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La teoria politica di Luigi Einaudi di Alberto Giordano
§ 1. Introduzione: Luigi Einaudi e il liberalismo
Luigi Einaudi è uno dei pochi liberali italiani presenti nel Pantheon del pensiero politico
europeo Ma che cos’è, per Einaudi, il liberalismo? Per il momento limitiamoci a una definizione
molto generale ma piuttosto significativa, se non altro perché la tenne ferma durante tutta la sua
vita: il liberalismo è «la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento,
l’elevazione della persona umana…una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e
di luogo»1. Anche le pure dottrine morali, tuttavia, hanno bisogno di incarnarsi in istituzioni
tangibili: così, sotto il profilo politico, «il liberalismo è una dottrina di limiti; e la democrazia
diventa liberale solo quando la maggioranza volontariamente si astiene dall’esercitare coazione
sugli uomini nei campi che l’ordine morale insegna essere riservati all’individuo, dominio sacro alla
persona»2.
In ambito economico, pur non rilevando, in linea di principio, un «legame diretto fra
liberalismo e struttura economica»3, Einaudi era fortemente convinto che una società veramente
liberale (e democratica) non avrebbe potuto fare a meno di preservare un’ampia sfera di libertà
economica – una sfera riservata, dunque, alla libera azione degli individui nelle vesti di
risparmiatori, consumatori e produttori:
I liberali negano che la libertà dell’uomo derivi dalla libertà economica; che cioè la libertà
economica sia la causa e la libertà della persona umana nelle sue manifestazioni morali e
spirituali e politiche sia l’effetto. L’uomo moralmente libero, la società composta di uomini i
quali sentano profondamente la dignità della persona umana, crea simili a sé le istituzioni
economiche. La macchina non domina, non riduce a schiavi, a prolungamenti di se stessa se non
quegli uomini i quali consentono di essere ridotti in schiavitù. Esiste un legame tra la libertà
economica da un lato e la libertà in genere e la libertà politica in particolare dall’altro canto; ma
è legame assai più sottile di quel che sia dichiarato nella comune letteratura propagandistica.4
§ 2. Le radici del pensiero einaudiano
1 Liberalismo, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 29 luglio 1944, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla
democrazia 1943-1947, a cura di P. Soddu, Firenze, Olschki, 2001, p. 65. 2 Ivi, pp. 65-66.
3 Ivi, p. 66.
4 Il nuovo liberalismo, «La Città Libera», I, 1945, n. 1, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., pp.
119-120.
2
In ciò Einaudi trasse ispirazione dai grandi classici della tradizione liberale: David Hume e
Adam Smith; Alexander Hamilton e James Madison; Carlo Cattaneo e Francesco Ferrara; Benjamin
Constant e Alexis de Tocqueville. Tra i contemporanei, Einaudi discusse fruttuosamente con
Benedetto Croce e Gaetano Mosca; Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni; Lionel Robbins, Wilhelm
Röpke e Friedrich von Hayek. A sua volta, Einaudi esercitò una forte influenza su alcuni importanti
economisti e pensatori politici del Novecento italiano, quali Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Piero
Gobetti, Costantino Bresciani Turroni e Bruno Leoni.
Ma se le fonti del suo pensiero appaiono numerose e talvolta eterodosse (si pensi
all’ammirazione dimostrata da Einaudi nei confronti di pensatori da lui certo distanti quali Carlyle e
Fourier), egli non fece mai mistero di guardare all’Inghilterra quale patria ideale sia sotto il profilo
politico che culturale – tanto che, in un saggio giustamente celebre, si era autodefinito «lettore
appassionato, quasi monomaniaco, di libri inglesi».5
Fu in particolare Adam Smith ad attirare la sua attenzione. A lui Einaudi dedicò alcuni saggi
piuttosto suggestivi, nei quali passava in rassegna, rispettivamente, la fortuna di Smith in Italia e le
tesi contenute in alcuni capitoli inediti risalenti alla prima stesura della Ricchezza delle Nazioni,
avvenuta nel 1763.6 Smith rappresentava per Einaudi il prototipo del liberale attento ai presupposti
etico-politici del sistema economico, fautore dell’economia di concorrenza, certo, ma anche
convinto sostenitore di una seria politica antimonopolistica e per nulla indulgente verso i difetti di
quello stesso meccanismo di mercato di cui egli è ancor oggi, nell’immaginario collettivo, il
massimo profeta.7
Nel lavoro di ricerca Smith adottava un approccio pluralistico: il suo giudizio era «insieme
morale, storico ed economico»;8 non ci si doveva dimenticare che egli era l’autore tanto della
Ricchezza delle nazioni quanto della Teoria dei sentimenti morali, e come tale – nella duplice veste
di filosofo ed economista – era conosciuto già a fine Settecento in tutta Europa, Italia compresa.9
Questa caratteristica lo rendeva capace di mettere in comunicazione ambiti teorici diversi, tanto che
spesso, dopo aver lavorato su «fatti storicamente constatati ed economicamente analizzati», si
5 Germanofili ed anglofili, «La Riforma Sociale», XXIII, vol. XXVII, 1916, n. 4, poi in Id., Gli ideali di un economista,
Firenze, Edizioni de La Voce, 1921, p. 153. 6 Dei libri italiani posseduti da Adamo Smith, di due sue lettere non ricordate e della sua prima fortuna in Italia , «La
Riforma Sociale», XL, vol. XLIV, 1933, pp. 203-218; Di una prima stesura della ‘Ricchezza delle Nazioni’ e di alcune
tesi di Adamo Smith intorno alle attribuzioni dei frutti del lavoro, «Rivista di storia economica», III, 1938, pp. 50-60;
ora riprodotti in Id., Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 1953, pp. 71-101. Einaudi si era anche occupato della più importante letteratura dedicata all’opera
smithiana: cfr. ivi, pp. 102-115. 7 Cfr. Di una prima stesura della ‘Ricchezza delle Nazioni’, cit., pp. 96-101.
8 Ivi, p. 101.
9 Cfr. Dei libri italiani posseduti da Adamo Smith, cit., pp. 77-88.
3
rivolgeva al «moralista tanto vivo in lui», sollecitando un confronto tra il piano etico e quello
economico.10
Molto in comune Einaudi riteneva di avere anche con John Stuart Mill. E, in effetti, persino a
un esame non troppo approfondito, si riscontrano numerose somiglianze: entrambi illustri
economisti, attenti osservatori del socialismo e del movimento operaio,11
uomini politici insigniti di
alte cariche istituzionali12
e autorevoli rappresentanti della tradizione liberale europea.13
In
particolare, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, Einaudi trasse ispirazione dalla
concezione antagonistica del progresso e della libertà avanzata da Mill. Così nel 1925, quando
Mussolini – con il celebre discorso del 3 gennaio – si era fatto carico della responsabilità del delitto
Matteotti e l’Aventino, cui egli non aveva comunque aderito, si stava risolvendo in un nulla di fatto,
Einaudi utilizzò appieno le tesi di Mill, tributandogli un esplicito ed altamente significativo
omaggio. Gobetti pubblicò una nuova edizione italiana di On Liberty con una ispiratissima
prefazione dello stesso Einaudi, nella quale egli incitava gli italiani a non cedere di fronte alla
dittatura incombente:
Sillabo, conformismo, concordia, leggi regressive degli abusi della stampa sono sinonimi
ed indice di decadenza civile. Lotte di parte, critica, non conformismo, libertà di stampa
preannunciano le epoche di ascensione dei popoli e degli Stati. Gli anni di forzato consenso da
cui stiamo faticosamente uscendo hanno fatto nuovamente apprezzare agli italiani il diritto ed il
vantaggio della discordia. Essi sentono che la libertà non è semplice strumento ma fine comune
dal cui raggiungimento dipendono gli altri fini civili, politici e spirituali della vita. Ma, forse,
questo è ancora più un sentimento che una convinzione profonda. Il saggio del Mill, che i nostri
vecchi prediligevano, ritorna dunque dinnanzi agli italiani nel giusto momento dell’ansiosa
ricerca del fondamento e dei limiti dell’idea di libertà.14
La prima funzione di uno Stato liberale degno di tal nome consisteva precisamente nella tutela
del diritto al dissenso, alla critica, alla messa in discussione di qualsiasi idea e provvedimento; e il
fascismo andava combattuto a partire da questa base, per riconsegnare agli italiani «il diritto ed il
vantaggio della discordia».
In ambito prettamente economico, Einaudi si considerava debitore, e in un certo senso
continuatore, della scuola italiana di economia pura e di scienza delle finanze. Egli considerava
10
Di una prima stesura della ‘Ricchezza delle Nazioni’, cit., p. 101. 11
Cfr. J. S. Mill, On socialism, edited by R. M. Baird and S. E. Rosenbaum, Amherst N. Y., Prometheus Books, 1987 e
L. Einaudi, Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti Editore, 1924 (2° ed. a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1972). 12
J. S. Mill, Public and parliamentary speeches, in ID., Collected works, voll. XXVIII-XXIX, edited by J. M. Robson
and B. L. Kinzer, Toronto, University of Toronto Press – London, Routledge and Kegan, 1988; L. Einaudi, Interventi e
relazioni parlamentari, 2 voll., a cura di S. Martinotti Dorigo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1980-1982. 13
Basti pensare allo spazio loro dedicato nella manualistica; cfr., ad es., G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, 2°
ed., Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 217-242 (Mill) e 272-281 (Einaudi). 14
Prefazione a J. S. Mill, La libertà, Torino, Piero Gobetti Editore, 1925, pp. vii-viii.
