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"Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni" (Creative cities: a critical review on literature and definitions").Theoretical paper for the UrbEur Phd. Here I analyze the theory on creative cities, looking more specifically at a) the critics to the work of Richard Florida and its theory of Creative Class; b) the work of Allen J.Scott; c) the theory of Harvey Molotch.
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
Città creative:
una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
Bertram M. Niessen,
dottorato UrbEur - XXI° ciclo
Università degli Studi di Milano-Bicocca
Quest'opera è stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Per leggere una copia
della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 543 Howard Street,
5th Floor, San Francisco, California, 94105, USA.
Bertram M. Niessen _ 2006 1
Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
Introduzione
Negli ultimi due decenni si è sviluppato un notevole dibattito intorno alle cosiddette città creative;
con questo termine si intendono quelle città caratterizzate da un alto tasso di creatività, individuale,
istituzionale e diffusa, che sono in grado di utilizzare questa risorsa come strumento per la
competizione urbana. Nonostante si tratti di un oggetto di studio ormai consolidato, sembra che non
vi sia nessun accordo tra gli autori a proposito della definizione di questo concetto e sulla
definizione e operazionalizzazione di numerosi altri concetti e indicatori ad esso correlati.
Il presente paper cerca di identificare le categorie teoriche utilizzate da alcuni indirizzi di ricerca,
nello specifico quelli che possiamo chiamare della “classe creativa”, del “campo creativo” e
“latouriani”, evidenziandone alcune specificità critiche.
Come passo preliminare, ci sembra utile una riflessione a proposito della natura del concetto di
creatività. Allo stato attuale, non esiste alcuna concettualizzazione della creatività che sia in grado
di restituirne il carattere complesso e multidimensionale. Se da un lato, infatti, vi è un accordo in
termini di senso comune nel definire come creativo quel qualcosa che sia in grado di introdurre
elementi d’innovazione in un processo o in un prodotto, dall’altro le discipline che si occupano
della questione denunciano una notevole difficoltà nell’inquadramento del fenomeno. Taylor, ad
esempio, ha mostrato come nell’ambito della psicologia vengano utilizzate più di 60 definizioni
diverse di creatività (Taylor, 1988). La maggior parte degli autori di cui ci occuperemo utilizza
(come vedremo) il termine senza esplicitare a fondo la scelta, limitandosi ad osservare come nel
contesto socio-economico contemporaneo vi sia un incremento di lavoratori e industrie definibili
come tali. Una critica prelimiare che è importante tenere in considerazione è quella che sottolinea
come le connotazioni positive del concetto di “creatività”, così ambiguo e indefinito, siano tali da
disarmare automaticamente le possibili critiche: chi si oppone alla creatività è ottuso, triste, vecchio.
(Peck, 2005, p. 766). Da alcuni l’impiego del concetto di creatività viene additato come strategia
puramente retorica, paragonabile all’impiego di aggettivi allettanti come “nuovo”, “innovativo”,
sostenibile”, ”progresso”, “sviluppo”, “democrazia”; sono “parole feticcio o parole di plastica
(Plastikwörter), per usare un termine usato da Pörksen (1989), la cui caratteristica è di essere
appartenute al linguaggio corrente con un senso chiaro e di essere poi passate al linguaggio dei
tecnocrati con un senso così estensivo da non signifcare più niente” (Borghi, 2005, p. 27).
Chatterton al proposito si chiede: “Mentre la retorica delle città creative parla di una “chiamata
all’azione” e di “un salto di paradigma”, cosa ha da offrirci il concetto per affrontare i problemi
delle città?” (Chatterton, 2000, p. 392).
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
Una prima demarcazione che occorre stabilire è quella tra i due filoni prevalenti sulle città creative,
ovvero tra gli studi sulle città come sede di (o che favoriscono, sfavoriscono, creano connessione
per) industrie creative e quelli sulle città come luoghi che favoriscono lo sviluppo della creatività
individuale collettiva degli attori sociali: in questo paper mi concentrerò esclusivamente sulla prima
questione. Il secondo filone (e viene da chiedersi se sia legittimo definirlo tale, dato che si tratta in
realtà di un insieme eterogeneo di spunti e punti di vista inseriti spesso in dibattiti diversi) si
interroga su come alcuni contesti urbani siano in grado di creare le premesse per l’ideazione di
nuove soluzioni a problemi esistenti o di aprire strade completamente nuove (Landry, 2000). Questa
definizione viene utilizzata sia per la pianificazione di policies (Landry, 2000), che per la loro
critica (Chatterton, 2000), che per ricostruzioni di carattere storico più ampio (Hall, 2000). Se da un
lato la questione è strettamente interconnessa con ciò di cui ci occuperemo, dall’altro gode di
un’autonomia teorica ed empirica che ne fa qualcosa di completamente separato, e che trova uno dei
suoi ispiratori (nonché uno degli sviluppi più lucidi e articolati) nell’opera di Michel De Certau
(1990)1.
Qui mi occuperò, quindi, della relazione tra produzione creativa e spazi urbani dal punto di vista
delle cosiddette industrie creative. Anche così delimitato, l’argomento delle creative cities sembra
essere radicato in un’ambiguità definitoria di base che rende difficile procedere ad una rassegna
dettagliata della letteratura in proposito. Convivono, come vedremo, alcune definizioni teoriche ed
operative notevolmente diverse di “città creativa”, in parte sovrapponendosi negli stessi discorsi, in
parte venendo usate indipendentemente le une dalle altre.
Il frame teorico più ampio che dà origine a questa visione è quello per il quale nel passaggio dalla
società fordista a quella post-fordista la natura della produzione si è progressivamente spostata dal
materiale all’immateriale, cosicché settori economici legati alla cultura ed ai servizi, relativamente
marginali nella modernità del primo Novecento, hanno assunto un’importanza sempre maggiore
(mercificazione della cultura (Vicari, 2004, p. 78)). Inoltre, anche le merci materiali “tradizionali”
hanno visto un radicale mutamento dal punto di vista della strutturazione dell’offerta e del
consumo; beni fortemente simili in termini di valore d’uso vengono continuamente differenziati in
base al brand, divenendo oggetto di un investimento simbolico notevole da parte dei produttori e dei
consumatori (esteticizzazione della cultura (Vicari, 2004, p. 79). Questo passaggio è stato analizzato
e definito in molti modi. Castells, ad esempio, parla di “Terza Rivoluzione Industriale”, indicando
con questo termine “l’avvio di una fase di accelerazione dello sviluppo economico, sulla base delle
1 Si veda anche, per una prospettiva storico-antropologica, il sesto capitolo di “La complessità culturale” Hannerz (1992).
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
nuove tecnologie e di una nuova centralità dell’informazione e della conoscenza nei processi
produttivi” (Vicari, 2004, p.71).
