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Storie, paesaggi, attraversamenti è un lavoro collettivo scaturito dal workshop itinerante curato da Wu Ming 2 lungo il tratto della Variante Cimina della Via Francigena nell’aprile 2014. Il testo, le immagini e il progetto grafico sono stati realizzati dai partecipanti al workshop, che sono stati (qui in ordine sparso): Alfonso Prota, Stefano Frateiacci, Andrea Noceti, Andrea Bennati, Andrea Marziano, Roberta Perticaroli, Maria Sole Benigni, Mariella Sto, Emanuela Moroni, Stefania Buoni, Flavia De Girolamo, Riccardo Muzzi, Tothi Folisi, Danilo Confuorto, Margherita Giuffrè, Clio Nicastro, Vincenzo Di Siena, Wu Ming 2, Marco Trulli, Stefano Pifferi. Storie, paesaggi, attraversamenti è stato realizzato nell’ambito di “Reimmaginare la Via Francigena” un progetto di ARCI Viterbo a cura di Marco Trulli con il sostegno della Regione Lazio L.R. 19/06 e in collaborazione con il Centro Interdipartimentale di Ricerca sul Viaggio (CIRIV) e il dipartimento DISUCOM dell'Università della Tuscia.
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STORIEPAESAGGI
ATTRAVERSAMENTIlungo la via francigena con wu ming 2
Storie, paesaggi, attraversamenti è un lavoro collettivo scaturito dal workshop itinerante curato da Wu Ming 2 lungo il tratto della Variante Cimina della Via Francigena nell’aprile 2014.
Il testo, le immagini e il progetto grafico sono state realizzate dai partecipanti al workshop:Alfonso Prota, Stefano Frateiacci, Andrea Noceti, Andrea Bennati, Andrea Marziano, Roberta Perticaroli, Maria Sole Benigni, Mariella Sto, Emanuela Moroni, Stefania Buoni, Flavia De Girolamo, Riccardo Muzzi, Tothi Folisi, Danilo Confuorto, Margherita Giuffrè, Clio Nicastro, Vincenzo Di Siena, Wu Ming 2, Marco Trulli, Stefano Pifferi.
Storie, paesaggi, attraversamentiè stato realizzato nell’ambito di “Reimmaginare la Via Francigena” un progetto di ARCI Viterbo a cura di Marco Trullicon il sostegno della Regione Lazio L.R. 19/06e in collaborazione conCIRIV e DISUCOM.
ISBN 978-88-940431-5-0
D I S U C O M p r e s sUniversità degli Studi della TusciaVia S. Maria in Gradi, 4 01100 , Viterbo (VT) - ITwww.disucom.unitus.it
Paradossale scrivere qualche riga a margine di qualcosa scritto in margine a un viaggio, ma nemmeno tanto in realtà. Perché in primo luogo di “margini” è stata piena l’avventura – uso il termine avventura non a caso, perché anche di “ventu-ra” parla tra le righe la narrazione collettiva e multidisciplinare affidata a queste pagine – sulla Via Francigena; piena zeppa di attraversamenti di “terzi paesaggi”, di limiti imposti e superati, di mondi di qua e mondi di là divisi da una striscia invisibile tra l’asfalto e l’erba, tra la civiltà e il selvaggio, tra il quotidiano e l’extra-ordinario e tra il conosciuto e il non noto. In secondo luogo, perché ogni viaggio privo della sua riduzione scritta, più o meno orientata e più o meno (ri)elaborata, pensata, filtrata a seconda dei canoni culturali vigenti o delle finalità autoriali, si riduce a mero esercizio individuale perdendo una rilevante parte di sé: quella che definirei informativa e pubblica, atta cioè a fornire un ponte visibile e tangibile tra una alterità ignota a chi legge e una quotidianità abbandonata da chi scrive, tra una esperienza vissuta in prima persona e una esperienza (ri)vissuta per in-terposta persona.
