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L’impiego di nanotecnologie e
nanomateriali per il recupero e la
conservazione dei beni culturali
Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali
3
Indice
Consorzio Innova FVG ........................................................................................................................... 4
Progetto Nanocoat ................................................................................................................................. 5
Introduzione ........................................................................................................................................... 6
1. Nanomateriali e Nanotecnologie ................................................................................................... 8
2. Le Nanoparticelle ......................................................................................................................... 14
2.1. Idrossido di Calcio .................................................................................................................. 14
2.2. Idrossido di Magnesio ............................................................................................................ 23
2.3. Idrossido di Bario ................................................................................................................... 25
2.4. Idrossido di Stronzio ............................................................................................................... 27
2.5. Biossido di Silicio ................................................................................................................... 29
2.6. Biossido di Titanio .................................................................................................................. 34
2.7. Nanodiamanti ......................................................................................................................... 42
2.8. Idrossiapatite .......................................................................................................................... 43
3. I Materiali Nanostrutturati ............................................................................................................ 50
3.1. I Film: “Smart Surfaces” ......................................................................................................... 50
3.2. I Fluidi .................................................................................................................................... 61
3.3. I Gel ....................................................................................................................................... 70
4. I Nanosensori ............................................................................................................................... 81
4.1. Nanosensori di Temperatura .................................................................................................. 82
4.2. Nanosensori di Umidità .......................................................................................................... 84
4.3. Nanosensori di Inquinanti ....................................................................................................... 85
5. Applicazione delle Nanotecnologie per i Beni Culturali ........................................................... 90
5.1. Consolidamento ................................................................................................................... 103
5.2. Pulitura ................................................................................................................................. 113
5.3. Deacidificazione ................................................................................................................... 127
APPENDICE I: prodotti commerciali ................................................................................................. 139
APPENDICE II: analisi microscopiche nei beni culturali ................................................................ 142
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
4 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Consorzio Innova FVG
Il Consorzio INNOVA FVG è un Ente Pubblico Economico senza fine di lucro partecipato interamente
dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. E’ stato costituito con L.R. 17/2011 e L.R. 27/2012 in
seguito al processo di razionalizzazione di Agemont SpA e gestisce in continuità di rapporti giuridici
attivi e passivi le attività di incubazione, di animazione economica e di trasferimento tecnologico
afferenti il Parco Tecnologico e Scientifico di Amaro.
Opera come organismo di ricerca (ente il cui fine statutario consiste nello svolgimento di attività di
ricerca, sviluppo tecnologico e diffusione della conoscenza - Comunicazione Commissione Europea
2006/C 323/01) specificatamente devoluto allo sviluppo del territorio montano.
Gestisce il Centro di Innovazione Tecnologica di Amaro, conducendo in tale sede attività di ricerca e di
incubazione di imprese e ha una propria sede secondaria a Maniago (PN).
Il Consorzio INNOVA FVG, così come previsto dallo statuto, favorisce il trasferimento alle imprese delle
conoscenze tecniche e scientifiche sviluppate all'interno dei Centri di Innovazione Tecnologica e di
ricerca regionali e nazionali, promuove la cultura dell'innovazione all'interno del sistema imprenditoriale,
territoriale scolastico e il collegamento tra il mondo dell'impresa, il mondo accademico e della ricerca e il
mondo della pubblica amministrazione regionale, favorendo in ogni modo la ricerca scientifica applicata,
lo sviluppo tecnologico, la diffusione dei conseguenti risultati e le sinergie fra soggetti pubblici e privati
ugualmente interessati all'apporto e allo sviluppo di specifiche conoscenze ed esperienze. Favorisce
inoltre l'accesso alle opportunità di pubblico finanziamento dirette a sostenere la ricerca scientifica e
l'innovazione tecnologica quali strumenti di sviluppo economico.
Il Centro di Innovazione Tecnologica di Amaro è qualificato come Parco Scientifico e Tecnologico
(PST).
Il Centro ospita laboratori che sono stati pensati e realizzati con l'obiettivo di fornire servizi complessi,
specializzati e tecnologicamente avanzati alle imprese del territorio e diventare elementi strategici per
un nuovo modello di sviluppo della montagna basato sull'innovazione e l’incubatore/acceleratore di
impresa, ovvero spazi attrezzati che vengono messi a disposizione delle imprese per facilitare lo start-
up, supportare la crescita imprenditoriale e attivare percorsi di accelerazione d’impresa.
Il Consorzio INNOVA FVG opera in stretta collaborazione e coordinamento con gli altri Parchi Scientifici
e Tecnologici regionali.
Per maggiori informazioni: www.innovafvg.it
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Progetto Nanocoat
NANOCOAT è un’iniziativa di trasferimento tecnologico e di sviluppo sperimentale nel campo dei
materiali e dei trattamenti superficiali nanostrutturati, finanziata dall’art. 21 della l.r.26/2005 del Friuli
Venezia Giulia (Legge sull’Innovazione).
Scopo dell’iniziativa, gestita dal Consorzio Innova FVG in collaborazione con il Consorzio per il Nucleo
di Industrializzazione della Provincia di Pordenone, è quello di aumentare il livello di competitività delle
imprese regionali andando a migliorare le caratteristiche prestazionali dei materiali attualmente
impiegati in produzione.
Dal punto di vista operativo nella prima fase del progetto è stato effettuato un monitoraggio delle
imprese appartenenti ai diversi settori di riferimento per rilevare le esigenze, tecnologie e materiali
impiegati. I risultati ottenuti, opportunamente analizzati e sintetizzati, hanno permesso di identificare le
applicazioni principali di interesse per le imprese del territorio.
Sono quindi stati organizzati cicli di seminari tecnologici, rivolti ciascuno ad uno specifico settore target,
con l’obiettivo di dare la massima divulgazione dello stato dell’arte, delle potenzialità e delle prospettive
delle nanotecnologie applicate ai materiali e ai trattamenti superficiali. Per ogni settore sono stati
realizzati audit tecnologici approfonditi necessari per individuare materiali e funzionalità potenzialmente
migliorabili. Le applicazioni di maggior interesse sono state oggetto di appositi studi di prefattibilità
attraverso i quali sono state ipotizzate soluzioni tecniche e realizzate campionature.
I risultati convalidati delle sperimentazioni effettuate sono contenuti nelle pubblicazioni disponibili sia in
formato cartaceo che in formato elettronico.
Al fine di creare le migliori condizioni per tradurre i risultati della ricerca in applicazioni industriali
rendendo più veloce e semplice l’accesso delle imprese a queste tecnologie è stata creata
NANONET.EXE - The Network of Excellence in Nanotechnologies una rete di Centri di ricerca pubblici,
privati e Università coordinata dal Consorzio Innova FVG.
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6 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Introduzione
La conservazione del nostro patrimonio culturale è fondamentale per il trasporto alle future generazioni
della nostra cultura, delle tradizioni e dei modi di pensare e di comportarsi.
La conservazione ha un impatto impressionante sulla nostra società dal punto di vista politico,
sociologico e antropologico, nonché un forte impatto economico sulla più grande attività industriale che
grazie ad essa vive e si sviluppa: il turismo, che genera un fatturato annuo a livello europeo di 335
miliardi di € e circa 10 milioni di posti di lavoro. Il turismo genera indirettamente più del 10%
dell’economia dell’Unione Europea e fornisce circa il 12% della forza lavoro (EU business 2013).
La moderna scienza della conservazione ha origine dalle tragiche inondazioni che hanno devastato
Firenze e Venezia nel 1966 ed ha imposto la ricerca di nuove metodologie per ripristinare e conservare
l’immenso patrimonio culturale fortemente danneggiato dall’alluvione attraverso lo sviluppo di due filoni
principali: (i) la caratterizzazione analitica dei materiali che costituiscono le opere d’arte, la
caratterizzazione della tecnica pittorica utilizzata dagli artisti, e la chimica delle reazioni coinvolte nel
loro degrado; (ii) la ricerca di nuovi metodi scientifici per il restauro/conservazione, che consenta il
trasferimento del patrimonio culturale alle future generazioni.
Gli ultimi tre decenni hanno visto importanti sviluppi nella scienza della conservazione. La scienza dei
colloidi e dell’interfaccia, insieme con la scienza dei materiali, che appartengono al regno delle
nanoscienze popolari, hanno fornito concetti, tecniche, competenze e strumenti per aumentare la
comprensione dei processi di degrado più comuni delle opere d’arte. Allo stesso modo queste discipline
hanno fornito metodi affidabili per una durevole e, per quanto possibile, compatibile conservazione.
Esempi sono: (1) le nanoparticelle; (2) le micelle; (3) le microemulsioni; (4) i gel fisici e chimici; (5) i gel
“sensibili” (6) le nano-spugne; (7) i nanosensori.
Il mercato per la conservazione del patrimonio storico/artistico europeo è stimato a circa 5 miliardi di €
l’anno, e potrebbe aumentare di un significativo fattore nei prossimi anni a causa del più ampio utilizzo
dei nanomateriali. Gli obiettivi della ricerca sono legati alla migliore valutazione dei danni, allo sviluppo
di strategie di conservazione innovative e all’integrazione delle tecnologie più avanzate per consentire
la loro protezione e fruizione sostenibile ed efficace nel contesto della gestione intelligente della città. La
promozione della cultura e dei beni culturali promuove la creatività con un feedback prezioso
sull’innovazione industriale in qualsiasi settore.
Le metodologie riportate in questo lavoro per il consolidamento, la pulizia, la deacidificazione e il
monitoraggio conservativo dei manufatti coprono una parte significativa e rappresentativa dei casi di
studio incontrati nella conservazione dei Beni Culturali. L’approccio descritto si basa sull’uso di sistemi
avanzati (derivati dalla scienza dei colloidi e materia soffice) applicati per le esigenze pratiche di
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restauro e di conservazione, infatti la maggior parte dei metodi riportati sono già stati utilizzati in lavori di
restauro, laboratori e atelier in tutto il mondo.
I sistemi di conservazione descritti rappresentano un miglioramento significativo sulle metodologie di
conservazione tradizionali perché i sistemi avanzati proposti mostrano proprietà avanzate, vale a dire:
alta compatibilità fisico-chimica con i costituenti delle opere d’arte, cioè l’applicazione dei sistemi
avanzati minimizza o completamente evita qualsiasi alterazione delle originali proprietà fisiche e
chimiche del substrati artistico/storico.
i nanomateriali proposti sono o non tossici o mostrano una tossicità significativamente ridotta
rispetto ai materiali di restauro tradizionali, come solventi puri o miscele di solventi.
l’uso di nanomateriali avanzati permette un maggiore controllo degli interventi di restauro, ad
esempio pulizia altamente controllata rispetto ai metodi di pulizia tradizionali può essere effettuata
usando microemulsioni e idrogel chimici.
le metodologie innovative proposte sono fattibili e affidabili, e in molti casi più semplici e più veloci
rispetto ai metodi tradizionali. In alcuni casi vengono proposti metodi in cui è necessario un
approccio graduale e lento per garantire la stabilità, anche nel lungo termine, del manufatto trattato
(al contrario di interventi tradizionali “veloci” che potrebbero comportare inconvenienti, richiedendo
cosí interventi successivi).
I contenuti dello studio sono strutturati come segue: in primo luogo viene fornita una panoramica sui
principali nanomateriali sviluppati negli ultimi 30 anni (dispersioni di nanoparticelle, soluzioni micellari,
microemulsioni e gel, nanocompositi e nanosensori), spiegando le loro caratteristiche principali e
applicabilità. Poi, capitoli specifici sono dedicati ai substrati storico/artistici (quali pareti e dipinti da
cavalletto, pietra, carta, tela e legno), trattando i principali processi di degrado dei manufatti e delle
applicazioni reali per la pulizia, il consolidamento o la deacidificazione delle opere d’arte. Casi reali,
dove l’uso delle nanotecnologie si é dimostrato fondamentale ed innovativo, rispetto alle tecniche di
restauro tradizionali, sono considerati e discussi.Infine vengono fornite due appendici che elencano i
principali prodotti nanostrutturati attualmente disponibili sul mercato europeo e le principali tecniche di
caratterizzazione utilizzate nella sintesi e messa a punto dei nanomateriali.
Il presente studio è stato realizzato da Maria Laura Santarelli, Alessandra Broggi, Maria Paola
Bracciale, dell’Unità di Ricerca INSTM Roma La Sapienza.
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8 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
1. Nanomateriali e Nanotecnologie
Dal momento che la nanotecnologia è stata introdotto dal premio Nobel Richard P. Feynman nel corso
della sua ormai famosa conferenza 1959 “There’s Plenty of Room at the Bottom”[1] ci sono stati
rivoluzionari sviluppi della fisica, chimica e biologia che hanno dimostrato l’idea di Feynman di
manipolazione della materia ad una scala estremamente piccola, a livello di molecole e atomi, cioè la
scala nanometrica. Anche se il significato di “nanotecnologia” varia da settore a settore e da paese a
paese ed è ampiamente usato per la descrizione di qualsiasi cosa di molto piccolo, la nanotecnologia è
comunemente definita come la comprensione, il controllo, e la ristrutturazione della materia nell’ordine
dei nanometri (cioè nel range 10-9 m) per creare fondamentalmente materiali con nuove proprietà e
funzioni [2].
I Nanomateriali sono quei materiali che hanno componenti strutturali con almeno una dimensione
nell’intervallo 1-100 nm. Il 18 ottobre 2011 la Commissione europea ha adottato la seguente definizione
di un nanomateriale [3]: “Un materiale naturale, casuale o prodotto contenente particelle, in uno stato
slegato o come aggregato o come agglomerato e dove, per il 50% o più delle particelle nella
distribuzione delle grandezze numeriche, una o più dimensioni esterne sono nell’intervallo di grandezza
1 nm - 100 nm. In casi specifici e dove giustificato da preoccupazioni per l’ambiente, la salute, la
sicurezza o la competitività la soglia di distribuzione delle grandezze numeriche del 50% può essere
sostituita da una soglia tra l’1 e il 50%”.
I nanomateriali possono essere classificati come (Fig. 1.1):
Zero-dimensionali (0D) tre dimensioni in scala nanometrica: nanocristalli, cluster e quantum dots
con diametro 1-10 nm. Sono principalmente metalli e semiconduttori. Altre nanoparticelle con
dimensione 1-100 nm come gli ossidi ceramici.
Mono-dimensionali (1D) due dimensioni in scala nanometrica. Sono metalli, semiconduttori e
ossidi sottoforma di nanofili (1-100 nm) e Nanotubi (1-100 nm) di Carbonio, biossido di Titanio e
ossido di Zinco.
Bi-dimensionali (2D) una dimensione in scala nanometrica. Possono essere matrici di
nanoparticelle (svariati nm2-mm2), costituite da metalli, semiconduttori e materiali magnetici, o
superfici e film sottili (spessore 1-1000 nm) di materiali vari inorganici e organici.
Tri-dimensionali (3D) diversi nanometri nelle tre dimensioni. Sono in genere metalli,
semiconduttori e materiali magnetici in bulk.
Tale classificazione è basata sul numero di dimensioni che non sono confinate nel campo della
nanoscala ( < 100 nm).
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La Nanotecnologia è lo studio dei fenomeni e della manipolazione dei materiali a livello atomico e
molecolare.
Al fine di esplorare nuove proprietà fisiche e fenomeni e realizzare potenziali applicazioni delle
nanostrutture e dei nanomateriali, la capacità di fabbricare e processare i nanomateriali e le
nanostrutture è la prima pietra miliare nel campo delle nanotecnologie. La possibilità di utilizzare
nanomateriali in diverse applicazioni spesso richiede lo sviluppo di metodi per la produzione di
nanoparticelle con stretto controllo sulla dimensione, forma e struttura cristallina. Oggigiorno
Figura 1.1 Classificazione dei nanomateriali.
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10 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
nanoparticelle con un ampio range di composizione chimica e fasi possono essere preparate attraverso
una varietà di metodi appartenenti alle classi “top-down” e “bottom-up” (Fig. 1.2).
L’approccio “top-down” (approccio fisico) consiste nel raggiungere le dimensioni nanometriche,
partendo da un materiale di dimensioni maggiori. Il materiale massivo, “bulk”, viene suddiviso in
particelle più piccole, usando energia di tipo meccanico, chimico o in altre forme [4,5].
L’approccio “bottom-up” (approccio chimico), anche detto “nanotecnologia molecolare”o “fabbricazione
molecolare” [6] si riferisce alla sintesi del materiale nanoparticellare attraverso la condensazione di
atomi, molecole o radicali permettendo così al precursore di accrescere con le dimensioni e le
caratteristiche desiderate [7, 8]. La fresatura è un tipico metodo “top-down”, mentre la dispersione
colloidale è un buon esempio di approccio “bottom-up” nella sintesi di nanoparticelle. Entrambi gli
approcci possono essere condotti in gas, in liquido, in fluidi supercritici, allo stato solido o sottovuoto. In
tabella 1.1 e 1.2 sono riportati i maggiori metodi utilizzati per l’ottenimento di particelle nanometriche. La
maggior parte dei sistemi di sintesi ha come principali obiettivi quelli di controllare: a) le dimensioni delle
particelle; b) la loro forma; c) la distribuzione delle dimensioni; d) la composizione; e) il grado di
agglomerazione (nel caso siano sistemi colloidali). Il controllo di questi parametri sta diventando sempre
più necessario, infatti nel campo delle nanotecnologie la corrispondenza struttura-proprietà è
enfatizzato dalle elevate, ma ancora sconosciute, potenzialità dei nanomateriali [9].
Figura 1.2. Rappresentazione schematica degli approcci “bottom-up” e “top-down”
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Tabella 1.1 – Principali metodi utilizzati per la produzione delle nano-particelle.
Metodi in fase vapore Metodi in fase gas Metodi chimici Metodi allo stato
solido
PVD (physical vapour deposition)
CVD (chemical vapour deposition)
PECVD (Plasma Enhanced chemical vapour deposition)
Pirolisi in fiamma Ablazione laser Sintesi in plasma
con RF & MW Plasma spray
Sol-gel Chimica colloidale Sintesi idrotermica Sintesi organica Sintesi elettrochimica Elettrodeposizione Sonochimica Autoassemblaggio
Alligazione
meccanica Sintesi
meccanochimica Macinazione
Tabella 1.2 – Metodi utilizzati per la produzione delle nano-particelle in base alla loro classificazione dimensionale.
Nano-oggetti discreti
Nanomateriali superficiali
Materiali bulk nanostrutturati
0D 3 dimensioni su
nanoscala
Condensazione in gas inerte Evaporazione Metodi colloidali
PVD, CVD
Estrusione
equiangolare Crio-milling Consolidamento di
nanoparticelle per sintering
1D 2 dimensioni su
nanoscala
Crescita direzionale Templating
Metodi litografici
Incorporazione di nanotubi e nanofili in matrici polimeriche o metalliche
2D 1 dimensione su
nanoscala
Beating Elettrodeposizione PVD, CVD Film autoassemblati
Elettrodeposizione PVD, CVD
PVD, CVD Elettrodeposizione
ciclica
Appena la dimensione delle particelle è ridotta, l’area superficiale per unità di volume aumenta,
conseguentemente la reattività del materiale è migliorata, dal momento che più superficie attiva sarà
disponibile per le reazioni e trasformazioni. In altre parole, l’interfaccia tra le particelle e l’ambiente
esterno diventa più grande se la stessa massa di materia è divisa in particelle più fini. La riduzione delle
dimensioni è importante anche per facilitare la dispersione di particelle solide in solventi. Le dispersioni
possono poi essere facilmente date a pennello, spruzzate o depositate goccia a goccia sulle superfici
artistiche. Inoltre formulazioni stabili non richiedono l’uso di stabilizzatori dal momento che possono
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12 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
essere preparate usando alcoli a catena corta, come l’etanolo e propanolo [10-12], senza la necessità
di tensioattivi che potrebbero rimanere come residui sulle superfici trattate dopo l’evaporazione del
solvente. Un altro vantaggio correlato alla minore dimensione delle particelle è quello di favorire la
penetrazione attraverso matrici porose, come dipinti murali, legno, rivestimenti superficiali, ecc,
minimizzando il rischio di formazione di opacizzamento delle superfici [13,14]. Le particelle
nanometriche sono utili anche per migliorare le proprietà dei compositi ibridi organico-inorganici, che di
solito sono costituiti da una matrice polimerica legante e da cariche inorganiche (particelle). I
nanocompositi mostrano almeno una componente con dimensioni nanometriche o una
nanostrutturazione, ed esibiscono prestazioni migliori rispetto alle tradizionali matrici completamente
polimeriche in termini di proprietà meccaniche, resistenza chimica [15], protezione contro le radiazioni
UV [16], ecc..
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Bibliografia
[1] R. Feynman, Eng Sci (1960) 23, 22.
[2] NSTC, The National Nanotechnology Initiative – Strategic Plan, December 2007. Executive Office of the President of the United States, 2007.
[3] http://ec.europa.eu/environment/chemicals/nanotech.
[4] A.S. Edelstein, R.C. Cammarata, In: “Nanomaterials: Synthesis, Properties and Applications”, IOP publishing Ltd., Bristol and Philadelphia (1996).
[5] G. Cao, Y. Wang, In: “Nanostructures and Nanomaterials”, 2nd edition: “Synthesis, Properties, and Applications, World Scientific Ser. Nanosci. Nanotechnol.”, World Scientific Publishing Co. Pte. Ltd., Singapore (2011).
[6] K.E. Drexler, C. Peterson, G. Pergamit, In: “Unbounding the future: the nanotechnology revolution”, William Morrow, New York (1991).
[7] M.T. Swihart, Curr Opin Colloid In (2003) 8, 127.
[8] F.E. Kruis, H. Fissan, A. Peled, J Aerosol Sci (1998) 29, 551.
[9] K. Rademann, O. D. Radamann, M. Schlauf, V. Even, F. Hensel, Phys Rev Lett (1992) 69, 8679.
[10] E. Carretti, D. Chelazzi, G. Rocchigiani, P. Baglioni, G. Poggi, L. Dei, Langmuir (2013) 29, 9881.
[11] P. Baglioni, R. Giorgi, Soft Matter, (2006) 2, 293.
[12] R. Giorgi, C. Bozzi, L. Dei, C. Gabbiani , B.W. Ninham , P. Baglioni, Langmuir (2005) 21, 8495.
[13] G. Poggi, R. Giorgi, N. Toccafondi, V. Katzur, P. Baglioni, Langmuir (2010) 26, 19084.
[14] G. Poggi, P. Baglioni, R. Giorgi, Restaurator (2011) 32, 247.
[15] P. Manoudis, S. Papadopoulou, I. Karapanagiotis, A. Tsakalo, I. Zuburtikudis, C. Panayiotou, Journal of Physics: Conference Series (2007) 61, 1361.
[16] M. Afsharpour, F.T. Rad, H. Maleikan, J Cult Herit (2011) 12, 380.
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14 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
2. Le Nanoparticelle
Nell’ambito della scienza della conservazione l’utilizzo delle nanoparticelle di differenti elementi chimici
ha fornito uno strumento di trattamento dei materiali nel restauro. La Tab. 2.1 riassume i principali
trattamenti applicati in differenti beni del patrimonio artistico.
Tabella 2.1 – Principali prodotti nanoparticellari utilizzati con le relative applicazioni nella conservazione del patrimonio artistico.
Prodotto Applicazioni
Ca(OH)2, Mg(OH)2 Consolidamento di rocce carbonatiche, marmi,malte, etc. tele pittoriche,
pitture murali, legno, carta
Ba(OH)2 Consolidamento di rocce carbonatiche e pitture murali con eliminazione
di sali
Sr(OH)2 Consolidamento con eliminazione dei sali in pietra, pitture murali,
rivestimenti in gesso e deacidificazione di pietre carbonati che, malte e ceramiche
Ferrite Trattamenti di pulitura sulle tele
SiO2 Consolidamento delle rocce silicatiche, delle malte e delle superfici
lapidee
SiO2-funzionalizzata Coatings in sistemi nano compositi silice-polimero con proprietà
biocide, antimicrobiche, autopulente ed idrofobiche
TiO2, MgO, PdO, ZnO, Ag Biocidi
Nanodiamanti Consolidamento, deacidificazione e pulizia di carte e pergamene
antiche con attivà biocida
Ca5(PO4)3(OH) Deacidificazione di carte (anche dipinte)
2.1. Idrossido di Calcio
L’idrossido di calcio è la sostanza consolidante ottimale per tutti i materiali artistici a matrice
carbonatica, in virtù della sua alta compatibilità fisico-chimica con il supporto, quindi il trattamento con
questo materiale é sempre preferibile soprattutto se il degrado dell’opera d’arte é il risultato di una
perdita di carbonato di calcio.
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Tuttavia, la scarsa solubilità dell’idrossido di calcio in acqua (1,7 g/l a 20°C) ne ha ostacolato l’utilizzo
per diversi anni, poiché sarebbe necessaria una eccessiva quantità di acqua, che favorisce i processi di
degrado (i cicli di gelo e disgelo, la solubilizzazione/cristallizzazione di sali e il biodeterioramento), per
ottenere risultati apprezzabili. Inoltre il prodotto disponibile in commercio é formato da particelle di
dimensioni troppo grandi (nell’ordine del millesimo di millimetro) per garantire un’adeguata capacità di
penetrazione e che, ancor peggio, tendono a separarsi dal solvente, producendo una pellicola bianca
indelebile sulla superficie dipinta.
Le dispersioni acquose di particelle di Ca(OH)2 non sono stabili, poiché le particelle di idrossido
subiscono veloce aggregazione guidata da legami idrogeno [1] (Fig. 2.1.2). Questo porta alla
sedimentazione, che impedisce la penetrazione attraverso le matrici porose. Gli effetti collaterali di
questo fenomeno sono lo scarso consolidamento e la formazione di opacizzamenti bianchi sulla
superficie trattata. Pertanto l’uso principale di dispersioni acquose di calce è stata limitata a iniezioni
interne o a micro-stuccature [2]. La stabilità delle particelle di calce in acqua può essere aumentata con
tensioattivi, ma questo comporterebbe la formazione di residui di tensioattivo nella matrice porosa, che
deve essere evitata, per quanto possibile.
La soluzione a queste limitazioni viene offerta dalla nanotecnologia, mediante l’uso di dispersioni
cineticamente stabili di minuscoli cristalli di idrossido di calcio in solventi non acquosi (alcol isopropilici
come l’1-propanolo o il 2-propanolo). Le dimensioni molto piccole delle particelle (da 100 a 250 nm) e la
tensione superficiale dell’alcol, sufficientemente bassa da assicurare un’impregnazione ottimale per
suzione capillare, assicurano un’alta capacità di penetrazione della sospensione all’interno della
struttura porosa delle pitture murali (fino a una profondità media di 200–300 μm), e permettono di
raggiungere pori anche molto piccoli altrimenti non raggiungibili con le metodologie tradizionali. In
ambiente favorevole, l’alcool ha un’elevata volatilità e, comparato con altri solventi, una tossicità ridotta.
Quando evapora, i nanocristalli reagiscono con l’anidride carbonica dall’atmosfera e si legano al
carbonato di calcio dello strato pittorico e dell’intonaco sottostante, legandoli insieme con lo stesso
processo che ha prodotto l’affresco in origine. Infatti le dimensioni nanometriche delle particelle di calce
determinano un maggior rapporto superficie/volume garantendo, così, una maggiore interazione con la
CO2 e, conseguentemente, un miglioramento del processo di carbonatazione. L’uso della nanocalce
consente quindi di evitare alcuni inconvenienti tipici dei trattamenti a base di calce convenzionali, quali
l’incompletezza del processo di carbonatazione, la scarsa profondità di penetrazione raggiungibile,
l’eccessivo quantitativo di acqua apportato alle pietre e l’alterazione cromatica delle superfici. La
rinnovata compattezza e adesione allo strato pittorico rendono l’applicazione particolarmente indicata
nei casi di polverizzazione (powdering) del colore e di esfoliazione (flaking), in quanto l’impiego
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16 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
dell’idrossido di calcio permette il ripristino della struttura cristallina, in grado di garantire l’adesione del
pigmento al supporto e di ricostituire un vero e proprio processo di presa (Fig. 2.1.1).
Processi “top-down”
Le prime dispersioni abbastanza stabili di idrossido di calcio in alcooli sono state ottenute macinando
meccanicamente della calce spenta con un mulino (approccio “top-down”) [3-6], portando a particelle
con diametri inferiori al micron. Successivamente sempre secondo l’approccio “top-down” tramite
l’utilizzo di un trattamento termomeccanico sono state prodotte particelle nanometriche di idrossido di
calcio [7]. In condizioni normali, durante la produzione dell’idrato di calcio, la reazione dell’ossido di
calcio con l’acqua può produrre uno strato superficiale passivato di idrossido che impedisce il
completamento della reazione. Tuttavia lo spegnimento completo della calce può essere ottenuto
Figura 2.1.1. Affresco “Gli angeli musicanti” di Santi di Tito (16 sec.) sulla controfacciata del Duomo di Firenze.
L’area selezionata e stata trattata con nanoparticelle di Ca(OH)2 (in alto prima del trattamento, in basso dopo il
trattamento) [Baglioni, P., “Tecnologie del futuro per i tesori del passato. Le nanoscienze e la conservazione dei beni
culturali”, Dipartimento di Chimica e CSGI, Univerisitá di Firenze, Sesto Fiorentino, 2006].
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17
lavorandola ad alta temperatura e pressione, costringendo così l’idratazione dell’ossido non reagito nel
nucleo delle particelle. Inoltre, l’espansione volumetrica che segue la completa idratazione dell’ossido
porta alla diminuzione della dimensione delle particelle. In questo modo possono essere ottenute
nanoparticelle di idrossido di calcio come piastrine esagonali di dimensione media di circa 150-300 nm.
Il principale vantaggio di questa procedura di preparazione è la grande quantità di particelle prodotte
senza necessità di ulteriori purificazioni. Va sottolineato che modificando i parametri del trattamento
termomeccanico del grassello di calce possono essere prodotte nanoparticelle con distribuzione
dimensionale bi-modale. La seconda popolazione, che rappresenta una minoranza di tutta la
distribuzione, è nel range degli 800 nm. Una distribuzione bimodale può essere utile nel consolidamento
di substrati con alta porosità poiché le particelle più piccole possono facilmente penetrare nei pori sub-
micrometrici, mentre le più grandi aderiscono ai pori più grandi e alle fratture o distacchi superficiali di
dimensioni micrometriche.
Processi “bottom-up”
A partire dall’inizio degli anni 1990 i ricercatori della CSGI (Consorzio Interuniversitario per lo Sviluppo
dei Sistemi a Grande Interfase; Centro di ricerca per la Scienza dei Colloidi e delle Superfici, fondata a
Firenze da Ferroni nel 1993) hanno sviluppato la prima formulazione di idrossido di calcio in propanolo
e l’uso di dispersioni stabili di Ca(OH)2 per la conservazione dei Beni Culturali è stato successivamente
brevettato (FI/96/A/000255) [8]. Da allora, numerosi perfezionamenti e miglioramenti sono stati
effettuati, e una formulazione commerciale di idrossido di calcio nanoparticellare in 2-propanolo è
disponibile sul mercato dal 2008 sotto il marchio Nanorestore® [9] (Fig. 2.1.2).
Diversi metodi del tipo “bottom-up” sono stati proposti per la preparazione di dispersioni di
nanoparticelle di Ca(OH)2 in alcoli, e numerose applicazioni di questi sistemi sono state effettuate per la
conservazione di dipinti murali e pietre carbonatiche [7,10,11]. Oltre alla dimensione, molte altre
caratteristiche, quali
la distribuzione delle dimensioni (dispersità);
il solvente usato per disperdere le particelle e la sua interazione sia con la superficie delle
particelle (ad esempio adsorbimento) sia con il substrato artistico (bagnabilitá);
l’habitus cristallino delle particelle e la cristallinità;
la dimensione dei domini cristallini e la presenza di difetti;
l’area superficiale delle particelle;
influenzano il comportamento delle nanoparticelle per il consolidamento delle matrici porose
carbonatiche.
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
18 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Le particelle di nanocalce vengono sintetizzate secondo varie procedure per ottenere cristalli
nanodimensionati di forma esagonale nell’intervallo 3-300 nm. La dimensione e la forma delle particelle
possono essere definite mediante un’appropriata selezione di determinati parametri di reazione, come
la temperatura di reazione, la concentrazione dei reagenti e il loro rapporto molare.
Ziegenbalg [12] ha fornito una panoramica del prodotto commerciale CaLoSiL® (da IBZ-Salzchemie
GmbH & Co. KG) [13], prodotto dall’ottobre del 2006, e del suo uso per il rafforzamento delle pietre
carbonatiche. CaLoSiL® è stato il primo prodotto consolidante a base di nanoparticelle di Ca(OH)2
disponibile in commercio per il consolidamento. Esso contiene nanoparticelle di idrossido di calcio
sospese in differenti alcoli. In questo caso, nanosol di idrossido di calcio vengono sintetizzati
direttamente dalla soluzione di alcool. Le particelle ottenute hanno dimensioni di 50-250 nm, e vengono
disperse in alcoli a catena corta come l’etanolo, 1-propanolo e 2-propanolo, con un intervallo di
concentrazione di 5-25 g/L.
Salvadori e Dei [5] invece hanno studiato un percorso sintetico atto a diminuire la dimensione delle
particelle di Ca(OH)2 in base al fatto che nei processi sintetici temperature sopra i 100°C (in mezzi non
acquosi) promuovono la formazione di particelle di dimensioni nanometriche [14] e che i solventi
organici influiscono su dimensione e forma delle particelle precipitate [15,16].
Per raggiungere temperature maggiori di 100°C é stato sviluppato un metodo basato sui dioli
come mezzi di reazione. Questo metodo implica diverse peptizzazioni delle particelle sintetizzate poiché
la solubilita del Ca(OH)2 nei dioli é maggiore che in acqua. Pertanto, cloruro di calcio idrato
(CaCl2·2H2O) è stato solubilizzato in etandiolo (ED) o propandiolo (PD) ad alta temperatura (150 o
Figura 2.1.2. Sx: aggregazione delle nanoparticelle di idrossido di calcio in acqua; Dx: l’adesione delle facce è
inibita grazie all’assorbimento del 2-propanolo, portando alla stabilizzazione della dispersione [P. Baglioni, D.
Chelazzi, R. Giorgi, In: “Nanotechnologies in the Conservation of Cultural Heritage A compendium of materials
and techniques”, Springer (2015)].
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19
175°C), e poi una soluzione acquosa di NaOH è stata aggiunta goccia a goccia per precipitare particelle
di idrossido di calcio.
CaCl2 (ED) + 2NaOH ( aq) → Ca(OH)2 ( s) + 2NaCl ( s)
Il sistema viene tenuto sotto agitazione per qualche minuto. In seguito le particelle vengono separate
dal surnatante e si avvia il cosiddetto processo di peptizzazione, ovvero di disgregazione: gli
agglomerati così creati di particelle microdimensionate vengono lavati diverse volte con un solvente
alcolico (2-propanolo) e immersi in un bagno ultrasonico per rimuovere i dioli adsorbiti e peptizzare le
particelle. Questa azione combinata realizza la separazione tra le nanounità che costituiscono gli
agglomerati micrometrici e permette di individuare singole unità di dimensione inferiore ai 100 nm per
lato. Molti parametri di reazione influiscono sulla dimensione e forma delle particelle ottenute. In
particolare, un tempo di agitazione breve produce particelle molto piccole e quasi sferiche (30-60 nm),
invece particelle sottoforma di piastrine esagonali, la cui dimensioni varia da 50 a 150 nm, sono
prodotte in funzione del rapporto molare tra i reagenti (Tab. 2.1.1).
Tabella 2.1.1 - Parametri di reazione che influiscono sulla dimensione particelle ottenute.
Solvente T
°C
NaOH/
mol dm-3
CaCl2/
mol dm-3 NaOH/CaCl2
Agitazione
min
Dimensione
nm
ED 150 1.50 0.75 2.0 40 60 – 150
PD 150 1.50 0.75 2.0 40 50 – 120
ED 150 0.70 0.50 1.4 5 30 – 60
ED 150 0.70 0.50 1.4 40 40 – 80
PD 150 0.70 0.50 1.4 40 60 – 90
ED 175 0.17 0.10 1.7 40
ED 175 0.18 0.14 1.2 5
ED 175 0.18 0.14 1.2 40
ED 115 0.70 0.50 1.4 40 > 200
Misure XRD hanno mostrato che le particelle sintetizzate sono cristalline e che il 2-propanolo è
adsorbito sulla superficie basale delle piastrine esagonali. In particolare, è il gruppo ossidrile (-OH) delle
molecole dell’alcool che assorbe (fisiosorbimento) sulla superficie delle particelle di idrossido [17,18]. È
interessante notare che dopo l’essiccazione, le particelle tendono ad accumularsi lungo la faccia basale
{001}, come evidenziato dall’XRD. In questo modo, le particelle formano strati all’interno della matrice
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
20 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
porosa del substrato, e quindi sottoposte a carbonatazione formano una rete di CaCO3 che fornisce il
consolidamento (Fig. 2.1.3).
Successivamente, Nanni e Dei [19] hanno effettuato la sintesi di nanoparticelle di Ca(OH)2 in
microemulsioni acqua-in-olio (w/o) cui la fase olio è cicloesano. Due emulsioni w/o sono miscelate,
contenenti rispettivamente ioni Ca2+ e OH- nelle gocce d’acqua disperse. Le gocce d’acqua disperse di
dimensioni nanometriche in cicloesano servono quindi come “template”: la formazione di nanoparticelle
solide avviene all’interno delle goccioline e di conseguenza la dimensione finale delle particelle è molto
piccola (2-10 nm) (Fig. 2.1.4).
Figura 2.1.3. Dipinti Maya scoperti nella “Antigua Ciudad Maya de Calakmul”, patrimonio mondiale dell’UNESCO
(Campeche, Messico). Dispersioni di nanoparticelle di Ca(OH)2 sono state utilizzate per consolidare lo strato dipinto
decoeso e soggetto a polverizzazione. Dopo il restauro la superficie dipinta ha recuperato la sua tonalità di colore
originale perché la ri-coesione dei pigmenti nello strato superficiale minimizza la diffusione della luce che aveva
conferito opacità alle pitture murali [P. Baglioni, R. Giorgi, Soft Matter (2006) 2, 293].
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21
Il fattore più critico è la scelta della composizione più adatta per la microemulsione. Tuttavia misure
XRD hanno mostrato che le particelle con dimensioni così piccole sono altamente reattive alla CO2
atmosferica. Infatti, per tali particelle piccole è difficile distinguere tra la carbonatazione della superficie
e quella del bulk, e anche la semplice manipolazione necessaria per l’analisi XRD porta alla completa
trasformazione del Ca(OH)2 in CaCO3. Quindi, l’uso di queste particelle per il consolidamento dei dipinti
murali potrebbe essere ostacolato da una reattività troppo veloce, e questa sintesi è stata invece
considerata per preparare particelle ultrafini di carbonato di calcio.
Un’interessante sintesi di nanoparticelle di idrossido di calcio tramite utilizzo di “template” è stata
proposta da Xu et al. [20]: polimeri idrosolubili (PVA e PEG) sono impiegati per controllare la formazione
di strutture specifiche e per ottenere particelle il cui diametro varia dai 50 ai 100 nm.
Un approccio diverso per ottenere cristalli nanometrici di Ca(OH)2 riguarda l’uso di un bulk di calcio
metallico come reagente di partenza. In particolare, un metodo di reazione metallo-plasma idrogeno ha
portato alla produzione di nano particelle, per fusione ad arco di lingotti di Ca parzialmente ossidati, in
atmosfera di azoto/idrogeno [21].
Volpe et al. [22] hanno brevettato un procedimento (WO2014/020515 A1) per la sintesi di nanoparticelle
di Ca(OH)2 con dimensioni inferiori ai 100 nm tramite resine a scambio ionico (Dowex Marathon 550 A
Figura 2.1.4. Sintesi di nanoparticelle di Ca(OH)2 in
microemulsione acqua-in-olio (w/o). Due emulsioni w/o sono
mescolate, contenenti rispettivamente ioni OH- (B) e Ca2+ (A) e
gocce d’acqua disperse, che fungono da template: la formazione
di nanoparticelle solide avviene all’interno delle goccioline
d’acqua [P. Baglioni, D. Chelazzi, R. Giorgi, In:
“Nanotechnologies in the Conservation of Cultural Heritage A
compendium of materials and techniques”, Springer (2015)].
