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LA NUOVA AGRICOLTURA: TRADIZIONE E
INNOVAZIONE
Tesi di laurea magistrale in Comunicazione Pubblica e d’Impresa
Dimitri Antonfranco Piccolillo
Relatore: Adam Erik Arvidsson
Correlatore: Franco Guzzi
3
Indice
Ringraziamenti p.5
Introduzione p.7
1. Dall’Unità al Boom! p.13
1.1 Il sogno dell’industrializzazione
1.2 Contadino o operaio?
1.3 Verso la Grande Guerra
1.4 Tra le due Guerre
1.5 La ricostruzione
2. Terreno fertile (1982 - 2014) p.35
2.1 Odio la città.
2.2 La fine dell’arcipelago dei minifondi?
2.3 Arretratezza tecnologica
2.4 I giovani
2.5 Le prospettive future
3. Agricoltura postmoderna p.63
3.1 Parole liquide
3.2 Insieme, a breve termine
3.3 La fine di un’epoca?
4. Per una nuova agricoltura p.80
4.1 Nuove ideologie
4.2 ICT e agricoltura
4.3 Nuovi modelli
4.4 Vacci piano!
4
4.5 AFN: Alternative Food Networks
4.6 Nuovi metodi
5. Rural Hub p.102
5.1 Rural Social Innovation
Conclusioni p.110
Bibliografia p.115
5
Ringraziamenti
Le persone che hanno reso possibile la realizzazione di questo elaborato di tesi sono molte e
non necessariamente legate alla vera e propria stesura dello stesso; semplicemente è grazie a
loro se sono riuscito ad arrivare a questo punto e terminare il mio percorso di studi accademici.
Ci tengo a ringraziare particolarmente i professori Arvidsson, Guzzi e Ruotolo per la
professionalità, la simpatia e la disponibilità concessami e Brigida Orria per i consigli, le dritte
e le correzioni (spero di averne fatto buon uso).
Grazie a Mattia ed Ester per avermi fatto vedere cosa vuol dire fare il contadino oggi.
Grazie ai miei compagni di studi, senza i quali non sarei mai riuscito a farcela: Andrea Visentin,
Simonluca Pastore e Andrea De Luca per le iniezioni di fiducia, le chiacchere, le birre in
Colonne, le risate, le cazzate, le cene “benessere” (che di benessere non avevano niente) e
quelle vegetariane (che un po’ di benessere invece ce l’avevano). Tiziana Gammarota, Eliana
Iacovelli, Federica Bertocco, Silvia Ciavarella e Alessandra Consalvo per i confronti, i discorsi,
le risate, gli scazzi, gli incidenti e il dramma di non riuscire mai a vedersi all’orario previsto.
Tutti gli altri iscritti al mio stesso corso di laurea: siete stati e siete fantastici!
Grazie ai miei coinquilini per avermi dato la serenità necessaria a completare questo lavoro.
Grazie a quei pazzi dei miei “Problemici”, per essere sempre stati presenti, per essere sempre
in sbattimento e sempre dispersi per la città e per il mondo. Vi voglio bene.
Grazie alla mia famiglia per l’amore e la fiducia con cui mi hanno permesso di arrivare fin qui.
Nonostante gli sforzi e le difficoltà mi avete dato tutto.
Grazie a Matilde per l’amore, la pazienza, la fiducia, i bronci, le tensioni, la leggerezza, la
calma, le ricette, i viaggi, le passeggiate…ti amo come non è possibile amare nient’altro.
7
Introduzione
In certi casi non basta un solo e semplice sguardo a quello che abbiamo davanti agli occhi per
capire quale sarà la strada che percorreremo.
A volte è necessario guardare anche indietro.
A volte anche intorno.
L'agricoltura è stata segnata per molti anni dall'impossibilità di vedere quale strada scegliere:
sempre in balia di modelli economici da inseguire, sviluppi industriali da soddisfare e benessere
cittadino da raggiungere. Come se non bastasse, termini come arretratezza e povertà erano, e
ancora oggi permangono in certi casi, in cima alla lista di parole necessarie a descrivere la
situazione delle società rurali, delle persone e, in certi casi, anche del paesaggio1
Oggi stiamo assistendo ad un ritorno di interesse per il mondo agricolo da parte dei giovani,
dei media e di quelli che ne erano scappati in favore di un mondo veloce, dinamico e cittadino.
L'agricoltura non è più così mal vista dai cittadini, anzi, sembra che si stiano invertendo i ruoli.
Perché?
La domanda non è priva di risposte, anzi: la molteplicità di motivi dietro a questa scelta è
vastissima e di certo non basta un elaborato di tesi di laurea magistrale per poterla affrontare
come si deve. Motivi di tempo, di tecnica, di capacità e conoscenza limitano il lavoro dietro a
questo elaborato ad un discorso sì approfondito, ma solo di qualche livello sotto lo strato più
superficiale.
Tanto ci sarebbe da dire, tanto da leggere. Ma soprattutto tanto ci sarebbe da guardare con la
pazienza di chi non ha fretta.
Da gustare con la calma di chi non è teso.
«Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza
conquistare come una malinconia le membra, invidiare l'anarchia dolce di chi inventa di
momento in momento la strada»2
1 Si pensi al futurismo, che deprecava le campagne in ogni occasione e incitava all’abbandono delle stesse in
favore dell’urbanizzazione. 2 Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori Laterza, 1998, p. 13.
8
L'argomento non solo è importante, ma è fondamentale: il settore primario è in subbuglio.
Qualcosa sta succedendo.
Che cosa è? Come sta cambiando? Come si svilupperà?
Vedremo più avanti tutti questi aspetti, di sicuro è già da adesso importante notare come il
problema sia da inserirsi in un contesto più generale che ha a che fare con ambiti
interdisciplinari, dal momento che insieme all’agricoltura stanno cambiando le persone, la
società, l'economia.
Tutti questi aspetti che cambiano non possono non influenzare anche il settore primario,
trasformandolo, arricchendolo, diversificandolo. E finalmente è un cambiamento che riguarda
tutta Italia, Nord e Sud, seppure qualche differenza rimanga ancora.
Obiettivo della tesi è cercare di identificare i motivi dietro a questo rinnovato interesse per il
settore e cercare di visualizzare quale strada può percorre l'agricoltura per acquistare il prestigio
che merita non solo in un'ottica economica, ma anche sociale e culturale.
Per far ciò ho cercato di analizzare la realtà agricola e rurale da più punti di vista, nel tentativo
di individuare man mano le chiavi necessarie alla comprensione del fenomeno in atto.
Nel primo capitolo affronto l'argomento da un punto di vista storico. Il materiale da cui ho
attinto è limitato in quanto la difficoltà di reperimento di alcuni testi mi ha parzialmente
vincolato. Il lavoro dietro al primo capitolo è dunque articolato su tre testi principali, arricchiti
via via da informazioni trovate sul web.
In questo capitolo cerco di narrare brevemente i punti salienti della storia dell'agricoltura
italiana a partire dall'evento che più ha influito nella ridefinizione in negativo del settore:
l'industrializzazione.
L'analisi storica si rende necessaria dal momento che molti degli aspetti che stanno oggigiorno
caratterizzando il ritorno all'agricoltura sono in realtà di vecchia data e hanno contraddistinto
il mondo rurale per diversi secoli, se non addirittura millenni.
Cercherò di far risaltare quei fenomeni che appunto sono alla base non solo dei problemi
dell'uomo postmoderno, ma che ne rappresentano anche la soluzione: economia del dono e
comunità in primo luogo.
Altri oggetti dell'analisi storica saranno il rapporto conflittuale che intercorre tra le istituzioni
e il mondo rurale e la figura del contadino-operaio.
9
Per quanto riguarda il primo aspetto, vedremo come l'ambito rurale sia stato penalizzato e abbia
sempre cercato di fuoriuscire dalle maglie e dai vincoli statali ed extra-statali imposti nell'ottica
di rendere l'agricoltura il "motore dell'industrializzazione" di stampo anglosassone. Questo
atteggiamento è particolarmente importante in quanto rappresenta ancora oggi un "filone di
pensiero" di diversi agricoltori e di diversi commentatori.
Per quanto riguarda il contadino-operaio, invece, vedremo come questo abbia rappresentato un
modo tutto italiano di affrontare l'industrializzazione. Questa figura rappresenta in maniera
perfetta quanto l'attaccamento alla terra sia stato importante per gli agricoltori italiani, tanto da
non riuscire a rinunciarvi praticamente mai, andandosi a configurare quasi come una forma di
"ribellione civile" al tentativo di strappare l'uomo dalla terra per farne un cittadino. Questa
specifica tipologia è ancora in auge, anche se la sua presenza si è notevolmente ridimensionata.
Il secondo capitolo invece sarà contraddistinto da un'analisi più economico-statistica della
realtà agricola nel passaggio dagli anni '80 del Novecento ad oggi e oltre. In questo capitolo,
nello specifico, cercherò di evidenziare quali mutamenti sono in atto nella composizione delle
aziende, nella tipologia delle stesse e delle persone che vi lavorano.
Anche qui cercherò di far venire a galla dei concetti che rappresentano il motore della neo-
ruralità. In primo luogo il fenomeno della de-urbanizzazione, che ha portato ad un vero e
proprio "contro-esodo" dalle città alle campagne (e al mare e alle montagne), per quanto il
fenomeno sia parzialmente oscurato dalla forte immigrazione di persone provenienti dai Paesi
più colpiti da povertà e guerre.
Oltre a ciò cercherò di evidenziare gli sviluppi del settore agricolo, primo fra tutti quello
relativo all'aumento della concentrazione di terreni. Una caratteristica che ha sempre
contraddistinto l'Italia dal resto d'Europa è stato appunto "l'arcipelago di minifondi" in cui era
suddivisa la terra. Questo comportava un'enorme impoverimento delle terre, che nella maggior
parte dei casi andavano (e molte ancora lo fanno) ad aumentare il divario tra superficie
coltivabile e superficie coltivata. Oggi questo divario esiste ancora, ed anzi è forse più
accentuato che in passato, a causa dei proprietari che non vogliono disfarsi dei possedimenti
ma allo stesso tempo non vogliono sfruttarli per fini agricoli. Vedremo però come siano in atto
dei tentativi di accorpamento dei terreni e come questo sia portatore di benefici non solo per
l'azienda, ma anche per la comunità.
Altri aspetti che cercherò di evidenziare nel corso di questo capitolo riguardano le potenzialità
offerte dalla specializzazione dell'agricoltura - fenomeno che sta ottenendo sempre più
10
successo e che rappresenta una delle soluzioni italiane alla produttività dell'agricoltura nel
nostro Paese - e le due principali difficoltà che caratterizzano l'agricoltura italiana: l'arretratezza
economica e la carenza dei giovani attivi. Questi due problemi vanno a braccetto e cercherò,
per quanto possibile, di eviscerarne le caratteristiche, i motivi e le possibili risoluzioni, in vista
del forte incremento di occupazione nel settore registrato nel I trimestre del 2015.
Infine verrà dato uno sguardo d'insieme alle politiche messe in atto dall'Europa per favorire lo
sviluppo delle aree rurali e come queste possano positivamente influire nella definizione di tali
politiche.
Il terzo capitolo è affrontato da un punto di vista sociologico. Il perno saranno gli
sconvolgimenti che l'industrializzazione e il conseguente allontanamento dalla terra e forme di
società rurali ha causato nell'uomo, trasformandolo in un uomo "liquido", senza legami sia in
termini locali che affettivi. Cercherò di far risaltare come le ansie derivate da questo processo
siano una delle fonti del riavvicinamento dell'uomo a forme sociali andate perdute nel corso
degli ultimi due secoli.
Cercherò inoltre di dare una definizione di postmodernità: intendendola come fase di passaggio
e non punto di arrivo, il tentativo di analisi verterà sulle caratteristiche di tale epoca storica.
Una di queste è appunto il mondo del lavoro, trasformatosi da garanzia a fonte di infinite
preoccupazioni. In particolare cercherò di fare il punto sul concetto di collaborazione,
evidenziando come esso sia particolarmente necessario per garantire una vita dignitosa, sia
nella sfera personale che in quella lavorativa. Questo concetto tornerà poi in discussione nel
capitolo successivo dove cercherò di approfondire le nuove tipologie lavorative basate sulla
collaborazione.
La parte finale del terzo capitolo sarà tesa invece all'analisi storica del capitalismo.
Evidenziandone i cicli che lo contraddistinguono, seguendo in questo il lavoro di
Arrighi, vorrei cercare di mettere in luce come, appunto, il periodo storico in cui viviamo sia
sostanzialmente giunto a un punto di non ritorno e come sia oggi necessario un cambiamento
di rotta, necessario anche in quanto la crisi economica con cui ancora stiamo facendo i conti ha
messo in ginocchio definitivamente le poche certezze rimaste, andando ad acuire i fenomeni
tipici della postmodernità e portandoli alle estreme conseguenze.
Il quarto capitolo può essere considerato il "cuore" di questo lavoro. In esso cerco di tracciare
il percorso che l'agricoltura sta, faticosamente, intraprendendo per riuscire a diventare davvero
quel "volano" dell'economia che in tanti si auspicano possa essere. Per prima cosa partirò da
un'analisi della crescita di una cultura che poco ha a che fare con il mondo agricolo: la cultura
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hacker. Questo in funzione del fatto che, nell'ottica di ridefinizione del settore agricolo, questa
particolare cultura può giocare un ruolo di primo piano, sia dal punto di vista teorico, in quanto
molti aspetti si basano proprio sui principi di collaborazione e di comunità, sia dal punto di
vista applicativo che, come vedremo, sta ottenendo consensi anche in ambito politico. Le scelte
e gli strumenti messi in gioco dall'Unione Europea per favorire la rinascita dell'agricoltura
vertono proprio nel voler accrescere la presenza dell'ICT nel mondo rurale, con risvolti che
potrebbero essere positivi sia per il comparto produttivo che per quello sociale. L'ICT in
generale, come cercherò di dimostrare, è foriero di diverse innovazioni "dal basso", grazie alla
possibilità di mettere in relazione le persone in quanto tali, prima di tutto, e in secondo luogo i
produttori e i consumatori, in un'ottica di disintermediazione, che può portare ad un maggior
coinvolgimento nelle attività produttive e nelle attività rurali in generale.
Successivamente verterò l'attenzione all'analisi dei nuovi modelli economici basati sul
downshifting. Vivere più lentamente diventa il nuovo paradigma per uscire dalla crisi
economica e sociale che stiamo attraversando. L'entrata in gioco sulla scena internazionale di
nuovi attori economici ha portato necessariamente a chiedersi se il modello di sviluppo
applicato fino ad oggi sia corretto e se sia possibile definire nuove modalità. In quest'ottica
"ripensare il Sud", sia in termini italiani che internazionali, potrebbe essere un vantaggio non
indifferente nella definizione di tale modello, che vede messi in primo piano quei concetti,
sviluppati nei precedenti capitoli, che erano andati perduti nel corso degli ultimi secoli.
Rimettere l'uomo al centro, creare un nuovo umanesimo dovrebbe essere la priorità per poter
garantire una vita dignitosa. In quest'ottica l'agricoltura potrebbe dunque rappresentare la
chiave necessaria a far sì che questo possa avvenire, in quanto i suoi ritmi esulano da quelli
cittadini, che si sono imposti come dominanti.
Da questo punto di vista dunque la decrescita rappresenta forse il miglior esempio perseguibile,
per quanto criticabile. La rivalutazione generale di ciò che è sempre stato definito "arretrato",
se coniugato con quanto esiste invece di "moderno" potrebbe dunque rappresentare il definitivo
superamento di pregiudizi e preconcetti sul vivere sociale e sul mondo rurale.
La parte finale del capitolo sarà tesa all'analisi di questa riconcettualizzazione che vede negli
Alternative Food Networks la massima espressione. Cercherò di mostrare cosa essi siano, cosa
rappresentano e come potrebbero giovare alla produzione agricola e ai consumatori,
evidenziandone le caratteristiche salienti e le varie forme che si sono sviluppate per ora,
essendo il fenomeno ancora particolarmente nuovo.
Infine cercherò di evidenziare i tratti salienti di questi metodi dell'agricoltura che, anche
attraverso l'apporto della Carta di Milano, sta tentando di ricollocarsi in una varietà di ambiti
12
che non coprono solo ed esclusivamente l'agricoltura tout-court ma anche, e soprattutto, ambiti
legati ai servizi alle persone.
L'ultimo capitolo sarà invece un veloce excursus su Rural Hub, un'azienda agricola innovativa
con sede a Calvanico, in provincia di Salerno. Chiamarla "azienda agricola" è particolarmente
riduttivo, ma rimando al capitolo stesso per un'analisi più approfondita del caso, in cui si
cercherà di mostrare come esso sia la summa di tutto ciò che ho cercato di riassumere in queste
brevi pagine di introduzione. Nello specifico ne analizzerò le peculiarità a partire dal Manifesto
redatto nel 2014 grazie al contributo del team multiculturale e multidisciplinare che sta dietro
a questa startup (un altro sinonimo riduttivo per definire Rural Hub), mettendo in evidenza
quelle caratteristiche che ho affrontato nel testo.
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Dall’Unità al Boom!3
Partire da un’analisi storica dell’agricoltura italiana è d’obbligo ai fini di una ricerca che vuole
andare ad indagare i motivi dietro all’accresciuto interesse per il settore agricolo e a
comprenderne gli sviluppi futuri. Sicuramente a questo fine la storia dell’agricoltura andrebbe
analizzata nella sua totalità, a partire dal mondo primitivo, per ricercare in profondità le
motivazioni nascoste dietro alcuni processi, sia di produzione che di comunità.
Non è questa la sede, purtroppo, per un discorso così approfondito ma, per carpire tutte le
sfaccettature nascoste di un’attività fondamentale e fondante della nostra società e per capirne
gli sviluppi futuri, partire da “l’inizio della fine” è sicuramente un buon proposito.
La rivoluzione industriale (che a grandi linee coincise in Italia con l’unificazione) è il momento
storico con cui si identifica una svolta nell’agire umano. L’industrializzazione coincise con
l’abbandono delle campagne ed anzi, fu il motore principale che scatenò l’esodo verso le città.
Vero e proprio punto di svolta, l’industrializzazione e gli sforzi tesi a realizzarla furono
portatori di enormi sconvolgimenti, a livello sociale prima di tutto. Questi sconvolgimenti
sociali hanno radici profonde e ben radicate nella terra e nel lavoro agricolo, in quanto il
processo industriale ha comportato «il sistematico smantellamento delle residue economie
caratterizzate principalmente dalla produzione di valori d'uso e dalla sopravvivenza di forme
di scambio non esclusivamente mercantili, in cui il dono e la reciprocità avevano ancora un
ruolo significativo»4. Un processo che è andato acuendosi sempre più, fino a portare alle
estreme conseguenze di standardizzazione, individualismo, difficoltà relazionali, paure,
insicurezze…
Ma andiamo con ordine.
3 Tutti i dati presenti in questo capitolo, salvo diversa indicazione, sono tratti da C. Daneo, Breve storia
dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980. 4 M. Pallante, Ricchezza ecologica, Manifestolibri srl, Roma, 2009, p.21.
14
1.1 Il sogno dell’industrializzazione
Verso la metà dell’Ottocento l’Italia era, per chiunque si occupasse di economia pubblica, un
aggregato di deboli strutture economiche agricole ed artigiane.
In un quadro di sempre maggiore internazionalizzazione, l’Inghilterra liberale, liberista ed
economicamente avanzata veniva vista come l’esempio da seguire, macinando consensi nelle
classi dirigenti europee.
Nella nostra piccola realtà italiana si faceva strada l’idea e la convinzione che il
congiungimento in un unico Stato avrebbe potuto rappresentare la soluzione necessaria per
poter avviare uno sviluppo basato proprio sull’esempio britannico.
Libertà di commercio, unificazione delle leggi e degli ordinamenti erano ciò che più faceva
gola alla classe dirigente. Il problema era come riuscire ad avvicinarsi agli standard produttivi
inglesi, dal momento che ancora mancava una struttura imprenditoriale degna di questo nome
e la quasi totalità della forza lavoro era concentrata in agricoltura.
Il primo censimento della popolazione, eseguito sul finire del 1861, indicò infatti come la quota
di addetti all’agricoltura in Italia fosse intorno al 70% della popolazione lavorativa.
Sembrava dunque già scontato che fosse questo spazio rurale a dover tracciare la strada per
quell’industrializzazione tanto agognata. Quello spazio rurale abitato dai tre quarti della
popolazione attiva e da cui uscivano almeno i due terzi della produzione commerciale
rappresentava dunque la chiave di volta dell’economia nazionale al momento dell’Unità.
Attorno all’agricoltura avrebbero dunque dovuto via via crescere commerci e manifatture lungo
vie di traffico sempre più efficienti e diffuse.
I problemi, purtroppo, erano parecchi, primo fra tutti il rapporto tra superficie agricola totale
(S.A.T.) e superficie agricola utilizzata (S.A.U.): sui 26 milioni di ettari della superficie
agricola totale, non più di due milioni erano organizzati in imprese in cui fosse in atto una
crescita tecnologica e produttiva: meno dell’8% del totale. Oltre a questo, le necessità
dell’autoconsumo, l’impossibilità economica di procedere a trasformazioni colturali, la
mancanza di conoscenze tecniche diffuse, rendevano l’agricoltura italiana degli anni settanta
dell’Ottocento una attività particolarmente arretrata e di sussistenza.
In sostanza, come fa notare tale situazione non corrispondeva alle speranze ed alle esigenze di
crescita complessiva dell’economia: l’Italia post-unitaria era composta, da un lato, da attività
agricole prevalentemente precapitalistiche e spesso di pura sussistenza e, dall’altro, da poche
industrie che potessero aspirare ad essere competitive sul piano internazionale e che comunque
non sempre potevano contare su un florido mercato interno. Ad eccezione del Piemonte, forte
15
dell’attenzione riservatagli da Cavour, il resto d’Italia era dunque un classico esempio di
arretratezza economica5.
Nonostante ciò6 l’agricoltura italiana riusciva comunque a fruttare al commercio estero del
regno il 55% delle sue esportazioni.
Si configurava già allora con evidenza un problema che anche i giovani neo rurali di oggi, e gli
agricoltori in generale, avvertono: l’abbandono istituzionale. Mentre oggi, seppur con
difficoltà, si provano a sviluppare sistemi alternativi scevri della presenza statale, subito dopo
l’unificazione era chiaro come questa situazione di lontananza delle istituzioni fosse avvertito
come problema principale. Una scarsa attenzione verso il piccolo agricoltore e al settore in
generale, quello costituito dalla vastità di piccole aziende in possesso di piccoli e piccolissimi
appezzamenti di terreno, non certo quello dei grandi proprietari terrieri che addirittura si videro
consolidare i propri privilegi, insieme a quelli degli «improduttivi latifondisti»7.
Questo è stato infatti più volte considerato il motivo del ritardo nei tentativi con cui l’Italia
cercò di mettersi al passo con l’industrializzazione del resto d’Europa. «La mancanza di
dinamismo dell’agricoltura, si è sostenuto, si tradusse in bassi livelli di accumulazione del
capitale con conseguenti scarsi livelli di dinamismo industriale»8.
Sono in molti gli storici e i commentatori che affermano, o hanno affermato, come
l’inefficienza dell’agricoltura italiana, dominata in vaste aree da proprietari assenteisti,
rappresentava un peso morto per l’economia, con il risultato che un’alta percentuale della
popolazione produceva a malapena il necessario per la propria sopravvivenza, dedicandosi
quindi quasi esclusivamente a pratiche di auto-consumo e sussistenza.
Come afferma Paul Corner:
«Per Emilio Sereni, gran parte dell’agricoltura italiana era “una palla di piombo al piede del
capitalismo italiano”: anche Pietro Grifone sostiene che il perdurare di una larga fascia di
strutture agricole legate alla sussistenza costituì una delle tare d’origine dello Stato italiano
5 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.75. 6 «E nonostante la coltivazione della terra fosse retta quasi esclusivamente da zappa, falcetto e aratro in legno».
Ibidem. 7 Ibidem, p.83. Vedremo più avanti come la lentezza dello sviluppo agricolo sia dovuta alle difficoltà dello Stato
di investire risorse in tale settore. Risorse che potevano andare in qualsiasi direzione desiderata: dall’istruzione e
formazione, agli apporti strettamente legati a forme di aiuti economici. Invece le politiche agricole hanno
tendenzialmente preferito la strada della calmierizzazione dei prezzi e delle strette doganali, che hanno provocato
non pochi problemi economici. 8 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992.
16
moderno. E’ facile arguire come dietro tali osservazioni fosse sempre presente il modello
britannico; il presupposto implicito era che la rivoluzione industriale si dovesse basare sulla
rivoluzione agricola e che il tentativo di affrontare la prima senza la seconda si risolvesse in
una partenza irrimediabilmente perdente»9.
Nell’ultimo decennio del secolo XIX la situazione era già particolarmente grave.
Dall’idealizzazione iniziale dell’agricoltura, quando cioè la si considerava foriera dello
sviluppo economico nazionale, si passò ad una presa di coscienza in senso opposto: il settore
agricolo era evidentemente non soltanto incapace di fornire l’eccedente necessario alla
popolazione urbana, ma non sembrava neppure più in grado di sostenere la vita e la
riproduzione dei suoi stessi addetti.