Fornire una definizione soddisfacente e totalizzante sulla e della scrittura di viag-gio è prova ardua, specie in questa sede, oltre che argomento su cui la critica acca-demica si accapiglia da qualche decennio nel tentativo di fornire una collocazione accettabile ad un “genere” letterario instabile, sfuggente e borderline come l’ode-porica. Un ambito, quello della narrazione di viaggio, che è per sua natura gene-ticamente trasversale, insieme multidisciplinare per esigenza, transnazionale per elezione e tematicamente di confine tra esperienze ed ambiti tra i più diversi e in cui trovano riparo epopee come quella di Gilgamesh e memorie come quelle di
Marco Polo, avventure verisimili come quelle affidate da Kerouac al suo On The Road o totalmente fantastiche come quelle di Verne o Gulliver, i memoriali dei pellegrini come i diari di bordo o gli itinerari.
In questa sede a noi importa rendere pubblica l’esperienza di viaggio “reale” – staccata cioè dal “fiction travel”, secondo la semplicistica ma utile bipartizione settecentesca – legata ad un tratto della Francigena, quel tragitto che, usufruendo dell’antica rete viaria d’origine romana, permetteva ai viaggiatori, da Sigerico in poi, di raggiungere la Città Eterna e che oggi giace semi-dimenticato in attesa di una sua rivalutazione più ampia e non legata esclusivamente agli sforzi di singole associazioni, strutture o congreghe di “viaggiatori lenti” o “pellegrini” più o meno sui generis. Una esperienza rifratta negli occhi, nelle aspettative, nel bagaglio culturale, nella curiosità di un eterogeneo gruppo di viaggiatori, tutti indistinta-mente pronti a mettersi in gioco al fine di restituire di quella esperienza, insieme individuale e collettiva, un caleidoscopio di informazioni, dati, sensazioni, umori, riflessioni, dubbi, introspezioni, osservazioni e quant’altro finalizzato a riattivare uno dei tanti percorsi possibili della Francigena, ormai non più “via” identificata e identificabile come fu al tempo della mappatura di Sigerico, quanto reticolo di potenziali traiettorie, itinerario magmatico e “fluviale” verso Roma.
Una “restituzione”, quella affidata alle pagine che seguono, che ogni lettore avrà modo di ricompattare e riassemblare in un nuovo viaggio, stavolta sedentario e su carta, perché, come notava argutamente Saramago nel suo Viaggio in Portogallo, “Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: ‘non c’è altro da vedere’ sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro...”.
Viaggiare sì, ma senza scrivere?Stefano Pifferi
Se il nostro cammino fosse un romanzo d’avventura, allora i personaggi sarebbero quelli che ti vengono incontro mentre calchi l’erba di un campo lungo traiettorie im-previste, disegni abbozzati coi piedi per afferrare il racconto che si srotola davanti a te. Durante il cammino, senza farci caso, si condensa l’essenza di tutte le tappe attraversa-te in un elemento tangibile e materiale del percorso, assecondando così un bisogno di sintesi che somiglia al mappare. Monti, laghi, chiese e boschi sono personaggi turbo-lenti e singolari. Chiedono attenzione, mostrano facce diverse e profili altezzosi. Se neghi loro lo sguardo, si ritirano indispettiti.
Noi abbiamo provato ad ascoltarli.
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Il viaggio comincia da un bosco.Spazio accessibile, non recintato, libero. Si scorgono squarci di panorama lontano.
Attenti a dove mettere i piedi, per non inciampare.
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Se il nostro cammino fosse un romanzo d’avventura, il personaggio più misterioso sarebbe il Monte Venere. Devi camminarci attorno, devi fermarti ad ascoltare la voce dei faggi “depressi”, se vuoi scoprire la sua identità segreta.
Il Monte era un’isola.
Poi gli Etruschi e in seguito i Farnese hanno abbassato il livello delle acque e l’isola è diventata un bernoccolo del cratere.