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
22 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
(OH)), senza la necessità di lavaggi della sospensione. Il processo proposto lavora a temperatura
ambiente, permette di ottenere una sospensione senza NaCl, è caratterizzato da un’alta resa, ha tempi
di produzione molto brevi (la produzione delle nanoparticelle è completa nei primi 5–10 minuti) ed è
facilmente scalabile a livello industriale.
Recentemente, Poggi et al. [23] hanno riportato un procedimento alternativo per la sintesi di
nanoparticelle di Ca(OH)2 tramite una reazione termo-alcolica a partire da un bulk metallico e alcoli a
catena corta come etanolo e 1-propanolo. La sintesi viene condotta ad alta temperatura e pressione, e
si compone di due fasi: prima calcio metallico viene ossidato dall’alcool per formare un alcossido; poi
questo intermedio si idrolizza e porta alla formazione delle nanoparticelle di idrossido già disperse nel
solvente appropriato per l’applicazione pratica. Il processo non richiede ulteriori fasi di purificazione e
porta alla produzione di dispersioni concentrate (35 g/L o superiore), che favorisce l’up-scaling della
produzione. Le particelle disperse in etanolo hanno una distribuzione bimodale con una popolazione
centrata a 80 nm e una popolazione minore centrata a 220 nm. Le particelle in 1-propanolo tendono a
formare cluster di circa 260 nm. In entrambi i casi il processo porta alla produzione di particelle
altamente cristalline che possono essere utilizzate per il consolidamento. Nanodispersioni simili sono
anche utili per il controllo del pH, e sono stati registrati nel 2014 con il marchio Nanorestore Paper ®,
disponibili su richiesta dal CSGI (Fig. 2.1.5).
Recentemente Natali et al., all’interno del progetto EC NANOMATCH, hanno sviluppato una via di
sintesi per la produzione di alcossidi metallici come precursori molecolari per la deposizione di
carbonati, come via alternativa ai tradizionali agenti consolidanti costituiti da nanoparticelle di idrossido
di calcio [24]. La sintesi degli alcossidi di calcio, prevede reazioni ammoniaca gas-assistite con il
corrispondente alcool, e vengono effettuate in atmosfera di azoto i glove-box con l’esclusione di umidità
Figura 2.1.5. (a) immagine SEM di una fibra di cellulosa con nanoparticelle di idrossido di calcio depositate
(indicate dalle frecce). (b) e (c) sono campioni di carta 3x3 cm2 del 19° secolo. Entrambi sono stati invecchiati
artificialmente. Il campione (b) è stato deacidificato utilizzando nanoparticelle di idrossido di calcio, mentre il
campione (c) non è stato trattato. L’intensità del colore marrone è proporzionale alla quantità di degrado della carta
[R. Giorgi, L. Dei, M. Ceccato, C. Schettino, P. Baglioni, Langmuir (2002) 18, 8198].
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23
e ossigeno, secondo procedure già descritte in letteratura [25]. All’interno del progetto, due alcossidi
sono stati selezionati sulla base delle loro proprietà (solubilità nei comuni solventi organici, volatilità del
corrispondente alcool, bassa tossicità): Ca(OCH2CH3)2 (detto NANOMATCH2) e Ca(OTHF)2, dove THF
= frazione tetraidrofurfurilica (detto NANOMATCH1).
Sebbene diverse metodologie sintetiche possono essere usate [26] per sintetizzare alcossidi di
magnesio, test preliminari di carbonatazione effettuati con prodotti commerciali hanno dimostrato che
essi non sono adatti per la conservazione del patrimonio costruito [27,28].
Le caratteristiche previste che rendono competitivi gli alcossidi rispetto ai prodotti di conservazione
convenzionali sono loro (i) compatibilità con i principali materiali utilizzati nel patrimonio costruito come
pietra e legno -anche dipinto- e vetro, garantendo maggiore durata, reversibilità, sostenibilità e
efficienza, (ii) facile e sicura applicazione, (iii) prezzi di vendita soddisfacenti.
2.2. Idrossido di Magnesio
La sintesi dell’idrossido di magnesio è un crescente e attivo campo di ricerca per il fatto che queste
particelle hanno molte applicazioni nel campo industriale, come ritardanti di fiamma o come precursori
per la sintesi di ossidi.
Negli ultimi 10 anni, alcuni “classici” percorsi di sintesi sono stati modificati e adattati per la produzione
di nanoparticelle di idrossido di magnesio per la conservazione del patrimonio culturale. In particolare,
Mg(OH)2 nanoparticelle, ottenuto tramite reazioni acquose in fase omogenea e disperso in alcool, è
stato utilizzato per la deacidificazione della carta, della tela, e del legno [29-33].
Processi “bottom-up”
Come nel caso dell’idrossido di calcio, nanoparticelle possono essere preparate a temperatura
ambiente, aggiungendo ammoniaca ad una soluzione acquosa di cloruro di magnesio [34]. L’aggiunta di
un tensioattivo, per esempio CTAB (bromuro di cetil-trimetilammonio), al sistema porta alla formazione
di fiocchi con spessore di 80 nm [35]. I diversi effetti sui prodotti di reazione, compresa la presenza di
tensioattivi, la fonte di magnesio, la concentrazione di ioni e l’iniziale pH della reazione, sono stati
studiati da Li et al. come parametri chiave nella preparazione di nanopiastrine di idrossido di magnesio
[36].
Le nanoparticelle di Mg(OH)2 possono essere ottenute anche mediante un processo idrotermale: Jin et
al. hanno miscelato nitrato di magnesio e idrazina a temperatura ambiente e poi trasferito il precipitato
bianco in un autoclave a 150°C per terminare il processo, in modo da ottenere nanofiocchi di forma
esagonale [37]. Un approccio simile è stato adottato da Cao et al. per produrre nanoflowers di idrossido
di magnesio attraverso un processo di auto-assemblaggio, partendo da MgCl2·6H2O, NaOH e glicina.
Quest’ultima è responsabile della crescita della struttura supramolecolare complessa [38]. Entrambi
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
24 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
questi percorsi sintetici hanno portato alla produzione di particelle con proprietà promettenti per la loro
applicazione come ritardanti di fiamma.
D’altra parte, nanoplacchette di idrossido di magnesio sono state sintetizzate utilizzando microemulsioni
acqua-in-olio come microreattori a spazio confinato per controllare la nucleazione, la crescita e la
cristallizzazione delle particelle. Il Cloruro di magnesio, solubilizzato all’interno delle gocce d’acqua,
ossia la fase dispersa di una microemulsione quaternaria di Triton X-100/cicloesano/n-esanolo, reagisce
con l’ammoniaca che gorgoglia all’interno del sistema [39]. Questo processo di sintesi porta alla
produzione di particelle Mg(OH)2 che possono essere facilmente disperse in oli, grazie al tensioattivo
residuo. La loro idrofobicità è una fondamentale caratteristica per la loro stabilizzazione in solventi
organici, generalmente usati per la sintesi di polimeri. Così le particelle possono essere utilizzate per
fornire proprietà ignifughe al materiale polimerico sintetizzato.
Negli ultimi 5 anni, sono stati sviluppate metodologie per la produzione di nanoparticelle, specificamente
pensate per l’applicazione alle opere d’arte [6,40-42]. Ai fini del consolidamento, le nanoparticelle di
idrossido di magnesio devono presentare le seguenti caratteristiche: il diametro medio dovrebbe variare
da 100 a 500 nm; inoltre, le particelle non dovrebbero raggrupparsi per ottenere dispersioni stabili
(almeno durante il tempo di applicazione, di solito alcune ore). Vale la pena notare che, nel campo della
scienza conservazione, le particelle di idrossido di magnesio sono di solito impiegate per la
deacidificazione di opere d’arte, quali la carta, la tela e il legno (Fig. 2.2.1). In particolare, piccole
particelle sono preferite per il trattamento di materiali a bassa porosità, e l’idrossido di magnesio può
essere di solito ottenuto in dimensioni più piccole rispetto all’idrossido di calcio. Le particelle con
diametro compreso da 50 a 300 nm possono essere prodotte tramite una reazione in fase omogenea
controllando fattori quali temperatura, concentrazione di ioni e del tipo di controioni [30,42].
Figura 2.2.1. Campioni di carta inchiostrati dopo invecchiamento artificiale: (A) un campione non protetto e (B)
un campione trattato con nanoparticelle di Mg(OH)2 per proteggerlo dalla corrosione ad opera dell’inchiostro
ferro-gallico. Dopo 48 h di invecchiamento artificiale il campione non trattato esibisce severo danneggiamento e
non puó essere manipolato, invece il campione trattato conserva le sue originali proprietà meccaniche [P.
Baglioni, D. Chelazzi, R. Giorgi, G. Poggi, Langmuir (2013) 29, 5110].
Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali
25
Per quanto riguarda il consolidamento, l’applicazione di dispersioni di Mg(OH)2 è principalmente
impiegata nella conservazione di substrati di carbonato di calcio e magnesio, ad es. pietre dolomitiche
[10], e richiede particelle con una dimensione media di circa 250 nm. In questo caso sistemi misti
contenenti idrossido di calcio e idrossido di magnesio nanoparticellare sono preferiti.
2.3. Idrossido di Bario
L’idrossido di bario è stato usato come consolidante per materiali carbonatici fin dalla fine del 19°
secolo [43]. Ferroni ha proposto l’uso di soluzioni acquose di idrossido di bario per il consolidamento di
affreschi che erano stati pesantemente danneggiati nell’alluvione di Firenze del 1966 [44,45]. Il suo
utilizzo è consigliato quando grandi quantità di solfati sono presenti nella matrice della pittura murale. Il
metodo Ferroni è una procedura in due fasi: (1) desolfatazione con soluzione di carbonato d’ammonio,
(NH4)2CO3, caricata in un impasto di polpa di cellulosa e (2) l’applicazione di una soluzione di Ba(OH)2
che trasforma il residuo di solfati solubile in solfato di bario insolubile:
(1) (NH4)2CO3 + CaSO4·2H2O → (NH4)2SO4 + CaCO3 + 2H2O
(2) (NH4)2SO4 + Ba(OH)2 → BaSO4 + 2NH3 + 2H2O
Inoltre, la presenza di idrossido di bario in eccesso converte il carbonato di calcio polverizzato (formato
nello stadio 1) in idrossido di calcio che reagisce con la CO2 atmosferica per riformare un reticolo
cristallino di carbonato di calcio che agisce come legante, con conseguente azione consolidante (Fig.
2.3.1).
Inoltre, l’idrossido di bario può essere utilizzato insieme a dispersioni di nanoparticelle di idrossido di
calcio per il consolidamento di pitture murali pesantemente degradate dai solfati. Infatti, in questo caso,
le nanoparticelle di Ca(OH)2 da sole non sono molto efficienti perché l’azione di consolidamento è
Figura 2.3.1. Crocifissione del
Beato Angelico (15° secolo,
Firenze). A sinistra, un’immagine
pre-restauro del dipinto murale. A
destra, un’immagine post-restauro.
La desolfatazione e il
consolidamento sono stati eseguiti
con il metodo Ferroni-Dini [P.
Baglioni, R. Giorgi, Soft Matter
(2006) 2, 293].
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
26 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
ostacolata dalla sua parziale trasformazione a solfato di calcio più stabile. In questo caso, la soluzione
più semplice ed elegante è l’applicazione di dispersioni di nanoparticelle miste di idrossido di calcio e
idrossido di bario in alcol.
Va sottolineato che per un corretto processo di conservazione i solfati devono essere rimossi il più
possibile dal manufatto prima dell’utilizzo dell’ idrossido di calcio e dell’idrossido di bario per il
consolidamento.
Processi “top-down”
Il processo di sintesi delle nanoparticelle di idrossido di bario è più complicato di quello per l’idrossido di
calcio. Dal momento che il Ba(OH)2 è abbastanza solubile in acqua (Ksp = 2,55·10-4) il raggiungimento
di un elevato grado di sovrasaturazione, che è fondamentale per ottenere particelle nanometriche
durante una reazione acquosa in fase omogenea viene ostacolato. Quindi Giorgi et al. utilizzano un
processo di macinazione di macrocristalli di Ba(OH)2 per l’ottenimento di dispersioni di particelle, nel
range 200 to 400 nm, piuttosto stabili in propanolo [7]. È stato dimostrato che quando sono presenti
solfati solubili nei substrati, una dispersione mista di idrossido di calcio e idrossido di bario permette un
consolidamento più efficace rispetto ad una pura di Ca(OH)2 [7].
Recentemente, dispersioni di nanoparticelle miste di idrossido di calcio e bario (Fig. 2.3.2) hanno
dimostrato di essere altamente efficaci nel consolidamento delle pitture murali fortemente contaminate
da sali (principalmente solfati e cloruri) [7,10].
Un ulteriore vantaggio dell’uso di dispersioni di nanoparticelle di Ba(OH)2 in solventi non acquosi è
rappresentata dalla tossicità molto bassa rispetto a quella delle soluzioni acquose di sali di bario.
Figura 2.3.2. (A) dipinto murale appartenente a un sito archeologico mesoamericano. (B) Particolari di una superficie
sfaldata che presenta efflorescenze solfatiche. (C) La stessa superficie dopo il trattamento desolfatante con carbonato d’
ammonio e applicazione di una dispersione mista di nanoparticelle di idrossido di calcio e idrossido di bario [P. Baglioni,
D. Chelazzi, R. Giorgi, G. Poggi, Langmuir (2013) 29, 5110].
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27
2.4. Idrossido di Stronzio
Il nanoidrossido di stronzio Sr(OH)2 é, insieme alla nanocalce, un consolidante facente parte degli
idrossidi alcalini.
Questo materiale é ancora in fase sperimentale ma può avere interessanti applicazioni nella
conservazione del patrimonio culturale in luogo di soluzioni molto tossiche come ad esempio l’idrossido
di bario. Viene spesso utilizzato anche per l’eliminazione di sali nella pietra, nelle pitture murali e nei
rivestimenti in gesso, grazie alla loro alta reattività con gli ioni solfato [46]. Grazie al suo carattere
basico, entrando in contatto con superfici che hanno subito processi di acidificazione per via di agenti di
deterioramento, come pietre di tipo carbonatico (calcare, dolomia, marmo), malte e ceramiche, può
modificare il loro pH e portare alla loro de acidificazione.
Processi “bottom-up”
Come si verifica con il bario, la solubilità dell’ idrossido di stronzio in acqua ostacola la sua sintesi
attraverso reazioni in fase omogenea. Tuttavia, la letteratura riporta un esempio di via sintetica in fase
omogenea a bassa temperatura [47]. Il processo sperimentato produce le nanoparticelle di idrossido di
stronzio iniziando da materiali grezzi a basso costo in mezzo acquoso (fase omogenea) e a bassa
temperatura (sotto i 100°C) tramite precipitazione chimica da soluzioni saline, richiedendo passi
operativi molto semplici ed evitando l’uso di solventi organici, apparecchiature specialistiche, lunghi
tempi di processo o componenti chimici costosi. I materiali impiegati sono il nitrato di stronzio Sr(NO)3
(purezza del 99,95%) e l’idrossido di sodio NaOH (purezza del 99,99%), utilizzati senza ulteriori
processi di purificazione. Quantità appropriate dei due composti vengono dissolte in acqua
separatamente in modo da ottenere soluzioni 0,7 M per il nitrato di stronzio e 0,3 M per l’idrossido di
sodio. La soluzione di Sr(NO)3 viene poi riscaldata fino alla temperatura di sintesi di 60°C con un bagno
termostatico ad acqua. La reazione ha luogo facendo gocciolare, mediante energica agitazione, la
soluzione basica nella soluzione salina di stronzio, mantenendo la temperatura costante al valore di
60°C±1°C. La selezione delle concentrazioni della soluzione e della temperatura sono essenziali per
raggiungere l’alto grado di supersaturazione necessario per avere una velocità di nucleazione
dell’idrossido di stronzio sufficientemente più grande rispetto alla velocità di accrescimento dei cristalli
[48]. Quando la precipitazione di Sr(OH)2 é completa, la miscela viene mescolata energicamente e
continuamente per ulteriori 60 min (tempo di invecchiamento) in modo da disgregare il precipitato
bianco nel minor tempo possibile. La sospensione acquosa di Sr(OH)2 viene poi raffreddata fino a
temperatura ambiente e lasciata decantare per 24 ore. La soluzione supernatante viene aspirata e la
sospensione rimanente viene lavata per tre volte con acqua fredda deionizzata (lasciando decantare la
soluzione ogni volta per 24 ore) in modo da eliminare il nitrato di sodio solubile in eccesso. Infine, la
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
28 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
sospensione acquosa di Sr(OH)2 viene trattata in un bagno ultrasonico per 30 min per ridurre
ulteriormente le dimensioni delle particelle. Tutte le operazioni vengono compiute in atmosfera d’azoto
per evitare indesiderati effetti collaterali come la formazione di carbonati derivanti da atmosfere con
diossido di carbonio.
La morfologia della polvere di idrossido di stronzio così preparata è costituita da una grande quantità di
particelle nanodimensionate, le quali si presentano omogenee, con una forma ben definita e
abbastanza regolare (quasi sferica), e una dimensione media molto piccola (circa 30 nm di diametro).
L’idrossido di stronzio subisce poi una reazione con la CO2 atmosferica che dà origine a carbonato di
stronzio. Proprio la formazione di carbonato di stronzio indirizza l’utilizzo di questo prodotto al
consolidamento dei beni del patrimonio culturale. Infatti, se una dispersione di nanoidrossido di stronzio
viene applicata sugli affreschi o su materiale lapideo, potrebbe penetrare dentro i materiali e reagire con
il diossido di carbonio, formando carbonato di stronzio. Dato che il volume molare del carbonato di
stronzio e simile a quello del carbonato di calcio (Tab. 2.4.1), si possono evitare tensioni meccaniche
all’interno degli strati del materiale. Un altro punto che merita di essere menzionato é che l'accumulo di
carbonato di stronzio negli strati di intonaco dei dipinti murali potrebbe fornire una funzione protettiva
come materiale sacrificale. Infatti il carbonato di stronzio proveniente dal processo di carbonatazione,
reagendo con gli inquinanti atmosferici produce solfato di stronzio (celestite, SrSO4). La costante di
solubilità e più bassa di quella del gesso (Tab. 2.4.1), quindi é prevalentemente il carbonato di stronzio
a reagire con gli ioni solfato e non si arriva al consumo di carbonato di calcio, evitando cosi la
formazione di solfato di calcio bi-idrato solubile. Test in provetta hanno inoltre rivelato che l’idrossido di
stronzio é in grado di reagire, oltre che con il diossido di carbonio atmosferico, anche con gli ioni di
solfato derivati del gesso. Quindi può essere usato come nuovo materiale sacrificale sia in affreschi che
in restauri di gesso senza i problemi di tossicità tipici delle soluzioni di idrossido di bario. I dati
sperimentali raccolti suggeriscono quindi che i nanocristalli di idrossido di stronzio potrebbero
rappresentare una buona alternativa agli altri tradizionali metodi usati nella protezione e nel
consolidamento dei manufatti del patrimonio artistico.
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29
Tabella 2.4.1 – Confronto di volume molare e costante di solubilità per idrossidi, carbonati e solfati di calcio e stronzio.
Costante di solubilità a 25 °C
(mol/l)
Volume molare
(cm3/mol)
Ca(OH)2 4.8 x 10-5
Sr(OH)2 3.2 x 10-4
CaCO3 calcite 3.36 x 10-9 36.90
SrCO3 stronzianite 5.60 x 10-10 39.57
CaSO4 ·2H2O gesso 3.14 x 10-5 74.2
SrSO4 celestite 3.44 x 10-7 41.81
2.5. Biossido di Silicio
Nanoparticelle di silice sono di forma sferica e con diametro compreso tra 5 e 100 nm. E’ importante
sapere che esistono decine di tipologie di nanosilici, per dimensioni e distribuzione delle particelle,
modalità di stabilizzazione, presenza di additivi di vario tipo, e che solo alcune hanno dato risultati
apprezzabili per il settore restauro.
A seconda delle modalità con cui vengono prodotte, le nanoparticelle di silice possono essere:
monodisperse (con una distribuzione dimensionale delle particelle molto ristretta);
polidisperse (con una più ampia distribuzione dimensionale).
In generale la nanosilice si presenta come una dispersione colloidale acquosa, e le sue dimensioni si
attestano al di sotto dei 20 nm, inferiori quindi sia a quelle dichiarate per le microemulsioni acriliche (40-
50 nm) che a quelle della nanocalce (200 nm). Nella soluzione acquosa generalmente sono disperse
delle sostanze con funzione anti-agglomerante, come ad esempio l’idrossido di sodio. Esso induce la
formazione di una carica negativa sulla superficie delle particelle che vengono così a respingersi l’un
l’altra, garantendo la loro stabilità senza agglomerazioni. Eventuali fenomeni di evaporazione possono
però variare la concentrazione delle particelle nella soluzione, con conseguente aumento del rischio di
agglomerazione. A parità di altre condizioni (temperatura, pH, contenuto di eventuali altri additivi), le
condizioni di stabilità della sospensione acquosa aumentano con il grado di diluizione. Grazie alle
ridotte dimensioni delle particelle, la nanosilice [49]si presenta come un liquido molto fluido, anche se
ha un residuo secco del 30%, che nella maggior parte delle applicazioni deve essere diluito con 1-2
parti di acqua, portando così la quantità di silice anche al di sotto del 10%. Prima di essere applicata, la
superficie da trattare deve essere ovviamente pulita e risanata da eventuali efflorescenze presenti. Il
funzionamento è molto semplice: può essere applicata per immersione, mediante pennello o anche a
spruzzo a bassa pressione, ed infine iniettata nelle fessurazioni. A seguito dell’evaporazione dell’acqua,
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30 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
le particelle si legano formando un gel di silice, analogamente a quello che si ottiene dalla reazione del
silicato d’etile (altro materiale molto utilizzato nel campo del restauro per il consolidamento di materiali
lapidei), che può creare dei ponti tra i granuli decoesi di una pietra o di un intonaco (effetto
consolidante), o legare particelle di pigmento sulle superfici lapidee (patinature), oppure può tenere
insieme inerti di vario tipo (realizzazione di malte da stuccatura inorganiche). La formazione del gel di
silice non avviene solo per evaporazione del veicolo acquoso, ma anche agendo su altri tre parametri:
cambiando il pH (mescolato con la calce si cementa improvvisamente);
miscelandolo con solventi idrosolubili (alcool, acetone);
aggiungendo un sale (metodo pero sconsigliato per il settore restauro).
E’ necessario quindi valutare l’influenza di questi parametri prima di procedere all’utilizzo. Nel caso di
sovradosaggio é sempre possibile asportarne l’eccesso, prima dell’indurimento, con tamponi imbevuti in
acqua demineralizzata.
Processi “bottom-up”
Alcuni dei metodi ampiamente utilizzati per sintetizzare nanoparticelle di silice sono:
la microemulsione inversa: molecole di tensioattivi disciolte in solventi organici formano micelle
sferiche. In presenza di acqua, i gruppi di testa polari si organizzano per formare microcavità
contenenti acqua, spesso dette micelle inverse. Il metodo è stato recentemente recensito da
Tan et al. [50]. Le nanoparticelle di silice possono essere cresciute all’interno delle microcavità
controllando attentamente l’aggiunta di alcossidi di silicio ed il catalizzatore nel mezzo
contenente le micelle inverse. I principali svantaggi dell’approccio sono i costi elevati e la
difficoltà nella rimozione dei tensioattivi nei prodotti finali. Tuttavia, il metodo è stato applicato
con successo per rivestimenti di nanoparticelle con diversi gruppi funzionali per varie
applicazioni [51,52].
la sintesi di fiamma: questo processo, detto anche condensazione di vapore chimico (CVC),
prevede che l’alta temperatura di fiamma porta alla decomposizione di precursori metallo-
organici [53]. In un tipico processo CVC, le nanoparticelle di silice vengono prodotte facendo
reagire il tetracloruro di silicio, SiCl4 con idrogeno e ossigeno [54]. La difficoltà nel controllare la
dimensione delle particelle, la morfologia e la composizione della fase sono il principale
svantaggio della sintesi di fiamma [55]. Tuttavia, questo è il metodo prominente che è stato
utilizzato per produrre commercialmente nanoparticelle di silice in polvere.
processo il sol-gel: il processo prevede l’idrolisi e la condensazione di alcossidi metallici
(Si(OR)4) come tetraetilortosilicato (TEOS, Si(OC2H5)4) o sali inorganici come il silicato di sodio
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31
(Na2SiO3) in presenza di un acido minerale (ad esempio, HCl) o una base (ad esempio, NH3)
come catalizzatore [56-58] (Fig. 2.5.1).
Il processo sol-gel è ampiamente usato per la produzione di particelle di silice pura per la sua capacità
di controllare la dimensione delle particelle, la distribuzione granulometrica e la morfologia attraverso un
controllo sistematico dei parametri di reazione. La formazione di particelle di silice può essere divisa in
due fasi: nucleazione e crescita. Due modelli, monomero addizione [59,60] e aggregazione controllata
[59-63], sono stati proposti per descrivere il meccanismo di crescita della silice (Fig. 2.5.1). Il primo
descrive che, dopo una iniziale improvvisa nucleazione, la crescita delle particelle avviene attraverso
l’aggiunta di monomeri idrolizzati. Invece, nel modello di aggregazione controllata la nucleazione
avviene continuamente durante la reazione e i nuclei risultanti (particelle primarie) si aggregano per
formare dimeri, trimeri e particelle più grandi (particelle secondarie). Entrambi i modelli portano alla
formazione di una rete sferica o gel a seconda delle condizioni di reazione.
Un lavoro pionieristico sulla sintesi di particelle di silice sferiche e monodisperse é stato condotto da
Stöber et al. [58]. Particelle di silice con dimensioni che vanno da 5 a 2000 nm sono stati prodotte da
soluzioni acquose alcoliche di alcossidi di silicio in presenza di ammoniaca come catalizzatore
(condizioni basiche). Molti lavori di ricerca contemporanei descrivono la sintesi di particelle di nanosilice
tramite metodi evoluti dal metodo Stöber, poiché il principale vantaggio di questo metodo è la capacità
di formare particelle di silice sferiche monodisperse rispetto ai sistemi acido-catalizzati che di solito
formano strutture a gel. In linea di principio, nanoparticelle più piccole sono ottenute controllando (o
meglio rallentando) la velocità delle reazioni di policondensazione attraverso la manipolazione dei
parametri di reazione [59,60]. La maggior degli studi convengono che la dimensione delle particelle è
aumentata con l’aumento delle concentrazioni di ammoniaca [59,61-66].
Figura 2.5.1. Formazione schematica della silice da processo sol-gel [I. A. Rahman, P.
Vejayakumaran, Journal of Nanomaterials (2012) 2012, 1].
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32 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
L’aggiunta di piccole quantità di additivi elettroliti anionici (sali di ammonio di Br, I, e Cl) producono
particelle di silice monodisperse da circa 20 nm a 34 nm [67] a seconda degli anioni utilizzati. Si è
constatato che tutte gli anioni sono in grado di ridurre le dimensioni delle particelle del 73-78%, tra
questi Br e I- hanno l’effetto più alto. Fissando la concentrazione dei reagenti e la temperatura, la
dimensione delle particelle e la distribuzione delle nanoparticelle di silice sono altamente dipendenti
dalla modalità di miscelazione [68] (Fig. 2.5.2). Jafarzadeh et al., oltre a riportare gli effetti della
miscelazione, utilizzano la tecnica della liofilizzazione (FD) per migliorare ulteriormente la qualità della
polvere, invece della convenzionale asciugatura a caldo (HD).
La dimensione media delle particelle prodotte è di 10,6±1,4 nm, 13,8±1,7 nm e 14,9±1,6 nm per la
modalità A, B, e C, rispettivamente. Inoltre la modalità porta alla produzione di nanoparticelle con una
distribuzione dimensionale e di forma molto stretta e con un basso stato di aggregazione e
agglomerazione. Così la modalità A è una procedura consigliata per la preparazione di nanoparticelle di
silice monodisperse.
Nel continuo tentativo di ridurre le dimensioni della nanosilice, la produzione di nanoparticelle di silice di
circa 7,1 nm, nell’intervallo dimensionale primario, omogenee, altamente disperse e stabili è riportata da
Rahman et al. [64] alle condizioni ottimali del processo sol-gel, sotto l’influenza di ultrasuoni a bassa
frequenza. La tecnica sviluppata e ottimizzata è semplice e riproducibile e porta ad un alto rendimento,
circa il 75%, di silice nanometrica.
Figura 2.5.2. Preparazione della nanosilica con differenti modi di
miscelazione [M. Jafarzadeh, I. A. Rahman, C. S. Sipaut, Journal
of Sol-Gel Science and Technology (2009) 50, 328].
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33
Funzionalizzazione delle Nanoparticelle di Silice
La modificazione chimica di superficie della silice con gruppi organofunzionali è un passo importante
per la preparazione di nanocompositi silice-polimero. Più precisamente, le modificazioni superficiali
vengono utilizzate per migliorare l’affinità tra le fasi organiche e inorganiche e allo stesso tempo
migliorare la dispersione delle nanoparticelle nella matrice polimerica [69-75].
Modifiche di superficie della silice con agenti silanici è una delle tecniche più efficaci disponibili. Gli
agenti silanici (Si(OR)3R') hanno la capacità di legare i materiali inorganici, come nanoparticelle di silice,
a resine organiche. In generale, la porzione Si(OR)3 degli agenti di coupling silanici reagisce con la
parte inorganica, mentre il gruppo organofunzionale (R') reagisce con la resina. Alcuni degli agenti più
comuni di coupling silanici utilizzati per la modifica superficiale della silice sono:
Viniltrietossisilano (VTS);
Metacrilossipropiltrietossisilano (MPTS);
3-Glicidilossipropiltrimetossisilano (GPTS);
3-Amminopropiltrimetossisilano (APTS);
3-Mercaptopropiltrietossisilano (McPTS);
Cloropropiltrietossisilano (CPTS).
In generale, la modificazione chimica della superficie della silice utilizzando agenti di coupling silanici
può essere condotta sia in sistema acquoso che non acquoso, anche detto “post modifica”. Il sistema
non acquoso viene solitamente utilizzato per l’innesto di molecole di APTS sulla superficie della silice. Il
motivo principale per l’utilizzo del sistema non acquoso è impedire l’idrolisi, poiché silani come l’APTS,
che porta gruppi amminici, possono subire reazioni di idrolisi e policondensazione incontrollabili. Per il
sistema non acquoso, le molecole di silano sono fissate alla superficie della silice tramite reazione
diretta di condensazione e la reazione è generalmente condotta in condizioni di riflusso [54]. Invece, il
sistema acquoso è favorevole per la produzione su larga scala. In questo sistema, i silani subiscono
idrolisi e condensazione prima della deposizione sulla superficie. Le molecole alcossi vengono
idrolizzate a contatto con l’acqua. Questo è seguito da reazioni di auto-condensazione tra i silani
idrolizzati. Quindi, le molecole di silano si depositano sulla superficie della silice tramite formazione di
legami silossanici tra i gruppi silanolo e i silani idrolizzati con rilascio di molecole d’acqua [54]. In
generale è stato osservato un leggero aumento delle dimensioni delle particelle (circa il 25%) dopo la
modifica della superficie [71]. Si è notato che i silani epossidici sono più efficaci nel disperdere le
nanoparticelle di silice rispetto ai silani amminici per l’assenza di legami idrogeno tra le particelle.
Vejayakumaran et al. [76] hanno innestato con successo un gruppo amminico su nanosilice (~ 7 nm) in
mezzo non acquoso utilizzando l’APTS. Le particelle di silice così funzionalizzate sono state
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34 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
ulteriormente funzionalizzate con un monomero di Bismaleimmide (BMI) per formare un nanocomposito
Si-BMI tramite addizione nucleofila. La sintesi “one-pot” è un approccio alternativo per ridurre il tempo,
l’energia o altri svantaggi dell’approccio “post modifica”. La co-condensazione è uno dei modi più
comuni per la modifica, grazie alla incorporazione omogenea dei gruppi funzionali organici all’interno ed
all’esterno della massa di particelle di silice. Anche se numerosi metodi di modifica con co-condensation
sono stati riportati per la silice porosa, la modifica di nanoparticelle di silice con questo metodo è stata
meno studiata [77-80]. Un metodo facile e veloce per la preparazione di nanosilice (~60 nm) ammino-
funzionalizzata per co-condensazione in mezzo non acquoso utilizzando l’APTS come agente di
coupling è stato proposto da Rahman et al. [80]. Un gruppo giapponese ha invece preparato
nanoparticelle di silice ammino-funzionalizzata da miscele precursori di tetraetossisilano e
amminopropiltrietossisilano in soluzioni di etanolo/acqua attraverso una procedura sol-gel one-pot [81].
Con questo metodo sono stati ottenute particelle di diametro inferiore ai 200 nm.
Più recentemente, una tecnica “one-pot” in microemulsione w/o è stata usata per sintetizzare
nanoparticelle di silice funzionalizzate da 25 a 200 nm in un miscuglio di TEOS, organosilani (3-
amminopropiltrietossisilano (APTES), 3-mercaptopropiltrimetossisilano (MPTMS), pheniltrimetossisilano
(PTMS), viniltrietossisilano (VTES)) e poliossietilene nonilfenolo etere [82]. Confrontando tra i due
metodi di modifica, il metodo “post modifica” non ha molto effetto sulle dimensioni e sulla distribuzione
dimensionale delle particelle, mentre la sintesi “one-pot” produce particelle molto più grandi,
ovviamente, con bassa aggregazione. Ciò è dovuto alla presenza dei gruppi NH2 che porta l’incremento
del tasso di idrolisi che induce la crescita delle particelle.
2.6. Biossido di Titanio
Il biossido di titanio, detto anche titania, e l’ossido di titanio naturale, una polvere cristallina incolore,
tendente al bianco. E’ un ossido semiconduttore dotato di una elevata reattività per cui può essere
chimicamente attivato dalla luce solare. Appartiene alla categoria di materiali utilizzati nei processi di
ossidazione avanzati (AOP), per la distruzione di specie organiche sintetiche resistenti ai metodi
convenzionali. Gli AOP si basano sulla generazione in situ di specie radicaliche altamente reattive,
principalmente HO, tramite energia solare, chimica o altre forme. Tra queste, le tecnologie a base di
luce solare sono quelle maggiormente eco-compatibili essendo questa una fonte rinnovabile e pulita di
energia. La maggiore attrattiva di tali processi é che i radicali fortemente ossidanti permettono la
distruzione di un ampio range di substrati organici, senza selettività, ma con un’elevata efficienza; infatti
in condizioni opportune le specie da rimuovere vengono completamente convertite a CO2, H2O e sali
minerali innocui. I nuovi materiali in grado di “mangiare”gli inquinanti atmosferici organici e inorganici
applicano il processo della fotocatalisi, reazione chimica che imita la fotosintesi clorofilliana degli alberi
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35
nell’assorbire e trasformare le sostanze inquinanti in elementi non nocivi [83]. Questo fenomeno é stato
scoperto nel 1972 da Fujishima e Honda, i quali si erano prefissi di scindere l’acqua tramite l’azione
della luce solare (fotoelettrolisi), in analogia a quanto fanno le piante con la fotosintesi [84].
Le sostanze inquinanti e tossiche così vengono trasformate, attraverso il processo di fotocatalisi, in
nitrati di sodio (NaNO3), carbonati di sodio (Ca(NO3))2 e calcare (CaCO3), innocui e misurabili in ppb
(parti per miliardo). Il risultato é una sensibile riduzione degli inquinanti tossici prodotti dalle automobili,
dalle fabbriche, dal riscaldamento domestico e da altre fonti. La tecnologia della fotocatalisi quindi é in
sostanza un acceleratore dei processi di ossidazione già attivi in natura. E i materiali che modificano la
velocità di una reazione chimica, attraverso l’azione della luce, sono i semiconduttori.
La notevole efficacia del biossido di titanio (TiO2) nel neutralizzare le sostanze inquinanti (gas, sali,
particelle solide, fumi, microrganismi, ecc.) é stata oggetto di numerosi studi già a partire dal 1972 in
Giappone, ma il processo di analisi si é intensificato a livello internazionale soprattutto a partire dagli
anni ‘90 e negli ultimi anni. Con lo sviluppo della nanotecnologia l’industria chimica ha ottenuto
nanoparticelle di dimensioni pari a pochi milionesimi di mm, che opportunamente integrate con altre
sostanze, hanno consentito di ottimizzare le caratteristiche del processo di fotocatalisi attivato dalla luce
solare o artificiale e dall’aria in presenza di TiO2. Infatti, se il biossido di titanio é di dimensioni
nanometriche, l’effetto é massimizzato perché é proporzionale al rapporto superficie/volume: gli alti
valori di questo rapporto caratteristici delle nanoparticelle ostacolano la ricombinazione dei portatori di
carica incrementando in modo notevolissimo l’efficienza fotocatalitica. Inoltre a causa dell’alta area
superficiale si ha un elevato numero di siti attivi e quindi un’alta velocità di reazione. Per questo il
biossido di titanio é uno dei materiali fotocatalitici più frequentemente utilizzati per la preparazione di
diversi prodotti (cementi, rivestimenti, vernici), avendo stabilità chimica, termica e fotochimica, che gli
conferiscono un’elevata attività fotocatalitica nell’ossidare gli inquinanti dell’aria e dell’acqua. Inoltre é
un materiale, oltre che fortemente ossidante, anche atossico ed economico. I più importanti esempi di
applicazione del biossido di titanio in calcestruzzo e in altri materiali a base di cemento per rivestimenti
sono la Chiesa Dives in Misericordia a Roma e la Cité de la Musique et des Beaux-Arts a Chambéry in
Francia. Inoltre intonaci a base di biossido di titanio sono stati utilizzati nel tunnel “Umberto I” di Roma,
sulle strade di Anversa, in Belgio, a Florianópolis, in Brasile, e in Italia, come blocchi di pavimentazione,
in zone industriali (Bergamo, Italia) e negli edifici residenziali (Morbegno, Italia) (Fig. 2.6.1).
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36 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Il biossido di titanio partecipa ai processi fotochimici di superficie attraverso l’assorbimento diretto di
fotoni incidenti (Fig. 2.6.2). Coppie elettrone-buca si formano quando il TiO2 viene irradiato con fotoni di
energia maggiore rispetto al suo band gap:
TiO2 + hν → (TiO2) e-(cb) + (TiO2) h+
(vb)
Gli elettroni sono promossi dalla banda di valenza alla banda di conduzione: così la banda di
conduzione funge da zona di riduzione e viceversa la banda di valenza come una zona di ossidazione.
Il biossido di titanio é presente in natura in tre diverse forme cristalline (rutilo, anatasio e brookite,
colorate a causa di impurità presenti nel cristallo) e in fase amorfa. Il rutilo e l’anatasio sono le forme più
diffuse in natura. Il rutilo é un sistema cristallino tetragonale, l’anatasio ha anch’esso struttura
tetragonale, ma più allungata rispetto a quella del rutilo, mentre la brookite ha una struttura ortorombica.
La struttura tetragonale del rutilo contiene due molecole di TiO2 per cella primitiva.
Gli ottaedri TiO6 rappresentano l’unita strutturale di base delle varie strutture polimorfe. Le maggiori
differenze strutturali tra le diverse forme sono nel numero di ottaedri condivisi, cioè due nel rutilo, tre
nella brookite e quattro nell’anatasio. Ciò determina una diversa azione catalitica a vantaggio
dell’anatasio, che permette la migliore combinazione di fotoattività e fotostabilità e per questo trova
maggiore applicazione come fotocatalizzatore. Il rutilo invece é la forma cristallina più stabile
termodinamicamente (se sottoposte ad opportuno ciclo termico, le fasi metastabili si trasformano
Figura 2.6.2. Fotocatalisi del TiO2 [http://ecoalfabeta.blogosfere.it (Cemento per “assorbire” l’inquinamento da NOX);
http://www.alfaetomega.it/linea-ecoattiva.html (La fotocatalisi e le pitture fotocatalitiche)].