Una prima definizione di città creativa è quella che vede come unità d’analisi principale la “classe
creativa”: osservando come, nel passaggio dalle città fordiste a quelle post-fordiste, la produzione (e
di conseguenza il mercato del lavoro) si sia ri-orientata verso nuove forme d’impresa orientate alla
fornitura di servizi ed alla produzione culturale in senso lato, alcuni autori utilizzano il termine
“città creative” (creative cities) o “città della conoscenza” (knowledge cities) per indicare gli spazi
urbani caratterizzati da una forte concentrazione di lavoratori le cui professioni sono, in diversi
modi, collegate alla creatività (in senso stretto: pittori, musicisti, grafici, architetti, imprenditori
teatrali, discografici, galleristi, critici, collezionisti d’arte, ecc.; ma anche in senso lato: ricercatori,
giornalisti, medici, avvocati, ecc.) (Florida, 2003). Secondo alcuni approcci, le creative cities
definite in questo modo sono coinvolte in un circolo virtuoso nel quale la “classe creativa” viene
attratta nelle città sulla base delle infrastrutture che queste mettono a disposizione, portando con sé
sviluppo economico, innovazione e creatività (Florida, 2003); secondo altri autori, le creative cities
sono uno strumento retorico di facile presa a disposizione dei policymakers per “boosterizzare” le
città nella competizione inter-urbana, senza garanzie di risultato ed ignorando le considerevoli
problematiche in termini di disuguaglianze sociali, economiche ed abitative che comportano (Peck,
2005).
Una seconda definizione è quella che utilizza come unità d’analisi il campo creativo, identificato
come uno spazio urbano di flussi materiali e simbolici che coinvolgono individui, istituzioni e
network; i campi creativi permettono lo sviluppo di industrie caratterizzate dalla produzione
culturale in senso stretto (mass media, editoria, discografia, università, istituti di ricerca, ecc.) o in
senso lato (IT, industrie tradizionali investite da innovazioni sostanziali in termini tecnologici, ecc.)
(Scott, 2001; 2006), favorendone la competizione o la cooperazione. Questa visione, improntata alle
analisi strutturali sullo sviluppo economico urbano, vede la concentrazione dei lavoratori creativi
come una conseguenza e non come la causa della presenza di industrie creative.
Un terzo filone di studio, molto diversificato al suo interno, risente in modo sostanziale
dell’influsso del socio-antropologo francese Bruno Latour. Autori come Harvey Molotch, con il suo
concetto di Lash-up utilizzato nell’indagine sulle origini sociali dell’estetica del design (Molotch,
2005), o come Andy Pratt, il quale utilizza un approccio costruzionista all’analisi dei network nello
studio dei cluster d’innovazione nei new media, fanno parte di un gruppo, assolutamente eterogeneo
e non riconducibile ad una specifica area teorica e disciplinare, che ha raccolto, in modi
assolutamente diversi, la sfida posta da Latour in “Non siamo mai stati moderni” (Latour, 1995):
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
rinunciare alla dicotomia natura-cultura portata dal progetto moderno, e rapportarsi a esseri umani,
istituzioni, animali, oggetti e simboli come “attanti” (actants) in grado di agire ed essere agiti nel
mondo sociale e materiale, costruendo ed essendo costruiti senza per questo perdere la propria
specificità ontologica.
Quella che propongo non è una vera e propria categorizzazione, dato che i confini tra questi
approcci sono prevalentemente sfumati ed ambigui, e autori diversi ricorrono ora ad uno ora
all’altro nei loro discorsi. Si tratta piuttosto di un tentativo di delineare alcune tendenze,
evidenziando gli elementi caratteristici e critici che ognuna di queste visioni comporta e cercando di
capire quali domande si pongono gli autori e con che efficacia trovano le loro risposte.
Presupposti teorici
La maggior parte delle visioni che abbiamo sopra identificato poggiano su alcuni presupposti teorici
comuni che sono alla base della riflessione contemporanea sulla città. Helbrecht (Helbrecht, 2004,
p. 195) ne evidenzia tre:
1) La produzione della conoscenza è vista come un processo cumulativo, che si realizza per gradi
attraverso gli interscambi di network (infra-urbani e inter-urbani) nei quali sono coinvolti attori
di natura disparata; una grande attenzione, quindi, viene posta ai sistemi di relazione ed
interdipendenza tra i nodi di uno stesso network. Alcuni focus teorici sono concentrati sulla
produzione di capitale sociale (Florida), mentre altri si concentrano sulla natura dei sistemi
economici e produttivi (Scott).
2) Le letteratura teorica e gli sforzi empirici si concentrano sulle condizioni materiali, culturali,
economiche, sociali e spaziali entro cui avvengono gli interscambi, analizzando le relazioni tra
prossimità spaziale (distanza, accessibilità, ecc.), prossimità sociale (genere, età, professione,
origine, ecc.) e prossimità istituzionale (cartelli, trusts, policies).
3) Il centro dell’attenzione teorica è costituito dai processi di apprendimento collettivo. Questo
comporta il fatto che la distinzione classica tra invenzione, metabolizzazione e diffusione della
conoscenza venga superata.
A questi primi, fondamentali, presupposti ne vanno aggiunti altri:
4) Si assume che le città abbiano effettuato, o siano in procinto di effettuare, il passaggio dal
managerialismo all’imprenditorialismo urbano (Harvey, 1989). In un regime economico
nazionale caratterizzato dalla crescente difficoltà da parte degli enti locali di approvvigionarsi di
risorse provenienti dallo stato centrale (che in passato venivano, appunto, ricevute ed
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
amministrate), le città si sono progressivamente trasformate in imprenditori alla ricerca attiva di
risorse pubbliche e private, in una competizione a somma zero tra un sistema urbano e l’altro2.
5) In modi molto diversi, la maggior parte degli autori tratta la presenza dei creativi nelle città
come presenza di comunità specifiche, che hanno norme e aspettative più o meno omogenee.
6) Un elemento centrale dello studio delle città creative è l’industria culturale. A partire dalla sua
prima formulazione in seno alla Scuola di Francoforte (Adorno e Horkaimer, 1977), centrata
sulla commercializzazione delle forme artistiche nell’ambito del sistema economica capitalista
vista come sostanziale negazione di un’arte “pura” liberata dalle relazioni di potere collegate al
possesso dei mezzi di produzione, il concetto di industria culturale ha subito numerose
riformulazioni ad hoc fino a divenire, ad oggi, di scarsa utilità se non ridefinito puntualmente e
costantemente in ogni trattazione3.
Cargo Cults della creatività
Come abbiamo visto, una prima definizione implicita adottata per le città creative è quella di città
caratterizzate dalla forte presenza dei lavoratori della creatività e della conoscenza. Alcuni autori
vedono nei lavoratori creativi il motore della crescita economica di questo nuovo stadio
dell’economia; il più conosciuto e controverso tra questi è sicuramente Richard Florida,
l’economista americano autore di “The rise of Creative Class” (Florida, 2003) e “The Flight of the
Creative Class” (Florida, 2005).
Sostanzialmente, l’idea di Florida è che, per essere vincenti nella competizione urbana, le città
debbano essere in grado di attrarre quei lavoratori creativi che portano con sé investimenti e crescita
economica; devono essere quindi in grado di offrire loro dei luoghi piacevoli ed amichevoli, dotati
di quartieri nei quali l’interazione quotidiana avvenga in modo fluido, facile ed immediato grazie ad
un’offerta completa d’infrastrutture per lo svago ed il relax. In poche parole, delle buone basi per
una comunità locale.
La visione di Florida è quella di una “new new economy” guidata dalla forza della creatività umana,
nella quale l’obiettivo principale dei lavoratori (almeno di quelli ad alta specializzazione) non
consiste più solo in ricompense e benessere materiale, ma anche e soprattutto in gratificazioni e
interscambi di ordine simbolico che hanno a che fare con la possibilità di accedere ad esperienze
2 Per una classificazione esaustiva delle strategie adottate dalle città nell’urban entrepreneuralism , si veda Harvey (1989, pp. 8-10).3 Per la molteplicità di definizioni esistenti si veda Flew (2000); per un singnificativo tentativo di riduzione della complessità al proposito si vedano invece i 9 punti enumerati da Jeffcut e Pratt (2002, pp. 228-229) ed i 3 identificati da Scott (2004).