La situazione che si venne a configurare sfociò presto in una crisi agraria, che vedeva
contrapposte due forze: da una parte, i contadini declassati, affamati e sottoccupati, ammassati
nelle campagne; dall’altra i grandi (e spesso improduttivi) proprietari terrieri, arroccati nella
sicurezza datagli da una sorta di “paternalismo proprietario”, come viene chiamato da Corner
l’interesse esclusivo di cui questi proprietari godevano da parte dello Stato.
La crisi avviò presto un clima di tensione che vide la nascita di scioperi e forme di
“organizzazione di resistenza agraria” dovunque, innescando di conseguenza situazioni non
controllabili non solo da parte dello Stato. La progressione di questi scioperi infatti pose tutta
la possidenza agraria di fronte a problemi di gestione sociale ed economica inediti e che non
sapevano assolutamente come gestire. Gli scioperi agrari si moltiplicavano nonostante gli
arresti, le diffide e i continui interventi dell’esercito, inoltre le astensioni dal lavoro e le
agitazioni si concentravano proprio nelle zone dove produttività e trasformazioni agronomiche
erano più elevate: la valle padana, la bassa emiliana e la Puglia10.
Al Nord Italia il clima minaccioso scaturito dalle spinte salariali e dalle rivendicazioni
bracciantili, che proseguivano nonostante l’intervento delle forze dell’ordine, costringevano i
possidenti ad un trasformismo agrario in cui dovevano impegnare capacità imprenditoriali e
capitali. Al Sud invece i possidenti assistevano impotenti a quella forma di sciopero passivo
rappresentato dall’avvio di una emigrazione di massa.
9 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p. 9. 10 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
17
Le risposte di Nord e Sud Italia a questi fenomeni furono dunque, necessariamente, diverse e,
insieme, convergenti e divergenti. Convergevano infatti nell’opporsi ad ogni mutamento delle
condizioni economiche e normative dei contadini, mentre divergevano nei modi economici da
mettere in opera per ricostruire i margini di rendita e di profitto erosi insieme dai costi salariali
e dall’andamento sfavorevole dei prezzi. Nel Nord infatti prevalse la scelta di un incremento
della produttività attraverso gli investimenti; mentre al Sud si consolidò la scelta di una
riduzione dei costi attraverso il ritorno al pascolo brado a scapito delle colture.
Tuttavia circostanze diverse concorsero alla risoluzione della vicenda: il raddrizzamento della
congiuntura economica internazionale e la pressione delle vicende sociali e politiche interne
portarono, alla fine del secolo, non soltanto i valori fondiari italiani a cessare la loro caduta e
ad iniziarne la risalita, ma ad offrire sbocchi crescenti alle produzioni agricole ed agricolo
manifatturiere, sia nel mercato interno che internazionale. Inoltre, grazie anche al governo
giolittiano, il periodo che dal 1896/97 si svolse fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale
fu contrassegnato da imponenti trasformazioni agrarie che avrebbero dato ad una parte delle
campagne italiane un aspetto ed un assetto più moderni, funzionali alla crescita che in quegli
anni avveniva in tutta l’attrezzatura economica nazionale.
Fra il 1890 e il 1900 l’agricoltura italiana assumeva, nelle sue linee di fondo, i caratteri che
l’avrebbero contraddistinta fino ai giorni nostri. O, quantomeno, veniva a collocarsi nella
traiettoria in cui alcune scelte tecniche, produttive ed organizzative, sarebbero divenute mature
e praticamente irreversibili.
18
1.2 Contadino o operaio?
Uno degli aspetti più importanti che venne creandosi sul finire del XIX secolo è rappresentato
da quella figura professionale che contraddistingue una modalità tutta italiana di affrontare
l’industrializzazione:
«La separazione di una forza lavoro agricola dalla terra costituisce uno dei concetti cardinali
del modello “classico” dell’industrializzazione. Secondo questo modello, per industrializzarsi,
una nazione deve sperimentare la “liberazione” di manodopera dall'agricoltura, con
conseguente urbanizzazione e proletarizzazione. Ma l'applicazione di questo concetto
(palesemente basato sull'esperienza britannica) al caso italiano è soggetta ad alcune riserve»11.
In Italia infatti emerse un tipo di lavoratore particolare, il contadino-operaio, la cui principale
caratteristica era un tenace rifiuto di esser liberato dalla terra. Questa figura rappresenta una
sorta di modello di sviluppo specificamente italiano che, con forme e modalità diverse, ha
mantenuto un ruolo particolarmente importante nella realtà agricola italiana, tanto da essere
oggi tornato in auge presso le nuove generazioni di agricoltori (e non solo).
Questa nuova figura emerse nel momento in cui le famiglie contadine furono sempre più
coinvolte nell’attività manifatturiera. Le donne contadine incominciarono a recarsi alle
manifatture della seta mentre i loro uomini rimanevano a lavorare le terre. Inizialmente si trattò
di una necessità di sopravvivenza: la povertà opprimente imposta dai contratti di mezzadria
veniva alleviata attraverso il lavoro in fabbrica e, soprattutto, molti contadini poterono evitare
di essere espulsi dalle campagne.
Questa situazione si sovverte nel momento in cui gli imprenditori iniziarono a investire nelle
regioni rurali e a lasciare le città. Data la diffusa povertà e l’eccesso di popolazione in rapporto
alle necessità agricole, «le campagne costituivano un enorme serbatoio di manodopera, formato
da gente alla disperata ricerca di un lavoro, e ch'era pronta a impegnarsi per gran parte
dell'anno»12.
11 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.77. Come vedremo, questo ha delle
implicazioni tuttora, in quanto il tentativo di esportare un modello produttivo di tipo industriale al resto del mondo
si sta rivelando fallimentare, e questo sta portando alla definizione di nuove forme economiche. Il problema
dell’Italia, da questo punto di vista, è stato il dover affrontare questo processo di industrializzazione in una fase
storica in cui il nostro Paese non era ancora maturo per essa. Oggi però questa situazione può giocare a nostro
vantaggio nella definizione di una “nuova economia rurale” applicabile anche al resto del mondo. 12 Ibidem, p.82.
19
In questa prima fase del contratto tra le famiglie contadine e l'industria diffusa, la possibilità di
realizzare guadagni al di fuori dell'agricoltura rappresentò la chiave della sopravvivenza sulla
terra, e della riproduzione della famiglia. Trovar lavoro in un qualche tipo di attività
manifatturiera era l'unica alternativa all'emigrazione stagionale, cosa che imponeva
l’abbandono delle campagne da parte degli uomini, «i quali si trasferivano per brevi periodi in
Svizzera o in Francia per lavorarvi come braccianti o muratori, o cercavano una occupazione
stagionale nei cantieri edili di Milano, lasciando le donne a badare alla terra»13. All’inizio del
nuovo secolo la situazione si fece diversa: le famiglie contadine furono in grado di acquistare
sempre più terra, anche se di solito si trattò di piccoli appezzamenti, ma continuarono a
dividersi fra il lavoro agricolo e quello extra-agricolo, alcuni familiari dedicandosi al primo,
altri al secondo. La sopravvivenza e la riproduzione della famiglia contadina erano dunque in
buona parte dovute agli introiti non-agricoli. Ma, seppur cruciale ai fini della sopravvivenza, il
lavoro manifatturiero continuava ad occupare, all'interno dell'economia familiare, un posto
subordinato rispetto al lavoro agricolo. Inoltre, pare che il lavoro in fabbrica non mise in
pericolo neanche i modelli d'autorità tradizionali, e non minacciò l'esistenza della famiglia
contadina ma anzi, andò a rinforzarli: i salari industriali permisero dunque la sopravvivenza e
il consolidamento della famiglia contadina secondo le linee tradizionali, dando poi a queste la
possibilità di comprare i piccoli appezzamenti di cui sopra.
Ciò che colpisce è non solo la lenta evoluzione di un particolare tipo di forza lavoro rural-
industriale, con caratteristiche molto diverse da quelle del proletariato di Manchester o
Birmingham nel XIX secolo, ma soprattutto il fatto che tale forza lavoro fece tutto quanto era
possibile per evitare lo stesso destino, mantenendo stretti i legami con la terra, anche nel
momento in cui la terra non costituiva più la prima fonte dell’economia familiare.
Queste caratteristiche tipiche portano Corner ad affermare che l’industrializzazione italiana
non fu così forzata e artificiale come si sarebbe supposto dalle premesse con cui è partita.
Questo è dettato dal fatto che l’attività economica non fu generata dallo Stato italiano ma che,
anzi, essa era già avviata da tempo grazie ad un «processo di ampio respiro [che] aveva già
incrementato notevolmente la produzione agricola, favorendo la creazione di importanti legami
commerciali con il resto dell’Europa, la nascita di una classe commerciale e imprenditoriale e
la realizzazione di alti livelli di accumulazione»14. Secondo Corner, in particolare, questi
13 Ibidem. 14 Ibidem, p.90
20
sviluppi sono da considerarsi spontanei e diedero l’avvio alla costituzione di una base non solo
economica, ma anche culturale e sociale, necessaria alla crescita successiva.
21
1.3 Verso la Grande Guerra
L'agricoltura alla vigilia della Prima Guerra Mondiale appariva dunque definita e collocata in
un suo spazio economico ormai delimitato. Il suo cammino, per quanto distorto da politiche
tariffarie aggressive e da una serie di preferenze “industrialiste” - che erano ormai parte
costitutiva e condizione per l'inserimento dell'Italia nella dimensione europea delle nazioni
industrializzate - era segnato. Fino al 1914, come testimonia Federico, l’agricoltura fu lasciata
sostanzialmente a se stessa, ad eccezione per le politiche doganali15 e questo ebbe degli effetti
particolarmente positivi per quanto riguarda la produttività. Il valore lordo della produzione
agricola fra il 1871-75 e il 1911-15, infatti, passò da 5,8 a 8 miliardi di vecchie lire, con un
aumento del 38%. Un risultato sicuramente importante, ma purtroppo parzialmente oscurato
dal successo delle attività industriali, il cui valore crebbe nello stesso periodo del 158%,
facendo passare la quota dell'agricoltura sulla formazione del reddito nazionale dal 58 al 42 per
cento16.
Si trattava indubbiamente di un'agricoltura ben diversa da quella degli anni settanta
dell’Ottocento, quando essa era parsa la struttura portante dell'Italia riunificata nonché il
“volano” dell’economia e dell’industrializzazione. Spenti i sentimenti patriottici (e forse un po’
ipocriti) che animavano il dibattito sul ruolo dell’agricoltura, alla vigilia della Grande Guerra
essa mostrava infatti immediatamente, nonostante i progressi conseguiti, i suoi limiti e le sue
deficienze: troppo debole nelle strutture e negli apparati per pretendere un ruolo dirigente,
rivelava proprio nei processi di ammodernamento ristretti ed esitanti, la sua incapacità anche
soltanto di tenere il passo con la crescita dell’insieme della società nazionale.
Segno inequivocabile di questa lentezza era l’andamento dell’interscambio con il resto del
mondo. Nel periodo che intercorre tra il 1870 e il 1875, infatti, su un'esportazione di merci pari
a poco più di un miliardo di lire, la metà era rappresentata da prodotti dell'agricoltura. Neanche
cinquant'anni dopo i prodotti della terra e degli allevamenti contribuivano invece al valore
totale delle esportazioni per meno del 30 per cento. Inoltre, se nei primi anni settanta
l'interscambio agricolo (anche escludendo la seta) risultava seppur di poco attivo, nel 1909-13
era divenuto passivo per circa 250 milioni (un quinto del deficit complessivo): da fattore di
equilibrio, l'agricoltura diveniva componente di rilievo del crescente squilibrio dei conti con
15 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.116. 16 Ibidem.
22
l'estero17. Inoltre, ma questo è possibile affermarlo solo oggi, la situazione rendeva evidenti
anche le difficoltà di gestione di un sistema rurale che rimaneva praticamente sconosciuto.
Nonostante questo però, non si deve necessariamente pensare ad un fallimento del settore. Pur
con tutte le difficoltà del caso, iniziarono a emergere anche nel settore agricolo gruppi
imprenditoriali tecnicamente preparati che, di fatto, stavano sperimentando altre vie di
aggregazione con caratteristiche particolari. Espressione vistosa di queste tipologie di
aggregazione fu la nascita e lo sviluppo dei Consorzi agrari, delle associazioni padronali e di
alcuni consorzi di bonifica. Questi si caratterizzarono principalmente quali strumenti
dell'attivismo innovatore di un capitalismo agrario vagamente liberale. I loro compiti non si
limitavano alla diffusione di moderne tecniche ed efficaci strumenti agronomici, ma
investivano scelte politiche settoriali, assumendosi la rappresentanza degli interessi agricoli
nella loro globalità. Chiunque puntasse ad una riqualificazione dell'agricoltura nel contesto
dello sviluppo economico di quel periodo era schierato tra le fila di queste associazioni. Ma
nonostante gli sforzi le difficoltà ad agire risultavano enormi, tanto che la loro attività non
riuscì a coagulare istanze e forze politico-economiche tali da allargare un'area di consenso nello
stesso mondo rurale.
Un mondo rurale che ancora non riusciva a dimostrarsi coeso. Queste associazioni si trovarono
infatti in mezzo alle asprezze, esistenti ormai da diversi anni, tra la maggioranza dei proprietari
agricoli, da un lato, e dei piccoli contadini tagliati fuori dalle possibilità di sviluppo, dall'altro.
Di certo queste associazioni ebbero l’indiscusso merito di caratterizzarsi come realtà
economica non indifferente, e di favorire particolarmente lo sviluppo del settore. Come
testimonia Daneo, infatti:
«Se non riuscivano ad essere una forza politica di rilievo, i Consorzi agrari e la loro Federazione erano
diventati in breve tempo una forza economica non trascurabile: basti ricordare che nel 1910-13 la
Federazione dei consorzi agrari distribuiva quasi la metà dei concimi chimici e degli antiparassitari, un
terzo delle macchine agricole, quote notevoli di sementi e mangimi, oltre a procurare finanziamenti ai
soci in stretta collaborazione con le Banche Popolari»18.
Anche Federico sottolinea l’importanza di queste associazioni, evidenziando in particolare
proprio l’apporto economico alla società:
17 Ibidem. 18 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.98.
23
«Le cooperative sono associazioni permanenti di agricoltori, con lo scopo di svolgere
collettivamente compiti come l’acquisto e la gestione di input industriali, la lavorazione,
l’imballaggio e la vendita di prodotti, la raccolta di depositi bancari, la concessione di crediti
ecc. [...] Le prime cooperative nel senso moderno del termine furono create nel XIX secolo. [...]
Per comprendere la differenza nella diffusione delle cooperative è opportuno considerarne
vantaggi e svantaggi dal punto di vista del singolo agricoltore. Lo svantaggio consiste nella
perdita di autonomia che l’adesione a una cooperativa comporta. Il principale vantaggio
consiste nella possibilità di sfruttare le economie di scala»19.
Nonostante la loro creazione nel corso del XIX però, il loro processo di affermazione, per
quanto rapido, ha dovuto aspettare l’inizio del XIX secolo per trovare una dimensione valida
in cui svilupparsi. L’accresciuto interesse degli agricoltori per le nuove tecniche favorì in
questo senso il diffondersi di queste realtà.
Non va però scordato che il discorso in questione è quasi principalmente esclusiva del Nord
Italia. Un discorso diverso va invece fatto per il Mezzogiorno, non solo per la mancanza di un
processo di industrializzazione che offrisse alternative (reali o presunte) alla scarsa
occupazione in agricoltura, ma anche, e soprattutto, per la carenza o la totale assenza di
trasformazioni agrarie.
Anno dopo anno i contadini poveri o senza terra si addensavano ai margini del latifondo, in
concorrenza fra loro, privi di potere contrattuale, mancanti di quelle sollecitazioni culturali e
politiche che i processi di sviluppo e le lotte sociali avevano innescato nel Nord.
Camillo Daneo, cita, parlando del meridione, un’inchiesta parlamentare condotta nel 1911-12
dal senatore Faina, il quale affermò: «Nel moto di tutte le classi sociali per la conquista di un
miglioramento economico, al contadino non si presentavano che tre vie: o rassegnarsi alla sua
miseria, o ribellarsi, o emigrare. Preferì emigrare»20. Va fatto presente che questa emigrazione
(che non coinvolse le Puglie) però contribuì a riversare nelle Casse Postali delle famiglie del
Mezzogiorno circa 500 milioni di lire intorno al 1910-13. Un cifra ancor più considerevole se
confrontata con l’ammontare dell’esportazione agricola meridionale che, nel 1913, non
raggiunse i 400 milioni di lire21.
19 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, pp.109-111. 20 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.105. 21 Ibidem.
24
Ormai, alle soglie della Grande Guerra, pur con tutti gli squilibri, le contraddizioni e i ritardi
del caso, l'agricoltura italiana era fondamentalmente integrata in un'economia monetaria in
sviluppo, subendone tutte le oscillazioni congiunturali. Ma si trattava pur sempre di
un'agricoltura che era ben lungi dal rendersi tecnicamente e socialmente omogenea a quella
degli altri Paesi europei centro-settentrionali, nei confronti dei quali vedeva crescere un
distacco e un indebolimento importante, di cui si sarebbero viste le conseguenze negative
nell'immediato dopoguerra.
25
1.4 Tra le due Guerre
La Grande Guerra fu fatta e sopportata dai contadini. Ma nonostante questo la produzione
agricola fra il 1909/13 e il 1915/18 subì una contrazione limitata.
Alla fine della guerra il tessuto agrario italiano non si presentava tecnicamente ed
agronomicamente sconvolto, anzi, nel 1919/20 poteva essere registrato uno stato soddisfacente
della produttività granaria e lattifera, ed anche le produzioni legnose agrarie (vite, olivo,
frutteti) avevano risentito in misura trascurabile della congiuntura bellica22. Gli
sconvolgimenti, e gravi, furono d'altra natura.
L'agricoltura fu colpita da una crisi strutturale profonda che riguardava gli uomini, i gruppi, le
classi sociali ed i loro reciproci rapporti. Come cita Daneo:
«Soprattutto già nel corso della guerra - a citare Arrigo Serpieri - “per mantenere ferma la
resistenza, per mantenere alto lo spirito dei combattenti e della popolazione nell'interno del
Paese, la classe dirigente... ritenne opportuno ricorrere sempre più largamente a promesse di
larghi compensi agli attuali sacrifici... Per quanto riguarda le classi lavoratrici rurali ebbe
soprattutto, fin dai primi anni, larghissima diffusione ed appoggio la formula "la terra ai
contadini". E Serpieri, scrivendo ormai in pieno regime fascista, si affrettava a commentare: «è
del pari evidente che - diffuse con la formula vaga e allettatrice "la terra ai contadini" - mentre
ancora si combatteva e mentre già nelle classi rurali si diffondevano sentimenti di ostilità e di
odio contro la borghesia - quelle idee dovevano necessariamente fomentare in impulsi e
aspirazioni e pretese pericolosissime all'ordine sociale e nazionale»23.
I contadini, insomma, avrebbero presentato il conto alla fine della guerra: “la terra ai contadini”
era stata la formulata usata per motivare i contadini arruolati durante la guerra ed ora era giunta
l’ora di riscattarla.
Ma la terra era troppo frammentata per sorreggere le famiglie multiple, e i salari pagati nelle
occupazioni manifatturiere alternative erano troppo alti per non condizionare le scelte. La
pluriattività che era stata nel XIX secolo una necessità, dal 1920-30, diventò un comportamento
acquisito e consolidato. Tanto che, forti delle esperienze maturate, alcune famiglie diedero il
via ad una piccola attività economica familiare, sfruttando quelle abilità tecniche che avevano
22 Ibidem. 23 Ibidem, p.110
26
imparato nel periodo in cui frequentavano le manifatture rurali. Le famiglie dunque
continuavano a resistere alla tentazione di abbandonare la terra e di trasferirsi definitivamente
in città, mantenendo vivo il modello operaio-contadino.
Va detto però che negli anni venti le famiglie a base rurale godevano di vantaggi economici
considerevoli rispetto alle famiglie urbane: tra questi vantaggi c’era il possesso o l'uso della
casa, di solito ampia, e in grado di ospitare la famiglia multipla. Se erano in affitto, le famiglie
pagavano poco, perché i canoni per le case rurali rimanevano bassi, e la clausola contrattuale
che imponeva canoni molto più elevati a coloro che vivevano nella casa colonica ma non
lavoravano nell'agricoltura era in effetti inapplicabile. Questo perché tutti, in momenti diversi,
davano una mano nella cura della terra o degli animali. Inoltre, il podere annesso alla casa, per
quanto piccolo, era anch'esso chiaramente un vantaggio, in quanto soddisfaceva bisogni
elementari della famiglia24.
Ma non ci volle molto perché serpeggiassero accuse da più parti rivolte all’arricchimento degli
agricoltori in quanto detentori di un provvisorio monopolio dei prodotti alimentari i cui prezzi
erano costantemente cresciuti nel corso della guerra.
Di fatto questa accusa divenne presto un argomento usuale e quasi popolare.
Agli occhi dei cittadini il fatto che i produttori di generi alimentari si fossero arricchiti dalla
situazione in atto sembrava la cosa più ovvia, e in effetti non avevano tutti i torti.
Va fatta presente però la distinzione esistente fra i diversi strati sociali e anche fra le diverse
zone rurali.
Chi veramente aveva approfittato dell’alta congiuntura dei prezzi agrari aveva tutto l’interesse
a negare il fenomeno in blocco, appellandosi a una sorta di omertà rurale, o a riversare tutta la
colpa su dei non ben definiti “contadini arricchiti”. E se è pur vero che i prezzi dei prodotti
venduti dagli agricoltori aumentarono, tra il 1914 e il 1919, di 3,9 volte, quelli dei prodotti
venduti dagli industriali agli agricoltori (macchine, attrezzi e concimi) erano aumentati di 4,6
volte.
In sostanza, la forbice dei prezzi si era aperta a sfavore dell’agricoltura. Chi si era veramente
arricchito era chi possedeva la terra, i grandi proprietari; i redditi reali dei braccianti invece
erano notevolmente peggiorati.
24 Ibidem.
27
Ma la situazione poneva anche i proprietari in una cattiva posizione, nel segno dello spavento:
dovunque contadini e braccianti smobilitati affluivano nelle Leghe sindacali, si riunivano in
organismi di lotta, occupavano terreni più o meno incolti e partecipavano a scioperi agrari da
cui i proprietari sembravano uscire sminuiti e sconfitti. Fu così che i proprietari terrieri
iniziarono a perdere interesse nell'agricoltura, un po’ perché attratti dalle possibilità offerte
dall’industria urbana, e un po’ perché costretti dalle agitazioni a vendere i propri possedimenti.
In questa situazione di “liberazione” delle terre, il numero dei piccoli proprietari registrò una
crescita spettacolare. Ma se le circostanze dell'immediato dopoguerra, con il brusco rialzo dei
prezzi agricoli, parvero particolarmente propizie, le illusioni a riguardo ebbero breve durata.
Nel giro di un anno o due all'acquisto della terra vi fu una caduta dei prezzi agricoli. Inoltre la
situazione di “tutti contro tutti”, creatasi con l’inasprirsi delle “lotte agrarie” di cui sopra, venne
riportata all’ordine dal cosiddetto fascismo agrario che, in breve tempo, distrusse le
organizzazioni sindacali e cooperative createsi, spesso grazie all’eliminazione fisica dei
dirigenti locali. Riportando conseguentemente la situazione ad uno status quo gradito ai più
facoltosi, grazie anche all’esproprio delle terre precedentemente “liberate”.
Non c’è dubbio quindi che gli anni Venti segnarono un punto di svolta nel mondo agricolo
italiano. Da una parte videro la nascita di una contrapposizione forte tra città e campagna che
solo oggi, come vedremo, si sta iniziando a risolvere. Dall’altra videro un'ampia
differenziazione delle priorità delle famiglie contadino-operaie. Alcune infatti continuarono a
mantenere al primo posto l’agricoltura, pur affidandosi al sostentamento del reddito industriale,
altre, possidenti di poco più di un orto (la quasi totalità, a ben vedere) posero la priorità al
lavoro nelle industrie e al reddito così ricavato.
La tendenza generale andava nel senso di una certa perdita d'importanza dell'agricoltura, in
quanto troppa terra poteva significare che il lavoro agricolo e il lavoro industriale rischiavano
di diventare incompatibili.
Malgrado l'industrializzazione crescente, la forma sociale e il modello della pluriattività
perdurarono al di là della fase in cui erano strettamente necessari alla sopravvivenza. La
famiglia contadina continuò a vivere sulla terra, anche se l'importanza relativa di questa
iniziava il suo declino.
Questa fase di transizione venne a gravare sulle nuove generazioni. Cresciuti in famiglie a base
rurale, questi uomini fecero per la prima volta l'esperienza del lavoro in fabbrica, pur
continuando, all'occorrenza, a dare una mano nei campi. Anche se spesso l’aiuto che davano
28
era puramente economico, al fine di permettere ai genitori di acquistare la terra o di rimborsare
i debiti contratti25.
