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LA LETTERA AI ROMANI
I destinatari
Mentre per altre fra le più importanti chiese antiche vengono nominati nella storia
o nella leggenda dei fondatori - apostoli e discepoli degli apostoli in Samaria (At
8,5), ad Antiochia e Cipro (At 11,19), e secondo la leggenda Marco ad
Alessandria, Lazzaro a Marsiglia, Tommaso ad Edessa . e in India -, notizie
analoghe mancano per la Chiesa di Roma, eminente di certo fin dall’inizio. E
possibile che si voglia ricordare che la sua fondazione aveva avuto luogo senza un
singolo missionario importante. Il silenzio sia nella lettera ai Romani, sia negli
Atti esclude che Pietro si sia trovato a Roma prima di Paolo o con lui, anche se
una permanenza successiva a Roma é del tutto possibile. Una notizia del genere é
testimoniata già alla fine del I secolo d.C. La testimonianza più antica è 1Pt 5,13
se qui Pietro (pseudepigrafo) scrive la sua lettera da Babilonia=Roma. Pietro e
Paolo sono ricordati insieme come apostoli a Roma in 1Clern. 5,14 (nel 95 0 96
d.C.) e da Ignazio di Antiochia in Rom 4,3 intorno al 110). Alcuni primi cristiani
potrebbero essersi recati a Roma spinti da uno dei molti motivi possibili a
rivolgersi alla capitale dell’impero. Come già da secoli le religioni orientali erano
penetrate a Roma, cosi anche il cristianesimo vi arrivò. Come afferma Tacito
(Annales 15,44) nella sua prospettiva, «a Roma confluisce da ogni parte tutto
quanto è disgustoso e indecente e tutto viene celebrato». È in questo modo che
erano arrivati a Roma già da lungo tempo gli Ebrei. Si calcola che al tempo del
Nuovo Testamento la comunità giudaica romana contasse circa 50.000 persone.
Sono note almeno tredici sinagoghe. Davanti alle porte della città sono stati
scoperti vasti cimiteri giudaici in catacombe. Già nel 139 a.C. un pretore si senti
indotto ad espellere dalla città, a causa di disordini, tutti i Giudei che non erano
cittadini italici poiché essi mandavano in rovina i costumi romani con culti
stranieri (Valerio Massimo 1,3,3). Svetonio (Claudius 25,4) riferisce: Claudio
“scacciò i Giudei da Roma, poiché, aizzati da Chrestus, provocavano
disordinatamente disordini». Chrestus (“l’utile”) era certamente un tipico nome
da schiavo. Tuttavia Chrestus nella pronuncia itacistica suonava Christus.
Svetonio così capì e scrisse forse erroneamente Chrestus in luogo di Christus. Si
nasconde sotto questo accenno probabilmente una notizia del fatto che alcune
diatribe tra i Giudei di Roma riguardo a Gesù Cristo avevano suscitato disordini
che avevano indotto l’imperatore ad emanare un tale provvedimento. Un editto di
Claudio viene datato all’incirca nel 49 d.C. Già in questa data ci sarebbero cosi
stati nella città di Roma numerosi giudei-cristiani. Con l’editto furono
naturalmente colpiti anche loro, giacché formavano con i Giudei sia prima che
dopo un’unica comunità razziale. D’allora in poi la chiesa romana fu composta di
cristiani provenienti dal paganesimo. Al gruppo dei giudeocristiani espulsi
apparteneva secondo At 18,2s. anche la coppia giudeo-cristiana Aquila e Prisca,
con la quale Paolo si incontrò per la prima volta ad Efeso e che in seguito viene
ripetutamente nominata e lodata (At 18,26; Rom 16,3; 2Tm 4,19). Proprio questi
due possono aver dato a Paolo informazione sulla comunità di Roma. Dopo la
morte di Claudio (54 d.C.) l’ordine di espulsione non venne più eseguito, e sia
Giudei sia giudeo-cristiani poterono ritornare a Roma. Quando Paolo giunse a
Roma all’inizio del 59 d.C. lì si trovava di nuovo una comunità giudaica con la
quale l’apostolo prese ben presto contatto invitando presso di sé i notabili
giudaici. Alcuni di loro ascoltarono l’annuncio di Paolo, i più però lo rifiutarono
(At 28, 17-28). La Lettera ai Romani (1,5.13; 11,13; 15,16) sembra presupporre
prevalentemente dei giudeo-cristiani come destinatari.
Quando Paolo (nell’inverno 54 - 55) scrive ai Romani, a Roma esisteva
un’importante comunità cristiana, la cui fede viene già celebrata in tutto il mondo
(Rm 1,8) Solo con una certa esitazione Paolo osa presentarsi ai Romani (1,11s;
15,14s.). Quando Paolo, arrivando in Italia all’inizio del 59 sbarcò sul continente
a Pozzuoli, trovò anche lì dei cristiani, presso i quali rimase sette giorni. Quando
poi proseguì per via di terra il suo viaggio verso Roma, gli vennero incontro per
una parte del viaggio dei cristiani di Roma (At 28,13-15).
Scopo e contenuto
Mentre Paolo aveva indirizzato le altre lettere a comunità da lui stesso fondate e
che egli voleva sostenere dando consigli e aiuti, la comunità di Roma gli era
personalmente sconosciuta. Quando l’apostolo scrive ad una comunità estranea,
rimane valido il suo principio che lui non vuole predicare là dove Cristo è stato già
annunciato (2Cor 10,16;Rm 15,20s.). Ora tuttavia Paolo vuole andare a Roma
poiché, con l’incarico ricevuto della ‘missio ad gentes’, intende finalmente
visitare anche Roma, la capitale del mondo, cosa che già da anni andava
progettando (Rm 1,13-15; 15,23). Proprio quì egli vuole completare il servizio
sacerdotale dell’evangelo anche fra i pagani (15,16). Poi però Paolo da Roma
come base vuole proseguire il viaggio verso la Spagna per predicare anche là
l’evangelo (15,24). Con la sua lettera l’apostolo intende presentarsi alla chiesa di
Roma nella prospettiva della sua visita. Egli aspetta e si augura un vicendevole e
arricchente dare e ricevere (1,11s.). Il dono di Paolo è il suo annuncio del vangelo.
Poiché Paolo conosceva poco le circostanze e le questioni della chiesa
romana, non si sentiva spinto a discutere e ad ordinare nella sua lettera su cose
singole (a prescindere del rapporto fra deboli e forti in Rm 14,1 -15,6). Perciò la
lettera ai Romani è diventata una presentazione di forte impronta delle questioni
teologiche di fondo con cui Paolo aveva a che fare, e delle convinzioni a cui era
giunto. L'unico grande tema è quello della giustizia di Dio (1,18 - 8,31). Dio è
giusto e rende giusti (3,26). Finora era stata l'ira di Dio ad aver dominato sul
peccato sia dei pagani (1,18-32) che dei Giudei (2,1-3,20). Ora però la volontà di
Dio in vista della giustizia si rivela nell'opera di espiazione compiuta per mezzo di
Gesù Cristo (3,21-26). Ora viene donata la giustizia senza le opere della legge a
quella fede che accoglie la salvezza di Dio (3,21 - 4,25). Con la giustizia sono date
anche pace e speranza (5,1-11). La giustizia libera dalla morte (5,12-21), dal
peccato (6,1-23) e dalla legge, che provoca il peccato (7,1-25). La perfezione è
l'opera detto Spirito che libererà tutta la creazione (8,1-39).
Una questione difficile e assillante è per Paolo il «mistero» del suo popolo
Israele (9,1 -11,36). Da innumerevoli generazioni Israele si sforza di raggiungere
la giustificazione davanti a Dio con l'adempimento della legge; così facendo alla
fin fine vuole erigere una sua giustizia arbitraria (19,3). Ora le genti, le quali non
si sono mai sforzate di ottenere tale giustificazione, sono di certo giunte ad essa
per mezzo della fede, e Israele perde questa giustificazione (9,30 -10,21). In ogni
caso una piccola parte di Israele adesso la ottiene. Paolo però ha ricevuto
misteriose rivelazioni sul fatto che tutto Israele sarà salvato (11,1-32).