Figura 2.6.1. L’uso di prodotti a base di TiO2 in edilizia: la chiesa Dives in Misericordia e la galleria Umberto I, a Roma, e
una strada fotocatalitica in Brasile.
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irreversibilmente in rutilo) e per questo é la più usata industrialmente, soprattutto come pigmento
bianco. Da un punto di vista elettronico, il biossido di titanio é un semiconduttore di tipo n; il valore di
EBG dell’anatasio é pari a 3,2 eV, quello del rutilo é 3,0 eV. Da questi valori, si evince, dall’equazione
1240
BG
hcE h
dove:
EBG = salto energetico;
h = costante di Planck [eV s]
ν = frequenza della radiazione incidente [1/s];
c = velocità della luce nel vuoto [3·108 m/s];
λ = lunghezza d'onda [nm]
che l’anatasio è “attivato” da luce avente lunghezza d’onda λ ≤ 388 nm, ossia dalla porzione UVA dello
spettro elettromagnetico, mentre il rutilo da λ ≤ 413 nm.
L’ossido di titanio é il migliore semiconduttore studiato nel campo della conversione chimica e
dell’immagazzinamento dell’energia solare, nonostante il fatto che assorba solo il 5% della radiazione
solare incidente, questo grazie alla sua capacita di combinare l’alto indice di rifrazione con l’alto grado
di trasparenza nella regione dello spettro visibile.
Un’altra proprietà molto interessante della titania é quella della superidrofilicità, grazie alla quale l’acqua
tende a ricoprire la superficie del materiale senza formare goccioline arrotondate. Questa caratteristica
si manifesta dopo l’esposizione del materiale alla luce UV. Il fenomeno é più accentuato quando il
titanio é in nanoparticelle, in quanto le proprietà superidrofiliche aumentano con l’aumentare del
rapporto superficie/volume. Il fenomeno dell’idrofilia del TiO2 é stato scoperto fortuitamente nei
laboratori della TOTO Ltd., JP, nel 1997 [85]. In pratica, dopo illuminazione UV, parte degli elettroni e
lacune fotogenerati reagiscono in maniera differente, ossia, gli elettroni tendono a ridurre i cationi Ti4+ in
Ti3+ e le lacune ossidano gli anioni O2-. Mediante questo processo, gli atomi di ossigeno sono espulsi e
le vacanze che così si formano vengono ad essere occupate da molecole d’acqua. I gruppi ossidrilici,
che si legano alle molecole di acqua con legami a idrogeno, rendono idrofila la superficie di TiO2.
L’aumento del tempo di esposizione alla luce della superficie di TiO2, riduce l’angolo di contatto con
l’acqua. Se il TiO2 nella forma cristallina dell’anatasio viene esposto alla luce UV si ottengono angoli di
contatto molto bassi (< 1°). Dopo circa trenta minuti sotto una sorgente luminosa UV di moderata
intensità, l’angolo di contatto tende a zero, ciò significa che l’acqua ha la tendenza a ricoprire
perfettamente la superficie, e rimane piatta invece di formare delle goccioline. Se si interrompe
l’illuminazione il comportamento superidrofilo rimane per circa due giorni. In questa situazione il
biossido di titanio presenta un effetto autopulente, infatti lo sporco é lavato via più facilmente da essa,
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consentendo anche una notevole riduzione della necessità di ricorrere a sostanze detergenti (anche
loro di per se inquinanti). Per applicazioni di questo tipo, il biossido di titanio è impiegato sotto forma di
film molto sottile depositato sulla superficie da preservare. L’efficienza fotocatalitica del film é pero
influenzata dallo spessore, dalla rugosità superficiale, dalla porosità, dalla cristallinità, dalla quantità di
impurità e dalla concentrazione di ioni ossidrilici in superficie. Un altro importante effetto
dell’illuminazione UV sulle superfici rivestite con biossido di titanio é l’azione antimicrobica:
l’eliminazione dei batteri e lo sporco di natura organica subisce il medesimo processo di degradazione
che avviene nel caso degli agenti inquinanti (Fig. 2.6.3). La fotocatalisi infatti non uccide le cellule dei
batteri, ma le decompone. Il sistema sinergico TiO2-luce genera le cosiddette Specie Reattive
all’Ossigeno (ROS), quali O2-, H2O2 e OH·, che vengono coinvolte nell’azione battericida e virucida della
fotocatalisi. In particolare i radicali ossidrile OH· sono agenti ossidanti estremamente potenti. Proprio per
la loro forte capacita ossidativa, l’ossidazione fotocatalitica può effettivamente igienizzare, deodorare e
purificare l’aria, l’acqua e diverse superfici. Inoltre, avendo una durata estremamente breve, ed essendo
generati in prossimità della superficie, risultano innocui verso le persone. Si é scoperto inoltre che
l’effetto antibatterico della titania risulta essere più efficace di qualsiasi altro agente antimicrobico,
perché la reazione fotocatalitica lavora anche quando ci sono cellule che coprono la superficie e
quando i batteri si stanno attivamente propagando.
Molte review [86-88] e libri [89,90] sono stati scritti su questo fotocatalizzatore; il TiO2, nella sua forma
anatasio, possiede proprietà desiderabili per applicazioni in catalisi omogenea ed eterogenea, come:
elevata area superficiale;
tossicità limitata;
alta disponibilità e basso costo;
un’eccellente stabilità termica e fotochimica;
insolubilità in acqua e riciclabilità;
sono usate sostanze chimiche ossidanti non costose e pericolose come O3 o H2O2 (l’ossigeno
disciolto o l’aria sono sufficienti);
fonte di luce libera (luce solare).
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Le limitazioni principali dell’uso del TiO2 come fotocatalizzatore sono l’assorbimento di luce con
lunghezze d’onda inferiori ai 400 nm (5-10% della radiazione solare totale sulla superficie terrestre) e le
elevate velocità di ricombinazione di carica. Una frazione significativa della radiazione solare è pertanto
non disponibile per le reazioni, e la ricombinazione elettrone-lacuna (e-/h+) può verificarsi prima che le
reazioni redox avvengano. Per estendere il range di fotoassorbimento nella porzione visibile dello
spettro elettromagnetico (spostamento batocromico del band gap), il drogaggio con metalli
(specialmente ioni di metalli di transizione) o non metalli, nel reticolo cristallino TiO2 o caricandoli sulla
superficie del TiO2 (sensibilizzazione con nanoparticelle metalliche o coloranti organici) è risultato
essere efficace in diversi studi [91]. Utilizzando ioni metallici, il doping ha due vantaggi principali: (i)
riduce l’energia del band gap e (ii) aumenta il tempo prima che avvenga la ricombinazione delle cariche.
Ciò si ottiene tramite l’intrappolamento temporaneo dei portatori di carica fotogenerati nel drogante e
l’inibizione della loro ricombinazione durante la migrazione dall’interno del materiale alla superficie o
aumentando l’associazione degli inquinanti organici funzionalizzati con i siti superficiali degli ioni di
Figura 2.6.3. Crescita fungina su campioni di rovere
non trattati e trattati con TiO2. 6wh e 6br indicano
campioni di rovere contaminati da carie bianca e carie
scura, rispettivamente. Le ultime due foto si riferiscono
a campioni di rovere trattati con TiO2 dopo 50 giorni
dall’inoculo dei due tipi di funghi. Nessun attacco
fungino è evidente in entrambi i casi [G. De Filpo,
A.M. Palermo, F. Rachiele, F.P. Nicoletta, Int Biodeter
Biodegr (2013) 85, 217].
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40 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
doping. La presenza di questi droganti nella matrice cristallina influenza notevolmente le sue proprietà
fisiche e chimiche. L’effetto dello ione metallico di doping è fortemente dipendente da molti fattori, quali
la concentrazione di drogante, la dimensione delle particelle del nanocristallino, la distribuzione dei
droganti e la configurazione d-elettronica degli ioni droganti. Una diminuzione della capacità
fotocatalitica si osserva quando si verifica la transizione di fase da anatasio a rutilo. Questo può essere
migliorato con l’aggiunta di ioni metallici, così la tecnica di preparazione del drogante è un fattore
importante. E’stato dimostrato che la velocità di trasformazione dipende dalle condizioni di doping [92].
Infatti, il modo in cui il drogante è incorporato, e anche il suo stato di ossidazione, l’ambiente chimico, e
la distribuzione, potrebbero avere un effetto sulla trasformazione di fase. Pertanto, è importante capire
l’effetto della distribuzione e del contenuto degli ioni droganti e dei trattamenti termici sulle proprietà
strutturali e di tessitura dei materiali a base di TiO2 per ottimizzare materiali per una specifica
applicazione.
Processi “bottom-up”
Per avere una migliore visione d’insieme, i fotocatalizzatori a base di biossido di titanio possono essere
classificati in tre gruppi [93,94]:
la prima generazione di fotocatalizzatore - TiO2 non drogato;
la seconda generazione di fotocatalizzatore - TiO2 metallo drogato;
la terza generazione di fotocatalizzatore - TiO2 non-metallo-drogato [91].
È importante ricordare che le proprietà fisiche e chimiche del TiO2 sono fortemente dipendenti dalla
sintesi utilizzata per prepararlo [95,96]. Esistono diversi metodi per sintetizzare nanoparticelle TiO2 e
fondamentalmente possono essere suddivisi in due diverse vie di preparazione: metodi in fase gas e
metodi in soluzione [97].
Tra i metodi in fase gas, le tecniche principali sono:
chemical vapor deposition (CVD);
physical vapour deposition (PVD);
spray pyrolysis deposition (SPD).
I metodi in soluzione includono:
metodi solvotermali e idrotermali;
metodo di precipitazione;
metodo in microemulsione;
sintesi di combustione;
sintesi elettrochimica;
metodo sol-gel;
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41
metodi in micelle e micelle inverse;
metodo sonochemico;
metodo delle microonde.
I metodi di sintesi riportati in letteratura della titania non drogata (prima generazione) da utilizzare come
fotocatalizzatore sono diversi. I piú utilizzati, che in generale portano alla formazione di TiO2
nanostrutturato, possono essere cosi classificati:
idrolisi in condizioni idrotermali da: tetraetossido di titanio a temperature > 250°C, TiOSO4 [98],
soluzione acquosa di TiCl4 [99] e solfato di titanio [100];
idrolisi di vapore di tetraisopropossido di titanio a 260°C [101];
idrolisi da sol-gel e precipitazione da isopropossido di titanio, seguito da trattamento idrotermale
[102];
processo di precipitazione omogenea (HPP), a partire da soluzione acquosa di TiOCl2 e
successivo trattamento termico a temperature > 400°C per ottenere polveri cristalline di TiO2
[103].
Indicativamente, i metodi che si avvalgono di solfati o cloruri sono sconsigliabili per la presenza di
impurezze nei prodotti finali. In particolare, l’impiego di TiCl4 come precursore, non permette di
controllare facilmente durante il trattamento termico la forma, dimensione e distribuzione delle particelle
di ossido. Inoltre, il rilascio di HCl o Cl2 rappresenta un aspetto negativo ed i costi di produzione sono
elevati. Per contro, i metodi sol-gel e di sintesi idrotermale consentono di controllare meglio le
caratteristiche morfologiche della polvere. Nel sol-gel, comunque, l’utilizzo di alcossidi necessita di un
attento controllo della reazione ed inoltre, essendo molto costosi, il loro potenziale di
commercializzazione é limitato. Il metodo della sintesi idrotermale produce polveri di elevata qualità,
anche se è un processo continuo e di difficile realizzazione. Il metodo della precipitazione omogenea
sembra offrire un buon compromesso fra polveri di buona qualità e costi relativamente contenuti.
Lo scopo primario di qualsiasi tipo di modifica di TiO2 è di spostare l’assorbimento della luce nella
gamma visibile e aumentare la conduttività elettrica. Inoltre, altre caratteristiche come acidità
superficiale, cristallinità, e la dimensione dei cristalliti devono essere considerate e migliorate per il
processo di fotocatalisi a base di TiO2. A questo scopo sono stati sviluppati una grande varietà di
metodi di modifica del TiO2 che in generale, si possono distinguere in modifiche di volume o di
superficie.
La seconda generazione è rappresentata dalTiO2 metallo-drogato, e può essere ottenuta tramite:
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42 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
formazione di una soluzione solida di due (o più) composti con differenti band gap che si
traduce nella diminuzione di Eg (Energia del band gap) e sposta l’assorbimento della luce verso
la luce visibile, ad esempio Ti1-xVxO2 [104];
doping metallico da atomi estranei possono essere suddivisi in tipi donatore e accettore. Questo
tipo di doping agisce come trappole di elettroni/buche e altera la velocità di ricombinazione delle
cariche fotoeccitate. I livelli che sono posizionati sotto la CB possono agire come una trappola
di elettroni e quelli sopra la VB possono agire come trappola per le buche. Teoricamente,
all’aumentare della concentrazione di drogante, la concentrazione dei difetti estrinseci aumenta.
Questo può provocare la comparsa di livelli di impurità e un aumento della loro densità che può
portare alla transizione alla banda di impurità e può provocare il restringimento della banda
proibita. I livelli di impurità introdotte possono anche migliorare l’assorbimento della luce nel
campo del visibile, agendo come un percorso di transizione indiretta per le cariche eccitate.
La terza generazione consiste nella modifica del sub-reticolo anionico da elementi come N [105,106], S
[107] o C [108] che hanno dato promettenti risultati nel miglioramento dell’assorbimento della luce nel
campo del visibile [109]. Tuttavia, il meccanismo di modifica della struttura elettronica è ancora in
discussione.
2.7. Nanodiamanti
I nanodiamanti (ND) sono particelle prodotte per sintesi dinamica, con dimensioni nell’intervallo 5-10
nm, e sono caratterizzate da una serie di proprietà interessanti. La detenzione di proprietà chimico-
fisiche superiori a quelle di bulk dei diamanti e la presenza di caratteristiche supplementari rendono
questo nuovo prodotto della famiglia dei Nanocarbon un protagonista sempre piú importante nella
ricerca sulle nanotecnologie [110-115]. Sebbene l’applicazione al campo del restauro e della
conservazione sia ancora molto limitato in un contributo Reina et al. [116] i nanodiamanti sono stati
impiegati come agenti consolidanti e pulenti per il restauro di carte e pergamene antiche.
Dispersioni di nanodiamanti (Detonation Nanodiamond, International Technology Center), con
dimensione 5-10 nm, in acqua sono state utilizzate come agente di deacidificazione della carta antica
hanno mostrato la capacità di ridurre sensibilmente l’acidità della carta senza il bisogno di utilizzare
qualsiasi base alcalina. Dispersioni simili, utilizzate per i processi di pulitura di documenti antichi, si
sono rivelate molto efficaci nella rimozione di polvere, detriti e prodotti di ossidazione della cellulosa,
evitando così l’uso di protocolli tradizionali che prevedono l’impiego di solventi organici e tensioattivi che
potrebbero portare ad infragilimento del substato a seguito di disidratazione. Per la pulizia di
pergamene antiche invece sono stati usati nanocompositi formati da nanodiamanti e resina poliestere
(100 mg di ND sono stati dispersi in 10 g di matrice poliestere. 1 ml di etanolo aggiunto a 100 mg di
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43
questo nano composito permette di ottenere un materiale viscoso e morbido). Il nanocomposito si è
dimostrato efficace nella rimozione di depositi di polvere e di tracce di funghi e batteri presenti sulla
superficie della pergamena antica senza nessuna perdita di pigmentazione (Fig. 2.7.1).
Risultati interessanti sono stati ottenuti anche sulla possibilità di utilizzare i nanodiamanti come agente
consolidante. Infatti, l’invecchiamento artificiale per esposizione ai raggi UV è stato sensibilmente
contrastato quando i campioni sono stati preliminarmente sottoposti a un trattamento con soluzioni
acquose di nanodiamanti. In particolare, una sensibile riduzione dell’amorfizzazione della cellulosa,
ossidazione o idrolisi, è stata rilevata per le carte trattate con nanodiamanti, mentre la degradazione
della struttura proteica indotta da luce UV è sensibilmente ridotta nelle pergamene trattate. In
quest’ultimo caso, i nanodiamanti bloccano in maniera apprezzabile l’idrolisi e i danni strutturali del
collagene che costituisce la pergamena.
2.8. Idrossiapatite
Le nanoparticelle di idrossiapatite (Ca5(PO4)3(OH)) sono state sviluppate nel campo del restauro e della
conservazione dei beni culturali con l’intento di creare un nuovo metodo per la deacidificazione della
carta volto a superare i limiti esistenti nei metodi tradizionali, quali l’uso di solventi organici altamente
infiammabili (German Patent DE19921616 (A1)) [117], nanoparticelle di ossidi o idrossidi fortemente
alcalini (Patent US2005042380 (A1)) [118,119] che possono portare alla depolimerizzazione della
cellulosa e al consumo, per carbonatazione, delle riserve alcaline della carta e quindi al riapparire
dell’acidità.
Figura 2.7.1. (a) Veduta generale della copertina rigida del libro
in pergamena; (b) un’immagine ottica della pergamena prima
della pulizia e (c) dopo la pulizia [G. Reina, S. Orlanducci, E.
Tamburri, M.L. Terranova (2014) “Nanotechnologies for cultural
heritage: Nanodiamond for conservation of papers and
parchments”. In: AIP Conference Proceedings 1603, 93].
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44 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Ion et al. hanno pubblicato un brevetto (EP 2626464 (A1)) [120] in cui una nuova formulazione chimica
composta da nanoparticelle di idrossiapatite, sospese in una soluzione di carbossimetilcellulosa
(50%:50% wt) in alcool isopropilico come solvente, viene applicata per la deacidificazione della carta.
Le nanoparticelle di idrossiapatite, secondo un processo di tipo “top-down”, vengono preparate
macinando polvere di idrossiapatite in un recipiente vibrante fino al raggiungimento dei 30 nm. Al fine di
evitare l’abbassamento delle riserve alcaline della carta che sopporta la deacidificazione, le
nanoparticelle, in forma di nano-polvere, vengono miscelate con una soluzione di carbossimetilcellulosa
(CMC) in alcool isopropilico.
I vantaggi nell’uso di sospensioni nanoparticellari di idrossiapatite in carbossimetilcellulosa sono
molteplici:
facilità di applicazione, infatti la soluzione puó essere spruzzata sulla superficie della carta
acida;
la stratificazione sulla carta coinvolge i legami idrogeno tra gli atomi H e i gruppi OH esistenti
nelle strutture dei due componenti, nonché i legami elettrostatici dei due componenti favoriti
dall’ambiente acido della carta (pH 4,5), perché nel campo del pH acido, gli ioni Ca2+ che si
trovano sulla superficie dell’idrossiapatite vengono in contatto con gli ioni COO2- dalla superficie
della carbossimetilcellulosa formando coppie ioniche COO2-Ca2+. Per questo motivo, la CO2
atmosferica non può reagire con nessuno di questi due componenti e il rischio di
trasformazione del pH della carta da basico ad acido è praticamente nullo.
l’alcool isopropilico ha una bassa tossicità, è volatile, ha una bassa tensione superficiale ed è
non inquinante.
Ion et al. [121] hanno applicato sospensioni alcoliche di idrossiapatite di dimensione 0.6 - 100 nm su
due campioni di libri dipinti del 1931 e del 1867 dimostrando che non solo il pH della carta trattata è
superiore di 3.93 unità rispetto alla non trattata, il che conferisce stabilità nel tempo, ma anche che il
trattamento con nanoparticelle di idrossiapatite porta ad un minore ingiallimento della carta quando
sottoposta ad invecchiamento UV accelerato, favorendo così una migliore lettura dello scritto.
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50 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
3. I Materiali Nanostrutturati
3.1. I Film: “Smart Surfaces”
Negli ultimi anni, le nanoparticelle ed i materiali nanostrutturati sono stati spesso applicati al restauro e
alla conservazione di opere d’arte. In realtà, tutto il patrimonio culturale subisce processi di
invecchiamento con effetti di degrado a causa delle proprietà intrinseche del materiale con cui è fatto e
a causa dei fenomeni di degrado influenzati da condizioni ambientali quali il clima, l’inquinamento, gli
agenti biologici e le sollecitazioni meccaniche. Al fine di rallentare questi processi di degradazione è
necessario effettuare interventi conservativi, che consistono nel restauro e in trattamenti preventivi.
Finora, la scienza della conservazione si è focalizzata su materiali chimici, quali polimeri e copolimeri,
in grado di consolidare e proteggere il manufatto artistico (ad esempio materiali per rivestimenti, adesivi,
idrorepellenti, biocidi). Attualmente l’uso di nanomateriali e lo sviluppo di nuove nanotecnologie stanno
permettendo nuove combinazioni che promettono di migliorare le proprietà dei tradizionali prodotti
commerciali. Le nanoparticelle inorganiche (come Ag, SiO2, SnO2, TiO2, ZnO2, Al2O3, Cu e altri ossidi
metallici) grazie alle loro caratteristiche fisico-chimiche, come le forze coesive derivanti da un’elevata
area superficiale, l’effetto fotocatalitico, la modificazione del tono di colore, le buone proprietà ottiche, la
superiore profondità di penetrazione, il coefficiente di dilatazione termica, ecc., mostrano migliori
prestazioni rispetto ai tradizionali composti chimici utilizzati nel campo della conservazione. La
modulazione delle proprietà chimico-fisiche di un rivestimento protettivo (quali vernici polimeriche) può
essere ottenuta tramite un’adeguata miscelazione del materiale di rivestimento con una opportuna
scelta di nanoparticelle. In questo modo, il nanocomposito sviluppato può essere adattato alle diverse
finalità richieste dall’applicazione considerata. Di seguito viene riportata una panoramica dei
nanocompositi polimero/particella più ampiamente studiati e testati. Questa categoria di composti smart
surfaces, può essere suddivisa, in base alla classe polimerica del “disperdente” impiegato nel
composito, in:
solvente, soprattutto gli alcool e soluzioni acquose in presenza di surfattanti;
polialchilsilossani/polisilani, in cui generalmente rientrano e vengono utilizzati prodotti
commerciali storicamente già impiegati nel consolidamento dei beni culturali, quali Rhodorsil®,
Rhodia Silicones®, Glymo®, Dynasylan®, SILRES®, TEOS;
resine acriliche, come il Paraloid B72® (copolimero metilmetacrilato/etilmetilacrilato 30/70);
poli(uretano carbonato), recentemente utilizzato come coating per il tufo;
ibridi: sono una nuova classe di materiali sempre più interessanti per le loro straordinarie
proprietà derivanti dalla combinazione di diversi building blocks. Generalmente vengono
utilizzati disperdenti misti di silossani/silani con resine acriliche ed in alcuni lavori sono presenti
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51
composti fluorurati, che da soli non avrebbero adesione (ad esempio il prodotto SILRES BS38®
che è una miscela di silani, silossani e fluoropolimeri (< C8)).
Solvente
Licciulli et al. [1] hanno condotto degli studi sui rivestimenti fotocatalitici con proprietà autopulenti e
antinquinamento impiegati su pietre calcaree senza ricorrere al processo di anneling della pietra. Da un
processo combinato sol-gel/idrotermico, sono state sintetizzate nanoparticelle di titanio sospese in
acqua ed applicate a spruzzo. Il processo di rivestimento a spruzzo rappresenta un processo pratico ed
economico per applicare rivestimenti di TiO2 senza alterare la morfologia e la permeabilità del materiale
poroso. Entrambe le fasi anatasio e rutilo possono essere ottenute e controllate con il processo
idrotermale a diverse condizioni di pressione, temperatura e tempo. Test autopulenti e di rimozione degi
NOx dimostrano che la fase anatasio è più attiva così che a tempi brevi e a temperature relativamente
basse in autoclave il titanio amorfo viene trasformato in una fase fotocatalitica cristallina attiva. I
rivestimenti non alterano il colore della pietra, l’assorbimento di acqua e la permeabilità al vapore.
Questa è una condizione necessaria per poter applicare questi trattamenti su pietre nel campo dei beni
culturali.
In un recente lavoro [2], viene presentato invece uno studio su nanoparticelle di TiO2 e SiO2 destinate
ad essere utilizzate per il restauro e il consolidamento di reperti archeologici. Lo scopo dello studio è
stato quello di esplorare la possibilità di utilizzare nanoparticelle (NPs) come consolidanti senza
introdurre modificazioni chimiche, fisiche o estetiche dei manufatti. TiO2 and SiO2 nanoparticellare sono
prodotti con il metodo della laser ablation in soluzione (LASiS) con dimensioni di circa 10 e 15 nm.
Studi con l’XPS sul profilo di profondità indicano che le NPs penetrano nei pori dei manufatti espletando
azione consolidante. Questo strato è perfettamente trasparente, uniforme e idrofobo.
Polialchilsilossani/polisilani
Da Manoudis et al. viene affrontato un’interessante case-study sulla conservazione di marmi greci [3].
Sono stati studiati dei coating di silice (SiO2) nanoparticellare dispersa in soluzioni di poli(alchilsilossani)
commerciali quali il Rhodorsil Hydrof® e il Rhodia Silicones®. Le sospensioni sono state spruzzate su
tre superfici di marmo greco utilizzate per la costruzione dell’ Acropoli di Atene (marmo Pentelico,
marmo di Naxos (98% calcite, 2% quarzo) e marmo di Thassos (86% dolomite, 12% calcite and 2%
quarzo)). L’angolo di contatto di equilibrio e angolo di contatto di isteresi indicano che le nanoparticelle
aumentano la natura idrofoba del film. L’uso di nanoparticelle comporta però una diminuzione della
permeabilità al vapore acqueo e della quantità di acqua assorbita. Tuttavia è stato dimostrato che le
nanoparticelle aumentano i valori di luminosità del substrato.
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
52 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Studi analoghi al precedente [4] sono stati condotti questa volta su una serie di materiali lapidei silicatici
di Praga e utilizzando due prodotti polialchilsilossanici commerciali in white spirit, quali il Rhodorsil
224®, al 7% in peso, ed il Porosil VV plus® al 10% in peso, in cui sono state disperse nanoparticelle al
2% di silice (SiO2), ossido di alluminio (Al2O3), ossido di stronzio (SnO2) e biossido di titanio (TiO2). Si
dimostra che il tipo di substrato lapideo e la dimensione ed il tipo di nanoparticelle (5-50 nm) non hanno
quasi nessun effetto sulla bagnabilità delle superfici superidrofobiche, come infatti mostrano le misure
degli angoli di contatto comparabili sui tre supporti lapidei trattati con i compositi silossano-
nanoparticella. I trattamenti delle pietre con i silossani puri (idrofobici) ed i compositi silossani-SiO2
(superidrofobici) forniscono riduzioni simili della permeabilità al vapore acqueo e della quantità di acqua
assorbita per capillarità. Di conseguenza, l’uso di nanoparticelle in questi rivestimenti protettivi non ha
alcun effetto evidente. Tuttavia, l’aspetto estetico delle tre pietre è altamente influenzato dalle
nanoparticelle. Infatti misure colorimetriche hanno mostrato c
colore globale) determinato dopo aver trattato le pietre con film silossani-nanoparticelle è chiaramente
superiore al cambiamento registrato quando sono stati applicati silossani puri.
Del 2011 sono gli studi condotti su nuove formulazioni di rivestimenti protettivi idrorepellenti ottenuti
mediante processo sol-gel da prodotti commerciali a base di alcossisilani (Glymo®) e Dynasylan 40®) e
nanoparticelle di silice e nano-SiO2 funzionalizzata (Aeroxide LE1®,) [5], e applicabili su manufatti in
pietra di interesse storico e artistico come arenaria, marmo e granito. Sono state svolte una serie di
misure di idrofobicità, quali misure di assorbimento capillare e misure di angolo di contatto. I risultati
migliori sono stati ottenuti sul granito, dove anche a lungo termine non si ha perdita di idrofobicità.
Nello studio proposto da Ditaranto et al. [6], sono stati testati nanocompositi bioattivi a base
polisilossanica (CuNPs/Estel1100®) per la conservazione dei manufatti in pietra. I rivestimenti risultanti
esercitano una marcata attività di inibizione biologica per un lungo periodo di tempo a causa del rilascio
continuo e controllato di ioni di rame che agiscono come biocidi, sia in soluzione che in fase solida. Dati
colorimetrici ottenuti per i campioni di pietra trattati con questo nanocomposito bioattivo indicano che a
basse concentrazioni di rame i cambiamenti cromatici sono simili a quelli ottenuti per l’applicazione
dell’Estel puro.
Una ricerca molto interessante è stata condotta nel 2012 [7] testando il Rhodorsil RC80®
(polietilsilossano) con nanoparticelle disperse di biossido di titanio e silice (0,1% e 0,2%) su travertino e
biocalcareniti. Misure di angolo di contatto e assorbimento capillare suggeriscono che le nanoparticelle
inducono un significativo aumento di idrofobicità e proprietà di repellenza all’acqua dei film protettivi.
Tale risultato viene confermato dal metodo ultrasuoni (US), una tecnica non distruttiva che misura la
velocità delle onde elastiche attraverso un mezzo solido, pietre nel nostro caso. Misure colorimetriche
non mostrano differenze prima e dopo cicli di invecchiamento gelo-disgelo.
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53
In analogia al precedende lavoro, nel 2012 è stato pubblicato un case-study [8] su due edifici storici del
Cairo (il palazzo di Said Halim e di Baron Empain). Sono state applicate nanoparticelle di biossido di
titanio disperse in polialchilsilossani (Rhodorsil 224®). Tali materiali compositi, contenenti da 0 a 2,5%
di nanoparticelle di TiO2, sono stati applicati sia a spruzzo che a pennello. L’aggiunta delle
nanoparticelle porta alla formazione di una superficie superidrofobica che migliora sia l’assorbimento
capillare che l’angolo di contatto. Un’idrofobicità massima è stata raggiunta alla concentrazione del 2%
di TiO2 applicato a spruzzo sulla superficie.
Gholamian et al. [9] hanno studiato l’effetto ritardante di nanomateriali commerciali costituiti da
organosilani solubili in acqua (nano-zycosil® e nano-zycofil®) sulla diffusione del vapor acqueo
attraverso il legno di pioppo (P. nigra) in confronto ai rivestimenti sigillanti, quali lacca nitrocellulosa e
lacca poliestere, usando i metodi di cup and sorption. E’ stato dimostrato che entrambi i prodotti
organosilani mostrano buone performance e diminuzione della diffusione del vapor acqueo attraverso il
legno, ma migliori prestazioni sono ottenute con il nano-zycosil. In Fig. 3.1.1 viene riportato il
funzionamento di questi organosilani quando interagiscono con la superficie lignea.
Nel 2013 Liu et al. hanno condotto uno studio su film nanostrutturati di tetraetossisilano (TEOS) e
polidimetilsilano (PDMS) con silice nanoparticellare [10]. Il tetraetossisilano è un prodotto di uso
comune nel consolidamento della pietra. Questo composto tramite un processo sol-gel forma una rete
di Si-O che funziona come legante per rafforzare la pietra.
Ma il gel generato dal TEOS da solo spesso porta alla formazione di crepe, aggiungendo così ulteriore
degrado al subrastato lapideo.
Figura 3.1.1. Meccanismo di interazione del silano con il legno [H. Gholamiyan, A. Tarmian, M. Shahverdi. H. Pirayesh
(2010) “The Effect of NanoParticles and Common Furniture Paints onWater Resistance Behavior of Popular
Wood (P.nigra)”, In: Proceedings of the International Convention of Society of Wood Science and Technology and United
Nations Economic Commission for Europe – Timber Committee, October 11-14, 2010, Geneva, Switzerland].
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
54 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
L’aggiunta di polidimetilsilano o di nano-SiO2 può ridurre il rischio di formazione di crepe dopo
l’applicazione del materiale consolidante. Sfortunatamente, il PDMS può portare a una scarsa
resistenza all’invecchiamento, mentre la nanosilice manifesta alterazione colorimetrica. Al fine di
risolvere il problema di cracking senza apportare nuovi problemi, lo studio ha formulato, con il processo
sol-gel, un nuovo prodotto a tre componenti. Questi materiali consolidanti sono costituiti da particelle di
silice (15 nm), un polidimetilsilano con un gruppo idrossile terminale (PDMS-OH) e da TEOS.
Avvolgendosi intorno alle nanoparticelle, il PDMS-OH, non solo previene l’agglomerazione della
nanoparticella, ma funziona anche come un ponte per mediare la differenza interfacciale tra nano-SiO2
ed il gel. A causa degli effetti sinergici, il composito tri-componente ha anche minor ritiro e migliora la
resistenza all’invecchiamento termico, anche meglio del sistema bicomponente TEOS/nano-SiO2 (Fig.
3.1.2).
Anche Chatzigrigoriou et al. [11] hanno condotto uno studio sull’idrofobicità di film nanocompositi
costituiti da nanoparticelle di silice disperse in soluzioni acquose di silani e silossani (Silres BS 4004®).
Le dispersioni sono depositate, a pennello, su vari materiali quali marmo, pietra arenaria, malta (Fig.
3.1.3), legno, cotone e ceramica. In questo lavoro viene studiato l’effetto della concentrazione delle
nanoparticelle sulla bagnabilità delle superfici del composito (silossano-silice). E’ stato dimostrato che
superidrofobicità e idrorepellenza si ottengono quando sono utilizzate alte concentrazioni di
nanoparticelle per la produzione delle pellicole composite. Sono state condotte misure colorimetriche
per valutare l’efficienza dei film compositi da utilizzare per la protezione di oggetti del patrimonio
Figura 3.1.2. Sono riportati una serie di provini: (a) campione originale; (b) campione non trattato con 4 cicli di
invecchiamento salino; campioni trattati con compositi consolidanti sols: (c) campione con SiO2/PDMS/TEOS
(0/0/22 %); (d) campione con SiO2/PDMS/TEOS (0/1/22 %); (e) campione con SiO2/PDMS/TEOS (4/0/18 %); (f)
campione con SiO2/PDMS/TEOS (4/1/18 %); (g) campione con SiO2/PDMS/TEOS (2/1/20 %); (h) campione con
SiO2/PDMS/TEOS (1/1/20 %) dopo 5 cicli di invecchiamento salino [R. Liu, X. Han, X. Huang, W. Li, H. Luo, J
Sol-Gel Sci Techn (2013) 68, 19].
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55
culturale ed è stato visto che solo per la ceramica vi è una considerevole variazione di colore quando si
utilizza nano-SiO2.
Più recentemente Kapridaki et al. presentano la progettazione di un rivestimento ibrido semicristallino,
trasparente e idrofobico e a base SiO2-TiO2 e la sua applicazione nel campo della conservazione dei
monumenti [12]. Il rivestimento SiO2-TiO2, attraverso un semplice processo sol-gel sotto catalisi acida,
deriva da una miscela di tetraetossisilano (TEOS) e titanio tetraisopropossido (TTIP) incorporante un
organosilano, il polidimetilsilossano idrossi-teminale (PDMS). Analisi SEM e XRD hanno rivelato un
coating, non soggetto a fessurazioni, con cristalliti di 5 nm. Le analisi SEM e FT-IR del marmo trattato
dimostrano che le reazioni di condensazione e polimerizzazione hanno avuto luogo sulla superficie
della pietra. La rimozione di blu di metilene e di biofilm sui campioni trattati evidenziano proprietà
autopulenti del rivestimento progettato. Il gruppi metilici del PDMS migliorano l’idrofobicità del marmo,
come è stato dimostrato dalla misura del coefficiente di assorbimento di acqua per capillarità e da
misure di angolo di contatto. I risultati incoraggianti di tutte queste analisi portano gli autori a dire che il
nuovo materiale ibrido progettato può essere efficacemente utilizzato come rivestimento protettivo e
agente autopulente (Fig. 3.1.4).
Figura 3.1.3. In alto: una goccia d’acqua arricchita con blu di cobalto è stata depositata su una malta su cui era
applicato il composito idrorepellente SiO2-silossanico (rapporto in massa pari a 0,6). In figura viene riportata la
sequenza (1-6) con ben visibile il rimbalzo della goccia (3-4). In basso: è riportato il processo di self-cleaning di una
superficie di marmo ricoperta da una pellicola di SiO2-silossano (rapporto in massa pari a 0,2) e intenzionalmente
contaminata con blu di cobalto. Una goccia d’acqua viene fatta rotolare sulla superficie idrorepellente con conseguente
rimozione delle particelle di pigmento blu e creazione di un canale di superficie pulita (foto in sequenza da 1 a 3)
[A.Chatzigrigoriou, P. N. Manoudis, I. Karapanagiotis, Macromol Symp (2013) 331, 158].
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56 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Recentemente è stato condotto uno studio sull’applicazione di silani/silossani alla conservazione della
carta [14]. Particelle di silice con un diametro di 7 nm vengono disperse in Silres BS-290®, un solvente
siliconico concentrato basato su silani/silossani a diverse concentrazioni in white spirit. Le dispersioni
sono state applicate, a pennello, su quattro tipi di carta: (1) carta moderna non stampata (in bianco); (2)
carta moderna dove è stato stampato un testo con una stampante laser jet; (3) un foglio di carta da un
libro del 20 secolo) e (4) carta giapponese utilizzata nelle operazioni tradizionali di restauro e
conservazione del libro. Misurazioni colorimetriche hanno mostrato che le pellicole superidrofobiche
avevano effetti trascurabili sull’aspetto estetico delle carte trattate. Inoltre, è stato dimostrato che il
carattere superidrofobico dei film silossani-nanoparticelle è stabile in un ampio intervallo di pH e che si
ha il massimo valore a concentrazione dell’ 1% di nanoparticelle.
Un altro interessante lavoro del 2015 [15] associa le proprietà filmanti dei composti silani/silossani alle
proprietà antibiocida delle nanoparticelle di ossido di zinco e di rame. In questo studio viene proposto
un trattamento di conservazione dei monumenti in pietra per il consolidamento, la protezione e
l’inibizione della formazione di biofilm. Lo studio è finalizzato alla produzione di rivestimenti
nanocompositi in grado di esercitare una marcata attività biologica per un lungo periodo di tempo grazie
alla loro particolare struttura. Ossidi di zinco e di rame nanoparticellare, sintetizzati mediante procedure
elettrochimiche semplici e riproducibili, vengono incorporati in matrici consolidanti/idrorepelenti
disponibili in commercio a base di tetraetossisilano/polisilossani (ESTEL1100® e SILO111®) per
ottenere materiali nanostrutturati. Con l’aggiunta di ZnONPs i dati di bioattività sono migliori rispetto a
quelli ottenuti con le CuNPs e la variazione di colore è attenuata rispetto all’utilizzo delle CuNPs (Fig.
3.1.5).
Figura 3.1.4. Scolorimento di macchie di blu di metilene su marmo trattato e non trattato prima (sx) e dopo (dx)
irraggiamento UV [C. Kapridaki, P. Maravelaki-Kalaitzaki, Prog Org Coat (2013) 76, 400].
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Cappelletti et al. [16] hanno invece testato un prodotto commerciale a base di silano (Alpha SI30®) con
nanoparticelle di TiO2 disperse in diverse concentrazioni su tre tipi di substarti (Marmo di Botticino,
marmo di Carrara e pietra d’Angera) con l’intento di ridurre i danni provocati dalla presenza di sali nelle
matrici lapidee. Solo nel caso del marmo Carrara l’angolo di contatto finale raggiunge il valore
superidrofobico (θ > 150°), mentre un buon grado di idrorepellenza si ottiene anche per i campioni di
Angera e Botticino (138° < θ < 141°). Sono stati anche valutati gli effetti dell’invecchiamento UV e
l’esposizione ad un ambiente inquinato urbano e, sulla base di misure analitiche, sono stati ottenuti per
entrambi i trattamenti superficiali (Alpha SI30® e Alpha SI30® + Ti sols) una conservazione del colore
iniziale delle pietre e una riduzione dei processi di crescita dei sali. Infine è stato stimato che i
rivestimenti ibridi sono più efficaci nel ridurre la formazione di sali rispetto al polimero puro. Questo
risultato può essere spiegato, come dimostrato dai crescenti valori di angolo di contatto, dalla maggiore
idrofobicità superficiale che porta ad una scarsa affinità tra le superfici lapidee trattate e l’acqua
proveniente dall’umidità esterna e/o dalla pioggia,.