Queste nuove generazioni “in bilico” tra rurale e urbano, da un lato gettarono le basi per un
abbandono massiccio delle campagne, dall’altro giocarono un ruolo centrale nella definizione
della nuova società industriale italiana. Avendo fatto la loro prima esperienza della fabbrica
durante la guerra o nei primi anni venti, infatti, avevano imparato un mestiere. Dopo aver
passato svariati anni alle dipendenze del “padrone”, era praticamente scontato che fossero i
primi a prendere in considerazione il conseguimento dell'indipendenza nel lavoro non-agricolo,
dopo che la famiglia aveva raggiunto l'autonomia nell'agricoltura26.
Ma nonostante tutte le difficoltà e le novità sociologiche, nelle aree rurali la situazione rimase
abbastanza stabile: le famiglie contadine conservarono la propria compattezza, continuarono a
mantenere un qualche contatto con la terra rifiutando l’urbanizzazione. Le piccole aziende
familiari permisero alle famiglie contadine di restare rurali, di salvare quei fattori che
contribuivano a ridurre il costo della vita, come l’auto-consumo, e a tenere insieme la famiglia.
Il processo di nuclearizzazione delle famiglie iniziata dall’unificazione e proseguita fino alla
fine della Prima Guerra Mondiale, infatti, subì un forte arresto nel periodo tra le due Guerre.
Questo è riconducibile a tre fattori principali.
Il primo è riconducibile al fatto che il processo di urbanizzazione rallentò bruscamente sia per
i motivi economici di cui sopra, sia per gli interventi fascisti rivolti a “sfollare le città”.
Il secondo invece è individuato nel rallentamento della nuclearizzazione familiare, fenomeno
da imputarsi a quei processi di acquisto della terra iniziati a verificarsi subito dopo la fine della
guerra, che portarono alla creazione di una nuova classe di agricoltori/imprenditori:
«guardando al processo storicamente, sembra più esatto suggerire che queste famiglie
attraversarono un processo di virtuale proletarizzazione, ma conservarono una fisionomia
25 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992. 26 Ibidem. Si consideri inoltre il ruolo giocato dal “vil denaro” nella definizione di questa situazione, portando gli
individui abituati al lavoro in fabbrica indiscutibilmente sulla via dell’emancipazione familiare. Afferma Corner
che: «Inevitabilmente, una presenza ingente di guadagni salariali creava tensioni nella famiglia contadina.
Sappiamo che nei membri salariati della famiglia crebbe la riluttanza a far confluire i propri guadagni in un fondo
centrale, preferendo essi tenere il denaro per sé. A contatto con il mondo dell'industria, i gusti mutarono; e la cosa
poté rispecchiarsi in un'accentuazione delle divisioni in seno alla famiglia. Qualche volta, tutto ciò costituì il primo
passo sulla via della dissoluzione della famiglia multipla. Ma, in linea generale, parrebbe che le famiglie
resistessero validamente a queste tensioni, preferendo le garanzie offerte dal fatto di metter insieme almeno una
parte delle risorse ai rischi impliciti nella separazione, e riconoscendo il nesso essenziale tra un miglioramento del
tenore di vita e la famiglia numerosa. A questo proposito occorre ricordare che a partire dal 1927 la crisi economica
rese più difficile alla ristretta famiglia nucleare, separata dalla famiglia multipla, guardare con fiducia al futuro.
29
sufficientemente diversa da quella del proletariato urbano da permetter loro di emergere, a
distanza, come piccoli imprenditori»27.
Il terzo aspetto è quello più naturale e che anche nell’età contemporanea stiamo vivendo: la
crisi. Come testimonia Corner: «a partire dal 1927 la crisi economica rese più difficile alla
ristretta famiglia nucleare, separata dalla famiglia multipla, guardare con fiducia al futuro»28.
Ritornare nella sicurezza del nucleo famigliare permetteva di poter affrontare la vita con un po’
più di serenità, perlomeno economica, dal momento che parte dei costi affrontati in città erano
azzerati dall’autoconsumo e dalla partecipazione di una comunità rurale in cui, al momento del
bisogno, l’aiuto non era neanche necessario chiederlo29.
Nel frattempo, sotto l’egida fascista, la ripartizione delle colture, l'andamento della produzione,
la consistenza del patrimonio zootecnico, l'impiego di concimi chimici, indicavano, fino al
1925/26, l'apparente buona salute dell'agricoltura: la produzione granaria crebbe da una media
di 46 milioni di quintali ad una di 60 circa30.
Ma ben presto l'ondata della crisi economica mondiale del 1929 si rovesciò sull'Italia spazzando
via il precario equilibrio raggiunto nei conti con l'estero dopo la rivalutazione della lira
avvenuta nel 192631. La caduta brusca delle esportazioni, accompagnata dal crollo dei prezzi
sul mercato internazionale, fu il primo segnale. Nel 1929 l'esportazione italiana di prodotti
alimentari era stata pari a 3,6 miliardi di lire; nel 1930 scese a 3,3; nel 1931 a 2,9 — con una
discesa nel giro di due anni di quasi il 20 per cento32.
Con la crisi economica seguita alla rivalutazione, l'industria rallentò il passo, e la
disoccupazione aumentò bruscamente. Molti appartenenti alla generazione “in bilico”, trovatisi
disoccupati, si diedero alla produzione autonoma, tornando in famiglia, mentre i piccoli
proprietari terrieri si trovarono costretti ad andarsene dai propri possedimenti per insolvenza o,
27 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.97. 28 Ibidem, p.94. 29 A tal proposito ci tengo a portare come esempio il contesto rurale in cui mia nonna è nata e ha vissuto dal 1928
al 1986. Mi racconta spesso, infatti, di come l’aiutarsi era all’ordine del giorno a Carloforte (provincia di Carbonia-
Iglesias, in Sardegna), soprattutto quando si affrontavano momenti particolarmente complessi. In quei momenti
si pensava alla sopravvivenza della comunità, per cui il panettiere donava i suoi prodotti al pescatore in cambio
di qualche pesce, e così facendo tutto il paese cercava di sostentare ogni abitante attraverso logiche di dono.
L’importanza del dono nelle comunità rurali verrà poi affrontato più dettagliatamente nel quarto capitolo. 30 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980. 31 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009. 32 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
30
nel migliore dei casi, a rivenderli e tornare ad essere braccianti. Chi invece mantenne le
proprietà agricole fu spesso costretto ad emarginarsi dal mercato e tornare alle pratiche di
autoconsumo per la sopravvivenza, dal momento che la grande depressione aveva gravemente
colpito i guadagni dei contadini. Come afferma Federico, infatti:
«La grande depressione non colpì tanto la produzione agricola, rimasta più o meno costante o
addirittura aumentata, quanto i prezzi. Le ragioni di scambio dei prodotti agricoli diminuirono di circa
un terzo dal 1928 fino ai minimi del 1932-1933. Quasi tutti i Paesi reagirono nel breve periodo
aumentando i dazi. [...] Questa misura “tradizionale” però si dimostrò insufficiente ad arrestare la caduta
dei prezzi, e quindi i governi ricorsero a strumenti nuovi, almeno per l’Europa in tempo di pace:
l’imposizione di restrizioni quantitative all’importazione (quote) e il controllo totale del mercato»33.
All’entrata in guerra al fianco della Germania nazista nel 1940, l’Italia presentava dunque una
situazione agricola particolarmente provata dalla crisi e dai tentativi dello Stato di sistemare le
cose. Tuttavia l’organizzazione dell’agricoltura su base paramilitare, iniziata nel 1935/36,
sembrava, almeno sulla carta, compatta e totalitaria. E sulla carta rimase: la destinazione delle
risorse all’approvvigionamento bellico si fece immediatamente sentire sulla produzione
agricola che, già indebolita dalla crisi prebellica e dall’assenza di più di un milione e mezzo di
contadini e braccianti spediti al fronte, venne a mancare anche di fertilizzanti chimici e minerali
mentre molte macchine rimasero ferme per scarsità di carburanti34.
33 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.118. 34 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
31
1.5 La ricostruzione
In quale misura la Seconda Guerra Mondiale danneggiò il patrimonio fondiario ed agrario
italiano non fu mai misurato con esattezza, ma forse non era neanche possibile farlo. Di certo
la situazione si presentava particolarmente difficile: la produzione diminuiva e i prezzi
aumentavano, con un ritmo inflazionistico che mai prima di allora era stato conosciuto35. Fra
il 1939 e il 1946 i prezzi all’ingrosso aumentarono di 33 volte e nuovamente si tornò a parlare
di “arricchimento contadino”. Quando nella realtà dei fatti la situazione creatasi era frutto dello
stato di distruzione in cui versava il territorio agricolo italiano con danni stimati da
Confindustria nel 1947 intorno ai 400 miliardi36.
Il 1946 segnò una tendenza alla ripresa.
Anche se gli sforzi dello Stato furono tesi principalmente alla ricostruzione del settore
industriale, non mancarono studi ed indagini conoscitive per un efficace ripristino e
trasformazione delle strutture agrarie. Da queste indagini emerse il quadro di un'agricoltura (e
dei contadini in essa) povera, arretrata, precaria. Al centro si collocavano i problemi della
proprietà e dell'uso della terra; ed erano, insieme, tecnici e politici. Dal punto di vista tecnico
il problema era evidentemente legato al fatto che i tre quarti dell'agricoltura italiana erano
ancora sottoposti a pratiche colturali le cui tecnologie di base erano estremamente arretrate. Da
un punto di visto politico, la «ruralizzazione» fascista, per quanto demagogica, aveva ottenuto
- attraverso le leggi contro l'urbanesimo e lo scoraggiamento dell'emigrazione - non solo il
risultato di sovraffollare le campagne, ma anche quello di allargare l'area delle piccole
coltivazioni parcellari e dei piccoli coltivatori precari. Si era così consolidato il modello di un
arcipelago capitalistico composto per la maggior parte da attività legate alla sopravvivenza
familiare.
35 Questo ebbe come effetto quello di acuire le difficoltà già marcate nel settore e di protrarne l’effetto anche a
molti anni dopo la fine della guerra. Le difficoltà strutturali mantennero il predominio sulla situazione economica
che invocava una riformulazione in toto del settore, ma che trovava scontri a più livelli. Come afferma Federico,
infatti: «gli effetti della Seconda Guerra Mondiale furono qualitativamente simili ma più gravi di quelli della
prima. Il passaggio all’economia bellica fu molto più facile che nel 1914, in quanto in tutti i principali Stati
belligeranti, compresi gli Stati Uniti, il mercato dei prodotti agricoli era già, parzialmente o totalmente, sotto il
controllo dello Stato. L’intervento statale non potè però evitare un crollo della produzione agricola in Europa
dell’ordine del 20-30%. La produzione aumentò invece negli Stati Uniti, che rifornivano i propri alleati, compresa
l’Unione Sovietica. [...] Il ritorno alla pace non portò cambiamenti significativi nelle politiche agrarie. In Europa,
la memoria delle privazioni belliche e la Guerra Fredda rendevano l’opzione di smantellare le strutture di controllo
e di affidarsi al libero mercato dei prodotti agricoli piuttosto impopolare anche fra i consumatori, oltre che,
prevedibilmente, fra i produttori» (G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna,
2009, p.122). 36 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
32
Di questa agricoltura si effettuò la “ricostruzione”37 fra il 1946 e il 1950. Come già detto però
tutte le priorità furono indirizzate alla riattivazione dell'apparato industriale e i problemi
dell'agricoltura, una volta accertata la ripresa delle principali coltivazioni, non furono più
considerati come fondamentali. «Anzi le campagne, negli anni in cui più intensa fu la
riconversione industriale accompagnata da numerosi licenziamenti, furono guardate come
rifugio provvisorio per la nuova disoccupazione: i primi ad essere licenziati erano appunto
“quei lavoratori che hanno possibilità di impiego nell'agricoltura su terreni di loro
proprietà”»38.
Con il 1950/51 tutta l'economia italiana, e l'agricoltura in essa, entrava in una nuova fase di
espansione produttiva e tecnologica, guidata da una congiuntura internazionale favorevole e
sorretta da un crescente volume di investimenti pubblici e privati.
Fra il 1950 e il 1952 diversi provvedimenti governativi favorirono il rilancio produttivo e
l'ammodernamento tecnologico, se non dell'agricoltura nel suo insieme, perlomeno di quei suoi
comparti e settori capaci di utilizzare le occasioni offerte dai finanziamenti pubblici.
L'iniziativa di maggior rilievo fu senza dubbio lo stralcio di riforma fondiaria. Esso venne
approvato nel 1950 e la realizzazione avvenne attraverso la costituzione di enti appositi, i quali
rapidamente censirono le grandi proprietà espropriabili in tutto o in parte.
L’operazione ebbe risultati economici e sociali eccezionali, tali che nel 1955 oltre 1 milione e
100.000 ettari andarono ad allargare il settore contadino dell’agricoltura. Inoltre gli
investimenti nel settore salirono vertiginosamente dai 241 miliardi del 1951 ai 434 miliardi del
1955, allargando le opere di bonifica e di miglioramenti fondiario39. Gli sviluppi di maggior
rilievo si ebbero però nei settori tecnologici e produttivi subordinati al settore industriale che
in quel periodo stava realizzando il suo “miracolo”, passando da un valore aggiunto pari a 3564
miliardi nel 1951 a 8197 miliardi nel 1961, con una crescita pari al 130% circa. Mentre il valore
aggiunto del solo settore agricolo, per quanto in crescita, si fermava a 3103 miliardi nel 1961,
con un aumento del 49% dal 195140.
37 Le virgolette sono d’obbligo dal momento che la ricostruzione in questione avvenne solo per i comparti
produttivi ritenuti fondamentali. Quelli minori dovettero principalmente affidarsi alla buona volontà dei
conduttori. 38 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1980, p.165. 39 Ibidem. 40 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009.
33
Il dato più clamoroso è quello legato alla forza lavoro del settore agricolo, che passò da
8.641.000 addetti nel 1951 a 6.207.000 nel 1961.
Vi era in quel periodo in Italia un clima di euforia diffusa a cui però teneva il passo la
convinzione che, nonostante lo sviluppo produttivo, i progressi tecnologici e lo sfollamento,
occorresse una correzione di indirizzi.
Tra il ‘58 e il ‘65 l’economia italiana si trovò ad affrontare una situazione particolarmente
travagliata: per molti aspetti, infatti, la crescita impetuosa poneva più problemi della precedente
stagnazione. Il contributo fondamentale era dato sicuramente dall'eccezionale sviluppo
dell'industria, che accentuava la dipendenza dell'agricoltura nell'assetto economico-sociale del
paese, nonché la quasi auspicata sua irrilevanza. Come scrive Daneo infatti:
«Sempre più spesso si poté leggere anche sulla stampa specializzata che l'agricoltura era ormai
destinata a ridimensionarsi ed a concentrarsi, e che i problemi residui sarebbero stati semmai di
ordine assistenziale, per facilitare lo svuotamento delle sacche di arretratezza.
Non tutti, ovviamente, erano d'accordo su questi giudizi; anzi da più parti si continuò a
sottolineare l'opportunità politica di non sottovalutare il “mondo rurale” — tanto che un
portavoce della Coldiretti, Valentino Crea, qualche anno dopo alla domanda se fosse «finita
l'era della politica dell'assistenza e dei sussidi» non esitava a rispondere: «Noi non lo crediamo,
perché l'agricoltura italiana, anzi il mondo rurale, ha un alto valore sociale per poter essere
abbandonato a se stesso»41.
Secondo Barberis, inoltre, questa nuova crisi agraria risultava parzialmente fittizia, in quanto
oltre un milione di aziende agricole risultavano delle part time farm che, similarmente a quanto
avvenuto tra il 1861 e il 1919, mantenevano alta quella caratteristica tutta italiana del
contadino-operaio (ora trasformato in operaio-contadino), ancora riluttante all’idea di
abbandonare definitivamente la terra. Il numero di tali soggetti e delle loro famiglie allargate
(che risultavano nel 1961 pari al 19,4% del totale delle famiglie italiane per calare poi al 16,9%
nel 1971) era esiguo ma importante, soprattutto perché è ciò che differenzia la struttura sociale
ed economica italiana da quella degli altri Paesi capitalistici avanzati. Non solo nel settore
agricolo42. L’industria italiana infatti, nella sua grande maggioranza, si trova a dover produrre
41 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1980, p.193. 42 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009.
Come testimonia inoltre Corner: «una delle caratteristiche principali che differenziano la struttura sociale ed
economica italiana da quella degli altri Paesi capitalistici avanzati è precisamente la persistenza e vitalità di un
ampio settore di piccole imprese industriali e artigiane, molte delle quali a carattere familiare, svolgenti una
34
beni dalla domanda altamente variabile, con una tecnologia fortemente rigida e ad alta intensità
di lavoro. «In queste condizioni non è un caso che essa sia caratterizzata, in misura più
accentuata di quanto si osserva in altri Paesi, dalla presenza di un vasto settore di piccole
imprese: queste ultime infatti permettono di recuperare importanti margini di flessibilità al
sistema, tramite la capacità di adattamento dei micro-imprenditori, della famiglia come unità
produttiva, del lavoro a domicilio e del lavoro "nero" in genere»43.
In questo contesto, il mantenimento di un collegamento tra l'industria e l'agricoltura per
l'autoconsumo conserva tutta la sua attualità.
funzione attiva nel processo di accumulazione nazionale e quindi non definibili tout-court come imprese
"marginali", "residuali" o "pre-moderne". Secondo i dati dei censimenti industriali, nei venti anni compresi tra il
1951-1971, gli occupati nelle imprese manifatturiere con meno di 100 addetti nel nostro Paese restano
costantemente superiori alla metà del totale occupati (e il loro peso è ancora maggiore se, invece delle imprese si
considerano gli stabilimenti o le "unità locali" con meno di 100 addetti). Questo dato è assolutamente privo di
riscontro in altri Paesi industriali avanzati (Giappone escluso). Nel valutare tale dato inoltre, va tenuto presente
che l'entità dell'occupazione relativa alle piccole imprese sfugge in parte consistente alle statistiche ufficiali,
essendo spesso costituita da "lavoro nero" e, in particolare, da lavoro a domicilio, che risulta, da numerose
ricerche, una realtà grandemente diffusa nel nostro Paese (a differenza, ancora una volta, degli altri Paesi
industriali occidentali)» (P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.128). 43 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.130.
35
Terreno fertile
«Ruralità e agricoltura sono due termini che sono usati talora come sinonimi; rus era la campagna dei
latini, agricoltura è la coltivazione del suolo. Agricoltura fa dunque specifico riferimento a un insieme
di attività economiche; ruralità rimanda invece a un particolare ambiente antropico, in contrapposizione
a quello urbano»44.
Dopo aver visto velocemente i processi in atto nel mondo agricolo nel primo secolo di vita
dell’Italia unita è necessario vedere anche come il settore si stia evolvendo oggi.
Molti aspetti, come vedremo, sono cambiati, altri si spera che cambino. Altri ancora invece
sono rimasti quasi immutati, come per esempio la rilevanza del contadino operaio.
Se il capitolo precedente voleva essere un modo per inquadrare storicamente l’agricoltura e
mostrare alcuni aspetti salienti dell’attività agricola, il presente capitolo ha invece più a che
fare con l’ambito economico/statistico. Si intende qui infatti mostrare i cambiamenti avvenuti
nel corso degli ultimi 30 anni, facendo leva su quegli aspetti che maggiormente rappresentano
il futuro del mondo rurale: i giovani, lo sviluppo tecnologico, i piani comunitari.
Ritengo che sia necessario, ai fini di una maggiore completezza del discorso di tesi generale,
chiarire quali sono i movimenti in atto in Italia, di modo da render più facile identificare quei
fenomeni di sviluppo che affronteremo più avanti.
In particolare, cosa che mi preme mettere in luce da subito, è la questione della
disurbanizzazione e del conseguente incremento della popolazione rurale45.
44 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.XV. 45 I motivi sociologici dietro a questo fenomeno li affronteremo nel prossimo capitolo.
36
2.1 Odio la città
Il nuovo millennio si apre all’insegna di un nuovo fenomeno sociologico: mentre nei Paesi
emergenti dell’Asia, dell’America Latina, perfino dell’Africa il processo di urbanizzazione
avanza prepotentemente dando vita a forme esasperate di urbanismo, nell’occidente più
sviluppato si intravedono chiari segnali di disurbanizzazione e si assiste al fenomeno della
rinascita rurale. Quest’ultima ha la sua manifestazione più vistosa nel ripopolamento delle aree
rurali a scapito di quelle urbane. Anche in Italia, come in molti altri Paesi occidentali, al declino
demografico delle aree urbane si contrappone la ripresa di quelle rurali. Secondo la
classificazione che riporta Corrado Barberis, presidente dell’INSOR (Istituto Nazionale di
Sociologia Rurale), elaborata negli anni Ottanta:
«Gli oltre ottomila comuni italiani sono distinti in rurali e urbani, ai quali vengono aggregati
anche gli intermedi. Al mondo rurale sono assegnati i comuni con almeno il 75% di superficie
a verde e una densità demografica non superiore a 300 abitanti per chilometro quadrato; al loro
interno vengono distinti i comuni ruralissimi, così chiamati perché la loro superficie a verde
raggiunge una percentuale superiore al 90%, e i comuni rurali di montagna. Sono stati
classificati urbani, oltre che i capoluoghi di provincia e i grossi centri con più di 50000 abitanti,
i comuni contrassegnati sia da una bassa quota di superficie a verde (meno del 75%) sia da una
densità elevata (oltre 300 abitanti). Nella categoria dei comuni intermedi sono stati inseriti tutti
i rimanenti comuni: sia quelli che, pur presentando un’alta percentuale di superficie a verde
(oltre il 75%), non possono essere considerati rurali in ragione della loro elevata densità (oltre
300 abitanti), sia quelli che, avendo una bassa percentuale di superficie verde (meno del 75%)
non possono essere considerati urbani a causa della loro bassa densità (meno di 300 abitanti)»46.
Sulla base di questa classificazione, è possibile esaminare l’evoluzione demografica dei diversi
tipi di comuni negli ultimi tre decenni del secolo scorso e nel primo quinquennio 2000.
All’inizio degli anni ‘80 l’Italia era ancora in piena crescita demografica. Il censimento svoltosi
nel 1981 aveva contato 2.420.000 italiani in più rispetto al 1971, con una variazione percentuale
del 4,47%. A questa crescita contribuivano tutti i tipi di comuni, ma quelli urbani e semi urbani
in misura maggiore di quelli rurali. Mentre la popolazione di questi ultimi risultava aumentata
46 Ibidem, p.29.
37
del 2,8%, era cresciuta del 4,3% quella dei comuni urbani e addirittura del 10,9% quella dei
comuni intermedi47.
Dieci anni dopo la situazione appariva assai diversa.
Il censimento del 1991 evidenziava che l’Italia era ormai largamente investita dai fenomeni di
crescita zero e del declino demografico urbano. Nel 1991 vennero contati soltanto 221.000
abitanti in più, con una variazione dello 0,4%. Complessivamente i comuni urbani avevano
perso nel corso di quel decennio 685.000 abitanti (-2,4%): una perdita che sarebbe stata ancora
più grave se i centri urbani più piccoli non avessero compensato con i loro 473.000 abitanti in
più (7,1%) l’emorragia demografica dei grossi centri capoluogo e non, la cui popolazione
risultava diminuita di 1.158.000 abitanti (-5,3%).
In una simile situazione di stazionarietà demografica e declino urbano, il risultato dei comuni
rurali appariva sorprendente. Tra il 1981 e il 1991 i comuni rurali vedevano aumentare la loro
popolazione di 503.000 abitanti, con una variazione del 2,4%, di poco inferiore a quella del
1981 (2,8%).
Si deve concludere che gli anni ‘80 hanno segnato una netta inversione di tendenza per quanto
riguarda le dinamiche demografiche. La crescita della popolazione, che nel corso degli anni
settanta tendeva a concentrarsi nei comuni urbani, ha cominciato a spostarsi nei comuni semi
urbani e rurali. Le nuove tendenze demografiche manifestatesi nel corso degli anni ‘80 sono
proseguite durante il successivo decennio novanta, come confermano i risultati del censimento
della popolazione svoltosi nel 2001. Anche nel corso dell’ultimo periodo intercensuario la
popolazione italiana è rimasta stazionaria: nel 2001 si sono contati solo 221.000 abitanti in più
rispetto al 1991, corrispondenti a una variazione dello 0,4%. I comuni urbani,
complessivamente considerati, hanno continuato a perdere popolazione, avendo rilevato il
censimento 593.000 cittadini in meno (-2,1%). Particolarmente pesante è stato il
ridimensionamento demografico subito dall’insieme delle città capoluogo e dei grossi centri
con oltre 50.000 abitanti, che hanno perso 952.000 abitanti (-4,6%).
Nel 2001 pare invece consolidata la ripresa demografica rurale segnalata dai due censimenti
precedenti, avendo guadagnato i comuni rurali, complessivamente considerati (cioè compresi
anche i comuni montani) 462.000 abitanti, con una variazione positiva del 2,1%, solo
leggermente inferiore a quella del 1991.
E’ dunque andato avanti nel corso degli anni novanta il processo di redistribuzione territoriale
della crescita demografica dai comuni urbani verso quelli semi urbani e rurali. Ormai i comuni
47 Ibidem.
38
rurali non montani sono quelli che, in termini assoluti, vantano gli incrementi demografici più
consistenti: 496.000 abitanti in più nel decennio 1991-2001, un guadagno superiore a quello
ottenuto dai comuni intermedi (349.000) e dai comuni urbani minori (359.000).