4
infatti Maffeo Pantaleoni e Antonio De Viti de Marco alla stregua di veri e propri maestri;
d’altronde i due «furono i fondatori dell’indirizzo ‘puro’ della finanza in Italia».15
Ma non è questa
l’unica ragione dell’ammirazione di Einaudi. Pantaleoni rappresentava il prototipo dell’economista
puro, allo stesso tempo anticipatore e continuatore, con i suoi Principi di economia pura (1889),
dell’indirizzo marshalliano.16
In questo, oltre che nel campo della storia delle dottrine economiche,
Einaudi lo preferiva decisamente a Pareto, del quale si atteggiava «convintamente quasi a discepolo
suo» pur essendogli «di tanto superiore».17
Ancora nel 1950 Einaudi ripeteva il medesimo giudizio:
Da lui massimamente, e metto lui prima di Pareto, sia perché egli venne prima
nell’arringo teorico, sia perché egli, tuttoché si professasse minore e quasi allievo dell’altro
grande, era in verità il maestro di tutti, fu dimostrato che le scienza economica altro non è che
una logica. Se vi fosse chi sfrondasse i Principii dalla veste utilitaristica, si vedrebbe che essi
altro non sono se non un moderno Euclide economico; su cui dovrebbero macerarsi i giovani
per imparare a ragionar chiaramente nei fatti della vita quotidiana.18
Non meno avaro di elogi Einaudi fu nei confronti di De Viti de Marco, cui lo legava un
amichevole rapporto coltivato in lunghi anni di incontri e di corrispondenza.19
Einaudi riconosceva
a De Viti il merito di aver elaborato il miglior schema allora disponibile per l’analisi della finanza
pubblica, avendo avuto l’idea di «trasportare nel campo dell’economia pubblica le due ipotesi della
concorrenza e del monopolio che nella economia privata erano servite ad ordinare chiaramente e
spiegare tanti fatti». Ciò lo aveva condotto ad elaborare «da un lato l’ipotesi dello stato
monopolistico, nel quale imposte e spese pubbliche sono ordinate allo scopo di procacciare il
massimo guadagno a prò del capo o gruppo dominante» e «dall’altro, l’ipotesi dello stato
cooperativo, nel quale l’ordinamento finanziario mira allo scopo di procacciare, col minimo di
sacrificio per i contribuenti, quel risultato che ai cittadini liberamente legiferanti a mezzo dei loro
delegati piaccia di deputare vantaggioso».20
Su questa base così ricca, eterogenea e cospicua, Einaudi andò quindi a edificare la propria
visione della società, dell’economia e della politica.
§ 3. La lotta per le libertà
15
R. Faucci, Einaudi, Torino, UTET, 1986, p. 120. 16
Cfr., ad es., L. Einaudi, La ristampa dei ‘Principii’ di Pantaleoni, «La Riforma Sociale», XXXVIII, vol. XLII, 1931,
pp. 527-529, poi in Id., Saggi, cit., pp. 355-359. 17
L. Einaudi, Prefazione ad A. De Viti de Marco, Principi di economia finanziaria, Torino, Einaudi, 1934, p. xv. 18
La scienza economica. Reminiscenze, in Cinquant'anni di vita intellettuale italiana (1896/1946). Scritti in onore di
Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli, Edizioni scientifiche
italiane, 1950, p. 99. 19
Cfr. Carteggio Einaudi-De Viti de Marco (1899-1939), AFLE, Fondo Luigi Einaudi, fasc. Antonio De Viti de Marco. 20
La scienza economica. Reminiscenze, cit., p. 105.
5
Einaudi partiva da una concezione antagonistica della natura umana e della società. In altri
termini, a suo avviso gli individui – cellula base di qualsiasi organizzazione sociale – erano sempre
tesi a dare il meglio di sé quando potevano esprimersi liberamente e autonomamente. Da qui, la
convinzione che il dibattito, il contrasto, la lotta tra ideali e stili di vita diversi costituissero il
motore, o almeno uno dei motori, del progresso e del miglioramento delle condizioni morali e
materiali degli uomini. Una visione che, sebbene diffusa all’interno del panorama liberale – Einaudi
stesso l’aveva mutuata, come già accennato, soprattutto da Mill – egli declinò però con indubbia
originalità.
Già nel 1920, in un saggio dedicato all’esame critico delle tendenze conformistiche insite nel
collettivismo, Einaudi dichiarava che «il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la
varietà ed il contrasto»21
e sosteneva, di conseguenza, che la tendenza verso l’uniformità
rappresentasse un fattore di decadenza, piuttosto che di progresso:
L’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo è una vana chimera, è l’aspirazione di chi
ha un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa
idea ed anelassero verso il medesimo ideale. Egli una sola cosa non vede: che la bellezza del suo
ideale deriva dal contrasto in cui esso si trova con altri ideali che a lui sembrano più brutti, dalla
pertinacia con cui gli altri difendono il proprio ideale e dalla noncuranza con cui molti guardano
tutti gli ideali. Se tutti lo accettassero, il suo ideale sarebbe morto. Un’idea, un modo di vita che
tutti accolgono, non vale più nulla. […] L’idea nasce dal contrasto. Se nessuno vi dice che avete
torto, voi non sapete più di possedere la verità. Il giorno della vittoria dell’unico ideale di vita,
la lotta ricomincerebbe, perché è assurdo che gli uomini si contentino del nulla. No. Gridiamolo
alto. La vita disordinata, affannosa, antiunitaria, antidisciplinata, che noi conduciamo pare
insopportabile a noi che ne soffriamo i duri contraccolpi individuali, economici e morali. Parrà
bellissima alle venture generazioni, le quali godranno i frutti delle verità politiche, economiche
e morali che i contrasti odierni avranno fatto trionfare.22
In tale filosofia vanno rintracciate le ragioni del famosissimo motto einaudiano «l’impero
della legge come condizione dell’anarchia degli spiriti»:23
una cornice giuridica progettata per
consentire agli individui di sviluppare, nel rispetto dell’eguale diritto altrui, convinzioni e stili di
vita vari e tra loro contrastanti.
Ragioni analoghe stanno alla base di un saggio giustamente famoso, composto sul finire del
1923 per La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti e successivamente ristampato in veste di
prefazione alla celebre raccolta Le lotte del lavoro: si tratta de La bellezza della lotta. Einaudi
dichiarava apertamente «la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e, in
21
Verso la città divina, «Rivista di Milano», III, vol. VII, 1920, n. 36, ora in Id., Il Buongoverno. Saggi di economia e
politica 1897-1954, a cura di E. Rossi, Roma-Bari, Laterza, 1973, vol. I,, p. 34. 22
Ivi, pp. 34-35. 23
Ivi, p. 37.
6
questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere e a perfezionarsi»;
in campo economico, ciò veniva testimoniato dall’esempio del «socialismo sentimento…che ha
fatto alzare la testa agli operai…e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a
discutere, a leggere».24
In base a queste premesse, Einaudi delineava inoltre i profili assai differenti
del socialismo e del liberalismo:
Tanti sono socialisti senza saperlo, come tanti che si dissero socialisti o furono a capo di
movimenti operai contro gli industriali erano di fatto puri liberali. Un industriale è liberale in
quanto crede nel suo spirito di iniziativa e si associa con i suoi colleghi per trattare con gli
operai o per comprare o vendere in comune; è puro socialista quando chiede allo stato dazi
protettivi. L’operaio crede nella libertà ed è liberale quando si associa ai compagni per creare
uno strumento comune di cooperazione o di difesa; è socialista quando invoca dallo stato un
privilegio esclusivo a favore della propria organizzazione, o vuole che una legge o una sentenza
del magistrato vieti ai crumiri di lavorare. Liberale è colui che crede nel perfezionamento
materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare
d’accordo con altri; è socialista colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza, che lo
esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza
privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi.25
Come si può agevolmente notare, i toni e le posizioni espresse non sono per nulla distanti da
quelle rintracciabili in Verso la città divina, risalente a tre anni prima. E tuttavia Einaudi si stava
scagliando contro un nuovo bersaglio polemico: la dottrina corporativista della collaborazione di
classe. Essa consisteva semplicemente in «una nuova formulazione, con linguaggio mutato, di
teorie le quali si sono di volta in volta sforzate di ritrovare l’unità perduta» tra mondo del capitale e
del lavoro, senza riuscire ad evitare l’errore di «negare il diritto all’esistenza dei rivali sconfitti»,
mentre proprio allora occorreva «negare che l’equilibrio esistesse nel monopolio, nella soppressione
di diritto o di fatto degli avversari».26
Se era l’equilibrio la meta ricercata, occorreva che questa
ricerca si attenesse a quattro principi basilari; due dei quali, soprattutto, Einaudi considerava
fondamentali:
1) «è preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza
esteriore»;
2) «perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato ad ogni istante di non durare»27
.
Qui Einaudi pare portare alle estreme conseguenze le premesse di partenza. In effetti per
l’economista piemontese «l’equilibrio consiste in una successione di continui mai interrotti
perfezionamenti, attraverso a oscillazioni, le quali attribuiscono la vittoria ora a questa, ora a quella
24
La bellezza della lotta, «La Rivoluzione Liberale», II, 1923, n. 40, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. II, p. 523. 25
Ivi, p. 524. 26
Ivi, pp. 526, 528, 529. 27
Ivi, pp. 526, 528.
7
delle forze contrastanti»; una dialettica delle forze sociali che rappresentava, nella sua visione,
l’ordinamento più consono alla natura umana, la quale «è cosiffatta da repugnare alla lunga al
vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione
dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita».28
§ 4. Mercato e concorrenza
Parte del travaglio vitale era senz’altro costituito, per Einaudi, dal misurarsi nella
competizione economica. Dalla sua impostazione antagonistica discende infatti una particolare
visione del mercato e della concorrenza: il mercato, certo, è uno spazio entro il quale solitamente
vengono soddisfatte le preferenze dei consumatori alle condizioni più favorevoli – cosa che Einaudi
teneva in grande considerazione;29
ma il sistema basato sulla libertà di iniziativa consente
soprattutto agli individui di accedere il più autonomamente possibile a qualsiasi professione essi
desiderino intraprendere come strumento di autodeterminazione economica ed elevazione morale. Il
lavoro viene quindi concepito non solo come mezzo di sussistenza o di conquista del benessere, ma
come fonte di crescita e di gratificazione personale, una merce assai rara e preziosa, un bene da
tutelare.