Le lettere di Paolo si chiudono spesso negli ultimi capitoli con parenesi o
comunicazioni finali di ordine personale. Questo vale anche per La lettera ai
Romani. I capp. 12-15 vogliono illustrare il retto comportamento del cristiano
nella chiesa e nel mondo. Il vivere quotidiano deve essere servizio di Dio nel
mondo (12,1s.). I diritti del singolo e della comunità devono armonizzarsi in un
certo ordine. L'amore è la legge fondamentale della chiesa (12,3-21). Al potere
dell'autorità il cristiano deve obbedienza come ad un servitore di Dio (13,1-7). E
siccome il giorno luminoso della venuta di Cristo sta per arrivare: i cristiani
devono compiere le opere della luce (13,8-14). Nella comunità di Roma una
minoranza di gente debole e angosciata sta di fronte a persone forti e di larghe
vedute. Nella comunità devono aver valore sia la libertà che il rispetto dei singoli
(14,1-23). Paolo stesso è divenuto servo di tutti (15,1-13).
In un'appendice Paolo espone altri suoi progetti di viaggio. Da Roma egli
intende recarsi in Spagna per una grande opera missionaria. Prima però vuole
andare a Gerusalemme, per portare là il ricavato della colletta raccolta tra i
pagani. Egli è molto preoccupato se questo suo servizio verrà accolto bene oppure
no (15,14-33). Questa preoccupazione si sarebbe poi confermata: a Gerusalemme
egli doveva soccombere ai nemici (At 21, 19 - 26,32). La lettera si conclude con
saluti a persone conosciute personalmente dall'apostolo: fra di loro colpiscono le
molte donne nominate con parole di elogio (16,1-23). Chiude la lettera una
solenne dossologia (16,25-27).
Quando Paolo nella lettera ai Romani presenta l'inutilità del paganesimo e
del giudaismo, egli non discute di cose passate. Ogni religione si trova sempre
nella situazione del paganesimo quando, come religiosità naturale, intraprende il
progetto di trovare Dio basandosi sulle proprie capacità e di essere giusti davanti a
Lui. E ogni religione si trova nella tentazione del giudaismo, quando si affatica di
continuo per farsi creditrice di Dio attraverso l'adempimento della legge (anima
semper et pagana et iudaica). Paolo dice che queste due tentazioni sono inutili,
perché l'uomo - in ogni caso egli si trova - non può crearsi da solo la salvezza, ma
per lui c'è quella salvezza che Dio vuole donare attraverso la fede. È di questo che
si deve parlare insistentemente nella chiesa, prima di ogni richiesta morale.
Questo è l'evangelo.
Nessuna lettera di Paolo ha avuto nella storia della Chiesa un'importanza
cosi gravida di conseguenze come al lettera ai Romani. Essa ha presentato
soprattutto alla teologia occidentale delle tematiche essenziali e
contemporaneamente ha offerto le soluzioni nell'ambito delle discussioni su legge
e libertà, opere e grazia. Le grandi ore della teologia occidentale sono state
sempre segnate dalla lettera ai Romani; così ad es. nelle parole e nelle azioni di un
Agostino, di un Martin Lutero, di un Giovanni Calvino, come anche di Cornelio,
Giansenio e Karl Barth.
Critica letteraria
Mentre l'origine paolina della lettera ai Romani (almeno nella sostanza) è
incontestata, si sollevano invece delle notevoli questioni testuali e
critico-letterarie relativamente ai capitoli 15 e 16.
A)Benché resti incontestabile che 15, 1-33 e 16,1-23 provengano da Paolo,
nel II secolo esisteva però una lettera ai Romani priva dei capp. 15 e 16. Se
seguiamo una indicazione di Origene, questo era il testo di Marcione; ma non è
risolta la questione se Marcione abbia recepito questa forma abbreviata oppure se
l'abbia creata lui stesso. Marcione, il quale rimuove l'Antico Testamento e
giudaismo dal Nuovo Testamento, potrebbe - questo presumeva già Origene -
aver tralasciato Rm 15 a causa delle molte citazioni dell'Antico Testamento in
esso contenute (Rm 15, 3.9- 12) e anche a motivo del riconoscimento dell'Antico
Testamento fatto in Rm 15,4 e del risalto dato ai privilegi di Israele (Rm 15,8.27).
Di Rm 16 si poteva fare a meno, poiché il capitolo consta fondamentalmente di
saluti a molte persone sconosciute. Questa omissione precoce di Rm 15 e 16 ha
avuto ripercussioni sconcertanti nella storia testuale posteriore. Le nostre edizioni
attuali del testo, che offrono Rm 1,1 - 16,23; 16,25-27 (per lo più senza 16,24),
poggiano su una tradizione testimoniata dal Papiro 61 intorno al 700 d.C.), dal
Sinaitico, dal Vaticano e da antiche traduzioni. L'Alessandrino e altri codici
riportano la dossologia di 16,25-27 due volte, dopo 14,23 e dopo 16,23. I
manoscritti della Vulgata a 14,23 fanno seguire immediatamente la dossologia
16,25-27. Il testo costantinopolitano, largamente diffuso nell'antichità, aveva
quest'ordine: 1,1 - 14,23; 16,25-27; 15,1 -16,23 (24).
B) Dopo l'omissione di Rm 15 e 16, la conclusione della lettera con 14,23 era
insoddisfacente: non si trovavano i saluti conclusivi, usuali sia in Paolo che nelle
lettere antiche. Probabilmente per questo fu creata nel II secolo la solenne
dossologia di 16,25-27 che doveva servire come conclusione della lettera. Che
essa non sia originaria lo si suppone già dall'incerta collocazione storico-testuale.
Accanto all'augurio conclusivo originale di Rm 15,33, Rm 16,25-27 è un
doppione. Questi versetti si distinguano poi dal linguaggio usuale di Paolo per
certe particolarità di oggetto e di stile, anche se essi portano avanti il patrimonio di
idee paolino. Non paoline appaiono delle espressioni come « eterno Dio », « Dio
che solo è sapiente », « il mistero taciuto per secoli eterni », «nell'eternità».
Nessun'altra lettera di Paolo si conclude con una dossologia del genere. Rm
16,25-27 fu creata probabilmente nella scuola di Paolo, la quale conferma e
celebra qui davanti alla chiesa l'opera perenne dell'apostolo. Dio - così dicono i
versetti - rafforza la chiesa per mezzo del vangelo dell'apostolo, che è l'annuncio
di Gesù Cristo fra le genti.
C) un altro tentativo successivo di creare una conclusione della lettera ai
Romani abbreviata è il testo di Rm 16,24. Il versetto è tramandato in diverse
forme e costruito secondo lo schema di altri saluti conclusivi di Paolo (Rm 16,20;
Gal 6,18; Fil 4,23; Filem 1,25; 2Ts 3,18). Il versetto non appartiene al testo
originario, e nelle nostre attuali edizioni è collocato giustamente solo
nell'apparato critico.
D) Al dato di critica testuale secondo cui Rm 15 e 16 nell'antica tradizione
mancano, si aggiungono delle questioni che il testo tramandato di Rm 16 solleva
in aggiunta. Quando Paolo scriveva la lettera ai Romani, non era mai stato in
precedenza a Roma. In che modo conosce lui, in quella città e in quella chiesa per
lui estranee, quei molti cristiani che in Rm 16,3- 10 che sono chiamati per nome?