Fermi sulle pendici immaginiamo i tavoli da pic nic come zattere alla deriva, i noccioli come piante acquatiche e la faticata che avremmo dovuto fare per attraversare a nuoto questo lembo di terra.
Salvi ed asciutti, d’istinto ci rifugiamo sulle pendici del Monte, a distanza di sicurezza dalla riva del lago che c’era e ben lontani dalla cavità del Pozzo del Diavolo che incombe in cima al vulcano.
Ascoltare il suono del picchio che rompe il silenzio e che i nostri occhi non vedono. Toccare con mano i solchi che un altro esemplare ha scavato su un tronco. Sederci, tra gli altri, sotto un albero secolare a raccontarci storie di viandanza. Di un cammino che, cullandoci, lentamente ci consola.
Oggi come ieri. In un eterno divenire.
Se il nostro cammino fosse un romanzo d’avven-tura, il personaggio più triste sarebbe la faggeta depressa. Quella di Monte Venere, di Monte Fo-gliano e del Lago di Vico. Ma sarà depressa per via che si trova ad un’altitudine più bassa della norma, o perché una norma sul taglio degli alberi rischia di sfoltirla peggio di una chemioterapia?
Un campo di alberi radi, in discesa. Non c’è un sentiero, lo inventiamo noi, dobbiamo “orientarci” con lo sguardo.
Se il nostro cammino fosse un romanzo d’av-ventura, il personaggio più presente sarebbero i noccioleti.
Quelli puliti come un salotto e quelli invasi dai rovi, quelli di razza pura e quelli meticci, quelli ingialli-ti dal diserbante e quelli a mollo nell’erba, quelli in piano e quelli in pendenza, quelli meccanizzati e quelli in abbandono, quelli sfalciati di fresco e quelli in sverzura, quelli chiusi con le griglie me-talliche e quelli aperti, quelli nemici dei cinghiali e quelli nemici dei cinghiali, quelli di origine con-trollata e quelli della Turchia, quelli che un tempo erano pascoli e quelli che sono bosco di nuovo.
Dicono che il giardino rappresenta l’ideale di pae-saggio accarezzato da una comunità. Dicono di scru-tare dentro i giardini per capire come l’uomo vuole trasformare e architettare l’ambiente. Ne abbiamo incontrati pochi, di giardini, ma in uno di quei po-chi, oltre il cancello e la rete che lo separava da un noccioleto, c’erano schierate altre piante di nocciolo.
Camminiamo in spazi “di mezzo”, lungo il bordo di un fosso, in piccoli sentieri tra una recinzione e l’al-tra. Lo spazio è ristretto, diversificato. La visuale è ridotta agli elementi appena circostanti. Non ci sono panorami.
Se il nostro cammino fosse un romanzo d’avven-tura, il personaggio più schivo sarebbe il Lago di Vico.
Scendiamo per mezza giornata lungo il cratere che gli fa da scodella, ma quello non si mostra, se non come antico miraggio, o barlume in estrema lontananza. Percorriamo la strada asfaltata che lo costeggia, ma niente acqua, solo castagni, noccioli e cancelli. Infine, all’ora di pranzo, raggiungiamo la riva e lo staniamo: ma è poco invitante, per via delle recinzioni, delle canoe e del vento.
Un lago reticente a partire dal nome. Di solito gli specchi d’acqua prendono il nome dal paese più importante che sta sulle rive. Sul lago di Garda c’è Garda, sul lago di Como c’è Como, sul Lago di Bolsena c’è Bolsena, sul Lago d’Iseo c’è Iseo. E Vico? Dove cazzo è, Vico? Dove l’avete nascosta?