Ecco dunque i pilastri del suo originale liberalismo economico, nel quale assumeva un ruolo
preponderante la difesa del pluralismo, inteso sia nel senso di varietà di stili di vita – e quindi di
professioni intraprese secondo le inclinazioni personali – sia nel senso di molteplicità di attori
economici presenti sul mercato. Il tutto veniva riassunto in una teoria complessiva nella quale
spicca l’interconnessione tra libertà civili, politiche ed economiche:
La libertà del pensare è dunque connessa necessariamente con una certa dose di liberismo
economico…La concezione storica del liberismo economico dice che la libertà non è capace di
vivere in una società economica nella quale non esista una varia e ricca fioritura di vite umane
vive per virtù propria, indipendenti le une dalle altre, non serve di un’unica volontà. In altri
termini, e per non lasciare aperta alcuna via al rimprovero di fa dipendere la vita dello spirito
dall’economia, lo spirito libero crea un’economia a se medesimo consona e non può creare
perciò un’economia asservita ad un’idea, qualunque essa sia, imposta da una volontà, per
definizione e per ragion di vita, intollerante di qualsiasi volontà diversa. Lo spirito, se è libero,
crea un’economia varia, in cui coesistono proprietà privata e proprietà di gruppi, di corpi, di
28
Ivi, p. 531. 29
Dopo aver precisato che «la concorrenza…è la salvaguardia del consumatore» poiché «il re del mondo economico, in
un libero mercato, è il consumatore ed egli ha, ministro ubbidiente, esecutore fedele dei suoi ordini, il prezzo» Einaudi
scrive in uno dei suoi libri più celebri e riusciti: «Chi non voglia trasformare la società intera in un’immensa caserma o
in un reclusorio, deve riconoscere che il mercato, il quale raggiunge…il risultato di indirizzare la produzione e di
soddisfare alla domanda effettiva dei consumatori, è un meccanismo che non può essere alla leggera fracassato per
vedere…come è fatto dentro. Esso merita invece di essere studiato attentamente per essere a poco a poco perfezionato»,
Lezioni di politica sociale (1944), a cura di F. Caffé, Torino, Einaudi, 19772, pp. 32, 231-232, 40-41.
8
amministrazioni statali, coesistono classi di industriali, di commercianti, di agricoltori, di
professionisti, di artisti, le une dalle altre diverse, tutte traenti da sorgenti proprie i mezzi
materiali di vita, capaci di vivere, se occorre, in povertà, ma senza dover chiedere l’elemosina
del vivere ad un’unica forza, si chiami questa stato, tiranno, classe dominante, sacerdozio
intollerante delle fedi diverse da quella ortodossa. Devono, nella società libera, o liberale,
l’individuo, la famiglia, la classe, l’aggruppamento, la società commerciale, la fondazione pia,
la scuola, la lega artigiana od operaia ricevere bensì la consacrazione della propria vita legale da
un organo supremo, detto stato; ma devono sentire e credere di vivere ed effettivamente vivere
di vita propria [poiché] senza la coesistenza di molte forze vive di linfa originaria non esiste
società libera, non esiste liberalismo.30
In questo passo sono presenti pressoché tutte le peculiarità del liberalismo di Einaudi: il
rimando alla dimensione morale, la centralità delle scelte operate dagli individui, l’imprescindibilità
della concorrenza, l’esigenza del più ampio pluralismo sociale, la predilezione per un sistema
politico nel quale l’esercizio del potere venga limitato dai corpi intermedi.
Nello specifico, l’economia di concorrenza appare una fedele proiezione della società liberale
– ancora meglio, dei valori liberali. Questa convinzione maturò ben presto in Einaudi, ma giunse ad
assumere carattere definitivo solo nel corso di un celebre dibattito che, dal 1928 al 1941, intrattenne
con il filosofo Benedetto Croce. In una serie di saggi e interventi risalenti agli anni 1924-1927
Croce aveva delineato la propria concezione del liberalismo sino a giungere, nel 1931, a negare che
esistesse alcun legame tra libertà politica e libertà economica:
Come oramai dovrebbe essere pacifico, il liberalismo non coincide con il cosiddetto
liberismo economico, con il quale ha avuto bensì concomitanze e forse ne ha ancora, ma sempre
in guisa provvisoria e contingente, senza attribuire alla massima del lasciar fare e lasciar passare
altro valore che empirico, come valida in certe circostanze e non valida in circostanze diverse.
Perciò né esso può rifiutare in principio la socializzazione…né l’ha poi sempre rifiutata nel
fatto…e solamente esso la riprova e la contrasta in casi e dati particolari, quando è da ritenere
che arresti o deprima la produzione della ricchezza e giunga al contrario effetto, non di un
eguale miglioramento economico dei componenti di una società, ma di un impoverimento
complessivo, che spesso non è neppure eguale; non di un accrescimento di libertà nel mondo,
ma di una diminuzione e di un’oppressione che è imbarbarimento o decadenza: giacché solo
nella capacità o meno di promuovere libertà e vita è il criterio di giudizio per qualsiasi riforma.31
Ad esempio se, come voleva il comunismo ottocentesco, abolendo la proprietà privata dei
mezzi di produzione si fosse assistito a un aumento della produzione – e quindi della ricchezza – e
soprattutto ad un’ulteriore espansione della libertà, «il liberalismo non potrebbe se non approvare e
invocare per conto suo quella abolizione».32
30
Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, «La Riforma
Sociale», XXXVIII, vol. XLII, 1931, nn. 3-4, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, pp. 228-229. 31
Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1993, pp. 48-49. 32
Ivi, p. 50.
9
A conclusioni così discutibili Einaudi rispose con alcune riflessioni che andavano nella
direzione di istituire un legame indissolubile tra liberalismo e liberismo. Si poteva davvero ottenere,
anche solo a livello teorico, una maggiore libertà individuale impiegando mezzi propri del
collettivismo? O meglio, nelle parole di Einaudi, «un liberalismo il quale accettasse l’abolizione
della proprietà privata e l’instaurazione del comunismo», potrebbe ancora chiamarsi liberalismo? La
risposta era negativa, in virtù delle caratteristiche specifiche del regime collettivistico:
Una sola deve essere la volontà la quale dirige e fissa la produzione e la distribuzione dei
beni economici. […] Essenziale alla vita del sistema è che gli strumenti d’azione non abbiano
una volontà propria, diversa ed indipendente da quella dello stato e del gruppo politico in cui lo
stato si impersona. […] Se la volontà è unica e la società collettivistica è perfetta, non può non
esistere se non una sola ideologia, un solo credo spirituale. Non sono tollerabili ideologie
concorrenti, eresie le quali sono altrettante forze indipendenti, le quali intendono
necessariamente a distruggere ed a sostituire la ideologia dominante; forze assai più efficaci di
quelle materiali o formali perché aventi radice nello spirito. Il comunismo non può dunque
tollerare la libertà di pensiero, che lo trasformerebbe e minerebbe a breve andare.33
Cosa significava tutto ciò? Che tra libertà economica e libertà spirituale esistevano legami più
stretti di quanto avesse pensato Croce. La conclusione era che il liberalismo non avrebbe potuto
«assistere concettualmente all’avvento di un assetto economico comunistico, come pare ammetta il
Croce», poiché comunismo e libertà individuale erano tout court incompatibili.
Lo erano anche perché nei regimi comunisti sarebbe mancata una caratteristica peculiare delle
società libere e prospere: una forte propensione al risparmio. Per Einaudi la necessità del risparmio
corrispondeva addirittura a un particolare tipo antropologico, caratteristico dell’uomo ‘civilizzato’:
Il cosiddetto incivilimento è caratterizzato, dal punto di vista economico, dal prevalere
del senso della previdenza, della preoccupazione dell’avvenire, dei calcoli per il futuro lontano,
dell’egoismo di specie sul senso del presente, del godimento immediato, dell’egoismo
individuale. Vi è una distanza straordinaria fra l’uomo selvaggio e l’uomo civile, fra chi non
concepisce l’idea del domani e chi subordina il presente all’avvenire. Si può asserire che a mano
a mano che il senso della previdenza si diffonderà tra gli uomini e diventerà quasi universale,
riducendo ad una proporzione decrescente e piccola il numero degli imprevidenti, degli
scialacquatori, nella stessa misura il saggio dell’interesse tenderà a scemare e ad avvicinarsi a
zero.34
Il risparmio veniva dunque visto non solo come virtù economica, quanto come scelta morale.
Quella stessa scelta che portava gli individui a lottare per vedere affermato il valore assoluto della
libertà, che si incarna sia nel «bisogno di libertà del contadino, del mercante, dell’artigiano,
33
Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, cit., pp. 226-
227. 34
Il socialismo e il risparmio, «Energie Nove», II, 1919, n. 4, ora in Id., Le lotte del lavoro, a cura di P. Spriano,
Torino, Einaudi, 1972, pp. 101-102.
10
dell’industriale, del professionista, dell’artista», sia «nel bisogno del pensatore di meditare
liberamente…del religioso di predicare il proprio verbo…dell’uomo in genere di possedere la
uguaglianza giuridica con ogni altro uomo». Tutte queste espressioni di libertà, per Einaudi, «sono
l’una all’altra legate» e rimandano all’essenza più intima della natura umana:
La mia tesi torna, dunque, sempre al medesimo punto: l’idea della libertà vive, sì,
indipendente da quella norma pratica, contingente, che si chiamò liberismo economico; ma non
si attua, non informa di sé la vita dei molti e dei più se non quando gli uomini, per la stessa
ragione per cui vollero essere moralmente liberi, siano riusciti a creare tipi di organizzazione
economica adatti a quella vita libera.35
§ 5. I confini della libertà economica
Ciò non significa, tuttavia, che l’economia di mercato potesse considerarsi un microcosmo
autosufficiente. Al contrario, Einaudi riteneva che solo in presenza di determinati presupposti extra-
economici il mercato avrebbe potuto produrre output positivi per l’intera società. Occorreva,
insomma, costruire una cornice etico-giuridica capace di creare l’humus adatto allo sviluppo della
libera iniziativa e, al medesimo tempo, di contenerne le spinte maggiormente distruttive:
Nel regime liberistico la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; ed i vincoli
possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più
complicata diventa la struttura economica. La legge, ossia non il governo o potere
amministrativo, bensì la norma discussa apertamente, largamente, in seguito a pubbliche
inchieste, con interrogatori pubblici di tutti gli interessati e di tutti coloro i quali reputino di aver
qualcosa da dire in argomento; la legge fatta osservare da magistrati ordinari, indipendenti dal
governo, e posti al di fuori e al disopra dei favori di governo. E questa non è, evidentemente,
una via regia o dritta o rapida o sicura verso il benessere, verso la felicità, verso il bene. Anzi,
tutto il contrario. E’ via lunga, ad andate e ritorni, piena di trabocchetti e di imboscate, faticosa
ed incerta. E’ tale perché non può essere diversa; perché gli uomini debbono fare esperimenti a
proprio rischio, debbono peccare e far penitenza per rendersi degni del paradiso; perché essi non
si educano quando qualcuno si incarica per decidere per loro conto e per loro nome quel che
debbono fare e non fare; ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere
decisioni sotto la propria responsabilità.36
La costruzione di un sistema così complesso, nel quale determinati valori avrebbero costituito
la base del tessuto economico e politico, comportava una certa revisione degli stessi ideali liberali, a
partire dalla rivisitazione dei rapporti tra morale ed economia. Einaudi aveva intrapreso questo
cammino sin dalla metà degli anni trenta, ma lo accelerò notevolmente una volta stabiliti i contatti
35
Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo economico, «Rivista di storia economica», II, 1937, n. 2, ora in
B. Croce – L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di G. Malagodi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, pp. 147, 150. 36
Intorno al contenuto dei concetti di liberismo, comunismo, interventismo e simili, «Argomenti», I, 1941, n. 9, ora in
Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, pp. 289-290.