Aquila e Prisca, nominati in Rm 16,3, secondo At 18,19.26 e 1Cor 16,19 si
trattengono ad Efeso. Ora essi si devono trovare a Roma, come sembra dalla
comunità che si riunisce nella loro casa. Anche Epèneto, la primizia dell'Asia,
potrebbe essere pensato meglio ad Efeso che a Roma. Alcuni sospettano così che
in Rm 16 vi sia una originaria lettera ad Efeso, dove Paolo nella sua lunga attività
aveva certo conosciuto molta gente. Oppure se è difficile pensare ad una lettera
tutta di saluti, Rm 16 sarebbe il pezzo restante di una (altrimenti perduta) lettera
ad Efeso. L'accorato avvertimento dal guardarsi da falsi maestri (Rm 16,17-20)
sarebbe poi mirato ad un motivo ben preciso. Rm 16 manca dunque forse nei
manoscritti più antichi perché il capitolo è stato aggiunto più tardi? Si dovrebbe
inoltre cercare di circoscrivere ancora meglio il problema. Rm 16,3-20
apparterebbe in ogni caso alla lettera agli Efesini scoperta in precedenza. Il saluto
di 16,20 appare come la sua conclusione. Rm 16,1 e 16,21-23 sembrano però
appartenere allo stesso gruppo e indicare Corinto come luogo di provenienza. In
16,1 è nominato Cencre, il porto di Corinto; il Gaio di Rm 16,23 è probabilmente
lo stesso membro della comunità di Corinto ricordato in 1Cor 1,14. Un'ulteriore
supposizione è perciò quella che forse Paolo abbia inviato la lettera ai Romani sia
a Roma che ad Efeso. La lettera per Roma si sarebbe chiusa con l'augurio di
benedizione di Rm 15,33. Rm 16,1s. e 16,21-23 sarebbero degli speciali saluti
personali di Paolo mandati da Corinto a Roma. Alla lettera per Efeso Paolo
avrebbe aggiunto l'attuale testo di Rm 16,3-20 come saluto. Alla più breve
tradizione romana della lettera fu aggiunta più tardi la sezione Rm 16,3-20
prendendola dalla tradizione efesina. Il testo più lungo si è imposto come il più
completo. A questo testo furono aggiunti Rm 16,24 e rispettivamente 16,25-27
come conclusioni. La maggior parte degli esegeti propende a poco a poco per
l'opinione che Rm 16 o almeno i versetti 16,3-220 non sarebbero appartenuti in
origine alla lettera ai Romani, ma che sarebbero stati una lettera indirizzata ad
Efeso. Alcuni ritengono pur sempre che queste riflessioni critiche non sono poi
così costrittive.
Col vivace movimento di viaggi da cui era attraversato il Mediterraneo di
allora, sembra del tutto possibile che dei cristiani conosciuti da Paolo nei paesi
dell'Oriente si fossero nel frattempo trasferiti a Roma. Anche Aquila e Prisca
potrebbero come mercanti essere ritornati da Efeso alla loro dimora originaria di
Roma (At 18,2). Paolo però voleva ricordare ad uno ad uno i cristiani di Roma a
lui noti forse per non apparire lì del tutto estraneo.
E) Alcune parole ora sull'analisi critica, che anche nella lettera ai Romani
vuole riconoscere diverse parti, paoline e deutero-paoline. W. Schmitals pensa
così che nella lettera ai Romani sarebbero unite insieme due lettere di Paolo (Rm
A soprattutto con 1-11, e Rm B principalmente con 12,1-16,23); non
mancherebbero poi delle aggiunte redazionali. Si discute inoltre l'ipotesi che nella
lettera ai Romani oltre a 16,3-20 si potrebbe trovare ancora qualche altro testo
della già scoperta lettera agli Efesini, come 12, 11 - 15,6 o 14,1 - 15,13. - È
talvolta considerato non paolino anche l'abile florilegio biblico di 3,10-18 oppure
le affermazioni incondizionate (ad ogni modo sorprendenti) sull'autorità sfatate in
Rm 13,1-7. Con fondati motivi Rudolf Bultmann considera piccole glosse i testi
di Rm 2,1.16; 6,17b; 7,25b; 8,1; 10,17; 13,5.
L'intricata tradizione di Rm 15 e 16 è descritta minutamente , oltre che nei
manuali, nelle ricerche di K. Aland, H. Gambler jr., E. Kamlah e R. Schumacher.
Luogo e data di composizione
Paolo scrisse la lettera ai Romani (secondo gli accenni di Rom 15,25=At
20, 1-3) in Macedonia o in Acaia alla fine del terzo viaggio missionario, prima del
suo ultimo viaggio a Gerusalemme. La casa di Gaio ospitava lui e la comunità
(Rm 16,23). Questi è probabilmente quel Gaio di Corinto, che Paolo stesso aveva
battezzato (1Cor 14,14). Paolo si trattiene dunque a Corinto. In Rm 16,21
Sosipatro e Timoteo aggiungono dei saluti personali. Con essi Paolo rimase
secondo At 20,4 a Corinto nella sua permanenza ripetuta in quel luogo. In Rm
16,1 Paolo raccomanda la sorella (cristiana) Febe, la diaconessa della comunità di
Cencre, il porto di Corinto, e chiede che essa sia ricevuta bene. Febe doveva
probabilmente recapitare la lettera. Per tutti questi motivi la lettera è stata
probabilmente scritta a Corinto. Come tempo si pensa all'inizio del 55 d.C. In Rm
16,1 e 16,21 si presuppone in ogni caso che entrambi i testi appartengono alla
lettera originale diretta a Roma.).
2. Introduzione alla Lettera
Della lettera ai Romani faremo la « lectìo cursiva exegetica » dei brani che
formano la struttura portante della nostra lettera, Rm 1,1- 2,16; 3,21-6,14; 8-9; 12-13; 16.
La lettera ai Romani è la più teologica di Paolo ed è difficile anche la
comprensione.
La struttura della lettera
La lettera ai Romani è compresa come due grandi blocchi:
L'indirizzo , (Rm 1,1-7) mittente e destinatari, a cui si inframmezza una piccola
professione di fede, un piccolo credo che tratta del vangelo, della morte e risurrezione di
Cristo.
Il ringraziamento (1,8-15) mostra il motivo per cui vuole andare a Roma; Paolo
infatti scrive questa lettera ad una comunità che lui non ha fondato e che non ha mai visto
direttamente, anche se egli si mostra molto informato delle situazioni della comunità.
Paolo dice che si sente in un dovere di reciprocità, “vengo per ascoltare e per parlare”,
quindi vuol passare per Roma per uno scambio di fede, infatti la sua meta era la Spagna.
Il suo arrivo a Roma si realizzerà in modo diverso da quello che lui aveva progettato;
infatti dopo aver scritto la lettera tornerà a Gerusalemme, all'inizio del 58, sarà
imprigionato e andrà a Roma due anni dopo nel 60-61 e vi arriverà come prigioniero.
Dopo il primo processo avrebbe avuto un certo periodo di libertà e quindi avrebbe avuto
il tempo di andare in Spagna, ma le notizie diventano molto incerte; alcune tradizioni lo
suggeriscono ma prove schiaccianti non ce ne sono; una volta arrivato a Roma gli Atti
degli Apostoli che ci guidano in questo viaggio di Paolo, non ci parlano più di lui, lo
lasciano a Roma anche per un intento chiaramente teologico: Roma era il centro del
mondo e da qui Paolo può lanciare in tutte le direzioni con una valenza di universalità
senza nessuna costrizione il suo messaggio.
Dopo il ringraziamento dal versetto 1,16 abbiamo una 'parte dogmatica' che
arriva fino a 11,36 (secondo altri studiosi fino al cap. 9); questa sezione è così chiamata
perché in questa parte prevale la riflessione, prevalgono gli indicativi sugli imperativi, c'è
un aspetto di ricerca sempre con delle finestre applicative alla situazione concreta.
Dal capitolo 12,1 al capitolo 15,13 abbiamo la 'parte parenetica', cioè di
esortazione; per Paolo c'è una continuità inscindibile fra quello che è il vangelo e quella
che è la condotta.
La conclusione (15,14-16,27) è formata da due parti, alcune confidenze (15,14 -
16,23) e la dossologia finale (16,24-27) che portano dei problemi di critica testuale; Paolo
mostra di conoscere a Roma più di quanto conosce ad Efeso, e infatti qui sorprende la
sfilza di persone che saluta e che forse ha conosciuto personalmente, forse fuori Roma.
Le confidenze sono interessanti per sfatare il mito del Paolo antifemminista, infatti parla
di Tebe, diaconessa della Chiesa di Cencre (16,1) a cui attribuisce un ruolo eccezionale,
ed è in controtendenza sia con l'ambiente giudaico che con quello greco in cui la donna
non aveva nessun ruolo ufficiale nella vita pubblica. Quando appunto a Corinto Paolo
diceva che le donne dovevano stare zitte nelle assemblee è perché lì forse l'atmosfera si
surriscaldava molto di frequente e non era consono alle donne parteciparvi, ovviamente
quella di Corinto era una disposizione transitoria dettata dalle circostanze.
La parte dogmatica
Per quanto riguarda la parte dogmatica c'è una discussione ancora in atto: Paolo
tratterebbe a quattro riprese lo stesso tema di fondo con tre parti:
• situazione di peccato, (1,16-2,16): « amarti.a », peccato, è il tema ricorrente; e su questa
situazione di peccato che scombussola l'uomo arriva il dono della giustificazione
(2,17-5,11); nei tratti di Cristo, che è la « formula uomo».