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
nuove ed emozionanti4 che si conformano ad una particolare idea di “stile di vita”. Questo implica,
su scala globale, l’essere entrati in una nuova fase del capitalismo nella quale “le forze guida dello
sviluppo economico non sono semplicemente tecnologiche ed organizzative, ma umane “(Peck,
2005, 743).
Il focus di questo tipo di analisi, quindi, è centrato sul singolo e sulle sue doti individuali in termini
di creatività e capacità d’innovazione; il capitale umano dei singoli può venire incoraggiato e
potenziato dall’inserimento in comunità di lavoratori “fortemente creativi”, i quali sono attratti in un
luogo piuttosto che in un altro da una serie d’infrastrutture. Si tratta, sostanzialmente, di una sorta di
“umanesimo neo-liberale”, che vede l’individuo creativo al centro della “new new economy”.
Per Florida, i creativi sono attirati da comunità “plug and play”, caratterizzate essenzialmente da:
1) barriere sociali basse;
2) una forte eterogeneità sociale e culturale, sia in termini di professioni, che di provenienza, che di
orientamento sessuale;
3) una forte concentrazione di altri creativi;
4) una vita di strada vivace;
5) la presenza di strade pedonali, caffè, gallerie d’arte e locali musicali, ovvero quelle “amenities”
che caratterizzano le necessità di svago e relax della classe creativa (Peck, 2005, 745).
Le condizioni fondamentali per la crescita di una città sono individuate nelle “3 T” (Talento,
Tecnologia e Tolleranza) sulla base delle quali sono costruiti gli indici utilizzati da Florida: numero
di esponenti della Classe Creativa, loro incidenza sul totale della forza lavoro e percentaule di
abitanti con titolo di studio superiore (Talento); presenza e incidenza di industrie High Tech,
capacità brevettuale, quantità e qualità delle connessioni Internet a banda larga (Tecnologia);
incidenza della popolazione straniera sul totale dei residenti e loro integrazione, tolleranza nei
confronti dell’omosessualità (Tolleranza) (Florida e Tinaglia, 2005)5.
La società di consulenza di Florida, Catalytix, si offre di misurare gli indici di creatività delle città
che ne fanno richiesta e di aiutarle a trovare una nuova strada alla competizione urbana aiutandole a
4 Una nota ironica che merita di essere evidenziata è che la descrizione delle comunità locali strutturate attorno alla creative class di Florida somiglia in modo inquietante a quelle dipinte dal romanziere inglese J.G Ballard nella sua trilogia delle Gated Communities: Cocaine Nights (1996), Millennium People (2003), Supercannes (2000). In queste opere (anticipate in modo sorprendente da “Running Wild” (1989) e “Highrise” (1975) che trovano nella devianza sistematica e non orientata allo scopo una nuova forma di collante sociale delle élites, uno degli elementi centrali è la volontà dei protagonisti, tutti membri della classe creativa, di separarsi dal resto della società, alla ricerca di stili di vita più autentici e, appunto, creativi. 5 A questo proposito, Edward Glaeser sostiene provocatoriamente che la crescita si articola non tanto intorno alle 3 T, quanto alle 3 S: “skills, sun and sprawl” (“competenze, sole e relax”), il che equivale a sostenere che “la maggior parte delle persone creative vogliono ciò che vuole la maggior parte delle persone benestanti: grandi aree suburbane con trasporti comodi e strade sicure e buone scuole e tasse basse” (Glaeser, 2004, p. 2).
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
svilupparsi sulla base di ciò che può interessare la Classe Creativa6. L’attitudine imprenditoriale del
lavoro dell’economista statunitense, che ha contribuito in parte determinante al suo indiscutibile
successo dal punto di vista della pianificazione delle policies urbane, è forse una delle principali
cause dell’accanimento con il quale, negli ultimi anni, teorici di vari orientamenti si sono impegnati
nel criticarlo. Nelle pagine che seguono passiamo in rassegna i principali nodi critici emersi,
ritenendo necessario approfondire la questione prima di passare oltre.
1) Natura del meccanismo causale
Il vero nodo di tutta la questione: esiste o meno un meccanismo diretto, di natura causale, che lega
la creatività alla crescita economica? Secondo molti autori questo rappresenta il principale punto
debole del discorso di Florida (Peck, 2005; Scott, 2006). Il processo sarebbe il seguente: “La
crescita deriva dalla creatività e quindi sono i creativi che fanno la crescita; la crescita si può
verificare solo se i creativi arrivano, e i creativi arriveranno solo se trovano ciò che vogliono; quello
che i creativi vogliono è tolleranza ed apertura, e se la trovano verranno, e se verranno, la crescita li
seguirà” (Peck, 2005, p. 757). Un meccanismo causale diretto di questo tipo, tuttavia, non è mai
stato dimostrato, almeno nella sua forma logica rigorosa7, e poco si sa sull’intensità e la direzione
della relazione. Questa ambiguità sul rapporto di causa-effetto ha spinto Peck a definire il discorso
delle creative cities di Florida un “cargo cult della creatività”, alludendo a come i policy-maker
allestiscano degli spazi per i creativi attendendo fideisticamente l’arrivo di creativi e la conseguente
moltiplicazione delle industrie creative.
2) Riflessività degli indici delle 3T
Un'altra importante critica di ordine epistemologico-metodologico: le tavole degli indici di Florida
vengono aggiornate periodicamente, e sono venute a costituire, di fatto, una nuova dimensione della
competitività urbana (almeno negli USA); come osserva Peck, le tavole esistono non solo per
motivi di ricerca: esse svolgono un’attività direttamente poietica nella costruzione di questa
competizione, costituendone una dimensione nuova e fondamentale. Il loro aggiornamento svolge
un ruolo riflessivo importante (Giddens, 1990), dato che gli amministratori pubblici possono tenere
costantemente sotto controllo la propria città nelle tabelle, costituendosi come pubblico attivo nel
confermare (tramite dichiarazioni, conferenze, seminari) l’esistenza di questo nuovo livello di
competitività a un mercato ansioso di testare l’efficacia del pacchetto offerto da Florida (Peck,
2005).
3) Monodimensionalità dell’analisi
6 Per una descrizione del meccanismo di marketing urbano adottato da Catalytix, si veda Peck (Peck, 2005, 749-752).7 Nell’analisi di Florida, nonostante l’ampio utilizzo di indici e statistiche, manca un’impostazione metodologica rigorosa; più che di causa si può parlare di covariazione (Giesen e Schmid, 1982).