11
con l’economista tedesco Wilhelm Röpke (1899-1966). Questi aveva elaborato una proposta
organica di riforma della dottrina liberale – da lui etichettata come ‘terza via’ – in grado di superare
«l’infeconda alternativa tra il laissez-faire e il collettivismo».37
Röpke immaginava una sintesi neo-
liberale lontana tanto dall’intessere un’apologia del capitalismo monopolistico, come a suo avviso si
era ridotto a fare il liberalismo ufficiale, quanto dal rispondere al richiamo delle sirene socialiste e
stataliste in genere.38
L’interesse di Einaudi per il suo lavoro era talmente forte che non solo recensì
il capolavoro del collega, Die Gesellschaftskrisis den Gegenwart (La crisi sociale del nostro tempo)
pubblicato nel 1942, ma nel 1946 ne fece addirittura realizzare una traduzione italiana pubblicata
dalla casa editrice di suo figlio Giulio.
Einaudi trovò particolarmente attraente la prospettiva röpkiana anche perché egli stesso ne
aveva ampiamente anticipato alcuni punti essenziali. Temi quali il ritorno alla terra e alla natura,
l’esaltazione delle libere professioni e delle piccole unità produttive, la diffusione capillare della
proprietà ricorrono molto spesso nella sterminata produzione scientifica e pubblicistica einaudiana.
D’altra parte, è anche vero che solo in questo frangente egli decise di intraprendere uno studio
minuzioso della ratio dei sistemi economici, accompagnandolo a un attento esame della psicologia
degli attori sociali. Sebbene vi fossero certamente ragioni economiche e sociologiche per ritenere
necessaria una limitazione dell’ambito della concorrenza, assai più importanti per Einaudi erano
quelle morali. Egli pareva condividere la condanna promulgata da Röpke nei confronti del
‘capitalismo storico’, ritenendo che troppo spesso si fosse data per scontata l’autosufficienza del
mercato. La realtà, tuttavia, si era dimostrata ben diversa e di questo non si erano accorti in tempo
utile i protagonisti della vita istituzionale, pur deputati a realizzare adeguate restrizioni di carattere
normativo e amministrativo all’attività economica:
Gli uomini del secolo passato supposero che bastasse lasciar agire gli interessi opposti
perché dal loro contrasto nascesse il vantaggio comune. No, non basta. Se si lascia libero gioco
al laissez-faire laissez-passer, passano soprattutto gli accordi e le sopraffazioni dei pochi contro
i molti, dei ricchi contro i poveri, dei forti contro i deboli, degli astuti contro gli ingenui. Ma
questa, che è critica distruttiva del liberalismo storico, impone soltanto un ritorno alle origini
pure del sistema di concorrenza. Questo implica altrettanto e forse maggior intervento di
qualunque altro sistema economico; intervento destinato a serbare intatta l’azione della
concorrenza, unica vera forza che dal contrasto degli interessi fa sprigionare l’osservanza
dell’interesse comune.39
37
W. Röpke, La crisi sociale del nostro tempo (1942), trad. it. di E. Bassan, Roma, Einaudi, 1946, p. 32. 38
Per una sintesi del pensiero di Röpke si veda J. Zmirak, Wilhelm Röpke. Swiss Localist, Global Economist,
Wilmington (Del.), Isi Books, 2001. 39
Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, «Rivista di storia economica»,
VII, 1942, n. 2, p. 64.
12
Questa non era l’unica ragione per mettere mano alla regolazione del processo economico. Se
si voleva salvaguardare la possibilità degli individui di godere della libertà economica, e quindi di
accedere liberamente al mercato, occorreva porre degli argini al mercato stesso poiché, come
scriveva a un suo celebre corrispondente, «se non si creano delle oasi franche dalla concorrenza,
uccidiamo quella stessa concorrenza che è desiderabile come norma generale».40
Che di queste oasi franche vi fosse bisogno ci si poteva rendere conto semplicemente
osservando il disagio manifestato da molti uomini, sintomo di una lacerazione così profonda da
minacciare di distruggere le basi stesse della comunità:
Gli uomini non vogliono durare tutta la vita nell’incessante fatica della emulazione; gli
uomini non vogliono, per vivere, fare appello ogni giorno al bullettino di voto del consumatore.
Od almeno, molti uomini hanno altri ideali di vita. […] Non tutti gli uomini hanno l’anima del
soldato o del capitano disposti ad ubbidire od a lottare ogni giorno quant’è lunga la vita. Molti,
moltissimi, forse tutti in un certo momento della vita o in dati momenti di ogni giorno della vita
sentono il bisogno di riposo, di difesa, di rifugio. Vogliono avere un’oasi dove riposare,
vogliono sentirsi per un momento difesi da una trincea contro l’assillo continuo della
concorrenza, dell’emulazione, della gara. […] L’economia di concorrenza vive e dura, data
l’indole umana, solo se essa non è universale; solo se gli uomini possono, per ampia parte della
propria attività, trovare un rifugio, una trincea contro la necessità continua della lotta emulativa,
in che consiste la concorrenza. Il paradosso della concorrenza sta in ciò, che essa non
sopravvive alla sua esclusiva dominazione. Guai al giorno in cui essa domina incontrastata in
tutti i momenti e in tutti gli aspetti della vita. La corda troppo tesa si rompe41
.
Certo siamo piuttosto distanti, almeno apparentemente, dall’Einaudi cantore della lotta e
fautore di un liberalismo antagonistico ispirato a Humboldt e Mill. Tali riflessioni vanno tuttavia
contestualizzate, poiché a prima vista potrebbe sembrare che contraddicessero quanto egli aveva
sostenuto nel corso del lungo dibattito con Croce. Einaudi aveva giustificato la necessità della
libertà economica, e quindi dell’economia di mercato che ne incarnava l’applicazione concreta, in
base ad un principio morale, ossia la possibilità di elevazione materiale e spirituale dell’individuo.
Gli individui non sarebbero stati in grado di sviluppare le proprie personalità senza la possibilità di
disporre liberamente di sé anche nel campo economico. Per crescere in maniera sana, la società
necessitava che ai membri di essa fosse concesso di dar vita alla maggior varietà possibile di
comportamenti, naturalmente sempre nei limiti del rispetto della eguale libertà altrui. L’economia di
mercato rappresentava uno dei mezzi ideali per conseguire tale fine. Ma proprio per le medesime
ragioni occorreva porre dei limiti al processo economico tutte le volte in cui esso minacciava di
vanificare lo scopo per il quale era stato prescelto, promuovendo modi di produzione incompatibili
40
Luigi Einaudi a Ernesto Rossi, 10 luglio 1942, in Idd., Carteggio, (1925-1961), a cura di G. Busino e S. Martinotti
Dorigo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1986, p. 104. 41
Economia di concorrenza e capitalismo storico, cit., pp. 66-67.
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con le fondamenta morali della società e portatori di povertà e conformismo. Per un fautore del
liberalismo, dunque, invocare l’adozione di limiti alla concorrenza si rivelava perfettamente
legittimo, dal momento che gli effetti del trionfo generalizzato della concorrenza avrebbero
frantumato lo stesso sistema liberale.42
Einaudi ribadì queste profonde convinzioni anche quando, a partire dalla metà del 1944, in
compagnia di tanti altri antifascisti stava iniziando a pensare alla ricostruzione dell’economia
italiana, una volta terminata la guerra e sconfitta la dittatura fascista. Nel programma dei liberali
avrebbe dovuto trovar posto «la lotta contro la plutocrazia e il latifondo», concetto che però andava
correttamente inteso: «non la lotta contro l’industriale che tenta nuove vie, che organizza meglio
l’impresa, che accresce la produzione in modo remunerativo in libera competizione con tutti i
concorrenti», bensì «la lotta a fondo contro tutti coloro che hanno chiesto i mezzi del successo ai
privilegi, ai monopoli naturali ed artificiali, alla protezione doganale, ai divieti» –misure mirate
principalmente «ad innalzare le masse e di renderle degne e capaci di prendere parte al governo
economico della società» accanto a un ceto medio nuovamente rinvigorito.43
Per attuare questo
programma i liberali non avrebbero dovuto che fare appello al proprio patrimonio concettuale,
senza alcuna necessità di concedere alcunché ai socialisti e agli statalisti in genere.44
Lo Stato
liberale, infatti, aveva il dovere di garantire a tutti i cittadini la più ampia uguaglianza nei punti di
partenza, al fine di ridurre le ineguaglianze ereditate dal passato e di permettere a coloro i cui
«genitori non riescono a consentire ad essi di partecipare alla gara della vita senza troppo grave
soma iniziale» di ottenere «quel minimo che sia indispensabile affinché essi non siano costretti ad
accettare subito quelle qualsivoglia più basse occasioni di lavoro che ad essi si presentano e possano
attendere a fare la scelta di lavoro considerata meglio conforme alle loro attitudini».45
Il modello di
42
Come scriveva, ancora una volta, a Rossi, «una delle idee più belle di quel libro tedesco di cui pubblicherò la
recensione è che gli istituti economici sono resi caduchi dalla loro logica, piena applicazione. L’istituto della
concorrenza – e cito questo perché è quello di cui si occupa quel libro – può durare perché e se ad esso sono messi limiti
tali da garantire agli uomini campi chiusi alla concorrenza», L. Einaudi a E. Rossi, 10 luglio 1942, ora in Idd.,
Carteggio, cit., p. 104. 43
Lineamenti di una politica economica liberale, Roma, Movimento Liberale Italiano, 1943, ora in Id., Riflessioni di un
liberale sulla democrazia, cit., pp. 8-11. 44
«Se i Galiani, i Verri, gli Smith, i Turgot, oggi rivivessero, essi, i grandi liberali del secolo XVIII, non esiterebbero a
sottoscrivere quel che è scritto contro i plutocrati, contro i latifondisti, a pro’ della legislazione sociale e delle
associazioni operaie e contadine e a favore di un sistema tributario il quale promuova il risparmio e attenui, senza
giungere al mortifero livellamento, la disparità delle fortune. […] Dal loro pensiero i liberali hanno ben diritto di
dedurre, pur senza mescolare scienza e politica, i lineamenti essenziali della loro politica economica. […] Se vogliamo
salvarci dallo stato onnipotente ed onnipresente, dallo stato leviatano e tirannico, occorre siano ben definiti i limiti tra la
proprietà pubblica e quella privata e che questa sia limitata e regolata dall’impero della legge, non mai dall’arbitrio di
chi comanda, anche se tragga le ragioni del comando da elezioni. Solo a questa condizione, noi possiamo auspicare e
fermamente credere nell’avvento di una società in cui l’incremento della proprietà pubblica presupponga quello della
proprietà privata e al tempo stesso non possa crescere la ricchezza privata se non cresca, almeno nella stessa misura la
ricchezza pubblica», Prefazione a Lineamenti di una politica economica liberale, 2° ed., Roma, Partito Liberale
Italiano, 1945, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., pp. 6-7. 45
Lezioni di politica sociale, a cura di F. Caffè, Torino, Einaudi, 1977, p. 250.