Eppure, dietro quell’aria timida, si nasconde una disgrazia antica. “La prima tragedia del Novecen-to” - come rivendica orgoglioso il custode della chiesa di Santa Lucia. Il vittimismo come autobio-grafia di una nazione, strategia per eludere la criti-ca ed entrare nel Guinness dei primati.
http://www.archiviolastampa.it/
CI TELEGRAFANO DA ROMA, 15, ORE 8,50:GIUNGE NOTIZIA DA RONCIGLIONE DI UNA GRAVE DISGRAZIA
ACCADUTA IERI. PER FESTEGGIARE SANTA LUCIA, DA TUTTI I
COMUNI CIRCUMVICINI DEL LAGO DI VICO ACCORREVA GENTE
PRESSO LA CHIESETTA CHE SORGE A METÀ DEL LAGO. ALCUNE
BARCHE DI RITORNO, CARICHE DI UOMINI E DONNE, I QUALI
AVEVANO PARTECIPATO ALLA FESTA, SI CAPOVOLSERO A CIRCA
TRECENTO METRI DALL’APPRODO. LE GRIDA STRAZIANTI DEI
CADUTI GIUNSERO FINO ALLA RIVA.
CI TELEGRAFANO DA ROMA, 16, ORE 0,25UN SUPERSTITE, GIUNTO QUI DA RONCIGLIONE, RACCONTA CHE
L’ANNEGAMENTO SI VERIFICÒ IN QUESTO MODO: DOPO COMPIUTI
I GIOCHI IN ACQUA, ALCUNE BARCHE PESCHERECCE, PIENE DI
GENTE, SI MISERO IN MOTO PER UNA GITA DI PIACERE SUL LAGO.
UNA DELLE BARCHE ERA GREMITISSIMA E PERICOLAVA. ALLORA
UN’ALTRA IMBARCAZIONE VICINA LE SI ACCOSTÒ PER RECARE
SOCCORSO. INTANTO LE PERSONE, SPECIALMENTE GIOVANI, CHE
ERANO NELLA PRIMA BARCA, PRESE DA UN PANICO INDICIBILE,
COMINCIARONO AD URLARE, SMANIARE E PIANGERE. GIUNTA
L’ALTRA BARCA PRESSO LA PRIMA, TUTTI COLORO CHE ERANO
DENTRO QUEST’ULTIMA ISTINTIVAMENTE SI GETTARONO ENTRO
L’ALTRA, PROVOCANDO L’AFFONDAMENTO DELL’IMBARCAZIONE
E RIMANENDO TUTTI AFFOGATI. SECONDO UN’ALTRA VERSIONE,
IL DISASTRO PARE DEBBA ATTRIBUIRSI ALLE ESCANDESCENZE
DI UNO DELLA COMITIVA SOVERCHIAMENTE AVVINAZZATO.
OGGI I PALOMBARI MANDATI DAL MINISTERO DELLA MARINA
CONTINUERANNO I LAVORI. SI SCORGONO ANCORA TRAVERSO
L’ACQUA LIMPIDA DIVERSI CADAVERI GIACENTI SUL FONDO DEL
LAGO. OGNI TANTO SI RACCOLGONO CAPPELLI, SCIALLETTI E
ALTRI EFFETTI CHE GALLEGGIANO. SI CONFERMA CHE LE VITTIME
SONO UNA QUARANTINA!
Usciti da Santa Lucia, lo guardiamo tutti con un’a-ria diversa, il lago: lui e la sua continua smania di fare nuove amicizie.
A Ronciglione, la visuale si chiude di nuovo. Fronti stradali fitti, persone, negozi, macchine, rumori. Si apre in terrazze, belvedere, punti di vista antropi-ci, scorci. Lo sguardo è guidato dall’architettura e dal costruito. I punti di vista privilegiati sono sele-zionati. Scattiamo foto da cartolina.Una rapida deviazione e siamo di nuovo nello spa-zio naturale, accanto a filari di noccioleti, campi coltivati, un folto cespuglio di bambù. Poi, la sen-sazione di perdersi. Con le dita sfioriamo l’erba alta che spostiamo al passaggio. A pochi passi, il Rio Vicano continua a seguirci, tracciando la via.
