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Scuola e culture. Materiali di antropologia della mediazione scolasticaElena Ravesi: In classe con Liao. Osservazioni antropologiche sull'inserimento di un alunno cinese in una scuolaromanaTesi di laureaUniversità degli Studi di Roma 'La Sapienza' - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in Letterea.a. 2002/2003Relatore: prof. Laura Faranda - Correlatore: prof. Alberto Sobrero
Documento pubblicato sul sito del Dipartimento di Studi glottoantropologici e Discipline musicali il 12 luglio 2004 -http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html
Capitolo IV
DINAMICHE, CONFLITTI E STRATEGIE EDUCATIVE NELLA
CLASSE MULTIETNICA
4.1 Organizzazione didattica, accoglienza e relazioni tra gli alunni:
una breve presentazione della classe
La classe all’interno della quale si è svolta l’attività di
osservazione, nel periodo compreso tra novembre del 2002 e giugno
del 2003, era una prima media composta da sedici allievi,
caratterizzata da un’alta concentrazione di alunni stranieri.
Oltre a Liao, il bambino cinese, nella classe, infatti, erano stati
inseriti Giovanni, un ragazzo moldavo, arrivato a Roma da pochi
mesi, e Nadia, rumena, in parte già secolarizzata in Italia. Erano
inoltre presenti due ragazzi rom: Mehira, macedone, ed Enver,
proveniente dalla Bosnia. In effetti, va rilevato che tutta la scuola è
caratterizzata da un’alta concentrazione di alunni rom, a causa della
presenza, nelle vicinanze, di un campo nomadi.
La giornata scolastica dei ragazzi si è articolata, nel corso
dell’anno, in otto ore da cinquanta minuti, tra le quali una dedicata
alla pausa per la mensa e per un successivo intervallo nel quale, in
149
genere, gli alunni delle classi a tempo prolungato, venivano
accompagnati dai loro insegnanti nel cortile antistante l’entrata.
Durante la mattinata erano inoltre previsti altri due intervalli di dieci
minuti ciascuno.
L’osservazione effettuata durante l’anno scolastico, ha per lo più
riguardato le ore di italiano, sia quelle di regolare lezione che quelle
di compresenza, nelle quali, spesso, si svolgevano attività di recupero
indirizzate a piccoli gruppi di alunni, oppure, si portavano avanti
lavori collettivi dedicati ad argomenti per lo più di natura
extracurricolare. Oltre alle ore di italiano, l’osservazione ha
riguardato anche alcune delle ore settimanali di matematica, di
educazione tecnica e di inglese, alle quali vanno aggiunti i momenti
di intervallo, trascorsi in classe, nei corridoi della scuola e nel
piazzale esterno.
Per ciò che riguarda il livello di competenza in L2 posseduto dagli
alunni stranieri, la cui analisi appare essenziale ai fini della
conoscenza dei processi di comunicazione e interazione all’interno
della classe, va sottolineato che Nadia, la ragazza rumena, ha
mostrato di conoscere perfettamente l’italiano, al punto che, le ore di
recupero effettuate dall’insegnante di lettere, raramente l’hanno
riguardata. Sia Giovanni che Liao, invece, giunti da pochi mesi in
Italia, presentavano, nei primi tempi, bassissimi livelli di competenza
nella lingua. Tuttavia, mentre l’alunno moldavo ha mostrato una
veloce tendenza all’acquisizione spontanea di sempre maggiori
competenze comunicative, soprattutto a livello lessicale, il bambino
cinese ha incontrato maggiori difficoltà di apprendimento
dell’italiano.
Enver presentava, invece, all’inizio dell’anno, un bassissimo
livello di scolarizzazione e di alfabetizzazione, pur parlando
150
correntemente l’italiano. Mehira, l’altra ragazza rom, avendo
frequentato regolarmente le elementari, secondo le informazioni
possedute dagli stessi insegnanti, ha mostrato, fin dall’inizio, a
differenza del suo compagno bosniaco, una maggiore familiarità con
le norme che regolano l’organizzazione della scuola.
Per ovviare alle difficoltà didattiche e linguistiche degli alunni
stranieri e italiani, come già sottolineato, sono stati avviati dei
percorsi di recupero e sostegno, sfruttando, in particolare, le ore di
compresenza.
La classe, fin dall’inizio, ha mostrato una chiara disponibilità
all’aiuto e all’accoglienza del bambino cinese che si è tradotta, nel
corso dell’anno, in un interesse generale nei confronti degli elementi
di “diversità”, primi tra tutti quelli linguistici, apportati dal
compagno straniero. Questo clima di generale comprensione ed
“empatia”, che si è creato in primo luogo attorno a Liao, ha per certi
aspetti finito per coinvolgere più globalmente tutti i ragazzi stranieri,
su sollecitazione degli stessi insegnanti. Peraltro, è a partire dalle
domande e dalle curiosità spontanee degli alunni che è stato possibile
realizzare una serie di attività e progetti interculturali indirizzati a
tutta la classe1.
Tuttavia, ad una più attenta osservazione, il gruppo-classe,
secondo le osservazioni degli stessi insegnanti, ha manifestato, nel
corso di tutto l’anno, anche una certa tendenza alla frammentazione,
accompagnata da momenti di isolamento ed autoisolamento dei
ragazzi con maggiori difficoltà di socializzazione.
Il gruppo delle ragazze, probabilmente anche per via della scarsità
numerica, ha mostrato, nonostante i litigi e le piccole incomprensioni
verificatesi durante l’anno, una certa coesione, che ha coinvolto non
1 Cfr. avanti, in questo capitolo, il paragrafo 4.5 Valorizzare la diversità: metodi, attività e percorsi interculturali.
151
soltanto Nadia, chiaramente integrata anche all’interno del contesto
più generale della classe, ma anche Mehira.
La ragazza, infatti, nonostante la tendenza all’“indipendenza” nei
confronti delle sue compagne, peraltro accentuata anche dalla scelta
individuale del tempo ridotto, ha comunque manifestato più volte
una certa volontà di contatto e di interazione, non sempre compresa
dal resto della classe. A questo riguardo, in effetti, occorre
sottolineare la presenza di alcuni episodi di tensione che si sono
verificati durante l’anno scolastico e che hanno riguardato anche le
ragazze con le quali Mehira ha avuto più contatti. La maggior parte
dei problemi sembravano riguardare, secondo quanto affermato dai
compagni, la tendenza da parte della ragazza a scherzare, usando in
modo eccessivo il contatto fisico e arrivando, in caso di conseguente
contrasto, anche all’uso violento delle mani.
Se, dunque, nel caso di Liao, l’uso del contatto fisico e delle spinte
e, più in generale, gli eccessi nell’uso del corpo, sono stati grosso
modo tollerati e giustificati2, la stessa cosa non si è verificata nei
riguardi di Mehira. E tuttavia, al di là di queste incomprensioni, è
stata evidente una certa tendenza alla riconciliazione, attraverso
manifestazioni d’affetto e di amicizia tra le ragazze.
Il gruppo dei ragazzi è apparso, invece, decisamente meno coeso.
Nel corso dell’anno scolastico, infatti, da un’iniziale situazione di
maggiore cooperazione e vicinanza, evidenziata anche dai giochi
collettivi, all’inizio organizzati con la partecipazione di tutti i
membri della classe, i ragazzi hanno manifestato una graduale
tendenza alla formazione di almeno due gruppi, comprovata anche
dalla suddivisione della classe durante i momenti ricreativi. I gruppi,
peraltro, sembravano contraddistinti da legami realizzati anche sulla
2 Cfr. sopra, nel capitolo III, il paragrafo 3.2 L’inserimento nella classe e il rapporto con i compagni.
152
base dell’andamento e della riuscita scolastica. Il fatto stesso che
Liao, con i suoi ottimi voti in matematica, sia entrato a pieno titolo,
nonostante le sue difficoltà linguistiche, nel gruppo degli allievi più
diligenti, sembra ancora una volta dimostrare la percezione di quella
comune base di partenza, costituita dalle esperienze pregresse di
“alunno diligente” in Cina. Lo stesso Liao, d’altronde, in varie
occasioni, ha esplicitamente sottolineato l’amicizia instaurata con gli
alunni che hanno ottenuto i migliori risultati scolastici3.
Il bambino moldavo, nonostante la velocità con cui è riuscito ad
apprendere l’italiano, ha faticato, invece, fin dall’inizio dell’anno, ad
inserirsi pienamente all’interno delle varie attività didattiche.
Se sul piano della socializzazione, infatti, Giovanni ha mostrato
una chiara volontà di inserimento e di interazione, su quello dei
risultati scolastici, ha invece manifestato, secondo l’opinione di tutti
gli insegnanti, una serie di difficoltà, legate soprattutto ad una scarsa
attenzione e partecipazione.
E tuttavia, anche sul piano dell’inserimento e della socializzazione
con i compagni, la sua “posizione” all’interno della classe, potrebbe
essere definita in termini di “integrazione subordinata”. Se da un
lato, infatti, Giovanni ha suscitato simpatia grazie all’atteggiamento
aperto e confusionario, dall’altro, secondo le impressioni riportate
dagli stessi docenti, la sua inclusione all’interno del gruppo-classe, è
apparsa condizionata da una serie di “debolezze” di natura culturale,
sociale e identitaria, che hanno generato una percezione ed
autopercezione della soggettività del bambino in termini troppo
spesso detrattivi.
Se, quindi, la “collocazione” di Liao, con tutte le difficoltà del
caso, all’interno della rete delle relazioni intrecciate tra i membri
3 Cfr. per approfondimenti sulle interazioni nel gruppo dei pari a scuola, ad esempio, J. HILL, La cultura della scuola ei gruppi dei pari, in F. GOBBO (a cura di), Antropologia dell’educazione…, pp. 159-70.
153
della classe, è apparsa abbastanza facile da individuare, più
complessa è sembrata la situazione di Giovanni. Pur avendo buoni
rapporti con tutti i compagni, il bambino ha in realtà stentato
nell’instaurare contatti privilegiati con i singoli alunni della classe.
L’unica eccezione, in questo senso, sembra essere rappresentata dal
rapporto più personale che il bambino ha intrattenuto, soprattutto
all’inizio dell’anno, con Nadia. La ragazza rumena, grazie alla
vicinanza sia linguistica che culturale al bambino moldavo, ha
inizialmente ricoperto per il compagno un ruolo di mediatrice,
mostrando, a sua volta, una maggiore familiarità nei confronti della
cultura e delle abitudini del paese d’arrivo.
La situazione più difficile da gestire, sia sul piano della
socializzazione che su quello della riuscita scolastica, è stata senza
dubbio quella di Enver. Sebbene nessun compagno abbia mai
manifestato espliciti atteggiamenti di antipatia ed intolleranza, una
sotterranea tendenza all’esclusione e autoesclusione ha fortemente
condizionato la presenza e l’inserimento del ragazzo rom all’interno
della vita di classe.
Il rifiuto delle attività di gruppo, l’ostentata volontà di isolamento
e la tendenza costante all’autodifesa, hanno influito fortemente,
secondo gli insegnanti della classe, sul rapporto tra Enver e i suoi
compagni, che, per usare un’espressione di Persichella, si è per certi
aspetti configurato come una «storia di incomprensioni e di fratture
comunicative»4. D’altro canto, sebbene non sia possibile parlare di
intolleranza o esclusione esplicita, anche da parte dei suoi compagni
sono emersi atteggiamenti di velata e sotterranea ostilità,
probabilmente dettati, anche e soprattutto, dalla percezione di una
4 V. PERSICHELLA, Indagine «Proteo» sull’inserimento degli alunni stranieri nelle scuole elementare e media di Bari,cit., p. 176.
154
distanza tra le esperienze e i vissuti soggettivi, che contribuiscono
alla formazione delle diverse “costellazioni identitarie”.
E tuttavia, nonostante queste difficoltà, secondo l’opinione degli
stessi insegnanti, nel corso dell’anno scolastico, all’interno della
classe, sembrano essersi venute a determinare anche una serie di
condizioni che hanno contribuito, per usare l’espressione di
Francesco Susi, all’instaurarsi di un “clima scolastico”, tutto
sommato favorevole, in modi, tempi e proporzioni diverse,
all’inserimento dei cinque ragazzi stranieri5. Se, infatti, la
disponibilità da parte della classe, non solo all’aiuto, ma anche
all’ascolto, nei confronti dell’allievo cinese è emersa in modo più
spontaneo e naturale, quella nei riguardi degli altri alunni stranieri, si
è venuta comunque a determinare in modo graduale durante l’anno
scolastico, agevolando la formazione di un clima collaborativo,
favorevole alla socializzazione tra i membri della classe. E, in questo
senso, le strategie educative messe in atto nel corso dell’anno
scolastico, sembrano aver contribuito alla formazione e al
progressivo coinvolgimento, in modi e in tempi diversi, di quasi tutti
gli alunni della classe.
Il “clima scolastico”, da questo punto di vista, sembra configurarsi
anche e soprattutto come finalità da perseguire, attraverso modalità
educative pensate e progettate sulla base della situazione di partenza.
Scrive ancora Francesco Susi: «Il “clima” [si definisce] anche per gli
orientamenti che strutturano l’agire scolastico e ne configurano la
“cultura”»6.