14
mercato che sarebbe risultato da questo lavorio avrebbe assolto al meglio il compito di permettere
l’elevazione e l’autodeterminazione della maggior parte degli individui e delle famiglie.
Ma c’è di più: l’economia di concorrenza costituiva anche un efficacissimo contropotere in
grado di limitare la volontà di maggioranze intolleranti o di tiranni ben poco disposti a concedere
autonomia alla società civile. Questo punto rimandava direttamente alla concezione einaudiana
dello Stato liberale, che da lungo tempo stava coerentemente sviluppando.
§ 6. Lo Stato liberale
In compagnia di molti altri, liberali e non, Einaudi nutriva un certo scetticismo nei confronti
della democrazia di massa, originata dal suffragio universale e dal ruolo sempre più cruciale
ricoperto dai partiti politici. Ecco perché riteneva essenziale che la struttura istituzionale
incorporasse una nutrita serie di contropoteri e garanzie, necessarie per salvaguardare le libertà dei
cittadini mediante una attenta limitazione del potere politico – e dell’impatto della sfera pubblica
sulla società civile.
Già di fronte al fascismo imperante Einaudi aveva rivendicato la validità assoluta dei principi
fondamentali del costituzionalismo liberale classico:
Lo stato demo-liberale, il quale affida i poteri legislativo ed esecutivo ai designati della
maggioranza di un parlamento scelto da un suffragio, universale o larghissimo, di uomini
votanti nella loro indistinta qualità di cittadini, crea la propria classe politica col seguente
congegno:
- libertà illimitata di discussione per cui ogni uomo può colla parola e collo scritto cercare di
dimostrare l’errore o l’insufficienza delle idee e dei propositi di ogni altro uomo, il quale aspiri
a partecipare alla vita pubblica;
- assenza di qualunque posizione acquisita personale; per cui ognuno, il quale sia giunto ad alta
posizione politica sia sempre soggetto ad essere scalzato da un qualunque nuovo venuto, il quale
sappia meglio cattivarsi il favor popolare;
- assenza di qualunque posizione acquisita da parte dei grandi gruppi di interessati. Se gli
industriali, se gli agricoltori, se gli intellettuali, se i contadini o gli operai vogliono far sentire la
loro voce, debbono agire per mezzo dello strumento discussione. Debbono, cioè, organizzarsi,
parlare, agitarsi per attrarre a sé gli elettori; per dimostrare che i loro interessi meritano
attenzione o tutela.46
Una funzione centrale non veniva attribuita solo alla classe politica – e vedremo nel prossimo
paragrafo quanto la formazione di tale classe fosse fondamentale per Einaudi – ma anche e
soprattutto al rispetto delle procedure e dei limiti posti dall’eguale libertà dei contendenti alla
conquista del potere. Nondimeno, anche quando fossero state rispettate tutte le procedure prescritte
46
Stato liberale e stato organico fascista, «Corriere della Sera», 16 agosto 1924, ora in Id., Cronache economiche e
politiche di un trentennio, vol. VII, Torino, Einaudi, 1965, pp. 794-795.
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a garanzia delle libertà di ognuno, uno Stato liberale degno di questo nome non avrebbe dovuto
intromettersi troppo nelle scelte dei cittadini. Einaudi delineava infatti un modello statuale nel quale
il pluralismo sociale ed economico avrebbe dovuto garantire gli indispensabili spazi di libertà
pubblica e privata. Un concetto che venne ulteriormente ribadito in un lungo brano risalente al
1925, che sembra utile riportare per esteso:
Lo stato liberale non è agnostico, né in materia di fede, né in materia economica o morale.
Esso ha una dottrina e in base a questa dottrina agisce. Quando lo stato si astiene
dall’intervenire nelle controversie religiose e non vuole sancire la supremazia di una chiesa sulle
altre, ciò fa perché sua dottrina è che al senso del divino possa elevarsi solo la coscienza
individuale. Perché, così opinando, dovrebbe forzare la coscienza individuale ad una fede? o
non invece, come fa, mettere le coscienze individuali in grado di scegliersi e di crearsi quella
fede in cui meglio esse si adagiano? Perché dovrebbe, passando all’economia, lo stato sostituirsi
all’individuo, creare un’organizzazione paternalistica o comunistica della produzione o degli
scambi, quando invece è opinione, è principio dello stato liberale che l’individuo possa meglio
raggiungere il massimo vantaggio nella produzione e negli scambi agendo liberamente? Quando
così opera, lo stato liberale non è agnostico; ma conseguente al suo principio, ma logico nella
sua attuazione. Epperciò anche, se si persuade che l’individuo libero di agire sopraffà altrui e va
contro all’interesse collettivo, lo stato liberale non indugia a porre limiti alla libertà assoluta
degli individui. […] Sempre lo stato liberale agisce partendo dalla premessa, la quale è sua fede
e sua ragion d’essere, che l’individuo debba essere messo nelle migliori condizioni di sviluppare
la pienezza della sua personalità, per arricchire di nuovi beni, morali e materiali, se medesimo e
la collettività, per concorrere e collaborare, singolarmente ed associatamente, nelle forme più
svariate ed adatte ai singoli fini, con gli altri individui appartenenti alla medesima collettività.
Col perfezionarsi e col complicarsi della vita collettiva, crescono i limiti ed i vincoli all’azione
individuale; ma il loro crescere ha sempre per scopo di promuovere lo sviluppo intimo,
spontaneo della personalità umana. Il liberalismo si diversifica dal socialismo da una parte e
dall’autoritarismo dall’altro, perché queste due dottrine, sebbene opposte, concordano per ciò
che fanno dipendere il progresso umano da un impulso venuto dal di fuori, dall’organizzazione,
dal governo, dalla legge, impulso che preme sull’individuo e lo spinge ad innalzarsi; laddove la
dottrina liberale nega che l’impulso esterno sia efficace, e se consente allo stato, alla forza
esterna la capacità di fare qualcosa, questo qualcosa sta nel togliere gli impedimenti e nel creare
le condizioni, nel segnare le vie, nel marcare i passi entro cui ed attraverso a cui l’individuo
deve da sé trovare, col proprio intimo perfezionamento, collo sforzo faticoso, coll’esperienza
vissuta, attraverso a contrasti e ad insuccessi, in contrasto e in collaborazione con altri individui,
separati od associati, la via della salvezza. Negare la virtù del paternalismo, affermare la
fecondità della auto-educazione, vuol forse dire non avere una fede, una dottrina? Mai no. Vuol
dire anzi avere una fede virile, una dottrina maschia. Vuol dire credere ed agire affinché l’uomo
si innalzi, in società con altri uomini, ognora più in alto, verso un ideale divino.47
Lo Stato liberale nasceva con un innegabile fondamento individualistico; ma non si trattava
dell’individualismo atomistico evocato dai nemici del liberalismo, poiché descriveva un individuo
ben inserito nel tessuto sociale. Se, ancora una volta, il fine della concezione liberale risiedeva nella
garanzia del più ampio sviluppo delle capacità individuali, la struttura istituzionale – al pari di
quella economica – era a questo fine assoggettata e da esso complessivamente plasmata. Per
47
La dottrina liberale, «Corriere della Sera», 6 settembre 1925, ora in Id., Cronache economiche e politiche di un
trentennio, vol. VIII, Torino, Einaudi, 1965, pp. 461-462.
16
Einaudi, d’altronde, non esiste progresso senza lotta, senza che gli individui possano creare stili di
vita tra loro diversissimi e contrastanti. Ecco il principio che caratterizzava lo Stato liberale; quello
stesso principio che la dittatura fascista avrebbe di lì a poco liquidato in maniera definitiva.
Non diversamente, quando si trattò di ricostruire la democrazia italiana dopo il ventennio,
Einaudi mise in guardia rispetto all’opportunità di adottare un modello improntato alla democrazia
“pura” di stampo franco-tedesco. Ma se una delle principali funzioni attribuite allo Stato liberale era
la tutela del diritto al dissenso, alla critica, alla messa in discussione di qualsiasi idea e
provvedimento, come attuare concretamente un simile ordinamento? Tentando di rispondere a
questa domanda, Einaudi elaborò una singolare declinazione dei principi del costituzionalismo
liberale, incentrato sulla divisione dei poteri – tanto orizzontale (legislativo-esecutivo-giudiziario)
che verticale (centro-periferia) – e sulla necessità di rendere inviolabili, e intoccabili dal legislatore
ordinario, i diritti di libertà. Il suo progetto di organizzazione dei poteri è ben sintetizzato in questo
brano:
La fonte del potere politico è una sola: la volontà del popolo liberamente manifestata, nel
segreto dell’urna, per mezzo della scheda elettorale. […] Accanto al depositario della volontà
popolare, vi deve essere colui che la interpreta. Re ereditario o presidente eletto, egli non ha il
compito di governare, ma di accettare la designazione che gli elettori hanno implicitamente fatto
di colui il quale dovrà costituire il governo. […] Quando la volontà sia chiara, il primo ministro
sceglie i suoi colleghi. Naturalmente gli sceglie in guisa che essi rappresentino le varie correnti
della maggioranza, od, in caso di coalizioni, necessarie nelle ore gravi, sovrattutto di guerra, le
diverse opinioni esistenti in seno al parlamento. Ma la scelta è fatta a suo giudizio insindacabile,
perché i ministri da lui scelti costituiscono un gabinetto che deve governare solidarmente ed
unitamente. […] Rimane fermo il punto capitale: che la volontà popolare, attraverso alle
elezioni od a spontanee formazioni, designa l’uomo il quale riscuota la fiducia dei
parlamenti…ma il governo o gabinetto non può essere l’emanazione delle parti politiche singole
o associate. Un governo diretto di parlamenti o di gruppi politici è sinonimo di tirannia.