Se il nostro cammino fosse un romanzo d’avventu-ra, il personaggio più memorabile sarebbe la chiesa di Sant’Eusebio.
Sant’Eusebio si svela all’improvviso in mezzo ad una radura. Sembra una visione, un arbusto millenario nato insieme alla terra, una pieve per grilli di campagna, un’oasi spirituale a 200 metri dal Festival Bar.
La chiesa guarda dritta al Monte Soratte, quello col profilo di Mussolini smozzicato, neanche fosse la Maga Circe. Che poi chissà se il Duce lo sape-va, che negli USA c’è un tipo che da una vita sta cercando di modellare una montagna enorme col profilo di Toro Seduto. Una storia prima o poi fi-
nisce e, chissà perché, impone al paesaggio - che sta lì da un pezzo- di continuare a raccontare ciò che accadde in un fazzoletto di anni. Sovrapposi-zioni, riscritture, palinsesti secolari. Sant’Eusebio sta sopra la tomba di un Eusebio che non ha niente a che vedere col santo vescovo di Sutri. Poi scopri che la chiesa è stata restaurata e riportata alla sua anima romanica solo dopo interventi invasivi che l’hanno spogliata di decorazioni, per riportare alla luce i dipinti originali.
Stratificazioni spirituali e architettoniche che traducono in pietra ciò che il cammino produce nella realtà. L’odore di muffe antiche nascoste sotto il colore vivo degli affreschi sopravvissuti, si mischia alla violenza ineliminabile della sovrap-posizione.
Ma il mescolarsi di tempi e di simboli non riguarda solo l’edificio. La schiuma ribolle e tracima oltre i muri. Il cerchio di querce che circonda la chie-sa - vecchio di sessant’anni - è una specie di Linea Gotica camuffata da ameno boschetto. Intorno alla pieve si combatte una guerra di confine che sa di Medioevo. Proprietà privata contro bene comune. Vecchie bolle papali, contee sorte dal nulla, pietre spostate e ricollocate.
Un pugno di volontari difende la chiesa dalle pre-tese del “signorotto” di turno, da vandali e ignoti ladri e dall’imperizia delle istituzioni, a costo del proprio tempo e denaro e delle proprie energie.
Chi sono i custodi di un territorio? E perché hanno scelto di custodirlo?
Perché non è solo senso civico, il loro. C’è di più. Forse il ricordo di un bambino che ascoltava, per-correndo quegli stessi luoghi che oggi difende, le storie e i ricordi di un padre, di una madre, di un nonno o di una nonna. O, forse, venuti da un altro-ve da cui sono fuggiti, hanno infine scelto di resti-tuire alla terra che li ha accolti un po’ del calore che ne hanno ricevuto.
Ed è un custodire che non è possesso, ma condivi-sione. Che non è solo scelta etica, o il perseguire un
nobile ideale. È difesa, per amore, di qualcosa che si percepisce come parte di sé e che, al contempo, non si vuole tenere soltanto per sé.
È, insieme, la gioia di mostrare, per far conosce-re. Per far nascere negli occhi di chi ascolta quel-la stessa scintilla che li muove ogni volta, ad ogni nuovo viandante che passa e domanda. Che forse dimenticherà, domani, o ricorderà soltanto qual-che piccolo dettaglio, da aggiungere ai tanti altri, accumulati durante il cammino.
Gli alberi disegnano un cerchio e bisogna tender l’orecchio per ascoltare un piccolo mondo dove passato e presente fanno girotondo. Stanno tutt’insieme a ricordareChe il presente il passato non può abbandonare.