39
2.2 La fine dell’arcipelago dei minifondi
Dalla fine degli anni ‘70 ad oggi la situazione agricola italiana ha subito importanti modifiche
che hanno causato una flessione del numero di aziende presenti sul territorio. Il censimento
agricolo dell’Istat del 1982 registrava la presenza di poco più di 3.000.000 di attività agricole.
L’enormità del numero di aziende presenti, però, fa capire anche come queste fossero
composte, per la maggior parte, da terreni inferiori all’ettaro (se non al quarto di ettaro). Una
situazione del genere presentava perciò un grande numero di terreni poco produttivi o di attività
i cui fini economici erano tendenti allo zero.
Questa situazione, non poi così differente dal generale stato dell’agricoltura in tutto il corso del
XX secolo, era dunque ancora prevalentemente di sussistenza e poco sarebbe potuta durare.
Difatti il censimento successivo, avvenuto nel 1990, registrava un calo di più di 200.000
aziende nel settore, diminuite ancora nel decennio successivo di altre 500.000. All’inizio del
nuovo millennio il numero di attività agricole su suolo italiano erano già calate a 2.300.000
circa.
Questa tendenza non ha smesso di interessare il settore e, nel 2010, il numero di imprese è
calato ancora fino ad arrivare a quota 1.600.000 unità circa. In totale, in un solo decennio sono
scomparse ben più di 900.000 aziende. Di queste la maggior parte hanno chiuso
definitivamente a causa di leggi di mercato sfavorevoli per le aziende più piccole e per il
pensionamento (o la morte) degli agricoltori più anziani.
Un cospicuo numero (quasi 200.000) invece è scomparso a tavolino, perché semplicemente
troppo piccole per definirle aziende e perché banalmente non rispettavano i canoni imposti
dall’Unione Europea per fini statistici48.
Oltre al numero di aziende, si è avuta una diminuzione progressiva della SAT (Superficie
Agricola Totale) e della SAU (Superficie Agricola Utilizzata), anche se in modo non
proporzionale. Ciò ha portato ad un aumento della dimensione media aziendale, corrispondente
ad un graduale cambiamento della struttura agricola italiana. L’aumento progressivo della
dimensione media aziendale è un fenomeno che ha interessato tutte le circoscrizioni del
territorio nazionale, a dimostrazione del fatto che la riorganizzazione della struttura agricola è
un fenomeno che coinvolge in modo omogeneo tutto il territorio. I picchi maggiori si sono
48 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.
40
verificati nelle isole con variazioni percentuali, tra il 2000 e il 2010, pari al 72% in Sicilia e al
99% in Sardegna.
Fig. 1. Evoluzione della dimensione media aziendale. Fonte: elaborazione INEA su dati ISTAT, 2014.
Fig. 2. Aziende e relativa superficie totale per forma di conduzione e titolo di possesso dei terreni (superficie in
ettari). Fonte: 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, 2013.
41
Fig.3. Aziende e relativa superficie totale per forma di conduzione. Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura,
2013.
Come registrato dall’Istat, ancora nel 2010 il 50% delle aziende aveva meno di 2 ettari di SAU.
Questo, almeno parzialmente, pare relativo anche all’incremento di attività non direttamente
collegate alla coltivazione della terra o al pascolo: un numero crescente di aziende pare infatti
volgere le proprie attenzioni ad attività remunerative legate al turismo. Purtroppo questo dato
è, come detto, parziale, in quanto la stragrande maggioranza del calo di SAU è legata al fatto
che milioni di ettari giacciono in stato di abbandono e continuano a vegetare fuori da ogni
organizzazione o azienda agraria: lasciti di una proprietà che risulta spesso assente perché
impegnata in attività più remunerative o considerate migliori dal punto di vista lavorativo. C’è
di buono che questi ettari siano finiti a costituire boschi spontanei o altre aree vegetali piuttosto
che essere cancellati per opere di urbanizzazione e, quindi, cementificazione49.
49 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013
42
Fig.4. Aziende e relativa SAU per forma di conduzione e titolo di possesso dei terreni (superficie in ettari). Fonte:
ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.
Fig.5. Uso del suolo (superficie in milioni di ettari), anno 2010. Fonte: elaborazione ISTAT su dati MIPAAF
(POPULUS) 2010. ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.
Fig.6. SAU e SAT. Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.
Ma nonostante questa diminuzione, non manca un certo entusiasmo di fronte ai processi in
corso: come ha evidenziato il Sole 24 Ore quando venne dato alle stampe il 6° censimento
generale dell’agricoltura, era (ed è tuttora) in atto un processo di professionalizzazione del
settore agrario50. Questo sarebbe dato dal fatto che, all’uscita dal mercato delle aziende più
piccole, è corrisposto un aumento delle aziende con più di 30 ettari.
50 Impresa e territori, http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2012-07-12/istat-cala-numero-aziende-
151028.shtml?uuid=Abo1bp6F&fromSearch&refresh_ce, ultimo accesso 18/06/15.
43
Altra particolarità legata alla sempre maggiore professionalizzazione del settore agricolo è data
dalla variazione della struttura fondiaria e dalla diminuzione della presenza di quel
caratteristico “contadino-operaio”, che comunque ha mantenuto (e, anche se parzialmente,
continua a mantenere) un ruolo particolarmente rilevante nel settore. Mentre nel 1970 le duplici
attività raggiungevano la maggiore espansione e i conduttori di una seconda attività risultavano
quasi 1.200.000, i conduttori di aziende agricole con prevalente attività esterna si riducono nel
2000 a 604.000, in attesa di contrarsi ulteriormente a meno di 316.000 (19,7% del totale) nel
2010. Questo fenomeno pare sia dovuto al fatto che la propensione ad assumere una seconda
attività diminuisce infatti all’aumentare delle dimensioni aziendali51.
Come rilevato dall’INEA nel Rapporto sullo stato dell’agricoltura 2014,
«L’ammontare medio aziendale dei ricavi provenienti da altre attività produttive presenti
nell’azienda agricola e complementari a quelle agricole ordinarie è piuttosto contenuto in
termini assoluti, sfiorando i 2.200 Euro ad azienda nel 2012; l’aumento registrato rispetto
all’anno precedente, seppure leggero, lascia intravedere una crescita di interesse degli operatori
agricoli verso attività di diversificazione produttiva, specie in un contesto come quello attuale
caratterizzato da una marcata instabilità dei mercati agricoli. Il loro peso appare rilevante
soprattutto nell’area settentrionale e centrale del paese, anche grazie alla presenza dell’attività
agrituristica, mentre è del tutto limitato al Sud Italia»52.
Certo è da rilevare che il fenomeno della professionalizzazione, e quindi della maggior
concentrazione di SAU e della conseguente creazione di aziende più strutturate, è ben lungi
dall’essersi definitivamente affermato. Secondo una ricerca svolta da Confagricoltura, infatti,
nel 2013 fra le aziende di superficie inferiore ai 2 ettari, le individuali sono 99,2%; fra quelle
di superficie dai 50 ettari in su, le individuali scendono al 70%.
E’ comunque evidente che la crescita delle conduzioni societarie testimonia come
l’affermazione di imprese più grandi, meglio organizzate, con maggior propensione
all’investimento, sia un fenomeno ancora in atto ma che pare in continua crescita53.
51 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013. 52 INEA, Rapporto sullo stato dell’agricoltura 2014, p.17. 53 Ibidem.
44
Fig.7. Conduttori totali ed alternanti secondo classi di SAU (per alternanti si intendono i soggetti esercitanti attività
prevalentemente esterna all’azienda). Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.
La differenziazione delle tipologie di conduzione delle aziende agricole ha rappresentato
un’incidenza importante nel decennio intercorso tra il censimento 2000 e quello 2010 e
continua a crescere il numero di aziende che privilegiano forme di conduzione diverse da quella
individuale, prima la prevalente (se non addirittura l’unica) forma di conduzione privilegiata.
Per fermarci all’analisi data dal censimento 2010, il numero di aziende costituite da forme
societarie sono passate dalle 32.000 circa del 2000 alle quasi 48.000 del 2010, con importanti
conseguenze anche sulla produttività: come rilevato dall’ISTAT queste nuove forme societarie
hanno circa 257.000€ di reddito annuo ciascuna, contro i 21.300€ delle aziende individuali.
6840€ di prodotto standard per ettaro contro 3398€; 392€ a giornata contro 159.
Solo le società di capitali riescono, con 7.609€ ad ettaro e 407€ a giornata, a superare questi
risultati, che restano nettamente più elevati rispetto a quelli di altri piccoli colossi: quali, ad
esempio, le cooperative54.
In generale questo processo continua ad aver luogo e il numero di aziende individuali è
costantemente in calo, nonostante continui a rappresentare la quasi totalità delle aziende
agricole. Nello specifico, le regioni in cui si è verificato il maggior incremento delle forme
societarie sono la Valle d’Aosta, la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia.
Leggendo questi dati assieme a quelli dell’aumento della dimensione media delle aziende, si
può mettere quindi in luce una graduale tendenza al cambiamento della struttura agricola, con
un crescente orientamento verso forme giuridiche diverse al quella della proprietà individuale.
Fa eccezione, a questo proposito, la Calabria, unica regione in cui si manifesta un aumento
della forma individuale, insieme con le altre forme giuridiche, a scapito delle società.
54 Ibidem.
45
Fig.8. Evoluzione delle forme societarie in agricoltura. Fonte: Elaborazione Confagricoltura su dati
UNIONCAMERE, 2013.
Fig.9. Forme giuridiche in Italia nel 2013 per regione. Fonte: elaborazione Confagricoltura su dati Union camere,
2013.
46
2.3 Arretratezza tecnologica
Il secolo scorso è stato caratterizzato da una grande crescita della produzione agricola a livello
globale, anche se concentrata principalmente nei Paesi maggiormente sviluppati e
industrializzati. Un aumento della produzione e dell’offerta che ha controbilanciato la forte
crescita della domanda globale degli alimenti consentendo un andamento relativamente stabile
dei prezzi. Questa crescita produttiva è avvenuta in concomitanza con un netto declino della
forza lavoro agricola ed una sostanziale stabilità della superficie agricola coltivata. Tale
crescita produttiva si è ottenuta grazie ad una ancora maggiore crescita della produttività delle
risorse agricole. Tanto rilevante è stato questo incremento di produttività, che il tema principale
su cui gli economisti si sono più a lungo soffermati è proprio la sua spiegazione55.
Certamente, l’intensificazione capitalistica ha avuto un ruolo in agricoltura come nel resto
dell’economia. Ma proprio il confronto con il resto dell’economia ha messo in evidenza come
nel comparto agricolo deve essere subentrato qualcosa di ulteriore. Questo viene identificato
nel continuo e incessante progresso tecnologico; nell’aver trasformato una serie continua di più
o meno rivoluzionari passi in avanti della conoscenza scientifica di interesse agricolo
(soprattutto dei processi biologici) in conoscenza pratica, cioè capace di generare tecnologia e,
infine, di portare innovazioni nel contesto produttivo agricolo. Questa capacità ha consentito
all’agricoltura mondiale, e soprattutto della parte più ricca, di sfuggire alla trappola della
scarsità alimentare in cui una forte crescita demografica ed economica rischiava di gettarla.
Fig.10. Produttività della terra e del lavoro agricolo: tasso di crescita annuo medio (in %), 1960.2005. Fonte:
elaborazione INEA su dati Alston e al. (2010). INEA, Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche
del processo di innovazione, 2013.
Questo fenomeno è estendibile anche all’area italiana, nella quale emerge una crescita in
dinamica e intensità non diversa da quanto emerso a livello globale nei primi anni del
55 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.
47
dopoguerra (favorita dalla rapida intensificazione capitalistica e dalla rapida uscita dalle
condizioni di arretratezza in cui versava il settore agricolo italiano), a cui fa seguito una
flessione dell’andamento e una successiva sostanziale stagnazione.
Fig.11. Produttività agricola parziale e totale (TFP) e spesa in ricerca agricola (in termini reali) in Italia: tasso di
crescita annuo medio (in %), 1960-2002. Fonte: elaborazione INEA su banca dati AGREFIT (2009-2011). INEA,
Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche del processo di innovazione, 2013.
La stagnazione italiana, nello specifico, è indice di una arretratezza importante del settore dal
punto di vista tecnico e tecnologico con il resto dell’Europa e del mondo. L’Italia infatti tende
a collocarsi tra i Paesi follower e il ritardo acquisito nei confronti dei Paesi leader è da attribuire
al fatto che non è riuscita ad acquisire un ruolo da protagonista nella produzione di conoscenza
ed innovazione tecnologica di interesse agricolo. Questa situazione è messa in luce anche da
Barberis, il quale afferma che:
«Dal punto di vista della dimensione complessiva dell'offerta l'agricoltura italiana è rimasta
sostanzialmente uguale a se stessa negli ultimi vent'anni. Ma se si guarda al reddito complessivo
messo a punto dal settore agricolo non è pessimismo riconoscere una sostanziale perdita di
valore in termini di mercato della sua produzione, e ancora più deludente appare il risultato del
reddito netto, considerato il maggior peso, nelle attività di coltivazione e di allevamento, dei
mezzi tecnici impiegati, i cui prezzi si sono accresciuti a ritmi ben più sostenuti di quelli
realizzati dall'azienda»56.
56 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.171.
48
Il giudizio di Barberis cambia però quando si sofferma a valutare l’organizzazione aziendale e
la produttività dei singoli fattori; da questa valutazione egli afferma (e conferma) che il settore
primario italiano non ha smesso di attraversare momenti di significativa e intensa
trasformazione.
Ma nonostante quest’ultima valutazione, è innegabile che il comparto agricolo viva una
situazione particolarmente difficoltosa dal punto di vista tecnologico. Questa arretratezza
tecnologica è sicuramente attribuibile alle forme societarie principali dell’agricoltura italiana,
quelle imprese individuali spesso mal gestite (o gestite sono a fini di autoconsumo).
Non si vuol far qui di tutta l’erba un fascio (molte aziende individuali sono comunque portatrici
di innovazioni), ma è tuttavia innegabile che, come afferma Giovanni Federico, «la lentezza
del progresso nelle aree di piccola proprietà contadina è attribuita all’innato conservatorismo
dei contadini e alla loro ostilità per ogni innovazione»57.
Allo stesso tempo è anche innegabile che l’agroalimentare italiano presenta comunque delle
eccellenze mondiali che sono tali anche in virtù di performance produttive e di livelli
tecnologici di prim’ordine. In comparti quali vino, olio d’oliva, ortofrutta e colture protette,
allevamenti intensivi, l’Italia mostra, anche solo in porzioni o nicchie di questi comparti, un
primato tecnologico mondiale. Ciò è tanto più vero se si considera che il dato nazionale
nasconde sempre differenze territoriali molto spiccate, tali per cui è certamente possibile
rintracciare anche in Italia aree con una agricoltura che, almeno nei rispettivi comparti di punta,
risulta essere sulla frontiera tecnologica a livello internazionale e su questo elemento fonda una
porzione essenziale della propria competitività.
Come evidenzia la ricerca dell’INEA58, le complicazioni italiane sono dovute al fatto che il
settore agricolo del nostro paese ha operato la scelta di orientare la propria strategia competitiva
verso il primato assoluto della food safety, ossia la qualità alimentare e ambientale. Questa
vocazione alla qualità dovrebbe essere capace di ampliarsi anche in altri ambiti: sostenibilità
ambientale, produzione di beni pubblici e servizi di interesse collettivo, sviluppo rurale. Ma
questi fronti sono ben lungi dall’essere ancora sviluppati e definiti, perché chiamano in causa
un nuovo fronte tecnologico per l’agricoltura stessa, che si troverebbe ad essere “garante” degli
aspetti visti sopra, in quanto argomenti direttamente correlati al suo sviluppo. Uno sviluppo
che solo le nuove generazioni di agricoltori possono essere in grado di affrontare.
57 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.85. 58 I. Di Paolo e A. Vagnozzi (a cura di), Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche del processo di
innovazione, INEA, Roma, 2014.
49
2.4 I giovani
Il tema dell’occupazione giovanile in agricoltura risente di una forte ambiguità delle statistiche,
in quanto esiste un problema di raffronto dei dati per la soglia di età in cui si è considerati
giovani: fino a 35 anni per le principali fonti di informazione statistica e fino a 40 anni per le
azioni di Politica Agricola Comune (PAC) implementate a livello europeo. Questa è una nota
necessaria al fine di capire il mondo dell’occupazione giovanile in agricoltura che altrimenti,
considerando cioè una fascia di età fino ai 30 anni come per gli altri settori, sarebbe fortemente
compromesso. La rivoluzione dell’agricoltura sembra dunque
«Guidata da una percentuale significativa di giovani, se diamo al termine un’accezione molto
larga, adatta a un paese che fatica ad effettuare il ricambio generazionale. [...] Se estendiamo la
definizione di giovani agli under 40 la percentuale [di aziende] arriva all’8%. Le imprese junior
funzionano bene: creano in media il 35% di valore aggiunto in più di quelle gestite da agricoltori
sopra i 40 anni, grazie ad un maggior grado di dinamismo e creatività, di attitudine al rischio e
di propensione all’innovazione e all’export. Ma anche grazie a una più elevata sensibilità per le
tematiche sociali e ambientali»59.
Esaminando i dati del 6° Censimento generale dell’agricoltura e confrontandoli con quelli del
Censimento precedente, si può notare come il numero dei giovani agricoltori ha subito una
variazione negativa pari al 40%, passando da 273.182 a 161.716 (tabella 3.4). Allo stesso modo
la diminuzione percentuale ha interessato anche le altre due classi (40-64 e over 65) con
diminuzioni percentuali pari, rispettivamente, al 36% e al 38%.
Fig.12.
Capi d’azienda per classi di età (censimenti 2000 e 2010) Fonte: elaborazione INEA su dati ISTAT 2000-2010.
INEA, I giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, 2013.
59 A. Magistà (a cura di), La Repubblica, Guida a lavoro e professioni, settori che cambiano, Roma, Gruppo
editoriale L’Espresso, 2013 (progetto redazionale), p.14.
50
Dunque, la forte riduzione di aziende che si è registrata nel periodo intercensuario ha colpito
fortemente anche le aziende condotte da giovani.
Rispetto ad una riduzione complessiva delle aziende del 34,4%(da poco più di 2.500.000 a
1.620.000), è proprio la classe di capi azienda più giovani a mostrare la contrazione
percentualmente più rilevante (-40,8%), a fronte di una media complessiva del 37,5%. Per i
giovani la maggior diminuzione riguarda la classe inferiore ai 19 anni; tale fenomeno potrebbe
essere letto come un ritardo dell’entrata dei giovani nel mondo del lavoro, dovuto ad un
aumento del livello medio di istruzione, fenomeno peraltro generalizzato a tutte le tipologie di
lavoro.
Eppure, considerando nel giusto modo la mobilità tra le classi di età, e ipotizzando che non vi
siano fuoriuscite dalle classi se non per motivi di età, emerge che dei 161.716 agricoltori “under
40”, 108.870 sono i “veri” nuovi entrati, pari a circa il 60%.
Questo dato, sebbene sia apparentemente alto, non può essere pienamente soddisfacente in
quanto va letto contemporaneamente ai 220.336 usciti dalla fascia dei giovani. Ciò indica che
appena il 50% di coloro che oltrepassano la fascia di età dei giovani sono stati “sostituiti” da
nuovi entrati nel mondo agricolo.
Appare quindi evidente (ma del resto era forse addirittura scontato) che in Italia esiste un grave
problema di ricambio generazionale nel settore agricolo, nonostante negli ultimi anni i dati
relativi alle variazioni congiunturali mostrino un leggero aumento del numero di imprese
condotte da “under 35”60.
Per quanto riguarda l’istruzione, emerge come la percentuale di conduttori senza titolo di studio
cresce progressivamente, passando dalle categorie più giovani a quelle più anziane, fino a
raggiungere il 57,2% nel caso del classe oltre i 75 anni, che include ancora circa il 17% del
totale dei conduttori. In modo simmetrico si può leggere la frequenza dei diversi titoli di studio
per singole classi di età. Il titolo di laurea è prevalente nelle classi più basse, ma resta molto
basso (raggiunge il 14% nella classe tra 25 e 29 anni, mettendo assieme laurea specialistica con
altre lauree). Il livello di licenza superiore è il più frequente nelle classi fino a 29 anni, per poi
cedere la prima posizione alla licenza media (51% nella classe tra 40-49 anni; 42,8% nella
classe successiva). A partire dalla classe dai 60 anni in su, è la licenza elementare a prevalere,
fino a raggiungere il 74,7% nella classe di età superiore ai 75 anni.
60 Aa.vv., I Giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, INEA, Roma, 2013.
51
Fig.13. Capi azienda per titolo di studio e classi di età. Fonte: elaborazione INEA su dati ISTAT 2010. INEA, I
giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, 2013.
L’INEA rileva che tra le lauree e i diplomi pesano in modo significativo i titoli non specialistici
rispetto a quelli conseguiti in campo agrario. Ciò rivela, da un lato, la scarsa importanza che si
dà ad una preparazione di tipo tecnico per la conduzione di un’azienda agraria, dall’altro, la
probabile significativa presenza di aziende part time, di tipo residenziale e hobbistico. Tuttavia,
la presenza di un significativo numero di diplomati e laureati anche in discipline non agrarie,
va comunque visto come un fattore di crescita della formazione dei conduttori aziendali che
può avere importanti ripercussioni sul loro livello imprenditoriale e manageriale.
Eppure dai dati del censimento qualcosa è cambiato e in anni più recenti si constata come non
solo l’occupazione agricola giovanile cresce, ma cresce solo in questo settore, mentre nel resto
del sistema economico si registrano tassi di disoccupazione sempre più elevati, soprattutto nel
caso dei giovani.
Allo stesso tempo altri dati sembrano convergere: l’aumento degli studenti nelle facoltà di
agraria, l’accresciuto interesse per gli aspetti ambientali e naturali del lavoro in agricoltura, il
riconoscimento di attività secondarie complementari a quella agricola vera e propria, l’aumento
del sostegno offerto dalle politiche agrarie e anche dalle politiche sociali e economiche per
attività imprenditoriali in agricoltura e nelle aree rurali, tutto questo sembra sostenere e
52
rafforzare l’idea di un rinnovato interesse da parte dei giovani verso il mondo agricolo e la
possibilità di avviare attività imprenditoriali in agricoltura.
Già il Censimento del 2010 evidenziava come la particolarità dell’agricoltura italiana sia data
dalla specializzazione delle sue aziende - identificando con questo termine le aziende che
ricevono almeno due terzi dei propri introiti da un unico indirizzo produttivo. Una
specializzazione che non è solo un vezzo ma anzi è presupposto della sopravvivenza del settore
nel nostro paese. Delle 261.627 aziende professionali identificate dall’ISTAT, 227.033
risultano specializzate (86,8%); 19.449 (7,4%) bi-specializzate, cioè che raggiungono il
traguardo dei due terzi grazie a due prodotti anziché ad uno solo. A queste si aggiungono altre
10.501 aziende (4,0%) interessate a diverse combinazioni di colture permanenti e 15.145
(5,8%) promiscue classiche.
Barberis fa notare che: «nella corsa alla specializzazione, i giovani svolgono un ruolo di punta,
non di retroguardia, spingendosi fino all’88% delle aziende da loro interessate e confermando
una propensione per attività di non piccolo cabotaggio. Non vi è attività, infatti, nella quale la
presenza dei giovani non sia contrassegnata da un aumento delle dimensioni economiche
medie»61.
Ciò non toglie che, purtroppo, il primo elemento ad emergere dal censimento 2010, come
sottolineato dall’INEA, fosse la riduzione generalizzata in tutte le regioni della presenza di
conduttori giovani. Il limitato ricambio generazionale pare coincidere anche con una limitata
fuoriuscita dal settore di imprenditori oltre i 65 anni con una progressiva senilizzazione delle
imprese agricole che porta certamente ad una minore dipendenza del reddito del conduttore da
quello di impresa, grazie al subentrare di redditi da pensione e quindi ad una minor propensione
al rischio ed all’innovazione.
La Rete Rurale Nazionale, nel tracciare l’Atlante dei Giovani Agricoltori, evidenzia differenti
aspetti particolarmente interessanti. La RRN infatti denuncia una domanda crescente di beni
naturali - aree naturalizzate, biodiversità, aree verdi pubbliche, attenzione alla compatibilità
ecologica ecc. - ed evidenzia come, ancora una volta, l’agricoltura specializzata possa ricoprire
un ruolo fondamentale nel soddisfare questo bisogno della società civile, indicando come tale
situazione possa creare anche, e soprattutto, nuove potenzialità di sviluppo per le aziende
61 Corrado Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.
53
agricole attraverso attività connesse e convergenti. In particolare evidenzia come siano in
aumento esperienze di accordi tra enti pubblici e privati per il mantenimento del verde, della
viabilità, dei servizi al cittadino come agri-asili o punti vendita. Lo sviluppo di queste attività,
secondo la Rete Rurale Nazionale, è merito proprio delle aziende condotte dai giovani. Aziende
che «nascono da esigenze di una migliore residenzialità e qualità della vita rispetto a quella
della città, piuttosto che dalla ricerca di una occupazione stabile in agricoltura, ma che spesso
si trasformano in una attività di impresa a tempo pieno»62.