Parlamenti e gruppi politici designano e giudicano; non possono né devono governare.48
Un ruolo preponderante, comunque, avrebbe dovuto essere giocato dalle autonomie locali: per
Einaudi una delle priorità risiedeva nell’abolizione del prefetto, «questo simbolo della macchina
amministrativa accentrata, la quale ha fatto sì in passato e farà mai sempre in avvenire, sinché
durerà, che liberalismo e democrazia siano una turpe menzogna».49
L’istituto prefettizio, una
«lue…inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone», avrebbe vanificato qualsiasi velleità di
autogoverno – poiché «democrazia e prefetto repugnano profondamente l’una all’altro» – così da
rendere «elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, ministri responsabili …
48
Prime impressioni, «Risorgimento liberale», 13 dicembre 1944, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia,
cit., pp. 88-90. 49
Gerarchia nel programma, cit., p. 55.
17
una lugubre farsa».50
La centralizzazione avrebbe peraltro impedito la formazione di una classe
politica capace e responsabile, effetto indesiderato e, per Einaudi, addirittura intollerabile:
Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da sé la proprie
faccende locali…senza attendere il là o il permesso dal governo centrale. Così si forma una
classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. […] La classe politica non si forma da
sé, né è creata dal fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per
scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega la amministrazione
delle cose locali piccole; e poi via via quella delle cose nazionali od inter-statali più grosse. La
classe politica non si forma, tuttavia, se l’eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali
o regionali non è pienamente responsabile per l’opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a
lui ordini o di annullare il suo operato, l’eletto non è responsabile e non impara ad amministrare.
Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare appoggi. Dove non esiste il governo
di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?51
Il federalismo di Einaudi, che si inserisce a buon diritto nella tradizione liberale classica, si
arricchisce però di un ulteriore motivo. Egli ripeteva spesso che, per conservare un regime
realmente liberale, sarebbe risultata cruciale l’esistenza di numerosi centri di potere autonomi; ma
aggiungeva a questo ammonimento un’ulteriore considerazione, ossia che gli enti locali e le
associazioni dei cittadini non costituivano solo un efficace contropotere, ma anche luoghi di crescita
e di sviluppo della persona:
Perché vi sia governo libero occorre che gli uomini sentano di essere qualcosa di diverso
dagli altri uomini; che essi abbiano l’orgoglio di appartenere ad un comune, ad una comunità o
collegio di comuni, ad una regione…Importa che accanto agli enti territoriali vi siano ordini
professionali, associazioni artigiane, od operaie o contadine, camere di industriali, di
commercianti, di agricoltori. Importa che vi siano corpi di insegnanti, dai maestri elementari ai
professori di università… Fa d’uopo che esista un ordine giudiziario legato con la fonte del
potere…soltanto da un originario atto di nomina; ma in verità quell’ordine deve reclutarsi per
costume infrangibile anch’esso da sé…Se al tremendo pericolo della tirannia sempre imminente
nelle società industriali moderne, previsto e temuto più di un secolo fa dai grandi pensatori
politici che si chiamavano Alexis de Tocqueville e Jacob Burckhardt, vogliamo fuggire, importa
fare ogni sforzo per conservare e ricostruire e rafforzare le forze sociali e politiche indipendenti
dello stato leviathano: dar forza e vigoria alla persona umana, agli aggregati umani di cui
l’uomo fa veramente parte, la famiglia, la vicinanza, il comune, la comunità, la regione,
l’associazione di mestiere, di fabbrica, l’ordine o il corpo professionale, la chiesa. Gli uomini
hanno bisogno di non sentirsi isolati, atomo fra atomo, numero fra numero, tutti uguali, tutti
ugualmente sovrani e perciò tutti servi.52
In questa convinzione è possibile intravedere, tra l’altro, l’influenza del cattolicesimo liberale,
tradizione cui Einaudi prestò particolare attenzione dialogando con eminenti esponenti di essa, in
50
Via il prefetto!, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 17 luglio 1944, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, pp. 55-56. 51
Ivi., pp. 56-57. 52
Letteratura politica, «Idea», II, 1946, n. 3, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., pp. 195-196.
18
primo luogo il già citato Röpke. A differenza di molti pensatori cattolici, tuttavia, respingeva con
decisione l’impiego di un sistema elettorale proporzionale, colpevole di frammentare la
rappresentanza parlamentare e di non fornire maggioranze stabili ai governi. Tanto che in quei paesi
«nei quali il regime democratico si era meglio affermato…l’opinione pubblica era rimasta nella sua
grandissima maggioranza praticamente insensibile» ai tentativi di introdurre lo scrutinio su base
proporzionale, restando fedele al sistema del «piccolo collegio uninominale»,53
sistema che, pur non
rispettando le aspirazioni ad una giusta ed equa rappresentatività delle forze in campo, avrebbe
garantito una maggiore elasticità e soprattutto un miglior esercizio dell’attività parlamentare. I
partiti, dopotutto, non erano che mezzi grazie ai quali i cittadini partecipavano alla gestione della
cosa pubblica, e non rappresentavano gli esclusivi depositari «delle loro idee e dei loro interessi».54
La proporzionale, inoltre, avrebbe grandemente accresciuto il potere dei partiti, o meglio «dei
comitati elettorali», e avrebbe privato l’elettorato di «ogni effettiva libertà di scelta dei propri
rappresentanti». Cosa che invece non sarebbe avvenuta, per lo meno non con la stessa intensità, nel
caso in cui si fosse adottato il sistema maggioritario uninominale, sistema non certo privo di difetti,
ma che avrebbe garantito maggior coesione e minore dipendenza dai comitati centrali dei partiti,
favorendo anche l’elezione di candidati indipendenti. L’autonomia e l’indipendenza individuali,
ancora una volta, venivano considerati da Einaudi valori imprescindibili, tanto più in politica
§ 7. Classe politica e classe eletta
Abbiamo notato quanto il costituzionalismo einaudiano sia caratterizzato dalla ricerca di un
convincente equilibrio tra le ragioni della libertà e del buongoverno, con particolare enfasi sulle
garanzie giuridiche dei diritti e sugli istituti atti ad impedire concentrazioni indebite di potere. Ma,
come accennato in precedenza, la qualità della vita pubblica sarebbe dipesa in gran parte dalla
qualità del personale politico, la cui selezione costituiva dunque la chiave di un ordinamento
realmente liberal-democratico.
In ciò Einaudi risulta, e lui stesso lo ammise più d’una volta, discepolo di Gaetano Mosca e di
Vilfredo Pareto. A Mosca, in particolare, lo avvicinava una comune sensibilità nei confronti delle
basi socio-economiche dei sistemi rappresentativi e la convinzione che, in ultima analisi, i ceti
dirigenti caratterizzassero la vita dello Stato tanto quanto la struttura istituzionale. Einaudi riteneva
peraltro che a Mosca spettasse il merito di aver ‘scoperto’ due princìpi che avrebbero dovuto
costituire la base di qualsiasi analisi scientifica della politica:
53
Ivi, p. 127. 54
Ivi, p. 129.
19
Primo: il governo del paese non è e non può mai essere retto dalla maggioranza del
popolo e neppure da una genuina rappresentanza della maggior parte dei cittadini. Questa è una
utopia pericolosa e distruggitrice della convivenza sociale. Il governo politico deve essere in
mano di una minoranza organizzata…Dalla buona scelta della classe politica dipende la fortuna
di un paese. […] Secondo: il predominio, necessario e utile, della classe politica, ha bisogno,
per conservarsi, di una ideologia, a cui il Mosca dà il nome di ‘formula politica’: e questa può
essere la forza, la eredità, il diritto divino, la sovranità popolare. Presso a poco, tutte queste
formule si equivalgono, essendo esse puramente la manifestazione esteriore verbale delle vere
ragioni per le quali la classe politica afferma la sua capacità a governare le moltitudini.55
Ma Mosca aveva pronunciato, allo stesso tempo, un elogio del regime rappresentativo, l’unico
sistema politico ad assicurare una condizione di libertà per i cittadini.56
Inoltre, come per il collega,
anche per Einaudi, era indispensabile la presenza di forze sociali indipendenti, tra le quali
spiccavano i ceti medi, «poiché dalla maniera in cui questi strati intermedi sono formati e
funzionano dipende principalmente il tipo al quale un organismo politico appartiene e l’efficacia
della sua azione».57
Nelle parole di Einaudi, solo la diversità sociale avrebbe potuto garantire
l’esistenza di un governo libero:
Lo stato rappresentativo è…fondato sull’esistenza di forze indipendenti e distinte dallo
stato medesimo: resti di aristocrazia terriera, classi medie che traggono la loro propria vita
dall’esercizio di industrie, di commerci e di professioni liberali, rappresentanti di operai
organizzati di industrie non viventi di mendicità statale. Se queste condizioni sono soddisfatte,
noi abbiamo un governo veramente libero; in cui i funzionari non sono l’unica classe politica
esistente, ma una delle tante forze, dal cui contrasto e dalla cui cooperazione sorge la possibilità
di un’azione veramente utile al tutto.58
Pluralismo sociale come condizione, necessaria ma non sufficiente, per la formazione di una
classe politica variegata, colta e sana. Tuttavia, per quanto gradualmente, crebbe l’insoddisfazione
einaudiana per questo modello teorico: la classe politica machiavellica e spregiudicata descritta da
Mosca e Pareto era davvero l’unica possibile? La sua guida poteva garantire alla società
buongoverno, pace e benessere? O non si trattava piuttosto di indagare più in profondità le ragioni
che portavano le classi dirigenti a determinare, talvolta tragicamente, il destino delle comunità da
55
Parlamenti e classe politica, «Corriere della Sera», 2 giugno 1923, ora in Id., Cronache economiche e politiche di un
trentennio, vol. VII, cit., pp. 264-265. 56
«Se poi facciamo il debito conto delle libertà individuali che difendono il cittadino contro la possibile azione
arbitraria di tutti i poteri dello Stato…facilmente possiamo renderci ragione della grande superiorità dei regimi
rappresentativi, la quale ha permesso la costituzione di una forma di Stato fortissima, che ha potuto incanalare verso fini
d’interesse collettivo una somma immensa di energie individuali e nello stesso tempo non le ha schiacciate e soppresse;
e ha perciò lasciato ad esse una vitalità sufficiente per conseguire altri grandi risultati soprattutto nel campo scientifico e
letterario ed in quello economico», G. Mosca, Elementi di scienza politica, a cura di G. Sola, Torino, UTET, 1982, parte
II, cap. VI, p. 1094. 57
Ivi, parte II, cap. I, p. 940. 58
Parlamenti e classe politica, cit., p. 267.