Se il nostro cammino fosse un romanzo d’avven-tura, l’asfalto sarebbe l’antagonista, il cattivo, l’om-bra dell’eroe. Chi organizza viaggi a piedi lo teme, cerca di evitarlo, si scusa quando non se ne può fare a meno. Per i viandanti della Francigena, l’incubo asfaltato si chiama Strada Cimina. I tecnici della Regione Lazio ce la sconsigliano inorriditi, ma io dico che un pellegrinaggio non è completo, sen-za qualche chilometro a piedi nel regno dell’auto. Giusto il tempo di rendersi conto che quello, per il pedone, non è soltanto un pianeta ostile: è uno spa-zio che respinge l’essere umano senza volante. Te lo dice la velocità, lo spostamento d’aria, il rumore. Da pedone, sull’asfalto, sei davvero di fronte al ne-mico: e come ogni nemico che si rispetti, quello sei tu, anche se adesso vorresti dimenticarlo, nel tuo bucolico autoinganno, e proprio per questo fuggi l’incontro.
L’asfalto, però, è soltanto il più spaventoso dei mille volti che assume l’avversario: sbarramenti, cancelli, staccionate, muri, fili spinati, confini. Se l’essenza del camminare è la libertà di muoversi
sul territorio, allora le recinzioni sono il veleno, la criptonite del viandante.
In Svezia, il diritto di passare su un terreno, sen-za recar danno, si chiama allemansrätten, ovvero “diritto di ogni uomo”, ed è garantito dalla Costi-tuzione. Da queste parti, su recinzioni stile Alca-traz, trovi cartelli che ritraggono cani feroci e la scritta:
Io ci metto 2,5 secondi per arrivare al recinto. E tu?
Se il nostro cammino fosse un romanzo d’avventu-ra, l’autore dovrebbe rendere conto anche di quei personaggi che l’occhio non ritiene importanti. Odori di piante calpestate, raccolte, strofinate sul palmo della mano: il timo che ti afferra mentre at-traversi una radura; l’erba alliaria, che custodisce il suo segreto finché non la cogli; l’ailanto fetido e invasore, che trasforma lo spazio indeciso in un angolo di giungla; la menta che da piccino ti face-va pensare al dentifricio, e adesso ti fa pensare al mojito.
Riprendiamo l’asfalto per raggiungere Fonte Vivola. Lo sguardo è serrato sulla strada, fiato corto, stanchezza, mal di piedi, non c’è più nulla.
Se il nostro cammino fosse un romanzo d’avventu-ra, il paesaggio sarebbe il protagonista.
Personaggio meticcio, affastellato e in crescita. Mondo minerale, vegetale e animale che interdi-pendono in allegria. Nesso evidente tra libertà e responsabilità. Continuo trascorrere di elementi di mezzo, tra questo e quello, guazzabuglio di ca-sualità cucito insieme dai sensi e dai piedi. Cam-minarci attraverso è un modo per coglierne la co-erenza in movimento, la stessa sostanza di cui si nutre il pensiero. Vertigine che non si può catalo-gare. Costellazione di senso che poco si adatta alle categorie geometriche.
C’è morte? Sì, c’è anche la morte. Perché al fon-do, il paesaggio è uno specchio. Siamo noi gli eroi dell’avventura. Noi che attraversiamo il territorio e che ne siamo attraversati, come dentro una galleria del vento che ci stacca di dosso piccole convenzio-ni, abitudini non aerodinamiche, ma senza scollar-ci dalla realtà.
Il paesaggio è un teatro, palcoscenico dove l’uomo rappresenta sé stesso. Ma il verbo “rappresentare” non è esclusivo di attori o pittori. È anche un ver-bo politico. Il paesaggio rappresenta l’uomo come un teatro, ma pure come un parlamento (e forse, in questi giorni stanchi, ancora più di un parlamen-to). Non a caso, rivolte e battaglie sociali nascono sempre più spesso intorno al paesaggio: Gezi Park e la Val Susa, lo sviluppo urbano di Addis Abeba e quello di Londra. Qui, in soli due giorni di cam-mino, si passa dall’ospedale di Viterbo al gigante interrato di Valle Faul, dalla faggeta depressa alla centrale di Montalto, dalle pale eoliche in distanza al ristorante La Bella Venere, dal divieto di balne-azione nel lago di Vico alle liti di confine intorno a un’antica chiesa, dai pesticidi per i noccioleti all’ar-cheologia industriale di Ronciglione.