Il raggiungimento di queste positive condizioni, al di là delle
specifiche iniziative elaborate e messe in atto, sembra condizionato,
dunque, da una serie di fattori connessi ad una concezione e ad uno
5 Cfr. F. SUSI, L’educazione interculturale fra teoria e prassi, cit., pp. 61-2.6 Ivi, p. 62.
155
stile di insegnamento, considerato nella sua globalità. Dall’apertura
all’extrascuola, alla struttura aperta dei curricoli, fino all’attenzione
all’aspetto socio-affettivo e ai contatti tra i soggetti coinvolti, le
strategie educative realmente interculturali, sembrano dover tenere in
considerazione le diverse dimensioni del processo educativo, in tutta
la sua complessità.
4.2 L’oralità a scuola: il caso di Enver
L’inserimento sociale e scolastico di Enver all’interno della classe
ha, senza dubbio, rappresentato, uno dei principali problemi che gli
insegnanti hanno dovuto affrontare nel corso dell’anno scolastico.
Nonostante la competenza linguistica posseduta dal ragazzo, che, a
differenza di Giovanni e soprattutto di Liao, parlava correntemente
l’italiano, l’elaborazione di strategie educative adeguate, sia sul
piano della socializzazione, che su quello più strettamente didattico,
si è dimostrata una operazione estremamente complessa e non
sempre facile da realizzare.
Gli insegnanti della classe, infatti, trovandosi di fronte ad una
situazione caratterizzata da una quasi totale assenza del mezzo
scrittorio, hanno finito per svolgere il ruolo di veri e propri
“alfabetizzatori”, attraverso l’elaborazione di strategie didattiche
espressamente rivolte al bambino rom. E, in questo senso, i percorsi
pensati per l’inserimento del ragazzo, hanno teso, con le inevitabili
complessità della situazione, a ricercare un giusto equilibrio tra la
necessità impellente dell’alfabetizzazione da un lato, e l’esigenza di
non accentuare l’isolamento del bambino rispetto al gruppo-classe,
dall’altro. D’altronde, gli stessi materiali didattici selezionati, non
potevano che essere scelti sulla base di criteri diversi rispetto a quelli
utilizzati sia per le normali lezioni in classe che per il recupero
156
rivolto agli altri allievi in difficoltà. Il percorso didattico ideato per
Enver, ha previsto, insomma, come d’altronde quello per Liao, una
continua alternanza tra momenti di lavoro individualizzato e attività
collettive.
E tuttavia, il bassissimo livello di scolarizzazione e di
alfabetizzazione posseduto dal ragazzo, è parso condizionare
fortemente, non soltanto l’aspetto più propriamente didattico del
percorso scolastico, ma anche la dimensione sociale e affettiva, nel
rapporto con i compagni e con gli insegnanti.
In questi termini, anzi, va sottolineato come il piano didattico e
quello affettivo, si siano dimostrati inscindibilmente legati tra loro e
fortemente influenzati dallo “scontro” tra due modalità comunicative
diverse: quella scolastica, fortemente condizionata dal sistema
scrittorio, conosciuta e condivisa da tutti i membri della classe, e
quella dell’oralità.
L’universo di provenienza di Enver, contraddistinto da un sistema
comunicativo prevalentemente orale, è parso, in questo senso, pesare
fortemente sul processo di trasmissione delle conoscenze in ambito
scolastico, a causa di problemi di natura non soltanto strettamente
psicologica, ma anche e soprattutto culturale.
D’altronde, se, come sottolinea Callari Galli, è «ormai provata
l’interconnessione esistente tra le forme di comunicazione dominanti
in una società e il generale stile di vita di quel gruppo»7, è evidente
quanto la prevalenza dell’oralità, come principale strumento di
trasmissione presso i gruppi zingari, possa aver influito sulle
interazioni tra Enver, i suoi compagni e i suoi insegnanti.
Scrive ancora Callari Galli, a proposito della “cultura analfabeta”
che «il codice della parola-suono non è il codice della parola-scritta a
7 M. CALLARI GALLI, Antropologia culturale e processi educativi, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1993, p. 229.
157
cui manca qualcosa: appunto il segno grafico»8. Siamo in presenza,
dunque, non di un “vuoto” nel sistema comunicativo, ma di due
“mondi”, di due sistemi culturali, contraddistinti da modalità
conoscitive diverse e, per certi aspetti, anche contrapposte.
Tra le due culture esistono, quindi, delle sostanziali differenze che
riguardano non soltanto le modalità di trasmissione, ma,
inevitabilmente, anche quelle di percezione ed interpretazione della
realtà, con il coinvolgimento delle stesse dimensioni spazio-
temporali, così come della categoria di causalità, centrale nell’ambito
dei processi educativi messi in atto all’interno del contesto
scolastico9.
A queste differenti concezioni delle categorie di spazio, tempo e
causalità sembrano, inoltre, corrispondere differenti modalità
relazionali, nell’ambito della formazione dei legami sociali e
comunitari10.
Per tornare alla situazione specifica, è possibile, a questo punto,
avanzare l’ipotesi che le consistenti difficoltà incontrate da Enver,
tanto sul piano della socializzazione, quanto su quello
dell’apprendimento, siano state determinate anche e soprattutto
dall’esistenza di una diversa modalità di conoscenza, legata, in primo
luogo, all’oralità, intesa come “generatrice” di una specifica cultura.
Anche Demetrio, a questo riguardo, mette in luce, tenendo sempre
in considerazione l’oggettiva uniformità psichica e intellettiva del
genere umano, come i differenti contesti culturali di provenienza,
finiscano per condizionare fortemente, al di là dell’aspetto soggettivo
sempre presente, gli stili cognitivi e comunicativi dei singoli
8 Ivi, p. 243.9 Sulla concezione di tempo, spazio e causalità nella “cultura analfabeta”, ad esempio, cfr. Ivi, pp. 229-60, ed anche G.HARRISON, M. CALLARI GALLI, (I ed. 1971)Né leggere né scrivere. La cultura analfabeta: quando l’istruzionediventa violenza e sopraffazione, Roma, Meltemi, 1997, in partic. pp. 81-90 e pp. 113-29.10 Cfr. sull’argomento, ad esempio, G. HARRISON, M. CALLARI GALLI, Né leggere né scrivere…, cit., pp. 91-111.
158
individui coinvolti e, con essi, le varie strategie inculturative messe
in atto all’interno dei diversi gruppi culturali11.
In sostanza, secondo una prospettiva di tipo etno-cognitivo, il
pensiero stesso, tenendo sempre presente l’esistenza di caratteri
costitutivi indipendenti e a se stanti, «sembra assumere […]
fondamenti specifici e caratteri distintivi a seconda della forma
espressiva realizzata, del codice prescelto»12.
E, dunque, per tornare al problema specifico relativo ai
meccanismi educativi, è necessario, a questo punto, tener conto del
fatto che il processo stesso di produzione del pensiero, nell’ambito
del percorso di formazione, è strettamente connesso allo specifico
ambiente, fisico e culturale, in cui il soggetto si trova a crescere ed
operare13.
Quindi, se alla base «dei nostri costumi, comportamenti, stili di
vita, ci sono “modi di pensare” che differiscono in rapporto alla
ripetitività mediante la quale si consolidano culturalmente»14, i
sistemi educativi scolastici si trovano, in questi termini, nella
inevitabile condizione di doversi confrontare con i differenti processi
di apprendimento originari.
Le difficoltà incontrate da Enver, sembrano, in questo senso,
costituire un esempio di incomprensione legata proprio ad una
diversa modalità di comunicazione e di trasmissione delle
conoscenze, rispetto a quella generalmente utilizzata nell’ambito dei
meccanismi di insegnamento-apprendimento di tipo scolastico.
Prestando sempre particolare attenzione ai rischi di classificazioni
11 Cfr. D. DEMETRIO, G. FAVARO, Immigrazione e pedagogia interculturale…, cit., pp. 12-6.
12 M. SQUILLACCIOTTI, Le tecnologie del pensiero e le culture altre, in «Rivista dell’Istruzione», ann. XII 1996, n. 6,pp. 939-57, a p. 946.13 Cfr. Ivi, p. 948. In particolare, può essere sottolineato il ruolo della società di appartenenza nel “selezionare” lecompetenze cognitive necessarie ai singoli individui. Cfr., ad esempio, ID., La parola, l’immagine e la scrittura: unaprospettiva etno-cognitiva, in «Thule. Rivista di Studi Americanisti», 1998, n. 4/5, pp. 9-21, alle pp. 11-2.14 D. DEMETRIO, G. FAVARO, Immigrazione e pedagogia interculturale…, cit., p. 14.
159
troppo nette, antropologi cognitivi e psicologi sembrano concordi, a
questo riguardo, nell’evidenziare come il modo di comunicazione
scritta influisca, ad esempio, sul processo di decontestualizzazione
della conoscenza o, ancora, sulla formazione di un differente tipo di
memoria, basata sul riordinamento dei messaggi15.
Per tornare al caso specifico di Enver, sembra a questo punto
plausibile ipotizzare che le difficoltà incontrate dal ragazzo
nell’afferrare le spiegazioni stesse degli insegnanti durante le ore di
recupero, così come l’incertezza mostrata nell’elaborazione dei
disegni tecnici, siano attribuibili proprio alla mancanza di familiarità
con questa modalità di trasmissione e di apprendimento.
A tutto questo, si è aggiunta, talvolta, nel corso dell’anno, una
chiara tendenza, certamente derivata dalla difficoltà di adeguamento
ad un diverso stile comunicativo, alla disattenzione nei confronti di
ciò che gli insegnanti cercavano di far apprendere al bambino. Non a
caso, in questo senso, Amadei, annovera, tra le varie difficoltà di
integrazione riscontrate presso gli alunni rom, proprio la labilità di
attenzione e memoria16.
Gli stessi esercizi proposti sui libri di testo, pensati e realizzati
sulla base di regole e meccanismi astratti dal contesto reale, in grado
di facilitare l’apprendimento per gli altri ragazzi stranieri e non,
finivano per costituire, nel caso di Enver, un’ulteriore complicazione
rispetto alle già ingenti difficoltà di alfabetizzazione incontrate dal
ragazzo.
A questo riguardo, potrebbe non essere un caso che, mentre gli
altri ragazzi, posti, ad esempio, di fronte alla necessità di individuare,
15 Cfr., per una breve rassegna dei principali studi relativi a questi aspetti dell’oralità e della scrittura, M.SQUILLACCIOTTI, Le tecnologie del pensiero e le culture altre, cit., pp. 939-46; e sul caso specifico dei rom L.PIASERE, Conoscenza zingara e alfabetizzazione, in ID., Popoli delle discariche. Saggi di antropologia zingara,Roma, CISU, 1991, pp. 157-80, in partic. pp. 168-72.16 M. AMADEI, R. BOCCHIERI, A. GIROLAMI, R. PULEO, A. RICCI, R. ROSSI, Un omnibus per i rom. Note per unadidattica in presenza di alunni zingari, Roma, Il Ventaglio, 1994, p. 78.
160
all’interno di un insieme di parole, espressioni contenenti gruppi
consonantici particolari, come “gl” o “gn”, procedevano seguendo un
ordine basato proprio sul meccanismo di lettura (da sinistra a destra,
dall’alto in basso), Enver procedeva attraverso un ordine sparso, che,
spesso, lo poneva in condizioni di tralasciare alcune delle parole in
questione.
L’oralità di Enver, dunque, non ha rappresentato un semplice
problema di ritardo scolastico, da compensare attraverso interventi
aggiuntivi di alfabetizzazione, ma ha avuto implicazioni più generali,
finendo per incidere sull’intero percorso di apprendimento, nonché
sul rapporto insegnante-alunno. Peraltro, le difficoltà legate alla
mancanza del mezzo scrittorio hanno coinvolto, non soltanto le
materie più strettamente legate alla sfera linguistica, ma anche quelle
tecniche e matematiche.
Scrive, a questo proposito Bocchieri, confermando l’inevitabile
importanza dell’aspetto culturale nell’ambito dei processi educativi,
che «l’aspetto formale della matematica è bel lontano dalla cultura
dei rom la cui ricchezza deriva proprio dalla continua immersione
nell’esperienza»17.
Un analogo discorso potrebbe quindi essere fatto in relazione, per
portare altri esempi significativi, alla realizzazione dei disegni
tecnici. Le difficoltà incontrate dal bambino nella riproduzione dei
disegni, potrebbero essere attribuite, in questo senso, proprio
all’inevitabile carattere astratto e decontestualizzato delle figure
geometriche da realizzare.
All’oralità, considerata nella sua dimensione culturale, nel caso
concreto di Enver, si aggiunge, peraltro, l’appartenenza ad un gruppo
etnico ben preciso, con una sua specifica identità culturale.
17 M. AMADEI, R. BOCCHIERI, A. GIROLAMI, R. PULEO, A. RICCI, R. ROSSI, Un omnibus per i rom…, cit., pp 201-320,p. 205.
161
I rom, a questo riguardo, come sottolinea chiaramente Piasere,
tendono a preservare l’oralità della loro cultura, vivendo «immersi
nell’ambiente più letterato e scolarizzato del mondo, che adopera in
modo intensivo, se non ossessionante, la scrittura»18.