20
esse stesse rette, con l’intento di proporre un modello alternativo? Davanti all’esempio dei ceti
politici europei che avevano favorito l’ascesa dei totalitarismi, Einaudi si rivolse quindi all’opera
dell’economista e storico francese Frédéric Le Play, nel quale poteva ritrovare un’analisi di quelle
«forze potenti, talora misteriose le quali spiegano la grandezza e la decadenza, la permanenza ed il
disfacimento delle società», da lui poi identificate col ruolo giocato dalla classe eletta, ossia
dall’insieme di quelle «autorità naturali [che] ricevono forza dalla virtù morale e dal costume».59
Questa aristocrazia dello spirito non coincideva che raramente con la classe politica, «ma in quelle
rare occasioni in cui le due classi diventano una sola si pongono per secoli le fondamenta della
grandezza duratura di un paese».60
Questo perché il vero Stato abbisognava della guida di una
classe dirigente che condividesse i fini dei cittadini, in quanto essa stessa formata da cittadini, da
uomini liberi:
La concezione della classe politica come quella la quale consiste in quei gruppi di uomini
che aspirano alla conquista del potere, o riescono a conquistarlo ed a conservarlo per un tempo
più o meno lungo, concezione dominante nei libri classici di Gaetano Mosca e di Vilfredo
Pareto, non è la sola possibile. Accanto ad essa, esiste non di rado un’altra classe, di uomini che
non aspirano al potere, e che non di rado sono perseguitati da coloro che detengono il potere.
Sono i cristiani dei primi due secoli, i grandi filosofi, i saggi ed i virtuosi di ogni tempo. Hanno
essi il potere morale e talvolta sono assai più potenti di coloro che detengono il potere politico.
Costoro compongono la classe eletta. Assai di rado accade che la classe eletta sia chiamata a
governare gli stati od abbia parte preponderante e decisiva nel governo. Nascono in quei
rarissimi casi gli stati prosperi, pacifici e stabili; ed in questi stati tende ad essere osservata la
legge morale, le relazioni tra le classi sociali non sono turbate da discordia e da invidia, le
condizioni economiche della nazione progrediscono, intendendosi per progresso quella
situazione della quale gli uomini sono malcontenti solo perché anelano tuttavia ad innalzare se
stessi, e la finanza pubblica è congegnata in modo da riposare sul consenso universale.61
Il problema si riproponeva anche nelle nuove democrazie sorte dopo la fine del secondo
conflitto mondiale. Di certo non si poteva fare a meno del principio democratico, unico fondamento
possibile di un governo libero, soprattutto in quel determinato momento storico. Ma ciò non
significava che si dovesse rinunciare a ricercare e a far emergere la classe eletta. Nei nuovi regimi
liberal-democratici questo compito sarebbe stato assegnato al popolo:
Alla major pars l’istinto spontaneo dell’uomo vivente nella società politica contrappone
la sanior pars degli scolastici, la classe politica di Gaetano Mosca, la élite di Vilfredo Pareto.
Ma già Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto avevano chiarito che nè le classi politiche nè i ceti
59
Il peccato originale e la teoria della classe eletta in Federico Le Play, «Rivista di storia economica», I, 1936, n. 2,
ora in Id., Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, cit., pp. 315, 317. 60
Ivi, p. 319. 61
Ipotesi astratte ed ipotesi storiche e dei giudizi di valore nelle scienze economiche, «Atti della R. Accademia delle
Scienze di Torino», vol. 78, 1942-1943, tomo II, ora in Id., Scritti economici, storici e civili, a cura di R. Romano,
Milano, Mondadori, 1973, p. 406.
21
scelti (le élites) si identificano con i meliores…La classe politica può essere moralmente od
intellettualmente inferiore alla media degli uomini componenti la società dalla quale è tratta. Il
problema fondamentale politico non sta nel costituire veramente un governo di maggioranza.
Qualunque sia la struttura formale dello stato, il potere spetta sempre ad una piccola minoranza.
Se noi chiamiamo società democratica quella nella quale il governo sia intento a procacciare il
bene morale e materiale massimo e possibile degli uomini componenti oggi e domani la
collettività nazionale, noi diremo che il fine della società democratica ha tanto maggiori
probabilità di essere raggiunto quanto meglio la ‘maggioranza’, alla quale necessariamente
spetta la scelta del piccolo gruppo governante, riesce ad identificare gli eletti con la sanior pars
del ceto politico.62
Fermo restando che il potere, anche in una democrazia liberale, sarebbe stato esercitato da una
minoranza organizzata, spettava agli elettori designare la classe eletta. Tuttavia l’ascesa dei regimi
totalitari aveva dimostrato che gli stessi vincoli costituzionali potevano venire spazzati via
dall’esercizio della volontà popolare. La scelta dei governanti spettava ai governati, certo; ma come
essere sicuri che il popolo avrebbe scelto la classe politica migliore? E come evitare, nel
malaugurato caso di vittoria elettorale di una minoranza illiberale, che si realizzassero fatali
violazioni dei diritti di libertà? La risposta, per Einaudi, risiedeva nell’introduzione, a livello
costituzionale, di vincoli giuridici molto rigidi, in modo tale da impedire, o per lo meno da rendere
estremamente improbabili, gli abusi di potere:
Ove non esistano freni al prepotere dei ceti politici, è probabile che il suffragio della
maggioranza sia guadagnato dai demagoghi intesi a procacciare potenza, onori e ricchezze a sé,
con danno nel tempo stesso della maggioranza e della minoranza. I freni hanno per iscopo di
limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza
degli elettori. In apparenza è violato il principio democratico il quale dà il potere alla
maggioranza; in realtà, limitandone i poteri, i freni tutelano la maggioranza contro la tirannia di
chi altrimenti agirebbe in suo nome e, così facendo, implicitamente tutelano la minoranza. […] I
freni sono il prolungamento della volontà degli uomini morti, i quali dicono agli uomini vivi: tu
non potrai operare a tuo piacimento…tu devi, sotto pena di violare giuramenti e carte
costituzionali solenni, osservare talune norme che a noi parvero essenziali alla conservazione
dello stato che noi fondammo. Se tu vorrai mutare codeste norme, dovrai prima riflettere a
lungo, dovrai ottenere il consenso di gran parte dei tuoi pari, dovrai tollerare che taluni gruppi di
essi, la minor parte di essi, ostinatamente rifiutino il consenso alla mutazione voluta dai più.63
§ 8. Il governo dell’opinione pubblica
Si tornava, dunque, al medesimo punto: l’imprescindibilità di contropoteri capaci di annullare,
o almeno di limitare, l’abuso di potere esercitato sia da oligarchie di professionisti della politica che
da maggioranze riottose e intolleranti. A fianco dei congegni dell’ingegneria costituzionale e dei
corpi intermedi, Einaudi identificava uno dei più efficaci – se non il più efficace – contropotere
62
Ivi, p. 98. 63
Ivi, pp. 99, 101-102.
22
nell’opinione pubblica nazionale, composta da tutti gli individui che stimavano opportuno
“conoscere per deliberare” (celebre e fortunato motto einaudiano) e agivano per portare le proprie
opinioni ed esperienze a conoscenza delle classi dirigenti.
Il parlamento stesso, d’altronde, per Einaudi avrebbe acquisito e rafforzato il proprio ruolo
concorrendo, assieme alla pubblica opinione, al dibattimento e quindi all’approvazione di
provvedimenti legislativi lungamente meditati e costruiti con l’apporto di tutti:
Il parlamento vale qualcosa solo perché è l’eco della gente che non si sa come si chiami,
che non conta nulla; ma fa arrivare la sua voce ammonitrice nel breve o lungo intervallo che
passa dal momento in cui un disegno di legge viene depositato sul banco della presidenza della
camera o del senato e quello in cui diventa legge. La vera garanzia della vita e della libertà e
degli averi dei cittadini sta in quell’intervallo di pubblicità. Qui è la principale virtù dei
parlamenti; e questa virtù non possiamo ucciderla. […] Un governo forte ama la luce ed il
dibattito. Può avere in non cale la voce dei parlamentari; non può ignorare la voce di colui che
aveva una osservazione giusta da fare;…sinora l’unico metodo…è stato il dar libertà a tutti di
parlare e di scrivere. Il rischio di un governo che, per fare, chiede il segreto e l’assoluzione dei
pubblici dibattiti è un rischio troppo forte.64
La lotta delle idee e delle opinioni, come abbiamo già visto, rappresentava per Einaudi una
importantissima fonte di progresso. Ecco perché egli, che fu per decenni influente editorialista di
parecchi grandi quotidiani come La Stampa e il Corriere della Sera, attribuiva alla carta stampata la
missione – tale la considerava – di diffondere tra gli individui e le associazioni la passione per il
confronto e il dibattito, basato sempre sulla maggiore conoscenza possibile di tutte le sfumature del
tema affrontato così come delle tesi portate avanti dai propri antagonisti. «L’idea nuova – scriveva
nel 1945 – non si difende e non si fa trionfare nei parlamenti. Essa nasce nei libri e nelle riviste, si
propaga nei giornali, dà origine ad associazioni, a gruppi di propaganda, conquista l’opinione
pubblica, e cioè l’opinione media, quella di coloro che non sono già gli adepti di un credo».65
Nel
nostro paese, peraltro, «prima del 1922 e anche fino al 4 gennaio 1925, [si] ebbe una grande stampa
indipendente», ed anche nel nuovo scenario del secondo dopoguerra «i quotidiani seguiteranno ad
essere quasi l’unica via attraverso la quale gli elettori possono essere guidati a formare un forte
governo democratico veramente rappresentativo della volontà popolare».66
Lo sguardo di Einaudi non era comunque rivolto solo al passato o alla stretta contingenza,
bensì al futuro e in questo senso non poteva fare a meno di notare che «senza una stampa veramente
libera che rappresenti tutte le sfumature dell’opinione pubblica, le elezioni generali che dovranno
64
Il contributo del primo che passa, «Corriere della Sera», 15 novembre 1922, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, p.
51. 65
Contro la proporzionale, cit., p. 139. 66
Il problema dei giornali, «Nuova Antologia», vol. 434, 1945, n. 1735, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla
democrazia, cit., pp. 170, 167.