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Scott ha duramente criticato la monodimensionalità del pensiero di Florida (Scott, 2006). Secondo il
primo, come vedremo, i milieux creativi sono il prodotto di situazioni congiunturali estremamente
complesse, nelle quali un ruolo fondamentale è svolto dai network di produzione; affermare che la
semplice presenza di lavoratori creativi comporti automaticamente la crescita vuol dire compiere un
pesante errore nell’attribuzione delle cause (Scott, 2006). Evidenziando come gli ambienti urbani
contemporanei siano caratterizzati da una stretta interrelazione di tutte le dimensioni della vita della
città, Scott sostiene che nessuno di questi possa fare da traino agli altri senza la pianificazione di
policies di largo respiro che armonizzino tutti gli elementi8. Entrando nel merito di questa
ambiguità, più volte Scott evidenzia come i programmi realizzati sulla base della visione di Florida
siano perlopiù orientati all’implementazione di misure secondarie (creazione di nuovi uffici per la
cultura, utilizzo della creatività come parola chiave nelle campagne di marketing, etc) ma non siano
in grado di reperire i fondi per la T più direttamente collegata alla crescita economica: la
Tecnologia.
4) Scarsa considerazione per le disuguaglianze socio-economiche urbane.
Da un punto di vista prettamente politico, la proposta delle creative cities soddisfa amministratori di
destra e di sinistra, ma allo stesso tempo non manca di sollevare critiche da entrambe le posizioni.
Peck osserva come da destra la parte più problematica da digerire sia quella legata ai valori
progressisti, e come si accusi Florida di sostenere che un ambiente permissivo in termini di costumi,
sessuali e non, sia più importante della riduzione delle tasse; ovvero, di gettare discredito su centri
urbani ancorati ai valori della famiglia in favore di altri che si arrendono all’assalto di “omosessuali,
sofisti, trendoidi” (Kotkin, 2003, p. 34). Le critiche da sinistra sono improntate alla mancanza di
attenzione nei confronti dei temi della povertà urbana e delle disuguaglianze. Non viene posta
praticamente nessuna attenzione alla divisione del lavoro che le creative cities portano con sé, e non
ci si pone il problema di chi siano, da dove provengano ed a quali condizioni lavorative siano
sottoposti i lavoratori non qualificati impiegati nelle industrie creative. Se la persona che taglia i
capelli a Florida “è una stilista creativa che guida una nuova BMW” e “(il marito della persona che
gli pulisce la casa) guida una Porsche” (Florida, 2002, p. 76), rimane fondamentalmente inevasa la
questione di “chi laverà le magliette in questo paradiso creativo”. Peck evidenzia come le strategie
delle città creative siano interamente inserite in una visione economica neo-liberale. In questo senso
“gli artefatti urbani vengono considerati come beni competitivi, valutati (letteralmente) non per il
loro proprio valore ma nei termini della loro (supposta) utilità economica” (Peck, 2005, p. 764).
8 Da questa impostazione, come vedremo, Scott deriva anche le sue proposte per i policymakers: integrazione di più dimensioni di crescita della città, strategie situate nel luogo e nel tempo, gestione delle esternalità negative, contenimento e sanzione dei free riders
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
Un altro aspetto collegato a quanto appena detto è che il tema della gentrificazione, tipicamente
innescato da progetti di riqualificazione creativa, rimane praticamente non trattato dal lavoro di
Florida, o se lo è viene vista in termini esclusivamente positivi. Scott (Scott, 2006) sostiene che
l’utopia delle città contemporanee guidate dalla creatività debba essere messa attentamente al
vaglio. L’eccessiva attenzione, in termini di policies, allo sviluppo di “città creative” implica il più
delle volte l’aumento della polarizzazione sociale dovuta alla proliferazione di lavori a basso
reddito e bassa specializzazione nelle (e, soprattutto, attorno alle) industrie creative. Se alcuni centri
di piccole e medie dimensioni sono riusciti, in vari modi, a procedere con uno sviluppo integrato e
“sostenibile” a partire da specifiche industrie creative, solitamente nelle metropoli queste ultime si
arroccano in quartieri a forte specializzazione, dislocando le risorse materiali e umane che servono
in aree concentrate caratterizzate da alti tassi di omogeneità sociale. Ai bordi di queste enclave (che
consistono da un lato nei quartieri nei quali sono dislocate le aziende e dall’altro in zone residenziali
per i creativi) proliferano le zone che vengono toccate poco o nulla dai flussi di capitali materiali e
simbolici di cui beneficiano le aziende creative (Scott, 2006, 12)9.
5) Eccesso di fiducia nel potere della pianificazione
Un altro punto critico importante relativo all’approccio di Florida è collegato alla natura stessa della
creatività, ovvero al problema se questa sia o meno implementabile tramite delle politiche
pubbliche. “Non solo [Florida] crede che attrazioni marginali come una scena artistica idiosincratica
possano costruire potere economico, ma crede che amministrativi e policymakers siano in grado di
produrre queste cose artificialmente. Non sembra essere in grado di riconoscere che gli attributi
culturali delle città che ammira non sono il prodotto di una pianificazione amministrativa ma hanno
avuto uno sviluppo spontaneo, finanziato dal settore privato” (Malanga, 2004, p. 45). Su questo
punto torneremo in modo più dettagliato in seguito, approfondendo i prerequisiti che Scott vede
come necessari per la nascita di una città creativa. Anche Jeffcut e Pratt (2002) evidenziano come le
9 Un’ultima, interessante questione politica trattata da Peck è quella del management della società creativa. Se i creativi
rappresentano il 30% della società americana, il restante 70% è caratterizzato da persone non-creative, “passeggeri” di
una società guidata dai primi (Peck, 2005: 757). A questo va aggiunto il fatto che, secondo Florida, i creativi tendono ad
essere fortemente disinteressati a tutto ciò che non li riguarda direttamente. Peck osserva come l’apertura verso la
diversità culturale sia da interpretare più come una scelta di “stile di vita” che non come un tratto politico; il risultato è
una forma di individualismo edonistico, sostanzialmente disinteressato ad ogni forma di gestione collettiva del bene
pubblico (a meno che non sia di fronte a casa loro) (Peck, 2005: 758) e un conservatorismo fiscale che deve “essere
convinto” a pagare le tasse per l’istruzione pubblica (dal momento che i figli della classe creativa frequentano scuole
private).
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
strategie di pianificazione connesse alla creatività tentino di enucleare una serie di pratiche
sostantive da processi complessi per applicarle in contesti nei quali i processi prendono forme
diverse (su questo torneremo in seguito parlando di Pratt).
6) Definizione ambigua di creative class
Le città creative sono viste come caratterizzate dalla presenza di “comunità” di lavoratori creativi,
anche se sulla natura di queste comunità i pareri sono discordanti; Markusen (2006) ha mostrato in
modo dettagliato come il concetto di classe creativa utilizzato da Florida sia un aggregato con
scarsa solidità epistemologica e metodologica, che viene utilizzato aggregando soggetti
estremamente eterogenei ai quali viene attribuita, a posteriori, un’unità di valori ed aspirazioni
inesistente sul piano del reale.
Creative Fields
Un secondo approccio teorico riguardo alle città creative è quello relativo al campo creativo, ovvero
un frame che si concentra sulle caratteristiche socio-economiche delle città ad alto tasso di industrie
creative prestando particolare attenzione ai network ed alle infrastrutture (Scott, 2001; 2006).
Possiamo dire che, rispetto al precedente, questo approccio ha un’impostazione più organica, che
tende a considerare le città come degli spazi complessi e multidimensionali nei quali le industrie
creative possono sì trainare l’economia urbana, ma solo se accompagnate ed armonizzate da sistemi
produttivi e distributivi coordinati orizzontalmente e verticalmente.
Le città creative sono viste, in quest’ottica, come spazi urbani ad alta specializzazione (clusters) in
grado di focalizzare le proprie risorse su aree economiche collegate alla creatività, attingendo le
risorse necessarie dal punto di vista della produzione e della distribuzione sia al loro interno che al
loro esterno.