Resine acriliche
Nel 2007 sono stati condotti degli studi [17] che hanno portato alla produzione di film nanocompositi di
Polimetilmetacrilato (PMMA) con nanoparticelle di silice di diverse dimensioni e alla loro applicazione su
marmi e su provini di carbonato di calcio costruiti in laboratorio. Un aumento della rugosità del
Figura 3.1.5. Sperimentazione in situ. Esterno della chiesa di San Leonardo di Siponto (Manfredonia, Italia) (a) con
indicazione delle aree di test (b). Nella figura a destra (b) sono visibili le diverse zone di trattamento: A1 zona non
trattata; A2 area pulita; B1 zona pulita trattata con Silo111; B2 zona pulita trattata con Estel1100; C1 zona pulita trattata
con Silo111/ZnO-NPs; C2 zona pulita trattata con Estel1100/ZnO-NPs; D1 zona pulita trattata con Silo111/Cu-NPs; D2
zona pulita trattata con Estel1100/Cu-NPs [I. D. Van Der Werf, N. Ditaranto, R. A. Picca, M. C. Sportelli, L. Sabbatini,
Herit Sci (2015) 3, 29].
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58 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
composito, registrata da misure di microscopia a forza atomica (AFM), unitamente al sostanziale
aumento dell’angolo di contatto dimostrano che si è in presenza di superfici superidrofobiche. Le
proprietà superidrorepellenti acquisite possono garantire la massima protezione all’azione dell’acqua sui
monumenti lapidei. La semplicità di realizzazione del composito, il prezzo e la disponibilità dei materiali
utilizzati rendono l’approccio sviluppato adatto per la protezione dei monumenti in pietra su larga scala.
Ramos-Fernándeza et al. hanno condotto nel 2011 uno studio [18] approfondito sull’influenza delle
condizioni di sintesi di lattex acrilici addizionati con SiO2 nanoparticellare con un processo di
miniemulsione polimerica. I prodotti sono stati pensati e sviluppati come rivestimenti protettivi per
superfici in pietra naturale. La stabilità colloidale dei compositi è buona e dopo tre mesi dalla sintesi non
è stata osservata nessuna coagulazione o sedimentazione. I rivestimenti ottenuti con questi lattici sono
completamente trasparenti, grazie alla capacità di coalescenza e all’adeguata dispersione della silice
nella matrice polimerica e le proprietà meccaniche sono notevolmente migliori.
Studi [7] analoghi ai precedenti riportano l’uso del Paraloid B72® (copolimero
metilmetacrilato/etilmetilacrilato 30/70) con disperse nanoparticelle di TiO2 e SiO2 (0.1% e 0.2%) su
travertino e biocalcareniti. Misure di angolo di contatto e di assorbimento capillare suggeriscono che le
nanoparticelle inducono un significativo aumento dell’idrofobicità e delle proprietà di repellenza
all’acqua dei film protettivi. In particolare, gli strati protettivi di Paraloid B72®/nanoparticelle cambiano il
loro carattere da idrofilici (θs < 90°) ad idrofobici (θs > 90°), ottenendo risultati migliori rispetto a quelli
ottenuti con i polisilossani. Tale risultato risulta confermato dal metodo ultrasuoni (US), che mostra una
significativa variazione con il trattamento silossanico-nanoparticelle. Misure colorimetriche non
mostrano differenze prima e dopo i cicli di invecchiamento gelo-disgelo.
Poli(uretano carbonato)
E’ stato condotto un recentissimo lavoro sulla formulazione di un nuovo prodotto per coating da
applicare su substrati lapidei porosi, come il tufo. E’ stata preparata tramite ultrasuoni una dispersione
acquosa di nanocomposito di TiO2/poli(uretano carbonato) [19]. Il lavoro è stato finalizzato al
raggiungimento di un nuovo materiale eco-sostenibile da utilizzare come protettivo nel campo della
conservazione dei beni culturali. Tale materiale polimerico nanostrutturato prodotto attraverso una
procedura a basso impatto, cioè la miscelazione a freddo dei singoli componenti tramite ultrasuoni, nei
test di decomposizione al metilarancio, un colorante azotato che rappresenta l’inquinamento
ambientale, ha mostrato un buon comportamento autopulente.
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59
Nanocompositi Ibridi
Questa sezione riporta studi riguardanti nuovi materiali sempre più interessanti per le loro straordinarie
proprietà derivanti dalla combinazione di diversi building blocks (silani/silossani/fluoro polimeri/acrilici).
Giá nel 2007 alcuni studi [17] hanno portato alla produzione di film-nanocompositi, di polieteri
funzionalizzati a base fluoro (PFPE) con nanoparticelle di SiO2 di dimensioni diverse, e alla loro
applicazione su marmi e su provini di carbonato di calcio costruiti in laboratorio. I provini sono stati
precedentemente immersi in Akeogard P® una resina alifatica polietere-uretano in emulsione acquosa
al 28/32% con alto potere adesivo per il PFPE. Le analisi di angolo di contatto e la valutazione al
microscopio a forza atomica (AFM) del film finale così ottenuto hanno mostrato un aumento di
superidrofobicità e idrorepellenza.
Nel 2013 [20] é stato condotto uno studio sull’efficacia di protezione di una pietra arenaria greca
(Demati, EN 12440) utilizzando rivestimenti superficiali ibridi, derivati dalla combinazione di una miscela
commerciale idrorepellente di solventi a base silani, silossani e fluoropolimeri (SILRES BS 38®) con
nano particelle di SiO2 in diverse concentrazioni (da 1% fino al 2.5%). Questo studio dimostra la
maggiore protezione delle soluzioni polimeriche modificate con al massimo l’1.5% nano-SiO2 quando
applicato su superfici lapidee forti e dense come le arenarie Demati.
Lionetto et al. riportano invece uno studio [21] che esamina gli effetti dell’invecchiamento ambientale a
lungo termine sulle proprietà termiche e meccaniche di ibridi epossidici-silice. Questi materiali
nanostrutturati, preparati tramite processo sol-gel non acquoso e generazione in situ di nano-SiO2 (da
silani) durante l’indurimento a temperatura ambiente delle resine epossidiche, presentano il potenziale
per essere utilizzati come adesivi cold-cured per l’ingegneria civile e per applicazioni nel campo dei beni
culturali. Il lavoro dimostra la superiore durabilità del materiale ibrido epossidico-silice studiato, che ha
mantenuto le sue prestazioni, in condizioni ambientali severe ma realistiche, rispetto ai tradizionali
adesivi epossidici. La riduzione della temperatura di transizione vetrosa e delle proprietà meccaniche
del nanomateriale, osservate nelle prime settimane di invecchiamento, sono state seguite da un
significativo recupero nel corso del tempo. Ciò è stato attribuito a due fenomeni concomitanti: (1) la
riattivazione delle reazioni di indurimento incomplete nei domini epossidici e (2) la continuazione delle
reazioni di condensazione nei domini silossanici attivati dall’acqua assorbita.
Recentemente è stato presentato un lavoro su nanocompositi ibridi da Esposito Corcione et al. [22].
Sono stati sviluppati e proposti come rivestimenti protettivi nanocompositi silossani/metacrili modificati
basati su nanoparicelle di boehmite (minerale di ossido idrossido di alluminio (γ-AlO(OH)). La
caratterizzazione delle proprietà fisiche e superficiali, eseguita per quantificare le modifiche apportate
dalla presenza di nanoparticelle finemente disperse nella matrice termoindurente, hanno evidenziano
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
60 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
che con l’aggiunta di una piccola quantità di boehmite nanoparticelle è possibile aumentare l’idrofobicità
e la durezza del rivestimento, con un aumento supplementare della trasparenza. Questo
nanocomposito continua a mantenere un moderato comportamento speudoplastico in presenza nano-
filler risultati, rendendolo adeguato per l'applicazione specifica.
Uno studio alternativo, condotto da Oliva et al. [23] , ha portato alla formulazione di una serie di sistemi
omogenei core-shell con una crescita controllata di diversi oligoammidi su nanoparticelle di TiO2. Sono
stati utilizzati derivati di composti naturali, ad esempio l’acido L- ʹ-trealosio, come diesteri
nelle reazioni di policondensazione con etilendiammina. Nanoparticelle di TiO2-anatase, scelto per la
sua elevata fotoattività e la sua attività antimicrobica, sono state precedentemente attivate e poi
funzionalizzate utilizzando due agenti di coupling diversi (alcossisilani). Successivamente attraverso
due vie sintetiche differenti sono stati sintetizzati i nanocompositi TiO2-oligoammidi (Fig. 3.1.6).
Figura 3.1.6. Funzionalizzazione della silice attivata (A), prima via sintetica a due steps (B) e (C), seconda
via sintetica di policondensazione (D) [R. Oliva, A. Salvini, G. Di Giulio, L. Capozzoli, M. Fioravanti, C.
Giordano, B. Perito, J Appl Polym Sci (2015) 132, 42047].
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61
Questi prodotti possono mostrare proprietà migliori rispetto ai singoli componenti (Nano-TiO2 o
oligoammidi), che sono utili in molti campi, ad es. come rivestimenti antimicrobici nella conservazione
dei beni culturali. Il nanocomposito TiO2-polietilentartarammide (Fig. 3.1.7) è stato utilizzato per studi
applicativi e ha mostrato una buona efficacia contro attacchi fungini da Trametes versicolor su campioni
di legno (Fagus sylvatica).
3.2. I Fluidi
La pulizia di un’opera d’arte può essere un compito molto delicato. Nel suo significato più ampio, la
pulizia comporta la rimozione di tutto il materiale indesiderato dalle superfici storico/artistiche. In pratica,
l’intervento deve essere effettuato in modo controllato senza danneggiare il manufatto originale a causa
di sollecitazioni meccaniche o di qualsiasi altro processo come il rigonfiamento, la lisciviazione dei
componenti, la decolorazione, ecc.. I materiali da rimuovere appartengono ad un’ampia varietà di
sostanze che vanno dallo sporco, sudiciume e terreno, ai rivestimenti naturali e sintetici, quali adesivi e
vernici, che possono imbrunire e degradare nel tempo in modo da produrre alterazione estetica o
degradazione fisico-chimica del substrato artistico.
È un dato di fatto che l’applicazione di rivestimenti idrofobi sintetici, quali poliacrilati e vinilacetati,
alterano fortemente le proprietà fisico-chimiche dei substrati, come dipinti murali e pietre carbonatiche,
con conseguente danno nel medio o lungo termine alla superficie artistica [24-26] (Fig. 3.2.1). La misura
in cui gli strati indesiderati vengono rimossi può essere una questione di dibattito e dipende da caso a
caso in base a fattori storici, estetici o etici. Per esempio, talvolta una “patina” viene lasciata su superfici
artistiche perché considerato come una parte storica di per sé.
A B
Figura 3.1.7. A: campioni di legno con e senza nanocomposito NC (NPs-oligoammide), tenuti al buio o esposti a luce UV
dopo tre settimane. aʹ (tempo 0) e aʹʹ (tempo di 3 settimane) sono campioni con NC al buio; bʹ (tempo 0) e bʹʹ (tempo di 3
settimane) sono campioni senza NC al buio; cʹ (tempo 0) e cʹʹ (tempo di 3 settimane) sono campioni con NC esposti a UV; dʹ
(tempo 0) e dʹʹ (tempo di 3 settimane) sono campioni senza NC esposti a UV. B: immagini al microscopio (ingrandimento
200x) di campioni di legno trattati con NC (a) e senza NC (b) dopo esposizione ai raggi UV per 3 settimane; campione con
NC dopo 9 settimane di incubazione al buio (c) [R. Oliva, A. Salvini, G. Di Giulio, L. Capozzoli, M. Fioravanti, C.
Giordano, B. Perito, J Appl Polym Sci (2015) 132, 42047].
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62 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Attraverso i secoli, una vasta gamma di prodotti per la pulizia è stata utilizzata, come ad esempio i
saponi (da grassi e oli), prodotti alimentari (aceto, vino, succo di limone), materiali inorganici (soluzioni
di cloruro di potassio) e anche biofluidi come l’urina, la bile o la saliva, che è al giorno d’oggi preparata
sinteticamente e utilizzata dai conservatori [27].
Alcuni di questi fluidi (bile, saliva, saponi) contengono tensioattivi, che sono stati usati sin da tempi
antichi e sono stati ampiamente studiati e diffusi dall’industria sintetica a partire dal ventesimo secolo.
Branche della moderna chimica avanzata e chimica fisica, come la scienza dei materiali, dei colloidi e
delle nanoscienze, hanno svolto un’intensa attività di ricerca sia teorica che applicativa legati alla
materia soffice, come sistemi binari o ternari composti da acqua, tensioattivi e altri additivi (ad esempio
solventi). La fine degli anni 1980 in Italia ha visto la prima applicazione di sistemi fluidi nanostrutturati a
base di tensioattivi per la rimozione di macchie di cera dalla superficie dipinta di un dipinto murale del
Rinascimento a Firenze [28,29] (Fig. 3.2.2).
A partire da quello studio pionieristico, diversi sistemi sono stati preparati, caratterizzati e applicati con
successo per la rimozione di materiali indesiderati da superfici artistiche. Numerosi esempi, riportati in
letteratura, si veda ad esempio Baglioni et al. [30] e Carretti et al. [31,32], rendono i fluidi nanostrutturati
uno degli strumenti di pulizia avanzati più interessanti per la conservazione dei Beni Culturali, insieme
con i gel, la tecnologia laser [33-35], e la promettente “biocleaning” basata sull’uso di microrganismi
[36,37].
I principali meccanismi coinvolti nella rimozione di sporcizia e suolo oleoso possono essere:
Figura 3.2.1. Dipinti murali nella “Templo de los Nichos Pintados” a Mayapan (Yucatan). Le
immagini mostrano il degrado dei dipinti dovuto al rivestimento in Mowilith DM5 applicato
nell’ultimo restauro nel 1999 [R. Giorgi, M. Baglioni, D. Berti, P. Baglioni, Acc Chem Res (2010),
43, 695].
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63
arrotolamento: questo meccanismo è rilevante quando il terreno oleoso apolare è depositato su
substrati polari, ad esempio macchie d’olio su tessuto di cotone. In questo processo
l’interazione tra il substrato e il tensioattivo è determinante.
emulsione: il meccanismo comporta l’interazione degli aggregati tensioattivi (micelle) con la
fase”olio”. Questo processo non è dipendente dalla natura del substrato. Bassa tensione
interfacciale è necessaria in questo processo.
solubilizzazione: il terreno oleoso viene solubilizzato nel cuore idrofobico di una
microemulsione. Questo meccanismo non dipende dalla natura chimica della superficie da cui il
terreno deve essere rimosso. In questo processo, ultra-bassa tensione interfacciale tra olio e
soluzione di tensioattivo è di solito necessaria.
la rimozione dei polimeri può comportare processi più complessi [38-40].
Soluzioni Micellari e Microemulsioni
Fluidi complessi basati su surfattanti di questo tipo sono detti soluzioni micellari e emulsioni Una
soluzione micellare è una “dispersione” di aggregati di molecole anfifiliche (tensioattivi); gli aggregati
mostrano tipicamente una forma sferica e sono chiamati “micelle”. Le micelle si formano quando la
concentrazione di tensioattivi supera un valore di soglia chiamato “concentrazione micellare critica”
(CMC); in queste condizioni le micelle sono ancora in equilibrio con gli anfifilici non aggregati liberi. La
Figura 3.2.2. Dettagli delle pitture murali di Masaccio e Masolino nella Cappella Brancacci, Firenze. Il pannello in alto a
destra mostra macchie di cera sotto la luce UV prima della pulizia. Il pannello inferiore a destra mostra la stessa zona
dopo la pulizia con una microemulsione sotto luce visibile. A sinistra è riportata l’intera scena dopo restauro [P. Baglioni,
D. Chelazzi, R. Giorgi, G. Poggi, Langmuir (2013) 29, 5110].
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64 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
forma delle micelle dipende principalmente dalla struttura chimica del tensioattivo; la forma sferica è tra
le strutture più comuni, ma possono essere ottenute anche strutture cilindriche, oblati o strutture più
complesse. La presenza di tensioattivi sopra la CMC in una miscela di due liquidi immiscibili conduce,
sotto agitazione meccanica, alla formazione di una emulsione.
Lindman e Danielsson hanno fornito una definizione utile delle microemulsioni descritte come “sistemi
liquidi, stabili e omogenei, otticamente trasparenti, isotropi e “spontaneamente” formati, che
comprendono due liquidi reciprocamente insolubili; uno disperso nell’altro in forma di microsfere
stabilizzate da almeno un monostrato di molecole anfifiliche (tensioattivi)” [41].
Le emulsioni sono quindi macroscopicamente delle miscele omogenee di due liquidi immiscibili, ad
esempio acqua e olio, la cui formazione è necessariamente mediata da almeno un componente,
generalmente definito emulsionante (surfattanti). Da un punto di vista microscopico, queste miscele
sono, tuttavia, non omogenee come le soluzioni convenzionali, perché sono costituite da domini di
acqua e di olio, mentre l’emulsionante copre principalmente l’interfaccia tra i due liquidi immiscibili. Una
delle due fasi liquide è dispersa nella cosiddetta fase liquida continua in forma di goccioline di varie
dimensioni.
Gli agenti emulsionanti più comuni sono i tensioattivi, tuttavia copolimeri a blocchi e particelle solide
possono stabilizzare le goccioline liquide in una fase disperdente immiscibile (Fig. 3.2.3).
Le emulsioni possono essere classificate in due modi: i) in base alla dimensione finale delle goccioline
disperse (Fig. 3.2.4); ii) indipendentemente dalle dimensioni, in base alla natura dei due liquidi
immiscibili. Spesso uno dei due componenti liquidi è l’acqua, e l’altro è chiamato genericamente “olio”,
per sottolineare la sua incompatibilità con il mezzo acquoso.
Sulla base della fase liquida che è finemente dispersa nell’altra fase liquida, si possono distinguere in:
water-in-oil dispersion (w/o), quando la fase dispersa è quella acquosa;
oil-in-water dispersion (o/w) nel caso opposto;
bicontinue, quando acqua e olio formano due canali separati.
I parametri fisici che caratterizzano un’emulsione sono, oltre alla sua composizione, la dimensione
media delle gocce e la dimensione della dispersione. I protocolli di preparazione più popolari prevedono
l’utilizzo di energia meccanica, che può essere fornita in vari modi. Normalmente le due fasi liquide sono
mescolate vigorosamente, o esposti a ultrasuoni, o costrette a passare attraverso piccoli orifizi in un
omogeneizzatore. In ogni caso queste operazioni comportano una diminuzione media del diametro
delle goccioline della fase dispersa dal range macroscopico a quello colloidale.
Le microemulsioni possiedono notevoli vantaggi rispetto alle emulsioni e nanoemulsioni in diversi
campi. Come mostrato in Fig. 3.2.3, le microemulsioni possono essere viste come le controparti di
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65
dimensioni ridotte delle emulsioni, dove i domini della fase dispersa contengono goccioline con un
raggio nel range 5-50 nm.
.
Tuttavia questa descrizione non cattura tutte le caratteristiche salienti del sistema, e in particolare il fatto
che le microemulsioni si formano spontaneamente in alcune condizioni sperimentali, a seconda della
composizione, della temperatura e della pressione. La loro enorme area interfacciale e la stabilità
termodinamica, che implica facilità di preparazione, rende le microemulsioni sistemi ideali
nanostrutturati per applicazioni che richiedono simultaneamente la presenza di olio e di acqua. La
dimensione ridotta delle gocce porta a due importanti caratteristiche delle microemulsioni: (i) le
microemulsioni sono otticamente trasparente grazie alla dimensione delle micelle; (ii) le nanogocce
sviluppano un enorme superficie di scambio che migliora fortemente l’interazione di questi sistemi con
eventuali strati indesiderati che devono essere rimossi (sporcizia, adesivi dannosi, ecc.); di
Figura 3.2.4. Rappresentazione schematica della formazione di
una dispersione liquido-liquido e classificazione basata sul
formato [P. Baglioni, D. Chelazzi, In: “Nanoscience for the
Conservation of Works of Art”, RSC Nanoscience &
Nanotechnology No. 28, 2013].
Figura 3.2.3. Emulsionanti. I più comunemente utilizzati per
scopi applicativi sono i tensioattivi e i copolimeri a blocchi [P.
Baglioni, D. Chelazzi, In: “Nanoscience for the Conservation of
Works of Art”, RSC Nanoscience & Nanotechnology No. 28,
2013].
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
66 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
conseguenza, l’efficacia di pulizia delle microemulsioni è cineticamente migliorata rispetto alle emulsioni
standard.
Grazie al basso contenuto di solventi organici, questi sistemi hanno un bassissimo impatto
ecotossicologico rispetto ai solventi puri o alle miscele di solventi; inoltre, la nanostruttura dei fluidi di
pulizia garantisce l’effettiva e selettiva rimozione di strati indesiderati presenti sulla superficie delle
opere d’arte.
Per riassumere, questi sistemi presentano i seguenti vantaggi principali rispetto ai tradizionali metodi di
pulizia:
producono la solubilizzazione e/o il rigonfiamento di strati di sporcizia e polimeri, provocandone
il distacco dai substrati artistici. La penetrazione del materiale idrofobico distaccato all’interno
della matrice porosa del substrato (ad esempio una pittura murale) è ostacolata dalla barriera
idrofilica fornita dalla fase continua del fluido (acqua). Invece, la pulizia tradizionale con solventi
comporta la dissoluzione dei rivestimenti e il trasporto del materiale dissolto all’interno dei pori
dell’opera d’arte, con possibili effetti negativi a lungo termine.
Possono essere efficaci nella rimozione di rivestimenti indesiderati la cui solubilità nei solventi è
stata modificata e ridotta a causa di invecchiamento.
Sono sistemi a base acqua con basso contenuto di solventi organici, che permettono una
drastica riduzione dell’impatto sulla salute degli utenti finali (conservatori, restauratori) rispetto
ai solventi puri.
Microemulsioni da surfattanti anionici
Nella prima applicazione di una microemulsione per la pulitura di superfici dipinte [28,29] questa era
composta da nanogocce di dodecano (efficienti nella solubilizzazione della cera) stabilizzate in acqua
da sodio dodecilsolfato (SDS) e 1-pentanolo.
Da allora, diverse formulazioni sono stati sviluppate per rimuovere polimeri/co-polimeri acrilici
invecchiati, che sono una delle classi più utilizzate di consolidanti per le pitture murali.
Le prime formulazioni studiate e testate del tipo o/w contenevano xilene disperso in una soluzione di
carbonato d’ammonio, usato come fase continua. [31]. Il contenuto di xilene molto basso (fino a < 3%)
diminuì drasticamente l’impatto ambientale dell’intervento. La microemulsione applicata con pasta di
cellulosa ha portato alla completa rimozione dei rivestimenti acrilici dannosi sia dalla superficie che dagli
strati interni di pitture murali del 14 secolo.
Poiché il p-xilene non è un buon solvente per i polimeri vinilici, diversi fluidi nanostrutturati sono stati
formulati rispetto a quelli utilizzati nelle applicazioni precedenti. Caretti et al. [31] applicano con
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67
successo un sistema a 4 componenti costituito da sodio dodecilsolfato (SDS), 1-pentanolo (come co-
tensioattivo), carbonato di propilene (PC) e acqua.
Nel 2008 è stato sviluppato un sistema modificato, che contiene sodio dodecilsolfato (SDS), 1-
pentanolo, carbonato di propilene (PC) e acetato di etile (EA), per rimuovere copolimeri vinilici/acrilici
dai dipinti murali Maya conservati nel sito archeologico di Mayapan (Yucatan,
Messico) [26] Questo sistema oil-in-water (denominato “EAPC”) è risultato molto efficace nella
rimozione di diversi tipi di polimeri, come acrilici e siliconici [38-40] (Fig. 3.2.6).
Il Sistema EAPC è più efficiente e versatile rispetto alla “classica” microemulsione basata su xilene e
utilizzata in molti laboratori di conservazione; probabilmente le differenze strutturali dei due sistemi
svolgono un ruolo nel processo di pulizia.
Il sistema EAPC segue un meccanismo in cui vari processi si svolgono contemporaneamente: i) i
solventi disciolti nella fase acquosa continua (PC e EA), che sono in equilibrio con le goccioline
disperse, interagiscono rapidamente con il rivestimento polimerico, ii) la migrazione del solvente
avviene dalle nanogocce (che possono essere considerate come nanocapsule dinamiche) alla fase
acquosa, e iii) ulteriore migrazione avviene dalle nanogocce al polimero.
Come conseguenza, il rivestimento polimerico “seleziona” una composizione ottimale che favorisce un
districamento della catena, gli strati polimerici rigonfiano e si ha il distacco dal substrato [40] (Fig. 3.2.5).
Figura 3.2.5. Rappresentazione schematica
del meccanismo di interazione tra i sistemi
detergenti nanostrutturati (in alto: EAPC; in
fondo: XYL) e il rivestimento polimerico [G.
Palazzo, D. Fiorentino, G. Colafemmina, A.
Ceglie, E. Carretti, L. Dei, P. Baglioni ,
Langmuir (2005) 21, 6717].
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
68 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Microemulsioni da surfattanti non ionici
Lo sviluppo di microemulsioni con surfattanti non ionici è stato favorito dal fatto che gli anionici hanno
un’elevata tendenza a schiumare e a concentrazioni micellari critiche relativamente alte (CMC circa
8,3·10-3 M), comparati con i tensioattivi non ionici, richiedendo cosí una grande quantità di tensioattivo
per produrre la microemulsione.
Figura 3.2.6. In alto: rimozione di rivestimenti organici da un dipinto murale mesoamericano a Cholula (pannello
superiore). A sinistra inferiore (A), la presenza del rivestimento organico altera significativamente la leggibilità del
dipinto. Sulla destra (B), la stessa area parzialmente pulita dopo l’applicazione di una microemulsione [P. Baglioni, D.
Chelazzi, R. Giorgi, G. Poggi, Langmuir (2013) 29, 5110]. In basso: Dipinti murali nell’Abside di Conone (Chiesa
dell’Annunciazione a Nazareth, Israele). A sinistra, l’effetto del rivestimento polimerico sulla superficie pittorica. A
destra, la stessa zona dopo la completa rimozione ottenuta utilizzando il sistema EAPC [M.Baglioni, D. Berti, J. Teixeira,
R. Giorgi, P. Baglioni, Langmuir (2012) 28, 15193].
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69
L’uso di una minore quantità di tensioattivo riduce il rischio di lasciare residui nella porosità dello strato
dipinto, se i dipinti non sono adeguatamente puliti. Inoltre i non ionici sono più rispettosi dell’ambiente e
biodegradabili rispetto a quelli ionici (come l’SDS).
I polialchilglicosidi (APG) e gli alcoli etossilati appartengono a una classe di tensioattivi “green” e
possiedono interessanti proprietà per un gran numero di applicazioni [32,42] (Fig. 3.2.7).
Figura 3.2.7. Sagrestia di Santa Maria della Scala, Siena, Italia. (A) Porzione del dipinto murale dove sono state
effettuate prove di solubilizzazione del copolimero mediante microemulsione alchilpoliglicoside/Sodio
poliglicoside alchil solfosuccinato. Immagine a luce radente (B) dell’affresco. L’effetto lucido è dovuto alla
presenza di uno strato superficiale di polietilmetacrilato/metacrilato (EMA/MA). (C) immagine in luce radente
della regione di affresco in cui è stata effettuata la prova di pulizia con lapplicazione della microemulsione [E.
Carretti, R. Giorgi, D. Berti, P. Baglioni, Langmuir (2007) 23, 6396].
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
70 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Più recentemente, tensioattivi non ionici (alcoli etossilati, meno del 7%) completamente biodegradabili
sono stati usati per formulare un sistema pulente, basato su metiletilchetone, acetato di etile e acetato
di butile (meno del 5% ciascuno).
3.3. I Gel
Come già detto l’uso di solventi nel restauro e conservazione delle opere d’arte comporta alcuni
inconvenienti principalmente correlati a rischi per la sicurezza e alla possibilità di modificare il manufatto
durante la pulizia. L’intervento ideale dovrebbe essere pienamente selettivo, il che significa che la
rimozione degli strati indesiderati deve essere effettuate senza influenzare i materiali artistici originali sia
chimicamente che fisicamente. Uno dei migliori metodi per raggiungere tale compito è quello di
confinare i solventi in una matrice che li rilascia gradualmente sul substrato. Nel corso degli ultimi
decenni, i conservatori hanno adottato diversi strumenti, tra cui prodotti naturali modificati quali eteri di
cellulosa (ad esempio Kucel®, Tylose) o polimeri sintetici come gli acidi poliacrilici (es Carbopol®).
Questi materiali possono essere usati per addensare i solventi, in modo da limitare la penetrazione
incontrollata nei substrati porosi.
C’è una vasta letteratura sui gel, e una descrizione dettagliata di questi sistemi è al di là degli scopi di
questo lavoro. Ci si concentrerà quindi specificamente su formulazioni utilizzate per la pulizia dei
manufatti, che trattano gli aspetti che sono rilevanti per applicazioni pratiche.
Infatti, la definizione precisa di “gel” non è semplice, in quanto comporta concetti derivati dalla reologia
e dalla scienza dei polimeri. Un gel può essere definito come un materiale che comprende una rete
solida tridimensionale immersa in un fluido, in cui la rete è “percolante”. Di solito, un gel è costituito da
un solido (chiamato gelificante o addensante) che, disperso in un fluido, forma uno scheletro
tridimensionale (3D) o, secondo la terminologia dell’Unione Internazionale di Chimica Pura e Applicata
(IUPAC ), come “una rete o rete polimerica colloidale non fluida che è espansa attraverso tutto il suo
volume da un fluido”.
In un senso più ampio, un gel potrebbe essere definito come un materiale morbido che consiste di
catene polimeriche interconnesse che intrappolano un fluido (di solito un liquido).
Il polimero è chiamato “gelificante” o “addensante”. Il termine “idrogel” è utilizzato quando il liquido è
acqua, mentre “organogel” indica gel che presentano solventi organici. Un’altra importante
classificazione considera il tipo di interazioni che costruiscono la rete tra le catene polimeriche.
Nei “gel fisici” le interazioni sono legami secondari, come le forze di dispersione, i legami idrogeno,
interazioni elettrostatiche o idrofobiche. Invece, nei “gel chimici” la rete polimerica è costituita da legami
covalenti (ad esempio, legami tra le catene polimeriche), che sono più di dieci volte più forti di un
legame idrogeno e più di 1000 volte più forti delle forze di dispersione (Fig. 3.3.1).
Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali
71
Gel Fisici Tradizionali: vantaggi e limiti
A parte le emulsioni da cera e i saponi da resina [43], i più comuni sistemi altamente viscosi utilizzati per
la conservazione del patrimonio culturale per la pulizia delle superfici verniciate solitamente contengono
macromolecole solubili in acqua (cioè il gelificante) come polimeri derivati da prodotti naturali (ossia
eteri di cellulosa) e/o polimeri (cioè l’acido poliacrilico sintetico, Carbopols®).
Alla fine del 1980 e all’inizio del 1990 Richard Wolbers ha sviluppato i cosiddetti “solvent gel”, che sono
ottenuti disperdendo acido poliacrilico (la cui concentrazione varia intorno all’1% wt) in un solvente e poi
aggiungendo tensioattivi non ionici debolmente basici appartenenti alla classe delle cocoammine, come
l’Ethomeen C12® o C25®. Le basi causano la deprotonazione delle funzioni carbossiliche nella catena
dell’acido che si dispiegano e formano una estesa rete 3D che confina il solvente [27,44]. Le capacità di
gelificazione sono connesse alla struttura chimica dei tensioattivi (lunghezza delle catene alchiliche): in
Ethomeen C12®, utilizzato per la preparazione di gel a base di solventi a bassa polarità (HLB = 10).
Figura 3.3.1 Rappresentazione schematica delle
possibili interazioni stabilizzanti i gel chimici e fisici
[P. Baglioni, D. Chelazzi, In: “Nanoscience for the
Conservation of Works of Art”, RSC Nanoscience &
Nanotechnology No. 28, 2013].
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72 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Inoltre il valore più alto di polarità del C25® rende questo tensioattivo utile nella gelificazione di solventi
altamente polari e di soluzioni acquose. In altre formulazioni, derivati della cellulosa (idrossietilcellulosa
e carbossimetilcellulosa) sono utilizzati come gelificanti per sistemi a base acquosa come enzimi e
soluzioni di acido etilendiamminotetraacetico (EDTA) da applicare sotto rigoroso controllo di pH e
temperatura.
I principali limiti tecnologici dei gel fisici e, in particolare, dei “solvent gel gel”, sono relativi alle procedure
da adottare per raggiungere la rimozione completa di tutti i componenti non volatili (principalmente il
gelificante) dalla superficie trattata, una volta che hanno svolto la loro funzione [53]. La presenza di
residui di gelificante può potenzialmente causare fenomeni di degrado a causa di imprevedibili e
incontrollabile interazioni con il supporto. Questi effetti indesiderati includono l’aumento della solubilità
degli strati dipinti o la loro alterazione chimica, di solito con conseguente accelerazione del
deterioramento dell’opera d’arte [45].
I solvent gel sono ancora uno degli strumenti più utilizzati per la pulizia grazie alla loro efficacia e
versatilità; infatti possono anche essere utilizzati per controllare l’azione di detergenti ed enzimi.
A causa di questi problemi, la ricerca scientifica si è concentrata negli ultimi dieci anni sulla
formulazione di sistemi alternativi che possono essere facilmente e completamente rimossi dagli strati
dipinti, minimizzando o evitando completamente la presenza di residui solidi.
Gomme a base di polisaccaridi, come agar-agar (AgarArt®) [46,47] e gomma di gellano (Phytagel®)
[48], sono state recentemente considerate per la pulizia di superfici artistiche e storiche. Queste
formulazioni sono state introdotte per minimizzare l’impatto dell’acqua, durante la pulizia di supporti
porosi altamente sensibili come gesso, carta e pergamena [49].
Infatti sia l’AgarArt® che il Phytagel® possono formare idrogel rigidi e trasparenti che, una volta in
contatto con una matrice porosa, possono ritenere elevate quantità di acqua, evitandone la
penetrazione nel supporto. Tuttavia, la ritenzione di acqua di questi sistemi non è sufficiente per il
trattamento di manufatti artistici sensibili all’acqua e l’eccessiva idratazione delle superfici dipinte può
risultare in una lisciviazione indesiderate del colore [50].
Gel Nanostrutturati Innovativi
Per superare tutti i limiti connessi all’uso dei solvent gel tradizionali sono stati sviluppati nuovi approcci
per la pulizia di superfici dipinte basate sull’uso di gel “sensibili”. Dal punto di vista della pulizia
superficiale, la parola “sensibile” significa che l’architettura chimica di queste formulazioni consente una
rimozione rapida, completa e non invasiva come risposta a stimoli “chimici” o “fisici”. Questi sistemi
possono essere indicati come “gel reoreversibili” o “spugne nanomagnetiche”, rispettivamente.
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73
E’ ben noto che soluzioni di poliammine (cioè poliallilammine, PAA o polietileneimmine, PEI) possono
essere facilmente convertite in un gel [51] direttamente applicabile su una superficie dipinta da pulire
[52], semplicemente gorgogliando CO2. Infatti, il poliallilammonio carbammato (PAA•CO2), ottenuto
attraverso interazioni attrattive elettrostatiche tra le catene del polimero, porta alla formazione di una
struttura polimerica 3D in grado di sostenere la fase liquida (i sistemi più stabili sono quelli in cui la fase
gelificata è un alcol alchilico). Appena il gel ha svolto la sua azione pulente può essere completamente
rimosso dalla superficie trattata aggiungendo alcune gocce di una soluzione acida debole (acido
acetico, 0.05 M). Appena il carbammato è convertito in ioni poliallilammonio (PAA+), il gel passa allo
stato liquido e può essere facilmente spazzato via con un tampone di cotone asciutto. La soluzione
acida debole agisce come un interruttore molecolare che caricando le catene di PAA distrugge la rete
3D tramite repulsioni elettrostatiche inter-catena. Purtroppo, questa tecnologia non ha avuto ulteriori
miglioramenti in quanto, a causa della tissotropia intrinseca di questi sistemi, anche se la loro capacità
di pulizia è eccellente la possibilità di una corretta manipolazione e controllo è difficile.
Un altro approccio che permette una rimozione sicura e non invasiva del gel è l’uso di gel chimici di
poliacrilammide drogati con nanoparticelle magnetiche di ferrite legate chimicamente al polimero [53].
Mentre il gel conserva la risposta magnetica della ferrite e le proprietà strutturali tipiche del gel di
acrilammide puro (dimensioni della maglia su nanoscala, dimensioni del dominio non omogeneo di
poche decine di nanometri e pori micrometrici), le nanoparticelle agiscono come siti di aggrovigliamento
del sistema, migliorando l’elasticità che si traduce in un aumento del modulo di taglio G [54].
Questi gel possono essere caricati con sistemi acquosi (cioè soluzioni acquose, sistemi micellari o
microemulsioni o/w) e una volta messi in contatto con la superficie dipinta da pulire, possono essere
completamente rimossi semplicemente con un magnete permanente senza lasciare residui rilevabili
analiticamente sulla superficie trattata. Inoltre, questi sistemi possono essere sagomati a piacere
(durante la sintesi o successivamente con una fresa) permettendo il controllo spaziale completo della
superficie da pulire.
Gli Idrogel Chimici
Gli idrogel chimici sono un’altra classe di materiali che hanno recentemente trovato applicazione nella
pulizia dei manufatti, grazie a caratteristiche che li rendono vantaggiosi rispetto ad altre formulazioni.
Sono sistemi bicontinui in cui lo scheletro che supporta la fase liquida è solitamente formato dalla
polimerizzazione di unità monomeriche. La modulazione della forza della rete polimerica permette un
perfetto controllo del rilascio delle soluzioni o dei sistemi dispersi (cioè soluzioni micellari e
microemulsioni o/w) incorporati, e un sicuro e facile peeling dalla superficie trattata senza lasciare
residui. Domingues et al. [50] hanno sviluppato reti semi-interpenetranti di p(HEMA)/PVP dove catene
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74 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
libere di poli(vinilpirrolidone) (PVP) sono integrate in una rete formata da poli(2-idrossietilmetacrilato)
(p(HEMA)). Questi sistemi posseggono la resistenza meccanica del p(HEMA) combinata con l’idrofilia
del PVP. In particolare, sia il rapporto p(HEMA)/PVP che la quantità di acqua utilizzata durante la
procedura di preparazione, influenzano le proprietà finali del gel, che possono essere regolate per
ottenere le proprietà desiderate, cioè una buona adesione al substrato, ideale ritenzione/rilascio del
sistema detergente (acqua, microemulsioni o/w, soluzioni micellari ecc..) e confinamento dell’azione di
pulitura alla sola area di contatto tra il gel e il substrato artistico. La letteratura riporta le dimensioni sia
dei macropori che della maglia di gel di p(HEMA)/PVP [50]. La dimensione delle maglie fornisce
intrinsecamente una misura della microporosità media della rete di gel, cioè dei pori di dimensioni
nanometriche. I valori medi di porosità dipendono dalla formulazione del gel, ad esempio una
particolare formulazione (denominata H50) ha macropori di 5-15 micron e una maglia di 2,5 nm. I gel
costituiti da p(HEMA)/PVP sono altamente ritentivi nei confronti dell’acqua, che è una caratteristica
fondamentale per la pulizia controllata. Infatti, il rilascio di acqua di questi sistemi è fortemente ridotta
rispetto all’AgarArt® (gel di agar-agar) e Kelcogel® (gel gellano) preparati per dispersione di polveri
secche in acqua (3% w/w), come mostrato da Domingues et al. [55]. Grazie alla struttura chimica
diversa e alla polarità di HEMA e VP, è possibile ottimizzare la formulazione del gel per il supporto da
trattare in termini di potere di ritenzione, porosità, comportamento visco-elastico e carattere
idrofobico/idrofilico della rete. Soprattutto, questa ultima caratteristica rende questi gel chimici
contenitori altamente versatili in grado di supportare sia soluzioni detergenti acquose (microemulsioni
o/w e soluzioni micellari) che un ampio numero di solventi organici caratterizzati da diversi parametri di
solubilità. Di conseguenza, è possibile customizzare gel efficaci nella rimozione di materiali con
differenti proprietà chimico-fisiche, come i rivestimenti a base di idrocarburi idrofobici (cere), materiali
proteici altamente polari (colle vegetali o animale) e naturali (dammar, mastice) o vernici sintetiche
(acrilico e vinile).