In tal senso, l’oralità, già di per sé apportatrice di elementi
culturali propri, indipendentemente dall’eventuale presenza di una
specifica identità etnica, sembra caricarsi di ulteriori significati,
connessi anche ai più generali rapporti esistenti tra la cultura zingara
e quella occidentale. E, in effetti, i rom non sembrano attribuire
eccessivo valore alla capacità di leggere e scrivere, considerandola,
anzi, come un semplice strumento pratico che consente loro di
interagire con l’ambiente circostante, nei confronti del quale
oppongono una continua e costate resistenza. Quello che insomma i
gruppi zingari chiedono ai paesi di accoglienza, anche attraverso le
loro strutture educative è, in effetti, una parziale opera di
alfabetizzazione, che Piasere, non a caso, definisce come un
“alfabeto incompleto”19.
La parziale richiesta di alfabetizzazione avanzata dai rom, sembra
configurarsi, dunque, in questi termini, come una presa di coscienza
dell’utilità pratica del mezzo scrittorio, senza per questo valorizzarla
in quanto strumento di acquisizione di prestigio.
L’atteggiamento a volte rinunciatario o eccessivamente distaccato
di Enver nei confronti del percorso di alfabetizzazione, potrebbe, in
questo senso, essere dovuto non soltanto alle oggettive difficoltà
incontrate dal ragazzo, legate allo scarto vissuto tra due differenti
modalità comunicative, ma anche alla scarsa importanza che,
all’interno dell’universo di origine, viene generalmente attribuita
all’alfabetizzazione.
18 L. PIASERE, Conoscenza zingara e alfabetizzazione, cit., p. 168.
162
A tutto questo si sono aggiunte una serie di difficoltà di altra
natura, legate, in primo luogo, ai problemi che il ragazzo ha
incontrato nel socializzare e nell’interagire con i compagni.
Mentre, infatti, nei casi di Liao e di Giovanni, entrambi
naturalmente alle prese con problemi linguistici di altro tipo, si è
senza dubbio venuta a determinare una situazione che ha facilitato
l’emergere di una crescente motivazione ad apprendere, nel caso di
Enver, gli stessi problemi di socializzazione con i compagni, possono
aver influito sul raggiungimento degli obiettivi didattici.
E tuttavia, un percorso di alfabetizzazione e di apprendimento di
nuove conoscenze si è verificato anche nel caso di Enver.
Dall’iniziale fase in cui il ragazzo, stando alle stesse testimonianze
degli insegnanti, faceva fatica a seguire le righe stampate sul foglio
del quaderno, o a tracciare una linea tra due punti, Enver è passato
dapprima alla scrittura in stampatello e poi in corsivo, acquisendo,
gradualmente, una sempre maggiore competenza nella lettura. Anche
nel caso del ragazzo rom, così come, per altri versi, in quello di Liao,
è possibile, dunque, parlare di un graduale percorso di adeguamento
alla nuova realtà circostante che, nel caso di Enver, ha significato,
addirittura, l’acquisizione di familiarità con nuovi modelli
comunicativi. E tuttavia, nella situazione di Enver, lo scarto tra i due
universi, quello di appartenenza e quello di approdo, è apparso più
difficile da conciliare, al punto da costituire, a volte, un ostacolo
insormontabile. L’apprendimento dell’alfabeto, insomma, per quanto
“incompleto”, non è andato a riempire un vuoto, ma ha in parte
sostituito una modalità conoscitiva, con tutte le sue valenze e
implicazioni culturali, con un’altra, configurandosi, in questi termini,
anche come strumento assimilativo, nei confronti di una cultura che
19 Ivi, pp. 164-72.
163
utilizza l’oralità come “tecnologia del pensiero”20 e la scrittura come
mero strumento di mediazione con l’esterno.
4.3 Un’identità negata: l’inserimento dei rom nella classe
I problemi più consistenti che, sul piano dell’inserimento sociale,
gli insegnanti della classe si sono trovati ad affrontare, hanno per lo
più riguardato i due alunni rom.
Sebbene, infatti, all’interno della classe, non si siano mai verificati
episodi di intolleranza o di ostilità manifesta nei confronti dei due
ragazzi, tutta una serie di elementi lasciano supporre, comunque,
l’esistenza di una sottostante diffidenza, alimentata e rafforzata da
piccole incomprensioni reciproche.
Sia Enver che Mehira si sono, infatti, trovati ad affrontare
momenti di tensione che hanno coinvolto anche i compagni con i
quali avevano in vario modo intrecciato rapporti più solidi.
Dall’accusa di usare le mani scherzando in modo eccessivo, ai
litigi determinati da un atteggiamento di “difesa preventiva”, Mehira,
ad esempio, ha attraversato momenti di più o meno forte contrasto
anche nei confronti delle sue amiche della classe, generalmente
affettuose nei suoi riguardi. D’altronde, la ragazza stessa ha
sottolineato, in occasione del confronto scaturito da un litigio, di
sentirsi in qualche modo attaccata ingiustamente da tutti i suoi
compagni schierati contro di lei.
Da questo punto di vista, il caso di Enver, si è configurato anche
più complesso e difficile da affrontare.
A partire dall’inizio dell’anno, infatti, Enver, che, peraltro, stando
alle testimonianze degli operatori dell’ARCI, tra tutti i ragazzi del
20 Cfr. per l’espressione M. SQUILLACCIOTTI, Le tecnologie del pensiero e le culture altre, cit..
164
campo, era quello che manifestava più entusiasmo nei confronti della
nuova esperienza scolastica, ha dovuto affrontare crescenti difficoltà
relative alla sfera dell’inserimento sociale, culminate, a volte, in veri
e propri episodi di incomprensione e di forte contrasto soprattutto nei
confronti di Liao.
In effetti, il ragazzo è parso vivere, all’interno della classe, dei
momenti di forte isolamento, nei quali, l’iniziale spinta più o meno
esplicita alla socializzazione, ha lasciato il posto, anche per reazione
e per autodifesa, secondo le impressioni degli stessi insegnanti, ad un
atteggiamento di più netta chiusura verso i compagni.
In diverse occasioni, infatti, nel corso dell’anno, Enver ha
trascorso da solo non soltanto le ore dedicate ai lavori di gruppo, ma
anche i momenti ricreativi, giocando separatamente con il pallone, o
osservando da lontano i compagni impegnati nei giochi collettivi.
Se, da un lato, è per versi possibile parlare di un atteggiamento di
chiusura e di ostentata indifferenza nei confronti della vita della
classe, dall’altro, questo autoisolamento si è configurato anche e
soprattutto come reazione ad una disparità di trattamento da parte dei
compagni nei suoi riguardi.
Ed effettivamente, secondo le osservazioni degli stessi insegnanti,
se da parte della classe nei confronti di Liao si è manifestato uno
spontaneo spirito di collaborazione prima, e una ricerca di dialogo
poi, nei riguardi di Enver, l’aiuto e il sostegno sono emersi quasi
sempre come risposta alla sollecitazione più o meno esplicita degli
insegnanti.
Il generale clima collaborativo, insomma, nel più globale
coinvolgimento dell’intero gruppo-classe, ha finito per investire
anche il ragazzo rom, ma quasi sempre come risultato di stimoli,
165
iniziative e incoraggiamento dall’esterno e non come frutto di
spontanea e reciproca ricerca di contatto e di riconoscimento.
In questo senso, come già ampiamente sottolineato in relazione al
percorso di alfabetizzazione, Enver e, per certi aspetti, anche Mehira,
sembravano non condividere con il resto dei loro compagni, una
serie di competenze legate alle regole dell’interazione e della
socializzazione all’interno della scuola.
Se, quindi, per Liao, la cultura della scuola ha costituito, in quanto
esperienza condivisa, un forte elemento di contatto con i compagni
italiani e stranieri21, nel caso dei rom e, in particolare di Enver, ha
molto probabilmente rappresentato una barriera, spesso insuperabile,
e un ostacolo alla comprensione e alla comunicazione reciproca.
D’altro canto, come già evidenziato, il generale atteggiamento
della cultura rom nei confronti della scuola si configura come
completamente diverso, se non addirittura opposto, rispetto a quello
tipico della maggior parte delle famiglie cinesi22.
D’altronde, quell’ambivalenza manifestata da parte dei gruppi
zingari nei confronti dell’apprendimento dell’alfabeto, svalutato
come tecnica di trasmissione ma, al contempo, considerato
importante come strumento di mediazione, finisce per ripresentarsi, a
maggior ragione, anche nei confronti del più globale processo di
scolarizzazione.
Come sottolinea, infatti, Amadei, dal punto di vista degli zingari,
la scuola finisce per presentarsi semplicemente come uno dei tanti
spazi dei Gagè, al punto che la frequenza irregolare, il livello di
apprendimento, così come gli eventuali insuccessi dei loro figli, si
21 Cfr. sopra, nel capitolo III, il paragrafo 3.2 L’inserimento nella classe e il rapporto con i compagni.22 Cfr. sopra, nel capitolo III, il paragrafo 3.1 Il bambino e la sua famiglia: una breve presentazione.
166
configurano come un problema della scuola, più che della comunità
zingara23.
D’altronde, tutte le indagini condotte, anche in altri paesi,
mostrano proprio come l’avversione alla scolarizzazione sia
«storicamente e geograficamente diffusa fra le comunità zingare di
tutto il mondo»24, configurandosi, in questo senso, come «frutto di
una precisa scelta culturale»25.
Se, dunque, la mancanza di partecipazione alla vita scolastica da
parte della famiglia di Liao, poteva essere attribuita all’abitudine a
demandare l’educazione dei giovani alle istituzioni pubbliche,
l’“assenza” dei genitori rom, pressoché totale nel caso di Enver, va
probabilmente collegata ad una generale svalutazione del sistema
educativo dei paesi ospitanti, nella maggior parte dei gruppi nomadi.
In altri termini, la scuola, presso i rom, finisce per essere privata di
quella funzione culturale ed educativa, che la società di accoglienza
tende a conferirle26.
In questo senso, gli alunni rom, finiscono per differenziarsi,
rispetto ai loro compagni italiani o stranieri, anche e soprattutto a
causa della mancata condivisione di quella cultura scolastica che
nasce, in primo luogo, attraverso un processo di attribuzione di
valore simbolico, oltre che reale, che precede anche l’effettiva fase di
scolarizzazione.
I compagni di Enver e Mehira, in altri termini, hanno
probabilmente percepito, in contrapposizione netta rispetto a quanto
accaduto nel caso di Liao, uno scarto tra due differenti impostazioni
23 Cfr. M. AMADEI, R. BOCCHIERI, A. GIROLAMI, R. PULEO, A. RICCI, R. ROSSI, Un omnibus per i rom…, cit., p. 85.
24 S. COSTARELLI, Vita zingara in quattro paesi europei, in ID. (a cura di), (ed. or. 1993), Crescere zingaro, Unicef-Icdc, Firenze-Roma, Unicef-Anicia, 1994, pp. 73-87, p. 81.25 Ivi, pp. 81-2.26 Cfr. sull’argomento anche G. COCCHI, M. GIUSTI, M. R. MANZINI, T. MORI, L. M. SAVOIA, L’italiano come L2nella scuola dell’obbligo…, cit., p. 117.
167
culturali, legate in primo luogo alla diversa considerazione nei
riguardi della scuola.
D’altra parte, se, da un lato, i rom non attribuiscono alla scuola la
valenza educativa che le viene assegnata invece dalla società di
accoglienza, dall’altro, la scuola stessa si configura come espressione
di una cultura decisamente lontana dalla visione e dal modo di
pensare degli stessi zingari.
Non soltanto le strategie educative esplicite, infatti, rimandano,
all’interno del contesto scolastico, ad una modalità comunicativa
tipica della cultura della società di accoglienza, ma anche quei
«curricola “segreti”, nascosti nelle pieghe delle organizzazioni
spaziali e temporali dell’istituzione scolastica»27. In questo senso,
dalla suddivisione delle aule, ai rapporti tra gli spazi chiusi e aperti,
fino al raggruppamento degli alunni sulla base dell’età, i messaggi
impliciti legati alla specifica modalità di organizzazione spazio-
temporale della cultura occidentale, rimandano ancora alla
dimensione della scrittura. Scrive a questo riguardo Fileni che «la
cultura dominante alfabetizzata deriva la sua concezione spaziale
principalmente proprio dal suo essere alfabetizzata: come la scrittura
è un insieme lineare di lettere [...] che trattengono la loro evidenza
dallo spazio occupato [...] così i nostri oggetti posti gli uni accanto
agli altri definiscono il nostro spazio abitativo, la nostra città, il
nostro modo di percepire lo spazio utilizzato»28.
La scuola, dunque, con la sua organizzazione lineare dello spazio e
del tempo e con le sue regole, presentandosi, per riprendere le parole
di Fileni, come espressione coerente di una “cultura digitale”, finisce
27 M. CALLARI GALLI, Antropologia per insegnare. Teorie e pratiche dell’analisi culturale, Milano, Mondatori, 2000,p. 96.28 F. FILENI, (I ed. 1984), Analogico e digitale. La cultura e la comunicazione, Roma, Edizioni Goliardiche, 1997, p.207.