I quattro punti che hanno fatto la fortuna delle città con forte crescita, e delle città creative in
particolare, sono così identificati da Scott:
1) mosaicizzazione (o arcipelaghizzazione) delle aree metropolitane connesse in network
competitivi e/o complementari;
2) esistenza di un sistema di competizione imperfetta (oligopolista) che si è prodotto tende a
favorire le città con peculiari capacità creative, comprese quelle di piccole dimensioni;
3) realizzazione di network polifonici di sinergie che si stabiliscono a livello internazionale e che
sono in grado di fornire complesse combinazioni di competenze creative che possono fornire
importanti opportunità di crescita;
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
4) a causa della riduzione dei costi delle comunicazioni e dei trasporti, alcuni segmenti
dell’economia contemporanea stanno mostrando una decisa tendenza alla decentralizzazione
della produzione, che può essere standardizzata ed eseguita off-shore (Scott, 2006, pp. 13-14).
L’unità di analisi alla base di questa visione è il “campo creativo”, un concetto ripreso dal lavoro di
Bourdieu (1971), definito da Scott come “un set di interrelazioni che stimolano e canalizzano le
espressioni individuali di creatività” (Scott, 2006, p. 8), organizzato su tre livelli ognuno dei quali è
implementabile attraverso policies specificamente mirate:
1) il primo livello coincide con le reti di aziende e lavoratori degli agglomerati e con le
interazioni e i feed-back che si producono tra le pluralità di centri decisionali e le pratiche
dei singoli e dei gruppi;
2) il secondo livello è costituito dalle infrastrutture e dal capitale sociale sovraindividuale che
si integrano e sviluppano il livello precedente;
3) il terzo livello è il prodotto di convenzioni e culture che sono caratteristiche dei cluster
produttivi (Scott, 2006).
Qualsiasi politica che voglia lavorare sul mondo delle industrie creative sarà obbligata a tenere
conto di questa multidimensionalità, in virtù della quale una città che non abbia determinati requisiti
non potrà diventare “creativa” nell’arco di poco tempo. Gli elementi di carattere contestuale,
sostanzialmente ignorati da Florida, giocano qui un’importanza fondamentale. Almeno tre
prerequisiti sono necessari, secondo Scott, affinché le città siano in grado di inserirsi nel nuovo
contesto globale come città creative.
1) Dimensione storica
Il requisito di ordine storico ha a che fare con come si sono sedimentate nel tempo, nella vita della
città, comunità con competenze creative diverse, siano queste intese nel senso “artistico” (circoli
intellettuali, avanguardie artistiche, “scene” più o meno underground) che in quello professionale
(specializzazione nel campo dell’artigianato, del cinema, ecc.). Come osservano Musterd e Deurloo
(2006): ”costruire una città veramente creativa con le sue culture profondamente radicate ed i suoi
networks creativi è un processo lungo e spesso tormentoso che, avendo successo in alcuni luoghi,
può fallire completamente in altri” (Musterd e Duerloo, 2006, p. 81).
Come la storia di una città influenzi le sue industrie creative, tuttavia, è chiaro solo fino ad un certo
punto, e diversi autori hanno proposto chiavi di lettura diverse per interpretare questa relazione. Una
delle più diffuse è quella nota come path-dependence dello sviluppo urbano (David, 1985; Arthur,
1989; Hall, 2004), impiegata per analizzare come le specificità contestuali di un dato ambiente
urbano siano in grado, articolandosi nel tempo, di fornire vincoli e opportunità (“windows of
Bertram M. Niessen _ 2006 12
Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
opportunity”) per le scelte dei soggetti. Rantisi, ad esempio, ha analizzato l’insorgere e il
consolidarsi dell’industria della moda a New York (Rantisi, 2004), evidenziando come attraverso
quattro fasi storiche10 l’industria del prêt-à-porter si sia sedimentata nel tempo fino a divenire
competitiva con quella parigina. Un approccio di questo tipo ha una matrice fortemente
strutturalista, che l’autrice cerca di compensare (ed infine superare) integrandola con la teoria
giddensiana della strutturazione (Giddens, 1979) per risolvere la tensione dicotomica azione-
struttura e con la teoria di Beck et al. (Beck et al., 1994) della modernizzazione riflessiva per
cercare di armonizzare le azioni delle agenzie con la loro interpretazione in feedback con l’ambiente
circostante (Rantisi, 2004, pp. 88-89). Nonostante questi interessanti tentativi, l’analisi e la
comprensione di questa dimensione devono ancora essere approfondite.
2) Capitale culturale
Le comunità urbane di lavoratori creativi devono aver sedimentato nel tempo delle modalità
d’interscambio e d’interdipendenza, fino alla costituzione di un capitale culturale solido. Scott
evidenzia come un elemento importante per la produzione di nuove idee sia la connettività sociale
(che definisce come “processo di contatto e d’interscambio multi-sfaccettato” (Scott, 2006, 8)), la
quale non si articola solo sul piano formale degli ambienti di lavoro, ma anche nei contesti
informali legati ai rapporti di vicinato e alle attività ricreative e del tempo libero (e questo ci riporta,
trasversalmente, a Florida). Un interessante spunto metodologico offerto dall’autore al proposito è
la sua riflessione su come l’interscambio informale tenda a produrre piccole variazioni,
aggiustamenti di rotta, intuizioni che raramente vengono registrate in qualche modo, nonostante il
fatto che, se riescono ad essere prodotte in “un flusso accumulato”, possano essere di importanza
fondamentale per mantenere la competitività (Scott, 2006, 8).
Dal punto di vista empirico, la questione del capitale culturale è il punto più debole. Sebbene vi sia
un accordo di base sull’importanza di questa dimensione, poco o nulla è stato fatto per individuare
modi, luoghi e spazi di questi interscambi; questa debolezza si deve probabilmente, in parte, ai
frames ed agli strumenti propri delle aree disciplinari alle quali afferiscono i ricercatori che si sono
occupati del fenomeno. La geografia e la sociologia economica possono dare grandi impulsi allo
studio delle città creative, ma per analizzare a fondo questa questione è, crediamo, necessario fare
ricorso a metodologie e tecniche micro-sociologiche ed etnografiche, che siano in grado di
addentrarsi tra i sistemi d’interscambio e le motivazioni soggettive degli attori, comprendendone
(per quanto possibile) rituali, simbologie e sistemi valoriali attraverso un processo di verstehen.