Uno studio condotto da Pizzorusso et al. [56] riporta l’uso di un’altra classe di idrogel chimici, vale a dire
gel di acrilammide/bisacrilammide, per la pulizia di dipinti da cavalletto.
La rete 3D in questo caso è prodotta dalla polimerizzazione radicalica del monomero acrilamide con un
reticolante, ad esempio N,N’-metilene bisacrilammide. I macropori che si formato hanno dimensione di
5-25 micron, mentre la dimensione delle maglie è di 7-9 nm. I gel risultanti hanno un comportamento
che è simile a quello dei solidi: possono essere facilmente applicati e rimossi dalla superficie trattata
senza lasciare residui, come determinato per i gel di p(HEMA)/PVP. Gel di acrilamide/bisacrilammide,
caricati con fluidi nanostrutturati a base di tensioattivi, sono stati utilizzati con successo per rimuovere
adesivi sintetici dannosi dalle tele. I gel garantiscono una buona bagnabilità delle fibre, evitando la
diffusione di acqua attraverso il substrato e lungo il piano della superficie della tela. Accoppiando il
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75
rigonfiamento dello strato adesivo da parte del fluido con l’azione meccanica è possibile ottenere la
pulizia selettiva della tela senza causare alterazioni (gonfiore delle fibre).
Sistemi Spellicolabili: dispersioni polimeriche ad alta viscosità (HVPDs)
Un ulteriore possibile approccio basato sull’uso della materia soffice è l’uso di sistemi simili a gel
caratterizzati da elevata elasticità intrinseca (quantitativamente espressa dal modulo di taglio G), che
consente la loro facile, completa e sicura rimozione con un’azione di peeling senza lasciare residui sulla
superficie trattata.
Le dispersioni polimeriche ad alta viscosità (HVPDs) sono una classe di materiali utili [57] ad alta
elasticità intrinseca. Il termine “dispersioni polimeriche” è utilizzato poiché questi sistemi non possono
essere classificati come gel per il loro comportamento reologico, anche se hanno un aspetto simile ai
gel. Infatti, le curve reologiche sono caratterizzate da un incrocio tra i moduli di shear G' (modulo
elastico) e G''(modulo viscoso). Le HVPDs possono essere formate da poli(vinilalcool) o da
poli(vinilacetato) (PVAs) parzialmente idrolizzato le cui catene sono reticolate con borace. Le risultanti
reti 3D sono termodinamicamente stabili e mostrano caratteristiche che sono particolarmente
interessanti per la pulizia delle opere d’arte. Infatti, questi “gel” possono adattare la loro forma in modo
da massimizzare il contatto con il substrato artistico. Ancora più importante, questi sistemi mostrano un
alto modulo elastico quindi è possibile semplicemente “spellicolarli” dalla superficie trattata dopo
l’applicazione, come mostrato in Fig. 3.3.2.
Per esempio, uno studio di Carretti et al. ha evidenziato che dispersioni PVA-HVPDs/borace potrebbero
essere rimosse con un semplice peeling senza lasciare quantità misurabili di residui [58].
A parte le proprietà meccaniche che possono essere regolate variando il grado di idrolisi del PVA, la
concentrazione sia di borace che di PVA, il pH, la temperatura e la composizione della fase acquosa
Figura 3.3.2 a: dispersione polimerica ad alta viscosità (HVPD) formata da poli (vinil acetato)parzialmente
idrolizzato, le cui catene sono reticolate con borace. b: l’ HVPD è spellicolata dalla superficie di una tela con delle
pinzette [I. Natali, E. Carretti, L. Angelova, P. Baglioni, R.G. Weiss, L. Dei, Langmuir (2011) 27, 13226].
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76 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
continua incorporata, un ulteriore proprietà che rende i sistemi PVA-HVPDs/borace adatti per la pulizia
delle superfici artistiche è che essi mantengono la loro stabilità termodinamica anche dopo l’aggiunta di
quantità significative di solventi organici. Quindi a seconda del grado di PVA, questi sistemi possono
essere prodotti e caricati con acqua o solventi organici come acetone, alcoli (fino al 50% etanolo,
propanolo-1, 2-butanolo, 1-pentanolo), carbonato di propilene, metiletilchetone, N-metilpirrolidone e
cicloesanone; quindi le HVPDs possono essere utilizzate per la rimozione di diversi tipi di materiali
[59,60].
Inoltre, a seconda della natura chimica del solvente caricato, è possibile regolare ulteriormente le
proprietà viscoelastiche delle HVPDs.
Queste caratteristiche consentono una modulazione rigorosa della selettività, dell’efficacia e
dell’invasività dell’azione di pulizia in termini sia dei parametri di Hildebrand che di modulo
di shear [57]. Gel chimici e HVPDs sono disponibili sul mercato, con il marchio Nanorestore Gel®.
Figura 3.3.3. Particolare della pittura murale (Sagrestia di Santa Maria della Scala, Siena, Italia) su cui è stata provata la
rimozione del poli (etilmetacrilato/metacrilato) (EMA/MA) con il sistema microemulsione/HMHEC. In basso a destra:
fotografia a luce radente della parte del dipinto dopo l’applicazione del sistema di pulitura (vedi regione all’ interno della
linea tratteggiata). In alto: immagini SEM prima e dopo la rimozione del polimero [E. Carretti, E. Fratini, D. Berti, L.
Dei, P. Baglioni, Angew Chem (2009) 48, 8966].
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77
Un ulteriore miglioramento della tecnologia gel per la pulizia di superfici verniciate è stata ottenuta
caricando sistemi dispersi acquosi come microemulsioni o soluzioni micellari in matrici altamente
viscose con l’intento di unire le proprietà che rendono opportune queste classi di sistemi e ottenere un
miglioramento sinergico delle loro capacità di pulizia. Il confinamento di microemulsioni e soluzioni
micellari in gel chimici o HVPD permette la massima riduzione dell’impatto ambientale nei processi di
pulitura delle superfici. Infatti la scelta di sostituire un solvente puro con un sistema contenente fino a
99% w/w di acqua [32] all’interno di una matrice altamente viscosa minimizza l’evaporazione della fase
dispersa e permette il controllo della diffusione delle nanogocce nel supporto poroso attraverso la
modulazione sia della dimensione della maglia che della viscosità dello scheletro polimerico. Inoltre, un
perfetto controllo dell’azione di pulizia è anche ottenuto attraverso l’uso di strumenti a bassa
penetrazione, otticamente trasparenti e facilmente asportabili. Da Caretti et al. [61] è stata eseguita
l’applicazione di un HVPD altamente viscoso, composto da una microemulsione o/w incorporata in una
matrice 3D di idrossietilcellulosa idrofobicamente modificata (HMHEC), su pitture murali del Vecchietta
(sagrestia di Santa Maria della Scala, Siena, 15° secolo) affette da 35 anni di
poli(etilmetacrilato/metilacrilato), Paraloid B72®, applicato in un trattamento di restauro precedente.
L’applicazione del sistema microemulsione/HMHEC ha portato all’ammorbidimento progressivo del
rivestimento acrilico e conseguente alla scomparsa dell’effetto lucido dato dal Paraloid B72® (Fig.
3.3.3).
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78 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
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81
4. I Nanosensori
Nel tempo gli oggetti storici e artistici subiscono un degrado inevitabile a causa del deterioramento
fisico, chimico, meccanico e biologico dei materiali costituenti. Lo scopo più importante dei restauratori e
conservatori è quello di mettere in atto efficienti interventi conservativi al fine di rallentare questi
processi di degrado. A tal proposito, una delle decisioni più cruciali è rappresentata dal “se” e “quando”
un intervento di restauro è necessario e come il trattamento deve essere eseguito [1,2]. Per prendere la
scelta giusta, passi fondamentali sono rappresentati da una valutazione periodica dello stato di
conservazione del patrimonio culturale mobile ed immobile e lo stretto controllo del microclima in cui
questi manufatti sono o saranno conservati [3]. Queste azioni aiutano i conservatori a pianificare
adeguati trattamenti prima che ulteriori e gravi fenomeni di degrado si verifichino.
Per quanto riguarda la necessità di tenere sotto controllo il degrado dei manufatti storici e artistici, la
reperibilità sul mercato di sensori innovativi ha portato a significativi miglioramenti nel campo della
conservazione. Oltre a valutazioni periodiche e indagini microclimatiche, un gran numero di parametri
che possono essere correlati allo stato di conservazione degli oggetti (la presenza di prodotti di
degradazione e l’alterazione dei parametri chimici o fisici) e al microclima in cui sono immagazzinati
(inquinanti, umidità relativa, temperatura e irraggiamento) possono essere costantemente monitorati. I
meccanismi di deterioramento dipendono fortemente dalla composizione chimica del materiale
costituente l’oggetto di interesse storico/artistico. Pertanto, i fattori che influenzano la cinetica di
degradazione di un oggetto saranno diversi. Tuttavia, si può affermare che ci sono alcuni fattori
principali che possono influenzare il degrado dei materiali attraverso meccanismi simili: temperatura,
umidità relativa, inquinamento atmosferico (CO, SO2, NOx, O3 e idrocarburi (HCs)) e microrganismi.
In questo quadro, oltre a sensori tradizionali, il set-up di innovativi e efficaci nanosensori apre nuove
interessanti applicazioni per la conservazione del patrimonio culturale.
Sensori per tali applicazioni devono avere una serie di caratteristiche, come l’elevata sensibilità, il
funzionamento senza contatto, la stabilità e la robustezza, risposta temporale e tempo di recupero
relativamente veloci, mantenendo una dimensione molto piccola, essere a basso costo e con bassa
potenza operativa, che è associato con dissipazione (termica) della potenza ridotta nell’area. Il
vantaggio nell’utilizzo dei nanosensori risiede principalmente nelle loro ridotte dimensioni, che
permettono di collocarli in prossimità dell’oggetto prezioso, nel loro tipo di funzionamento che non
prevede un’interrogazione di tipo elettrico che potrebbe essere vulnerabile agli effetti di interferenza
magnetica, e nella loro sensibilità.
I recenti progressi nella sintesi e comprensione fondamentale delle proprietà dei nanomateriali hanno
portato ad un significativo avanzamento nel campo dei sensori biologici, chimici e per gas basati su
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
82 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
nanostrutture. I materiali utilizzati includono una vasta gamma di nanomateriali compresi nanoparticelle,
quantum dots, nanotubi di carbonio, grafene, nanostrutture a stampo molecolare, strutture di
nanometalli, strutture basate sul DNA, nanomateriali smart, nanosonde, nanomateriali magnetici,
ftalocianine e molecole organiche di porfirine per vari applicazioni di rilevamento
biologogico/gas/chimica [4].
I sensori biologici/chimici/gas sono costituiti generalmente da materiali sensibili, che rispondono alle
variazioni di analiti chimici, biologici e gassosi, e da un trasduttore che li converte e li trasforma in
segnali elettrici. I sensori di gas possono essere classificati attraverso il meccanismo di rilevamento in
chemoresistivi, onde acustiche di superficie (SAW), microbilance a cristalli di quarzo (QCM),
chemoluminescenti, assorbimento ottico, e dielettrici [5-9]. Applicazioni di gas-sensing includono gas
tossici, come NO2, CO, SO2, NH3, O3, e H2S, gas infiammabili, come H2, CH4, C2H2 e C3H8, e composti
organici volatili (VOC), come etanolo, acetone, metanolo e propanolo [6-10]. Allo stesso modo, i sensori
chimici possono essere divisi attraverso le piattaforme di rilevamento in elettrochimici, sensibili all’effetto
di campo degli ioni, a chemiluminescenza, ottici, e quelli spettroscopici di massa [11-13]. Le applicazioni
di rilevamento chimico sono molto più ampie di quelli gassosi in quanto comprendono un gran numero
di sostanze chimiche in fase liquida che vanno da acidi, basi, solventi e sostanze inorganiche agli analiti
organici [14].
In analogia, le piattaforme ampiamente utilizzate nei biosensori includono quelle di tipo elettrochimico,
fluorescente, a risonanza plasmonica di superficie (SPR), QCM, e microcantilever [15-19]. Le
applicazioni dei biosensori coprono anche una gamma molto ampia di materiali biologicamente rilevanti
compresi bioanaliti presenti negli organismi viventi come il glucosio, il colesterolo, l’acido urico, DNA,
RNA, cellule, proteine, organelli, e così via [17-21].
4.1. Nanosensori di Temperatura
Per quanto riguarda lo sviluppo di dispositivi su scala nanometrica una buona review su misure
accurate di temperatura con elevata risoluzione spaziale riassume i risultati più interessanti ottenuti
negli ultimi anni [22].
Ad es. è stato riportato che termometri costituiti da una giunzione Pt/W e realizzati per deposizione
vapore di un metallo su nanostriscie di un altro metallo, in modo da formare un sensore bimetallico su
scala nanometrica, forniscono un coefficiente di temperatura di 5,4 mV/°C, che è 130 volte maggiore di
quello delle termocoppie convenzionali [23].
Gao et al. [24-28] hanno riportato un termometro nanometrico che è di forma analoga a quella di un
termometro tradizionale a mercurio ma un miliardo di volte più piccolo (diametro: 150 nm; lunghezza: 12
μm). Si compone di nanotubi di Carbonio e Manganese (MgO) riempiti con Gallio (Ga) in cui il Ga serve
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83
come indicatore di temperatura espandendosi e contraendosi all’interno del nanotubo nell’intervallo 30-
2204C (Fig. 4.1.1). Questi termometri di nanotubi di carbonio o MgO hanno un grande potenziale per
ambienti ad altissima temperatura grazie alle loro eccellenti proprietà refrattarie e termiche e al vasto
range liquido del Ga. Tuttavia, uno dei principali ostacoli è che questi termometri richiedeno una camera
ad alto vuoto per la lettura e la taratura, anche se la misura della temperatura può essere eseguita in
aria. Solo lo sviluppo di un metodo diverso di trasduzione del segnale può superare questo problema.
Lee et al. [29] hanno sviluppato un nanotermometro reversibile comprendente una sovrastruttura
dinamica di due tipi di nanoparticelle connesse da distanziatori polimerici che agiscono come una molla
molecolare allo stato acquoso. I dati di temperatura determinati da variazioni di intensità della
fluorescenza della sovrastruttura hanno mostrato una dipendenza reversibile dell’intensità con la
temperatura in ambiente acquoso.
Più di recentemente, film sottili costituiti da eterostrutture di nitruro di carbonio(CNX)/Si sono stati
preparati e utilizzati per realizzare prototipi di dispositivi atti all’impiego nella conservazione delle opere
d’arte e nei musei. Questi nanosensori sono stati testati per il monitoraggio della temperatura in
condizioni ambientali controllate. Le caratteristiche capacità-tensione di questi dispositivi mostrano alta
sensibilità alle variazioni di temperatura, il che suggerisce la loro applicazione come sensori stabili e
robusti per il monitoraggio in ambienti chiusi [30].
Recentemente sensori di temperatura, sintetizzati tramite un metodo sol-gel e costituiti da una
sospensione sol o colloidale in cui un colorante organico che si comporta come fase sensibile è
incapsulato, sono stati proposti da Pena-Poza et al. [31]. In questo caso, la fase è un complesso di
coordinazione del Co(II) [32], si tratta quindi di sensori chimici aventi una risposta di tipo ottico (Fig.
Figura 4.1.1. Nanotermometro di carbonio riempito con Ga mostra l’espansione del Ga all’interno di un
nanotubo con l’aumento della temperatura in (sx) 58°C, (centro) 490°C, e (destra) 45°C. Nel grafico è
riportata l’altezza del menisco di Ga contro la temperatura, misurata nel range 30-50°C; i risultati sono
mediati (linea tratteggiata) da misurazioni simili ottenute durante il riscaldamento (cerchi rossi) e il
raffreddamento (triangoli neri) [J. Lee, N.A. Kotov, Nano Today (2007) 2, 48].
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84 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
4.1.2). A seconda delle proporzioni relative del complesso Co(II) e degli altri componenti del sol, è
possibile ottenere sensori di temperatura con differenti range di sensibilità.
Questi sensori applicati per il monitoraggio indoor nelle diverse sale del Palazzo del Museo di Wilanów
(Varsavia, Polonia) dal 14 Giugno al 23 Dicembre 2010 hanno dimostrato di essere sufficientemente
sensibili a rilevare piccole differenze di temperatura anche nella stessa stanza.
4.2. Nanosensori di Umidità
Riguardo i sensori di umidità, l’effetto della dimensioni dei pori e l’uniformità sulla risposta dell’allumina
nanoporosa, formata su film spessi di alluminio da un processo di anodizzazione, è stato riportato da
Dickey et al. [33]. Un sensore con una dimensione media dei pori di 13,6 nm esibisce variazioni di più di
tre ordini di grandezza nell’impedenza misurata su un intervallo di umidità relativa da circa il 20% al
90%, con un tempo di risposta di circa 95 secondi. Più recentemente sono stati messi a punto una serie
di prototipi di sensori, a basso costo, costituiti da allumina e silice nanoporosa con tempo di risposta di
4-8 min a variazioni di umidità relativa dal 100% al 39% a temperatura ambiente [34].
Negli ultimi anni i sensori fotonici sono stati considerati adatti per misure di umidità poiché hanno
piccole dimensioni e peso e mostrano immunità ai disturbi elettromagnetici e alla corrosione e offrono la
possibilità rilevamento remoto.
Il sensore proposto nel di Li uet al. [30] è costituito da un film sottile (100-300 nm) di materiale ibrido
organico-inorganico costituito da ossido di polietilene (PEO) e cloruro di cobalto (CoCl2) e si basa su
variazioni di assorbimento del sale inorganico. Perciò il cloruro di cobalto è stato utilizzato come
Figura 4.1.2. Aspetto di un sensore di temperatura ambientale sensibilizzato a
diverse temperature [J. Pena-Poza, M. Garcia-Heras, T. Palomar, A. Laudy, E.
Modzelewska, M.A. Villegas, B Pol Acad Sci-Tech (2011) 59, 247].
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85
indicatore colorimetrico di umidità a causa dei suoi cambiamenti di colore per complessazione delle
molecole di acqua. Infatti il CoCl2 anidro è un sale inorganico blu intenso che possiede forti bande di
assorbimento nell’intervallo 550-710 nm, mentre il materiale completamente idratato (CoCl2·6H2O) è di
colore rosa ed assorbe debolmente nell’ intervallo 410-550 nm.
4.3. Nanosensori di Inquinanti
Per i nanosensori conduttimetrici di gas vi è una recente revisione che riporta gli ultimi risultati scientifici
e tecnologici in questo settore [35]. Per il monitoraggio di gas, ad esempio, un dispositivo resistivo,
realizzato con una dispersione di nanotubi di carbonio purificati (SWCNTs) in dimetilformammide su
substrato di silicio è in grado di operare a temperatura ambiente e presenta una sensibilità molto
elevata per il biossido di azoto e il nitrotoluene, con limiti di rilevamento di 44 e 262 ppb, rispettivamente
[36], così dimostrando ancora una volta le straordinarie potenzialità in termini di sensibilità dei
nanosensori rispetto ai sensori tradizionali.
Questo tipo di sensori sono costituiti da nanotubi di carbonio single-walled (SWCNTs) sono utilizzati
come nanomateriali sensibili per il rilevamento di SO2, NH3, NO2, e altri composti organici volatili (VOC)
[37-39]. L’assorbimento di molecole gassose influenza in modo significativo la conducibilità attraverso la
donazione di elettroni e il ritiro dei SWCNTs, cambiando così le loro proprietà elettriche. Sono sensori
ad alta sensibilità e rapida risposta ma hanno lo svantaggio di un recupero lento e parziale.
Più di recente, film di nanotubi di carbonio multi-walled (MWCNTs) hanno mostrato un carattere
semiconduttivo di tipo p con diminuzione della resistenza ad esposizioni sub-ppm di NO2 [40]. Tuttavia,
nei MWCNTs i tubi interni in un film di MWCNTs non possono interagire con le molecole di NO2 perché
le molecole non possono diffondere nel film di MWCNTs. Questo spiega la piccola risposta dei film di
MWCNTs quando esposti ai gas, a differenza della grande risposta dei semiconduttori SWCNTs.
Pena-Poza et al. [31] hanno sviluppato sensori ottici di acidità ambientali costituiti da un rivestimento
sottile preparato con il metodo sol-gel (TEOS:EtOH:HCl) e depositato su vetro [41][37]. Il rivestimento
sensibile è ottenuto da un sol o sospensione colloidale in cui è incapsulato un colorante organico che si
comporta come fase sensibile [42]. Il colorante organico (3',3''-diclorofenolsulfonftaleina) è stato scelto
in base alla gamma di pH a cui gli oggetti costituenti i beni culturali sono solitamente esposti o
conservati, cioè vicino alle condizioni di neutralità, a pH tra 6 e 8 circa. I sensori ottenuti mostrano una
buona resistenza chimica e termica in un ampio intervallo di temperatura (da -10 a 60C, circa) durante
lunghi periodi di esposizione e una sensibilità buona abbastanza da discriminare concentrazioni di SO2
dell’ordine dei ppm [43].
Recentemente, per aumentare la porosità dei SWCNTs in modo da assorbire più gas, Sekhaneh et al.
[44] hanno sviluppato un sensore costituito da una matrice di SWCNTs/ZnO. Questo tipo di sensori
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86 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
posseggono alta sensibilità, e proprietà di risposta favorevoli alla rilevazione di NO2 a diverse
temperature e concentrazioni di gas con temperature comprese tra la temperatura ambiente e i 300°C.
Inoltre la loro risposta e i tempi di recupero sono stati notevolmente ridotti a circa la metà rispetto a
quelli dei sensori SWCNTs. Nei sensori SWCNTs il fattore di sensibilità aumenta con la temperatura per
temperature da 25°C a 300°C. Questo indica che il ruolo della temperatura è più pronunciato per
concentrazioni di gas molto elevate. Nei sensori SWCNTs/ZnO invece la temperatura risulta essere
quasi inefficace in tutto il campo di temperatura, eccetto tra 100°C e 150°C in cui si osserva un
notevole aumento della sensibilità. Ma a temperatura inferiore a 100°C e superiori a 150°C la sensibilità
rimane quasi costante.
Un’interessante applicazione di sensori costituiti da film di nanoparticelle d’argento (AgNPs) e
Polietilenimmine (PEI) per la rilevazione di acido solfidrico (H2S) è stata studiata da Chen et al. [45]
Le fonti di H2S negli ambienti museali sono l’inquinamento atmosferico locale e le emissioni da materiali
degradati (ad es. materiali proteinacei). Le emissioni da materiali degradati possono mettere a rischio i
manufatti, quindi nella pratica museale valutazioni di stabilità dei materiale visivi (dagherrotipi),
conosciuti come Oddy test, sono spesso applicati per identificare i materiali che possono rappresentare
un rischio del genere. Recenti studi hanno riportato l’utilizzo di tali emissioni come indicatori di degrado
[46-47].
Grazie alla reazione chimica tra argento e H2S, facilmente monitorabile dalla variazione dell’intensità di
assorbimento della risonanza plasmonica localizzata di superficie (LSPR) dei film di AgNPs, l’argento in
diversi stati, come ioni dispersi in rivestimenti di Nafion (fluoropolimero-copolimero costituito
da tetrafluoroetilene solfonato) e film sottili, è stato utilizzato per la rilevazione di H2S.
Le AgNPs come sensori di gas si basano sulla reazione chimica tra Ag e H2S. L’alta reattività AgNPs
per l’H2S e la reazione gas-solido di H2S su AgNPs provoca una rapida diminuzione dell’intensità di
assorbimento LSPR durante l’esposizione, a causa di elettroni liberi di AgNPs che sono convertiti in
elettroni legati nell’Ag2S. Data la sensibilità dell’LSPR agli elettroni di conduzione, Chen et al. hanno
effettuato un’analisi quantitativa della portata della reazione controllando i cambiamenti di intensità
nell’assorbimento LSPR. Gli stessi autori [45] hanno rilevato con questi sensori le concentrazioni di H2S
quando i film di AgNPs sono stati esposti a tessuti di lana degradati da luce UV e a seta naturalmente
invecchiata dei contenitori in cui sono conservati i dagherrotipi. L’emissione di H2S dai materiali
invecchiati può essere utilizzata per valutare il rischio di danni a oggetti metallici vicini. Inoltre la
concentrazione misurata di H2S nel caso dei dagherrotipi sembra essere correlata alla condizione
conservativa dei dagherrotipi stessi: maggiore è il livello di gas di zolfo monitorato più deteriorata è
l’immagine. La condizione dell’immagine è prevalentemente una misura dell’integrità dei sigilli intorno ai
bordi delle coperture di vetro dei dagherrotipi. Tuttavia è interessante considerare se tali sigilli
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87
potrebbero essere più facilmente compromessi da una prolungata esposizione a livelli elevati di gas
emessi dal degrado delle fodere di seta. Inoltre i film di AgNPs hanno mostrato anche vantaggi nel loro
utilizzo come sostituti, sensibili e quantitativi, dei fogli di argento di solito utilizzati nll’Oddy test per
identificare, in ambito museale, i materiali che sono adatti per l’alloggiamento dei dagherrotipi ed
eliminare i materiali che sono a rilascio di gas e debolmente corrosivi.
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
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90 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
5. Applicazione delle Nanotecnologie per i Beni Culturali
Quando si parla di opere d’arte si fa spesso riferimento alle pitture, anche se il termine “arte” comprende
molte altre attività creative, come ad esempio la produzione di statue, di mosaici, di vetri, ceramiche,
ecc.. Fino ad oggi però l’utilizzo delle nanotecnologie ha riguardato principalmente quelle opere d’arte
più soggette a deperimento nel tempo, ovvero le opere architettoniche, le pittoriche, mobili e immobili,
ed i manufatti cellulosici.
Il degrado dei materiali utilizzati in opere artistiche dipende dalle interazioni con l’ambiente in cui queste
si trovano. Ovviamente, i meccanismi di degrado dipendono dalle proprietà specifiche dei materiali;
questo significa che la pietra, il vetro, la ceramica, il legno, la carta, i tessuti e il bronzo seguiranno tutti
diversi meccanismi e percorsi di reazione. Tuttavia, tutti questi processi sono influenzati in modo simile
dagli stessi parametri ambientali: temperatura, umidità relativa, luce e inquinamento. Questo capitolo
tratta l’uso di materiali nanostrutturati per il restauro e la conservazione di opere d’arte immobili, come
dipinti murali e pietre, e mobili, come dipinti da cavalletto, libri e pergamene. Pertanto, saranno
brevemente richiamate le nozioni fondamentali dei materiali costituenti e dei principali processi di
degrado per poi illustrare l’applicazione dei nanomateriali.
Dipinti Murali e Pietre
I dipinti murali sono opere d’arte molto particolari, perché non esistono come capolavori singoli isolati,
ma appartengono sempre a edifici come chiese, monasteri, castelli, palazzi, tombe, ecc... Infatti, il
dipinto murale è la superficie dipinta – la “pelle esterna” di pochi micron di spessore – di un’opera
architettonica il cui primo importante aspetto fisico-chimico è legato all’adesione di questa superficie sul
supporto della parete. Avere a che fare con mezzi dipinti significa studiare le superfici pittoriche, infatti il
messaggio artistico è in genere sostanzialmente confinato entro pochi micron della materia colorata. Le
superfici pittoriche possono essere considerate da un punto di vista fisico-chimico come interfacce
solido-gas in cui la fase solida è intrinsecamente micro-eterogenea. Sia i dipinti da cavalletto che quelli
murali sono costituiti da un supporto macroscopico rivestito da un sottile strato di pittura, compreso il
legante che gli fornisce adesione al supporto. Lo strato di pittura è dunque la vera interfaccia tra l’opera
d’arte (fase solida) e l’ambiente, che nella maggior parte dei casi è l’atmosfera (fase gassosa). È
importante notare che la superficie pittorica, definita in termini chimico-fisici, è la regione dove il sistema
termodinamico “opera d’arte” scambia materia e energia con l’ambiente circostante. In altre parole, le
superfici pittoriche sono il sito preferenziale di degrado.
In genere, un dipinto murale si compone di tre differenti strati sovrapposti (Fig. 5.1). Lo strato più
interno, chiamato arriccio, è posato direttamente sulla parete di pietra o di mattoni, e di solito consiste di
una miscela (3:1 (v/v)) di sabbia grossolana e pasta di calce (Ca(OH)2 e acqua). Quando l’arriccio è
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91
completamente asciutto, viene steso un secondo strato, detto intonaco, preparato utilizzando una
miscela (2:1 o 1:1 (v/v)) di particelle più fini (sabbia di dimensioni micrometriche) e calce, così da
ottenere una superficie molto liscia sulla quale l’artista dipinge usando pigmenti. Lo strato dipinto è
infatti il terzo e più esterno strato, il cui lo spessore è di 50-500 micron. Nella cosiddetta tecnica
dell’affresco, i pigmenti sono dispersi in acqua di calce (una soluzione acquosa satura di Ca(OH)2) e
applicati direttamente sull’intonaco bagnato prima dell’indurimento. Il processo di indurimento, chiamato
anche "carbonatazione", è dato dalla reazione del Ca(OH)2 con l’anidride carbonica atmosferica (CO2),
per formare una solida rete di carbonato di calcio (CaCO3) che ha azione legante e incorpora i pigmenti,
garantendo così ottima resistenza meccanica alla pellicola pittorica. Tuttavia, il pH dell’intonaco bagnato
è fortemente alcalino, e alcuni pigmenti non sono compatibili con tale alcalinità, quindi vengono applicati
dopo il completamento del processo di carbonatazione, ovvero a secco. In questo caso il legante dei
pigmenti non è il CaCO3, ma un materiale di origine vegetale (gomme, oli, ecc..) o animale (caseina,
uovo, colla animale). Una terza tecnica è il cosiddetto mezzo affresco, dove l’artista dipinge su intonaco
quasi asciutto.
I dipinti murali e la pietra subiscono diversi processi di degrado che includono l’erosione fisica, i cicli di
gelo-disgelo, la biodegradazione e la corrosione chimica operata da piogge acide e umidità. Uno dei più
diffusi e critici processi nelle formazione delle piogge acide è la produzione di acido solforico acquoso
(H2SO4) in seguito all’idratazione dell’SO2, che viene rilasciata nella combustione dei materiali
contenenti zolfo e degli oli minerali. L’acido solforico corrode il carbonato di calcio per formare il gesso
(CaSO4⋅2H2O), producendo così stress meccanici all’interno dei pori dell’opera d’arte dal momento che
la cella elementare cristallina del gesso è più grande di quella del carbonato di calcio. Inoltre, il gesso è
un sale abbastanza solubile, così può diffondere come soluzione acquosa attraverso le matrici porose e
Figura 5.1. Stratigrafia di un dipinto
murale modello appartenente alla
tradizione classica. Lo strato più
interno (arriccio) è disposto
direttamente sulla parete di pietra o
mattoni. L’intonaco viene applicato
sull’arriccio per ottenere una
superficie liscia sulla quale l’artista
dipinge. Lo strato pittorico è quello
più esterno, il cui spessore è di circa
50-500 μm.
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92 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
subire cicli di cristallizzazione-dissoluzione a causa delle oscillazioni idrotermali. La presenza di sali può
anche essere dovuta a soluzioni acquose provenienti dal terreno che risalgono per capillaritá e
diffondono attraverso i pori dell’opera. Oltre ai solfati, effetti nocivi alle pitture murali e alle pietre sono
causati anche da atri sali quali i cloruri alcalini e alcalino-terrosi, i nitrati e gli ossalati [1,2]. Ad esempio,
il nitrato di calcio tetraidrato (Ca(NO3)2⋅4H2O) si trova comunemente nelle pitture murali, ed essendo un
sale deliquescente può portare alla condensazione di acqua sul substrato dall’umidità ambientale e a
temperature ben al di sopra del valore di saturazione.
La corrosione del carbonato di calcio e le sollecitazioni meccaniche dovute alla cristallizzazione dei sali
mette a repentaglio la superficie pittorica dei dipinti murali, che può così esibire efflorescenze (fioriture
cristalli di sale) e desquamazione degli strati pittorici, come mostrato in Fig. 5.2.
Nel corso degli anni una gran varietà di materiali diversi è stata applicata sulle pitture murali, come
consolidanti, colle, adesivi e fissativi. A partire dal 1960, prodotti sintetici come polimeri acrilati, vinilici,
siliconici ed epossidici sono stati ampiamente usati grazie alle loro accattivanti prestazioni a breve
termine e stabilità. L’alto potere adesivo delle formulazioni le ha rese una veloce, facile e idonea
opzione per la riadesione di parti distaccate. Inoltre, il carattere idrofobico di questi prodotti ha
giustificato il loro uso come rivestimenti protettivi, con lo scopo di impedire il degrado causato da
processi chimici e fisici legati alla presenza di acqua, e come rivestimenti estetici atti a fornire la
saturazione dei colori. Inoltre, la maggiore resistenza dei polimeri sintetici all’invecchiamento rispetto
alle resine naturali, ha indotto i conservatori a pensare che l’applicazione di prodotti di sintesi sarebbe
stata completamente reversibile anche a lungo termine.
Purtroppo, nel corso degli ultimi 50 anni la pratica ha dimostrato che questo non è vero. È un dato di
fatto, che i polimeri sintetici possono subire degrado dovuto all’azione della temperatura, dell’umidità
relativa, delle soluzioni saline e della luce UV-VIS che producono l’alterazione estetica (decolorazione)
Figura 5.2. Efflorescenze sulla superficie dei dipinti
murali nel sito di Ixcaquixtla (Messico). L’immagine
mostra la corrosione del carbonato di calcio e le
sollecitazioni meccaniche dovute alla cristallizzazione
dei sali [D. Chelazzi, G. Poggi, Y. Jaidar, N. Toccafondi,
R. Giorgi, P. Baglioni, J Colloid Interf Sci (2013) 392,
42].
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93
e variazioni di solubilità dei polimeri. La reticolazione e la rottura delle catene possono avvenire in modo
che il peso molecolare dei polimeri è alterato e di conseguenza la loro solubilità nei solventi originali
diminuisce [3-5]. In alcuni casi, l’alterazione dei rivestimenti può essere tale che la loro rimozione dalle
superfici artistico/storiche è impossibile con i solventi tradizionali e un tipo di tecnologia alternativa deve
essere utilizzata, come ad esempio i liquidi nanostrutturati. La rimozione dei rivestimenti invecchiati e
pregiudizievoli per i dipinti murali e la pietra, utilizzando le nanotecnologie attualmente disponibili sul
mercato, saranno descritte nel paragrafo 5.2.
Oltre alla possibilità di subire degrado essi stessi, i rivestimenti polimerici alterano fortemente le
proprietà fisico-chimiche dei substrati porosi inorganici. Uno studio condotto da Carretti e Dei [6] ha
messo in evidenza le modifiche prodotte da film di Paraloid B72®, Primal AC33® e Elvacite 2046® sulla
superficie di campioni di malte aeree che simulano pitture murali vere e proprie. Gli effetti principali
erano la drastica diminuzione (40-50%) della permeabilità superficiale al vapore acqueo e
dell’idrofilicità, il che significa che la traspirazione di acqua all’interfaccia tra i campioni porosi e
l’ambiente esterno è stata fortemente ostacolata, indipendentemente dal copolimero applicato.
Le alterazioni indotte alla superficie “traspirante” sono effetti penalizzanti per l’opera d’arte poiché
aumenta il tempo di permanenza delle soluzioni saline acquose all’interno della matrice porosa,
portando così alla formazione di cristalli di sale più grandi nei pori che producono sollecitazioni
meccaniche sotto lo strato dipinto. Come risultato, la superficie pittorica dell’opera d’arte può essere
distrutta (Fig. 5.3) in un periodo di tempo che va approssimativamente da meno di 10 a 50 anni,
essendo il degrado aumentato da fluttuazioni di temperatura e umidità relativa, e dall’inquinamento [7].
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94 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Per esempio, la contemporanea presenza di un film di Mowilith (copolimero vinilacetato/acrilato) e di
cristallizzazione salina ha portato in meno di 10 anni alla perdita irreversibile di porzioni di dipinti murali
originali del sito archeologico di Mayapan (Messico, Età post-classica, 1200-1450 a.C.), e al degrado
dei dipinti (ad esempio per desquamazione) di molti altri luoghi messicani in cui nel passato diversi
polimeri sono stati applicati come fissativi in interventi di restauro [8-10]. Le opere d’arte europee
possono mostrare processi di degrado simili dopo il trattamento con polimeri sintetici [11,12], anche se il
processo avviene normalmente ad una velocità più lenta perché le condizioni ambientali sono meno
estreme. Pertanto, gli adesivi sintetici dovrebbero essere utilizzati solo quando è strettamente
necessario. Metodi alternativi sono stati proposti negli ultimi decenni per ripristinare i dipinti murali e i
manufatti in pietra, concentrandosi sull’uso di materiali le cui proprietà fisico-chimiche sono simili (o
possibilmente le stesse) a quelle dell’opera d’arte, sono cioè “compatibili”.
Considerazioni analoghe a quelle fatte per i dipinti murali valgono anche per la pietra. I materiali di
conservazione tradizionali utilizzati nel consolidamento della pietra includono:
polimeri organici sintetici, che possono subire degrado e perdita di compatibilità chimico-fisica
con la pietra;
Figura 5.3. Dipinti murali trattati con Paraloid B72® (sito archeologico di Monte
Alban, Messico). Le immagini evidenziano alterazione estetica della superficie (gloss),
rottura e distacco dello strato dipinto [P. Baglioni, D. Chelazzi, R. Giorgi, In:
“Nanotechnologies in the Conservation of Cultural Heritage A compendium of
materials and techniques”, Springer (2015)].
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95
alcossisilani o alchilalcossisilani (ad esempio il metiltrimetossisilano, MT-MOS, e il
tetraetossisilano, TEOS), che hanno una scarsa affinità con la calcite e mostrano screpolature
durante il ritiro [13].
Il problema del cracking è stato recentemente affrontato, ad esempio, aggiungendo particelle di silice
nanometriche e silani funzionali, che riducono la forza capillare sviluppata durante l’evaporazione dei
solventi [14,15], o progettando una sintesi consolidante in cui una transizione sol-gel si verifica in
presenza di un tensioattivo, in modo da evitare fessurazioni quando il gel asciuga all’interno dei pori
della pietra [16]. Miliani et al. [17] hanno studiato consolidanti a base di particelle di silice modificate
(PMC) caricati con titania, allumina e silice nanoparticellare. I risultati hanno indicato che i PMC
posseggono proprietà migliori rispetto ai consolidante di silicato di etile non caricati, soprattutto per
quanto riguarda la protezione dalla cristallizzazione salina e la riduzione del rischio di rottura durante i
cicli termici.
Dipinti da Cavalletto
A differenza dei dipinti murali, i dipinti da cavalletto sono opere d’arte mobili il cui sostegno è di solito un
pezzo di legno o tela. Il supporto può essere anche di metallo, carta, cartone, pergamena, avorio, vetro
o pietra, ma nel presente lavoro si prenderanno in considerazione solo i materiali più comunemente
usati, cioè il legno e la tela.
Queste opere d’arte presentano, come già osservato nelle pitture murali, una natura stratigrafica. I
principali livelli, dal basso verso l’alto, sono: il supporto (legno o tela), uno strato preparatorio, gli strati di
pittura, e un sottile strato di vernice finale (Fig. 5.4).
Dato che le proprietà più importanti dei supporti di legno e tela riguardano per la maggior parte aspetti
meccanici e biologici, ci concentreremo principalmente sugli altri tre livelli (strato di supporto o di
“preparazione”, strati di pittura e vernici) che sono più interessanti dal punto fisico-chimico. La funzione
Figura 5.4. (A Sinistra) Stratigrafia di una tipica pittura da cavalletto. (A destra) Stratigrafia di una pittura da cavalletto
ripristinata utilizzando un approccio tradizionale. Solitamente durante il restauro, una seconda tela è incollata sul lato
posteriore della pittura (adesivo di foderatura e la tela), e, dopo l’assottigliamento della vernice invecchiata con solventi o
solvent gel, una nuova vernice fresca è spesso applicata sulla parte anteriore della tela [P. Baglioni, D. Chelazzi, R.