E nello stesso documento la RRN afferma come
«anche nel caso delle aree di agricoltura specializzata l’incentivazione della presenza di aziende
condotte da giovani riveste una particolare importanza per accelerare il cambiamento delle
pratiche convenzionali verso quelle maggiormente sostenibile, sia per la maggiore sensibilità
dei giovani agricoltori per la questione ambientale e per la sicurezza alimentare e sul lavoro, sia
per il maggior grado di scolarità dei giovani agricoltori che consente un più rapido adattamento
delle tecniche eco-compatibili alle diverse condizioni ambientali pur mantenendo una elevata
produttività dei fattori di produzione»63.
La specializzazione delle aziende sembra dunque essere da più parti definita non solo come
l’attività fondante dell’agricoltura italiana, come visto sopra, ma anche quella su cui puntare
per il futuro, in un’ottica di rispetto dell’ambiente, di legame col territorio e di sostenibilità.
Pare dunque evidente come la presenza di giovani agricoltori sia legata non solo al futuro, in
termini quantitativi delle imprese agricole e quindi della capacità produttiva del nostro Paese,
ma sempre più alle prospettive di sostenibilità e qualità di queste attività ed al tempo stesso
della vitalità delle aree rurali.
Giovani imprenditori è sinonimo di nuove famiglie, presenza di una domanda attiva di servizi,
mezzi di comunicazione e informazione moderni, beni relazionali. Tutti fattori che
contribuiscono alla crescita delle risorse umane e sociali di un territorio, alla sua qualità, alla
capacità di elaborare in modo originale le sollecitazioni anche culturali che provengono
dall’esterno pur mantenendo identità e tradizione, gli elementi distintivi sui quali è stata
costruita la competitività delle produzioni di qualità nazionali.
In particolare le aziende giovani sono quelle maggiormente propense agli investimenti
produttivi (pur di fronte al problema dell’accesso alla terra), agli aspetti della multifunzionalità,
62 C. Zazzarini Bonelli (responsabile del documento), L’Atlante dei giovani agricoltori, Rete Rurale Nazionale,
Roma, 2010, p. 152. 63 Ibidem.
54
all’innovazione tecnologica e organizzativa, oltre che ad una diversificazione del reddito con
ricorso al part-time. Le aziende condotte da giovani perseguono con maggiore convinzione ed
interesse i processi di allargamento delle funzioni produttive con l’offerta di servizi quali
l’agriturismo, il contoterzismo e l’attività di trasformazione dei prodotti agricoli aziendali.
Spesso le imprese condotte da giovani sono caratterizzate da una forte presenza
intergenerazionale. Tale stato comporta un coinvolgimento dell’intera famiglia nell’attività
agricola (come ci fosse un ritorno alla famiglia allargata presente, e spesso vincente, nella
cultura rurale italiana novecentesca) e un certo grado di flessibilità nell’affrontare gli
andamenti del mercato.
55
2.5 Le prospettive future
Alla luce dei dati riguardanti il settore visti finora, l’agricoltura italiana è parallelamente in
stallo e in fermento.
Da un lato infatti, c’è la difficoltà delle aziende più piccole e “vecchie”, il calo dei consumi da
parte dei consumatori e una diminuzione di produttività, dall’altro invece ci sono aziende più
grandi che stanno dando spazio ai giovani, incrementando la produttività e inserendosi in settori
produttivi legati principalmente all’altissima qualità e all’eccellenza.
Il tentativo delle istituzioni è quello di incrementare nel settore agricolo la presenza dei giovani,
i quali si dimostrano già notevolmente interessati ad un ritorno alla ruralità e all’abbandono
sistematico delle città per le zone periurbane o rurali. O, in molti casi, anche all’introduzione
delle campagne nelle città attraverso pratiche di agricoltura urbana innovative.
Evidente risulta anche l’interesse dello Stato stesso sull’argomento (almeno sulla carta). Come
dichiarato da Maurizio Martina (Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali) nella
prefazione al rapporto INEA sullo stato dell’agricoltura nel 2014 infatti:
«Il Governo ha mostrato un rinnovato impegno e una nuova attenzione al settore. Con le misure
di “Campolibero”, inserite all’interno del dl Competitività, abbiamo agito lungo tre direttrici:
credito, lavoro e competitività. Abbiamo attivato mutui a tasso zero per under 40 che investano
nei settori della produzione, della trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli e
detrazioni al 19% per under 35 che affittano terreni da coltivare. Attraverso l’Ismea agiamo per
dare maggiori opportunità alle start up agricole con il fondo di garanzia, che rende più semplice
accedere a prestiti, e con mutui fino a 30 anni per il primo insediamento in agricoltura, con
abbattimento della quota di interessi di 40mila euro. Vogliamo favorire l’inserimento dei
giovani nel settore primario, per questo è stato introdotto uno sgravio di 1/3 della retribuzione
lorda per le assunzioni di lavoratori tra i 18 e i 35 anni. Per la prima volta estendiamo al mondo
agricolo le deduzioni Irap al 50%, con contratti a tempo determinato per la durata di almeno tre
anni e per almeno 150 giornate all’anno. I giovani che tengono la strada dell'impresa potranno
usufruire anche dei crediti d'imposta per la competitività di Campolibero, quelli al 40% per
investimenti fino a 400mila euro per innovazione e reti d'impresa e soprattutto quello fino a
50mila euro per l'e-commerce di prodotti agroalimentari»64.
64 Aa.vv., Rapporto sullo stato dell’agricoltura, INEA, Roma, 2014, p. V.
56
Questa intenzionalità non è diversa dall’atteggiamento dello Stato all’indomani dell’Unità
d’Italia, quando affermava che l’agricoltura era il motore necessario al Paese per entrare nel
mondo dell’industrializzazione. Ora l’agricoltura viene vista come possibilità concreta per
uscire dalla crisi economica, come testimonia anche il rapporto del Censis in cui si afferma che
la “rinascita” a tutto tondo del settore agricolo, oltre che a livello identitario, prende forma
anche nella sua potenzialità di proporsi come forza propulsiva in grado di trainare l’economia
italiana fuori dallo stallo dal quale non sembra in grado di smuoversi. Secondo il Censis «alla
possibilità che l’agricoltura possa rappresentare un volano per ridare slancio e crescita al Paese,
crede l’82% degli italiani, diviso tra un 31% che ritiene fermamente che il settore possa essere
il nostro valore aggiunto in termini di competitività, ed un 51% che lo vede, almeno in prima
battuta, come fonte di occupazione di qualità e ricchezza»65.
E non è solo questione di crederci.
Anche i dati sull’occupazione resi noti dall’ISTAT in un comunicato stampa FLASH diramato
a marzo 2015 e recante i dati del IV trimestre 2014 e gennaio 2015 mostrano come l’agricoltura
sia attualmente il settore produttivo con il maggior tasso di crescita occupazionale: «nel quarto
trimestre 2014, alla sostenuta crescita tendenziale dei dipendenti (+0,9%, pari a 147.000 unità)
si associa il lieve aumento degli indipendenti (+0,2%, pari a 9.000 unità). Il numero di occupati
in agricoltura aumenta rispetto a un anno prima (+7,1%, pari a 57.000 unità), sia tra i dipendenti
sia tra gli indipendenti. Nell’industria in senso stretto, a ritmi meno sostenuti rispetto agli ultimi
due trimestri, prosegue la crescita tendenziale dell’occupazione (+0,6%, pari a 28.000 unità),
che coinvolge esclusivamente i dipendenti. Continua invece, per il diciottesimo trimestre e in
modo accentuato, la flessione degli occupati nelle costruzioni (-7,0%, pari a meno 109.000
unità). L’occupazione cresce con maggiore intensità nel terziario (+1,2%, pari a 180.000 unità
su base annua), a sintesi dell’aumento dei dipendenti (+1,5%, pari a 175.000 unità) e della
sostanziale stabilità degli indipendenti. L’incremento, concentrato nel Centro-nord, interessa
principalmente gli occupati nei comparti di informazione e comunicazione, credito e
assicurazioni, e quello dei servizi alle famiglie»66. Questo processo è stato poi recentemente
aggiornato con i dati relativi al I trimestre 2015, in cui si evidenzia come il tasso di crescita
dell’occupazione stia continuando ad aumentare. I dati dell’ISTAT riportati dalla CIA
(Confederazione Italiana Agricoltori) confermano questo trend: «mentre industria e costruzioni
65 Un futuro per l’Italia: perché ripartire dall’agricoltura, Sintesi del rapporto, Censis, Roma, 2014, p.2. 66 Fonte ISTAT, marzo 2015.
57
arretrano, l'agricoltura mette a segno 45.000 nuovi occupati, soprattutto per effetto della spinta
proveniente dalle aziende agricole del Nord Italia (+16%) e del Mezzogiorno (+4,4%). In
controtendenza il Centro Italia dove gli occupati agricoli diminuiscono dell'11,5%»67. Secondo
Scanavino, presidente della CIA, I dati dell'Istat sull'occupazione «dimostrano ancora una volta
che l'agricoltura è uno dei settori più importanti e strategici su cui puntare per avviare una
ripresa consolidata del sistema economico nazionale»68.
Questa situazione è probabilmente dovuta anche al fatto che tradizionalmente l’agricoltura è
un settore definito anticiclico69, ossia un settore che, per le sue caratteristiche «sarebbe in grado
di assorbire e attutire gli shock macroeconomici sia in un senso che nell’altro»70 e che, dunque,
finirebbe con l’andare in controtendenza rispetto al ciclo economico generale: crescendo di
meno quando l’economia tira e soffrendo di meno nelle fasi di recessione.
Interventi di politica economica a sostegno dei giovani in agricoltura sono però necessari al
fine di mantenere alto l’interesse per il settore e la produttività dello stesso, che, come visto, è
caratterizzato da una marcata senilizzazione del tessuto sociale. A questo proposito sono state
studiate novità importanti per quanto riguarda il Quadro Finanziario Pluriennale 2014-2020
(QFP), con la riforma del quadro normativo della Politica Agricola Comune (PAC) di respiro
europeo.
Per la prima volta nella storia della PAC viene dato agli stati membri un ampio margine di
flessibilità, delegando loro una quantità corposa di scelte per l’implementazione nazionale, con
ricadute di portata significativa a livello aziendale, settoriale e territoriale. Si tratta di questioni
strettamente interconnesse tra loro e con gli altri strumenti della PAC (OCM e Sviluppo rurale)
che vanno a definire, da un lato, la strategia di contesto e, dall’altro lato, le condizioni di accesso
ai pagamenti diretti per il singolo agricoltore71.
67 Lavoro: boom occupati in agricoltura nel I trimenstre 2015, ultima modifica 03/06/15, http://www.cia.it/news. 68 Ibidem. Scanavino poi prosegue affermando: «quella agricola, è un'attività unica in termini di virtuose relazioni
economiche e sociali con i territori di riferimento. Non solo sempre di più oggi gli agricoltori sono tra i principali
protagonisti dei processi di cambiamento e delle sfide globali della società moderna: assicurano il cibo,
contribuiscono all'educazione alimentare con effetti positivi sulla salute e in termini di lotta agli sprechi,
gestiscono capillarmente le risorse naturali come suolo e acqua, forniscono un contributo importante alla
salvaguardia ambientale e al mantenimento della biodiversità. Per tutte queste ragioni è urgente che oggi le
imprese agricole siano messe al centro dell'agenda economica nazionale. Nonostante mille difficoltà, dopo un
anno non facile che ha visto crollare i redditi agricoli italiani e ridursi il valore aggiunto, i dati odierni dimostrano
che il settore è vitale e pronto a raccogliere la sfida della ripresa. Ecco perché ora va valorizzato con un progetto
organico di rilancio. 69 Come evidenziato nel rapporto Fao-Ocse Agricotural Outlook 2009-2018. 70 F. De Filippis, D. Romano (a cura di), Crisi economica e agricoltura, Edizioni Tellus, Roma, 2010, p.5. 71 Aa.vv., Rapporto sullo stato dell’agricoltura, INEA, Roma, 2014.
58
Le risorse messe in campo per il settore ammontano complessivamente a 26,9 miliardi di Euro
e agli Stati membri è stata data facoltà di applicare il regime di pagamento di base definendo il
contesto territoriale entro cui applicarlo sulla base di criteri oggettivi e non discriminatori. La
scelta dell’Italia è fortemente orientata alla identificazione di un'unica regione che corrisponde
all’intero territorio nazionale. L'Italia come “regione unica” presenta notevoli punti di forza.
Innanzitutto, definisce un level-play field, fissando condizioni e criteri omogenei per tutte le
aziende, evitando cosi distorsioni della concorrenza. Ma anche a livello di governance
rappresenta una scelta tesa alla semplificazione amministrativa. Inoltre, la scelta di una tale
regionalizzazione – la più estesa possibile – determina chiaramente un’amplificazione degli
effetti della convergenza interna del valore dei diritti, rispetto a quanto si sarebbe osservato nel
caso di individuazione di contesti territoriali più limitati e circoscritti. Questo determinerà
verosimilmente una maggiore redistribuzione dei pagamenti tra territori, settori produttivi e
aziende agricole. Il processo di convergenza, che viene avviato in questa fase di
programmazione dovrebbe portare, nel lungo periodo e comunque dopo il 2020, ad un valore
unitario uniforme in tutta Italia72.
Per quanto riguarda i giovani agricoltori, è stato istituito un sostegno al reddito a coloro i quali
iniziano ad esercitare l’attività agricola. Questo dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore,
favorire l’insediamento iniziale e l’adeguamento strutturale delle loro aziende. L’istituzione di
questo sostegno è obbligatoria da parte degli Stati membri e sarà a base annuale e in rapporto
al numero di ettari, oltre che aggiuntivo al pagamento di base già previsto per tutti gli
agricoltori. Tale pagamento consente di accompagnare i giovani agricoltori, di età inferiore ai
40 anni, esclusivamente nella fase iniziale del ciclo di vita dell'impresa, venendo erogato per
un periodo massimo di cinque anni dal momento dell’insediamento.
Un aspetto importante della riforma della PAC è rappresentato dall’introduzione di un
pagamento legato al rispetto di determinati vincoli di natura paesaggistico-ambientale imposti
all’attività agricola, definito “Pagamento Ecologico”. Nella stessa direzione punta anche il
greening con cui si intende valorizzare alcune pratiche positive per l’ambiente tramite
pagamenti diretti: diversificazione delle colture, mantenimento dei prati permanenti,
72 Ibidem.
59
mantenimento o introduzione di aree di interesse ecologico sono tra le attività di greening con
cui le aziende godranno dei suddetti sostegni economici.
In Italia, secondo studi condotti dall’INEA, l’obbligo della diversificazione colturale
interesserà il 3,8% delle aziende italiane (circa 61 mila unità di cui 26 mila unità sono
interessate alla sola diversificazione, mentre 35 mila unità sono toccate anche dall’introduzione
di aree di interesse ecologico). A queste corrispondono circa 1,9 milioni di ettari a seminativo,
pari al 27,8% del totale. Lo scarso numero di aziende coinvolte è prevalentemente dovuto
all’applicazione della soglia di 10 ettari di superficie a seminativo, che rende la norma
applicabile a meno del 10% delle aziende italiane (157 mila unità). Da questa percentuale sono
poi state escluse le categorie che non sono tenute ad applicare la diversificazione, ovvero le
aziende biologiche e le aziende con superficie prevalentemente dedicata alla produzione di
erba, colture sommerse o a riposo e, delle oltre 135 mila aziende restanti, sono state escluse le
quasi 75 mila che soddisfano già i criteri della diversificazione.
C’è da dire che questo obbligo di diversificazione potrebbe andare a ledere quella specificità
della nostra agricoltura, che ha fatto della colture specializzate, come visto precedentemente,
un suo punto di forza. La soglia di 10 ettari, da questo punto di vista pare essere una buona
soluzione per mantenere viva la forte specializzazione delle PMI agricole, che costituiscono
appunto la maggioranza di attività agricole presenti sul territorio.
Per quanto riguarda il mantenimento dei prati permanenti, le superfici coinvolte ammontano a
oltre 3 milioni di ettari, al netto di quelle biologiche, e riguardano circa
250.000 aziende. La superficie a prati e pascoli potenzialmente interessata da questo obbligo
corrisponde al 90% del totale e al 24% della SAU. Poiché il rapporto tra i terreni a prati
permanenti e la superficie agricola totale non dovrà ridursi oltre il 5%, la superficie totale da
mantenere corrisponderà a circa 2,93 milioni di ettari.
Per quanto riguarda invece l’obbligo di introdurre aree di interesse ecologico, una stima
approssimativa delle aziende potenzialmente interessate da questo requisito ambientale può
essere fatta utilizzando i terreni a riposo come variabile che approssima la consistenza delle
aree d’interesse ecologico.
Un’altra novità rilevante della proposta per la politica di sviluppo rurale 2014-2020 consiste
nella possibilità concessa agli Stati membri di inserire dei sottoprogrammi tematici che
contribuiscano alla realizzazione delle priorità dell’Unione in materia di sviluppo rurale e
rispondano a specifiche esigenze riscontrate. Tra questi vi rientrano anche i giovani agricoltori.
60
Indicativamente, le misure e gli interventi di particolare rilevanza per quest’ultimo tipo di
sottoprogramma tematico sono:
- Aiuto all’avviamento di attività imprenditoriale per i giovani agricoltori (come abbiamo
già visto);
- Investimenti in immobilizzazioni materiali;
- Trasferimento di conoscenze e azioni di informazione;
- Servizi di consulenza e assistenza alla gestione delle attività agricole;
- Cooperazione;
- Investimenti in attività agricole73.
Tutte queste novità politiche ed economiche messe in campo con la Riforma della PAC vertono
quindi a dare particolare enfasi al sostegno alla transizione e al mantenimento dei livelli di
reddito, al riequilibrio territoriale, al supporto dei settori in crisi (come la zootecnia), alla
sostenibilità, qualità e salubrità dei prodotti alimentari e, finalmente, all’avvio di modelli di
semplificazione e governance74.
Per quanto riguarda lo sviluppo rurale non si prevede più un piano strategico nazionale, ma
l’elaborazione da parte degli Stati membri di programmi di sviluppo rurale a livello nazionale
o regionale. L’Italia, che ha optato per un’attuazione regionalizzata delle politiche di sviluppo
rurale, prevede tuttavia un programma nazionale per il pacchetto di misure per la gestione del
rischio in agricoltura (assicurazioni agevolate; fondi di mutualizzazione e stabilizzazione del
reddito) per la gestione delle risorse idriche e la biodiversità, interventi che si prestano meglio
a una programmazione a livello nazionale, piuttosto che a livello regionale.
L’attenzione alla ruralità è messa in gran conto dalla PAC che, come strategia generale intende
operare al rafforzamento del sistema produttivo, ponendosi come obiettivo principale la tenuta
e il rilancio delle produzioni agricole e dei sistemi agroalimentari, che soprattutto nel
Mezzogiorno e nelle aree interne del paese rappresentano una riserva di sviluppo che non è
ancora stata sfruttata a pieno. Il settore agro-alimentare, infatti, nonostante l’incremento
nell’ultimo decennio delle dimensioni aziendali e delle produzioni di qualità, mantiene ancora
73 Fonte INEA, I giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, Roma, 2013. 74 Ibidem.
61
delle criticità nell’assetto organizzativo complessivo con riguardo ai seguenti aspetti: i rapporti
di integrazione orizzontale e verticale dentro le filiere, la debolezza di fronte al mercato,
l’accesso al credito, la carenza di alcune infrastrutture essenziali per la competitività, il sistema
della ricerca e del trasferimento tecnologico, l’instabilità dei redditi agricoli.
«La nuova programmazione dello sviluppo rurale intende focalizzare l’attenzione su queste
criticità, pur non trascurando il tema dell’ammodernamento aziendale. All’interno di questo
obiettivo sono ricompresi incentivi per la ristrutturazione e il miglioramento organizzativo delle
singole aziende, per il rafforzamento delle filiere agro-alimentari e delle reti di impresa e per la
diversificazione delle attività aziendali. Inoltre si agirà in particolare con misure dirette a
orientare i comportamenti aziendali verso pratiche più sostenibili, che vanno oltre le normali
pratiche agricole e forestali, compensando gli operatori per i maggiori costi o i minori redditi
che ciò comporta. Tali misure hanno finalità multiple in quanto stimolano pratiche che riducono
gli impieghi di input (quali acqua e energia), migliorano la qualità dei suoli, mantengono il
paesaggio rurale, consentono lo stoccaggio di carbonio»75.
Tra le altre cose, obiettivo è anche quello di mettere in sicurezza il territorio per prevenire gli
effetti disastrosi dei fenomeni naturali, promuovere la diversità naturale e culturale delle aree
rurali e rilanciare lo sviluppo e il lavoro attraverso l’uso di risorse potenziali sottoutilizzate.
In conclusione, dunque, pare che l’attenzione delle istituzioni al settore agricolo sia vivo e le
soluzioni messe in campo a livello Europeo e nazionale siano delle più valide. Come sempre
bisognerà aspettare per vedere se effettivamente i risultati attesi si verificheranno o meno.
Sicuramente i nostri agricoltori non stanno con le mani in mano: rimboccarsi le maniche e darsi
da fare è ormai un atteggiamento comune dei nuovi agricoltori 2.0, che anzi, stanno cercando
nuovi stimoli dando nuovi input alla creazione di comunità forti in cui le possibilità di sviluppo
siano autonome e non dettate da leggi di mercato.
Certo la maggiore attenzione anche mediatica riservata al settore gioca un ruolo di forza in
questo frangente e, come vedremo nel prossimo capitolo, tanti sono i fattori che portano alla
rivalutazione della campagna e delle aree rurali, così come sono molte le possibilità di
applicazione di nuove forme lavorative che possono rendere, finalmente e per davvero,
l’agricoltura italiana un settore non solo all’avanguardia, ma anche, e forse soprattutto, volano
75 Aa.vv., Rapporto sullo stato dell’agricoltura, INEA, Roma, 2014, p. 96.
62
di una crescita e della creazione di un nuovo modo di fare impresa. Un modo che non ci si
sarebbe aspettato.
63
Agricoltura postmoderna
Alla luce di quanto è stato detto finora, è fondamentale prendere in considerazione non solo gli
aspetti storici ed economici passati, presenti e le prospettive future, ma anche gli aspetti
culturali e sociali che contraddistinguono l’uomo di oggi. Questo perché parte della
“rivoluzione verde” è dettata proprio dalla crisi dell’uomo in quanto tale, che ha origini lontane
e che, simbolicamente, viene spesso a coincidere con l’avvento dell’industrializzazione
secondo diversi autori. Tra questi Baumann, che afferma:
«La “grande trasformazione” che partorì il nuovo ordine industriale fu la separazione dei
lavoratori dai loro mezzi di sussistenza. Quel momento fatidico fu parte di un più generale
distacco: produzione e scambio cessarono di essere iscritti in un più generale, onnicomprensivo,
indivisibile modo di vita, creando in tal modo le condizioni perché il lavoro - insieme alla terra
e al denaro - fosse considerato una semplice merce e come tale trattato»76.
Questa separatezza diede ai lavoratori libertà di movimento e quindi la possibilità di essere
collocati a diversi utilizzi, ricombinati, riaccorpati in altri ordinamenti. Inoltre, permise una
separazione delle attività produttive dal resto degli obiettivi di vita permettendo di «congelare
la fatica fisica e mentale in un fenomeno a sé stante: una “cosa” che poté essere trattata come
tutte le cose, vale a dire da gestire, muovere, unire ad altre cose o fare a pezzi»77. Senza questa
separazione sarebbe stato impossibile separare l'idea di lavoro dalla “totalità” alla quale
apparteneva “naturalmente”, ossia la terra e il lavoro nei campi, e condensarla in un soggetto
autonomo.
Il nuovo ordine industriale e la rete concettuale che permise la proclamazione dell'avvento di
una diversa società, ossia una società industriale, come abbiamo visto, nacquero in Gran
Bretagna. Questa si distinse dai suoi vicini europei per aver distrutto il proprio ceto rurale e
con esso il legame naturale fra terra, fatica umana e ricchezza. «Si dovette dapprima rendere i
contadini esseri inutili, sradicati e “senza padrone” perché potessero essere visti come dei
contenitori o dei possessori mobili di una capacità lavorativa di pronto utilizzo e perché quel
potere fosse definito una potenziale fonte di ricchezza in sé e per sé»78.
76 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2002, p.163. 77 Ibidem. 78 Ibidem.
64
L’industrializzazione, lo “sradicamento” dei contadini dalle campagne, l’urbanizzazione,
hanno avuto dei risvolti particolarmente negativi da un punto di vista sociale, in quanto
crearono i presupposti per cui venne a mancare poi improvvisamente la struttura portante della
società fino ad allora: la comunità.