Secondo l'opinione di alcuni autori il versetto 13 del secondo capitolo accenna alla
giustificazione:
« 13cPerché non coloro che ascolano la legge sono giusti davanti a 'Dio, ma
quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati ».
« οὐ γὰρ οἱ ἀκροαταὶ τοῦ νόµου δίκαιοι παρὰ τῷ θεῷ, ἀλλ᾽ οἱ ποιηταὶ τοῦ νόµου δικαιωθήσονται.»
Quel « δικαιωθήσονται » ha proprio tutta la forza della giustificazione della lettera,
è un primo guizzo che Paolo proietta in questo quadro piuttosto scuro e tetro.
Nella seconda parte Paolo insiste in altri termini sul peccato di tutti; citando
abbondantemente l'Antico Testamento dice che tutti sono inconsistenti, lacunosi: quello che già
ha detto nella prima parte, facendo un quadro fenomenologico, quasi un documentario, adesso
tratta questo argomento dal punto di vista anticotestamentario. In questa parte c'è un lungo
sviluppo della giustificazione: tutti hanno peccato, ma a questa situazione in cui l'uomo si trova,
Dio risponde offrendo all'uomo la giustificazione, offrendola liberamente, spetterà all'uomo aprirsi
a questa attraverso l'apertura alla fede; qualunque sia la situazione in cui l'uomo si trova, le opere
compiute in precedenza non sono in proporzione a questa offerta: la giustificazione è un'offerta
gratuita da parte di Dio fatta a tutti. È la fede al primo livello. La situazione dell'uomo si rovescia
dal negativo al positivo.
Nei versetti 5,1-11 abbiamo il comportamento da figli: avendo la giustificazione
abbiamo un accesso diretto al Padre, lo Spirito Santo riversa nei nostri cuori l'amore proprio di
Dio.
Nella terza parte (5,12-8,39) troviamo la situazione di peccato vista con il rapporto alle
origini, si parla di Adamo contrapposto a Cristo; si parla però ancora di un peccato che gli uomini
portano con sé perché rivivono la situazione di Adamo. È sempre la situazione di peccato vista da
un'altra angolatura. Su questa situazione di peccato interviene la liberazione di Dio tramite l'offerta
della giustificazione (cap. 7). Nei Cap. 6 e 7 abbiamo offerta la liberazione, la giustificazione con
le opere che seguono. Nel capitolo 8 si parla della vita vissuta secondo lo spirito; è il capitolo in cui
i vari aspetti della condotta propria dei figli di Dio secondo lo spirito sono illustrati e dettagliati.
A questo punto arriviamo alla quarta sezione che riguarda il problema degli Ebrei; è una
sezione molto delicata perché riguarda il quadro di dialogo giudeo-cristiano; interpretando questa
sezione in maniera aderente al testo non c'è una mentalità antigiudaica o antisemita da parte di
Paolo, infatti egli era un ebreo e se ne vantava; piuttosto c'è una grande sofferenza che lo tormenta
e che esprime sin dall'inizio, perché la maggior parte dei suoi fratelli ebrei non hanno accolto il
messaggio di Cristo, il messia. Il problema di fondo è questo: i miei fratelli che non hanno
accettato Cristo appartengono al popolo eletto, al popolo scelto da Dio, e le scelte di Dio sono
irreversibili. Allora perché queste scelte si sono arenate davanti a questo blocco del popolo, di
fronte a Cristo che è i1 dono più grande di Dio? Perché? Cerca di dare una ragione e lo fa con un
intuizioni molto profonde: i brani classici sulla predestinazione si trovano in questa sezione. Paolo
cerca di dire qualcosa sulla predestinazione per capire la situazione dei suoi fratelli Giudei che non
hanno accettato Cristo, e non si pone il problema della predestinazione in generale come poi in
seguito si è sviluppato e si è complicato nella storia della teologia, più che nella storia della esegesi.
Ritornando all'esegesi riguardo agli Ebrei Paolo conclude ricordando ai pagani che essi
sono innestati sulla radice ebraica; Paolo poi è ottimista in prospettiva dicendo che ad un certo
punto Israele si convertirà, cioè accetterà Cristo: il « quando » e il « come » Paolo non lo sa e non
lo dice, lui fa un ragionamento di teologia biblica: se la scelta di Dio del suo popolo è irreversibile,
e Dio è giusto in quanto la parola pronunciata da Lui si attua, la promessa fatta ad Abramo si deve
compiere, e siccome di questa promessa fa parte anche Cristo, allora arriverà il momento in cui il
valore di Cristo entrerà nell'ambito del popolo giudaico. Questi tre capitoli sono molti discussi e
creano un'infinità di problemi anche di un notevole interesse.
Quello che interessa a noi è che in questo brano si trovano questi tre elementi che Paolo ha
enunciato prima, ma si trovano in senso negativo: « il peccato dei Giudei è di non aver
accettato Cristo perché non gli hanno creduto, gli Ebrei quindi sono rimasti nella condizione di
peccato antecedente Cristo e sullo stesso piano dei pagani; Paolo parla di una pseudo
giustificazione: quindi restando ancora una situazione di peccato si ha una falsa giustificazione,
perché non si è accettato il messaggio del vangelo; questa assenza di giustificazione è chiamata
'propria giustizia', cioè è il farsi un proprio schema di vita costruendolo con le norme della
legge, per Paolo allora la giustizia del fariseo che, sostenendo di aver osservato tutti i precetti e di
essere in regola con la legge, è una giustizia costruita dalla persona stessa, perché la vera giustizia
viene dall'accettare la vitalità di Cristo che è data da Cristo morto e risorto; se si rimane in un
ambito di osservanza legate e casuistica, questa ci dà una ‘propria giustificazione’ e non quella
data da Cristo.
• C'è un comportamento devitalizzato, cioè i Giudei rimangono nella loro condizione di
peccato perché, peccatori come gli altri, essi si sono chiusi al dono di Cristo che avrebbe loro
portato una vera giustificazione e ad una condotta conseguente e proporzionata alla
giustificazione, sono rimasti chiusi, prigionieri di loro stessi, della loro giustizia, e devitalizzati e
senza questa vitalità propria di Cristo risorto per quanto riguarda la loro condotta.
Passiamo alla sezione parenetica, cioè esortativa, Paolo procede privilegiando la parte
applicativa, esortativa nel senso che prevale l'imperativo; qui c'è una strutturazione che a grandi
linee ci fa capire la struttura portante della lettera ai Romani. Quando si parla di 'parte parenetica', si
intende una parte applicativa, che cerca di scuotere le persone nella loro vita quotidiana, come una
predica che accentua martellando i vari aspetti della prassi, questa sezione della lettera ai Romani
però non è una 'parte parenetica' in questo senso, ma nel senso che prevale l'aspetto del vissuto
inquadrato nei grandi principi che Paolo ha prima esposto nelle precedenti parti della lettera.
C'è il fondamento (Rm 12,1s) la liturgia della vita, la vita vissuta e alcune punte di
questa parte sono "il bene che vince il male", "il rapporto con le autorità civili" che al tempo
della lettera ai Romani era Nerone, che seppur sotto l'influsso di Seneca, non era uno stinco di
santo. Paolo esorta i Romani ad essere dei buoni cittadini, pagando le tasse, pagare i contributi, ad
avere un corretto rapporto con le autorità. Poi insiste su "l'amore come pienezza della legge"
l'amore a cui sono 'appesi' tutti gli altri precetti della legge, e finalmente parla del giorno vicino"
per dire che il procedimento della storia della salvezza sta avanzando, non dice che la parusia sia a
breve scadenza, ma solo che ci avviamo verso l'avvento della parusia.
Una parte importante è quella in cui Paolo parla della vita comunitaria (Rm14,1-15,13);
il Paolo intransigente a Corinto riguardo all'incestuoso, qui si mostra particolarmente
comprensivo; i forti sono coloro che sono cristiani maturi, i deboli sono i cristiani all'inizio del
cammino, gli incerti, fragili. Paolo dice che sia i forti, sia i deboli formano un'unica comunità e si
devono tenere per mano. "Noi forti dobbiamo portare le difficoltà dei deboli".