168
per configurarsi, in molti dei suoi aspetti, come estranea all’universo
di provenienza dei rom.
D’altra parte, all’interno della cultura zingara, come sottolinea
ampiamente Piasere, esistono meccanismi educativi sostanzialmente
differenti rispetto a quelli messi in campo nell’ambito dell’istituzione
scolastica. Infatti, come mette in luce l’autore, a dispetto della
tendenza da parte degli osservatori esterni a percepire un “vuoto
educativo” nel rapporto genitori-figli, va sottolineata, invece, la
presenza, all’interno della cultura zingara, di «un “modo di
educazione” potente, relativamente ai fini richiesti, che in parte varia
da gruppo a gruppo, ma che sembra presentare delle caratteristiche
comuni»29. Lontani dalla concezione stessa di un’organizzazione
educativa basata su momenti di trasmissione a se stanti, separati e
decontestualizzati, i rom concepiscono, infatti, i rapporti inculturativi
in termini di continuità, attraverso una “catena” ininterrotta, sulla
base della quale «un bambino può contemporaneamente essere
educando ed educatore»30, esercitando una trasmissione delle
conoscenze priva di rotture e discontinuità.
Proprio questo profondo scarto tra i due tipi di meccanismi
educativi, con le inevitabili differenze di atteggiamento nei confronti
della scuola, può essere posto alla base di gran parte delle
incomprensioni tra Mehira ed Enver da un lato, e i loro compagni
italiani e stranieri dall’altro.
Se, nel caso di Liao, quindi, l’individuazione di una comune base
di partenza, costituita da un insieme di esperienze umane, ha
consentito al resto della classe prima il riconoscimento e poi
l’attribuzione di legittimità all’alterità, nei riguardi dei due ragazzi
29 L. PIASERE, Conoscenza zingara e alfabetizzazione, cit., p. 176.30 Ivi, p. 177.
169
rom, la percezione della distanza culturale, è sembrata, per certi
aspetti, prevalere rispetto a qualsiasi altro punto di contatto.
Evidentemente, al di fuori di quelle comunanze, tratte dalle
esperienze soggettive ed individuali, l’“altro” finisce per configurarsi
nuovamente come evocatore di paure, legate alla perdita di quelle
coordinate culturali che «costituiscono le “mappe” sicure della nostra
sopravvivenza»31. Ed, in questo senso, l’alterità degli zingari, non
può che tendere a presentarsi tanto più minacciosa, proprio perché
interna e vicina.
É proprio la mancata individuazione di comuni esperienze,
dunque, che può aver determinato una percezione ed una
conseguente definizione dei due ragazzi quasi sempre in termini di
“sottrazione” e di “mancanze”. Mentre Liao, in questo senso, è stato
considerato dai suoi compagni come un alunno che legge, scrive e
parla un’altra lingua e, per questo, in grado peraltro di destare la loro
attenzione e curiosità, Mehira e soprattutto Enver, sono stati per lo
più etichettati dalla classe come “incapaci di leggere e scrivere”.
Là dove, insomma, sarebbe stato necessario individuare una
differenza, i ragazzi della classe hanno teso a riscontrare un “vuoto”,
negando l’identità stessa dei due ragazzi rom.
Le difficoltà riscontrate dai docenti della classe ad estendere le
varie attività interculturali svolte durante l’anno anche ai due rom, va
senza dubbio in parte ricondotta proprio al mancato riconoscimento
di una legittima identità culturale, capace di far emergere, come nel
caso di Liao, tutto il potenziale interculturale di cui i ragazzi stranieri
sono portatori.
In questo senso, Liao è sembrato condividere con i suoi compagni
questo atteggiamento di perplessità di fronte all’oralità di Enver: il
31 D DEMETRIO, G. FAVARO, Immigrazione e pedagogia interculturale…, cit., p. IX.
170
ragazzo si chiedeva, con il resto della classe, per quale motivo Enver
non fosse in grado di leggere e scrivere nemmeno nella sua stessa
lingua.
D’altra parte, varie ricerche effettuate proprio sullo specifico
argomento, tendono ad evidenziare le enormi difficoltà riscontrate da
insegnanti ed educatori alle prese con l’inserimento sociale e
didattico degli alunni zingari nelle scuole italiane ed estere. Non è un
caso che, in riferimento ai rom, molti insegnanti, generalmente
ottimisti nei confronti delle prospettive di inserimento degli alunni
stranieri nelle scuole di vario ordine e grado, tendano a modificare il
loro atteggiamento, mostrando maggiore preoccupazione e
perplessità32. Sugli alunni nomadi, insomma, «si concentrano le più
intense esperienze negative e le più forti resistenze culturali»33.
Il mancato riconoscimento di una legittima identità culturale,
finisce, infatti, per pesare su qualsiasi strategia educativa che voglia
configurarsi come realmente interculturale, andando al di là di
eventuali interventi compensativi.
D’altra parte, di fronte ad una definizione dell’altro in termini di
mancanza, la scuola, in assenza di una più globale strategia
interculturale, legata alla continua dialettica identità-alterità, rischia
costantemente di imbattersi, al di là delle concrete intenzioni, in
percorsi assimilativi, basati su «un’integrazione a senso unico, che
costringe ad accettare i valori della società in cui si risiede,
sopprimendo o occultando i propri»34.
E tuttavia, nonostante le enormi difficoltà incontrate nel corso
dell’anno, i percorsi e il più generale “clima scolastico” venutosi a
32 Cfr. ad esempio G. FAVARO, Costruire l’integrazione nella scuola multiculturale, cit., p. 165.33 Ibidem.34 F. SUSI, L’educazione interculturale fra teoria e prassi, cit., p. 49.
171
determinare nella classe, hanno comunque contribuito ad attenuare le
difficoltà di inserimento dei due ragazzi zingari.
Da questo punto di vista, infatti, Mehira, partendo da una iniziale
generica curiosità nei confronti dei percorsi e delle attività svolte, ha
successivamente manifestato, in modo più o meno esplicito, interesse
nei confronti della possibilità di sottoporre all’attenzione dei
compagni anche la sua stessa esperienza soggettiva, attenuando
sempre di più la sua diffidenza nei confronti delle domande e
dell’interessamento di alunni e insegnanti. Significativo, a questo
riguardo, potrebbe essere il generale coinvolgimento della ragazza
nel più globale clima collaborativo e protettivo venutosi a creare
intorno al compagno cinese.
Nel caso di Enver, la situazione si è, chiaramente, presentata più
difficile da affrontare. I timidi tentativi di partecipazione sono stati
spesso seguiti da momenti di nuova chiusura e diffidenza nei
confronti dei compagni. Inoltre, Enver, come già più volte
sottolineato, non solo non ha manifestato alcuna curiosità nei
confronti di Liao, ma ha persino mostrato fastidio nei riguardi di tutte
le attività svolte sulla Cina. Questo generale atteggiamento
competitivo è emerso, peraltro, anche durante le ore di recupero
effettuate in gruppo, nelle quali Enver ha più volte insistito per
svolgere gli stessi esercizi di Liao, tentando, secondo l’impressione
degli stessi insegnanti, di mostrare la maggiore competenza in
italiano, rispetto al bambino cinese.
Tuttavia, soprattutto nei momenti di recupero individuale, in
assenza degli altri compagni, il ragazzo ha mostrato anche
atteggiamenti di timida apertura, attraverso una più o meno velata
volontà di ricercare un dialogo. Dall’entusiasmo nei confronti della
“scoperta” delle poesie in romanè, lette e commentate
172
dall’insegnante con il suo aiuto, ai timidi tentativi di collaborare ad
alcuni progetti, fino, talvolta, alla richiesta di un ruolo attivo
all’interno di alcuni dei percorsi didattici realizzati, anche Enver ha
mostrato una chiara volontà di partecipazione, come risposta a quelle
strategie educative che Susi definisce in termini di “accettazione
valorizzante”35.
E tuttavia, indipendentemente dalla specifica situazione dei due
ragazzi che, in termini individuali e soggettivi, possono aver trovato
un clima di classe che, al di là di tutto, si è dimostrato
sostanzialmente favorevole, i rom e il loro modo di vivere sembrano
comunque suscitare una generale diffidenza. Se, insomma, nel caso
di Liao, attraverso la sfera individuale, è stato possibile mettere in
atto strategie educative che coinvolgessero gli elementi di diversità
culturale, mostrando la possibilità stessa del “decentramento dello
sguardo”, nel caso dei due rom, l’eventuale accettazione sembrava
stentare a funzionare da base di partenza per l’instaurarsi di un
dialogo realmente interculturale.
D’altronde, l’alterità assoluta di cui gli zingari, con le loro usanze,
i loro modi di vivere e di pensare, sono in qualche modo portatori,
sembra ricondurre qualunque eventuale dialogo verso una tendenza
assimilativa, nell’ambito della quale anche la stessa volontà di
conoscenza rischia di configurarsi come un tentativo di controllo.
Scrive, a questo riguardo, Graziella Favaro che «lo straniero è pur
sempre imprevedibile e quindi soltanto portandolo sul terreno dello
scambio e della transizione possiamo trovare una soluzione alle
nostre ansie»36.
Nell’atteggiamento della classe nei confronti dei rom è stato,
dunque, possibile, per certi aspetti, riscontrare un’ambiguità di
35 Ivi, p. 52.36 D. DEMETRIO, G. FAVARO, Immigrazione e pedagogia interculturale…, cit., p. 104.
173
fondo. Se, da un lato, infatti, Enver e Mehira potevano e dovevano,
in termini individuali, essere aiutati nel loro percorso di inserimento,
dall’altro, ad ogni tentativo da parte degli insegnanti di apertura
verso il loro universo di appartenenza, i ragazzi della classe
tendevano a rispondere con atteggiamenti di velato distacco. Non è
probabilmente un caso che, dalle poesie dell’autore rom, in cui la
solitudine è stata interpretata come conseguenza di un “tradimento”,
al racconto del mito che spiegherebbe il nomadismo, causato,
secondo i ragazzi, da un “errore” commesso dagli stessi zingari37,
tutte le interpretazioni fornite dagli alunni della classe sembravano
mantenere sullo sfondo una sotterranea attribuzione di colpevolezza.
Come mette chiaramente in luce Piasere, i popoli zingari tendono,
all’interno del mondo non-zingaro in cui vivono, ad essere, in questo
senso, percepiti soprattutto in termini “antisociali” e “antisensoriali”.
Dal rifiuto della “proletarizzazione” come conseguenza di un
eventuale inserimento nel sistema di produzione occidentale, alla
salvaguardia di ciò che Piasere definisce “egemonia dell’interno”,
fino al disimpegno nei confronti delle istituzioni, gli zingari
finiscono per configurarsi, in fondo, come “popoli-resistenza”, con
tutte le inevitabili conseguenze sul rapporto con la società
ospitante38.
E, in questi termini, quel senso di sotterranea colpevolezza
attribuita dalla società occidentale ai gruppi zingari, e, in qualche
modo, riscontrabile, nonostante i tentativi di dialogo comunque
presenti, anche tra i ragazzi della classe, potrebbe essere la
conseguenza di una più globale «frustrazione di una società egemone
37 Cfr. avanti, in allegato, il Diario di classe ai giorni 4-12-2002 e 12-2-2003.38 Cfr. L. PIASERE, I popoli delle discariche, in ID., Popoli delle discariche…, cit., pp. 181-221, in partic. pp. 213-9.
174
verso l’indomabilità di popolazioni che non vogliono, nei suoi
riguardi, né egemonia né subalternità»39.
4.4 Un’identità “sospesa”: i casi di Giovanni e Nadia
Giovanni e Nadia, i due alunni di lingua rumena, hanno dovuto
affrontare, con modalità e caratteristiche diverse, nel corso dell’anno
scolastico, problemi e difficoltà di altro genere rispetto a quelle
incontrate tanto da Liao che dai ragazzi rom.
In realtà, sia sul piano strettamente linguistico che su quello più
globalmente didattico, i due ragazzi sono apparsi, anche secondo le
impressioni degli stessi insegnanti, meno svantaggiati rispetto agli
altri ragazzi stranieri.
Infatti, nonostante Giovanni sia partito, sul piano dell’acquisizione
linguistica, da un livello di conoscenza paragonabile a quello di Liao,
per vari motivi, legati chiaramente anche alla maggiore vicinanza tra
la lingua di partenza e la L2, il bambino ha mostrato una veloce
tendenza all’acquisizione spontanea di sempre maggiori competenze
comunicative, soprattutto a livello lessicale.
D’altro canto, Nadia, in parte già scolarizzata in Italia, ha
dimostrato di possedere, fin dall’inizio dell’anno scolastico una
buona competenza in italiano, che le ha consentito di inserirsi
immediatamente all’interno delle attività didattiche regolari, senza
ulteriori interventi compensativi.