3) Istituzioni legate alla creatività
10 (anni ’60 del 1800 – anni ’10 del 1900; anni ’20 – anni ’30; anni ’40 - primi anni’60; dagli anni ’60 ad oggi)
Bertram M. Niessen _ 2006 13
Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
La città deve essere provvista di tutte le istituzioni che permettono la produzione e la riproduzione
delle pratiche creative: scuole, accademie, fondazioni, musei, gallerie, sale concerti, ecc. (Scott,
2001b). Una grande attenzione viene prestata dai ricercatori all’azione di agenti che si impegnano
nella promozione, armonizzazione e facilitazione del lavoro delle industrie creative. Un esempio
interessante è l’analisi dettagliata di Leslie e Rantisi (2006) sull’industria del design di Montréal;
partendo da una breve analisi di tipo storico, le autrici hanno evidenziato come quattro diverse
istituzioni11 siano state in grado di coordinarsi per lo sviluppo (in termini di produzione e
distribuzione) di un sistema economico locale nel quale “gli obiettivi degli affari non sono definiti
solo in termini di profitto ma anche in termini estetici” (Leslie e Rantisi, 2006, p. 316). Ad oggi, lo
studio delle istituzioni è probabilmente la parte più articolata ed approfondita del lavoro sulle
creative cities, in parte anche grazie al (preesistente) filone di studi sui milieux innovateurs12
Nessuno spazio per il conflitto
A mio avviso questa prospettiva, come del resto la precedente, non tiene adeguatamente in
considerazione la questione del conflitto sociale. Gli elementi conflittuali nell’ambito della cultura
vengono sostanzialmente trascurati, o meglio vengono ridotti al solo elemento della competizione di
ordine economico. Numerosi studi riguardanti il rapporto tra creatività e conflitto sociale hanno
evidenziato, al contrario, come il fermento politico sia un importante motore per la produzione di
soluzioni estetiche e concettuali nuove.
Il caso dei Provos, movimento controculturale che ha agito ad Amsterdam tra il 1960 e il 1967, è un
esempio eclatante di questo legame: rielaborando in un forma assolutamente originale alcuni
contenuti provenienti dall’Internazionale Lettrista e da quella Situazionista, i Provos hanno
modificato radicalmente il tessuto sociale della capitale olandese contribuendo in modo
determinante a renderla una “mecca psichedelica” che continua ad attrarre creativi dopo più di
quarant’anni (Guarnaccia, 1997). Allo stesso modo, fenomeni politicamente radicali come lo Youth
International Party a New York e Chicago, i Kaoten a Berlino, il movimento mao-dada e gli Indiani
Metropolitani a Bologna e Roma hanno contribuito in maniera sostanziale alla costruzione delle
scene artistiche di queste e molte altre città, fungendo da operatori di un marketing urbano dal target
molto diverso da quello che normalmente si immaginano i policymakers (Home, 1988; Salaris,
1997; Moroni e Balestrini, 1997).
11 Commerce Design Montréal; Institute of Design Montréal; Department of Développement Économique et Regional et Recherche of Québec; Société de Développement des Enterprises Culturelles.12 Con questa espressione ci si riferisce “alle strutture sociali, istituzionali, organizzative, economiche e territoriali che creano le condizioni per la continua creazione di sinergia” (Castells e Hall, 1994, p. 9)
Bertram M. Niessen _ 2006 14
Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
La Sylicon Valley, uno dei fenomeni più studiati, non sarebbe quello che è adesso se le
controculture statunitensi degli anni ’60 e ’70 non avessero prodotto il cortocircuito tra libertarismo
e tecnologia dal quale è nato il movimento hacker politico (Amman e Sthal, 1989; Youth
International Party Line, 1972).
La Londra della moda e del design non è stata solo quella poetica e inoffensiva di Blow Up, ma
anche quella del withe trash nella quale studenti delle scuole di belle arti che erano stati vicini ai
gruppi post-situazionisti del’68 come Black Mask hanno messo la loro creatività al servizio di
conflitti (spesso violenti, sia sul piano simbolico che su quello materiale) legati al punk e a class
war (Home, 1988).
Una critica strutturata di questo aspetto non è ancora stata elaborata, sebbene vi siano alcuni timidi
tentativi (Chatterton, 2000); non si tratta di una condizione necessaria né sufficiente, ma l’elemento
del conflitto dovrebbe essere tenuto presente in una analisi multidimensionale accurata.
Esternalità positive e negative
Secondo Scott, è centrale il fatto che cluster di produttori altamente specializzati producono quantità
notevoli di esternalità positive (Scott, 2006, 8-9). Per quello che riguarda le esternalità negative
l’autore, sebbene riconosca che una densa concentrazione di servizi qualificati possa produrre anche
flussi consistenti di esternalità negative, sembra volerne minimizzare la presenza osservando che gli
amministratori municipali “hanno lavorato continuativamente per portare le esternalità negative
sotto un qualche tipo di controllo e (hanno incentivato) sviluppo e crescita urbana” (Scott, 2006, p.
9); altri autori (Peck, 2005) hanno evidenziato come gli effetti negativi legati all’insorgere delle
città creative (primi tra tutti i processi di gentrificazione e la crescita della disuguaglianza urbana)
siano tutt’altro che risolti.
Comparabilità
Pratt (Pratt, 2000, p. 13) evidenzia come, sebbene l’enumerazione del numero di network e
istituzioni che hanno a che fare con la creatività (così come l’ampiezza e la scala dei benefit e degli
sgravi fiscali o la natura degli spazi fisici coinvolti) siano elementi importanti da tenere in
considerazione, le città creative non siano necessariamente comparabili; a questo proposito, l’autore
mostra come per sei città creative coinvolte nel fenomeno dei new media (San Francisco, New
York, Austin, Toronto, Melbourne, Brighton) 10 variabili che hanno a che fare con il campo
creativo possano avere un peso forte, medio o debole senza che questo influisca sull’effettiva
presenza di industrie creative (Pratt, 200,p. 15). Questa critica ci riporta ad una delle questioni
metodologiche chiave delle scienze sociali, la comparabilità. Senza illustrare qui i termini del
dibattito, vasto e articolato, ci limitiamo a rimandare a Fideli (1998).
Bertram M. Niessen _ 2006 15
Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
Arruolamenti creativi.
Alcuni autori si sono concentrati su quali siano le dinamiche sociali che fanno si che soggetti (ed
oggetti) vengano “arruolati” in specifici “progetti” creativi. Questa terminologia, utilizzata
in modi
diversi, rimanda direttamente al lavoro di Latour, il quale sostiene che i network siano spazi
flessibili e sfumati di flussi, composti da attori, umani e non, che agiscono e sono agiti sul
piano sociale e su quello materiale in una dimensione prettamente performativa (il che
implica una messa tra parentesi del loro dato-per-scontato ontologico) (Latour1998). In
questo senso, i network sono lo spazio nel quale alcuni attori ne “arruolano” altri attorno a
“progetti”, o visioni, di vario tipo, la cui natura è per definizione mutevole. Nelle pagine che
seguono illustrerò brevemente due di questi approci, quello di Harvey Molotch e quello di
Andy Pratt, i quali si propongono, in modi molto diversi, di includere gli oggetti nell’analisi
dei network delle città creative.
Lash-up
Ne “La fenomenologia del tostapane”, il sociologo statunitense Harvey Molotch (2005) si dedica
allo studio dell’origine sociale del design, ovvero del perché gli oggetti sono disegnati così come
sono. Uno dei concetti portanti del testo è il lash-up, definibile come “la sinergia improvvisa che si
crea tra i diversi fattori, economici, tecnici, culturali e istituzionali che concorrono a dar vita a un
oggetto, ma anche, più in generale, a ogni nuova entità” (Martinotti, 2005, p. XI). Non si tratta solo
di un momento, storico e/o spaziale; il lash-up riguarda tutte le implicazioni materiali e simboliche
che normalmente vengono lasciate da parte dall’analisi sociologica. Nell’esempio dell’oggetto che
dà il titolo al testo, il tostapane è coinvolto in numerosi lash-up che tra l’altro comprendono: il
sistema elettrico domestico; le tradizioni alimentari statunitensi così come si sono costruite nel
corso del ‘900; lavoratori dell’ambito del design e della pubblicità che investono creativamente sul
tostapane; consumatori che aderiscono a un set di stili di vita che includono il tostapane; una
notevole quantità di sistemi industriali che producono la componentistica del tostapane e degli altri
oggetti che con questo hanno a che fare.