Esegesi di Rm 3,21-26: “Dio giusto e giustificante”
Movimento letterario del brano
Questo è un movimento letterario caratteristico. Non basta fare l'esegesi perfetta del testo e
dei singoli versetti, ma bisogna saper cogliere il rapporto incrociato che i singoli versetti hanno in
forza dell'insieme, e il trovarsi sempre insieme in un determinato contesto dà loro un dippiù di
significato che presi singolarmente.
Indicazioni bibliografiche.
VANNI, U. "Il sangue di Cristo e Paolo: realtà, simbolo, teologia'', in Sangue e
Antropologia nella liturgia 11 (1983), 134-141.
CADMAN , W.H., "Dikaiosunh Rm 3,21-26", STUDIA EVANGELICA 2 (1964),
532-534. KASEMANN, E., "ZUM VERSTÄNDNIS VON ROM 3,24-26", IN ZNW 43
(1950), 150-154. LYONNET, S., "NOTES SUR L'EXÉGÈSE DE L'EPÎTRE AUX
ROMAINS", BIBLICA 38 (1957), 35-61.
Il movimento letterario in questo brano è di questo tipo: c'è un presente, c'è un passato a cui
ci si rifà e un ritorno ad un presente liturgico. Anche il primo presente può essere interpretato
come un presente liturgico, ma il testo non lo dice esplicitamente a differenza del secondo dove c'è
una manifestazione della giustizia di Dio, della capacità di giustificazione da parte di Dio che
avviene e si realizza proprio in un ambiente liturgico.
Rm 3,2l-22a Presente: nuni. → è il presente in cui si è realizzata e manifestata la realtà della
giustificazione, cioè del pareggio della formula uomo, « l'immagine di Dio nei tratti di
Cristo» e la sua realtà storico spaziale e concreta, cioè l'uomo in carne e ossa.
Rm 3,22b-25a Passato: Questa giustificazione riscatta un passato in cui c'è stato uno squilibrio
per quanto riguarda la giustificazione; lo squilibrio del passato è rimediato dalla giustificazione del
presente, il cui vuoto è il peccato. Paolo fa un affermazione molto forte: tutti peccarono, tutti
hanno avuto bisogno nel passato di questo intervento di Cristo per superare questa lacunosità e
vuoto del peccato per arrivare alla piena forma della giustificazione, che si manifesta nel presente.
Nel passato c'è stato il peccato di tutti e l'intervento di Cristo, l'intervento storico della morte di
Cristo che ha distrutto il peccato e ha permesso la realizzazione della giustificazione.
Rm 3,25b-26: La realizzazione della giustificazione viene manifestata nel presente della piena
simultaneità con la liturgia, fatto vedere e reso tangibile nell'esperienza liturgica.
I singoli versetti
v. 21
Νυνὶ δὲ Adesso però
χωρὶς νόµου fuori dalla legge
δικαιοσύνη θεοῦ la giustificazione di Dio
πεφανέρωται, si è manifestata (e rimane)
µαρτυρουµένη testimoniata
ὑπὸ dalla
τοῦ νόµου καὶ τῶν προφητῶν legge e dai profeti
L'inizio del verso 21 « Nuni..», esprime bene il quadro pesante della situazione di peccato sia dei
Giudei che dei pagani. Il verbo centrale e l'asse portante di tutto il versetto è « πεφανέρωται » un
perfetto che esprime quindi un'azione cominciata nel passato e il cui effetto dura anche nel
presente. È importante altresì notare che adesso nel nostro presente la giustificazione di Dio si è
manifestata, e anche nel nostro presente questa manifestazione ci viene testimoniata, fatta capire
addirittura dalla legge e dai profeti, da un rilettura dell'Antico testamento.
Nuni. de. : è proprio il presente che Paolo e i Romani stanno vivendo.
χωρὶς νόµου: al di fuori della legge dell'Antico Testamento; ricordiamo il triangolo dell'Antico
Testamento: Dio dell'alleanza che ha una istanza operativa che esprime nella Torah, poi ci sono le
minacce che spingono alla pratica della Torah, e l'uomo che la pratica raggiunge il vertice
dell'Alleanza; questo triangolo viene ripreso nel triangolo del Nuovo Testamento dove l'origine
dell'istanza operativa è Dio stesso come Padre che in Cristo manifesta ciò che lui desidera, il tutto
viene visualizzato e reso attuabile dalla forza dello spirito: e allora l'uomo toma da figlio a livello
del Padre. Per Paolo la legge dell'Antico Testamento la concretizzazione dell'alleanza,
contrariamente all'Alleanza stessa, è superata.
δικαιοσύνη θεοῦ: cioè il pareggio tra la formula uomo e la sua realizzazione storica; la formula
uomo è « l’immagine di Dio nei tratti di Cristo ». La giustificazione propria di Dio è una
giustificazione che non riguarda solo Dio, ma la giustificazione che parte da Dio e raggiunge
l'uomo; è la giustificazione propria di Dio e non la propria e personale giustificazione costruita
dall'uomo. Paolo proprio in questa lettera al capitolo 9 polemizza con gli Ebrei che vogliono
mantenere la 'loro giustificazione', mentre la giustificazione vera è quella di Dio.
πεφανέρωται: è la giustificazione che scatta quando, ascoltato l'annuncio del vangelo, l'uomo si
apre con la fede e viene battezzato. Nel contesto del Battesimo quindi comincia la giustificazione;
essa si è anche manifestata nella morte di Cristo, come dice Paolo in Rm 6:
« 4cPer mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte,
perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del ''Padre,
così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. »
Paolo dicendo 'siamo stati sepolti' allude al battesimo per immersione che era in uso nella
Chiesa primitiva e che dà l'idea di uno scendere in un sepolcro e uscirne, altrimenti l'allusione alla
sepoltura sembrerebbe un po' fuori contesto. Nel rito del battesimo non solo si realizza, ma viene
anche espressa, c'è una specie di presentazione visibile della giustificazione perché essa consiste
nel lavarsi dal peccato, lo scendere nell'acqua, e il successivo emergere dall'acqua sottolinea la
piena partecipazione alla risurrezione di Cristo.
La giustificazione quindi iniziata nel rito del battesimo continua a manifestarsi nella liturgia della
Chiesa, come anche nella cena. La manifestazione quindi vera e propria è nell'ambito del rito del
battesimo.
Una volta che il cristiano è battezzato ritrova nell'Antico Testamento indizi di questa
giustificazione, che avviene fuori della legge.
♦ µαρτυρουµένη ὑπὸ τοῦ νόµου καὶ τῶν προφητῶν: l'espressione « τοῦ
νόµου καὶ τῶν προφητῶν » è una frase fatta per indicare l'insieme dell'Antico
Testamento. Paolo dice due cose importanti: la giustificazione, propria di Dio,
adesso si è rivelata ed è stata testimoniata. Sono due aspetti collegati, ma diversi: sono
stati manifestati nel mistero pasquale come si sono poi applicati al cristiano nel
battesimo.
L'evento applicato al cristiano fa sì che egli fattivamente, ontologicamente partecipi alla morte e
alla risurrezione di Cristo; lo svolgimento del rito e anche la vita che il cristiano continuerà a fare
dopo alimentata in modo particolare dalla cena eucaristica, tutto questo allora continuerà a
manifestare ed esprimere questa realtà fondamentale che è avvenuta, e cioè purificazione,
liberazione da tutto quello che ingombra l'interiorità del cristiano e poi impronta nel cristiano della
formula stessa dell'uomo e del cristiano, cioè « l'immagine di Dio nei tratti di Cristo ».
La testimonianza è un fatto successivo: una volta che il cristiano possiede questa realtà e la vede
anche espressa nella sua liturgia e nella sua condotta, la ritrova anche testimoniata e affermata
nella legge e i profeti. La « sedaka » che è attribuita a Dio nell'ambito dell'Antico Testamento è
la fedeltà che Dio ha rispetto alle sue promesse e soprattutto questa capacità transitiva che Dio ha
nel rendere l'uomo giusto, nel far sì che l'uomo faccia pareggio tra la sua formula e la sua realtà
concreta.
v. 22a
δικαιοσύνη δὲ θεοῦ giustificazione di Dio
διὰ πίστεως Ἰησοῦ Χριστοῦ attraverso la fede in Gesù Cristo
εἰς πάντας τοὺς πιστεύοντας per tutti coloro che credono
v. 22b
οὐ γάρ ἐστιν διαστολή non c’è infatti differenza
v. 23
πάντες γὰρ ἥµαρτον tutti infatti peccarono
καὶ ὑστεροῦνται e sono privati
τῆς δόξης τοῦ θεοῦ della gloria di Dio
Il punto più delicato lo troviamo nel versetto 22: ci spostiamo dal presente al passato. Il presente lo
abbiamo ancora nel 22a, mentre nel versetto 22b abbiamo proprio quel riferimento al passato che
è il punto centrale del riferimento al passato.