39 Ivi, p. 221.
175
Anche sul piano dell’inserimento sociale i due ragazzi, grazie
anche alla maggiore padronanza del mezzo linguistico, già buona in
Nadia e sempre migliore in Giovanni, hanno manifestato una chiara
volontà di partecipazione e di interazione, inserendosi abbastanza
agevolmente all’interno delle dinamiche del gruppo-classe. A questo
proposito, sembra importante sottolineare soprattutto il ruolo attivo,
ricoperto da Nadia tanto nel gruppo delle ragazze, con le quali è
parsa istaurare buoni rapporti di amicizia, quanto in quello dei
ragazzi.
Giovanni, dal canto suo, anche grazie ad un atteggiamento
generalmente scherzoso e confusionario, è parso suscitare una certa
simpatia tra tutti i ragazzi della classe. Inoltre, il bambino è in parte
riuscito a superare le difficoltà dei primi momenti, legate soprattutto
alla mancanza dello strumento linguistico, grazie all’appoggio di
Nadia stessa, che ha in parte ricoperto, come già sottolineato, per via
della vicinanza sia linguistica che culturale, il ruolo di mediatrice tra
lui e il resto della classe.
E tuttavia, al di là di queste considerazioni, i due ragazzi, ad una
attenta osservazione, hanno mostrato comunque segni di più o meno
gravi difficoltà affrontate che, in ultima istanza, appaiono, in un
modo o nell’altro, globalmente legate al contesto migratorio
nell’ambito del quale è avvenuto l’inserimento sia sociale che
didattico.
In particolare, se nel caso di Nadia, alcune di queste problematiche
sono emerse solo saltuariamente, manifestandosi velatamente nel
corso dell’anno, nella situazione di Giovanni è stato possibile
riscontrare difficoltà di vario tipo che hanno coinvolto in modo più
evidente sia il livello dei risultati scolastici che il piano della
socializzazione.
176
D’altronde, i più recenti percorsi migratori, tanto in Italia, quanto
negli altri paesi europei, sembrano per certi versi configurarsi come
quasi sempre legati ad una esperienza di sradicamento, attribuibile
soprattutto, sul piano più concreto, alle politiche di tipo quasi
esclusivamente “emergenziale” attuate in molti dei paesi d’arrivo,
che finiscono per porre gli immigrati in un “altrove”, tanto sul piano
socio-economico che culturale40.
Da questo punto di vista, come nota Francesca Gobbo, se nelle
passate migrazioni, quel senso di sradicamento vissuto dagli
immigrati in terra straniera, si accompagnava quasi sempre alla
speranza legata ad una qualche possibilità di diventare prima o poi
un “neo-autoctono”, «nel tempo attuale sembra piuttosto annunciare
la marginalità sociale e culturale»41.
Queste difficoltà legate all’esperienza e al contesto migratorio, in
questi termini, finiscono per influire inevitabilmente sull’inserimento
scolastico e più genericamente sociale di molti ragazzi stranieri, che
sembrano condividere, in questo senso, una serie di caratteristiche
legate proprio all’esperienza dello spostamento, indipendentemente
dall’identità d’origine.
Pur tenendo presente l’importanza di non generalizzare, evitando
quindi il rischio di dare per scontato il “trauma della migrazione”,
sembra comunque opportuno sottolineare quanto il bambino
migrante si trovi spesso nella difficile condizione di dover
«conciliare dentro di sé i conflitti che lo spostamento nello spazio
geografico introduce nello spazio corporeo e negli spazi culturali,
linguistici, famigliari»42.
40 Cfr. ad esempio sull’argomento, con particolare riferimento all’Italia, F. GOBBO, Pedagogia interculturale…, cit.,pp. 72-83.41 Ivi, p. 77.42 D. DEMETRIO, G. FAVARO, Immigrazione e pedagogia interculturale…, cit., p. 58.
177
La situazione di ambivalenza e di sradicamento che ne può
derivare, in questo senso, sembra coinvolgere in primo luogo la
dimensione spazio-temporale, con tutte le connotazioni e le valenze
simboliche che la famiglia migrante può conferirle, generando nel
figlio una possibile condizione di provvisorietà. Attraverso il
costante riferimento ad un “altrove” o ad un “prima”, scrive Graziella
Favaro, «il presente assume le caratteristiche della parentesi e
dell’attesa»43. Ma un’analoga “provvisorietà” può essere determinata
da un atteggiamento tendente all’assimilazione, o, addirittura, in
alcuni casi, ad una sorta di annullamento dell’identità di origine.
A questo riguardo, anche Demetrio sottolinea, in effetti, come i
genitori dei ragazzi immigrati, non sempre amino parlare del proprio
paese di provenienza, ritenendo che le memorie legate alla propria
storia e al proprio percorso «debbano essere evocate nello spazio
della dimora»44, per non danneggiare il figlio che, nella posizione di
vulnerabilità in cui si trova, ha, ai loro occhi, la necessità di
«mimetizzarsi tra gli altri il più presto possibile»45.
In questi termini, in effetti, potrebbe essere spiegato l’iniziale
atteggiamento di Giovanni nei confronti della curiosità e
dell’interessamento dei suoi compagni verso il suo paese e la sua
lingua di origine. In diverse occasioni, infatti, il bambino, posto di
fronte alle richieste dei compagni, ha dimostrato un certo imbarazzo
nei confronti della possibilità stessa di esprimersi, per esempio, nella
sua lingua d’origine. D’altra parte, la stessa “italianizzazione” del
nome di battesimo, accompagnata costantemente da una certa
perplessità di fronte alle domande di insegnanti e compagni nei
riguardi del suo vero nome, sembra in questo senso avvalorare l’idea
43 Ibidem.44 D. DEMETRIO, Competenze cognitive e storie da condividere, in D. DEMETRIO, G. FAVARO, Didatticainterculturale…, cit., pp. 79-107, p. 86.45 Ibidem.
178
di un profondo senso di insicurezza e di svalutazione della propria
identità di origine nel nuovo contesto d’approdo.
Scrive ancora Graziella Favaro, trattando dell’argomento, che il
bambino migrante finisce spesso per vivere «una sorta di regressione
rispetto alle competenze e ai saperi acquisiti»46 che, nel paese di
accoglienza, sembrano perdere, ai suoi occhi, tutto il loro precedente
valore, configurandosi, anzi, troppo spesso come un problema da
risolvere.
E se, per tornare alla specifica circostanza, nel caso di Nadia, la
situazione è apparsa decisamente meno problematica, è anche vero
che i racconti della ragazza o, più semplicemente, alcuni sporadici
riferimenti a tutta la sua esperienza migratoria, lascerebbero intuire
un vissuto fatto anche di momenti di grande difficoltà. D’altra parte,
la competenza culturale e l’ottima conoscenza dell’italiano
dimostrate da Nadia, possono essere anche pensate come risultato di
una strategia di adeguamento, vissuta in termini di più o meno
parziale assimilazione ai valori e alle abitudini della società
ospitante. Proprio questa dimestichezza nei confronti della cultura e
della lingua del paese d’immigrazione, peraltro, ha quasi certamente
determinato una tendenza, da parte dei compagni, a non percepire o
comunque a cogliere in misura minore la diversità culturale e
linguistica della compagna.
D’altronde, come mette in evidenza Graziella Favaro, lo stesso
bilinguismo degli studenti immigrati, lungi dal configurarsi come
una risorsa aggiuntiva, sembra presentarsi, all’interno del contesto
migratorio, come quasi sempre “sottrattivo”, legandosi spesso ad una
più o meno esplicita svalutazione della lingua madre da parte della
46 G. FAVARO, Costruire l’integrazione nella scuola multiculturale, cit., p. 183.
179
società ospitante47. In effetti, uno degli “spazi” che l’esperienza
migratoria tende inevitabilmente a modificare, sembrerebbe essere
proprio quello linguistico, con inevitabili conseguenze sul piano
della costruzione dell’identità culturale e soggettiva. Infatti, in queste
condizioni, il processo di acquisizione della L2 sembra quasi sempre
realizzarsi a scapito della lingua materna che finisce per essere
dimenticata o, peggio ancora, nascosta alla società circostante. A
questo riguardo, per tornare alla specifica situazione, potrebbe essere
significativo sottolineare nuovamente la tendenza da parte soprattutto
di Giovanni, non solo a dimenticare alcuni termini della lingua
madre, ma anche a sottrarsi il più possibile alle richieste di parlare in
rumeno.
D’altronde, in termini più generali, se «parlare una lingua diversa
simbolizza la distanza e l’estraneità minacciosa»48, il bambino
straniero, pur di entrare a far parte della società ospitante, nella quale
si parla una lingua valorizzata e apprezzata, è spesso disposto a
rinunciare alla lingua della sfera famigliare, che finisce appunto, in
alcuni casi, per diventare essa stessa «una lingua straniera, un suono
fastidioso che viene rifiutato»49.
Nella condizione in cui si trovano molti dei ragazzi immigrati
nella scuole italiane, più che di bilinguismo, sembra opportuno,
insomma, parlare di “semilinguismo”, «termine che, in maniera
provocatoria, cerca di sottolineare la situazione di difficoltà
linguistica dei bambini migranti»50, determinata, in primo luogo, da
un’interferenza conflittuale tra i due sistemi simbolici coinvolti. Ma,
al di là dell’ambiguità che scaturisce da questa situazione di
inevitabile “sospensione”, i cui effetti finiscono per ripercuotersi
47 Cfr. D. DEMETRIO, G. FAVARO, Immigrazione e pedagogia interculturale…, cit., pp. 60-3.48 Ivi, p. 66.49 G. FAVARO, Problemi di inserimento nei servizi educativi: ne parlano genitori ed educatori, cit., p. 91.50 D. DEMETRIO, G. FAVARO, Immigrazione e pedagogia interculturale…, cit., p. 62.
180
sull’identità culturale e soggettiva stessa, il “semilinguismo” sembra
caratterizzarsi, inoltre, per «una padronanza ridotta e “mancante” dei
due codici linguistici»51.
Da questo punto di vista, l’apparente facilità con cui Giovanni ha
appreso l’italiano, mostrando di possedere sempre maggiori
competenze linguistiche e comunicative che gli consentivano di
socializzare con i compagni, ha in realtà nascosto tutta una serie di
difficoltà nell’uso e nella comprensione della L2.
A questo riguardo, Graziella Favaro nota ancora come ci sia una
sostanziale differenza tra l’uso di una seconda lingua legato alla
comunicazione quotidiana, e quello finalizzato allo studio delle varie
materie scolastiche. Mentre, infatti, l’alunno non italofono tende ad
acquisire abbastanza velocemente, tenendo conto delle differenze
individuali legate anche all’identità d’origine e alle singole
esperienze vissute, la L2 per gli scopi comunicativi più immediati,
sembra invece faticare maggiormente nell’appropriazione della
lingua del paese d’immigrazione come veicolo stesso di
apprendimento52.
Ed effettivamente, se sul piano della socializzazione, nel caso di
Giovanni, sembra comunque essersi realizzato, tra incertezze e
difficoltà, un percorso di inserimento, non sembra possibile parlare
invece di una decisa e concreta integrazione propriamente didattica.
Giovanni è apparso, infatti, costantemente assente e disattento nei
confronti delle attività sia di gruppo che individuali, mostrando, in
realtà, una certa difficoltà nel seguire il curricolo comune. Ed in
questo senso, sembra in effetti opportuno non trascurare, tra le cause
di queste evidenti incertezze, il ruolo che la mancanza di una reale
51 Ivi, p. 63.52 Cfr. G. FAVARO, Costruire l’integrazione nella scuola multiculturale, cit., pp. 177-9.
181
padronanza linguistica può aver avuto sulla riuscita scolastica del
bambino moldavo.
A questo riguardo, va anche sottolineato come, l’apparente
padronanza sia linguistica che culturale, possa costantemente
rischiare di mettere in secondo piano l’importanza e l’influenza che il
contesto migratorio e le incertezze sociali ed economiche possono
avere nei confronti dell’eventuale insuccesso scolastico. Se, in altre
parole, nel caso di Liao o di Enver e Mehira, la disparità nella
condizione di partenza non poteva che apparire in tutta la sua
evidenza, nel caso di Giovanni e Nadia, proprio a causa
dell’apparente vicinanza, non è stato sempre facile, per gli insegnanti
e i compagni, prendere coscienza di un disagio comunque presente,
legato soprattutto alle difficoltà dell’esperienza migratoria.
Ed è in questo senso che, di fronte alla potenziale sofferenza che i
ragazzi migranti possono rischiare di dover affrontare, la scuola si
trova nella difficile condizione di dover cercare di riconoscere prima
e tutelare poi, le situazioni di “vulnerabilità”53. D’altra parte, le
possibili reazioni di fronte all’incertezza e alla fatica di «trovare il
proprio posto senza negare radici e memoria»54, sembrano poter
andare dall’apatia e dall’autoesclusione, fino all’aggressività e al
rifiuto. E, in questi termini, potrebbe anche essere interpretata
l’insofferenza di Giovanni nei confronti delle regole della classe e
delle raccomandazioni degli insegnanti: il costante atteggiamento
irrequieto e, a volte, addirittura “distruttivo” nei riguardi degli
oggetti e dello spazio circostante, possono aver avuto la loro origine
proprio dalle difficoltà legate a quel disorientamento affettivo e
percettivo che spesso accompagna l’esperienza migratoria.
