto che, come conseguenza della rianalisi, nelle strutture in questione, il complementatore ha perso la sua funzione di congiunzione subordinativa, sia in siciliano sia in italiano.

casi di grammaticalizzazione in italiano e in siciliano 121credenze e dell’attitudine del parlante nei confronti di ciò che viene detto, secondo un processo di ‘soggettificazione’ (Traugott, 1995) che è tipico della grammaticaliz-zazione.

Per quanto riguarda lo statuto categoriale dell’elemento risultante dal cambiamen-to linguistico, abbiamo mostrato che gli avverbi in -ca sono degli avverbi modali. Tradizionalmente, la classe degli avverbi viene annoverata tra le classi lessicali. Se il risultato di un processo di cambiamento linguistico è un nuovo elemento lessicale, sembrerebbe ovvio che il processo stesso che l’ha prodotto è un processo di lessica-lizzazione. Parimenti, se il risultato di un processo di cambiamento linguistico è un elemento grammaticale, allora ci troveremmo dinnanzi ad un processo di gramma-ticalizzazione. Questa argomentazione circolare però presenta diversi punti deboli. Innanzitutto, diversi studi hanno sottolineato che la categoria lessicale e la categoria grammaticale non sono categorie discrete, ma formano una sorta di continuum (cfr. Brinton / Traugott, 2005). Con particolare riferimento alla classe degli avverbi, Ra-mat / Ricca (1994) sostengono che in molti casi si ha una ‘coalescenza’ di proprietà lessicali e grammaticali, e non è pertanto sempre possibile definire gli avverbi come semplicemente lessicali o grammaticali. Nell’ambito della grammatica generativa, inoltre, alcuni studi rimarcano il carattere funzionale degli avverbi, i quali realizzano delle proprietà o categorie che in altre lingue sono espresse da elementi inequivoca-bilmente grammaticali (cfr. Cinque, 1999 e 2004). Il cambiamento da verbo ad avver-bio può pertanto essere interpretato come un passaggio da ‘meno grammaticale’ a ‘più grammaticale’.1

Il siciliano, infine, fornisce un’ulteriore prova a favore della tesi che non ci si può ba-sare sullo statuto categoriale dell’elemento risultante per discernere tra grammaticaliz-zazione e lessicalizzazione. Il processo di fusione con il complementatore, infatti, non ha dato vita soltanto ad avverbi modali, ma anche ad avverbi di altro tipo e ad elementi inequivocabilmente grammaticali (cfr. Piccitto / Tropea, 1977-2002) :2

(54) a. fintaca < a finta ca (lett. a finta che), ‘facendo finta che’, ‘come se’ ; b. sinnuca < sinnu ca (lett. essendo che), ‘poiché’, ‘dato che’ ; c. fortica < forti ca (lett. forte che), ‘una volta che’, ‘non appena (che)’, ‘se’ ; d. neca < un jè ca (lett. non è che), ‘mica’.

Non ci sono dubbi che una componente essenziale del processo da cui questi elementi, così come gli avverbi evidenziali ed epistemici descritti sopra, sono derivati consiste nella fusione con il complementatore e nell’univerbazione dei due elementi. Le motivazioni

1 A questo proposito, è interessante notare che gli avverbi in -ca del siciliano mostrano una proprietà che li distingue dagli altri avverbi modali e che sembra essere comune a tutte le forme avverbiali derivate da un processo di univerbazione (cfr. ingl. maybe, franc. peut-être). Tali avverbi non possono intrattenere alcuna relazione sintattica con altri costituenti : non possono essere coordinati con altri avverbi dello stesso tipo né possono essere modificati da avverbi di quantità (cfr. probabilmente e del tutto verosimilmente, evidentemente e/ma sfortunatamente, molto probabilmente, vs *dicica e/ma penzica, *assai dicica). Questa proprietà può essere interpretata come difettività della struttura interna di un costituente (cfr. Cardinaletti / Starke, 1999), che viene quindi a trovarsi in uno stato intermedio tra elemento lessicale ed elemento funzionale (tra proiezio-ne massimale e testa funzionale, nella terminologia generativista).