Paolo ha bisogno di spiegare questa giustizia e giustificazione di cui ha parlato: la giustificazione
di Dio attraverso Cristo raggiunge coloro che credono. Nel verso 22a abbiamo il problema del
«Ἰησοῦ Χριστοῦ» che può essere inteso o come genitivo soggettivo o genitivo oggettivo: fede
in Gesù, o fede propria di Gesù Cristo. Paolo ci dice che «adesso », nel nostro tempo
liturgico, nel nostro presente simultaneo ci troviamo insieme, con una allusione all'assemblea
liturgica. Col versetto 22 siamo con lo sguardo al passato che va rapportato a quello che Paolo ha
detto: nel nostro presente la giustificazione propria di Dio si è manifestata e rimane manifestata
perché Dio l'ha rivelata e l'ha donata in Cristo, e rimane manifestata anche nella vita dei cristiani, e
adesso vedremo come. La giustificazione non è qualcosa che viene fatta solo vedere, manifestata,
ma viene fatta vivere e donata a ogni cristiano. C'è una bipolarità: manifestazione da parte di Dio,
che è cominciata e che continua, accoglienza da parte dell'uomo che è cominciata e che continua e
che rende visibile la manifestazione avvenuta. Quando il cristiano vive la sua giustificazione in un
certo senso dimostra e testimonia che questa giustificazione è veramente cominciata ad esistere e
continua ad esistere.
C'è un dinamismo che consiste nel portare il contenuto della manifestazione stessa verso tutti
quelli che credono; quel « εἰς πάντας τοὺς πιστεύοντας » è importante perché mostra la
direzionalità e l'intenzionalità di questa manifestazione della giustificazione da parte di Dio.
Non c'è infatti differenza perché sia i Giudei che i non Giudei sono in uno stato di non
giustificazione perché tutti peccarono e sono privi della gloria di Dio, la realtà valore di Dio che in
un certo senso coincide con la giustificazione: la gloria di Dio sulla linea di quello che abbiamo
detto, il peso specifico di Dio, quello che qualifica Dio come tale, il pieno valore di Dio viene
comunicato all'uomo con la creazione, in un'immagine che tende a diventare somiglianza; allora
se l'uomo è immagine vera di Dio che poi diventa somiglianza, per cui guardando l'uomo si pensa
a Dio, allora c'è nell'uomo questo valore o questa qualità di Dio e quindi c'è in un certo senso la
gloria di Dio; però l'uomo peccando crea un vuoto e le lacune nel suo sistema portano via parte di
questa immagine e somiglianza di Dio: l'uomo che pecca si priva della gloria, del peso specifico
di Dio che dovrebbe avere e quindi non è più giustificato, cioè non fa più pareggio tra quello che è
la formula uomo, l'immagine di Dio nei tratti di Cristo e la sua realtà.
Approfondiamo l’espressione “διὰ πίστεως Ἰησοῦ Χριστοῦ”, ‘attraverso la fede di Gesù
Cristo: abbiamo detto che possiamo intendere il genitivo “Iesou Christou” soggettivo o oggettivo.
L’interpretazione più comune, “la fede in Gesù Cristo”, è quella che intende il genitivo come
oggettivo, cioè la fede che permette di accogliere il messaggio del Vangelo, il Cristo morto e risorto.
Questa interpretazione è sen’altro plausibile, però c’è da chiedersi se sia l’unica, perché
l’espressione ‘la fede di Gesù Cristo’ sembra dire qualcosa di più: tende ad attribuire un
atteggiamento di fede anche a Gesù Cristo, personalmente (genitivo soggettivo: Cristo è il soggetto
della fede). Diciamo subito però che non si può attribuire in modo assoluto il nostro atteggiamento
di fede a Gesù Cristo, uomo, per la natura divina infatti non avrebbe alcun senso.
Mai, in Paolo e negli altri autori, Gesù appare ‘soggetto di fede’, mai si usa il verbo pisteuo
riferendolo a Gesù. Che gli uomini dovessero credere è abbondantemente attestato sia in Paolo che
in Giovanni, ma è sempre riferito all'uomo e non a Gesù. Gesù quindi non diventa un soggetto di
fede come lo siamo noi. Detto questo si può escludere qualunque atteggiamento di fede, una 'fede
analogica' in Gesù? Molti studiosi oggi tendono a rispondere negativamente, cioè non si può
escludere in Cristo un tipo di fede, che non è la nostra, ma che ha con quest'ultima qualche punto di
contatto.
Quella fede con cui accettiamo il vangelo, primo livello di fede, ci permette di accogliere
Gesù Cristo; accogliendo Gesù Cristo morto e risorto accogliamo un Gesù vivente che ci da tutte le
virtualità della sua morte e risurrezione; se dunque è vivente quelle che sono i suoi atteggiamenti e
scelte di fondo tendono a trasferirsi da lui a noi: è dunque la partecipazione della vitalità di Cristo
risorto, che pervade tutti gli aspetti della nostra vita. A questo punto c'è un atteggiamento di fondo di
Gesù analogo alla fede che è l'affidamento al Padre: Gesù si affida sempre al Padre, è un
entusiasta del Padre, quello che fa lo fa amando e dialogando con il Padre. Questo atteggiamento ha
qualche punto di contatto con la fede che è un affidarsi completamente al Padre che ci dona la
ricchezza di Cristo. Questo punto di contatto importante non è il contenuto, Cristo che mi viene
dato, ma è l'atteggiamento di fondo di Cristo che è l'affidamento che ha avuto nei riguardi del Padre
e che diventa anche mio con la fede al primo livello.
La fede è un'apertura, non è una produzione, essa è semplicemente un dire 'sì, facendo un
esempio può essere paragonata ad un interruttore che mi fa passare la corrente elettrica per
accendere una lampadina. Se però non c'è un contenuto (Cristo = corrente elettrica) a poco serve
questa apertura. Se Dio non fosse sempre in questo atteggiamento di dono nei riguardi di Cristo,
potremmo avere tutte le aperture della fede, ma il dono di Cristo non entrerebbe in noi: entra perché
Dio ce lo dà in continuazione.
Questo scaturisce dal fatto che Paolo sente la polemica riguardo le opere della legge: "fai
quello che la legge dice altrimenti non arrivi al livello dell'alleanza"; Paolo dice che le opere sono
rilevanti prima della fede: quello che per Paolo va fatto è aprirsi a questo dono di Dio, poi verranno
anche le opere.
L'affermazione « πάντες γὰρ ἥµαρτον » è un'affermazione di categoria, Giudei e non Giudei, non è
quindi necessariamente un 'tutti' distributivo, ci potevano essere delle eccezioni, delle persone molto
rette come nel campo pagano con la figura di Seneca che non coincide con l'atteggiamento che
Paolo descrive nella sua lettera. Il peccato per Paolo è una lacuna ed usa tre termini per designarlo:
=> , amarti.a amarta.nw: amartìa è un bersaglio non colpito, lo sbagliare nel colpire un
bersaglio. C'è Uno sbaglio, una lacuna che viene portata in campo morale: ci sono delle esigenze
che non vengono rispettate, c'è un vuoto che costituisce il peccato. Quando nell'Antico Testamento
il contesto è determinato dalla legge evidentemente amartìa quasi sempre è un peccato legale, è
un vuoto che si realizza rispetto alle esigenze della legge. Per quanto riguarda i pagani Paolo dice
che anche i pagani che non hanno "la Legge" sono legge a se stessi', perché essi trovano dentro di
loro delle istanze operative che rispondono ad un piano operativo che essi non rispettano.
Queste sono delle lacune che riguardano l'uomo, cosa interessano a Dio? E’ allora utile
ricordare che quando Dio crea l'uomo, lo fa coinvolgendosi, con amore, con passione. E allora se
questo uomo non si realizza e si rovina, è chiaro che Dio rimane offeso, ferito e soprattutto poiché
lo ama Dio si irrita, si arrabbia; Dio non si offende perché i suoi diritti sono stati violati, ma perché
ama e rimanendo in disagio e contrariato non tollera le lacune dell'uomo.