53 Cfr. Ivi, p. 183.54 Ibidem.
182
Se, dunque, l’integrazione sociale dei due ragazzi di lingua
rumena è parsa senza dubbio meno problematica rispetto, ad
esempio, a quella dei rom, il loro inserimento, in gradi e modi
diversi, nel corso dell’anno, ha, in un certo senso, significato una
“sospensione” e una “messa tra parentesi” della loro identità
d’origine.
Il disorientamento manifestato, in modi diversi da Giovanni e
Nadia, ha quasi certamente finito per influire in modo determinante
sulla costruzione dell’identità stessa dei due ragazzi migranti. Lo
stesso Demetrio, a questo proposito, sottolinea come il mancato
raggiungimento di un equilibrio tra i due “universi” culturali, possa
condurre a situazioni «di “identità parcellare” o di “ambivalenza
identitaria” che sono il risultato di un conflitto irrisolto tra vecchio e
nuovo»55.
Se, dunque, nel caso di Liao, è possibile per certi versi constatare
l’esistenza di una forte e decisa identità culturale, che ha consentito
agli stessi insegnanti di mettere in atto una serie di strategie di tipo
interculturale, nel caso di Nadia e soprattutto di Giovanni, la
condizione di “sospensione” tra due “universi” culturali è parsa, a
volte, persino ostacolare alcuni dei percorsi didattici ed educativi
ideati.
Demetrio, trattando del ruolo dell’istituzione scolastica nel
percorso di inserimento sociale e lavorativo dei ragazzi immigrati,
sottolinea nuovamente, in questo senso, l’importanza fondamentale
del processo di “stabilizzazione”, che, lungi dal configurarsi come
rimozione del passato, va inteso soprattutto come «conciliazione
voluta o inconscia di due opposti»56. In questo senso, la
stabilizzazione, se da un lato sembra porre fine al senso di
55 D. DEMETRIO, Dalla pedagogia alla didattica interculturale…, cit., p. 109.56 D. DEMETRIO, G. FAVARO, Immigrazione e pedagogia interculturale…, cit., p. 35.
183
sradicamento e di “sospensione”, dall’altro si presenta
contemporaneamente come accettazione della condizione stessa di
“duplicità”. Scrive ancora l’autore: «Chi sceglie la stabilizzazione
opta per la duplicità: accetta di far convivere dentro di sé due
psicologie [...], due lingue [...], due culture»57.
Uno dei compiti dei servizi educativi, sembrerebbe, a questo
punto, proprio quello di agevolare il riconoscimento e la
valorizzazione dell’identità d’origine, che costituisce una potenziale
base di partenza per l’apertura verso la società e la cultura di
accoglienza.
In altri termini, la scuola sembra chiamata a contribuire a porre il
ragazzo migrante nella condizione di poter considerare e di poter
“usare” la “duplicità” come risorsa per sé, oltre che per la società
ospitante stessa58.
I percorsi didattici realizzati durante l’anno scolastico hanno, in
questo senso, mirato proprio a ristabilire un giusto equilibrio tra i due
universi culturali dei ragazzi immigrati, cercando il più possibile di
valorizzare le loro singole esperienze. Nel caso specifico di Giovanni
e Nadia, di grande aiuto, da questo punto di vista, è stato
l’atteggiamento di Liao che, con la sua spontanea disponibilità a
raccontare di se stesso e del suo paese d’origine, ha finito per
stimolare nei due ragazzi il desiderio di fare altrettanto. Per tornare,
ad esempio, al caso di Giovanni, senza dubbio più problematico da
questo punto di vista, sembra importante mettere in luce il verificarsi
di un graduale percorso di apertura che ha portato il ragazzo
dall’iniziale diffidenza e perplessità, verso una maggiore sicurezza e
disponibilità nei confronti della sincera curiosità dei compagni.
57 Ibidem.
58 Cfr. Ivi, p. 27.
184
Dalla ricerca della bandiera del suo paese da mostrare ai
compagni, all’impegno, peraltro in genere carente nei confronti delle
altre attività scolastiche, posto nei lavori realizzati sul suo paese,
Giovanni, così come la compagna rumena, ha insomma mostrato di
reagire positivamente al generale clima di accoglienza valorizzante
che gli insegnanti si sono adoperati per realizzare all’interno della
classe.
4.5 Valorizzare la diversità: metodi, attività e percorsi interculturali
Durante l’arco dell’intero anno scolastico, sono state realizzate
una serie di attività didattiche di vario tipo, pensate e concretizzate
all’interno di una più generale strategia interculturale, intesa
soprattutto come educazione alla complessità.
In realtà, infatti, se da un lato alcuni di questi progetti sono
espressamente nati proprio come risposta agli stimoli e all’interesse
suscitato dal carattere multietnico della classe, dall’altro, si sono
inseriti perfettamente all’interno di un più globale percorso
educativo, sostanzialmente indipendente dalla concreta presenza dei
ragazzi immigrati.
A questo riguardo, sembra opportuno sottolineare nuovamente
l’importanza di operare un rinnovamento delle strategie didattiche
indirizzate anche e soprattutto agli allievi autoctoni più che ai ragazzi
immigrati, mettendo in pratica quell’educazione alla pluralità, che
appare, nell’epoca contemporanea, come uno dei principali compiti
dell’istituzione scolastica.
In questi termini, la presenza degli studenti stranieri all’interno
della classe, nonostante le inevitabili difficoltà che docenti e alunni si
sono trovati ad affrontare, è parsa funzionare da stimolo verso la
185
costruzione di nuovi percorsi educativi che, partendo da esperienze
di tipo extracurricolare, hanno sortito i loro effetti anche sulle stesse
metodologie utilizzate, contribuendo alla realizzazione di una
didattica flessibile e soprattutto aperta alle esperienze e ai vissuti
personali dei singoli individui coinvolti.
Tuttavia, accanto ai più generali progetti educativi rivolti a tutti gli
alunni, sono stati programmati e realizzati anche tutta una serie di
percorsi individualizzati di recupero e di apprendimento della lingua,
indirizzati a tutti gli alunni con maggiori difficoltà sul piano
strettamente scolastico.
A questo riguardo, Graziella Favaro, se da un lato mette in luce
l’importanza di andare oltre la semplice didattica compensativa,
dall’altro, pone tra i compiti primari della scuola, anche quello di
agevolare l’apprendimento della L2 e, più in generale, delle
conoscenze e dei metodi specifici di ogni materia affrontata59.
I momenti di permanenza in aula, finalizzati anche ad agevolare la
socializzazione e la partecipazione degli alunni stranieri alla vita di
classe, sono stati alternati con momenti di lavoro separato, in piccoli
gruppi o individuale, dedicati all’alfabetizzazione e
all’apprendimento della L2. Come già sottolineato, è stato dato
ampio spazio all’aspetto comunicativo della lingua, senza tuttavia
trascurare del tutto la riflessione metalinguistica.
Dallo scambio lessicale italiano-cinese, alla realizzazione dei
disegni per l’attività di denominazione60, tutti i percorsi realizzati
sembrano aver contribuito non soltanto al miglioramento globale
delle competenze linguistiche di tutti i ragazzi stranieri, ma anche e
soprattutto all’emergere di un generale clima di dialogo e
59 Cfr. G. FAVARO, Costruire l’integrazione nella scuola multiculturale, cit., pp. 177-80.60 Cfr. sopra, nel capitolo III, il paragrafo 3.4 L’alfabetizzazione e l’apprendimento dell’italiano: problemi e strategiedi insegnamento.
186
comunicazione che, salvo rare eccezioni, ha finito per coinvolgere
l’intero gruppo-classe.
Fondamentali, in questo senso, sono state le ore di compresenza,
che, prevedendo la presenza in classe di due docenti
contemporaneamente, hanno agevolato la messa in pratica tanto dei
percorsi individualizzati che dei progetti interculturali.
A questo proposito, in effetti, Acquistapace, trattando proprio
delle esperienze di didattica interculturale nelle scuole medie,
sottolinea l’utilità delle ore di compresenza, come risorsa cui
attingere per poter in parte superare la vecchia suddivisione
disciplinare, tipica dell’organizzazione scolastica tradizionale61. In
effetti, le compresenze, oltre ad agevolare materialmente la
suddivisione della classe durante le ore dedicate al recupero,
consentono agli alunni, nei momenti di attività collettiva, «di
abituarsi a ragionare in termini di molteplicità e complessità,
riconoscendo le discipline come puri ambiti di organizzazione
metodologica e contenutistica e non [...] in termini di spazi
conoscitivi a se stanti»62.
Molte delle ore di compresenza, quindi, sono state dedicate ad
attività di gruppo, finalizzate, per ciò che riguarda gli allievi
immigrati, da un lato, all’accoglienza e all’inserimento, dall’altro,
alla valorizzazione delle culture e identità d’origine.
I primi progetti, nati, dunque, come risposta all’interesse mostrato
dagli alunni stessi, hanno per lo più coinvolto, come base di partenza,
la civiltà e la lingua cinesi, grazie soprattutto alla disponibilità
manifestata da Liao nel mettere a disposizione degli insegnanti tutto
il suo “bagaglio” culturale e soggettivo.
61 G. ACQUISTAPACE, Alunni stranieri nella scuola media, cit., pp. 50-1.62 Ivi, p. 51.
187
Durante il mese di dicembre, è stato realizzato,
contemporaneamente all’attività di “scambio lessicale”, un percorso
didattico che, partendo dagli ideogrammi cinesi, ha teso a
sottolineare l’esistenza di sistemi di scrittura diversi da quello
alfabetico.
Dalla lettura di materiale didattico sull’argomento, ai momenti di
discussione collettiva, alla riproduzione degli ideogrammi sui
quaderni degli alunni, il percorso didattico, coinvolgendo
direttamente il ragazzo cinese, ha contribuito soprattutto a quel
“decentramento dello sguardo” che Mezzini e Rossi pongono tra le
finalità primarie di qualunque progetto di educazione interculturale63.
Nonostante le iniziali perplessità di molti alunni, alle prese con un
sistema di scrittura diverso da quello dato per scontato, le attività
hanno ulteriormente stimolato la curiosità e l’attenzione della classe
verso un punto di vista diverso da quello considerato naturale.
D’altronde, come sottolineano ancora Rossi e Mezzini, la scuola, in
quanto luogo della “molteplicità” e delle identità plurali, «deve saper
relativizzare i propri contenuti per decentrarsi e dar voce ad altre
interpretazioni»64.
L’analisi specifica di alcuni ideogrammi, come ad esempio quello
indicante la parola italiana “paese” o, ancora, la parola “Cina”,
mettendo tra l’altro in evidenza lo stretto legame tra scrittura e
cultura, hanno consentito di rivolgere l’attenzione ad alcuni aspetti
della civiltà e della cultura cinese, contribuendo a fornire risposte e a
soddisfare l’interesse degli alunni della classe.
Partendo proprio dall’ideogramma indicante la parola “Cina”,
letteralmente “paese di mezzo”, è stato infatti possibile, anche
mediante una riflessione sulle rappresentazioni cartografiche del
63 Cfr. M. MEZZINI, C. ROSSI, Gli specchi rubati…, cit., in partic. pp. 141-6.64 Ivi, p. 141.
188
planisfero, introdurre il concetto stesso di “etnocentrismo”,
attraverso una chiave di lettura che fosse il più possibile
comprensibile agli alunni della classe.
Graziella Favaro, a questo riguardo, trattando dei possibili percorsi
didattici, suggerisce, partendo proprio dal nome stesso della Cina, di
sottoporre all’attenzione degli alunni i vari planisferi realizzati nei
differenti paesi, rovesciando in tal modo la prospettiva eurocentrica e
mostrando agli allievi la convenzionalità di ciò che ai loro occhi
tende ad apparire naturale65.
Il tema dell’“etnocentrismo” è stato, peraltro, più volte ripreso in
considerazione durante tutto l’anno scolastico, sia attraverso lo
studio dell’educazione civica, che, come nota Demetrio66, pur
presentandosi estremamente preziosa per l’educazione interculturale,
è una materia spesso trascurata, sia mediante l’analisi di temi più
specifici legati all’attualità e alla geografia.
Da questo punto di vista va senza dubbio sottolineata l’attenzione
che, durante tutto l’anno, si è posta sulla possibilità di integrare e di
collegare costantemente tutte le attività extracurricolari ai vari
argomenti trattati nell’ambito delle specifiche materie, proprio per
evitare che le compresenze e i momenti di lavoro collettivi
apparissero come delle “ore di intercultura” a se stanti e aggiuntive
rispetto ai “normali” percorsi didattici. A questo proposito, sembra
opportuno mettere in luce proprio le difficoltà e gli ostacoli
incontrati, all’interno di una classe ad alta concentrazione di alunni
stranieri, nel rintracciare dei collegamenti tra i progetti, di volta in
volta emersi come risposta alle esigenze espresse dagli alunni, e i
programmi che guidano le regolari attività didattiche nell’ambito di
ogni singola materia. Non a caso molti docenti ed educatori appaiono
65 Cfr. G. FAVARO, Mediazione e intrecci di culture…, cit., pp. 121-3.66 Cfr. D. DEMETRIO, Competenze cognitive e storie da condividere, cit., p. 82.