Il percorso verso Caprarola è vario, a volte ci sono visuali più ampie, a volte lo sguardo si ferma a po-chi metri. La stanchezza prevale.
L’attenzione non è più concentrata sul dove mettere i piedi. Siamo sicuri del nostro passo, pensiamo ad altro, il cammino diventa interiore.
Il paesaggio è dentro ognuno di noi.
Se il nostro cammino fosse un romanzo d’avventu-ra, non potrebbero mancare i doni magici.
Solo al viandante capita di vedersi regalare dalla fruttivendola un sacchetto di fave.
Solo al viandante, cittadino spogliato, capita di chiedere alla fruttivendola di regalargli due fave.
E poi una torta di mele divisa in 24 pezzetti, uno per ogni camminatore.
Il paesaggio come la torta di mele: un pezzetto, uno sguardo; un pezzetto, un oggetto; un pezzet-to, una mappa mentale del sentiero; un pezzetto, un’impronta a terra della persona che ti precede con scritto Salomon.
Il possesso di un luogo, di uno spazio, attraverso l’atto del mangiare.
Mangiare i luoghi: con lo sguardo, con i sensi. Mangiare, assaporare e non essere mai sazi di uno spazio.
Pollicino e le briciole di pane lasciate lungo il tra-gitto per ritrovare la strada di casa. Hansel e Gretel e la casetta di marzapane…
Digerire il paesaggio: il mangiare come metafora del possesso e della conoscenza, ma anche come atto concreto del masticare e assimilare cibo, pre-parato e pensato per quel luogo, per quelle perso-ne, per quel paesaggio, per quel momento.
Si mangia e si è sazi; si digerisce e si è affamati di nuovo.
E ancora sentieri, vicoli e attraversamentiun grande puzzle di frammenti.
Se il nostro cammino fosse un romanzo giallo, l’as-sassino sarebbero gli Etruschi.
In un modo o nell’altro, è tutta colpa loro.
Quando non sai cosa dire, sono stati gli Etruschi.
Caprarola è di nuovo un paesaggio antropico, sia oggetto di osservazione, sia progetto di vi-suali per il territorio circostante.
Siamo in alto, lo sguardo spazia in tutte le di-rezioni, ci sono riferimenti, torri, case, si perce-pisce la grandezza del vuoto e la misura ridotta dell’essere umano.
Se il nostro cammino fosse un romanzo d’av-ventura, allora il finale non sarebbe l’arrivo, ma il ricordo.
Ancora a due settimane di distanza, puoi ripercor-rere con la memoria l’intero percorso. Rivedi fiori, soste, alberi, pietre, crinali, strade, svolte, chiese e torrenti con la stessa nitidezza delle foto che non hai fatto e che non hai ancora sfogliato.
Camminare è aderire alle parole, all’affetto per sé e per le altre figure che a turno incrociano il tuo passo, mentre sbucci i paesaggi contaminato dalle loro suggestioni: le faggete, i castagneti, gli affre-schi medievali, le pietre, i volti, le pietanze, i rovi, i regni di mezzo tra fiori e cemento, le variazioni climatiche tra sole bruciante e palle di grandine.
Sarà per questo che al liceo, quando mandavi a memoria le pappardelle per l’interrogazione del giorno dopo, ti veniva sempre da passeggiare per la stanza?
Le neuroscienze dovrebbero indagare meglio il rapporto che c’è tra camminare e ricordare.
E il rapporto che c’è tra un paese senza memoria come l’Italia e la diffusione delle automobili (62 ogni 100 abitanti, uno dei paesi più motorizzati del mondo).
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