=> parabasij trasgressione, "trans-gressio" cioè un muoversi al di là: c'è la legge che indica une
certa linea di comportamento ed io rispetto a questa linea vado al di fuori; faccio mancare nel mio
contesto un elemento che doveva essere presente, quindi faccio un vuoto nel mio quadro.
=> para,ptwma, da parapi,ptw, indica un passo falso che fa cadere, se l'uomo non si comporta
secondo questo quadro di riferimento che lo porta alla realizzazione, fa delle scelte diverse che lo
fanno cadere.
Tutti peccarono quindi, senza distinzioni per le loro scelte, perché le loro scelte sono andate al di
fuori di quella linea che Dio aveva proposto sia ai giudei, sia ai pagani.
Continuando l'esegesi del nostro brano ci viene precisato da parte di Paolo che «πάντες γὰρ
ἥµαρτον», tutti peccarono; e quale è il risultato del peccato, da comprendersi nelle due aree
culturali in cui Paolo si trova, Giudei e pagani? Paolo inoltre insiste che tutti peccarono « e sono
privi della gloria di Dio », cioè gloria nel senso di peso specifico di Dio, di una realtà propria di
Dio; non è che l'uomo priva Dio della sua gloria perché ciò sarebbe impossibile, ma priva se stesso
della gloria divina, si espropria di qualche cosa propria di Dio. Questa espressione quindi a prima
vista è paradossale, Paolo infatti dice che compete proprio all'uomo questa somiglianza e immagine
di Dio per cui l'uomo è stato fatto secondo la formula uomo, immagine di Dio nei tratti di Cristo.
Riassumendo quindi possiamo dire che secondo Paolo l'uomo si priva di qualcosa che è suo
proprio che non è chiuso nell'orizzonte umano ma che è aperto alla trascendenza per volere di Dio:
nella misura in cui l'uomo non realizza se stesso, toglie quel qualcosa di Dio che Egli aveva messo
nell'uomo, e nella misura in cui l'uomo si distacca da Dio toglie qualcosa da se stesso.
Un'ultima osservazione è tener presente che questa privazione della gloria di Dio, della realtà
propria di Dio che l'uomo attua nel suo contesto con il peccare, non è qualcosa solo di metafisico, di
ontologico, bensì concerne anche il comportamento. L'uomo che non si realizza a immagine di Dio
si realizza a immagine rovesciata; infatti se si realizza a immagine di Dio egli realizza i valori
positivi nella sua vita privata, sociale e politica: è l'uomo che realizza la legge di Dio (Antico
Testamento).
Paolo ora con il verso 24 mischia un po' il presente con la situazione passata; egli constata
che la giustificazione è già in atto come processo però essa si basa su un evento che appartiene al
passato, la morte e risurrezione di Cristo con la forza di liberazione; nel presentare quindi la
giustificazione che si sviluppa nel presente tiene ancora un occhio rivolto al passato, e tiene presente
anche quello che della giustificazione è già attualità, che si svilupperà ancora in futuro.
v. 24
δικαιούµενοι δωρεὰν giustificati gratuitamente
τῇ αὐτοῦ χάριτι per la sua benevolenza
διὰ τῆς ἀπολυτρώσεως per mezzo della redenzione
τῆς ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ quella in Cristo Gesù
Il participio « δικαιούµενοι », giustificati è un presente per cui indica una continuità, una
specie di giustificazione che avanza. Il termine « δωρεὰν » è ben tradotto con gratuitamente, ma
è rifacendoci all'etimologia giustificati come dono, non ci si rifà ad una gratuità commerciale,
come un regalo apparente , ma c'è da parte di Dio una benevolenza che si fa dono. Paolo poi
sottolinea ulteriormente questa benevolenza di Dio con un dativo di collegamento, per mezzo della
redenzione quella in Cristo Gesù.
C'è un rapporto tra « δικαιούµενοι δωρεὰν » e la conclusione « ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ »; questa
giustificazione ci viene in rapporto con Cristo Gesù: questo sottolinea che questa redenzione attuata
da Cristo Gesù non è un prezzo pagato alla giustizia del Padre, ne tantomeno al demonio, perché se
ci fosse stata questa esigenza da parte della giustizia di Dio, cioè l'uomo contrae un debito con Dio e
questo viene pagato da Cristo che dà la vita, il versetto 24 non avrebbe nessun senso, non ci sarebbe
più una giustificazione gratuita, ma è Cristo che paga il debito dell'uomo. Invece Cristo dà la sua
vita per l'uomo, il Padre la accetta ma tutto in un dialogo misteriosissimo di amore.
Anche la redenzione, questo riscatto-ricompera di cui parlavamo, che Cristo ha attuato è
essa stessa un dono particolare della bontà e della benevolenza di Dio.
Paolo realizza un approfondimento in rapporto con l'Antico Testamento facendo un
paragone ardito fra il coperchio dell'arca e la vita donata da Gesù Cristo: è un brano difficile e
controverso.
v. 25
ὃν προέθετο ὁ θεὸς ἱλαστήριον che Dio progettò propiziatorioδιὰ
τῆς πίστεως, ἐν τῷ αὐτοῦ αἵµατι tramite la fede nel suo sangue
εἰς ἔνδειξιν τῆς δικαιοσύνης αὐτου per la manifestazione della sua giustizia
διὰ τὴν πάρεσιν τῶν προγεγονότων ἁµαρτηµάτων tramite la remissione dei peccati
antecedenti
v. 26a
ἐν τῇ ἀνοχῇ τοῦ θεοῦ nella pazienza di Dio
Alcuni traducono il verbo « προέθετο » con progettare, altri studiosi lo traducono con
esporre: la differenza da fare è che il progettare è nell'eternità propria di Dio, mentre esporre è
mettere davanti ed entrambi i significati sono propri di questo verbo, ma a detta del professore è
preferibile il significato di progettare. Gesù Cristo è pensato quindi come uno strumento di
propiziazione « ἱλαστήριον », che Cristo realizza nel suo sangue e di cui il cristiano si appropria
mediante la fede. Lo scopo del progetto di Dio è la manifestazione della sua giustizia, della sua
capacità di giustificazione. Il significato di fondo è questo: il peccato di per sé offende Dio perché
l’uomo, facendo la scelta sbagliata del peccato, contraddice l’indicazione che Dio gli dà, e quindi fa
un danno a se stesso e a Dio che è colui che ha fatto l’uomo. Di fronte a questo uomo che si auto
lesiona Dio ha un atteggiamento di sopportazione. Il termine ἀνοχῇ in prospettiva vuole indicare
che Dio ha una capacità di sopportazione e potremmo aggiungere quello che Paolo dice altrove,
cioè che Dio è Padre, è Padre con cuore di Madre e allora possiede questa pazienza costruttiva,
quelle risorse di amore all’infinito proprie di un padre con cuore di madre come il profeta Isaia ci
presenta (Is 66,13)
Ora passiamo dal passato al presente.
ὃν προέθετο ὁ θεὸς: il « προ » può intendersi o in senso spaziale "davanti", una
visualizzazione della croce, o in senso temporale trascendente "prima"; se intendiamo il « προ »
secondo la prima ipotesi avremo il significato di "porre avanti a", cioè Dio fece una specie di
manifestazione visiva del Cristo, percettibile e visibile, se intendiamo il « προ » secondo la seconda
ipotesi allora avremo “porre prima”, nel 'prima' di Dio, cioè nella sua trascendenza, il che è
tipico del ragionamento di Paolo. É preferibile il senso di prima temporale, un 'prima' che
aggancia la trascendenza divina.
ἱλαστήριον: Cristo è paragonato al "coperchio propiziatorio" «ἱλαστήριον evpi,qema»; è
l'unica volta nel Nuovo Testamento che questo aggettivo si trova come sostantivo. C'è una
allusione che Paolo ha in mente, e chissà quanto i Romani ne hanno capito!! Infatti anche la
comunità giudaica di Roma non sembra che fosse una comunità particolarmente istruita come
quella per esempio che era ad Alessandria, che aveva una familiarità con l'Antico Testamento tanto
da cogliere queste allusioni. Paolo prende l'immagine del coperchio dell'arca dove una volta l'anno
nel giorno dell'espiazione veniva versato il sangue del capro espiatorio, e attraverso il sangue
versato secondo un rito descritto in Lv 16, venivano espiati, annullati i peccati del popolo.