Giorgi, G. Poggi, Langmuir (2013) 29, 5110].
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96 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
principale dello strato di preparazione è di formare un legame omogeneo tra il supporto e gli strati di
vernice, aderendo perfettamente al supporto pur consentendo il legame tra gli strati di vernice e il
supporto stesso. Lo strato di preparazione costituisce un strato omogeneo e assorbente continuo per i
pigmenti e per i mezzi leganti che formano gli strati dipinti. I principali componenti dello strato
preparatorio sono il mezzo legante e le cariche: (i) le cariche diminuiscono e lisciano la porosità della
superficie di supporto, e determinano il colore della superficie su cui vengono disposti i pigmenti; (ii) i
mezzi agiscono come leganti che tengono i granelli delle cariche insieme e al contempo garantiscono
la loro adesione sulla superficie del supporto. Le cariche comunemente più utilizzate dagli artisti sono
calce o calcare in polvere (CaCO3), gesso calcinato, detto gesso di Parigi, (CaSO4·1/2H2O) e biacca
((PbCO3)2·Pb(OH)2). Nel caso di strati di supporto colorati vengono aggiunti pigmenti quali ocra rossa,
gialla e marrone, o carbone d’ossa, o smalto (dal 17° secolo), o barite, o bianco di zinco e bianco di
titanio (dal 19°–20° secolo). A volte la preparazione comprende più di uno strato colorato, come, ad es.,
in alcuni dipinti olandesi del 17° secolo. Se lo strato preparatorio è troppo assorbente, molti artisti
aggiungono un altro strato tra questo e gli strati di vernice, costituito da colla o resina. Questo strato è
chiamato primer o imprimitura e agisce come una barriera per impedire alla miscela pittorica di
penetrare nel supporto sottostante ed evitare così l’appiattimento dell’effetto pittorico. Il mezzo legante
più comune è la colla animale, una miscela di sostanze proteiche applicate nella loro forma “sol” che
producono una fase “gel” che porta alla formazione di una rete compatta che intrappola i grani di
riempimento e aderisce alla superficie ruvida del supporto. Talvolta oli siccativi, come olio di lino, sono
stati aggiunti per avere uno strato preparatorio sia con sostanze idrofile che idrofobe. Mentre negli
affreschi gli strati dipinti sono stabili e fissati al supporto tramite un legante inorganico (CaCO3 dalla
carbonatazione della calce), nel caso dei quadri da cavalletto i leganti negli strati dipinti sono composti
organici. I grani di pigmento sono sospesi in fasi acquose o oleose contenenti un appropriato agente
legante, e questa miscela è stesa a pennello sullo strato preparatorio. Fino al 20° secolo sono state
usate come mezzi leganti solo sostanze naturali quali uovo (una emulsione o/w di tuorlo d’uovo),
albume d’uovo, caseina, colla animale, gomme naturali, come la gomma arabica, oli siccativi (semi di
lino, noci, semi di papavero) e resine (trementina di Venezia, mastice e coppale). Dall’inizio del 20°
secolo, sono stati anche impiegati polimeri sintetici. A seconda della natura idrofila o idrofoba del mezzo
disperdente, si possono distinguere due classi principali: emulsioni olio in acqua (o/w), dette tempera, e
mezzi disperdenti oleosi puri, detti colori ad olio. Nelle sezioni seguenti descriveremo in dettaglio le
proprietà sia dei pigmenti che dei leganti.
Infine, un’altra differenza tra affreschi e quadri da cavalletto è la superficie esterna: nel caso degli
affreschi è formata dagli ultimi strati di pittura, i cosiddetti disegno finale, luci e ombre, mentre nei dipinti
da cavalletto la superficie esterna è lo strato di vernice. La vernice superficiale fornisce strati dipinti con
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97
profondità, migliora gli effetti di colore e protegge gli strati dipinti sottostanti. Le vernici tipicamente sono
costituite da oli siccativi, da soli o in miscela con resine naturali (prima del 17° secolo), che vengono
applicati dopo riscaldamento per via della loro elevata viscosità alle basse temperature.
Successivamente, sono state impiegate resine naturali (dammar, mastice) sciolte in solventi organici,
come trementina, e talvolta bianco d’uovo. Oggigiorno vengono usate invece soluzioni di materiali
polimerici in solventi organici.
Nella conservazione dei dipinti da cavalletto, uno dei punti critici è l’invecchiamento delle sostanze
organiche deperibili presenti come materiali originali o sovrapposti dai restauratori in trattamenti di
conservazione precedenti. Il meccanismo più importante mediante il quale avviene l’invecchiamento è
l’ossidazione fotochimica che si verifica per azione combinata della luce e dell’aria. Vernici e oli siccativi
sono i principali composti che sono sottoposti a questo tipo di degrado [18-20]. In un recente lavoro
[21], Dieteman et al. hanno dimostrato che il ruolo svolto dalla luce non è così fondamentale nel
determinare la cinetica di ossidazione della resina mastice e dammar. Infatti, lo studio mostra che il
meccanismo di invecchiamento è guidato da auto-ossidazione, a prescindere dalla presenza di luce.
L’unica differenza tra le condizioni di luce e di buio è la cinetica più lenta di autoformazione dei radicali
in condizioni di oscurità. È interessante notare che la presenza di materiali polimerici nella resina
mastice inibisce l’ossidazione ma contemporaneamente aumenta l’ingiallimento. Ciò può essere
attribuito alla capacità delle molecole di polimero di agire come stabilizzatori di radicali, rallentando la
cinetica di ossidazione e migliorando la tendenza intrinseca all’ingiallimento del mastice. Uno degli
obiettivi nella conservazione dei dipinti da cavalletto dovrebbe essere quello di trovare possibili vie per
migliorare la stabilità delle resine naturali alla foto-ossidazione. Nonostante alcuni studi effettuati sui
foto-stabilizzanti [22] più lavoro deve essere fatto in questo senso, soprattutto per valutare il loro
possibile uso come nuovi materiali per la conservazione.
Gli oli siccativi costituiscono un’altra grande classe di sostanze vulnerabili ai processi di foto-
ossidazione. Anche se la cinetica della foto-ossidazione degli oli siccativi è più lenta di quella delle
vernici, tuttavia fenomeni di ingiallimento associati con questi processi si verificano spesso. Diversi studi
[23-26] sono stati effettuati per studiare sia la foto-ossidazione che la termo-ossidazione di film
essiccati, cioè l’invecchiamento dei leganti utilizzati nei dipinti ad olio. Diversamente dalle vernici, in
questo caso la luce gioca un ruolo molto importante: infatti, la foto-ossidazione di pellicole di olio di lino
è di fondamentale importanza, mentre la termo-ossidazione non causa danni specifici. Alcuni autori [27]
hanno trovato che la degradazione della rete di olio essiccato per foto-ossidazione è consistente a
lunghezze d’onda superiori ai 300 nm e porta alla rottura della catena. La foto-instabilità è attribuita alla
presenza di legami che sono sensibili all’attacco radicalico a causa della debolezza dell’atomo di
idrogeno sugli atomi di carbonio terziari. Un altro risultato molto interessante riportato dallo stesso
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
98 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
autore [27] è che l’ingiallimento dei campioni induriti decresce rapidamente con l’irradiazione, perché i
contaminanti dell’olio, che sono i principali responsabili del colore giallo, vengono foto-ossidati. Invece,
un aumento lento ma continuo dell’ingiallimento si ha durante termo-ossidazione a 100°C. In
conclusione, i processi di foto-ossidazione sono molto importanti per le opere d’arte in cui oli siccativi
e/o vernici sono stati utilizzati sia come materiali originali che come materiali sovrapposti nei restauri.
La rimozione dei materiali degradati (ad esempio le vernici), che ostacolano la leggibilità del dipinto per
oscuramento delle vernici foto-ossidate, è un tipico caso che richiede l’intervento del restauratore.
Purtroppo, l’ossidazione delle vernici favorisce la reticolazione della catena polimerica attraverso
meccanismi radicalici. Di conseguenza, lo strato di vernice può non essere più solubile nei solventi
classici (ad esempio gli stessi solventi utilizzati per diffondere la vernice sullo strato pittorico).
Carta, Canapa e Legno
La conservazione di oggetti a base di cellulosa è un tema centrale nella scienza della conservazione del
patrimonio culturale. La cellulosa è il principale costituente di carta, cotone, lino e canapa; inoltre è
anche il componente principale della iuta (circa 65%, più circa 22% di emicellulosa) e del legno (circa il
40-45%, oltre a circa il 15-25% di emicellulosa). Quindi la prevenzione, la limitazione o la
neutralizzazione del degrado della cellulosa è utile per una grande varietà di beni intellettuali, storico e
artistici, quali dipinti su tela, tessuti, libri, manoscritti, mappe, disegni e documenti in archivi o
biblioteche, e oggetti in legno che vanno dalle sculture ai relitti.
La cellulosa è un polisaccaride lineare naturale prodotto dalle piante, ed è composto da unità di D-
glucosio che sono legate tra loro tramite legami β-(1,4)-glicosidici. La caratteristica rotazione di 180°
attorno all’asse 1-4 tra due unità di glucosio consecutive riduce l’ingombro sterico, e formalmente l’unità
ripetitiva (il cellobiosio) è composta da due molecole di glucosio (Fig. 5.5a). Il grado di polimerizzazione
(DP) è il rapporto tra il peso molecolare della molecola di cellulosa e quella di una singola unità di
glucosio, cioè il DP è il numero di unità nella catena. Il DP della cellulosa nativa può variare all’incirca
tra 9000 e 15.000, a seconda del materiale vegetale, e il DP della carta moderna non degradata di
solito è 1200-1500. Tipicamente uno dei principali effetti dell’invecchiamento naturale di manufatti
cellulosici è l’ulteriore diminuzione del DP causata sia dall’acidità che dall’ossidazione. Bassi valori di
DP corrispondono macroscopicamente a un peggioramento delle proprietà meccaniche della cellulosa,
che può portare alla rottura delle fibre e a sbriciolamento dei fogli. La struttura gerarchica della
cellulosa, partendo dalle catene polimeriche, è schematicamente mostrata in Fig. 5.5b. La struttura
supramolecolare della cellulosa è caratterizzata dalla presenza di un gran numero di legami idrogeno,
sia tra le diverse catene (legami intermolecolari) sia tra i gruppi ossidrilici della stessa catena (legami
intramolecolari). I gruppi OH possono formare legami idrogeno con le molecole d’acqua (il contenuto
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99
medio di acqua è pari al 6-7% in peso del polimero in condizioni standard), infatti la cellulosa è
altamente igroscopica e assorbe o rilascia acqua in funzione delle oscillazioni di umidità relativa (RH) e
temperatura.
La cellulosa è un polimero semicristallino (grado di cristallinità del 50-90%): regioni altamente cristalline
presentano strutture più compatte ed elevata resistenza al degrado, mentre le regioni amorfe sono più
facilmente attaccate da processi chimici, fisici e biologici dovuti agli acidi, ai composti ossidanti, alla
luce, alla temperatura, all’umidità relativa e ai microrganismi. L’acidità rappresenta una grave minaccia
per la conservazione delle opere d’arte cellulosiche, infatti, gli ioni idrogeno catalizzano l’idrolisi dei
legami β-(1,4)-glicosidici, anche a temperatura ambiente, attraverso un processo in tre fasi [28-31]. I
legami glicosidici del polimero possono essere rotti fino a raggiungere un limite inferiore di DP, che si
chiama LODP (grado di polimerizzazione levelling-off) che dipende dalla composizione della cellulosa
[32]. L’acidità e l’ossidazione sono spesso fenomeni interconnessi. Per esempio la presenza di gruppi
ossidati nella cellulosa può portare all’apertura degli anelli ed a variazioni della densità elettronica lungo
le catene, che indeboliscono i legami glicosidici e ne favoriscono l’idrolisi. L’ossidazione della cellulosa
può anche portare alla produzione di gruppi carbossilici, e alla formazione di acidi (es glucuronico e
glucarico) provocando un degrado ad effetto “spirale” [33]. Inoltre, in presenza di ioni di metalli di
transizione (come ferro e rame) l’ossidazione agisce contemporaneamente all’idrolisi acida della
cellulosa con conseguenze molto dannose. Non sorprende, quindi, che la conservazione di oggetti di
carta rappresenta una preoccupazione centrale per i conservatori di tutto il mondo.
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
100 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Nella prefazione alla loro trattazione completa in materia di invecchiamento e stabilizzazione della carta,
Strlic e Kolar [34] mettono in evidenza che i problemi di conservazione variano notevolmente in base
alla qualità della carta, che è cambiata nei secoli, e che la carta acida, prodotta tra il 1850 e il 1990,
Figura 5.5. a il cellobiosio, l’unità formalmente ripetuta delle catene di
cellulosa; b rappresentazione schematica della struttura gerarchica della
cellulosa. I legami idrogeno intermolecolari e intramolecolari sono rappresentati
da trattini rossi [P. Baglioni, D. Chelazzi, R. Giorgi, In: “Nanotechnologies in the
Conservation of Cultural Heritage A compendium of materials and techniques”,
Springer (2015)].
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101
rappresenta una delle questioni più urgenti in quanto in questo caso la vita restante di questi oggetti può
essere ridotta a 100 anni. Infatti, un articolo di Wouters [35] riporta che, sulla base di indagini condotte
sulle condizioni della carta, circa il 30% degli oggetti nelle biblioteche occidentali sono in cattive
condizioni e hanno bisogno di un intervento, e un altro 30% raggiungerà la stessa condizione per la fine
di questo secolo.
Una delle principali fonti di acidità è la presenza di solfato di alluminio (aggiunto durante il processo di
fabbricazione della carta).
Inoltre, dalla metà del 19° secolo fino alla fine del 20° il processo di produzione ha incluso l’uso di
allume nella fase di dimensionamento, poiché promuove la precipitazione della colofonia idrofobica
all’interno delle fibre. L’allume è idrolizzato dall’acqua, e il complesso alluminato che si forma è acido
(Ka simile a quella dell’acido acetico), come riportato di seguito:
3 2
2 2 2 36 5Al H O H O Al OH H O H O
L’acidità è inoltre causata dai residui chimici lasciati durante la fase di macero e di sbiancamento, dai
prodotti di ossidazione della lignina, e dalla migrazione degli acidi dai materiali di stoccaggio (cartone) o
dai supporti di stampa. Inoltre, gli inquinanti atmosferici come l’anidride solforosa (SO2) e gli ossidi di
azoto (NOx) sono assorbiti dalla carta e, in seguito a reazione con l’umidità presente all’interno delle
fibre, formano composti acidi in situ [36]. Gli inchiostri metallici gallici (ampiamente usati per secoli)
degradano la cellulosa sia attraverso idrolisi che ossidazione. Durante la produzione di questi inchiostri,
l’acido gallico (formato da tannini estratti da noci di galla) reagisce con il solfato di ferro (II) per produrre
acido solforico e un complesso di ferro (III). Gli ioni di ferro favoriscono quindi la formazione di radicali
ossidanti e perossido di idrogeno [37], secondo la reazione (reazione di Fenton):
2 3
2
2 3
2 2
2 3
2 2
Fe O H Fe HOO
Fe HOO H Fe H O
Fe H O Fe OH HO
Si deve notare che la carta contiene componenti che possono ridurre gli ioni di metalli di transizione
ossidati (per esempio da ferro (III) a ferro (II)), avviando così un processo ciclico. I sali di rame, spesso
contenuti come impurità negli inchiostri ferro-gallici, sono coinvolti in meccanismi di degrado simili:
2
2 2Cu H O Cu OH HO
Infatti, è stato dimostrato che gli ioni rame sono significativamente più attivi di quelli del ferro [38]. Come
risultato, gli inchiostri metallo-gallici possono portare a grave corrosione della carta (fino alla
perforazione) e alla perdita di elasticità e resistenza alla trazione, come tipicamente osservato nei
documenti e manoscritti, ad esempio dal 16° al 18° secolo. La scienza della conservazione ha
sviluppato numerose soluzioni per affrontare tutti i processi di degrado descritti e per fornire stabilità alla
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102 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
carta. Infatti, anche se possono essere utilizzate misure preventive per fornire condizioni di
conservazione appropriate (ad esempio con la purificazione dell’aria per ridurre la concentrazione di gas
inquinanti), l’unico modo per garantire la conservazione del patrimonio cellulosico è quello di applicare
materiali che sono specificamente formulati per contrastare l’acidità e l’ossidazione. Una revisione
esaustiva dello stato dell’arte sulle misure che possono essere adottate contro il degrado dei materiali
cartacei è stata pubblicata da Banty et al. [39].
I primi trattamenti di deacidificazione della carta prevedevano lútilizzo di soluzioni acquose di
bicarbonati (pH ≈ 8,5) o idrossidi (ad esempio Ca(OH)2, pH ≈ 10,5) [40]. Tuttavia, l’uso di soluzioni
acquose alcaline comporta la presenza di ioni OH- liberi, che quando in eccesso, sono immediatamente
disponibili per l’interazione con le catene di cellulosa, il che può portare a depolimerizzazione della
cellulosa ossidata anche a temperatura ambiente [41]. Inoltre, l’ambiente acquoso alcalino durante i
trattamenti può alterare gli inchiostri, ad esempio attraverso lisciviazione o decolorazione, e produrre il
rigonfiamento delle fibre di cellulosa e la migrazione di ioni metallici corrosivi [42]. Quindi diversi
trattamenti di deacidificazione non acquosi basati sull’idrolisi di sali di magnesio organici per ottenere la
formazione in situ di Mg(OH)2, sono stati sviluppati negli ultimi 50 anni. Primo fra tutti il metodo Wei t’O,
sviluppato da R. Smith nel 1970, che consiste nell’applicazione di una soluzione di metossi metil
carbonato di magnesio in una miscela di alcool metilico e freon, poi sostituito da idrofluoroclorocarboni.
In seguito all’applicazione a spruzzo o per immersione, il metossi metil carbonato viene idrolizzato
dall’umidità per formare idrossido di magnesio, alcol metilico e CO2 [43]. Altri metodi molto importanti
sono: il Sable, il CSC Book Saver e il Papersave, che è stato sviluppato dalla Battelle Ingenieurtechnik
GmbH (da qui il nome “processo Battelle”) che utilizza un alcosside di titanio e magnesio in
esadimetildisilossano (HMDO). L’alcolato di magnesio neutralizza gli acidi liberi presenti nella carta, e
durante il ricondizionamento l’eccesso viene convertito in Mg(OH)2 con funzione tampone contro le
acidità ricorrenti.
Uno dei metodi non acquosi più utilizzati nel passato è il Bookkeeper (Preservation Technologies LP-
PTLP), che utilizza microparticelle di MgO disperse in un solvente fluorurato. Il reagente consiste
fondamentalmente di particelle di MgO (4,3 g/L), una miscela di perfluoroalcani C5-C18 (con < 1% di
sottoprodotti) e diversi additivi (tensioattivi) [44]. Dopo l’applicazione, le particelle di MgO idrolizzano
formando Mg(OH)2 che fornisce potere deacidificante e l’eventuale eccedenza rimane come riserva
alcalina, eventualmente trasformandosi in carbonato. Bookkeeper ha dimostrato di essere un metodo
molto buono per la sua efficacia e per i numerosi vantaggi, quali la facilità di applicazione, nessuna
necessità di precondizionamento, l’inerzia solvente (non rigonfiante e inerte chimicamente) e perché è
un processo di idrolisi controllata che garantisce la neutralizzazione senza esporre la cellulosa a forte
alcalinità. Tuttavia gli additivi, adsorbiti sulle particelle solide, grazie alla loro idrofobicità agiscono come
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103
ritardanti per l’idrolisi dell’MgO. La lenta formazione di idrossido di magnesio, e di conseguenza
carbonato di magnesio, potrebbe essere rischiosa per substrati di carta sensibili che potrebbero essere
danneggiati dal pH alcalino sviluppato dalle particelle di MgO e di Mg(OH)2 (un ambiente troppo alcalino
potrebbe degradare le fibre di cellulosa a causa dell’eliminazione dei beta-alcossi) [44]. Inoltre, sebbene
il Bokkeeper è una delle metodologie più affidabili per la deacidificazione, una limitazione
nell’applicazione generale di questo metodo è che i materiali fluorurati, utilizzati in grande quantità come
additivi per stabilizzare le particelle, rimangono inclusi nelle riserve alcaline dei carbonati di magnesio
idrati o si depositano come residui sulla superficie trattata. Infine, è stato dimostrato anche che il
metodo Bokkeeper su carte a bassa porosità può portare alla formazione di velature a causa della
scarsa penetrazione delle microparticelle all’interno della fibra di cellulosa [45,46], e che il metodo non è
normalmente consigliato su carte lucide, altamente calandrate, e su supporti di colore nero o scuro [47].
Alcuni ricercatori negli ultimi 15 anni hanno anche proposto l’uso di biossido di carbonio supercritico
(CO2SCF) come sistema solvente per agenti alcalini o di rinforzo, grazie alla non tossicità, non
infiammabilità e relativamente bassi costi di questo approccio. Materiali come il CaCO3, gli alcossidi di
magnesio, i metossicarbonati, il catecolo e la borace sono stati testati con risultati promettenti [48-50].
Per quanto riguarda gli antiossidanti, uno dei metodi più efficaci in soluzione acquosa comporta il
trattamento della carta con una soluzione di fitati [37,51]. I fitati sono antiossidanti naturali che
complessano gli ioni di ferro (II) e bloccano la produzione dei radicali idrossilici da H2O2 (reazione di
Fenton). Il trattamento è seguito da deacidificazione con una soluzione acquosa di bicarbonato di
calcio. Oltre all’uso di un ambiente acquoso, un’altra possibile limitazione di questo metodo è che gli
agenti complessanti come i fitati sono in genere metallo-specifici. Tuttavia è stato riportato che gli
inositoli esafosfati hanno pronunciate capacità di legame per il Cu(II) a pH 5-7 [52], che è utile per
inibire la riduzione a Cu(I) che porta al ri-inizio delle reazioni di Fenton.
In alternativa, Malesic et al. [53] hanno proposto l’uso di alogenuri come soppressori di radicali che
reagiscono con i radicali idrossilici in un ampio intervallo di pH e T. Gli autori hanno dimostrato che
l’efficacia di stabilizzazione dipende dalle dimensioni del catione, e il miglior risultato è stato ottenuto
usando bromuro di tetrabutilammonio. Banty et al. [39], hanno sviluppato un sistema costituito da
alcossidi di calcio e magnesio insieme a bromuro di ammonio quaternario per la stabilizzazione di carta
con inchiostro ferro-gallico.
5.1. Consolidamento
Come riportato precedentemente, la “corrosione” che induce la polverizzazione di pitture, e l’azione
meccanica di pioggia, vento, particelle di polvere, ecc.. sono i principali fattori responsabili
dell’indebolimento della struttura porosa (in particolare degli strati superficiali) dei materiali usati per il
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
104 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
patrimonio culturale. A contatto con l’ambiente, anche il materiale più resistente subisce un processo di
degrado naturale, progressivo e irreversibile. Tutti i processi di alterazione dei materiali sono spontanei,
perché portano alla formazione di composti che possiedono un contenuto energetico inferiore e quindi
sono termodinamicamente più stabili rispetto ai materiali iniziali. Più spesso, l’obiettivo dell’intervento di
restauro comprende l’aggiunta di sostanze che potrebbero fornire supporto al substrato, migliorando la
resistenza meccanica, possibilmente senza alterarne le originali proprietà fisico-chimiche. In alcuni casi,
l’aggiunta o la sostituzione irreversibile dei vari componenti del substrato è necessaria. La letteratura
scientifica riporta numerosi studi sulla sintesi di nanoparticelle di ossidi e idrossidi metallici applicati per
il consolidamento dei dipinti murali e della pietra nel corso degli ultimi decenni.
Pitture murali
Come menzionato nel cap. 2, la ricerca su materiali inorganici micro- e nano-particellari compatibili per il
consolidamento dei dipinti murali ha avuto iniziato al CSGI di Firenze all’inizio degli anni 90. La prima
formulazione riportata in letteratura da Giorgi et al. [54] mostra che particelle di grassello di calce con
una dimensione media di 3-4 micron possono essere stabilmente disperse per agitazione in 1-
propanolo, consentendone così l’applicazione su dipinti parietali. L’applicazione di questa dispersione (5
g/L) su una porzione di un dipinto murale, appartenente alla chiesa di Santa Maria Novella a Firenze,
che presentava polverizzazione e desquamazione della pellicola pittorica, ha portato al rafforzamento
dello strato dipinto con ottimi effetti generali (Fig. 5.1.1). Ambrosi et al. [55] hanno ulteriormente
investigato la stabilità cinetica in alcoli delle microparticelle (1-2 micron) di Ca(OH)2 e riportano che un
miglioramento della stabilità viene ottenuto, nell’ordine, in 1-propanolo > etanolo > 2-propanolo, il che
ha suggerito che la stabilità è proporzionale allo spessore dello strato idrofobo sulle particelle di
idrossido (che adsorbono le molecole di alcool). Oltre a consentire la dispersione stabile delle
nanoparticelle, buoni solventi per il trattamento dei dipinti murali e della pietra devono mostrare una
volatilità non troppo elevata, altrimenti la penetrazione delle particelle sarebbe ostacolata. D’altra parte,
solventi a bassa volatilità con elevata tensione superficiale e punto di ebollizione rimarrebbero nei pori
del substrato rallentando eccessivamente il processo di consolidamento. Tuttavia, bassi valori di
tensione superficiale e di viscosità permettono una migliore bagnatura delle matrici. In questo contesto
gli alcoli a catena corta, come l’etanolo e il propanolo, rappresentano un buon equilibrio per le
applicazioni pratiche di queste dispersioni particellari.
L’evoluzione naturale delle prime applicazioni è la sintesi di particelle nanodimensionate di Ca(OH)2 e la
loro dispersione stabile in alcoli. La motivazione principale della riduzione delle dimensioni delle
particelle da micron a nanometri è la maggiore stabilità delle dispersioni e la maggiore penetrazione
delle particelle attraverso le matrici porose (quindi riduce il rischio di formazione di velature bianche
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105
sulla superficie del manufatto). Inoltre, particelle più piccole presentano una reattività più elevata per
formare la rete cristallina di CaCO3 che garantisce coesione e resistenza meccanica agli strati del
substrato nonché l’inglobamento e il fissaggio dei grani, delle desquamazioni e dei pigmenti. Numerose
sono le applicazioni di questi sistemi nel campo del restauro e della conservazione dei dipinti murali e
della pietra, come riportato da alcune review [56,57]. Ambrosi et al. [58] applicano una sospensione di
nanoparticelle di Ca(OH)2 in 1-propanolo, ottenuta tramite processo bottom-up e costituita da piastrine
esagonali di portlandite (con i lati dell’esagono di 100-300 nm e spessore di 2-40 nm), su un dipinto
murale degradato del 16° secolo di Santi di Tito, nel Duomo di Firenze. Le nanopiastrine esagonali
hanno una grande capacità di assorbire acqua, favorendo così il processo di carbonatazione.
Successivamente Salvadori e Dei [59]hanno studiato una diversa via di sintesi (descritta in dettaglio nel
paragrafo 2.1) per diminuire la dimensione delle particelle di Ca(OH)2, sulla base del fatto che nei
processi di sintesi è noto che temperature superiori a 100°C (in mezzi non acquosi) promuovono la
formazione di nanoparticelle [60] e che i solventi organici influenzano la dimensione e la forma delle
particelle precipitate. Le disperisoni nanoparticellari in 2-propanolo, ottenute tramite sintesi in dioli
(etandiolo (ED) o propandiolo (PD)) ad alta temperatura, sono state utilizzate per il consolidamento di
affreschi [61] che presentavano polverizzazione degli strati dipinti. L’Analisi con microscopia elettronica
a scansione (SEM) ha mostrato che il trattamento con dispersioni di nanoparticelle di Ca(OH)2 (5 g/L)
ha portato ad una nuova coesione della superficie polverizzata. Inoltre l’analisi spettroscopica in
dispersione di energia dei raggi X (EDX) ha confermato che i campioni trattati avevano un contenuto di
legante elevato (maggiore rapporto Ca/Si).
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106 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Sulla base di questi risultati, dispersioni diluite (0,05 g/L) sono state applicate su un affresco del 13°
secolo nella Chiesa di San Zeno a Verona (Italia). Dopo la carbonatazione delle nanoparticelle
l’ispezione visiva sotto luce radente della zona trattata ha evidenziato che il trattamento aveva prodotto
coesione e lisciatura della superficie.
Il trattamento con nanoparticelle è stato quindi esteso a grandi porzioni di dipinti con risultati positivi sia
in termini di effetti di ri-coesione che estetici. Dei et al. [62,63] hanno applicato dispersioni di
nanoparticelle sulle pitture murali del Palazzo del Bargello (Museo Nazionale del Bargello, Firenze,
Italia), e hanno fornito ulteriori dettagli sugli aspetti applicativi in un documento che riporta il trattamento
di un dipinto murale di Agnolo Gaddi (14° secolo) nella chiesa di Santa Croce (Basilica di Santa Croce,
Firenze, Italia). L’utilizzo di dispersioni di Ca(OH)2 nanoparticellare è stato riportato anche per il
consolidamento di stucchi che neccessitavano di un rafforzamento dello strato superficiale [64, 65].
Il prodotto commerciale Nanorestore® (dispersione di nanoparticelle di idrossido di calcio in 2-
propanolo, 5 g/L, con dimensione media delle nanoparticelle di circa 250 nm), che deriva da tutte le
ricerche e attività pratiche sopracitate, è stato testato in numerosi casi di studio reali. Per esempio,
Natali et al. [66] hanno riportato l’uso di questo prodotto per il consolidamento di graffiti storici del
Palazzo Chiaromonte-Steri (Palermo, Italia). Dal 1600 al 1782 l’edificio ha ospitato il tribunale
Figura 5.1.1. Porzione di dipinti murali di Andrea da
Firenze (XIV secolo) nella Cappella Spagnola del
Chiostro verde della chiesa di Santa Maria Novella
(Firenze, Italia). (In alto) la polverizzazione e la
desquamazione dello strato dipinto prima del restauro; (In
Basso) la metà destra della porzione di pittura murale dopo
preconsolidamento con una dispersione di microparticelle
di Ca(OH)2 in 1-propanolo [R. Giorgi, L. Dei, P. Baglioni,
Stud Conserv (2000) 45, 154].
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107
dell’Inquisizione, e le pareti della prigione sono coperte dai graffiti, in antico dialetto siciliano, ebraico e
inglese, dei prigionieri e delle vittime. I graffiti, scoperti sotto l’intonaco nel 2005 durante il restauro del
palazzo, sono stati dipinti direttamente sul muro con un pigmento rosso disperso in un mezzo organico.
La superficie murale era fortemente compromessa a causa della presenza di efflorescenze saline che
hanno portato alla polverizzazione del pigmento. Per realizzare il consolidamento dello strato dipinto
altamente danneggiato si è preferito effettuare diversi trattamenti a bassa concentrazione (0,06%
peso/volume). L’analisi Infrarossa (FTIR) ha mostrato che la carbonatazione delle particelle di idrossido
di calcio ha avuto luogo in 8-10 giorni, e di conseguenza la superficie dipinta era diventata più compatta
e rinforzata senza effetti evidenti di sbiancamento sulla superficie trattata anche dopo dieci successive
applicazioni.
La stessa formulazione è stata applicata a lunette murali del 18° secolo nel chiostro dei Santi Giuda e
Simone, Corniola (Empoli-Firenze, Italia). Le lunette presentavano lacune e polverizzazione della
pellicola pittorica. L’applicazione di nanoparticelle ha portato al rafforzamento della superficie pittorica,
come evidenziato sia dalla valutazione visiva (Fig 5.1.2) sia attraverso la prova scotch: il film di colore
polverizzato è stato completamente fatto ri-aderire al substrato e la quantità di grani rimosso nello
scotch test è stata nulla dopo il completamento del trattamento.
È interessante notare che in questo caso sono state necessarie diverse applicazioni prima che l’effetto
di consolidamento fosse evidente, il che suggerisce che le nanoparticelle inizialmente penetrano
profondamente all’interno del substrato e che quindi il consolidamento avviene “dall’interno verso
l’esterno”.
Dispersioni simili si sono rivelate efficaci anche per il consolidamento di dipinti murali in aree in cui le
condizioni ambientali (T e RH) sono tali che il degrado delle opere d’arte avviene con maggiore velocità.
Ad esempio, le pitture murali presenti nei siti archeologici mesoamericani di Calakmul (Campeche,
Messico) e Ixcaquixtla (Puebla, Messico) sono state effettivamente consolidate, fissando i pigmenti che
Figura 5.1.2. Fotografie a luce radente di lunette murali nel chiostro di “SS. Giuda e Simone” (Corniola, Empoli,
Italia). Sx: la superficie murale polverizzata prima del trattamento; Dx: la superficie dopo il trattamento con
nanoparticelle di Ca(OH)2 in 2-propanolo [I. Natali, M.L. Saladino, F. Andriulo, D. Chillura Martino, E.
Caponetti, E. Caretti, L. Dei, J Cult Herit (2014) 15, 151].
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108 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
mostravano un grave degrado a causa di processi tipici come la cristallizzazione salina e la formazione
di biofilm [57, 67,68]. Per i dipinti murali Maya in Calakmul una formulazione mista di nanoparticelle di
idrossido di calcio (100-300 nm) e di idrossido di bario (∼100 nm) (Fig. 5.1.3) è stata utilizzata anche
per consolidare i substrati dove erano presenti grandi quantità di solfati solubili [69]. Recentemente,
Poggi et al. [70] hanno riportato un procedimento alternativo per la sintesi di nanoparticelle Ca(OH)2,
che utilizza una reazione alcool-termica, a partire da un bulk metallico, e alcoli a catena corta come
l’etanolo e 1-propanolo. Il processo non richiede alcuna fase di purificazione e porta alla produzione di
dispersioni concentrate (35 g/L o superiore), il che favorisce lo scale-up della produzione. Le particelle
disperse in etanolo hanno una distribuzione bimodale con una popolazione centrata a 80 nm e una
popolazione minore centrata a 220 nm. Le particelle in 1-propanoloinvece tendono a formare cluster di
circa 260 nm. In entrambi i casi il processo porta alla produzione di particelle altamente cristalline che
possono essere utilizzate per il consolidamento.
Daniele et al. [71,72] hanno preparato nanoparticelle di idrossido di calcio sia seguendo il processo di
sintesi originale in fase acquosa omogenea sviluppato da Ambrosi et al. [58] sia introducendo modifiche
del metodo. Queste applicazioni riguardano la conservazione dei materiali lapidei. Lo stesso autore ha
anche esaminato l’interazione a temperatura ambiente tra le nanoparticelle di Ca(OH)2, ottenute con
due metodi differenti, e la silice “fumed” [73]. I risultati hanno indicato che riducendo le dimensioni delle
particelle si ha la formazione di silicato di calcio idrato già dopo 7 giorni di idratazione, mentre il
consumo totale di idrossido di calcio libero avviene dopo 28 giorni. Inoltre, Volpe et al. [74] hanno
brevettato un procedimento per la sintesi di nanoparticelle di Ca(OH)2 tramite l’utilizzo di resine a
scambio ionico.
Ziegenbalg [75] ha fornito una panoramica del prodotto commerciale CaLoSiL® (da IBZ-Salzchemie
GmbH & Co. KG, http://www.ibz-freiberg.de/en) e del suo utilizzo per il consolidamento delle pietre
carbonatiche. In questo caso, nanosol di idrossido di calcio vengono sintetizzati direttamente dalla
soluzione alcolica.
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109
Le particelle ottenute hanno dimensioni di 50-250 nm, e sono disperse in alcoli a catena corta come
l’etanolo, 1-propanolo e 2-propanolo, con un intervallo di concentrazione di 5-25 g/L. D’Armada e Hirst
[76] hanno riportato l’uso di questo prodotto per il consolidamento di pitture murali medievali di
importanza storica nella Chiesa di tutti i Santi (Little Kimble, Buckinghamshire). In particolare, i dipinti
erano piuttosto stabili, ma le pareti avevano molte stuccature successive che erano in cattive condizioni
e affette da efflorescenza salina. Il consolidamento doveva essere effettuato consentendo
l’evaporazione dell’umidità, quindi i conservatori hanno selezionato un materiale inorganico compatibile
(Ca(OH)2 nanoparticellare) per rafforzare le stuccature. In media, sono state condotte dieci applicazioni
in ogni area che ha richiesto il consolidamento, ottenendo effetti positivi senza alcuna modifica visibile
della superficie. Secondo gli autori, la nanocalce in etanolo sembrava fornire un migliore
consolidamento rispetto a quella in 2-propanolo, probabilmente a causa di una migliore penetrazione
delle particelle in etanolo.
Applicazioni del CaLoSiL® anche sui dipinti murali sono riportate da Dahene e Herm [77] in un lavoro in
cui sono state utilizzate nanoparticelle di idrossido di calcio per appiattire e consolidare la superficie
pittorica delaminata di antichi affreschi romani negli scavi di Ercolano (Fig. 5.1.4).
Figura 5.1.3. a Struttura I nell’ “Acropolis Chik-Naab” nel sito archeologico di Calakmul (Campeche, Messico). b
Pittura murale del primo periodo classico Maya, che decora il primo passo della sottostruttura I nel lato sud-est
dell’edificio. c Nanoparticelle di Ba(OH)2 ottenute attraverso un approccio top-down. d Dettaglio dei dipinti
murali Maya che mostrano la presenza di solfati sulla superficie e di fenomeni di sfaldamento che danneggiano lo
strato pittorico. e Lo stesso particolare 6 mesi dopo l’applicazione di una miscela di nanoparticelle di idrossido di
calcio e di bario [P. Baglioni, D. Chelazzi, R. Giorgi, In: “Nanotechnologies in the Conservation of Cultural
Heritage A compendium of materials and techniques”, Springer (2015)].
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110 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Pietre
Considerazioni analoghe a quelle fatte nel paragrafo precedente valgono anche per il consolidamento
della pietra.
Ambrosi et al. [55] hanno testato nanoparticelle di Ca(OH)2 in 1-propanolo sia su campioni di
laboratorio, che simulavano malte con desquamazione superficiale, sia su campioni di pietra storica. Nel
primo caso, il trattamento ha aumentato la compattezza della superficie portando alla formazione di
giunzioni tra i grani. Nel secondo caso l’applicazione su una pietra calcarea (Pietra di Nanto) che
costituisce le pareti esterne dell’Abbazia di S. Margherita a Vigonza (Padova, Italia) ha prodotto il
consolidamento degli strati superficiali, come indicato dallo scotch test. Il trattamento con nanoparticelle
è stato effettuato anche sulle pareti esterne della parte absidale della chiesa di S. Prisca a Aventino
(Roma), dove le superfici in mattoni dovevano essere protette da uno strato di protezione sottile
superficiale (50-100 micron).
Croveri et al. [78] hanno valutato l’efficacia di nanoparticelle di Ca(OH)2 in 2-propanolo per il
consolidamento di campioni di pietra Globigerina (una biocalcarenite tipica dell’isola di Malta). Gli autori
hanno confrontato il metodo con l’applicazione di due materiali storicamente applicati per la
conservazione della pietra, ovvero l’idrossido di bario e l’ossalato di ammonio, entrambi applicati come
Figura 5.1.4. “Casa dei Cervi” ad Ercolano, stanza 16: area di prova per il consolidamento degli strati dipinti, prima (a
sinistra) e dopo il trattamento (a destra) [A. Dahene, C. Herm, Herit Sci (2013) 1, 11].
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111
soluzioni acquose tramite impacchi di cellulosa. I risultati hanno indicato che il trattamento con le
nanoparticelle ha prodotto i migliori effetti in termini di consolidamento della superficie. Le proprietà
fisico-chimiche del substrato sono state rispettate e l’alterazione della struttura dei pori era molto
piccola, requisito essenziale per garantire la traspirazione in ambienti esposti all’aerosol marino.