Col passare degli anni il fenomeno si è acuito e l’individualismo preconizzato da Nietzsche è
diventato parte fondante della società civile. Ora è evidente come l'insicurezza attanaglia tutti
noi, immersi come siamo in un impalpabile e imprevedibile mondo fatto di liberalizzazione,
flessibilità, competitività ed incertezza. Eppure ciascuno di noi consuma la propria ansia da
solo, vivendola come un problema individuale, il risultato di fallimenti personali e una sfida
alle doti e capacità individuali. Il problema sta nel fatto che cerchiamo la salvezza individuale
da problemi comuni. E come fa notare giustamente Baumann, «tale strategia ha ben poche
speranze di sortire gli effetti desiderati, dal momento che non intacca le radici stesse
dell'insicurezza; inoltre, è precisamente questo ripiegare sulle nostre risorse e capacità
individuali che alimenta nel mondo quell'insicurezza che tentiamo di rifuggire»79.
Quando i lavoratori erano legati alla terra, c'era una comunità relativamente stabile che
assisteva al meglio delle sue capacità gli indigenti nei momenti difficili, ma con l'avvento della
rivoluzione industriale la popolazione divenne più fluida e si concentrò in città grandi e
impersonali. Una legislazione sociale accompagnò questo processo di urbanizzazione e
industrializzazione, mentre lo stato andava assumendo il ruolo che veniva svolto in precedenza
dalla famiglia e dal villaggio. In un senso importante, allora, lo stato sociale rimpiazzò le
tradizionali relazioni socioeconomiche che erano esistite un tempo nelle comunità fondate
sull'agricoltura. Ora che i continui tagli al welfare hanno imposto in tutti i Paesi occidentali un
drastico ridimensionamento di questa struttura sociale80, sono le singole persone a doversi
necessariamente rimettere in gioco nella costituzione di nuove comunità, nuove “reti
protettive” della socialità.
79 Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Editori Laterza, Roma-Bari, 2001, prefazione, p.V. 80 Si vedano a questo proposito: R. Sennet, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli,
Milano, 2012, p.275, in cui l’autore afferma « Quello che oggi in Gran Bretagna è definito "conservatorismo
moderno" enfatizza […] le virtù della vita nelle comunità locali e l'idea che i poveri debbano essere aiutati dalle
associazioni del volontariato anziché dai burocrati dello stato assistenziale; questo localismo è ciò che il primo
ministro David Cameron chiama la "Big Society", la Grande società, e intende dire grande di cuore, ma scarsa
quanto a finanziamenti statali»; e A. Arvidsson, N. Peitersen, The ethical economy, Columbia University press,
New York, 2013, p.149: «welfare is perhaps the component of a functioning economy that is most lacking today.
Two decades of neoliberal policies have been preoccupied with the dismantling ofwelfare systems. And what
remains of the welfare systems developed in industrial society is exceptionally bad at meeting the needs that arise
with more diffuse production processes that blur the distinction between life and work and create a greater number
of unstable working conditions and more mobile and project-based careers».
65
Ecco quindi che il rinnovato interesse di un ritorno all’agricoltura, la crescita di occupazione
nel settore e in generale l’accresciuta diffusione dell’argomento sono da imputarsi sicuramente
anche all’evoluzione dell’uomo postmoderno, indentificato da più autori con la metafora del
vagabondo: giunto come a un punto di non ritorno, decide di ritornare da dove era partito, alle
sue origini.
La terra e l’agricoltura in generale rappresentano l’attività primaria dell’uomo e questo,
separandosene, ha come perso una parte del suo essere.
Il vivere lento, la collaborazione, la comunità, ma anche solo il saper ridere e scherzare seduti
intorno a una tavola coi frutti del proprio lavoro, sono elementi che hanno caratterizzato la vita
di uomini e donne per migliaia di anni. Solo recentemente (200/300 anni) l’evoluzione della
società ha portato a staccarci da quelle che sono le nostre origini culturali.
Ora le cose stanno iniziando a cambiare.
66
3.1 Parole liquide
Voce all'ultima fila! Siamo qui per lo spettacolo... Il giudice è già al suo posto? Parole liquide. / E'
davvero qui dove si arriva?! Punto di non ritorno, parete implosa nella parte non detta. / E' per questo
che abbiamo atteso e sperato, corso contro il vento, lottato e combattuto... guerre mondiali, spasmi
nucleari, cibo per le cavallette. / Radiazioni extra-coniugali, distorsioni domestiche, parole liquide. / E'
qui che la notte ha, progressivamente, perso ogni sua malizia virginale, oltre il territorio il cielo, oltre il
cielo il sole, oltre il sole...non c’è tempo. / E se l'uomo viene dall'uomo, Grande Madre che hanno fatto
a tuo figlio? Ripeto: che hanno fatto a tuo figlio? / Venduto all'asta al miglior offerente, infamato per
trenta denari, niente di nuovo sotto le costellazioni, ma Orione è fertile ora! / Le pareti hanno occhi
negli antichi domini dei Faraoni. / e tu sei come me...solo più all'interno. / E vuoi l'amore per bruciare
e il dolore per fuggire, / ma nessuno di noi due piangerà l'anima. / Comunque non prima che il cerchio
sia veramente chiuso. / Le auto in coda sono più che altro luci, più che altro facce dietro i finestrini, nei
sedili posteriori i bambini. Ora di cena nella casa a occidente, parole liquide. / Riuscirà il nostro eroe?
/ a uccidere i cattivi prima dell'alba. Eventualmente sia... / Luce nel risveglio gravidanza e gestazione
della filosofia nuova. / Giorno e mese uno anno zero. Fine! Dell'era del silenzio, parole liquide. //81
La liquidità è ciò che diversi autori hanno stabilito essere il carattere principale dell’uomo
contemporaneo e postmoderno. Questo perché i liquidi non mantengono di norma una forma
propria, non fissano lo spazio e non legano il tempo. Mentre i corpi solidi hanno dimensioni
spaziali ben definite ma neutralizzano l'impatto, riducendone il significato, del tempo (in
quanto resistono con efficacia al suo scorrere o lo rendono irrilevante), i liquidi invece non
conservano mai a lungo la propria forma e sono anzi sempre inclini a cambiarla. Ciò che conta
per un corpo liquido è il flusso temporale più che lo spazio che si trova ad occupare. Uno spazio
che in pratica occupa solo per un momento.
Oggi l’uomo è caratterizzato dalla liquidità: si perde la forma definita e si diventa mutevoli. Si
perde lo spazio in cui essere/esistere per acquistare un flusso temporale in cui divenire
continuamente.
Ora nulla è più irraggiungibile e noi tutti diventiamo inevitabilmente membri di una comunità
mondiale costruita dalle relazioni comunicative che passano dai media. «Essi ci sradicano dal
81 Neffa, Parole liquide, contenuta in 107 Elementi, 1998, Polygram Italia s.r.l., Universal. L’inserimento nel testo
di una strofa di questo artista è legata alla natura stessa delle sue liriche, da cui traspare un’idea appunto liquida
del pensiero, una frammentazione dei concetti, messi lì in maniera approssimativa e superficiale e articolati in
maniera non lineare: non diversamente appunto da come appare l’uomo liquido postmoderno. In quest’ottica,
dunque, il testo di Neffa appare come un riassunto di tutte le immagini, le situazioni e i pensieri che caratterizzano
l’uomo contemporaneo.
67
localismo così come il danaro e il commercio ci hanno sradicati dalla comunità fondata
sull’autoconsumo locale. Nello stesso tempo diventiamo vicini a persone ed eventi molto
lontani e lontani da persone ed eventi molto vicini. [...] Si allentano antichi legami di
appartenenza a favore di un’appartenenza senza luogo»82.
La “postmodernità” è lo spazio storico (o flusso storico, sarebbe forse meglio dire) in cui si
inserisce l’uomo liquido. Gli autori non sono concordi nelle specifiche che il termine
“postmoderno” rappresenta: taluni lo indicano come punto di arrivo della modernità (quindi
del processo partito dalla rivoluzione industriale) e affermano come l’uomo sia già, di fatto,
uscito dalla postmodernità intesa come periodo storico; altri invece affermano come la
postmodernità sia sostanzialmente un modo per indicare un punto di svolta, un passaggio
sostanzialmente, dalla modernità industriale alla nuova epoca in cui stiamo per entrare83.
Personalmente mi piace ritenere che la postmodernità sia effettivamente solo un “passaggio di
riflessione” per l’uomo, che dalla rivoluzione industriale ha subìto tanti cambiamenti, tante
“mutazioni” (socialmente intese) e ancora fatica a trovare una propria dimensione nella società
contemporanea (o forse la presa di coscienza della mancanza di possibilità di trovare una
propria dimensione è proprio ciò che rappresenta l’uomo “postmoderno”).
Giddens, nel tentativo di dare chiarezza al termine, afferma:
«Il termine postmodernità viene spesso usato come sinonimo di postmodernismo, di società
postindustriale, ecc. Se l'idea di società postindustriale, che dobbiamo in ogni caso a Daniel
Bell, è ben definita, altrettanto non può dirsi degli altri due concetti sopra citati. Farò una
distinzione tra i due. Il termine postmodernismo, ammesso che significhi qualcosa, si presta
meglio a descrivere stili o movimenti in ambito letterario, pittorico, artistico e architettonico.
Esso riguarda aspetti di riflessione estetica sulla natura della modernità. Anche se a volte è
designato in maniera piuttosto vaga, il modernismo è, o è stato, una prospettiva ben precisa in
questi vari campi ed è stato forse sostituito da altre correnti di tipo postmodernista. [...] Il
termine postmodernità indica invece qualcos'altro, almeno a suo modo di intendere questo
concetto»84.
82 Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori Laterza, 1998, p.61. 83 Questo dibattito è affrontato da più autori. Nello specifico, quelli consultati da me sono stati Baumann, Giddens,
Sennett, Lyotard, Berardinelli e Vattimo. 84 Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna, 1994, p.53
68
A cosa si riferisce dunque normalmente il concetto di postmodernità?
Oltre al senso generico di vivere in un periodo di marcata diversità rispetto al passato, questo
termine presenta diversi significati: la scoperta che nulla è dato conoscere con certezza; il fatto
che la “storia” è priva di ogni teleologia e che di conseguenza non si può difendere
plausibilmente alcuna versione di “progresso”; e infine la nascita di un nuovo programma
sociale e politico in cui assumono crescente importanza le preoccupazioni ecologiche e forse i
nuovi movimenti sociali in genere.
Sostanzialmente, ci troviamo in un momento storico in cui tutto pare un po’ confuso. Le
definizioni per il termine si sprecano e non tutte sono conformi agli stessi standard. Non esiste
solo il termine postmodernità, in quanto altri autori definiscono l’epoca in cui viviamo nei più
svariati modi possibili (da neo-modernità a surmodernità, comunque tutti concetti che
richiamano ancora un passato da cui non siamo usciti).
Ad un livello macro, però, è innegabile che tutte le definizioni possibili di postmodernità siano
pressoché inutili prese singolarmente. In quanto postmodernità è proprio tutto l’insieme delle
definizioni che ne vengono date perché è una summa di ciò che è stato, ed è ancora per certi
versi, il modernismo e la società che veniva definita “moderna”. La postmodernità rappresenta
realmente un momento di profonda riflessione dell’uomo per potersi proiettare al di fuori di
ciò che è passato come una enorme tempesta nel corso degli ultimi due secoli.
La modernità insomma, più che giungere a compimento ed essere superata, sta iniziando a
comprendere se stessa: «siamo nel mezzo di una fase di radicalizzazione della modernità»85.
In questa prospettiva perciò la società del XXI secolo non è meno “moderna” di quella del XX:
semplicemente è moderna in modo diverso. Ciò che la rende altrettanto moderna di quanto lo
fosse un secolo fa è ciò che differenzia la modernità da tutte le altre forme storiche di
coabitazione umana: la compulsiva e ossessiva, continua, irrefrenabile, sempre incompleta
modernizzazione; l'incontenibile e inestinguibile sete di distruzione creativa, o creatività
distruttiva, che dir si voglia, tesa alla creazione di una futura maggiore capacità di far meglio
la medesima cosa: accrescere la produttività e la competitività.
Ciò che differenzia particolarmente la situazione attuale, rendendola nuova e diversa, dalla
“vecchia modernità” è sostanzialmente ascrivibile a due elementi principali, ben evidenziati da
Baumann:
85 Ibidem, p.57.
69
«Il primo è il crollo graduale e il rapido declino dell'illusione proto moderna: della convinzione
che la strada lungo la quale procediamo abbia un fine, […] uno stato di perfezione da
raggiungere domani, tra un anno o nel prossimo millennio, una qualche sorta di buona società,
di società giusta, di società priva di conflitti in tutti o alcuni dei suoi numerosi aspetti postulati.
[...] Il secondo mutamento fondamentale consiste nella deregolamentazione e privatizzazione
dei compiti e doveri propri della modernizzazione. Quella che in passato soleva essere
considerata un'opera espletata dalla ragione umana, considerata come lascito e proprietà
collettiva delle specie umane, è stata frammentata («individualizzata»), rimessa al coraggio e
alla determinazione dei singoli, lasciata alla gestione dei singoli individui e a risorse
amministrate individualmente. Sebbene l'idea del miglioramento (o di qualsiasi ulteriore
modernizzazione dello status quo) tramite l'azione legislativa della società nel suo complesso
non sia stata completamente abbandonata, l'enfasi (nonché l'onere della responsabilità) si è
decisamente spostata verso l'autoaffermazione dell'individuo»86.
L’individualismo è, l’abbiamo detto, una delle conseguenze del nuovo corso della società
contemporanea. Ed è un fenomeno permanente e largamente diffuso sia nella sfera personale,
che in quella lavorativa. Un sempre maggior numero di persone è portato ad avere una libertà
di sperimentazione senza precedenti, con l’onere di sopportarne le conseguenze.
Tutto si riduce all’individuo. Tocca all'individuo scoprire cosa è capace di fare, portare tale
capacità al limite estremo e scegliere i fini a cui tale capacità può essere meglio applicata, cioè
la maggiore soddisfazione possibile. Ma per fare in modo che le possibilità restino infinite, non
è permesso a nessuno di pietrificarsi in una realtà perenne. «Meglio che restino liquide e fluide,
con tanto di data di scadenza, onde evitare il pericolo che impediscano di cogliere altre
opportunità e distruggano sul nascere l'avventura che sta per iniziare»87.
86 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2002, p.20. 87 Ibidem, p.61.
70
3.2 Insieme, a breve termine
Quando la Thatcher affermò che “la società non esiste”, fece al contempo un’acuta riflessione
sulla mutevole natura del capitalismo, una dichiarazione di intenti e una profezia
autorealizzante: di lì a poco si procedette allo smantellamento dei sistemi normativi e
previdenziali. In sostanza, nessuna responsabilità può più essere imputata alla società:
condanna e redenzione sono dipesi esclusivamente dall’attività dell’individuo, da ciò che esso
compie nella sua vita e da come decide di condurla. La vita diventa un insieme di attività a
breve termine per l’autoaffermazione dell’individuo.
Il lavoro moderno è sempre più lavoro a breve termine, nella misura in cui le assunzioni a
tempo determinato e il lavoro flessibile e/o part-time si vanno a sostituire a carriere lavorative
svolte all'interno di un'unica azienda o istituzione. E così come il lavoro, anche le relazioni
sociali soffrono di questa patologia: quando le persone non rimangono a lungo in una
istituzione, la loro conoscenza di questa, così come l'identificazione con essa, si indeboliscono.
Insieme, le relazioni superficiali e i deboli legami istituzionali fanno in modo che la gente si
faccia gli affari propri, non si lasci coinvolgere in problemi che non la riguardano direttamente
e in particolare non entra in relazione con quanti nell'istituzione svolgono compiti di altro
genere. Oltre a ciò, anche le forze culturali oggi remano contro la pratica della collaborazione
impegnativa.
Nessuna occupazione è ormai più garantita in eterno, nessuna capacità professionale ha la
certezza di mantenere il suo valore di mercato. L'esperienza accumulata può trasformarsi in un
batter d'occhio in zavorra e l’impressione è che imboccare oggi la strada di una carriera
prestigiosa può rivelarsi domani un atto suicida. I mezzi di sostentamento, la posizione sociale,
il riconoscimento della propria utilità e dignità possono venire bruscamente disdetti da un
giorno all'altro, come del resto avvenuto in diverse occasioni più o meno mediaticamente
importanti.
Assieme alla “stabile precarietà” si sono logorate e assottigliate anche quelle reti di protezione
per così dire “di riserva”, tessute in casa a proprie spese e costituite dalle comunità familiari o
dai vicini, come abbiamo visto. Responsabile di ciò è in parte la nuova prassi delle relazioni
interpersonali, oggi impregnata dello spirito consumista che assegna al partner e agli amici
soltanto il ruolo di potenziale fonte di piacere: una prassi che di certo non offre il vantaggio di
consolidare i legami, e meno che mai quei legami supposti come durevoli e vissuti in quanto
tali.
71
Secondo tale prassi, conviene stringere legami considerati da entrambe le parti “a scadenza”,
legami che possano essere ricontrattati su richiesta di una delle parti, non garantiscano diritti
acquisiti e non creino obblighi per il periodo successivo alla disdetta.
L'altra parte di responsabilità va attribuita al lento ma inesorabile e irreversibile processo di
oblio delle “qualità sociali”: la capacità di stringere e curare i rapporti interpersonali. Come
afferma Baumann:
«Un'attività un tempo compiuta con le proprie forze e a proprie spese, oggi necessita sempre
più spesso della mediazione di specialisti, di consigli e di prodotti tecnologici acquisiti sul
mercato. Senza questo aiuto esterno è difficile per i partner intendersi e per i gruppi già formati
evitare lo sfacelo. Oggi non solo il soddisfacimento dei bisogni personali, ma anche la presenza
e la solidità dei gruppi umani dipendono sempre più dai capricci e dai mutevoli umori del
mercato»88.
La società moderna sta quindi producendo una nuova tipologia caratteriale. Un tipo di persona
tesa a ridurre le ansie che possono derivare dalle differenze, siano queste politiche, razziali,
religiose, etniche o della sessualità. Il fine diventa quello di evitare l'eccitazione, di sentirsi il
meno stimolati possibile dalle differenze più profonde. La chiusura in se stessi costituisce uno
dei metodi per ridurre tali provocazioni. Un altro metodo è rappresentato dall'omologazione
dei gusti. Ma il tentativo di neutralizzare le differenze mette palesemente in mostra tutta la
paura e l’angoscia che queste differenze provocano89. E uno degli effetti principali di questo
tentativo di neutralizzazione è proprio quello di indebolire l'impulso a collaborare con coloro
che rimangono altro da noi.
Anche pensando a come si è evoluto il mondo del lavoro, ci si rende presto conto di come la
collaborazione continui ad essere di difficile attuazione90.
88 Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, 2002, Pearson Paravia Bruno Mondadori, Milano, p.29 89 Si pensi banalmente agli slogan e ai discorsi di Salvini e di altri leader di destra che si muovono proprio a partire
dalle paure delle persone comuni per le diversità sessuali e razziali. 90 Molte aziende stanno lavorando proprio per garantire una maggiore collaborazione tra i reparti e tra le persone.
Forme di job rotation sono oggi all’ordine del giorno in molte multinazionali. Risulta chiaro però come questi
tentativi siano, se non ancora ad un livello embrionale, praticamente appena nati. Si escludono qui ovviamente
quelle realtà illuminate in cui la collaborazione non ha mai smesso di essere il punto focale dell’attività produttiva.
Realtà che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci, diventando presto dei veri e propri modelli da
seguire ed emulare, ma che solo oggi diventano seguibili anche da aziende di minore grandezza. Come sottolineato
da Arvidsson e Peitersen: «one of the most important features of the debates on industrial restructuring that have
raged since the 1980s has been the focus on the "networking" of the production process beyond the factory walls.
This notion became popular in the 1980s, as a consequence of the success of Japanese “Toyotist” production
systems and of the new forms of "flexible specialization" that economists like MIT's Michael Piore and Charles
Sabel identified in Italian industrial districts. In their view, these districts constituted extended production
networks, in which flexible adaptation to demand was guaranteed by small producers that could easily enter into
72
Flessibilità è la parola d'ordine del giorno, e quando viene applicata al mercato del lavoro essa
annuncia l'avvento del lavoro con contratti a termine o senza contratto, preconizza lavori privi
di sicurezza, di impegni precisi e duraturi, lavori che non conferiscono alcun diritto futuro, che
offrono niente più che occupazioni a termine o rinnovabili, licenziamento in tronco e nessun
diritto alla liquidazione. Nessuno può dunque sentirsi davvero insostituibile: né chi è già stato
licenziato, né chi ha il compito di licenziare altri.
In assenza di una sicurezza di lungo periodo, la gratificazione immediata appare a buon motivo
una strategia quanto mai ragionevole. Qualunque cosa possa offrire la vita, che la offra
all'istante. Chissà cosa può accadere domani.
«L'amara esperienza ha insegnato a tutti noi che dall'oggi al domani i vantaggi possono
trasformarsi in handicap, e che premi ambiti possono trasformarsi in marchi di infamia»91.
L’impossibilità di fare dei piani per il futuro (o perlomeno l’enorme difficoltà che si ha nel
farli) ci porta dunque ad avere sempre meno progetti di lungo termine e sempre più
gratificazioni temporanee. E questo porta necessariamente anche a non saper più pensare
diversamente dal “breve termine”.
Eppure questo perenne “breve termine” a cui siamo soggetti non cancella il fatto che «la
collaborazione rende più agevole il portare a compimento le cose e la condivisione può
sopperire a eventuali carenze individuali. La tendenza alla collaborazione è inscritta nei nostri
geni, ma non deve rimanere confinata ai comportamenti di routine; ha bisogno di essere
sviluppata e approfondita. Lo vediamo soprattutto quando abbiamo a che fare con persone
diverse da noi; allora collaborare diventa uno sforzo molto impegnativo»92.
Le tensioni causate da questa assenza di comunità e da questa spinta all’individualismo stanno
creando, oggi, nuove forme di aggregazione.
Esiste ora un rinnovato desiderio di collaborazione, di comunità, di relazioni condivise. E
questo ha dei risvolti positivi nel mondo del lavoro e, in particolare, nel mondo dell’agricoltura.
Purtroppo questo processo è ancora lungi dall’essere accolto collettivamente dalla massa.
Rimangono sostanzialmente prevalenti quelle forme di capitalismo che puntano sul lavoro a
breve termine e sulla frammentazione delle istituzioni. L'effetto sui lavoratori è quello di
cooperation with one another, vary their output, and shift from one product to another» (A. Arvidsson, N.
Peitersen, The ethical economy, Columbia University press, New York, 2013, p.28). 91 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2002, p.188. 92 R. Sennet, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano, 2012, p.10.
73
privarli della possibilità di stabilire relazioni di sostegno reciproco e renderli sempre più
separati l’uno dall’altro.
Come afferma Sennett:
«Nei Paesi occidentali, la distanza tra le élite e le masse va aumentando e la disuguaglianza è
più pronunciata proprio nei Paesi che sposano l'ideologia neoliberista, come la Gran Bretagna
e gli Stati Uniti; sempre meno, in queste società, ci si riconosce in un destino comune e
condiviso. Il neocapitalismo consente il divorzio tra potere e autorità, e le élite vivono in un
empireo globale, svincolate dalla responsabilità nei confronti dei comuni mortali, specialmente
in tempi di crisi economica»93.
Non sorprende quindi che in questa situazione le persone comuni ricerchino una qualche forma
di solidarietà e comunità. Così come non sorprende che da questo incrocio tra potere politico e
potere economico sia nata una precisa tipologia caratteriale, che aspira soprattutto ad alleviare
l'angoscia personale. Continua Sennett concludendo che:
«L'individualismo di cui parla Tocqueville apparirebbe a La Boétie, se vivesse oggi, una nuova
forma di servitù volontaria: l'individuo che, in balia dell'angoscia personale, cerca un senso di
sicurezza in ciò che gli è familiare. Ma a mio avviso la parola "individualismo" segnala, oltre
che una pulsione personale, anche un'assenza sociale, l'assenza di riti condivisi. In tutte le
culture umane, il ruolo del rituale è quello di alleviare e risolvere l'angoscia attraverso un
movimento di estroflessione in atti simbolici condivisi. La società moderna ha indebolito tali
legami ritualizzati; i rituali secolari, in specie i rituali di collaborazione, si sono dimostrati
troppo aleatori per fornire quel tipo di sostegno. […] Ciononostante, io insisto sulla clausola:
non è ancora così. I brutali semplificatori della modernità possono forse inibire e distorcere la
nostra capacità di vivere e lavorare insieme, ma non cancellano, non possono cancellare, tale
capacità. In quanto animali sociali, siamo in grado di collaborare più profondamente di quanto
non immagini l'ordine sociale esistente»94.