Questa specie di sacrificio toglieva i peccati del popolo: il Sommo Sacerdote entrava nel
santo dei santi e versava il sangue sul coperchio dell'arca e questo rito metteva in armonia Dio e il
suo popolo. Partendo probabilmente da questo uso Paolo arditamente dice che Cristo nella sua
azione di ricompera-redenzione svolge la stessa azione del coperchio dell'arca spruzzato di sangue,
cioè di stabilire l'armonia tra Dio e il popolo. Non è stata inoltre una iniziativa di Dio, ma è Dio che
l'ha progettato come 'STRUMENTO DI PROPIZIAZIONE' per compiere la redenzione, con una
grandissima differenza che il sommo sacerdote offriva il sangue di un animale e questo ristabiliva
l'armonia, Cristo invece dà la sua propria vita; il sommo sacerdote si serviva di un propiziatorio, il
coperchio dell'arca diveniva luogo di propiziazione, analogamente Cristo, in questo dono della sua
vita realizzato nella croce, diventa luogo di riconciliazione totale tra l'uomo e Dio.
Il tutto avviene « διὰ τῆς πίστεως », attraverso la fede, e questo fa un po' di difficoltà perché
nel testo sembra messo con una certa violenza; di fatto se si pensa al contesto di Paolo questa
violenza non si trova perché Paolo non si stanca di ripetere, anche in polemica con i Giudei, che
l'elemento che ci permette di appropriarci della ricchezza della morte e risurrezione di Cristo è
l'apertura della fede e non le opere che abbiamo fatto. Vedi le argomentazioni sulla fede di Gesù al
versetto 22a.
ἐν τῷ αὐτοῦ αἵµατι: il suo sangue è la vita donata da Cristo, ma siccome Paolo si sta spostando dal
passato al presente, e vedremo nel versetto seguente una accentuazione molto forte del presente, è
chiaro che la vita donata da Cristo ha anche come secondo significato nel prolungamento del primo
un significato eucaristico perché nella cena si annunzia la morte del Signore e si assimila, come
abbiamo visto a Corinto, la morte del Signore con tutte le sue implicazioni della propria vita.
εἰς ἔνδειξιν τῆς δικαιοσύνης αὐτου : per dimostrare la sua giustizia ; questo è un punto importante
per una giusta interpretazione: riguardo l'ipotesi della visualizzazione, interpretando la crocifissione
come una dimostrazione, viene spontaneo quindi dire che Dio nella crocifissione ha mostrato la sua
giustizia; scatta allora l'idea della giustizia commutativa del Padre soddisfatta dal dono del sangue di
Cristo: questa interpretazione non sarebbe comunque giustificata, perché la manifestazione della
giustizia di Dio è la capacità di rendere l'uomo giusto, piuttosto che una giustizia che esige. Nella
seconda interpretazione un po' più profonda, sulla linea di Paolo, è che Dio nella crocifissione
mostra sicuramente quanto chiede al Figlio per spostarci dalla situazione di non appartenenza ad
una situazione di omogeneità, ma visualizza la sua capacità di giustificazione e non la sua giustizia
da tribunale, mostra cioè la capacità di rendere l'uomo in pareggio con quel suo progetto nei suoi
riguardi, cioè fare di lui l'immagine di Dio nei tratti di Cristo.
Quindi se interpretiamo « προέθετο » e « ἱλαστήριον » sulla linea di progettare nella sua
eternità come mezzo di propiziazione e di recupero, allora questa visualizzazione non si riferisce
all'evento della croce ma alla vita cristiana. Dio quindi ha pensato a Cristo crocifisso come luogo
dove avviene questo superamento totale della peccaminosità; l'uomo può essere peccaminoso
quanto vuole, può disubbidire alla legge, ma viene, se vuole, raggiunto da questa capacità
vertiginosa di recupero che egli ha nei riguardi dell'uomo realizzata nella croce, e la manifesta in
quella giustificazione che si realizza nella vita cristiana; quando il cristiano, giustificato, comincia ad
amare gratuitamente, realizza i valori di Dio nei tratti di Cristo, e questo si vede, allora in questa
realizzazione dei valori cristiani delta vita si legge la giustificazione di Dio, la capacità che ha Dio di
giustificare l'uomo.
Tutto questo presuppone la remissione dei peccati avvenuti in precedenza « διὰ τὴν πάρεσιν τῶν
προγεγονότων ἁµαρτηµάτων »: « ἁµαρτηµa » indica non tanto l'atto di peccato, lo suppone, ma il
risultato di una azione, quindi qui indica non solo gli atti di peccato avvenuti prima, ma gli effetti
causati dagli atti di peccato. Paolo qui indica quindi la remissione delle conseguenze degli atti di
peccati avvenuti in precedenza.
ἐν τῇ ἀνοχῇ τοῦ θεοῦ: Dio di fronte al peccato non scatta punendo l'uomo, non lascia l'uomo nella
situazione in cui l'uomo precipita, ma con il suo amore lo sopporta e lo supera.
πρὸς τὴν ἔνδειξιν per la manifestazione
τῆς δικαιοσύνης αὐτοῦ della giustizia di lui
ἐν τῷ νῦν καιρῷ nel tempo di adesso
εἰς τὸ εἶναι αὐτὸν per essere lui
δίκαιον καὶ δικαιοῦντα giusto e giustificante
τὸν ἐκ πίστεως Ἰησοῦ chi è dalla fede di Gesù.
Paolo qui non ci dice niente di nuovo, insiste sulla manifestazione che nella linea
dell'interpretazione di « προέθετο » come progettare avviene nell'ambito della vita cristiana con
una probabile insistenza sull'assemblea liturgica. Non è solo la manifestazione della giustizia intesa
come capacità giustificante di Dio avvenuta nell'evento della crocifissione, Paolo insiste sul presente
« ἐν τῷ νῦν καιρῷ », in cui c'è una manifestazione, una visualizzazione attiva della giustizia di
Dio che avviene sempre mediante la fede.
πρὸς τὴν ἔνδειξιν: "endexin" è una manifestazione attiva, da « dei,knumi » da cui il latino
"dico", esprimo parlando, evidenziando.
τῆς δικαιοσύνης αὐτοῦ: questa è la giustificazione che solo Dio dà; non è una giustificazione che
l'uomo fabbrica da solo, ma una giustificazione che Dio ha e vuol dare in dono.
ἐν τῷ νῦν καιρῷ: questo è importantissimo soprattutto riguardo la distinzione con «cro,noj »: «
cro,noj » indica il tempo in generale, tutta la linea del tempo, « kairo,j » invece è una parte di
questa linea del tempo con delle caratteristiche particolari. Quando Paolo usa quindi «kairo,j»
indica un tempo particolare, non un giorno, un mese, un anno, ma un periodo con caratteristiche
che lo distinguono dal tempo in generale e da altri « kairo,i ». Paolo ha in mente questo segmento
di tempo che lui sta vivendo insieme ai Romani.
Dio mostra-visualizza-dice la sua capacità di giustificazione nel tempo in cui stiamo parlando, nel
nostro tempo, nella nostra vita in cui ci sono i tratti e le gemme della giustificazione in modo che
Dio « εἰς τὸ εἶναι αὐτὸν δίκαιον καὶ δικαιοῦντα » è giusto e giustificante. Dio è giusto non nel senso
della giustizia commutativa ma nel senso che fa pareggio tra quelle che sono le sue promesse e la
loro realizzazione nella storia, Dio se promette di salvare salverà: c'è un pareggio tra quello che
esprime di se stesso e quello che poi farà di fatto nella storia. Se Dio è davvero giustificante allora la
sua azione produce quindi un certo pareggio, non proprio quello finale, nell'uomo che si apre con la
sua fede al vangelo, accettando poi i contenuti di Cristo in un secondo livello di fede.
Il cristiano è « τὸν ἐκ πίστεως Ἰησοῦ » colui che è dalla fede di Gesù. Perché il cristiano abbia
la stessa aspirazione oblativa di fondo di Gesù si richiede una assimilazione, tempo, una crescita
della sua omogeneizzazione cristologica, una cristificazione del cristiano: solo quando questa
cristificazione almeno in parte è già avvenuta (nel secondo livello di fede) ha senso la frase che
qualifica il cristiano come colui che è dalla fede di Gesù, che nasce e fiorisce dalla fede di Gesù.
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