2 Di conseguenza l’ipotesi che il complementatore ca si sia grammaticalizzato come suffisso alla stessa stregua di mente non è sostenibile. Il suffisso -mente si aggiunge sistematicamente a forme aggettivali al fem-minile singolare per derivarne l’avverbio corrispondente : una parola indipendente diventa così una nuova forma grammaticale, rappresentando quindi un chiaro esempio di grammaticalizzazione (cfr. Hopper / Traugott, 2003). Come abbiamo appena visto, -ca si trova invece alla fine di elementi di varia natura e ap-partenenti a diverse categoria sintattiche, principalmente avverbi modali e congiunzioni, o avverbi di altro tipo ; non è dunque plausibile analizzarlo come un suffisso derivativo.

silvio cruschina122appena discusse, però, ci portano a vedere questa componente come parte di un processo complessivo di grammaticalizzazione. Anche se è vero che gli elementi che esprimono significati grammaticali tendono a diventare diacronicamente clitici o affissi (cfr. Heine, 1993, Hopper / Traugott, 2003); ciò non significa che soltanto gli affissi siano elementi grammaticali (cfr. Pietrandra, 2007). Parole indipendenti possono essere anch’esse il ri-sultato di un processo di grammaticalizzazione (cfr. Giacalone Ramat, 1998).

6. Conclusioni

In questo articolo, attraverso la descrizione, l’analisi e la comparazione di forme deri-vate da processi di rianalisi e cambiamento linguistico, abbiamo cercato di contribuire allo studio di alcuni aspetti del processo della grammaticalizzazione: in particolare, la gradualità, la predicibilità e la direzionalità. I fenomeni descritti riguardano la sfera evi-denziale del dire e il campo della modalità epistemica. In entrambi gli ambiti, forme de-rivate dalla grammaticalizzazione del verbo del dire e di verbi o locuzioni epistemiche hanno dato origine, da una parte, a indicatori di discorso diretto e indiretto, di dicerie o pettegolezzi, che fanno direttamente riferimento all’evidenza dell’informazione ri-portata ; dall’altra, a indicatori dell’attitudine e dello stato conoscitivo del parlante nei confronti delle sue asserzioni. Se la gradualità e la direzionalità dei processi di gramma-ticalizzazione di cui ci siamo occupati sono evidenti nella variazione sincronica tra due lingue geneticamente vicine, la predicibilità rimane incerta. Non è chiaro, infatti, se una forma si svilupperà ulteriormente o meno giungendo a uno stadio di grammaticaliz-zazione più avanzato, che per certi aspetti è attestato in un’altra lingua. Non è chiaro, in altre parole, se una lingua realizzi ciò che potrebbe essere inteso come una fase pre-cedente o successiva. Alcuni di questi processi di cambiamento sembrano conformarsi meglio agli strumenti descrittivi ed analitici della teoria della lessicalizzazione. Abbia-mo tuttavia addotto una serie di motivazioni a favore di un’analisi omogenea, in termini di grammaticalizzazione, di fenomeni che sembrano simili, ma che in realtà si trovano probabilmente in diverse fasi di cambiamento ; abbiamo mostrato che la caratterizza-zione di questi fenomeni corrisponde più da vicino alle proprietà, ai meccanismi e ai parametri elaborati nell’ambito della teoria della grammaticalizzazione. Concludiamo, quindi, che in alcuni casi una netta separazione tra grammaticalizzazione e lessicaliz-zazione non è possibile, e che casi di apparente lessicalizzazione possono essere meglio descritti come processi di grammaticalizzazione.

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stampato e r ilegato nellatipo grafia di agnano, agnano p i sano (p i sa) .

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Dicembre 2011

(cz 2 · fg 1 3 )

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