189
concordi nel porre in rilievo la necessità di rivedere e rinnovare le
singole materie, «cogliendo in esse, nella forza e nel prestigio di cui
si avvalgono, gli elementi necessari, sufficienti e aggiuntivi al fine di
creare spazi di lavoro interculturale come se interculturalità esplicita
[...] non si facesse»67. Ed in questo senso, si è cercato il più possibile
di far apparire i contributi che i singoli alunni stranieri hanno di volta
in volta apportato durante l’anno scolastico, in tutta la loro ricchezza
e utilità, mostrando il potenziale interculturale di cui i ragazzi
stranieri sono concretamente portatori, come funzionale alla
realizzazione dei vari progetti di volta in volta affrontati.
Il contributo di Liao è parso, da questo punto di vista, agli occhi
tanto del ragazzo stesso che dei compagni interessati, come
indispensabile ai fini della realizzazione del progetto sulla lingua e la
scrittura, finendo per coinvolgere anche i due ragazzi di lingua
rumena, stimolati, peraltro, dalle similitudini riscontrate tra la loro
lingua materna e l’italiano.
Nel periodo compreso tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio,
sono stati infatti progettati i “cartellini della scuola”68: una serie di
fogli realizzati al computer con le indicazioni dei vari locali della
scuola (teatro, mensa, direzione, etc...) nelle lingue d’origine dei
cinque ragazzi stranieri, successivamente affissi accanto alle entrate
o sulle porte delle varie stanze. L’attività è sembrata, appunto,
funzionare da stimolo soprattutto per i due ragazzi di lingua rumena,
che, coinvolti nel progetto attivamente, hanno finito per aprirsi
maggiormente alle curiosità e alle richieste dei compagni.
67 Ibidem.
68 Per i “cartellini della scuola” cfr. avanti in allegato.
190
Il lavoro, realizzato quasi interamente al computer, sulla base delle
indicazioni contenute nel materiale didattico a disposizione69, mirava
ad inserirsi all’interno di una strategia di accoglienza, finalizzata ad
esprimere il più possibile quella “intenzionalità comunicativa”, che
Graziella Favaro considera fondamentale nell’ambito di una strategia
educativa interculturale, dando particolare rilievo proprio alla
valorizzazione del plurilinguismo70. In questo senso, la realizzazione
dei cartellini è parsa contribuire proprio all’allestimento di uno
“spazio” aperto ai differenti codici linguistici dei ragazzi immigrati,
mostrandone la ricchezza e il valore.
Inoltre, l’attività, stimolando il confronto tra le parole espresse
nelle diverse lingue, ha suscitato, come già accennato, una serie di
interrogativi legati soprattutto alla somiglianza tra rumeno e italiano:
Giovanni e soprattutto Nadia, hanno mostrato un particolare stupore
nei confronti delle analogie lessicali riscontrate, ponendo alcune
domande in proposito.
A questo riguardo, appare importante sottolineare la potenzialità
interculturale che il plurilinguismo sembra apportare all’interno del
contesto scolastico. In effetti, Mezzini e Rossi, trattando dei possibili
percorsi di didattica interculturale, mettono in luce più volte proprio
l’utilità dei riferimenti linguistici ed etimologici, per mostrare agli
alunni la frequenza e la normalità degli intrecci e delle
contaminazioni culturali71. Da questo punto di vista, sembra
insomma opportuno mettere in luce proprio come uno dei compiti
primari di una educazione realmente interculturale, nell’epoca delle
contemporaneità, consista proprio nel mostrare come «il contatto, la
69 Cfr. per i “cartellini della scuola” in cinese e italiano, M. OMODEO, Materiale didattico, in D. DE LORENZI, M.OMODEO (a cura di), A scuola con Xiaolin…, cit., pp. 106-55, p. 115.70 Cfr. G. FAVARO, Costruire l’integrazione nella scuola multiculturale, cit., p. 177.71 Cfr. M. MEZZINI, C. ROSSI, Gli specchi rubati…, cit., pp. 123-4.
191
contaminazione, l’ibridazione tra culture nella storia costituiscano
una regola più che un’eccezione»72.
In questo senso, la sfera linguistica e comunicativa è sembrata
ricoprire, nel corso di tutto l’anno scolastico, un ruolo di primaria
importanza all’interno non soltanto dei singoli percorsi didattici, ma
anche durante le normali ore di lezione, costituendo una sorta di
“collante” tra le attività extracurricolari e quelle legate ai contenuti
degli specifici programmi.
Da questo punto di vista, occorre sottolineare come le attività sui
linguaggi non possano che dimostrarsi, nell’ambito dei possibili
percorsi didattici interculturali, estremamente preziose e ricche di
risultati, anche perché offrono a tutti gli alunni pari opportunità di
inserimento. E tuttavia, sebbene in linea di massima, per tornare al
caso specifico, le attività sulla lingua abbiano senza dubbio avuto
degli effetti positivi sul percorso di inserimento scolastico di Nadia e
Giovanni, sembra importante anche rilevare come, nel caso dei due
ragazzi rom, si siano invece presentati una serie di ostacoli legati in
parte proprio alla natura orale del romanè.
Enver e Mehira, non essendo infatti in grado di leggere o di
trascrivere il romanè, hanno contribuito alla realizzazione dei
cartellini attraverso le lingue dei rispettivi paesi di provenienza. E
tuttavia l’uso del macedone e del bosniaco, in verità due lingue quasi
certamente poco conosciute dai ragazzi, non ha molto probabilmente
contribuito alla reale e concreta conoscenza e valorizzazione
dell’identità rom, in realtà tanto ricca quanto scarsamente
riconosciuta73. Se, insomma, nel caso di Giovanni e Nadia, l’attività
in questione, come, del resto, tutti i riferimenti alla loro lingua
madre, hanno quasi certamente contribuito alla messa in atto di
72 Ivi, p. 98.73 Cfr. sopra, in questo capitolo, il paragrafo 4.3 Un’identità negata: l’inserimento dei rom nella classe.
192
quell’accettazione valorizzante, che determina il passaggio dagli
interventi compensativi ad una pratica educativa realmente
interculturale, nel caso dei due rom, il valore di questi percorsi
didattici è risieduto esclusivamente nel personale coinvolgimento dei
due ragazzi in un lavoro di gruppo.
In continuità con il percorso didattico sulla Cina, alcune delle ore
di compresenza e di recupero durante il mese di Febbraio, sono state
dedicate alla lettura per gruppi del romanzo L’aquilone bianco di Ji
Yue, con testo bilingue italiano-cinese74.
Demetrio, sottolineando l’importanza, all’interno di un curricolo
ad orientamento transculturale, di un sapere basato sulla soggettività
e sulla disposizione all’ascolto, mostra proprio come la dimensione
autobiografica si configuri come una fondamentale risorsa educativa
e formativa. In questo senso, le storie di vita, colte nei loro differenti
livelli, che spaziano dalla dimensione quotidiana dei singoli
protagonisti dell’incontro educativo, alle vere e proprie memorie
autobiografiche, fino ai romanzi e racconti che pongono al centro
della narrazione l’esperienza migratoria, finiscono per evocare
sentimenti e vissuti legati alla condizione umana nella sua
universalità75.
La lettura del romanzo di impronta autobiografica di Ji Yue, cui ha
potuto partecipare anche Liao, grazie al testo bilingue, si è
configurata, in questo senso, come una sorta di premessa per le
successive attività didattiche che, indipendentemente dagli specifici
contenuti, hanno costantemente mantenuto, come riferimento
fondamentale, proprio la sfera soggettiva, i vissuti quotidiani e le
esperienze individuali dei singoli alunni della classe.
74 J. YUE, L’aquilone bianco, cit..75 Cfr. D. DEMETRIO, Competenze cognitive e storie da condividere, cit., in partic. pp. 83-91.
193
Peraltro, la lettura del romanzo, che alterna parti di racconto
autobiografico con informazioni relative a usanze, festività e
tradizioni cinesi, ha stimolato la conversazione e il confronto tra le
differenti abitudini famigliari degli alunni, che hanno finito per
coinvolgere anche gli altri compagni stranieri, mettendoli in
condizione di dialogare e di scambiarsi opinioni. E tuttavia, anche in
questa circostanza, Enver ha manifestato, a differenza dei suoi
compagni italiani e stranieri, una certa insofferenza nei confronti
dell’attenzione riservata alla lingua e alla civiltà cinese.
La letteratura autobiografica sembra comunque poter costituire un
valido appoggio per la realizzazione di curricoli orientati in senso
interculturale, rappresentando spesso, una sorta di filo conduttore per
i diversi progetti e ricoprendo la funzione di “collante” tra le
consuete attività legate alle varie materie scolastiche e i percorsi
extracurricolari.
Anche la lettura di alcune poesie dell’autore rom Marko Aladin
Sejdić76, ha per certi versi rappresentato una continuazione del
percorso incentrato sulla letteratura di stampo autobiografico,
fungendo, peraltro, anche da stimolo per affrontare una serie di
riflessioni collettive che avevano, in un certo senso, come punto di
riferimento proprio alcune di quelle esperienze e di quelle emozioni
che Demetrio prende in considerazione come risorsa educativa, per il
loro carattere transculturale. A questo riguardo, l’autore sottolinea
appunto proprio come la letteratura, all’interno di un globale progetto
interculturale, possa costituire un valido aiuto, «poiché svela il
carattere sostanzialmente universale di taluni stati emotivi connessi
ad eventi che ogni vivente percepisce e che danno luogo al riso, al
pianto, alla manifestazione di gioia»77.
76 M. A. SEJDIĆ, Me aváv durál. Io vengo da lontano, Milano, I. S. U. Università Cattolica, 2000.77
D. DEMETRIO, Competenze cognitive e storie da condividere, cit., p. 97.
194
Tra la fine di gennaio e la metà di aprile, con una serie di
interruzioni nel mese di febbraio, la classe ha lavorato alla
realizzazione di una serie di ricerche storico-geografiche sui paesi e
sulle regioni d’origine dei ragazzi della classe. Il materiale reperito
su Cina, Romania e Moldavia, in alcuni casi riassunto e rielaborato, è
stato successivamente raccolto e organizzato in tre cartelloni. Il
progetto ideato e in parte concretizzato, prevede, inoltre, nel corso
degli anni successivi, la realizzazione di altri cartelloni dedicati alle
zone e alle località d’origine delle famiglie dei vari alunni della
classe.
Le attività svolte, pur configurandosi anche come risposta al
grande interesse manifestato dagli alunni della classe nei confronti
dei compagni provenienti da altri paesi, ha teso soprattutto a
ricollegarsi ad un percorso sull’identità culturale e sulla diversità,
affrontato nelle ore di educazione civica, che ha visto il
coinvolgimento di tutti i ragazzi della classe.
L’attività si è dimostrata particolarmente impegnativa, soprattutto
a causa delle difficoltà legate alla necessità di reperire materiale
informativo che rispondesse, in modo adeguato, agli interrogativi e
alle curiosità espresse dagli alunni in merito ai paesi di provenienza
dei compagni stranieri, evitando, al contempo, il rischio di ridurre il
lavoro «alla raccolta di reperti “etnicamente” coinvolgenti ed
eccentrici»78. Nei percorsi didattici incentrati sull’identità d’origine
dei ragazzi stranieri e non, sembra opportuno evitare, insomma, il
folklore fine a se stesso o gli aspetti più specifici di una cultura,
percepiti come “strani” ed “esotici”. Va dunque sottolineato che,
anche a causa di queste difficoltà, se la raccolta del materiale è stata
abbastanza facile per la Cina, l’assenza di informazioni adatte su
78 Ivi, p. 86.
195
Bosnia e Macedonia, a cui si è aggiunta la minore partecipazione dei
due ragazzi rom, non ha consentito di estendere l’attività anche a
questi paesi. Peraltro, la diffidenza generale nei confronti delle
abitudini di vita dei rom, ha portato gli insegnanti coinvolti a scartare
l’eventualità di trattare aspetti della civiltà zingara79.
Gli argomenti affrontati, sui quali si sono incentrate le attività di
ricerca, hanno dunque per lo più riguardato gli aspetti linguistici, già
oggetto di attenzione in altre precedenti attività, i patrimoni artistici e
naturali, nonché la storia e le caratteristiche geografiche dei singoli
paesi trattati. E tuttavia, al di là degli specifici argomenti, anche in
questo caso, la dimensione personale ha costituito una sorta di
tramite attraverso cui poter accedere a conoscenze più generali
relative alla storia, alle tradizioni e ai paesi trattati, ponendo
particolare attenzione a non “forzare” i ragazzi di volta in volta
coinvolti.
In generale, infatti, tutti i percorsi realizzati, tanto quelli
specificamente dedicati all’intercultura, quanto quelli più
propriamente inerenti alle materie di volta in volta affrontate, sono
per lo più partiti dalla dimensione soggettiva e personale, sulla base
della quale appare possibile individuare quelle comunanze e quelle
similitudini nei percorsi e nei vissuti individuali che portano al
riconoscimento dell’“altro”80.