Dei e Salvadori [61] hanno utilizzato la formulazione in 2-propanolo per contrastare la polverizzazione
superficiale e la desquamazione su campioni di pietra arenaria calcarea morbida (Pietra Gallina),
proveniente dalla facciata di un edificio storico di Mantova (Italia), e su un calcare compatto marnoso
(Pietra Alberese) proveniente dalla chiesa di Santa Maria all’Impruneta (Firenze, Italia). Il trattamento è
stato effettuato mediante immersione per 8 h, essiccazione per 1 h e lavaggio rapido con acqua per
rimuovere l’eccesso di consolidante dalla superficie, impedendo così la formazione velature bianche. Gli
effetti di consolidamento sono stati valutati dopo la completa carbonatazione, in condizioni igrometriche
di laboratorio, 3 settimane dopo. L’applicazione ha portato al consolidamento sia a livello superficiale
(riaggregazione della superficie polverizzata) sia ad un livello più profondo (ridotto assorbimento di
acqua dal substrato) senza alcun effetto negativo sulle proprietà fisico-chimiche dei campioni. Baglioni
et al. [69,79] hanno applicato la stessa formulazione per il consolidamento di calcari nel sito
archeologico di Calakmul in Messico.
Lopez-Arce et al. [80] hanno studiato l’applicazione di una dispersione commerciale di nanoparticelle di
idrossido di calcio in 2-propanolo (Nanorestore®) per consolidare campioni dolomitici che sono
tipicamente utilizzati in edifici storici nella zona di Madrid. I campioni di pietra sono stati impregnati
attraverso un tubo capillare e quindi introdotti in una camera climatica per monitorare gli effetti del
consolidamento a diversi valori di umidità relativa (RH). I risultati hanno indicato che a RH = 75% il
processo di consolidamento è favorito. L’idrossido di calcio (Portlandite) subisce veloce trasformazione
in vaterite (CaCO3), monoidrocalcite (CaCO3⋅H2O) e calcite (CaCO3), con la formazione di cristalli più
grandi (da nano a micron) e, infine, il trattamento migliora notevolmente le proprietà fisiche e idriche del
campione. Il consolidamento è stato raggiunto anche a RH = 33%, tuttavia in tali condizioni
l’applicazione del prodotto consolidante, oltre a favorire ricristallizzazione della calcite, porta anche alla
frattura e dissoluzione dei cristalli di dolomite (CaMg(CO3)2). Inoltre in questo caso la conversione
dell’idrossido di calcio a carbonato è più lenta e si traduce in particelle più piccole che raggiungono
dimensione micrometrica dopo 20 giorni a causa di un processo di agglomerazione.
Come detto prima, il consolidamento delle pietre dolomitiche può essere realizzato attraverso
l’applicazione di una dispersione mista di nanoparticelle di Ca(OH)2 e Mg(OH)2 in propanolo (Fig. 5.1.5),
come nel caso del consolidamento della Pietra d’Angera, una pietra dolomitica ad alta porosità
ampiamente utilizzata in Nord Italia per gli edifici storici e monumentali. La formulazione mista
garantisce la massima compatibilità con la pietra e porta ad un consolidamento durevole [56].
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112 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Anche se in linea di principio formulazioni di idrossido di calcio sono state progettate per il
consolidamento delle pietre carbonatiche, come il calcare, alcuni autori hanno utilizzato, con buoni
risultati, formulazioni di Ca(OH)2 per il consolidamento delle pietre arenarie [81]. In particolare,
nanoparticelle commerciali (Nanorestore®) o carburo di grassello di calce hanno portato alla formazione
di calcite o vaterite che legano i grani di quarzo. Sia il 2-propanolo che l’etanolo, sono stati usati per
disperdere le nanoparticelle, tuttavia l’uso di etanolo ha portato a migliori prestazioni per il
consolidamento di pietra.
Anche la formulazione commerciale CaLoSiL® è stata utilizzata per il consolidamento della pietra con
risultati positivi, e diversi autori riportano le migliori condizioni e protocolli applicativi per massimizzare
gli effetti di consolidamento [75-77,82].
Ciliberto et al. [83] invece hanno proposto la sintesi di nanoparticelle di idrossido di stronzio (Sr(OH)2),
per reazione in fase omogenea (approccio bottom-up), e il loro uso come consolidante per pietre, malte
e pitture murali. Particelle cristalline arrotondate di circa 30 nm sono state ottenute e disperse in 1-
propanolo per l’applicazione su bio-calcareniti porose (Pietra Leccese). Analogamente all’idrossido di
bario, l’idrossido di stronzio nanoparticellare reagisce con il gesso per formare un solfato insolubile e
non dannoso (l’SrSO4) e idrossido di calcio. Questa formulazione potrebbe essere utile per il
consolidamento di substrati inquinati da solfati quando la rimozione dei sali (ad esempio con il metodo
Ferroni) non può essere effettuata. Infatti, Licchelli et al. [84] hanno valutato l’uso di nanoparticelle di
Figura 5.1.5. (In alto) Il “Ca’ Granda” edificio storico di Milano (Italia). (In basso)
Applicazione delle nanoparticelle su pietre degradate delle superfici del Ca’Granda,
Milano, Italia: a sinistra, la parte non trattata con polverizzazione della Pietra
d’Angera; sulla destra, l’applicazione a pennello della nanodispersione consolidante
[D. Chelazzi, G. Poggi, Y. Jaidar, N. Toccafondi, R. Giorgi, P. Baglioni, J Colloid
Interf Sci (2013) 392, 42].
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113
Ca(OH)2 ottenute in etandiolo e di nanoparticelle di Sr(OH)2 per il consolidamento della Pietra Leccese.
Gli autori hanno concluso che l’applicazione a pennello porta ad una penetrazione più profonda e una
distribuzione più omogenea del carbonato neoformato nella pietra. La traspirazione del materiale
originale non è stata drammaticamente alterata, poiché la diminuzione della permeabilità al vapore
acqueo è comunque inferiore al 30%. Inoltre, i campioni di pietra trattati con dispersioni di
nanoparticelle sono stati esposti a cicli di invecchiamento per cristallizzazione salina. I risultati indicano
che sia il trattamento con nanoparticelle di Ca(OH)2 sia quello con nanoparticelle di Sr(OH)2 aumentano
la resistenza della pietra all’invecchiamento.
Infine, altri ricercatori [85,86] hanno proposto un approccio alternativo in cui alcossidi di calcio (in
soluzione di metanolo) impregnano i substrati porosi e quind,i reagendo con l’umidità e la CO2
atmosferica, formano carbonato di calcio in situ, che mostra nano-strutturazione. Il tempo necessario
per la completa carbonatazione dipende dalle condizioni termoigrometriche e dallo spessore delle
particelle di alcossido, e varia da 2-4 a 35-45 giorni. Alla fine, viene prodotto un film carbonato di calcio
che aderisce ai granuli del substrato, senza produrre crepe, e lega insieme i grani. Prove condotte su
marmo invecchiato evidenziando la buona potenzialità di questo metodo. Lo svantaggio principale è
dovuto alla bassa quantità di carbonato depositata in ogni applicazione, a causa della bassa solubilità
degli alcossidi. La ricerca è in corso per superare questa limitazione. Recentemente questi sistemi sono
stati utilizzati su campioni di marmo, e l’effetto consolidante è stata valutata attraverso misure di velocità
ad ultrasuoni [87]. Il consolidamento sembra essere correlato alla solubilità degli alcossidi e alla stabilità
in soluzione.
Infine, é noto che la presenza di sali nella matrice porosa dei dipinti murali o della pietra può influenzare
il processo di consolidamento [67]. Sali altamente solubili, come il solfato di sodio, si sciolgono
nell’acqua all’interno dei pori e gli ioni solfato liberi precipitano con gli ioni calcio provenienti dalla
dissoluzione delle nanoparticelle formando gesso. Sia il consumo parziale di idrossido di calcio che la
formazione di gesso ostacolano il processo di consolidamento con effetti dannosi. In questi casi può
essere applicata una dispersione mista di nanoparticelle di Ca(OH)2 e Ba(OH)2: l’idrossido di bario
reagisce con il gesso formando solfato di bario insolubile (che non è dannoso), idrossido di calcio e
acqua. La dispersione di nanoparticelle miste è utile anche quando non è possibile eseguire il metodo
Ferroni prima del trattamento di consolidamento, ad esempio quando la superficie pittorica di un dipinto
murale è estremamente fragile e degradata.
5.2. Pulitura
Come criterio generale, i sistemi di pulitura devono affrontare tre obiettivi fondamentali: (1) selettività ed
efficienza nella rimozione di sporco o di rivestimenti invecchiati; (2) la piena compatibilità fisico-chimica
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114 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
con il supporto artistico originale; (3) la sicurezza per l’operatore e per l’ambiente in cui si opera .
L’approccio classico di pulizia si basa sull’uso di solventi, sia puri che miscelati. L’efficacia della pulizia
con i solventi dipende dalla loro capacità di dissolvere un materiale specifico lasciando inalterati gli altri
materiali. A tal fine, la scelta di un solvente richiede la conoscenza di diversi parametri, quali la velocità
di evaporazione, la viscosità della soluzione, ed entrambi gli aspetti di protezione ambientale e della
salute. La scelta dei giusti solventi o miscele di solventi è un arte, basata sulla conoscenza, l’esperienza
e l’intuizione guidata da regole pratiche come ad esempio “simile scioglie simile” e varie definizioni di
“forza solvente” [88]. Alcuni strumenti sono oggi disponibili per i restauratori e probabilmente le carte di
Teas sono uno dei più utilizzati. Queste sono state sviluppate per illustrare in modo sintetico i parametri
di solubilità frazionari che Teas definì a partire dai parametri di solubilità di Hansen, derivanti da
precedenti lavori di Hildebrand sulla solubilità dei polimeri. Hildebrand ha stabilito che la densità di
energia coesiva (CED), ossia la forza delle interazioni globali nel soluto (sostanza disciolta in una
soluzione), devono matchare perché si verifichi la solubilità. Hansen ha migliorato il parametro di
solubilità di Hildebrand, δ, dividendo ulteriormente il valore CED in componenti in base a specifiche
forze intermolecolari, cioè le interazioni dipolari (polarità), le interazioni di legame idrogeno e le forze di
dispersione di London. Pertanto, i parametri di Hansen sono costituiti da tre valori che rappresentano la
capacità di un materiale di dare queste interazioni. Dalla somma di questi valori si ottiene il parametro di
Hildebrand. Teas ha presentato questi diversi contributi come parametri frazionali, dove ogni contributo
è legato a tutta la densità di energia coesiva. Pertanto, per ciascun solvente la somma dei tre parametri
di Teas è sempre 1. Il grafico triangolare di Teas, dove ogni asse rappresenta un parametro, consente
la determinazione univoca della posizione di un solvente (o una singola miscela di solventi) nel
diagramma e verifica la sua corrispondenza alla zona di solubilità della differente classe di sostanze che
necessitano di essere rimosse (olio, proteine, adesivi sintetici, ecc). In pratica, i solventi vicini del grafico
di Teas dovrebbero essere reciprocamente miscibili e i solventi in prossimità dell’area di rigonfiamento
di una sostanza (adesivo, rivestimento, ecc), si prevede che rigonfino o sciolgano tale sostanza. Il
grafico di Teas è quindi uno strumento pratico che permette una previsione sui solventi da utilizzare per
la solubilizzazione di materiali dello sporco o di rivestimenti dannosi, in base alla sua struttura
molecolare.
Tuttavia, nell’ambito delle opere d’arte una delle principali preoccupazioni per l’uso diretto di solventi è
rappresentata dal meccanismo fisico coinvolto nel processo. Infatti, la solubilizzazione dello sporco o
dei rivestimenti comporta che la materia disciolta può migrare per capillarità all’interno della struttura
porosa del manufatto. Dopo evaporazione del solvente, i materiali solubilizzati si ridepositano dentro i
pori del manufatto, invece di essere rimossi. Ciò abbassa ovviamente l’efficacia dell’azione pulente, che
di solito è accettabile solo perché l’aspetto visivo della superficie artistica è attraente, mentre le
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115
proprietà fisico-chimiche del substrato poroso possono essere alterate dalla presenza dello
sporco/rivestimento ridepositato. Materiali altamente assorbenti (come ad esempio impacchi di pasta di
cellulosa) possono essere utilizzati per “succhiare” ed estrarre la materia disciolta per capillarità,
rimuovendola dalla matrice del manufatto. Tuttavia, la alta velocità di evaporazione dei solventi
tipicamente utilizzati nei lavori di pulizia delle opere d’arte favorisce la rideposizione dei materiali
solubilizzati all’interno dei pori. Infine, un altro importante problema è rappresentato dalla tossicità dei
solventi puri e delle miscele di solventi. Per queste ragioni, è di fondamentale importanza esplorare
diversi modi per rimuovere sporcizia e rivestimenti pregiudizievoli e per conseguire risultati duraturi
minimizzando l’impatto ambientale e sulla salute. Nella maggior parte dei casi l’acqua è pienamente
rispettosa delle caratteristiche fisico-chimiche dei dipinti murali. Così, il detergente ideale sarebbe
l’acqua munita di capacità di interagire con i materiali idrofobi e rimuoverli. Ovviamente, l’acqua pura
non ha tale potere. Tuttavia, l’uso di sistemi anfifilici all’acqua, quali soluzioni micellari e microemulsioni
olio-in-acqua, consente di raggiungere questo compito impegnativo. Infatti, è possibile generare
strutture o aggregati stabili nella fase acquosa che sono in grado di solubilizzare o rigonfiare materiali
idrofobi. L’uso di sistemi a base acquosa offre importanti vantaggi. Innanzitutto esso può inibire la
rideposizione del materiale solubilizzato, sporcizia o rivestimenti. Infatti, durante l’applicazione la
superficie dei pori del manufatto è coperta da uno strato di acqua che impedisce la riadesione dei
materiali idrofobi staccati (sporcizia, polimeri), che vengono così efficacemente rimossi o estratti dal
materiale sorbente (impacchi o gel). Questo processo è favorito dal fatto che l’acqua presenta una
velocità di evaporazione inferiore a quella dei solventi organici comunemente utilizzati per il restauro.
Un altro aspetto fondamentale è che i sistemi a base acquosa, come microemulsioni e soluzioni
micellari, hanno un basso contenuto di sostanze organiche (all’incirca dall’1 al 25% w/w, inclusi sia i
solventi che i tensioattivi), pertanto l’impatto sulla salute dell’operatore e sull’ambiente è fortemente
minimizzato.
Dipinti murali e pietre
La prima applicazione di microemulsioni per la conservazione del patrimonio culturale è stata eseguita
da Ferroni e Baglioni alla fine del 1980, durante il restauro degli affreschi del 15° secolo (da Masaccio,
Masolino, e Lippi) nella Cappella Brancacci a Firenze [89,90]. La rimozione del materiale idrofobo dai
dipinti è stata eseguita utilizzando un sistema a base acquosa specifico per la solubilizzazione e la
rimozione della cera, che era stata inaspettatamente trovata sulla superficie dipinta. Questo materiale
idrofobo era stata diffuso da anni sulla superficie dipinta a causa del soffiaggio ripetuto delle candele
votive conservate nella cappella vicino ai dipinti. La microemulsione sviluppata per questo scopo
specifico era composta da nanoparticelle di dodecano (efficiente nella solubilizzazione della cera)
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116 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
stabilizzate in una soluzione acquosa di sodio dodecilsolfato (SDS) e 1-pentanolo. Questa formulazione
era efficace nel rimuovere la cera senza diffondere nei pori della parete, come si sarebbe invece
verificato utilizzando comuni solventi.
Da allora, diverse formulazioni sono state sviluppate per rimuovere polimeri e co-polimeri acrilici
invecchiati, una delle classi di consolidanti più utilizzate in passato per i dipinti murali. Le prime
formulazioni studiate e testate contenevano lo xilene (fino a < 3%) come fase dispersa [91,92] per via
della sua alta affinità per le resine acriliche invecchiate. Queste formulazioni sono stati utilizzate con
successo per la rimozione di rivestimenti acrilici vecchi di 30 anni (applicati in restauri passati) da dipinti
murali del 14° secolo di Spinello Aretino nella Cappella Guasconi (Chiesa di San Francesco, Arezzo,
Italia). Le microemulsioni, applicate per impacco, hanno portato alla completa rimozione dei rivestimenti
dannosi sia dalla superficie che dagli strati interni delle pitture murali, come confermato da analisi FTIR
(Spettroscopia Infrarossa in Trasformata di Fourier).
Un’altra classe di consolidanti largamente utilizzata in passato (e che oggi spesso presentano degrado)
comprende polimeri vinilici e copolimeri vinilacrilati. Uno dei primi casi in cui sono state usate
microemulsioni per la rimozione di rivestimenti a base vinilica è stato per l’intervento di conservazione
delle pitture murali rinascimentali che decorano le pareti esterne della Cattedrale di Conegliano
(Treviso, Italia). Poiché il p-xilene non è un buon solvente per i polimeri vinilici, diversi fluidi
nanostrutturati sono stati formulati sulla base di quelli utilizzati nelle applicazioni precedenti. Infatti, una
soluzione micellare, contenente sodio dodecilsolfato (SDS), 1-pentanolo (come co-tensioattivo) e
carbonato di propilene (PC) è stata utilizzata con successo per questo scopo [92] (Fig. 5.2.1).
Figura 5.2.1. Affresco del Pozzoserrato (XVI
secolo) sulle pareti esterne della Cattedrale di
Santa Maria dei Battuti a Conegliano (Italia).
La linea blu tratteggiata separa la zona in cui
il polimero vinilico invecchiato (applicato nei
restauri precedenti) è stato rimosso con una
soluzione micellare (a sinistra) dalla regione
non pulita (a destra) [E. Carretti, L. Dei, P.
Baglioni, Langmuir (2003) 19, 7867].
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117
Pochi anni più tardi un sistema simile è stato utilizzato per rimuovere polimeri acrilici (ad es. il Paraloid
B72®) da pitture murali nella chiesa di Santa Maria della Scala a Siena [12]. Nel 2008 è stato sviluppato
un sistema modificato, che contiene sodio dodecilsolfato (SDS), 1-pentanolo, carbonato di propilene
(PC) e acetato di etile (EA), per la rimozione di un copolimero vinilico/acrilico dai dipinti murali Maya
conservati nel sito archeologico di Mayapan (Yucatan, Messico) [7]. Questo sistema olio-in-acqua
(chiamato “EAPC”) è risultato essere molto efficace nella rimozione di diversi tipi di polimeri. Infatti,
accanto al sito di Mayapan, l’EAPC è stato testato con successo per la rimozione dei rivestimenti acrilici
dai dipinti del sito di Cholula (Messico) e per la rimozione dei rivestimenti a base di silicone dalle
decorazioni parietali della Grotta dell’Annunciazione a Nazareth, Israele [93-95].
Va notato che in alcuni casi l’invecchiamento naturale aveva alterato i rivestimenti polimerici in modo
tale che i solventi tradizionali non erano in grado di solubilizzarli, mentre i sistemi di pulizia
nanostrutturati a base d’acqua hanno dimostrato una piena efficacia nella rimozione di polimeri
invecchiati, portando così al recupero della leggibilità del manufatto (Fig. 5.2.2).
Figura 5.2.2. Applicazione del sistema
nanostrutturato EAPC sui dipinti murali della
Basilica dell’Annunciazione a Nazareth (Israele).
(In alto) prima del restauro; (In basso) dopo il
restauro. Nel riquadro tratteggiato è evidenziata
un’area in cui il rivestimento polimerico è stato
lasciato sul dipinto come riferimento per la
valutazione del risultato della pulizia [M. Baglioni,
D. Berti, J. Teixeira, R. Giorgi, P. Baglioni,
Langmuir (2012) 28, 15193].
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118 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Recentemente, l’attività di ricerca sullo sviluppo di nuove formulazioni di microemulsioni si è indirizzata
verso l’utilizzo di tensioattivi non ionici perché aggregano a concentrazioni inferiori e sono più ecologici
e biodegradabili di quelli ionici (come il SDS). Alchil Poliglicosidi (APG) e alcoli etossilati appartengono
ad una classe di tensioattivi “green” che possiedono interessanti proprietà per un gran numero di
applicazioni, tra cui la pulizia delle opere d’arte [11,96]. Più recentemente, tensioattivi completamente
biodegradabili non ionici (alcoli etossilati a meno del 7%) sono stati utilizzati per formulare un sistema di
pulitura basato su metiletilchetone, acetato di etile e acetato di butile (meno del 5% ciascuno).
Questa tecnologia per la conservazione del patrimonio culturale è protetta dal marchio Nanorestore
Cleaning® come garanzia di qualità dei prodotti e della corrispondenza alle formulazioni originali;
queste formulazioni non sono ancora distribuite sul mercato, ma il CSGI (Consorzio Interuniversitario
per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase, Centro per la scienza dei Colloidi e delle superfici)
dell’Università di Firenze è a disposizione per fornire ai conservatori materiali e assistenza tecnica sulla
base di specifici accordi.
Questi sistemi sono stati originariamente sviluppati per la rimozione di rivestimenti idrofobi da superfici
idrofile, cioè dipinti murali e pietre. Tuttavia, in linea di principio, le soluzioni micellari e le microemulsioni
possono avere un campo di applicazione più vasto, in quanto possono essere utilizzate anche su altri
materiali idrofili utilizzati nell’arte come lo stucco, la ceramica, il cemento, il vetro, le ossa, i metalli, il
legno, i tessuti, ecc.
Dipinti da cavalletto
La pulizia dei dipinti da cavalletto è un’operazione delicata, in quanto comporta rischi di alterazione dei
substrati artistici originali. In genere, il termine “pulizia” si riferisce sia alla “pulizia delle superfici” che
alla rimozione degli strati degradati [97]. Nel primo caso, sporcizia e polvere vengono rimossi,
idealmente senza alterare alcun materiale filmante (quali vernici, ritocchi, strati dipinti). Nel secondo
caso, l’intervento mira alla rimozione parziale o completa dei livelli alterati e degradati, quali vernici
ingiallite e/o rivestimenti dannosi invecchiati ecc.. Nel corso dei secoli, restauratori e conservatori hanno
utilizzato un gran numero di prodotti per la pulizia, compresi i saponi, i prodotti alimentari, i materiali
inorganici e anche biofluidi, come la saliva. Attualmente, la pulizia dei manufatti è ancora largamente
effettuata utilizzando solventi organici insieme alla rimozione meccanica. Tuttavia, l’applicazione di
solventi può portare ad effetti indesiderati quali il rigonfiamento dei mezzi leganti, l’alterazione dei
pigmenti, il trasporto di materia disciolta attraverso le matrici porose, o semplicemente la mancanza di
controllo del processo di pulizia, con conseguente rimozione degli strati originali o “patine” che vengono
a volte considerate come parti storiche dei manufatti.
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119
L’uso di soluzioni acquose (ad esempio di agenti chelanti, di enzimi, di tensioattivi, di acidi o basi) ha
guadagnato crescente attenzione negli ultimi decenni, grazie alla possibilità di controllare in modo
relativamente sicuro sia l’efficacia della pulitura che l’interazione con i mezzi leganti della pittura,
giocando su fattori come la viscosità, il pH e la forza ionica delle soluzioni [98,99]. Inoltre, detergenti
nanostrutturati a base di acqua come microemulsioni olio-in-acqua e soluzioni micellari si sono
dimostrate valide alternative ai solventi per la rimozione dei materiali indesiderati, dei rivestimenti nocivi
e delle vernici [100]. Tuttavia, l’uso diretto di soluzioni acquose e di sistemi a base acquosa è
scoraggiato su substrati sensibili all’acqua (come le tele, gli strati di preparazione e le opere di carta) in
quanto potrebbero portare ad effetti indesiderati quali il rigonfiamento delle fibre o degli strati idrofili e la
lisciviazione o solubilizzazione dei componenti solubili. Tutti i problemi sopra citati possono essere
efficacemente superati confinando i fluidi di pulitura in una matrice di gel (rete polimerica) che li rilascia
in modo controllato sulla superficie dell’opera. I fluidi possono essere ispessiti (“gelificati”) o
direttamente caricati in gel. Diversi sono i vantaggi di questi sistemi:
il lento rilascio di solventi, soluzioni o emulsioni attraverso l’interfaccia gel-manufatto porta ad
una pulizia controllata;
la diffusione incontrollata dei fluidi di pulizia e di sporcizia disciolta attraverso gli strati del
substrato artistico è parzialmente o completamente evitata;
il tasso di evaporazione dei fluidi confinati è drasticamente diminuito; quindi, la tossicità dei
sistemi di pulizia si riduce.
Una delle principali classi di materiali tradizionalmente impiegati come addensanti per la pulizia dei
manufatti comprende eteri di cellulosa (ad esempio Klucel®, Tylose, HPMC), che sono ampiamente noti
nell’industria cosmetica, farmaceutica e alimentare. Sebbene questi sistemi non possono essere
strettamente considerati come gel sulla base del loro comportamento reologico, essi appaiono
macroscopicamente come gel e sono comunemente indicati come tali per motivi pratici. La
preparazione di “gel” utilizzando eteri di cellulosa è relativamente facile: i polimeri vengono dispersi in
acqua, sotto agitazione a temperatura ambiente o con il calore, e lasciati riposare per circa un giorno.
Questi polimeri possono essere utilizzati per addensare acqua e, nel caso del Klucel G®,
principalmente solventi polari come alcuni alcoli. La viscosità dei “gel” di etere di cellulosa dipende dal
grado di polimerizzazione DP del polimero e dal tipo di solvente caricato. Solitamente, vengono ottenute
dispersioni pastose simili a gel, che mostrano proprietà filmanti e adesive. I “gel” di etere di cellulosa
sono però sensibili a pH troppo acidi (pH < 3) o troppo alcalini (pH > 11). Inoltre, queste reti simili a gel
fisici sono inclini a lasciare residui difficili da rimuovere, a causa dell’adesività del materiale gelificante
[99], che possono aumentare la possibilità di proliferazione microbica sul manufatto.
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120 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
I cosiddetti “solvent gel”, sviluppati tra la fine del 1980 e l’inizio del 1990 da Richard Wolbers, sono un
altro tipo di materiali tradizionalmente utilizzati per la pulizia dei quadri da cavalletto. I solvent gel sono
ottenuti utilizzando come ispessenti derivati dell’acido poliacrilico (per esempio il Carbopol® e il
Pemulens®) e tensioattivi non ionici debolmente basici come l’Ethomeen®. L’alcalinità provoca la
deprotonazione delle funzioni carbossiliche nelle catene di acidi che si dispiegano e formano una
estesa rete 3D che confina il solvente [98,101]. Le proprietà tensioattive consentono una più facile
rimozione dello sporco e degli strati indesiderati. Selezionando tensioattivi Ethomeen con differente
bilancio idrofilo-lipofilo (HLB), è possibile addensare solventi a bassa polarità (con l’Ethomeen C12®) o
solventi polari (con l’Ethomeen C25®). Gel solventi possono anche essere utilizzati per controllare
l'azione dei detersivi ed enzimi. Infatti, questi sistemi sono ancora tra gli strumenti di pulizia più utilizzati
per la loro efficacia e versatilità. Tuttavia, come per gli altri gel fisici e per le dispersioni simili a gel, uno
dei principali inconvenienti è legato alla rimozione dei residui del sistema di pulizia (addensante e
componenti non volatili) dopo l’applicazione. Burnstock e White [102] hanno valutato la natura dei
prodotti di degrado dei residui dell’Ethomeen C12 (dati da trattamento con solvent-gel) dopo
invecchiamento alla luce sia a breve termine che a lungo termine. I prodotti di ossidazione del
tensioattivo sono formati per invecchiamento a medio-lungo termine. La natura dei prodotti di
degradazione dell’Ethomeen (tra cui N-ossidi di ammine) ha sollevato qualche preoccupazione sul
contatto a lungo termine (ad esempio alcuni decenni) dei residui con gli oli o le resina dei mezzi pittorici.
Štulík et al. [103] hanno effettuato un ampio studio sulla teoria e applicazione dei solvent-gel, compresa
l’individuazione dei residui sulle superfici dei manufatti trattati, la stabilità dei tensioattivi durante
l’invecchiamento naturale accelerato e le raccomandazioni per la formulazione di gel per impieghi
specifici.
Alcuni materiali polisaccaridi quali l’agar, la gomma di gellano e la gomma di xantano, sono stati
proposti negli ultimi anni per la pulizia superficiale di manufatti, da utilizzare sia come soluzioni
altamente viscose o come gel “rigidi” che conservano la forma del contenitore dove vengono preparati.
Questi materiali non sono tossici e possono essere attaccati da alcuni batteri e funghi (l’agar viene
effettivamente utilizzato in biologia per la preparazione dei terreni di coltura). L’Agar viene estratto da
alghe rosse (principalmente dai generi Gelidium e Gracilaria) ed è composto da agaropectina e
agarosio. Quando miscelato con acqua (in concentrazioni che variano dall’1 al 4%) e riscaldato a 80°C
forma delle spirali casuali che poi, per raffreddamento (inferiore a 40°C), si riarrangiano a formare una
struttura 3D altamente porosa termo-reversibile dove le catene a doppia elica sono legate attraverso
legami idrogeno [104]. Gel di agar possono essere utilizzati con agenti chelanti, enzimi o tensioattivi, a
diversi valori di pH, e possono essere applicati con impacco (ad esempio a pennello) o come un gel
rigido, lasciando quasi nessun residuo, come riportato in letteratura [105,106]. Recentemente, gel di
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121
agar sono stati anche caricati con liquidi detergenti nanostrutturati (microemulsioni) per la rimozione di
materiali lipofili (cera) da superfici porose [107].
Il Gellano è un polimero anionico lineare prodotto dal batterio Sphingomonas elodea. L’unità ripetitiva
del polimero è un tetrasaccaride costituito da (1-3)-β-Dglucosio, Acido (1-4)-β-D-glucuronico, (1-4)-β-D-
glucosio e (1-4)-α-L-ramnosio. Il processo di formazione del gel è un meccanismo simile a quello
descritto per l’agar: in seguito a riscaldamento, il polimero è presente in soluzioni acquose come spirali.
Per raffreddamento a 30-40°C, le molecole formano doppie eliche che si legano attraverso legami
secondari (legami idrogeno, interazioni di van der Waals) e che sono casualmente alternate con le
spirali. Cationi, in particolare gli ioni Ca2+ (per esempio aggiunto come soluzione di acetato di calcio),
stabilizzano la struttura.
Possono essere formati gel elastici o fragili a seconda delle concentrazioni dei cationi e del contenuto
acil del polimero [108,109]. Per la pulizia dei manufatti, è possibile avere una struttura visco-elastica,
non-adesiva, omogenea e compatta che è stabile a diversi valori di pH. I gel di gellano sono più
trasparenti di quelli di agar, e posseggono una ritenzione idrica superiore a concentrazioni dell’1-2%.
Iannucelli e Sotgiu [110] hanno utilizzato il gellano per la pulizia di opere d’arte di carta; è stato
osservato che i gel gradualmente rilasciano acqua sul supporto cartaceo e raccolgono lo sporco, e
possono essere rimossi senza lasciare residui sostanziali. Gli autori hanno anche dimostrato che è
possibile preparare gel caricati o con una soluzione enzimatica acquosa o con ter-butil amminoborano,
che è stato usato come reagente lieve per ridurre i gruppi carbonilici nella carta ossidata [111,112]. Nel
primo caso, la soluzione enzimatica è stata caricata nel gellano dopo il processo di gelificazione,
pipettando la soluzione direttamente sulla superficie del gel con una micropipetta e distribuendo il gel
sulla superficie con un pennello. Invece, il ter-butil amminoborano è stato aggiunto dopo che la
dispersione polimerica ha finito il ciclo di riscaldamento. I gel di Gellano possono essere usati anche
con piccole quantità di solventi quali etanolo o isopropanolo. I prodotti commerciali includono Gelzan® e
Kelcogel®. Infine, la gomma di xantano (ad es. il Vanzan®) viene estratta dopo la fermentazione di
batteri (Xanthomonas campestris). Il polimero forma gel viscosi che possono essere utilizzati in un
ampio intervallo di pH e sono compatibili con chelati, diversi solventi (gelificazione di soluzioni acquose
di circa il 40% di alcoli o glicoli) ed emulsioni. Anche in questo caso, il meccanismo di gelificazione
comporta la formazione di eliche a partire da spirali casuali, e il gel ottenuto è tissotropico. Gel come
quelli formati da agar e da gellano possono ritenere elevate quantità di acqua, ma in alcuni casi è
richiesta una maggiore ritenzione idrica per il trattamento di opere d’arte sensibili all’acqua, dove la
lisciviazione o la perdita di componenti (colori, inchiostri) potrebbero avvenire a causa di un’eccessiva
bagnatura [113].
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122 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
È un dato di fatto che la sperimentazione di nuove formulazioni con proprietà migliorate, rispetto ai
materiali precedentemente discussi, è continuamente in corso. Il lavoro di ricerca è incentrato sullo
sviluppo di gel con caratteristiche chiave quali proprietà meccaniche migliori (in modo da consentire
un’agevole manipolazione e evitare completamente i residui di gel sulle superfici trattate) e più alta
ritenzione, che permette di controllare completamente l’azione di pulitura anche su supporti sensibili. Un
esempio è quello dato dai “gel sensibili”, cioè una classe di materiali che rispondono ad uno stimolo
esterno come la temperatura, il pH o i campi magnetici [114-116]. Inoltre, sono stati realizzati e testati
su opere d’arte mobili gel con alta visco-elasticità che possono facilmente essere “spellicolati” dalla
superficie, e gel chimici altamente ritentivi per la pulizia di superfici sensibili all’acqua [100].
I primi sistemi reattivi che sono stati sviluppati in questo ambito sono stati i gel reoreversibli e le spugne
nanomagnetiche. Carretti et al. [117,118] hanno dimostrato che soluzioni di poliammine (es
poliallilammine, PAA) formano un gel con l’aggiunta di CO2 (attraverso bolle). La rete 3D è dovuta alla
formazione di gruppi ammonio e carbammato, sulle catene polimeriche, che sono attratti attraverso
interazioni elettrostatiche. Dopo l’azione di pulitura sulle superfici dipinte, il gel di PAA-CO2 viene
decarbossilato semplicemente aggiungendo in situ una piccola quantità di una soluzione acquosa di
acido acetico debole (0,05 M). Come risultato, il gel viscoelastico ritorna allo stato liquido e viene
rimosso semplicemente con un tampone di cotone. Questo tipo di gel è stato applicato per rimuovere
uno strato di lacca applicata durante interventi di restauro precedenti dalla superficie di un dipinto su
tavola a tempera d’uovo del 14° secolo (dalla Galleria Nazionale di Siena, Italia). Come confermato da
analisi SEM-EDX, l’uso del gel ha permesso la rimozione della vernice. Questi sistemi sono stati
ulteriormente valutati, per esempio per la rimozione di vernici invecchiate sulla superficie di una cornice
dorata del 19° secolo [119].
Più tardi, anche le polietilenimmine (PEI) sono state utilizzate per fare gel reoreversibli per la pulizia di
superfici verniciate e di legno dorato [116,119,120]. Ad esempio, una soluzione PEI di 1-ottanolo/xileni,
gelificato gorgogliando CO2, ha portato alla formazione di un gel PEI-CO2 che è stato utilizzato per
rimuovere con successo dei ritocchi lucidi e delle vernici dalla superficie di una tela. L’analisi allo
stereomicroscopio ha confermato che gli strati indesiderati erano stati rimossi senza spellicolmento o
abrasione della superficie originale. In alternativa, il PEI è anche stato usato per rimuovere uno strato
superficiale di vernice degradata da una scultura in legno verniciato (Fig. 5.2.3) [121].
L’uso di gel a base di PEI e PPA ha portato all’ottenimento di ottimi risultati durante il processo di
pulitura delle opere d’arte mobili e ha fornito un esempio delle potenzialità della scienza dei colloidi e
della materia soffice per lo sviluppo di strumenti innovativi ed efficaci. Il lavoro di ricerca successivo si é
focalizzato su diverse classi di gel sensibili per controllare ulteriormente il trattamento e la rimozione dei
sistemi di pulitura. Bonini et al. [114,115] hanno sintetizzato e caratterizzato nanoparticelle magnetiche
Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali
123
che sono state funzionalizzate e associati con gel a base di acrilammide, creando una spugna
nanomagnetica.
L’acrilammide presenta proprietà di carico e ritenzione dell’acqua, che rendono questi idrogel chimici
utili per caricare soluzioni acquose e sistemi a base acquosa (ad es. le microemulsioni) e rilasciarli in
modo controllato sui substrati artistici. Le proprietà magnetiche del gel ne consentono la rimozione
facile e rapida semplicemente utilizzando un magnete permanente, in modo da evitare così qualsiasi
manipolazione diretta del gel durante la fase di rimozione. Infatti questi strumenti sono particolarmente
adatti per la pulitura di oggetti preziosi le cui superfici sono molto sensibili agli stress meccanici.
I gel possono essere tagliati con un coltello o con delle forbici alle dimensioni desiderate per diverse
applicazioni. Inoltre, la formazione del gel è reversibile: il gel può essere liofilizzato ottenendo una
polvere che può poi essere di nuovo idratata per riformare il gel. Per le operazioni di pulitura, le spugne
nanomagnetiche sono caricate con una microemulsione acquosa contenente piccole quantità di p-
xilene e nitrodiluente (meno del 2% ciascuno). I gel di poliacrilammide hanno macropori con dimensioni
che vanno dalle centinaia di nanometri a diversi micron; pertanto le goccioline di dimensioni
nanometriche contenute nella microemulsione sono in grado di diffondere attraverso la rete del gel.
Figura 5.2.3. Scultura settecentesca in legno verniciato con
uno strato superficiale di una vernice naturale degradata
prima (lato destro) e dopo (lato sinistro) pulizia con un gel di
poli(etileneimmina) come addensante e 1-pentanolo come
fase continua [P. Baglioni, L. Dei, E. Carretti, R. Giorgi,
Langmuir (2009) 25, 8373].
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124 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
Pizzorusso et al. [122] hanno studiato ulteriormente la caratterizzazione e l’uso di gel a base di
poliacrilammide caricati con liquidi detergenti nanostrutturati per la pulitura dei dipinti da cavalletto.
L’obiettivo era quello di investigare possibili alterazioni per il caricamento all’interno della rete del gel di
un sistema olio-in-acqua contenente acetato di etile e propilene carbonato (detto “EAPC”) con un
tensioattivo e un co-tensioattivo che contribuisce alla formazione di micelle di dimensioni nanometriche.
L’EAPC è un fluido detergente acquoso molto versatile, in cui i due solventi sono distribuiti sia all’interno
delle micelle (nanogocce) sia nella fase acquosa continua. Essendosi dimostrato l’EAPC efficace nella
rimozione di diversi tipi di rivestimento dannosi sulla superficie dei dipinti murali [93,95], era importante
valutare la possibilità di caricare questo sistema in un idrogel per consentire potenziali applicazioni su
substrati sensibili all’acqua, come le tele. Analisi SAXS hanno dimostrato che è possibile includere le
nanogocce di solventi e tensioattivi all’interno della rete del gel per un uso efficace nella pulitura di
opere d’arte. Le caratteristiche del gel possono essere customizzate modificando la percentuale di
polimero nella formulazione. Ad esempio, macropori in un gel vanno da 5 a 25 micron e le maglie da 7 a
9 nm (la dimensione delle maglie fornisce intrinsecamente una misura della microporosità media della
rete di gel, cioè dei pori di dimensioni nanometriche). Il differente contenuto in polimero porta anche a
differenti proprietà di ritenzione idrica, e la formulazione con la più alta ritenzione è stata selezionata per
il trattamento della tela con il fine di evitare la fuoriuscita incontrollata della microemulsione attraverso la
superficie. Gel a base di acrilammide e microemulsioni sono stati applicati anche su tele di lino per
rimuovere gli adesivi invecchiati [122,123]. Ad esempio, un gel caricato con EAPC è stato usato su
campioni di tela che erano stati trattati con il Mowilith DM5®, un adesivo commerciale costituito da
acetato di vinile e n-butil acrilato. Infatti, gli adesivi a base di polivinilacetato come il Mowilith DM5® e
DMC2®, sono soggetti a degrado con l’invecchiamento [124] e una delle principali vie di degradazione
comporta il rilascio di acidi organici che sono dannosi per le fibre della tela. L’applicazione del gel ha
prodotto il rigonfiamento e il rammollimento dell’adesivo, che è stato poi rimosso dalla tela per delicata
azione meccanica. Questo metodo ha permesso un’azione perfettamente localizzata del sistema di
pulitura, che ha portato alla rimozione della maggior parte dell’adesivo dalla tela senza pericolo di
diffusione incontrollata del fluido acquoso di EAPC.