In Modernità liquida, c’è un passo in cui Baumann fa notare come Bernard Crick cita dalla
Politica di Aristotele la sua idea di una «buona polis», articolata a confutazione del sogno di
Platone di un'unica verità, un solo standard unificato di giustezza che tutto abbraccia. Secondo
Crick, afferma Baumann, c'è un punto giunto al quale una polis, procedendo nell'unità, cessa
93 Ibidem, p.306. 94 Ibidem, p.306.
74
di essere una polis e si avvicina al punto di perdere la propria essenza, diventando una polis
peggiore. Come se si volesse trasformare l'armonia in unisono, o ridurre un'aria a un singolo
tempo. Ma la verità è che la polis è un'aggregazione di tanti membri. In questo passo «Crick
avanza l'idea di un genere di unità [...] il quale assume che la società civile sia intrinsecamente
pluralistica, che il vivere insieme in tale società significhi negoziazione e conciliazione di
interessi naturalmente diversi. [...] In altre parole, il pluralismo della società civile moderna [è]
una cosa buona e una circostanza fortunata, in quanto i vantaggi che arreca superano di gran
lunga i disagi e gli inconvenienti, amplia gli orizzonti per l’umanità e moltiplica le possibilità
di una vita più piacevole rispetto alle condizioni che potrebbe offrire una qualsiasi delle sue
alternative. Potremmo dire che, in netta opposizione alla fede sia patriottica sia nazionalistica,
il genere più promettente di unità è quello che viene conquistato, e conquistato ripartendo ogni
giorno da zero, attraverso il confronto, il dibattito, il negoziato e il compromesso tra valori,
preferenze, modi di vita e autoidentificazioni di molti e diversi, ma sempre dotati di libero
arbitrio, membri della polis»95.
Ciò che afferma Baumann è che questo è il modello di unità emergente che rappresenta una
conquista comune. Questa unità è un risultato della vita in comune, ed è creata attraverso il
negoziato e la riconciliazione, non attraverso il rifiuto, il soffocamento o l'eliminazione delle
differenze.
95 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2002, p.208
75
3.3 La fine di un’epoca?
Nel descrivere lo sviluppo delle istituzioni sociali moderne, Giddens parla di “meccanismi di
disaggregazione”. Tra questi, nota come una particolare importanza sia rappresentata dalla
creazione di “emblemi simbolici”, con cui identifica «i mezzi di interscambio che possono
passare di mano senza tener conto delle caratteristiche specifiche degli individui o dei gruppi
che li utilizzano in qualsiasi particolare frangente»96. Concentrandosi sul discorso monetario,
l’autore continua affermando come la natura della moneta sia stata ampiamente discussa dalla
sociologia e di come questa sia stata oggetto di interesse costante anche da parte dell'economia.
«Nei suoi scritti giovanili Marx chiamava la moneta “la prostituta universale”: un mezzo di
scambio che annulla il contenuto dei beni o dei servizi sostituendolo con uno standard
impersonale. La moneta consente di scambiare qualsiasi cosa contro qualsiasi cosa,
indipendentemente dal fatto che i beni scambiati abbiano delle qualità reali in comune. I
commenti critici di Marx a proposito della moneta lasciano intravedere la sua successiva
distinzione tra valore d'uso e valore di scambio. La moneta rende possibile la generalizzazione
del secondo di questi termini grazie al suo ruolo di “pura merce”»97.
Ciò che abbiamo affrontato nella prima parte di questo capitolo è innegabilmente frutto di una
serie di meccanismi messi in moto dal capitalismo e dall’industrializzazione. Ora stiamo
giungendo a un punto di svolta. Siamo al momento in cui da più punti si sollevano voci che
affermano l’avvento di questa o quella nuova forma di società. Come visto precedentemente
stiamo attraversando un periodo di transizione dalla modernità a “qualcosa d’altro”. Questa
transizione è stata evidenziata anche da Arrighi nel suo Il lungo XX secolo, in cui studia e
mostra il percorso del capitalismo dalle origini ad oggi.
Nel corso della storia del capitalismo si sono succeduti diversi cicli sistemici di accumulazione,
processi storici durante i quali una singola forza egemonica agisce da aggregatrice per tutte gli
altri singoli Stati, progredendo in maniera diversa alla crescita del capitalismo secondo basi
territoriali e/o finanziarie.
Analizzando singolarmente i diversi cicli, Arrighi nota che la durata di ognuno di essi
diminuisce progressivamente mentre le dimensioni e la complessità di ogni agente dominante
diventano via via più grandi.
96 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna, 1994, p.33. 97 Ibidem, p.33.
76
Il ciclo contrassegnato dal dominio della Repubblica Genovese, città-stato di piccole
dimensioni ma dalla vasta capillarità di reti sociali e finanziarie, durò 220 anni. Il successivo
ciclo fu di dominazione olandese, impero di dimensioni ben maggiori della Repubblica
Genovese, e durò 180 anni. Il terzo ciclo durò 130 anni e vide il regime britannico espandere
il proprio dominio in tutto il mondo diventando un vero e proprio impero commerciale e
territoriale. Il quarto ed ultimo (per ora) ciclo ha come fulcro il regime statunitense, potente al
punto da possedere dimensioni continentali e da rendere credibili minacce di strangolamento
economico e/o militare rivolte a governi ostili in qualsiasi parte del mondo. Quest’ultimo ciclo
ha una durata stimata di circa 100 anni.
Ridotta ai minimi termini, l’analisi di Arrighi è lineare: ogni ciclo sistemico conosce una prima
fase di espansione materiale, nella quale il soggetto egemone coordina a proprio vantaggio il
mercato mondiale, e una seconda fase di espansione finanziaria, dove la potenza egemone
declinante abbandona il campo della produzione diretta per dominare il sistema attraverso la
finanza, mentre nuove realtà si scontrano per emergere come leader del ciclo sistemico
successivo.
Tutti questi cicli sono contraddistinti da caratteristiche simili tra loro: il dominio genovese e
quello britannico sono di tipo estensivo, quello olandese e statunitense di tipo inclusivo. La
prima tipologia identifica quelle potenze cosmopolite-imperiali responsabili dell’espansione e
conquista geografica, la seconda invece identifica gli agenti manager-nazionali responsabili del
consolidamento geografico.
Attualmente viviamo nel periodo successivo alla cosiddetta crisi spia (avvenuta negli anni 70
del Novecento per il regime statunitense), definita da Arrighi come «punto di svolta […] in cui
l’agente dominante dei processi sistemici di accumulazione del capitale palesa […] un giudizio
negativo sul reinvestimento dei capitali eccedenti nell’espansione materiale […] e, insieme, un
giudizio positivo sulla possibilità di prolungare la sua leadership/dominio grazie a una
maggiore specializzazione nell’alta finanza»98. Questa crisi spia fa da preludio a ciò che viene
definita crisi terminale, ossia alla fine effettiva del regime di accumulazione ancora dominante
e all’ascesa di uno nuovo.
98 G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996, p.
283.
77
Seguendo la ciclicità evidenziata da Arrighi, risulta plausibile che il prossimo ciclo sarà
dominato da una potenza di tipo estensivo. Ma di che tipo di regime si tratta? La potenza cinese,
come evidenziato da diversi autori e dallo stesso Arrighi in Adam Smith a Pechino, potrebbe
essere la prossima forza egemonica. Alcuni punti però mettono in dubbio questa possibilità:
nonostante la Cina sia di fatto il centro manifatturiero del mondo, gli Stati Uniti, potenza
economica declinante, mantengono il controllo mondiale dell’esercizio della forza militare, un
controllo che non conosce, e presumibilmente per molto ancora non conoscerà, rivali credibili.
Per la prima volta nella storia dei cicli sistemici, inoltre, la potenza declinante non è prestatrice
mondiale di liquidità, ma, esattamente all’opposto, è epicentro del flusso di capitali mobili
mondiali.
«Il moderno sistema interstatale ha acquisito le sue attuali dimensioni globali attraverso
successive egemonie di crescente ampiezza, che hanno corrispondentemente ridotto
l’esclusività dei diritti di sovranità realmente goduti dai suoi membri. Se questo processo
dovesse continuare, solo un vero governo mondiale come quello immaginato da Roosvelt –
secondo il quale la sicurezza per il mondo doveva essere basata sul potere americano esercitato
attraverso i sistemi internazionali ma proveniente da un’istituzione meno esoterica di un
sistema monetario internazionale e meno rozza di un complesso di alleanze o basi militari –
potrebbe far sì che la prossima egemonia mondiale sia territorialmente e funzionalmente più
completa di quelle precedenti. La storia del capitalismo, così strettamente associata all’ascesa
e all’espansione del moderno sistema interstatale, è sul punto di concludersi come conseguenza
del livello di potere raggiunto nel mondo dall’Occidente durante la leadership americana?»99.
Oggi più che mai assistiamo quotidianamente al lento cedere di alcuni capisaldi del capitalismo
schiacciati da nuove realtà ancora in nuce e non chiaramente definite o assorbite dalla
stragrande maggioranza della popolazione.
Si pensi al diritto d’autore schiacciato da nuove forme di protezione e diffusione di opere
dell’intelletto come Creative Commons, alle nuove forme di finanziamento “dal basso” con
strumenti di crowdfunding come Kickstarter o ancora al modello della coda lunga (per non
parlare poi di fenomeni ancora più specifici come le banche del tempo, il modello di decrescita
ecc.), fenomeni che mettono in luce alcune criticità di un modello economico e culturale non
più del tutto in linea con le esigenze delle persone.
99 Ibidem, p.108.
78
Queste criticità sono diventate via via più evidenti con l’avvento di Internet e la conseguente
nascita della società dell’informazione, in cui le reti diventano dominanti anche nella
dimensione sociale.
Il web diventa spazio in cui circolano liberamente (o quasi) saperi, competenze, informazioni,
denaro e va configurandosi come rete aperta «in cui le frontiere e i limiti tra Stati,
organizzazioni, comunità e gruppi sono sempre meno importanti, e in cui una parte crescente
della ricchezza viene creata tramite scambi fra persone appartenenti a diversi stati,
organizzazioni o comunità»100.
Arrighi suggerisce che il mondo post-capitalista potrebbe essere dominato da un ritorno ad un
caos sistemico simile a quello da cui si è originato il modello capitalista, ma molto più
probabilmente il sistema capitalistico verrà integrato in un modello partecipativo di scala
globale invece che essere completamente sostituito. «Non vi è alcuna ragione per ritenere che
nell’attuale transizione egemonica, così come in quelle passate, ciò che a un certo momento
appare improbabile o persino impensabile, non divenga in seguito, sotto l’impatto di un
crescente caos sistemico, probabile ed estremamente ragionevole»101.
E non pareva forse improbabile solo alcuni anni fa che le giovani generazioni potessero tornare
a dedicarsi con passione all’agricoltura? Non sembrava forse impensabile che giovani laureati
decidessero di dedicarsi ad attività legate alla terra, invece che aspirare a “fare carriera”?
L’agricoltura in questo senso rappresenta una chiave di volta per diversi aspetti, sociali ed
economici. L’accresciuto interesse delle nuove generazioni per l’ambiente agricolo è dunque
foriero di un cambiamento forse non radicale, ma sicuramente necessario vista la situazione in
cui ci troviamo, aggravata dalla crisi economica iniziata nel 2008, che, da questo punto di vista,
potrebbe essere intesa in futuro come momento di effettiva fine della postmodernità, in quanto
apice del sistema capitalistico così come lo abbiamo conosciuto finora102.
100 A. Arvidsson, A. Delfanti, Introduzione ai media digitali, Il Mulino, Bologna, 2013. 101 G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996, p.109. 102 A questo proposito, la crisi viene vista come una “onda d’urto” che ha investito l’economia, ridefinendone
alcuni aspetti, come, per esempio, il modo di lavorare: «The global financial crisis that first hit the United States
(which was already in a recession) in the autumn of 2008, and then the rest of the world shortly thereafter, can be
likened to a 'shock wave'. A massive wave of reduced liquidity in the financial sector unleashed by the dramatic
collapse of Lehman Brothers generated a negative macroeconomic shock which drove down aggregate demand
in countries around the world to a degree unseen since the Great Depression: credit markets froze, bringing lending
to a virtual standstill, halting business investment, and driving consumer spending into a downward spiral. Thus,
the economic 'shock wave' emanating from the financial sector had a profound effect on the 'real' global economy»
(J. C. Messenger, N. Ghosheh, Work sharing during the great recession, Edward Elgar Publishing Limited,
Cheltenham, UK, 2013, p.1). Gli autori continuano il discorso definendo le pratiche volte alla risoluzione della
situazione di crisi messa in atto dagli Stati e dalle aziende: «Crisis work-sharing measures designed to preserve
existing jobs encourage companies to respond to a reduction in demand for their productsor services by spreading
79
Per dirla usando le parole di Arvidsson e Peitersen:
«We are not arguing for a comeback of the value regime of industrial society that would be
impossible, and probably undesirable even if it were possible. However, neither do we accept
the "postmodernist" argument (less popular now, perhaps, than it was two decades go) that the
end of values (and of ethics or even politics) would be somehow liberating and emancipatory.
Instead we argue that the foundations for a different kind of value regime - an ethical economy
- are actually emerging as we speak»103.
Per concludere, la distruzione dei legami sociali, la liquidità della società contemporanea, la
precarietà del lavoro, l’insicurezza e l’ansia permanente e pervasiva che attanaglia l’essere
umano di oggi, hanno portato molti autori a interrogarsi su delle alternative risolutive per la
situazione in cui viviamo. Hanno portato ad avvertire un forte bisogno di comunità, di
aggregazione, di sicurezza e stabilità. Del resto, solo quando perdi una cosa importante ti rendi
veramente conto di quale fosse il suo valore.
Forse siamo entrati nell'era postmoderna, forse no o forse ne stiamo uscendo. Non ha molta
importanza. Quello che ha importanza è che siamo entrati nei tempi delle tribù e degli
atteggiamenti tribali; momento in cui si sviluppano nuovamente il bisogno della comunità e
l'appassionata ricerca delle tradizioni. Almeno in questo senso la lunga strada laterale percorsa
dalla modernità ci ha ricondotti al punto di partenza. O perlomeno tutto sembra indicarlo.
«È, dunque, la fine della modernità? Non necessariamente. In altri sensi viviamo pienamente
sotto il segno della modernità. Siamo moderni nel più moderno dei sensi: nel senso di sperare
che le cose si possano rendere diverse e migliori da come sono, e che lo si debba fare, in quanto
le cose non sono buone come dovrebbero e come potrebbero essere»104.
the reduced volume of work over all workers in the enterprise or all workers in a highly impacted work unit, rather
than laying off a portion of those workers. This type of 'sharing' of the available work is achieved by reducing the
number of hours worked by each affected employee. [...] This reduction in working hours is typically accompanied
by a corresponding (pro rata) reduction in employees' wages or salaries. In this way, the company would be able
to cut its labour costs in line with the reduction in demand for its products or services. [...] For this reason, most
of those countries that have developed crisis work-sharing programmes provide affected workers with some type
of a wage supplement giving partial replacement of the employees' lost earnings» (Ibidem, p.5). Questa work
sharing, come vedremo più avanti nel testo, si inserisce nel solco della definizione di una nuova forma di economia
e come tale rappresenta uno spunto interessante anche per l’agricoltura. 103 A. Arvidsson, N. Peitersen, The ethical economy, Columbia University press, New York, 2013, p.6. 104 Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, 2002, Pearson Paravia Bruno Mondadori, Milano, p.87.
80
Per una nuova agricoltura
Cercare di definire un nuovo percorso di sviluppo dell’agricoltura non è facile.
Come abbiamo visto nel secondo capitolo il settore è sì in crescita rispetto agli altri settori
economici del Paese, ma comunque soffre di una carenza di persone e mezzi. L’età media dei
conducenti di attività agricole non favorisce il ringiovanimento della struttura, vuoi per il
livello di istruzione, per la capacità di utilizzo di strumenti informatici di vario tipo, vuoi per
la difficoltà ad avere (o sviluppare) una certa elasticità necessaria per rimanere a galla in un
mare difficile da navigare.
La nascita di una nuova agricoltura, di una “New rural economy”, deve partire necessariamente
dalla capacità di arricchirsi delle più diverse competenze, di saper unire ideologie diverse,
nuove e non sempre viste di buon occhio (come la decrescita, che affronteremo più avanti).
L’agricoltura, per essere foriera di quel cambiamento e di quella rinascita con cui politici e
commentatori continuano a definirla in un’ottica futura, deve rinnovarsi e diventare un terreno
di sperimentazione a più livelli, riuscendo a coniugare in sé tutte le diverse tipologie lavorative,
modelli economici, innovazioni tecniche, tecnologiche e soprattutto di pensiero. Solo riuscendo
a fare ciò l’agricoltura potrà veramente rinascere e a diventare quel “volano” che in molti si
auspicano che sia.
81
4.1 Nuove ideologie
È ragionevole pensare che la moltiplicazione delle macchine per il trattamento delle
informazioni investe ed investirà la circolazione delle conoscenze così com’è avvenuto con lo
sviluppo dei mezzi di circolazione delle persone prima e di quelli dei suoni e delle immagini
poi105.
Nell’introduzione a Gli strumenti del comunicare Marshall McLuhan afferma che il mondo
occidentale è entrato in una fase di implosione. Dopo aver effettuato una «estensione del nostro
corpo in senso spaziale, oggi […] abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso in un
abbraccio globale che abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Ci stiamo avvicinando alla fase
finale dell’estensione dell’uomo: quella in cui il processo creativo di conoscenza verrà
collettivamente esteso all’intera società umana. […] L’elettricità ha ridotto il globo a poco più
di un villaggio»106.
Quanto espresso da McLuhan si basava sull’analisi dei media del suo tempo e su quelli che si
prefiguravano come quelli fondamentali per il futuro: i computer.
Lo sviluppo dei media moderni e dei computer era già avviata da tempo e questo non stupisce,
dal momento che «sia le macchine mediali che le macchine da calcolo erano assolutamente
necessarie per il funzionamento delle moderne società di massa. […] Fotografia, film, radio e
televisione hanno reso possibile la diffusione delle stesse ideologie, mentre i computer hanno
reso possibile l’archiviazione di dati fondamentali per la collettività»107.
Già a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento si iniziò a pensare ai computer non solo come
strumenti di calcolo ma come veri e propri strumenti per comunicare. Di lì a poco fece capolino
l’antenato di internet per eccellenza: Arpanet. Questa rete, a partire dal 1969, collegava i
computer presenti in alcune università e in alcuni centri militari degli Stati Uniti a scopi
esclusivamente militari. Ancora remota era la diffusione al grande pubblico, ma già se ne
prefigurarono gli sviluppi quando i ricercatori iniziarono ad influenzare il suo utilizzo per
necessità diverse da quelle militari, come mailing list per comunicazioni di natura culturale
(leggasi fantascienza e musica rock…).
105 J. Lyotard, La condizione postmoderna, rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1981. 106 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore S.P.A., Milano, 2008, pp.23-24. 107 L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, ed. Olivares, Milano, 2002, p.41,.
82
Nel ’91 nasce ufficialmente il web ad opera di Tim Berners-Lee – ricercatore presso il CERN
di Ginevra - e, nel corso degli anni novanta internet entra nelle vite del grande pubblico: «Alla
fine del XX secolo la convergenza a lungo predetta tra media e capacità di calcolo dei computer
in hypermedia sta finalmente avendo luogo»108.
Le origini culturali di questo villaggio si dipanano dalla zona di San Francisco, nella quale si
uniscono la cultura bohemienne del luogo con le industrie hi-tech della Silicon Valley per dare
vita all’ideologia californiana, visione tecnoliberista che guarda a internet come strumento
volto a creare una nuova forma di democrazia libera e partecipativa e, al contempo, a liberare
l’individuo.
Indubbiamente influenzati dalle teorie – per certi aspetti utopistiche – di McLuhan sul villaggio
globale, portano avanti un ideale secondo cui la semplice diffusione di internet permetterebbe
un accesso diffuso a sapere e informazione, cancellerebbe le differenze sociali tra le persone e
le differenze di potere tra gli Stati, riorganizzati secondo una radicale democratizzazione.
Ma la stessa ideologia californiana racchiude in sé un’ambiguità sul futuro digitale. Se da un
lato infatti si postula l’idea, in continuità con McLuhan, di un’agorà elettronica libera che possa
abbattere i vincoli dettati dalle corporation capitalistiche, dall’altro si afferma che la
convergenza tra i media produca un mercato elettronico in cui l’unica regola è la competizione.
Questa ambiguità appare evidente se si prendono in considerazione le culture da cui si è
generata l’ideologia: da una parte l’anarchismo degli hippie (mutuati in hacker
successivamente), dall’altra il liberismo economico tipico dell’imprenditoria americana, il tutto
condito da un rigoroso determinismo tecnologico. Secondo Barbook e Anderson questa fusione
porta necessariamente non a una visione ottimistica ed emancipatoria del futuro digitale in cui
viviamo/vivremo, bensì a una visione pessimistica e repressiva in cui si porta a compimento
l’ideale ottocentesco di Thomas Jefferson di creare una nuova civilizzazione “fondata sulle
eterne verità dell’ideale americano”. Ennesima rappresentazione dell’infinito scontro tra le due
correnti di pensiero identificate da Eco come Apocalittici e Integrati di cui oggi vediamo ancora
i risvolti con le contrapposte visioni di un futuro peggiore in cui vivremo costantemente sotto
l’occhio del Grande Fratello, schiavi della tecnologia e di un futuro migliore in cui grazie alla
tecnologia potremo essere finalmente liberi.
108 R. Barbrook, A. Cameron, The californian ideology, 1995.
83
Aldilà delle esasperazioni teoriche, la californian ideology riesce a cogliere l’importanza di
movimenti sociali legati ad hacker, artisti e filosofi responsabili della ridefinizione di concetti
cruciali come il diritto d’autore, la privacy, la trasparenza, la partecipazione collettiva e via
dicendo. Questi concetti hanno portato all’idea di intelligenza collettiva definita da Levy come
una mobilitazione di intelligenze distribuite, coordinate e valorizzate grazie alle tecnologie
dell’informazione; non troppo differente all’idea di villaggio globale espressa da McLuhan,
eliminandone le implicazioni politiche e religiose.
Solo dopo la recente prolificazione di ambienti social e della nascita del web 2.0 si può
effettivamente parlare di un villaggio globale, e di un’intelligenza collettiva, in cui le persone
sono connesse le une con le altre senza (apparenti) restrizioni e senza confini.
In questo villaggio postmoderno Lyotard si interroga sul ruolo che potrebbero avere gli Stati-
nazione per il controllo e la diffusione delle conoscenze. Nella sua visione lo Stato sarebbe
apparso come opaco di fronte alla ideologia di trasparenza della comunicazione, sviluppattasi
parallelamente alla commercializzazione del sapere. In questo contesto rischierebbero di
acuirsi le difficoltà nei rapporti fra istanze statuali ed economiche, vedendo infine queste ultime
imporre il loro controllo sulle decisioni di investimento dei singoli Stati-nazione e, al
contempo, tagliando fuori i singoli individui e le loro capacità.
Barbrook e Cameron, invece, affermano che «the digital future will be a hybrid of state
intervention, capitalist entrepreneurship and DIY culture. Crucially, if the state can foster the
development of hypermedia, conscious action could also be taken to prevent the emergence of
the social apartheid between the 'information rich' and the 'information poor»109. Per i due
autori le forze statali, diversamente da quanto espresso da Lyotard, giocano un ruolo cruciale
nella diffusione di internet, esattamente come han fatto per la diffusione di radio e tv. Anzi,
visto il potenziale della rete, garantire un accesso ad alta velocità a tutta la popolazione
porterebbe inevitabili vantaggi anche ai singoli organi statali di ogni paese.
Di fatto quest’ultima ipotesi è proprio quanto sta avvenendo nelle società del mondo in cui
l’impegno a colmare il digital divide sta acquisendo una fondamentale importanza.
Ma cosa diavolo c’entra tutto questo con l’agricoltura?
109 R. Barbrook, A. Cameron, The californian ideology, 1995.
84
4.2 ICT e agricoltura
Il mondo dell’informatica e il pensiero filosofico dietro ad esso, nascondono un’importanza
peculiare per il settore agricolo. Il villaggio globale venutosi a creare, e ancora in sviluppo a
dir la verità, offre possibilità di connessione e comunicazione tra gli agricoltori (e tra questi e i
consumatori) fuori del comune, e assolutamente impensabili prima, che possono velocizzare i
processi di scambio di informazioni e arricchire i processi commerciali. Da sempre infatti,
come fa notare Federico, «l’agricoltura si differenzia dagli altri settori anche per il processo di
produzione delle innovazioni»110. In particolare Federico fa notare come la maggior parte delle
innovazioni introdotte, ad eccezione di concimi e macchinari, sono considerate un bene
pubblico e questo «pone un problema. Infatti, l’investimento privato nella ricerca sarà inferiore
a quello ottimale perchè il rendimento privato (il guadagno dello scopritore) è inferiore a quello
sociale. Si tratta di un tipico caso di fallimento del mercato, che rende opportuno l’intervento
pubblico per finanziare la ricerca»111. L’intervento pubblico nella creazione di innovazioni
agricole è stato decisivo nei secoli passati112, ma la grossa difficoltà è stata diffondere tali
innovazioni alla massa di contadini, spesso e volentieri illetterati e analfabeti113.
Il piccolo aumento percentuale relativo al livello di istruzione degli agricoltori (che va di pari
passo all’ingresso dei giovani in agricoltura) fa ben sperare sulle possibilità future di
introduzione di innovazioni e sulla capacità di comunicarle: «gli stati hanno speso molto per
promuovere il progresso tecnico in agricoltura e, in special modo, il tasso della crescita di
produttività risulta positivamente correlato al tasso di alfabetizzazione: un maggior capitale
umano facilita l’accesso a nuove tecniche»114.