Un approccio di questo tipo va oltre l’istanza ormai tradizionale dello studio del consumo nelle
scienze sociali che vede la merce come scelta simbolica per dichiarare adesione o conflitto con
determinati standard sociali (Veblen, 1999) ed anche oltre allo studio della critica sociale del gusto
così come l’ha impostata Bourdieu (Bourdieu, 1979). Il testo di Molotch propone, latourianamente,
di affrontare un viaggio di andata nel quale si esamina il processo di costruzione sociale da parte
Bertram M. Niessen _ 2006 16
Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
degli esseri umani degli oggetti ed un viaggio di ritorno nel quale si cerca di capire come gli oggetti,
costruiti socialmente ma ormai dotati di statuto ontologico autonomo, agiscano di per sé sugli esseri
umani. Si tratta, quindi, di vedere gli oggetti come qualcosa di più di un fatto materiale e qualcosa
di più di un fatto simbolico, o meglio come tutte e due le cose ad un tempo: un fatticcio (Latour,
1996).
Il contributo che una riflessione di questo tipo dovrebbe portare allo studio delle città creative
consiste nell’ampliare l’analisi oltre lo studio delle sole dinamiche sociali che le attraversano fino
ad arrivare ad una comprensione dei meccanismi attraverso i quali attori sociali e oggetti producono
innovazione; inoltre, dovrebbe essere in grado di guidarci verso una comprensione ampliata delle
dinamiche che coinvolgono i designers nelle industrie creative attraverso uno studio dei network nei
quali sono coinvolti i designers e gli oggetti da loro disegnati.
Un approccio di questo tipo è estremamente ambizioso, e pochi percorsi di ricerca sono riusciti a
portarlo fino in fondo (si veda ad esempio Despret, 2002). Anche il testo di Molotch non riesce a
mantenere le sue promesse iniziali; nonostante la piacevolezza del testo e numerose intuizioni
intriganti, fino a questo momento il percorso del sociologo americano si riduce a una lunga
aneddotica riguardo la professione del designers ed a alcuni Lash-up curiosi e divertenti, come
quello per il quale le misure dei razzi NASA sono condizionate dalle misure anatomiche dei cavalli
(Molotch, 2005, p.253 n 24). In breve:
1) non è chiaro quali elementi debbano essere presi in considerazione in un lash-up e quali lasciati
fuori;
2) utilizzare l’approccio dei fatticci (o ”antropologia simmetrica”) per scoprire l’origine sociale
degli oggetti e poi interpretare il resto secondo procedimenti non-simmetrici non può essere
soddisfacente; come in molte analisi che prendono concetti dal lavoro di Latour, non è chiaro
come gli oggetti agiscano sugli esseri umani;
3) nell’analisi di Molotch compaiono persone, oggetti, spazi, network, senza che siano sempre
chiare le relazioni che intercorrono tra loro, come si strutturano e come si modificano; il che è il
risultato, probabilmente, di una scrittura che è (e vuole essere) più aneddotica che analitica;
4) l’autore sostiene che, al di là dei “parametri esatti” ricercati dai sociologi, esistono differenze tra
una città e l’altra che hanno a che fare con “l’apparato di sensazioni” (Williams, 1973)
mobilitato da una città piuttosto che da un'altra, e che questo clima cognitivo-emotivo influisca
in modo determinante sui prodotti creativi che nella città si formano (Molotch, 2005, p. 209);
questa argomentazione ha la forza del senso comune, e negarla in toto sarebbe inutile, oltre che
controintuitivo. Nonostante ciò, la reificazione del genius loci di una città è un’operazione
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
spesso azzardata (come sanno gli urbanisti, nel cui ambito disciplinare si è sviluppata
un’animata discussione al proposito negli ultimi anni), oltre a costituire l’equivalente logico di
una sineddoche: la Roma degli anni ’50 era quella della Bella Vita o quella delle borgate narrate
da Pasolini, o quella degli sporchi, brutti e cattivi che nessuno aveva ancora mai raccontato?
Actor Network Theory
Un tentativo molto diverso di utilizzare alcuni spunti provenienti dal lavoro di Latour è quello di
Andy Pratt, il quale propone L’Actor Network Theory (ANT) come chiave di lettura delle
convergenze locali di creatività e innovazione (Pratt, 2000) nell’ambito dei new media. L’ANT è un
tentativo di risolvere l’annosa questione della relazione tra azione e struttura nelle scienze sociali
che si distanzia dalla teoria della strutturazione proposta da Giddens (Giddens, 1984); se
quest’ultima ontologizza la società come uno sfondo, o contesto, preesistente nel quale gli elementi
indagati sono “unità, nodi o connessioni” (Pratt, 2000, p. 5) nel quale gli elementi possono essere
misurati e di cui può essere determinata l’efficienza di connessione, l’ANT considera i network
come spazi performativi, continuamente costruiti, de-costruiti e ri-costruiti da attori che non sono
solo umani, ma anche animali, oggetti inanimati e spazi; “in breve i network sono il prodotto del
processo: sono un effetto” (Pratt, 2000, p. 5). I network, creativi e non, sono continuamente
all’opera per “arruolare” al loro interno nuovi attori, ovvero per tradurne aspirazioni e punti di vista
in forme armonizzabili con quelle già presenti. Un esempio di network inteso in questo senso può
essere un supermercato: si tratta di un network costituito da attori umani (proprietari, commessi,
magazzinieri, uomini delle pulizie, clienti) e non-umani (sistema elettronico per la contabilità,
lettori di codici a barre, etc); l’ANT imposta l’analisi del network-supermercato come un’analisi
semiotica e materiale di tutti gli attori coinvolti.
Partendo da una critica costruttivista del concetto di “fattore” (che per l’autore non è un dato per
scontato, ma un elemento costruito), Pratt sostiene che “esistono diverse vie per costruire un luogo
per i new media, e che esistono diverse costruzioni di cosa un luogo dei new media sia/debba
essere” (Pratt, 2000, p. 13). In questo senso, viene mossa una critica implicita agli approcci sul
genere di quelli di Scott (si veda sopra), evidenziando come una notevole quantità di competenze
non istituzionalizzate e normalizzate si ricombinino in ogni caso particolare, venendo mediate con
le competenze già istituzionalizzate ogni volta in modi diversi. Un punto molto interessante a
questo proposito è che, nella ricerca dell’autore sullo sviluppo dei new media in 6 città, non sono
state evidenziate regolarità specifiche riguardo alla distribuzione spaziale delle industrie, la cui
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
dislocazione sul territorio risulta connessa indissolubilmente alle specificità storiche urbane (Pratt,
2000, p. 17).
Un elemento a favore di questo approccio sembra essere la capacità di tenere assieme, grazie al
ricorso alla categoria di ibrido (utilizzata proficuamente sul piano teorico da Latour (Latour, 1993;
1996) e da Haraway (Hraway, 1991)), diverse comunità di attori, dalle organizzazioni project-
based/ibride/virtuali ai quartieri culturali agli hub dei media digitali. In questo senso, comprendere
un network creativo implica la comprensione di come gli attanti (attori umani e non umani) si
strutturino in un sistema complesso di feedback incrociati relativi alle sfere della produzione
materiale e simbolica, non solo in termini industriali.