Successivamente, la ricerca si è focalizzata su idrogel chimici con maggiore ritentività, per consentire la
pulizia controllata di superfici dipinte altamente sensibili pur mantenendo l’efficacia, la fattibilità e
l’applicabilità senza residui delle formulazioni a base di acrilammide. Domingues et al. [113,125] hanno
sviluppato reti semi-interpenetranti (semi-IPN) di poli(vinilpirrolidone)-PVP e poli (2-
idrossietilmetacrilato)-p(HEMA). L’idea era di combinare le migliori caratteristiche di entrambi gli idrogel
p(HEMA) e PVP in un unico sistema con caratteristiche specifiche per la pulitura delle opere d’arte.
Infatti, gli idrogel di PVP mostrano un’alta idrofilia ma scarse caratteristiche meccaniche [126], mentre
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125
quelli di p(HEMA) mostrano una buona resistenza meccanica, ma una bassa capacità di carico
dell’acqua per essere utilizzati nella conservazione del patrimonio culturale. Questi gel sono stati
preparati in forma di film elastici che possono essere tagliati alla misura desiderata, manipolati e
facilmente rimossi o “spellicolati” dalla superficie (Fig. 5.2.4) senza lasciare residui di gel, grazie alla
rete coesiva di legami chimici. I gel sono preparati come reti polimeriche contenenti acqua, ma possono
anche essere caricati con solventi polari (ad esempio glicoli, alcoli, etanolammina) o con sistemi
acquosi nanostrutturati (microemulsioni e soluzioni micellari), tipicamente tramite in immersione per
almeno 12 ore prima dell’applicazione.
La composizione del gel può essere regolata per ottenere caratteristiche differenti in termini di porosità
e ritenzione dei fluidi di pulizia caricati. Ad esempio, sono state riportate tre diverse formulazioni con
differenti dimensioni porosimetriche e con differenti proprietà di ritenzione/rilascio dell’acqua per
consentire il trattamento di manufatti che presentano differente sensibilità all’acqua o ai solventi polari.
Ovviamente, quella con la più alta ritenzione idrica è adatta per supporti molto sensibili come i quadri da
cavalletto, dove la pellicola pittorica è poco legata o dove la fuoriuscita incontrollata di acqua/solventi
può portare a rigonfiamento del legante o alla lisciviazione di colori, tinte e inchiostri. Inizialmente, gli
idrogel p(HEMA)/PVP sono stati usati per pulire tele realizzate con la tecnica della tempera magra, cioè
mescolando pigmenti e coloranti con la minima quantità necessaria di legante (colla animale).
Successivamente sono stati utilizzati anche per la rimozione dello sporco dalla superficie di campioni di
carta inchiostrati, in cui l’applicazione di idrogel chimici altamente ritentivi hanno evitato qualsiasi
eccessiva bagnatura o alterazione dell’inchiostro idrosolubile. Inoltre, questi gel si sono rilevati efficaci
anche per applicazioni tipiche come la rimozione di vernici terpenoidi ingiallite e invecchiate dalla
superficie delle tele. La vernice viene o disciolta (e migra nel gel) o rigonfiata (e quindi rimossa con
Figura 5.2.4. La rimozione dello sporco dalla superficie di un esemplare di Thang-Ka utilizzando un idrogel
chimico semi-interpenetrante (semi -IPN) di p(HEMA)/PVP chimica. Un Thang-Ka è un manufatto votivo su tela
dipinto con tempera magra che presenta in genere uno strato pittorico con bassa coesione e con una scarsa quantità
di legante sensibile all’acqua (ad esempio colla animale) [J. Domingues, N. Bonelli, R. Giorgi, E. fratini, F. Gorel,
P. Baglioni, Langmuir (2013) 29, 2746].
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
126 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
un’azione meccanica delicata). Un altro esempio è l’utilizzo di idrogel p(HEMA)/PVP caricati con l’EAPC
per la rimozione di un adesivo etilacrilato/ metilmetacrilato (Plextol® B500) invecchiato dalla superficie
di una tela. Il rilascio controllato dell’EAPC ha portato al graduale rigonfiamento e rammollimento del
rivestimento adesivo sintetico evitando al contempo un’eccessiva bagnatura del substrato, nonostante il
lungo tempo di applicazione (4 ore) [125].
Accanto ai gel chimici, i ricercatori hanno sviluppato anche dispersioni di polimeri “gel-like” con
caratteristiche specifiche per la pulitura dei dipinti. Queste formulazioni sembrano macroscopicamente
dei gel, ma non possono essere strettamente classificati come gel dal punto di vista reologico, pertanto
sono indicate come dispersioni polimeriche altamente viscose (HVPDs).
Carretti et al. [127] hanno riportato l’uso di una HVPD di idrossietilcellulosa idrofobicamente modificata
(hmHEC, 2% w/w) per incorporare una microemulsione di xilene in acqua. Il sistema hmHEC-
microemulsione è stato utilizzato per rimuovere vernici e rivestimenti invecchiati dalla superficie di dipinti
e da superfici dorate.
Un altro possibile approccio si basa sull’utilizzo di HVPDs con elevata elasticità intrinseca, al fine di
ottenere una facile rimozione del sistema simile a gel semplicemente tramite un’azione di “peeling”. Le
HVPDs altamente viscoelastiche possono essere ottenute utilizzando borace e alcool polivinilico (PVA)
o acetato di polivinile (PVAc) parzialmente idrolizzato. La rete gelatinosa è dovuta alla formazione di
legami incrociati tra la borace e i gruppi idrossili del PVA (o PVAc idrolizzato). La natura dei legami
dipende dal pH, dalla temperatura, dalla concentrazione dei reagenti e dalla composizione chimica del
sistema [128-130]. Oltre alla facile rimozione, le HVPDs costituite da PVA-borace consentono la
graduale e controllata pulitura delle superfici delicate e sensibili ai solventi. Ad esempio, una
formulazione caricata con acqua è stata recentemente utilizzata per rimuovere uno strato scuro,
costituito da particelle carboniose (dovute principalmente all’inquinamento atmosferico), dalla superficie
di uno strato dipinto delicato che comprendeva sostanze sensibili all’acqua come il gesso e il bianco
d’uovo (come legante) [131].
È possibile caricare diversi solventi nelle formulazioni PVA-borace (fino a circa il 15-30% w/w della parte
liquida del sistema), compresi etanolo, 1-pentanolo, 2-butanolo, 1 e 2-propanolo, acetone,
cicloesanone, N-metilpirrolidinone e carbonato di propilene. L’uso del PVAc parzialmente idrolizzato
come addensante estende ulteriormente la gamma di solventi che possono essere caricati e permette
la preparazione di HVPDs dove il solvente organico è fino al 75% (w/w) della porzione liquida. Sistemi
HVPDs PVA- e PVAc-borace caricati con miscele di acqua e 1-propanol sono stati applicati per la
rimozione di vernici ossidate dalla superficie di un pannello di legno tardorinascimentale. In generale, a
seconda del solvente utilizzato, le vernici possono essere sia disciolte (migrazione nel sistema simile a
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127
gel) o rigonfiate e staccate dalla superficie (in questo caso la rimozione è completata da un’azione
meccanica delicata con un tampone).
5.3. Deacidificazione
Come dimostrato dalla letteratura citata per la deacidificazione dei materiali cellulosici, il lavoro di
ricerca nel campo della conservazione della carta è costantemente alla ricerca di metodi dedicati per
trattare tutti i problemi di conservazione contemporaneamente, in un solo passaggio. Il trattamento
ideale deve evitare gli inconvenienti descritti nei paragrafi precedenti, vale a dire la lisciviazione o
rimozione dei componenti originali dei manufatti (ad esempio inchiostri o vernici), la formazione di
velature o l’alterazione estetica della superficie degli oggetti trattati, e l’uso di solventi non tossici e
dannosi per l’ambiente. Inoltre, il trattamento dovrebbe comporta bassi costi e risultare realizzabile
praticamente.
Le dispersioni di nanoparticelle di Ca(OH)2 per l’applicazione alle opere d’arte sono state discusse in
dettaglio nel paragrafo 2.1. Questa sezione si concentra sulle formulazioni che sono state sviluppate e
utilizzate negli ultimi decenni per il controllo del pH su substrati a base di cellulosa. Infatti, l’idrossido di
calcio è un ottimo agente deacidificante e la possibilità di fornire l’idrossido in forma di particelle solide
disperse in un solvente appropriato sulle fibre di cellulosa permette un graduale e sicuro rilascio di ioni
OH- dalle particelle, piuttosto che il rilascio improvviso di ioni liberi, altamente mobili, come avviene nelle
soluzioni acquose. La neutralizzazione tra gli ioni OH- (dalle particelle) e gli ioni H+ (provenienti da
specie o gruppi acidi) avviene sulla superficie delle particelle attraverso uno strato d’acqua che proviene
dall’umidità ambientale e dall’umidità delle fibre. È stato ipotizzato che gli ioni calcio o magnesio (dal
trattamento di deacidificazione) possono interagire con i gruppi carbossilati della cellulosa (Fig. 5.3.1)
[132].
Figura 5.3.1. Possibili interazioni tra gli ioni Ca2+ (proveniente dalle nanoparticelle di Ca(OH)2) e i gruppi
carbossilati (-COO-) sulle catene di cellulosa, durante il trattamento di neutralizzazione [P. Baglioni, D. Chelazzi,
R. Giorgi, In: “Nanotechnologies in the Conservation of Cultural Heritage A compendium of materials and
techniques”, Springer (2015)].
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
128 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
La superficie delle particelle di Ca(OH)2 che non viene consumata durante il processo di
neutralizzazione reagisce con la CO2 atmosferica, trasformandosi in CaCO3. Pertanto, le particelle
carbonatate restano intrappolate come un tampone contro la ricomparsa dell’acidità; infatti carte che
contiengono cariche di carbonato di calcio mostrano migliori caratteristiche per l’immagazzianmento
[133]. Inoltre, la carbonatazione dell’idrossido è un altro fattore importante, insieme con la ridotta
mobilità degli ioni OH-, nel prevenire la formazione di un ambiente eccessivamente alcalino che
potrebbe essere dannoso per la cellulosa.
Dispersioni stabili di nanoparticelle di idrossido di calcio o di magnesio in alcoli a catena corta sono stati
formulati negli ultimi decenni con diversi processi di sintesi, come discusso nel cap. 2. L’applicazione di
queste dispersioni sulla carta, sia a pennello, spray o per immersione, consente il semplice rilascio della
quantità desiderata di idrossido senza usare precursori come l’ossido di magnesio, gli alcossidi o i
metossi metilcarbonati. Inoltre, le nanoparticelle sono stabilmente disperse in alcooli a catena corta
senza usare additivi o tensioattivi, in modo da minimizzare ulteriormente effetti imprevisti.
Come evidenziato da Sequeira et al. [134], le dimensioni ridotte delle nanoparticelle di idrossido, e di
conseguenza la loro area superficiale elevata, comporta una elevata capacità di neutralizzazione degli
acidi, e la rapida trasformazione dell’eccesso di idrossido in carbonato. Infatti, l’applicazione di Ca(OH)2
nanoparticellare a provini di carta del 19° secolo ha portato alla neutralizzazione dell’acidità e alla
formazione di un tampone di CaCO3, che proteggeva la carta contro l’invecchiamento accelerato in
condizioni idrotermali severe (UR = 85% e T = 90°C per 21 giorni). Inoltre, uno studio di Poggi et al.
[135] ha dimostrato che il trattamento di carta inchiostrata con inchiostri metallo-gallici con una
dispersione di nanoparticelle di Mg(OH)2 in 2-propanolo è stato molto efficace nel proteggere le fibre di
cellulosa dal degrado. L’applicazione di Mg(OH)2 nanoparticellare mantiene stabilmente il pH a circa 7 e
conserva le proprietà meccaniche delle fibre di cellulosa durante l’invecchiamento, mentre i campioni
non protetti sono soggetti a forte decolorazione e drammatici danni meccanici (Fig. 5.3.2).
Microscopicamente, ciò è dovuto al fatto che la percentuale di legami glicosidici della cellulosa scissi dai
processi di degradazione (% S) è stata mantenuta bassa dal trattamento con particelle alcaline durante
l’invecchiamento, a differenza del caso di campioni inchiostrati che non erano stati trattati (Fig. 5.3.3).
L’applicazione del metodo Bookkeeper, che utilizza particelle più grandi, sugli stessi campioni ha
mostrato risultati leggermente peggiori, e si deve notare che in generale l’uso di nanoparticelle
(piuttosto che micro) può anche essere vantaggioso per ottenere una migliore penetrazione attraverso
la rete a bassa porosità delle fibre, senza produrre velature dovute ad accumuli sulla superficie. Giorgi
[136] successivamente ha dimostrato che l’effetto benefico fornito dall’applicazione di nanoparticelle di
Mg(OH)2, in termini di riduzione % S, era paragonabile a quello ottenuto trattando campioni di carta
inchiostrata con un trattamento anti-ossidante a base di alogenuri. Questi risultati indicano che
Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali
129
mantenendo stabile il pH finale della carta intorno alla neutralità, con un trattamento di deacidificazione
a passo singolo, è possibile conservare la cellulosa dal degrado indotto sia da acidi (ad esempio acido
solforico) che da agenti ossidativi (ioni di ferro e rame).
Gli alcoli a catena breve usati come mezzi disperdenti delle nanoparticelle sono solventi eco-friendly
con bassa tossicità e sono inerti verso diversi (etanolo) o numerosi (2-propanolo) inchiostri metallo-
gallici. Altri solventi (ad esempio idrocarburi) sono stati sperimentati con successo per estendere
l’applicazione alla carta contenente inchiostri moderni.
Figura 5.3.2. Confronto tra campioni di carta inchiostrata con metallo-gallici (Whatman) prima e dopo
l’invecchiamento. (a sinistra) Un campione non trattato con nanoparticelle che non ha subito l’invecchiamento.
(Centro) Un campione invecchiato senza alcun trattamento di stabilizzazione, in cui la perdita delle proprietà
meccaniche della carta è evidente. (Destro) Un campione trattato con nanoparticelle di Mg(OH)2 e invecchiato: il
campione ha conservato le proprietà meccaniche originali, come prima dell’invecchiamento [G. Poggi, R. Giorgi,
N. Toccafondi, V. Katzur, P. Baglioni, Langmuir (2010) 26, 19084].
Figura 5.3.3. Curve di degradazione che mostrano la percentuale di legami glicosidici della cellulosa scissi per
ossidazione e idrolisi acida (% S) durante l’invecchiamento accelerato di campioni di carta Whatman. "Ink_Fe_1:
1" si riferisce ai campioni trattati con un inchiostro ferrogallico classico; "Ink_Fe_1: 1 Mg" si riferisce a campioni
inchiostrati che sono stati stabilizzati con nanoparticelle di Mg(OH)2 e poi invecchiati; "Ink_Fe_1: 1 BK" si
riferisce ai campioni che inchiostrati che sono stati stabilizzati con il metodo Bookkeeper (spray) e poi invecchiati
[G. Poggi, R. Giorgi, N. Toccafondi, V. Katzur, P. Baglioni, Langmuir (2010) 26, 19084].
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
130 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
I risultati ottenuti sulla carta hanno aperto la strada all’applicazione delle nanoparticelle su altri materiali
a base di cellulosa, quali la tela e il legno, poiché i processi di degrado che devono essere affrontati
sono simili a quelli della carta. Il Lino, per esempio, contiene materiali lignificati che lo rendono più
incline a deterioramento, e in generale le tele sono affette da foto-ossidazione, dalla presenza di gas
inquinanti (SO2, NOx) e acidi organici volatili. L’acidità può anche essere sviluppata da vernici come la
dammar, o dal legante dell’olio [137]. Come risultato, le tele possono avere valori di pH a partire da 3,5-
4,0, e la conseguente perdita delle proprietà meccaniche è aumentata dalle forze di trazione a cui i
tessuti sono sottoposti. Trattamenti per la deacidificazione della cellulosa, originariamente sviluppati per
la carta, sono stati applicati in passato anche ai dipinti su tela, per esempio Foster et al. [138]. Infatti
hanno valutato l’applicazione del metodo Wei T’o sul retro di tele e hanno osservato che il metodo
produce una variazione della rigidità dei campioni che dipende dalle condizioni ambientali. Inoltre, il
trattamento lascia un rivestimento che agisce come barriera all’umidità, modificando l’ulteriore risposta
della tela trattata alle variazioni di umidità relativa. L’applicazione di dispersioni di nanoparticelle
alcaline, per esempio spruzzandole sul retro del dipinto, è un metodo alternativo promettente per la
conservazione di tele acidificate, data la sua fattibilità e efficacia come dimostrato sugli oggetti di carta.
Nel caso dei dipinti, il principale fattore da considerare è la compatibilità tra il mezzo disperdente, le
particelle e gli strati dei manufatti (preparazione e strati dipinti), che sono tipicamente sensibili ai solventi
a polarità differente.
Per quanto riguarda il legno, l’acidità può costituire una minaccia per i manufatti in diverse circostanze.
Innanzitutto, va detto che il legno stesso emette composti acidi, come l’acido acetico e l’acido formico.
Tali emissioni promuovono il degrado di oggetti che si trovano a stretto contatto con la superficie del
legno, ad esempio i manufatti conservati o esposti in scatole di legno e le opere d’arte di carta o tele in
contatto con cornici di legno.
Il degrado avviene anche quando le opere d’arte sono esposte ad atmosfera contenente VOC
(composti organici volatili) acidi emessi dalle superfici in legno. Possono essere applicati sul legno dei
rivestimenti per ridurre l’emissione di acidi, ma è noto che i vari rivestimenti a base poli(vinilacetato) e gli
adesivi tradizionalmente utilizzati emettono a loro volta VOC acidi [139], e in alcuni casi si raccomanda
che i materiali con una potenziale emissione di sostanze pericolose devono essere sostituiti da materiali
come rivestimenti metallici e vetrosi [140]. Composti organici potenzialmente aggressivi possono anche
essere trovati all’interno di cornici microclimatiche [141]. Un elegante soluzione alternativa a questo
problema è quello di fornire superficie lignee delle cornici, delle scatole ecc, con un tampone alcalino
che neutralizza le emissioni acide direttamente in situ. In questo modo, l’emissione di VOC acidi viene
contenuta e viene evitato l’uso di rivestimenti potenzialmente pericolosi. Il trattamento delle superfici
Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali
131
lignee con una dispersione di nanoparticelle alcaline ha dimostrato essere un metodo facile per
realizzare questo compito [142].
Un altro campo in cui la nanoscienza si è dimostrata efficace nel contrastare l’acidità della cellulosa
riguarda la conservazione del legno archeologico saturo d’acqua. Due casi famosi riguardano la
conservazione delle navi in legno Vasa e Mary Rose, che sono attualmente in fase di degrado da
composti come l’acido solforico, l’acido ossalico e i sali di ferro [143,144]. Secondo la letteratura, una
delle origini dell’acidità è la grande quantità di composti solforati ridotti accumulati all’interno del legno
mentre le navi giacevano sul fondo marino in acque anossiche inquinate dall’attivitá metabolica di
batteri solfo-riducenti. Partendo dal recupero, i composti dello zolfo vengono ossidati, producendo acido
solforico e solfati. Gli ioni di ferro, provenienti dalla corrosione dei chiodi e di altri componenti metallici,
promuovono l’ossidazione dello zolfo e causano il degrado della cellulosa, e portano anche alla
formazione di acido ossalico dal legno di quercia. Tuttavia, la complessa interazione tra le specie
chimiche del legno non è ancora completamente chiarita, e recenti studi sulla Vasa hanno suggerito che
lo zolfo può infatti agire come antiossidante, dal momento che il degrado dell’olocellulosa è risultato
maggiore nelle aree ad alto contenuto di ferro ma basso tenore di zolfo. Inoltre, gli ioni ferro (III) sono
probabilmente coinvolti nel degrado del polietilenglicole (PEG), consolidante che è stato ampiamente
applicato per prevenire il restringimento del legno dopo il recupero. Il degrado del PEG è ancora
dibattuto: alcuni ricercatori sostengono che il deterioramento è trascurabile, mentre altri hanno
sottolineato che il processo potrebbe avvenire tramite idrolisi acida. Inoltre il suo degrado potrebbe
eventualmente contribuire alla formazione di acido formico.
Nel complesso, questi processi di degrado interconnessi portano a bassissimi valori di pH locali (ad
esempio 0-4), mentre il pH del legno di quercia fresco è in genere intorno al 4,5 e quello di pino è circa
5,5. L’idrolisi acida della cellulosa può causare cedimenti strutturali che sono potenzialmente disastrosi
su tali oggetti di grandi dimensioni. Pertanto, diversi gruppi di ricerca sono coinvolti nello studio di
possibili soluzioni contro l’azione di acidi e ioni ferro. Il problema principale comune a tutti i metodi
sviluppati finora è che l’accesso agli strati interni del legno impregnato di PEG è problematico. Inoltre, le
soluzioni acquose alcaline tradizionali implicano questioni analoghe a quelle discusse per la
deacidificazione della carta. In alternativa, un trattamento con gas di ammoniaca è stato testato su
campioni della Vasa, ma limitazioni a questo metodo sono la bassa profondità di penetrazione raggiunta
(massimo 0,5-1,0 cm per i campioni di quercia e fino a 3,5 cm per i campioni di pino) e un eccessivo
degrado della cellulosa per i campioni della Vasa non trattati con il PEG [145]. Un trattamento a base di
soluzioni acquose di agenti chelanti come DTPA (dietilentriammina pentaacetato) è stato sviluppato per
estrarre ferro, zolfo e vecchio PEG dal legno. Tuttavia, il pH richiesto per la completa efficacia del
metodo (9-11) è troppo rischioso per il legno, e valori di pH più neutri diminuiscono leggermente
L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT
132 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali
l’efficacia di estrazione. Inoltre, tali trattamenti potrebbero richiedere diversi anni e l’estrazione del ferro
potrebbero non avvenire nelle regioni interne del legname (< 1-2 cm di profondità).
L’uso di nanoparticelle di idrossidi alcalino-terrosi o di carbonato é stato proposto per neutralizzare
stabilmente il pH (inibendo l’attività catalitica degli ioni di ferro) e prevenire la formazione di acido
solforico. Per esempio, il trattamento con nanoparticelle di Mg(OH)2 ha portato ad un aumento del pH di
campioni di legno acidi fino a profondità di 2 cm, per almeno 1 anno [146]. L’applicazione di
nanoparticelle sotto vuoto o a moderata pressurizzazione sui campioni, utilizzando particelle di Ca(OH)2
di circa 80 nm, ha portato ad una maggiore penetrazione, fino a circa 10 cm.
Un’altra promettente formulazione, proposta per la conservazione dei legni della Mary Rose, prevede
l’uso di particelle di carbonato di stronzio (SrCO3), con cristalliti di 20-50 nm, ottenute con un processo
top-down (macinazione a sfere ad alta energia) a partire dal SrCO3 commerciale [144,147,148]. Le
particelle sono disperse in 2-propanolo attraverso sonicazione. I campioni di legno sono stati immersi
nelle dispersioni e ulteriormente sonicati per 3 giorni. Oltre a qualche effetto di deacidificazione, la
motivazione principale per l’uso di particelle di SrCO3 è la loro influenza sulle specie di zolfo ridotte e sui
composti di ferro nel legno. I risultati delle analisi spettroscopiche hanno mostrato che il trattamento ha
causato una diminuzione delle specie di zolfo ridotte nel legno e la formazione sia di solfossido che di
solfato di stronzio (SrSO4), che è stabile ed insolubile. Inoltre, la pirite converte lentamente in carbonato
di ferro. Di conseguenza, l’ulteriore formazione di acido solforico nella matrice legno è ostacolata. La
limitazione principale è che utilizzando il processo di macinazione a sfere, anche se cristalliti di 20-50
nm sono presenti, si ha una dimensione delle particelle che è nell'intervallo micro dimensionale, come
confermato dalla bassa penetrazione delle particelle (2 mm utilizzando dispersioni in 2-propanolo) e dai
bassi coefficienti di diffusione attraverso il legno di quercia fresco (ordine di grandezza di 10-13 m2s-1 per
dispersioni in 2-propanolo). Un effetto collaterale ulteriore nell’uso di particelle di stronzio è che, a
differenza di calcio e magnesio, gli ioni di stronzio presentano una tossicità moderata.
Infine, è opportuno notare che l’uso di nanoparticelle è stato sperimentato anche per altre funzioni (oltre
che controllo del pH) nel campo della conservazione delle opere d’arte cellulosiche. Alcune delle
applicazioni proposte includono: (i) l’uso di nanoparticelle TiO2 o ZnO per la protezione dei supporti
carta dallo sporco, dai microrganismi e dai raggi UV [149,150]; (ii) l’applicazione di silice
nanoparticellare e altri nanosols inorganici per il trattamento del legno, in modo da migliorare le
proprietà meccaniche, oppure come ritardanti di fiamma, o come rivestimenti antimicrobici, ecc.. [151].
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Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali
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APPENDICE I: prodotti commerciali
Negli ultimi anni si è assistito in Italia ed in Europa alla nascita di un vero e proprio settore nanotech
costituito sia da imprese specializzate, come PMI di nuova formazione (start-up) o risultanti da spin-off
dell'industria/università, che da grandi aziende multinazionali che hanno dedicato particolare attenzione
a questo nuovo campo dei nanomateriali sempre più in via di sviluppo.
Di seguito vengono riportati i maggiori e più conosciuti prodotti utilizzati commerciali per il restauro, la
conservazione e l'archiviazione di tutte le opere di interesse storico, artistico e monumentale. Vengono
riassunti in tabella in base alla loro funzione come consolidanti, protettivi o materiali per pulitura.
Prodotti consolidanti commerciali
Prodotto Marchio Caratteristiche
Nanorestore® C.T.S. srl
Consolidante superficiale a base di idrossido di calcio nanoparticellare disperso in alcool isopropilico (5 g/L di nanoparticelle di dimensione media 200 nm). Nanorestore è il consolidante compatibile per eccellenza per gli affreschi e i materiali lapidei a matrice carbonatica.
Nanorestore Plus®
CSGI (Consorzio per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase)
Sono nanoparticelle di idrossido di calcio disperse in alcol (note anche come nanocalci) altamente compatibili con dipinti murali e opere architettoniche e scultoree realizzate con rocce carbonatiche. Il solvente utilizzato è etanolo e propanolo e le concentrazioni di nanoparticelle sono 5 g/L e 10 g/L.
CaLoSiL® IBZ-Salzchemie GmbH & Co.KG
Consolidante a base di idrossido di calcio nanoparticellare disperso in differenti alcol (etanolo, isopropanolo e n-propanolo). Tipicamente le concentrazioni sono tra 5 e 50 g/L. La dimensione media delle particelle è 150 nm. CaLoSiL®è un consolidante per pietre ed intonaci.
SioXaL® IBZ-Salzchemie GmbH & Co.KG
Questi prodotti sono soluzioni acquose di silica nanoparticellare a differenti concentrazioni (15% e 30%) e nanodimensioni (8, 10 e 35 nm). Sono utilizzati per il consolidamento di pietre, malte, intonaci.
CaLoXiL® IBZ-Salzchemie GmbH & Co.KG
Questo prodotto è uno slurry di calce che contiene come legante una miscela sinergica di convenzionale calce (CL-90) e le particelle di nanocalce da CaLoSiL®. Viene utilizzato per il consolidamento.
CaSoPaL® IBZ-Salzchemie GmbH & Co.KG
CaSoPaL® contiene idrossido di calcio nanoparticelle disperso in etanolo. Le particelle hanno dimensioni nell'intervallo 300 - 400 nm in concentrazione di 15 g/L. Permette la rimozione di funghi e evita la crescita di alghe con un effetto combinato al consolidamento strutturale.
Nano Estel® C.T.S. srl
Dispersione acquosa colloidale di silice di dimensioni nanometriche ( <20 nm) ad effetto consolidante e fissativo per pietre naturali, mattoni, terracotta, malte e intonaci. Può essere applicata in ambienti umidi ed ha un tempo di presa di 3-4 giorni.
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Prodotti protettivi commerciali
Nanoacryl® Evonik Silice nanoparticellare (dimensione delle particelle: 20-60 nm) dispersa in monomeri acrilici utilizzata per coating ed adesivi
Nanopol® Evonik Silice nanoparticellare (dimensione delle particelle: 20-60 nm) dispersa in vari acetati utilizzata per coating ed adesivi
Nanopox® Evonik Silice nanoparticellare (dimensione delle particelle: 20-60 nm) dispersa in resina epossidica utilizzata per coating ed adesivi
Nanorepel® Buhler ZnO nanoparticellare disperso in acqua e solvente per coating
ORMOCER® Fraunhofer ISC Protettivo e coating nanostrutturato a base di metalli alcossidi modificati (silice modificata) con polimeri organici tipo acrilici
NANO
SILOXANE-100-
2770 WB
EST Enviro Science
Technologies
Soluzione solubile di acqua-sodiometilsilossano progettata per conferire idrorepellenza ad un'ampia varietà di superfici. La concentrazione del prodotto prima dell’applicazione è del 3%.
CETOSIL Cetelon Nanolacke Sono una serie di caoting acrilati nanocompositi con un contenuto fino al 30% di silice nanoparticellare.
Zycosil Zydex Industries Coating al 100% organosilano solubile in acqua di nanotecnologia. Forma legami silossanici Si-O-Si da nanosiliconizzazione sulla superficie.
NANOBYK BYK Additives &
Instruments
Dispersione di nanoparticelle di silice trattate superficialmente (Perticelle medie <100 nm) per coating soprattuto del legno.
Silres® Wacker Coating organosilani solubili in acqua (polifenilsilossani e polimetilsilossani). Vengono utilizzati come coating per una serie di materiali quali marmo, pietra arenaria, malta, legno, cotone, carta e ceramica.
SILRES BS38® Wacker Miscela a base solventi di silani, silossani e fluoropolimeri (< C8). Viene tilizzato come coating per pietre naturali, come marmo, travertino e granito, e ceramica.
Graffitichield™
nano
Rust-Oleum Sono silossani polieteri nanostrutturati con additivi UV dispersi in solventi organici utilizzati come antigraffiti.
Prodotti per la pulitura commerciali
Prodotto Marchio Caratteristiche
Nanorestore Cleaning®
CSGI (Consorzio per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase)
Sono prodotti sono fluidi nanostrutturati a base acquosa contenente un tensioattivo (anionico o non ionico) e una miscela di solventi organici in basse concentrazioni. Sono particolarmente efficaci nella rimozione di materiale grasso e polimeri organici da substrati porosi.
Nanorestore Gel®
CSGI (Consorzio per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande
I prodotti della serie Nanorestore Gel® sono idrogel chimici che non lasciano residui sulle superfici trattate. Grazie al loro network altamente ritentivo, possono essere
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Interfase) utilizzati anche su oggetti molto sensibili all'acqua, perché la loro azione è limitata all'intefase. I Nanorestore Gel® vengono venduti caricati con acqua, ma possono essere caricati anche con solventi polari (etanolo, etc.) o fluidi nanostrutturati a base acquosa della linea Nanorestore Cleaning®. Sono utilizzati per la pulitura di superfici (dipinte) sensibili all'acqua.
Nanorestore Paper®
CSGI (Consorzio per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase)
Sono nanoparticelle di idrossido di calcio disperse in etanolo o 2-propanolo alla concentrazione di 3g/L e 5g/L. Le formulazioni della serie Nanorestore Paper® sono impiegate per il controllo del pH e la deacidificazione di opere a base cellulosica. L'impiego di nanoparticelle assicura una rapida neutralizzazione dell'acidità e garantisce una buona penetrazione nel materiale.
Bookkeeper® Conservation Resources International
E’ un prodotto spray che permette di deacidificare opere a base cellulose. Sono nanoparticelle di idrossido di magnesio in un carrier non-reattivo con presenza di surfattante.
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APPENDICE II: analisi microscopiche nei beni culturali
A cura del Dr. Stefano De Monte A.P.E.Research Nanotechnology
La microscopia a scansione di sonda (SPM, Scanning Probe Microscopy) rappresenta un ramo della
microscopia fondamentale per la caratterizzazione superficiale a livelli nanometrici. Nei Beni Culturali la
microscopia SPM può essere usata per differenti tipi di applicazioni, come lo studio di degradazioni di
molteplici materiali quali pietra, carta, legno o per il miglioramento dei materiali utilizzati nella
conservazione e nella protezione di monumenti e i beni archeologici.
Le SPMs sono particolari tipi di microscopi che sfruttano variabili fisiche, al fine di costruire un’immagine
con ingrandimento molto alto (risoluzione fino a risoluzione atomica). In queste tecniche una sonda
molto forte è posizionata vicino alla superficie del campione (pochi nanometri), che esegue la scansione
della superficie e la misura dell’interazione con il campione in ciascun punto. L’immagine ottenuta è il
risultato di acquisizione di segnali sugli assi xyz. Queste tecniche forniscono un’accurata immagine
reale tridimensionale della superficie del campione (topografia 3D). È possibile acquisire differenti
proprietà fisiche (elettriche, magnetiche, ottiche, ecc.) del campione, ottenendo diverse immagini del
campione con diversi tipi di sonda.
La microscopia a forza atomica (AFM), la microscopia ottica a scansione di campo vicino (SNOM) e la
microscopia a effetto tunnel (STM) rappresentano diversi tipi di microscopie SPM utilizzate nel campo
dei beni culturali.
Microscopia a forza atomica (AFM)
Il più conosciuto ed utilizzato microscopio a scansione di sonda è il microscopio a forza atomica (spesso
abbreviato in AFM, dall'inglese Atomic Force Microscope) che è uno dei principali strumenti di
manipolazione della materia su scala nanometrica. E’ una tecnica estremamente accurata e versatile
per misurare la topografia di una superficie o le forze superficiali. Una punta molto sottile, montata alla
fine di una piccola molla, o cantilever, viene pontata in contatto con la superficie del campione che si
vuole studiare. La punta viene mossa lungo numerose linee di scansione, producendo un'immagine
tridimensionale con risoluzione ultra-alta. Questa tecnica è particolarmente utile per ottenere immagini
caratteristiche della superficie a scala nanometrica e per misurarne accuratamente le dimensioni.
Nel 2007 sono stati condotti degli studi [1] che hanno portato alla produzione di film nanocompositi di
polimetilmetacrilato (PMMA) o di polieteri funzionalizzati a base fluoro (PFPE) con nanoparticelle di
silice di diverse dimensioni e alla loro applicazione su marmi e su provini di carbonato di calcio costruiti
in laboratorio. Un aumento della rugosità del composito, registrata da misure di microscopia a forza
atomica (AFM), unitamente al sostanziale aumento dell’angolo di contatto dimostrano che si è in
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presenza di superfici superidrofobiche. Le proprietà superidrorepellenti acquisite possono garantire la
massima protezione all’azione dell’acqua sui monumenti lapidei.
Nel 2005, la microscopia AFM è stata usata come tecnica non-distruttiva per caratterizzare i
meccanismi di deterioramento di vetri storici [2]. Film sottili di ossidi di titanio e zirconio supportati su
entrambi i lati da “soda-lime glass” sono stati preparati per decomposizione organo-metallica. Come
mostrato dalla microscopia a forza atomica (immagini topografiche e di linea di profilo), sono stati
ottenuti film lisci con un valore di rugosità di circa 2 nm per ossidi di titanio e zirconio.
La microscopia AFM può essere anche usata per studiare la degradazione di fibre di cellulosa
direttamente sulla superficie di un documento. Nel 2006 Piantanida et al. hanno studiato la
biodegradazione delle fibre di cellulosa artificialmente indotta dall’inoculazione di funghi [3]. La
quantificazione degli effetti di degradazione può essere valutata dalle misure di paramenti di rugosità
superficiale. Nello stesso studio la rugosità superficiale della carta biodegradata artificialmente è stata
confrontata con un manoscritto biodegradato naturalmente.
Microscopia ottica a scansione di campo vicino (SNOM)
La microscopia ottica a scansione di campo vicino (SNOM, Near-field scanning optical microscopy) è
un’altra microscopia che appartiene alla famiglia delle scansioni di sonda. E’ una tecnica per indagini
nanostrutturate che rompe il limite della risoluzione “far field” sfruttando le proprietà delle onde
evanescenti. Tale microscopia consiste nell’acquisizione dell’immagine di un campione tramite una
sonda ottica, cioè una fibra ottica monomodale schermata e rastremata ad una estremità per ottenere
punte di diametro di almeno 50−200 nm. Essa acquisisce “punto per punto” la radiazione riflessa,
trasmessa o emessa proveniente dal campione in osservazione ed invia l’informazione convertita in
formato digitale ad un computer che la elabora, ricostruendo, a processo ultimato, l’immagine risolta
della scansione. La sonda deve essere avvicinata alla superficie del campione entro il “campo vicino”
cioè entro poche decine di nm dalla superficie di emissione poiché in questa regione sono ancora
rilevabili le componenti “evanescenti” del campo elettromagnetico la cui acquisizione permette di
risolvere l’immagine ben oltre il limite fisico, limite di Abbe, cui devono sottostare i microscopi ottici
classici a causa del fenomeno della diffrazione. Lo SNOM permette una caratterizzazione unica, dal
punto di vista ottico e della risoluzione di immagine, di oggetti di dimensioni nanoscopiche e risponde
quindi all’esigenza di analisi e caratterizzazione di strutture “nano” che sono ora di grande attualità nella
ricerca scientifico-tecnologica e nel campo industriale.
Cepek ha studiato film Si-C cresciuti su silicio da “chemical vapour deposition” (CVD) di molecole di C60
[4]. I processi di crescita sono stati studiati utilizzando in situ tecniche spettroscopiche e microscopiche
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quali la microscopia SNOP, con l’obiettivo di trovare i migliori protocolli che consentono la sintesi
controllata a priori di una nanostruttura definita.
In collaborazione con l’Università degli Studi di Brescia - Facoltà di Ingengeria, APE Research TriA-
SNOM ha studiato coatings usati per la protezione di statue e monumenti in pietra (ad esempio la
deposizione di SnO2 su substrati di silicone [5]).
Microscopia a effetto tunnel (STM)
Il microscopio a effetto tunnel (STM, dall’inglese Scanning Tunneling Microscope) è un potente
strumento per lo studio delle superfici a livello atomico. Questa microscopia può essere utilizzata non
solo in condizioni particolari come l’ultra-altovuoto, ma anche nell’aria, nell’acqua e in vari altri liquidi o
gas ambienti e a temperature che variano da quasi zero kelvin a poche centinaia di gradi Celsius. La
microscopia STM si basa sull’effetto tunnel. Quando una punta conduttrice è portata molto vicino alla
superficie da esaminare, una differenza di potenziale applicata tra i due può permettere agli elettroni di
attraversare il vuoto tra di loro per effetto tunnel. La corrente di “tunnelling" che ne risulta dipende dalla
posizione della punta, della tensione applicata e della densità locale degli stati del campione. Misurando
la corrente nei diversi punti della superficie del campione si ottengono immagini topografiche e altre
informazioni.
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Bibliografia
[1] P. Manoudis, S. Papadopoulou, I. Karapanagiotis, A. Tsakalo, I. Zuburtikudis, C. Panayiotou, J Phys Conf Ser (2007) 61, 1361.
[2] L.F. Cueto, E. Sánchez, L.M. Torres-Martínez, G.A. Hirata, Mater Charact (2005) 55, 263.
[3] G. Piantanida, F. Pinzari, M. Montanari, M. Bicchieri, C. Coluzza, Macromol Symp (2006) 238, 92.
[4] Cinzia Cepek, CNR-IOM, Trieste
[5] S. Prato, Nanoforum 2014, 22 - 25 settembre, http://www.nanoforum.it/
Consorzio Innova FVG Via Jacopo Linussio 1 - 33020 Amaro (UD) – Italia
Tel. + 39 0433 486111 – Fax +39 0433 486500 www.innovafvg.it
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