L’esperienza soggettiva e personale, da cui qualsiasi strategia
educativa interculturale sembra non poter prescindere, ha senza
dubbio, da questo punto di vista, contribuito a realizzare quel
positivo clima di classe che ha facilitato, tra l’altro, l’inserimento
degli alunni stranieri. In questo senso, è possibile sottolineare come
79 Cfr. sull’atteggiamento verso la cultura rom nella classe, sopra, in questo capitolo, il paragrafo 4.3 Un’identitànegata: l’inserimento dei rom nella classe.
80 Cfr. sopra, nel capitolo III, il paragrafo 3.2 L’inserimento nella classe e il rapporto con i compagni.
196
«la messa al centro della soggettività, del rispetto dell’individuo, ci
consente di smascherare il vecchio e il nuovo razzismo»81.
La dimensione soggettiva, sembra, inoltre, facilitare soprattutto la
messa in discussione del concetto stesso di cultura, intesa come
entità stabile e astratta, contribuendo alle realizzazione di quella
sensibilità verso la complessità, che, nel mondo delle
interconnessioni, appare di primaria importanza82.
Scrive al riguardo Francesco Susi: «Nella realtà dei paesi di
immigrazione, nella vita di tutti i giorni, non sono le culture ad
incontrarsi, ma i portatori di quelle culture, uomini e donne in carne
ed ossa, con le loro speranze, le loro ansie, i loro progetti, i loro
dubbi»83. E da questo punto di vista, la dimensione individuale
consente proprio di mettere in luce che «la cultura di ciascuno di noi
si costruisce e si modifica strada facendo e diventa la storia di
ciascuno, grazie alle scelte e alle variazioni individuali»84.
La soggettività e il rispetto per l’individuo nella sua unicità sembra
apportare, in questo senso, un grande contributo alla revisione del
concetto stesso di identità, scopo fondamentale di qualsiasi progetto
educativo di tipo interculturale. É in questo senso che, come
evidenzia Demetrio, il mezzo autobiografico «diventa [...]
un’occasione eccezionale di scoperta della propria ricchezza
identitaria e plurale»85.
L’aspetto soggettivo ed autobiografico è stato ulteriormente
approfondito nell’ambito di un progetto iniziato nel mese di maggio,
rimasto incompiuto e destinato ad essere portato a termine nel corso
81 D. DEMETRIO, Facciamo il punto…, cit., p. 27.82 Sull’educazione interculturale come educazione alla complessità, cfr. sopra l’Introduzione.83 F. SUSI, L’interculturalità fra teoria e prassi, cit., p. 47.84 G. FAVARO, Mediazione e intrecci di culture…, cit., p. 112.85 D. DEMETRIO (con la collaborazione di M. CASTIGLIONI e B. MOUCHEN), Storie di vita e identità in divenire, in ID.(a cura di), Nel tempo della pluralità. Educazione interculturale in discussione e ricerca, Scandicci (Firenze), LaNuova Italia, 1997, pp. 215-33, p. 222.
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del successivo anno scolastico. L’attività, in verità ancora agli inizi,
prevede, con modalità ancora da definire, la realizzazione al
computer di una serie di diapositive sui singoli ragazzi della classe,
che dovrebbero basarsi sulla ricerca di un collegamento tra il
materiale informativo già raccolto o da raccogliere e i vissuti
personali dei singoli alunni coinvolti nell’esperienza. Il lavoro fino
ad ora portato a termine, ha peraltro previsto la raccolta di materiale
informativo attraverso il collegamento guidato ad internet e
l’esplorazione di siti appositamente realizzati e pensati all’interno di
percorsi di didattica interculturale. In questo senso,
indipendentemente dai contenuti, sembrerebbe opportuno mettere in
luce il rilevante contributo che il mezzo informatico, con la
possibilità di collegare testi, immagini e suoni, o di raccogliere
informazioni di tutti i tipi, ha già mostrato di poter garantire
all’interno di questa, come di altre attività.
Più in generale, comunque, tutte le varie attività didattiche
realizzate, sono state, per quanto possibile, progettate e realizzate
all’interno di una più globale strategia educativa incentrata, da un
lato, sull’attenzione verso la complessità e l’interdipendenza, e,
dall’altro, sulla sensibilizzazione alla comprensione e alla tolleranza
reciproca. E, da questo punto di vista, materie come la geografia e
l’educazione civica, si sono prestate in modo particolare alla
trattazione di alcuni argomenti, in grado di destare interesse e
curiosità su temi d’attualità, legati all’analisi del mondo
contemporaneo.
Mezzini e Rossi, mettono in luce, a questo proposito, proprio
l’utilità di una pratica educativa che ponga al centro dell’attenzione i
concetti stessi di “interdipendenza” e di “globalizzazione”,
trasmettendo «ai bambini l’idea di una sorte comune, che ci impone
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di cercare soluzioni mirate a garantire un’esistenza più equa per tutti
gli abitanti dell’ormai assodato “villaggio globale”»86. A partire dallo
studio di alcuni argomenti geografici e d’attualità, come ad esempio
quelli legati al processo di industrializzazione dei paesi più poveri, o
agli equilibri politici internazionali, durante il corso di tutto l’anno, è
stato infatti possibile organizzare discussioni e affrontare dibattiti
strettamente collegati ad una impostazione educativa finalizzata
proprio alla presa di coscienza di questa complessità del reale, intesa
anche come pluralità di punti di vista. Lo stesso tema
dell’immigrazione ha potuto essere affrontato nell’ambito
dell’educazione civica, su vari livelli e attraverso prospettive
differenti, che hanno spaziato da un’impostazione oggettiva e teorica,
ad una dimensione più soggettiva e personale, secondo le modalità di
quel “sapere narrativo” che Demetrio incoraggia a valorizzare
all’interno di una strategia educativa realmente interculturale87.
Da questo punto di vista, mentre lo studio della storia, a causa
degli argomenti previsti dai programmi di prima media, difficilmente
riconducibili all’attualità, non ha potuto svolgere un’analoga
funzione introduttiva, la letteratura e, in particolare, le ore dedicate
all’antologia, hanno contribuito invece all’elaborazione di percorsi di
riflessione sulla contemporaneità. Basti pensare, a questo proposito,
oltre alla lettura del già ricordato romanzo di Ji Yue, che si è
ricollegato, facendo uso di una prospettiva soggettiva ed
autobiografica, anche al tema dell’immigrazione, alle riflessioni,
nuovamente incentrate su emozioni, sentimenti e sofferenze umane,
suscitate dalla poesia di Primo Levi Se questo è un uomo, letta,
analizzata e commentata in classe durante le ore di italiano.
86 M. MEZZINI, C. ROSSI, Gli specchi rubati…, cit., p. 55.87 Cfr. D. DEMETRIO, Competenze cognitive e storie da condividere, cit., pp. 83-4.
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Lo stesso percorso didattico incentrato specificamente
sull’educazione ambientale, portato avanti attraverso una stretta
collaborazione tra le insegnanti di italiano e di matematica, si è
perfettamente inserito all’interno di una più globale strategia
educativa finalizzata il più possibile allo sviluppo, negli alunni,
dell’autonomia di giudizio e alla formazione del pensiero critico ed
autocritico verso la stessa civiltà occidentale.
Il progetto sull’ecologia ha previsto, peraltro, l’uso di strumenti
didattici alternativi ai libri di testo, come video, documentari e
materiale informativo di vario tipo. Peraltro, il progetto, ha
comportato l’organizzazione di escursioni e visite guidate, che, oltre
ad agevolare la socializzazione tra gli alunni, sembrano contribuire
alla creazione di quel rapporto con il territorio e con il mondo esterno
che Mezzini e Rossi considerano centrale ai fini dell’elaborazione di
strategie educative che tengano conto della complessità e della
pluralità88. Ed è in questo senso che le autrici sottolineano ancora
l’importanza di quella categoria di strumenti didattici definiti
“realia”, che comprendono, appunto, «tutto ciò che fa riferimento
alla realtà, senza mediazione e interpretazione esterna: i documenti,
le fonti, ma anche gli oggetti, le tracce, gli ambienti, il territorio»89.
Da questo punto di vista, sembra opportuno sottolineare come lo
stesso materiale informativo raccolto durante la visita a
Castelporziano e in occasione dell’escursione guidata sul Tevere, si
sia dimostrato particolarmente prezioso nelle ore di recupero rivolte
ai ragazzi con problemi di lingua. Giovanni, e soprattutto Liao, sono
apparsi particolarmente agevolati dall’uso di schede, opuscoli e
fotografie che, per certi versi, possono aver costituito, in assenza
dello strumento linguistico, una sorta di tramite attraverso cui
88 Cfr. M. MEZZINI, C. ROSSI, Gli specchi rubati…, cit., pp. 43-7.89 Ivi, p. 38.
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ricollegare un discorso più globale e teorico con l’esperienza vissuta
e la realtà direttamente osservata. Un analogo discorso potrebbe
essere fatto per la visita al Ludus Magnus e al Colosseo, che ha
rappresentato, soprattutto per Liao, trovatosi nell’impossibilità di
seguire le lezioni di storia, un valido tramite per affrontare lo studio
della civiltà romana.
Nel mese di febbraio, sono stati progettati ed elaborati, attraverso
un lavoro organizzato a piccoli gruppi, una serie di cartelloni sul
tema della pace, realizzati con materiale di vario genere. L’attività
ha, infatti, previsto la stesura di poesie tratte da alcuni libri di
antologia, o di brani e pensieri ideati dagli alunni stessi sul tema
della pace, nonché la ricerca di articoli e immagini, ritagliate da
quotidiani e riviste.
Anche per questi cartelloni si è posta una certa attenzione nei
confronti delle potenzialità educative del plurilinguismo, attraverso
la realizzazione di scritte sulla pace in varie lingue, coinvolgendo
attivamente i ragazzi stranieri e valorizzando il più possibile il loro
“bagaglio” conoscitivo e comunicativo, parso, in tal modo,
nuovamente indispensabile per la realizzazione del progetto.
L’educazione alla pace, all’interno della quale si collocano i lavori
e le ricerche specifiche portate a termine, intesa come percorso
educativo più globale e normalmente presente all’interno dei
dibattiti, degli argomenti affrontati, nonché dei progetti e delle
metodologie messe in atto dagli stessi insegnanti, sembra potersi
riallacciare ad una più globale strategia educativa legata appunto alla
necessità di una formazione sempre più attenta al rapporto con la
diversità.
In particolare, durante l’anno scolastico, ampio spazio è stato dato
all’interazione tra i ragazzi, attraverso la messa in pratica, per quanto
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possibile, di quelle strategie e di quelle attenzioni che Graziella
Favaro definisce globalmente come “educazione alla comprensione”,
da intendersi nel suo duplice significato cognitivo ed emotivo90.
Proprio per agevolare l’emergere di un contesto favorevole alla
comunicazione, al di là delle specifiche iniziative didattiche portate a
termine, sono state, in effetti, messe in atto strategie educative
finalizzate a stimolare costantemente il concreto coinvolgimento di
tutta la classe in un più generale clima collaborativo. I ragazzi con
problemi di lingua, in particolare, sono stati più volte seguiti e aiutati
dagli stessi compagni, attraverso interventi di gruppo, finalizzati
anche all’emergere di rapporti personali che, non solo agevolano la
socializzazione, ma, soprattutto, «consentono di considerare i
compagni, reciprocamente, come risorse nel percorso di
apprendimento»91.
E da questo punto di vista, come notano Mezzini e Rossi, è proprio
il costituirsi di questo contesto non soltanto comunicativo, ma anche
e soprattutto di “identificazione empatica”, intesa come «capacità di
uscire incessantemente da sé ed entrare nell’altro»92, che finisce per
determinare l’emergere di un rinnovato rapporto tra docenti e alunni,
allo stesso modo coinvolti nel globale clima di “sintonia” e di
dialogo. Ed è compito dell’educatore stesso, all’interno di una
globale strategia interculturale, realizzata anche attraverso la normale
pratica didattica quotidiana, mediante la comprensione e l’“empatia”,
agevolare la messa in atto di un percorso formativo capace di
valorizzare i differenti apporti personali e culturali dei soggetti
coinvolti e costantemente basato sulla dialettica identità-alterità.
90 Cfr. G. FAVARO, Aprire le menti nel tempo della pluralità, in D. DEMETRIO, G. FAVARO, Didatticainterculturale…, cit., pp. 36-54, p. 36.91 F. GOBBO, Pedagogia interculturale…, cit., p. 215.92 M. MEZZINI, C. ROSSI, Gli specchi rubati…, cit., p. 139.
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Scrive a questo riguardo Demetrio che «l’“estraneità”, e il suo
superamento, sono il vero “contenuto” sul quale lavora una
pedagogia che cerca di evidenziare tanto le differenze, quanto le
affinità»93. Ed è in questo senso che, durante tutto l’anno scolastico,
attraverso l’elaborazione delle diverse attività didattiche, ma anche
nei normali momenti di lezione, così come negli “interstizi” della
pratica didattica, si è prestata, soprattutto, una particolare attenzione
ad agevolare il confronto tra i diversi punti di vista, mantenendo
comunque sullo sfondo, come punto di riferimento, l’individuazione
di elementi comuni, in quanto riconoscibili, al di là delle legittime
differenze, nella loro dimensione antropologica di esperienze umane.
93 D. DEMETRIO, Dalla pedagogia alla didattica interculturale…, cit., p. 102.
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