23
essere indette in seguito rassomiglieranno molto di più a un plebiscito napoleonico, mussoliniano o
hitleriano che non a una selezione razionale degli uomini migliori da porre al timone dello stato».
Aggiungeva inoltre che, pur non mancando di riconoscere il ruolo talvolta anche altamente positivo
della stampa di partito e delle parti sociali, indispensabile si sarebbe rivelata la stampa
indipendente: se infatti «solo l’uomo, la persona, il cervello pensante è capace di creare il nuovo, di
non inchinarsi agli andazzi, di pronunciare le verità spiacevoli ai più», ne consegue che «solo il
giornale indipendente espone l’idea nata nel cervello di chi la mette sulla carta e non quella che è
riuscita già ad affermarsi nei consessi o nei consigli dei partiti e dei gruppi sociali». Mansione
cruciale, poiché qualsiasi società «lentamente muore se vive solo di idee vecchie».67
Ma certo la stampa, da sola, non era sufficiente a creare un’opinione pubblica vigile e
autonoma. Di qui l’attenzione con la quale Einaudi trattò più volte dei problemi dell’istruzione,
dalla scuola primaria all’università. In un saggio particolarmente celebre ed ispirato,68
Einaudi
ribadiva la necessità di stimolare la concorrenza anche nell’ambito delle «scuole medie ed
universitarie», per creare uno spazio più ampio «alle battaglie di idee». Il sistema italiano era ancora
improntato al modello napoleonico, secondo il quale «allo Stato spetta il diritto e il dovere di
provvedere all’insegnamento»,69
con l’inevitabile e dannosissimo corollario del riconoscimento del
valore legale dei titoli di studio. Tale sistema, che imponeva una «regolamentazione uniforme dei
programmi nelle scuole secondarie e…dell’ordine degli studi nelle facoltà e scuole universitarie»,
per Einaudi si rivelava però inferiore rispetto a quello d’ispirazione anglosassone che, grazie alla
maggiore elasticità e alla presenza di numerose istituzioni in competizione, avrebbe consentito una
reale possibilità di dibattito e inoltre, effetto non secondario, una crescita qualitativa nell’offerta di
istruzione. Non si trattava di una differenza di poco conto, bensì della differenza che intercorreva
«fra il totalitarismo e la libertà», visto che «il totalitarismo vive col monopolio, [mentre] la libertà
vive perché vuole la discussione fra la libertà e l’errore».70
La verità, dipinta ancora una volta quale
valore-limite, necessitava una ricerca priva di condizionamenti e caratterizzata dalla più ampia
libertà di confronto tra idee contrastanti.
La medesima libertà avrebbe dovuto caratterizzare, a maggior ragione, gli studi universitari.
Einaudi, docente dell’ateneo torinese per più di mezzo secolo, auspicava addirittura che gli
scienziati radunati nelle Università riuscissero ad «inculcare…tra i politici massimamente, la
67
Ivi, pp. 167, 176. 68
Scuola e libertà (1956), in Id., Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1962, pp. 15-61, ora in appendice a G. Limiti, Il
Presidente professore, Milano-Trento, Luni, 2001, pp. 187-233 (da cui si effettueranno le citazioni). 69
Ivi, pp. 188, 190. 70
Ivi, pp. 222, 233.
24
lezione di umiltà» consistente nell’ammettere «di non sapere…la verità», assumendosi l’impegno di
ricercarla consentendo un dibattito il più ampio e libero possibile:
L’università non ha per ufficio di proclamare la superiorità dell’economia di mercato su
quella regolata: di una organizzazione liberale della società su una organizzazione socialistica. Il
nostro compito è quello di ammonire: nessuno pretenda farsi guida ai popoli; nessuno affermi di
essere in grado di conoscere quella volontà generale, che i cittadini non sono chiamati a
ricercare ma solo a riconoscere e, riconosciutala ad opera degli dèi-guide, ad attuare.
L’autocritica rivolta a dichiarare l’errore delle proprie deviazioni nell’ambito della verità
dichiarata dall’uomo-guida, dal collegio-guida, dal partito-guida; la critica chiusa entro confini
stabiliti dall’uomo e dagli uomini che da sé si sono definiti sapienti, non è critica, è abietta
sottomissione alla guida-tiranno. L’università dei docenti e dei discendi respinge questo tipo di
critica. Il suo verbo è sempre e soltanto: la verità si conquista riconoscendo che ogni verità
antica, che ogni principio accettato può essere l’errore. La verità vive soltanto perché essa può
essere negata. Essendo liberi di negarla ad ogni istante, noi affermiamo, ogni volta, l’impero
della verità.71
Nel garantire, e possibilmente nell’ampliare, tutti questi spazi di confronto consisteva uno dei
fini della società liberale; e qualsiasi liberalismo che non avesse fatta propria tale esigenza, si
sarebbe condannato allo smarrimento della propria ragion d’essere.
§ 9. Epilogo: il passato e il futuro della libertà
Non è facile tirare le somme a proposito del liberalismo di Einaudi. Molti giudizi sono stati
espressi, di volta in volta, da studiosi pronti a dipingerlo o come apologeta acritico della borghesia
o, al contrario, come liberal-socialista. Entrambe le descrizioni, anche alla luce di quanto abbiamo
visto sinora, appaiono ugualmente insoddisfacenti.
E’ necessario stabilire un punto fermo: al di là delle molteplici interpretazioni possibili, il
pensiero politico di Einaudi si ispira all’insegnamento dei padri della teoria liberale classica; meglio
ancora, il suo liberalismo risulta visibilmente di matrice anglosassone. Einaudi fu sempre
consapevole di riallacciarsi a una lunga tradizione teorica, che affondava le radici nel diciottesimo
secolo di David Hume e Adam Smith. E d’altra parte il suo pensiero politico è caratterizzato dal
riconoscimento dell’indissolubile vincolo che lega tutte le libertà – politiche, economiche e civili. In
questo senso, nonostante la scarsa fortuna di cui ha goduto, almeno a confronto della popolarità
riscossa dalla filosofia di Benedetto Croce, la teoria politica ed economica di Einaudi rappresenta
71
Jean Jacques Rousseau, les théories de la volonté générale e du parti-guide et les tâches des universitaires,
«Kyklos», X, 1956, pp. 289-295, trad. it. Gian Giacomo Rousseau, le teorie della volontà generale e del partito guida e
il compito degli universitari, ora in Id., Prediche inutili, cit., pp. 200, 201, 202.
25
probabilmente il miglior contributo fornito dal liberalismo italiano alla cultura liberale europea e
nordamericana.
Ma c’è un ultimo aspetto che sembra opportuno sottolineare: l’apertura di Einaudi al futuro
delle libertà, a tutti i tentativi di allargare le sfere di libera azione degli individui. Una tensione
modernizzatrice che era tale anche perché prendeva le mosse da un’esperienza fallimentare nella
quale lo stesso Einaudi aveva giocato un qualche ruolo: l’ascesa del regime fascista. Di fronte ai
disordini e alle richieste di riforme sociali avanzate nel primo dopoguerra, «i ceti politici, i quali
erano stati capaci di condurre l’Italia alla vittoria, i quali avevano saputo organizzare le forze vive
del paese per la resistenza contro l’invasore nemico, non furono pari all’impresa sociale».72
In
molti, compreso lo stesso Einaudi, di fronte alla non facile situazione avevano anelato al
ristabilimento della calma e della pace sociale, dimenticando però che «l’ansia e l’incertezza sono le
compagne inseparabili della vita, e che sicurezza assoluta e vita tranquilla sono sempre desiderati,
ma non mai raggiunti né raggiungibili se non attraverso una lotta di tutti i giorni, una fatica sempre
rinnovata». Si era invece scelta la “via breve” della dittatura fascista, ma «quella via significava la
rinuncia degli italiani alla dura lotta, al diuturno sforzo, al rischio continuo in favore della chimera
della sicurezza, della pace, della tranquillità, della prosperità assicurata e promessa da altri»; una
via che «doveva necessariamente, fatalmente condurre sull’orlo dell’abisso».73
Rimediare allo sbaglio non si poteva. Ma certo era immaginabile lavorare per far sì che gli
italiani non fossero più costretti a giungere dinnanzi a un simile bivio – o almeno, per scongiurare la
possibilità di una scelta tragicamente sbagliata. Il primo, e principale, strumento da utilizzare in tal
senso – lo dichiarò nel breve discorso davanti al parlamento da neo-eletto presidente della
Repubblica – era la nuova costituzione democratica, sebbene contenesse diverse disposizioni che
egli, da liberale, non condivideva pienamente. Tuttavia essa rispondeva pienamente allo spirito che,
secondo Einaudi, dovrebbe caratterizzare l’ossatura di tutte le società libere e prospere, ossia la
volontà di «conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della
libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello stato e la prepotenza privata; e garantire a
tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore eguaglianza possibile nei punti di
partenza».74
La nuova costituzione rappresentava inoltre un banco di prova per la democrazia, «che
se è qualcosa, è discussione, è lotta, anche viva, anche tenace tra opinioni diverse ed opposte; ed è,
alla fine, vittoria di un’opinione, chiaritasi dominante, sulle altre».75
Ma soprattutto, nonostante lo
scetticismo di molti, e che in parte lui stesso condivideva, l’ordinamento repubblicano – alla pari
72
La via breve, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 2 dicembre 1944, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, p. 81. 73
Ivi, pp. 83, 88-89. 74
Messaggio dopo il giuramento, ora in Id., Lo scrittoio del Presidente 1948-1955, Torino, Einaudi, 1956, p. 5. 75
Ivi, pp. 3-4.
26
degli altri sistemi democratici dei paesi europei ed extra-europei – lanciava una sfida sul futuro
della società globale, con tutta l’intenzione di vincerla:
Tra le due date, del 1848 e del 1948…è nato un problema nuovissimo, che nel secolo
scorso grandi pensatori politici avevano dichiarato insolubile: quello di far durare sistemi
democratici quando a votare ed a deliberare sono chiamate non più ristrette minoranze di
privilegiati ma decine di milioni di cittadini tutti uguali dinnanzi alla legge. Il suffragio
universale parve ed ancor pare a molti incompatibile con la libertà e con la democrazia. La
costituzione che l’Italia si è ora data è una sfida a questa visione pessimistica dell’avvenire.76
Fiducia nella libertà e negli sforzi degli esseri umani, pur senza trascurare le avversità che
necessariamente intralciano il loro cammino: è forse questo il messaggio più attuale della lunga e
feconda riflessione di Luigi Einaudi.
76
Ivi, p. 4.
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