Inoltre, questa lettura sembra avere il vantaggio, rispetto alle precedenti, di tenere conto anche degli
elementi conflittuali: un esempio calzante citato da Pratt è quello della città di Austin, nella quale
attraverso un progetto educativo si è verificata una saldatura tra la Elettronic Frountier Foundation
(gruppo di attivisti che si occupa dei cyberights, i nuovi diritti digitali) e alcuni autori della corrente
cyberpunk. Come abbiamo visto, questo punto è uno di quelli maggiormente deboli negli approcci
della classe creativa (per motivi eminentemente politici, legati all’incompatibilità della prospettiva
neoliberista con istanze di questo genere) e del campo creativo (probabilmente a causa delle
complessità analitiche e teoriche relative all’integrazione di singoli e gruppi scarsamente
istituzionalizzati all’interno di un’analisi che si rivolge principalmente alle istituzioni).
Un terzo punto che sembra indicare l’utilità dell’approccio ANT alle città creative è la questione
della coerenza interna del network. Evidenziando come la natura di questi ultimi sia situata,
provvisoria e performativa, si aprono delle prospettive nello studio di come i network, di volta in
volta, funzionino o meno (si veda al proposito il contributo di Callon, che stabilisce quattro fasi
nella costruzione di un network, ognuna delle quali passibile di successo o insuccesso con diverse
gradazioni: problematizzazione, interessamento degli altri attori, arruolamento, mobilitazione degli
alleati (Callon, 1986)).
Le critiche che si possono muovere ad un’impostazione di questo tipo sono intrinsecamente
connesse ai suoi punti forti:
1) se da un lato il ricorso a modalità metodologiche che cercano di tenere conto della complessità
dell’argomento trattato hanno la possibilità di svelare processi inediti e offrire nuove
prospettive13, dall'altra esiste il forte rischio che ci si indirizzi in una direzione nella quale non è
13 Si tratta, in parte di un “approccio cartografico, inteso come dettagliato, descrittivo e complesso, in grado di restituire la complessità (se non necessariamente sostantiva, almeno riflessiva) del momento storico in cui si sviluppano i fenomeni oggetto d’indagine” (Braidotti, 1995).
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
possibile compiere alcun tipo di generalizzazione o categorizzazione, il che implicherebbe una
messa in discussione di uno dei punti epistemologici centrali delle scienze sociali;
2) pur avendone la possibilità, sia in termini teorici che in termini retorici, Pratt si limita ad
enunciare la necessità del considerare esseri umani e non nei network senza indicare alcuna
linea di ricerca possibile in questo senso; l’approccio latouriano alla complessità del reale soffre
infatti di una notevole discrepanza tra il piano epistemologico e quello metodologico;
3) la critica mossa frequentemente all’ANT, che consiste nel denunciare l’ambiguità delle proprietà
di costruzione da parte degli attori non-umani, rimane centrale; sebbene i fautori dell’ANT
evidenzino come il concetto di network da loro utilizzato non preveda l’intenzionalità da parte
degli attanti, come gli attori non-umani riescano ad agire in un network rimane una questione
altamente discussa;
4) l’ANT può, in alcuni casi, spiegare il come di determinati fenomeni sociali e tecnologici, ma
non dà mai informazioni utili sul perché; esiste un forte rischio, quindi, che analisi
estremamente approfondite e dettagliate rimangano indissolubilmente legate ad una dimensione
esclusivamente descrittiva. Così come molti autori che utilizzano l’ANT sono debitori
dell’etnometodologia, le critiche a questo approccio sono simili a quelle mosse
all’etnometodologia.
Conclusioni
In questo paper abbiamo tratteggiato brevemente tre dei principali approcci alle città creative:
quello della classe creativa riconducibile Florida, quello dei campi creativi riconducibile a Scott e
quelli che abbiamo definito latouriani di Molotch e Pratt. Di ognuno di questi approcci
(diversamente diffusi, sedimentati e rielaborati nella comunità scientifica internazionale) abbiamo
cercato di evidenziare punti salienti e evidenze critiche; in queste conclusioni vorremo porre
all’attenzione del lettore alcuni punti conclusivi.
La letteratura sulle città creative sta raggiungendo una mole notevole; lo stesso non si può dire a
proposito del suo dettaglio e approfondimento: concetti fondativi come “classe creativa”,
“economia creativa” e “industria culturale” vivono ancora oggi in una forte ambiguità definitoria.
Lo stesso termine “città creativa” sembra essere una definizione-ombrello sotto la quale trovano
rifugio sistemi di rapporto tra città, economia, cultura e creatività talmente diversi da meritare un
approfondimento decisamente maggiore.
Il discorso sulla creative class continua a godere di buona salute nell’ambito dell’urban marketing in
virtù delle sue proprietà riflessive ed autopoietiche; in ambito accademico, al contrario, è stato
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Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
attaccato con efficacia da tanti punti di vista da risultare ormai “smontato” e inutilizzabile. Gli studi
più approfonditi, al momento, sembrano essere quelli che ruotano attorno all’unità d’analisi del
campo creativo; pur con una notevole coerenza teorica e metodologica, gli autori che hanno
utilizzato questo concetto sembrano essersi concentrati più su una serie di descrizioni di sistemi
geografico-economici che non su domande di tipo prettamente sociologico. Lo studio del lash-up di
Molotch, al momento, non ha soddisfatto le aspettative che aveva generato, anche se è legittimo
aspettarsi che l’autore statunitense sarà in grado, nei prossimi anni, di dare un seguito teoricamente
ed empiricamente più articolato al suo progetto di ricerca. L’approccio ANT proposto da Pratt,
d’altro canto, al momento risulta essere ancora allo stadio di una serie di interessanti e promettenti
spunti teorici ed epistemologici, i quali hanno il notevole pregio di essere in grado (almeno sul
piano, appunto, epistemologico) di risolvere, o meglio armonizzare, alcune problematiche lasciate
insolute dagli altri approcci: prima fra tutte, quella del rapporto tra conflitto sociale e città creative.
Come evidenziato, proprio sulla natura e sui processi del conflitto all’interno delle città creative non
sappiamo nulla: non sappiamo quali siano i rapporti tra diverse tipologie di città creative e diverse
tipologie di segregazione socio-spaziale (comportano sempre gentrification? Esistono buone e
cattive politiche pubbliche al proposito?); a parte pochi spunti (Peck, 2005) non sappiamo quali
siano le relazioni tra disuguaglianze sociali in generale ed economie creative (le città creative sono
più o meno diseguali delle altre città post-fordiste? Comportano delle specificità per le categorie
svantaggiate?); in questo ambito di studio, poco o nulla si è detto sul rapporto tra controculture,
sottoculture e città creative.
Le comunità di creativi (che vengono considerate come omogeneizzate nella ricerca della leisure da
Florida e nella ricerca di una soddisfazione economico-professionale da Scott) hanno davvero delle
specificità? Come cambiano da un luogo all’altro e come cambiano questi luoghi? Quali sono le
modalità di autorappresentazione che hanno e cosa comportano?
E, infine, qual è il rapporto tra le risposte a tutte le domande precedenti e i beni, materiali e
simbolici, che dalle città creative vengono originati?
Bertram M. Niessen _ 2006 21
Città creative: una rassegna critica sulla letteratura e sulle definizioni
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