Più giovani agricoltori significa spesso più agricoltori istruiti. E più agricoltori istruiti significa
maggiori capacità di innovare, di comunicare e, soprattutto, di saper utilizzare sistemi
110 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.74. 111 Ibidem, p.75. 112 Il finanziamento pubblico alla ricerca agricola è iniziato con l’istituzione dei giardini botanici e delle cattedre
di insegnamento di materie agrarie in alcune università europee alla fine del XVIII secolo. «Ma il vero salto di
qualità fu l’istituzione di centri di ricerca pubblici dedicati alla ricerca applicata (stazioni agrarie) indipendenti
dall’università» (G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.78). 113 «Gli scienziati si lamentavano di dover sprecare tempo in attività di basso profilo, e gli agricoltori di non
ricevere abbastanza attenzione. Parecchi Paesi hanno quindi creato istituzioni ad hoc. Ad esempio in Italia venne
istituita a tal fine una rete di cattedre ambulanti di agricoltura, che si sviluppò in misura notevole nel periodo
giolittiano. Orlando [1969] attribuisce a tali istituzioni gran parte del merito dell’accelerazione del progresso
tecnico tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo in Italia» (Ibidem, p.78). Questa particolare tecnica descritta
è sostanzialmente passaparola, una forma che attualmente risulta particolarmente interessante ed utilizzata anche
nel mondo aziendale col nome di WOMM (word of mouth marketing), e che potrebbe rivestire un’importanza non
da poco anche nel campo agricolo (dove peraltro non ha mai smesso di essere utilizzata… solo con un altro nome
e con meno capacità di sviluppo!). 114 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.83.
85
informatici di qualunque tipo essi siano: dai social media alla programmazione, ormai sono una
caratteristica imprescindibile dalle attività lavorative.
Attualmente assume un nuovo protagonismo anche la politica comunitaria per il settore
agricolo, passando da politica settoriale a politica territoriale, spingendo sempre più sulla
valorizzazione delle capacità locali nel governo delle risorse finanziarie e nella gestione delle
iniziative di sviluppo. «Oggi lo spazio rurale è un valore indispensabile per garantire percorsi
di crescita equilibrati ed è utile giungere a una profonda comprensione dei relativi fenomeni
che incidono su di esso direttamente o indirettamente»115.
In questo senso quindi, l’Unione Europea intende sviluppare particolarmente una “agricoltura
di precisione”, ossia «l’insieme di pratiche che consentono di decidere come e quando
intervenire in azienda, nella gestione delle colture, in base all’incrocio di dati agronomici e
meteorologici misurati grazie ai sistemi di georeferenziazione»116. Sostanzialmente, dunque,
dati GPS coniugati al monitoraggio puntuale, zona per zona e coltura per coltura, degli
andamenti meteo, della disponibilità di acqua e di altri parametri. Una conduzione molto
tecnologica, di precisione appunto.
Per rendere questa tipologia di agricoltura funzionale, però, è necessario che internet, già asse
portante dello sviluppo di altri settori economici, venga popolata sempre più anche di strumenti,
app, software nonché di individui interessati e capaci di informatizzare le attività rurali. «Ne è
ben consapevole l’Unione Europea che con la sua piattaforma ICT-agri spinge il finanziamento
della ricerca in questo settore e lo sviluppo di una agenda comune sull’uso delle ICT e della
robotica in campo. E per dare una spinta ulteriore, c’è anche un acceleratore, lo SmartAgriFood,
che finanzia imprese web che propongono idee innovative per applicazioni e servizi digitali
per la gestione delle aziende agricole»117.
Tutto questo si potrà fare solo se però tutte le zone rurali saranno interessate dello sviluppo
della banda larga, di modo da poter garantire loro una efficiente copertura di rete che possa
permettere di migliorare il loro rapporto con l’informatica e il web.
Ci si scontra dunque con il digital divide che Barbrook e Cameron individuarono come
problema principale da risolvere quanto prima.
115 Corrado Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p. XVIII. 116 Agricoltura e informatica, http://www.expo.rai.it/agricoltura-e-informatica-un-matrimonio-da-farsi/, ultimo
aggiornamento 10/04/15. 117 Ibidem.
86
Questa capillarità di banda larga, infatti, ancora non risulta pienamente sviluppata in tutta
Europa, con Paesi che risultano meno “connessi” (tra questi, Italia, Grecia, Romania e altri
Paesi dell’est Europa). Il programma dell’ICT-agri è volto proprio al restringimento del divario
tra queste regioni e il resto d’Europa, rimanendo in linea con le tendenze della nuova PAC viste
nel secondo capitolo.
In Italia, in particolare, siamo ancora molto lontani dall’avere una campagna informatizzata. In
parte perché, come abbiamo detto in più riprese, l’età media, che rimane particolarmente alta,
e il grado di istruzione degli agricoltori, che rimane particolarmente basso, non sono in linea
con il profilo dell’utente internet più convinto. Ma in parte anche perché il nostro Paese soffre
ancora molto della scarsa accessibilità ai servizi in banda larga per una parte importante del
territorio, non solo quello rurale. Tuttavia, anche se molto lentamente e in modo molto diverso
da regione a regione, la penetrazione della rete e dei servizi di gestione aziendale sembrano
farsi largo anche nelle zone rurali della penisola, a guardare i dati del Censimento agricoltura
Istat 2010.
Un altro dato particolarmente interessante, sempre dal Censimento 2010, è l’uso della rete in
azienda: «per avere un sito, per acquistare o vendere beni e servizi online o per gestire in modo
automatizzato parte delle attività di produzione.
Anche qui i numeri (soprattutto se li guardiamo in percentuale) sono davvero sconfortanti: ben
al di sotto del 5% delle aziende italiane è attiva in rete. Addirittura il commercio online sembra
sostanzialmente ridotto all’osso. C’è decisamente da sperare che nei prossimi anni questi dati
cambino in modo significativo e che le tecnologie informatiche entrino a pieno titolo nella
gestione delle aziende agricole»118.
118 Ibidem. Per la visualizzazione dei dati riguardanti l’attività online delle aziende italiane si rimanda al sito
http://infogr.am/attivita_online_delle_aziende, in quanto l’infografica online è interattiva e permette di godere
meglio dei dati analizzati.
87
Fig.14, L’ICT nelle aziende agricole italiane119.
119 Elaborazione dati Istat 2010 a cura di Elisabetta Tola, per RaiExpo (ultimo aggiornamento 10/04/2015). Si
rimanda al sito http://infogr.am/elisabetta_tola per altre infografiche interessanti sull’agricoltura.
88
4.3 Nuovi modelli
Il cielo del mediterraneo è troppo chiaro
perchè i problemi vi restino a lungo oscuri.
Paul Morand
Accanto al problema dell’informatizzazione, se ne pone uno maggiore, legato non solo al
contesto italiano, che riguarda la definizione di nuovi modelli di sviluppo per le attività
agricole120.
La fine del capitalismo, o perlomeno la fine di come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi, risulta
più che mai necessario nel momento in cui si affacciano sul mercato Stati e nazioni
profondamente diverse dall’Occidente.
L’inadattabilità del modello capitalista su scala planetaria rende evidente la necessità di
trovarne un altro (simile o opposto che sia) applicabile a Paesi lontani dal mondo occidentale,
non solo dal punto di vista geografico, ma anche economico e culturale.
«Se, come molti affermano, il modello culturale e la forma di vita dell’Occidente non sono
generalizzabili, se l’idea di estenderne i livelli di reddito e di consumo a tutto il pianeta è
un’utopia pericolosa ci si deve chiedere: la tutela di modelli culturali non-produttivistici è una
nostalgia irrealistica o non è piuttosto il problema fondamentale dell’umanità nei decenni
futuri?»121.
Per evitare di fare del sud un nord sbagliato non si deve essere capaci di tematizzare un’idea di
ricchezza diversa?
Franco Cassano espone in maniera eccellente questa condizione:
«Il sud ha rinnegato la propria tradizione e la ha assunta come una colpa salvo poi
reincontrarla sformata e prostituita di fronte all’immane raccolta di merci. Esso oggi si
specchia in queste maschere scoprendosi solo come vizio, ma prima o poi dovrà
120 Sicuramente non riguarda solo l’Italia, ma per certi aspetti il contesto del nostro Paese si presterebbe (e in certi
casi già lo fa) a fornire una definizione di questi modelli economici particolarmente efficace. Proprio in virtù
dell’enorme specializzazione che attraversa il settore agricolo, dell’inventiva dei nostri agricoltori e delle nuove
generazioni in particolare, della ricchezza del territorio in termini di diversità e bellezza. Nonché per gli aspetti e
le realtà banalmente legate al cibo e al concetto di gusto e di Made in Italy. Non è questo il luogo adatto per creare
polemiche, ma sicuramente se gli sforzi di Expo fossero stati tesi anche al riconoscimento delle piccole realtà
agricole italiane, il discorso fatto in questa nota avrebbe tutto un altro sapore… 121 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori Laterza, 1998, p.69.
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ritrovare il profilo alto e austero di sè, dovrà cercare un radicamento nuovo ma non
esterno alla propria storia. E qui tradizione non vuol dire restaurazione, sogno
nostalgico di gerarchie indiscutibili e quindi doppiamente oscene, ma democrazia della
misura, libertà che si tiene per mano con la dignità. E’ per preparare quel momento, per
evitare che esso arrivi solo dopo costi altissimi che è necessario parlare sin da oggi del
pensiero meridiano»122.
La particolarità è legata al fatto che la possibilità di creare un nuovo modello non è prerogativa
esclusiva dei Paesi del sud del mondo o di quelli in via di sviluppo. Come abbiamo visto, infatti,
l’applicazione dell’industrializzazione su vasta scala in Europa ha portato sconvolgimenti
importanti nella vita culturale delle comunità dei nostri Paesi. In particolare in Italia, dove i
contadini sradicati dalle terre hanno sempre cercato di mantenere un rapporto con la terra e con
il lavoro agricolo, nonostante la fatica del lavoro da operai.
Negli ultimi 300 anni, insomma, l'economia ha prevalso sull'umanesimo e sulla cultura. Negli
ultimi 100 anni, il capitalismo è diventato il motore della cultura e della politica su scala
mondiale. Il capitalismo e l'economia globale hanno reinterpretato lo sviluppo come un
processo illimitato, concependo la natura come una risorsa infinita. Oggi ci troviamo perciò di
fronte a una scelta obbligata, ossia «dobbiamo individuare una nuova forma di economia.
Un'economia che sappia gestire i propri limiti, che rispetti la natura, che agisca al servizio
dell'uomo. Tutto ciò in un contesto in cui scelte poltiche e umanistiche governino l'economia,
e non viceversa. Dobbiamo individuare nuove relazioni che si muovano a una velocità più
naturale»123.
Se dunque si potesse ripensare il modo di lavorare, si potesse creare effettivamente un diverso
sistema economico basato su quelle qualità intrinseche delle comunità locali, sul legame con
la terra e con il territorio, non varrebbe forse la pena tentare di svilupparlo anche nel nostro
Paese?
Soprattutto nel nostro Paese?
122 Ibidem, p.101. 123 W. Tasch, Slow money, Slow Food editore, Bra, 2009, p.9.
90
Affianco quindi alla rivoluzione digitale, si pongono in essere anche i “nuovi” metodi di
produzione, basati sul recupero di modelli antichi che sono stati letteralmente buttati nella
spazzatura durante e dopo l’avvento dell’industrializzazione124.
La tensione collettiva è volta alla fusione del vecchio e il nuovo, nell’ottica di ricreare quelle
forme sociali tipiche preindustriali. Una fusione che era già evidente nel secondo dopoguerra
in alcune aziende italiane e giapponesi evidenziate da Arvidsson e Peitersen, i quali affermano,
a proposito di queste forme di collaborazione, che: «in many ways the new networked model
of production resembles a return to earlier forms of craft production, employing small factories
that perform highly particular tasks»125.
Queste forme di collaborazione fanno leva proprio sul concetto di comunità che abbiamo
affrontato nel precedente capitolo e che sostanzialmente si basa su una produzione su piccola
scala. Ognuno fa una piccola parte e insieme si costruisce qualcosa. Questo tipo di
comportamento collaborativo, per quanto messo in atto principalmente dalle grandi aziende
che hanno costruito la loro attività smantellando la verticalizzazione fordista, può essere messo
in pratica anche dalle piccole aziende in generale, e da quelle agricole in particolare.
124 A questo proposito Federico fa notare che «Gli economisti hanno idee molto chiare sul processo di
commercializzazione. Ritengono che quest’ultima abbia effetti molto positivi sulla produzione e sul benessere.
Essa infatti stimola la specializzazione secondo i vantaggi comparati e quindi migliora l’allocazione dei fattori d
produzione sia all’interno del settore agricolo sia nell’intera economia. [...] Non tutti gli storici dell’agricoltura
sono convinti da questa interpretazione della commercializzazione. Molti di essi, [...] sostengono che le regole
dell’economia di mercato sarebbero estranee alla mentalità dei contadini, che preferirebbero a priori
l’autosufficienza o altre forme tradizionali di redistribuzione (moral economy). Non è chiaro, in questa visione,
se e in quale misura la mentalità de contadini possa cambiare, innescando un processo spontaneo di
commercializzazione quale quello ipotizzato dagli economisti. E’ però chiaro che gran parte dei processi storici
di commercializzazione sarebbero forzati o da circostanza sfavorevoli o dall’azione di agenti esterni» (G.
Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.107-109). 125 A. Arvidsson, N. Peitersen, The ethical economy, Columbia University press, New York, 2013, p.29.
91
4.4 Vacci piano!
Ma tu l'hai visto bene come viviamo? /
Se anch'io faccio così poi come ci combiniamo? /
Sai che ti dico: vai piano (vai piano) vai piano (vai piano) /
E cerca sempre di guardare lontano. /126
«La lumaca costruisce la delicata architettura del suo guscio aggiungendo una dopo l’altra delle
spire sempre più larghe, poi smette bruscamente e comincia a creare delle circonvoluzioni
stavolta decrescenti. Una sola spira più larga darebbe al guscio una dimensione sedici volte più
grande. Invece di contribuire al benessere dell’animale, lo graverebbe di un peso eccessivo. A
quel punto, qualsiasi aumento della suo produttività servirebbe unicamente a rimediare alle
difficoltà creata da una dimensione del guscio superiore ai limiti fissati dalla sua finalità.
Superato il punto limite dell’ingrandimento delle spire, i problemi della crescita eccessiva si
moltiplicano in progressione geometrica, mentre la capacità biologica della lumaca può seguire
soltanto, nel migliore dei casi, una progressione aritmetica»127.
Uno dei nuovi modelli, tra i più criticati, è quello della decrescita. L’interesse con cui affronto
questo particolare modello non è scevro da perplessità. Appare comunque indubbio come la
decrescita, lungi dal poter essere applicata su vasta scala, sia un fenomeno che sta fortemente
influenzando le realtà agricole in tutto il mondo. Partito dall’analisi dei Paesi del sud del mondo
da parte di Latouche, trova grande consenso anche, forse soprattutto, nel mondo occidentale.
In particolare in Europa, dove ha dato una spinta notevole al ritorno a un certo tipo di
agricoltura “buona”.
Ciò che è stato compiuto dal capitalismo, nell’ottica di Latouche, è stato portare agli estremi
limiti la società: sia dal punto di vista lavorativo che personale l’uomo appare svuotato,
spompato e privato delle caratteristiche sociali che hanno contraddistinto la sua vita per secoli,
come abbiamo avuto già occasione di vedere precedentemente.
Arrivati al punto massimo di produttività quindi, secondo questo e molti altri autori, non ha più
senso continuare a provare a spingersi oltre: val la pena invece fermarsi, rallentare. Magari fare
dietro front e tentare di recuperare i pezzi che si sono persi per strada.
126 Esa a.k.a El presidente, Vai piano, contenuta in Tutti gli uomini del presidente, Vibra records, 2003. 127 Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p.33.
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Una delle ipotesi oggi prevalenti afferma che «per l’Occidente e per l’Europa in particolare
non sia possibile tornare alla crescita ruggente, finanziarizzata, basata sulla Borsa, le banche, i
derivati e il trading. [...] Non conviene affatto, allora, puntare sull’illusione politica della
crescita ruggente, ma ritrovare un sentiero che significhi ancora modernizzazione nelle
compatibilità sociali»128.
Da questo punto di vista, la decrescita, per quanto criticata, rappresenta «una vera e propria
rivoluzione»129.
Poiché la crescita e lo sviluppo altro non sono rispettivamente che crescita dell’accumulazione
del capitale e sviluppo del capitalismo, la decrescita non può che essere una decrescita
dell’accumulazione, del capitalismo e dello sfruttamento. Si tratta non solo di rallentare
l’accumulazione ma di metterne in discussione il principio per invertire un processo distruttivo.
In generale il Movimento per la decrescita felice si propone di promuovere la piú ampia
sostituzione possibile delle merci prodotte industrialmente ed acquistate nei circuiti
commerciali con l'autoproduzione di beni.
Non è propriamente una scelta facile e comporta anche una diminuzione del prodotto interno
lordo130. Eppure in queste scelte gli autori legati alla decrescita sono concordi nel fatto che
comportino «la possibilità di straordinari miglioramenti della vita individuale e collettiva, delle
condizioni ambientali e delle relazioni tra i popoli, gli Stati e le culture»131.
Questa prospettiva comporta dunque che nei Paesi industrializzati si riscoprano e si valorizzino
stili di vita del passato, «irresponsabilmente abbandonati in nome di una malintesa concezione
del progresso»132, ma che invece hanno prospettive di futuro più ampie degli stili di vita
moderni che li hanno sostituiti, in quanto applicabili «non solo nei settori tradizionali dei
bisogni primari, ma anche in alcuni settori tecnologicamente avanzati e cruciali per il futuro
dell'umanità, come quello energetico, dove la maggiore efficienza e il minor impatto
ambientale si ottengono con impianti di autoproduzione collegati in rete per scambiare le
eccedenze»133.
128 Edmondo Berselli, L’economia Giusta, Torino, Einaudi, 2010, p.91. 129 Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p.82. 130 Uno dei motivi per cui non è vista particolamente di buon occhio… 131 Maurizio Pallante, La decrescita felice, Editori Riuniti, Roma, 2007, p.20. 132 Ibidem, p.20. 133 Maurizio Pallante, La decrescita felice, Editori Riuniti, Roma, 2007, p.20.
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In particolare, per Pallante, la dipendenza dalle merci è la conseguenza di una sempre maggiore
incapacità di autoprodurre beni. Questa condizione appare particolarmente generalizzata nei
Paesi industrializzati e costituisce, secondo questo e altri autori, un enorme impoverimento
culturale, che invece è stato proposto e vissuto come un progresso e come un'emancipazione
dell'uomo dai limiti della natura.
Se la crescita del prodotto interno lordo è considerata sinonimo di benessere e la crescita
quantitativa delle merci un bene in sé, la possibilità di acquistarne la maggiore quantità
possibile e, quindi, la sostituzione dei beni autoprodotti con merci prodotte industrialmente,
viene identificata con un miglioramento della qualità della vita. «Il passaggio da un bene a una
merce nella soddisfazione di un bisogno esistenziale, nelle società industriali è diventato un
indicatore di emancipazione e progresso»134.
Tuttavia, nessuno può illudersi di autoprodurre tutto ciò che gli serve per vivere.
L'autoproduzione di beni e servizi può essere però potenziata da scambi non mercantili fondati
sul dono e sulla reciprocità, che oltre a essere fattori di decrescita economica contribuiscono
anche a rafforzare i legami sociali.
Il dono e la reciprocità, che hanno sostanziato la vita economica delle società preindustriali e
nei Paesi industrializzati hanno apportato i loro benefici fino agli anni cinquanta del secolo
scorso, consistono essenzialmente in uno scambio gratuito di tempo, professionalità,
conoscenze, disponibilità umana.
In tutte le società di tutti i luoghi del mondo in cui si sono realizzate, prima
dell'industrializzazione e dell'estensione della mercificazione a tutte le sfere dell'attività umana,
queste forme di scambio non mediato dal denaro hanno seguito tre regole, non scritte, ma
generalizzate: l'obbligo di donare, l'obbligo di ricevere, l'obbligo di restituire piú di quello che
si è ricevuto.
Come afferma Marco Aime nella prefazione a Saggio sul dono di Mauss:
«Il dono si nasconde nelle pieghe delle nostre azioni e non ci accorgiamo che molte di
queste non sono affatto mosse da logiche utilitaristiche. Intendiamoci, non
utilitaristiche non significa gratuite. Il dono non è mai gratuito. Come mise già in
evidenza Marcel Mauss, il dono non è una prestazione puramente gratuita, né una
produzione o uno scambio puramente a fine di lucro, ma una specie di ibrido. Chi dona
134 Ibidem, p.26.
94
si attende un controdono. Qual è allora la differenza tra donare e contraccambiare e un
normale scambio mercantile? Quando si pone il problema a coloro che donano, quando
si chiede loro perché donano, emerge un aspetto sostanziale: la libertà, l'assenza di
costrizione, vale a dire assenza di contratto, di coercizione. [...] Ecco come, con
un'eccellente definizione, Jacques T. Godbout sintetizza il carattere del dono:
“Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di
restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone”»135
Il problema è se siamo disposti, e se sono disposte le società occidentali, a subire una
decurtazione, probabilmente sensibile, del proprio reddito. Sono disponibili i Paesi evoluti, e
gli individui lasciati sul mercato, a rinunciare all’idea della crescita senza fine, e quindi
all’arricchimento continuo (o del benessere infinito)?
«Dobbiamo assumere le nuove responsabilità di fronte a un mondo che attende un profondo
rinnovamento culturale, il quale, ancora più che un fenomeno sociale, sembra persino l’avvio
di un processo antropologico. Se la crescita rallenta, e il rallentamento è tanto più vistoso se
paragonato alla velocità di Paesi come Cina, India, Vietnam, Corea, Brasile, è probabile che
nelle società occidentali si preparino profondi mutamenti nella struttura sociale»136.
135 Marco Aime, presente in Marcel Mauss, Saggio sul dono, Giulio Einaudi editore, Torino, 2002, p.XIII. Cito,
come approfondimento al concetto del dono, anche Barberis che, oltre ad aver curato tutte le edizioni del
Censimento agricolo dal 1971 ad oggi, è un acuto osservatore della realtà italiana e dei movimenti dietro
all’agricoltura in particolare: «l’economia del dono è una caratteristica della società rurale. [...] Abbandonando le
metropoli e stabilendosi in campagna le famiglie vanno dunque a vivere in un mondo dove l’economia resta
economia (e per questo parliamo di economia del dono) ma assume aspetti più gentili perchè calati in un contesto
di rapporti sociali che la rendono più gradevole. Spesso, come a Fonte Nuova, i regali consistono non solo in
materia prima (uova, ad esempio) ma in trasformato (paste fatte in casa). Il dono comprende quindi anche il
proprio tempo, la cosa davvero più preziosa per la quale occorrerà escogitare strategie di compensazione. E c’è la
riscoperta di quelli che i francesi chiamano économie de cueillette, economia dei frutti spontanei. Gavignano non
solo i funghi ma anche le lumache offrono consistenti integrazioni alimentari. Tutto ciò una volta sarebbe stato
associato a cupe immagini di miseria. Oggi, nella società del benessere, resto solo il piacere della raccolta. Anche
i prodotti dell’attività di caccia, praticata dal 5% al 10% delle famiglie, finiscono in larga misura nell’economia
del dono. O della festa. Inoltre, le famiglie che “esurbano” vanno a potenziare i micromercati alimentari: quella
meluccia stenta ma saporita a cui si darà ancora un apprezzamento monetario, quel lardo da cui la nuova ruralità
avrà per così dire eliminato il colesterolo attraverso la sua allegra assunzione in amicizia… Siamo in un ambiente
di cui l’autoconsumo rappresenta solo la tradizionale punta emersa dell’iceberg» (Corrado Barberis (a cura di),
Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.221). 136 Edmondo Berselli, L’economia Giusta, Torino, Einaudi, 2010, p.92.
95
4.5 AFN: Alternative Food Networks
Questo rallentamento, questa inversione proposta dal movimento della decrescita si inserisce
nel solco più ampio degli Alternative Food Networks.
In generale gli AFN sono al centro del dibattito interdisciplinare su sviluppo locale e rurale,
sostenibilità locale e teorie economiche alternative137. Come affermano Barbera, Corsi e altri
autori, ancora
«Manca una chiara e puntuale definizione di cosa essi siano e dei meccanismi che li
caratterizzano, poiché gran parte del dibattito ha assunto una prospettiva molto
descrittiva, e spesso ideologica, centrata sull’analisi di specifici studi di caso locali. Se
si esamina l’evoluzione degli AFN, le primissime esperienze si possono descrivere in
termini di radicale opposizione alla industria alimentare capitalistica convenzionale,
considerata non-sostenibile dal punto di vista ambientale, iniqua socialmente, ed
egemonica dal punto di vista economico. All’opposto, gli AFN erano inizialmente
concepiti come nicchie di innovazione sociale, basate sulla fiducia, su relazioni paritarie
ed eque fra produttori e consumatori, e su modi di produzione più naturali, sani e
locali»138
Per quanto appunto manchi un accordo su cosa essi siano effettivamente139, gli AFN sono da
più parti indicati come il necessario sviluppo futuro dell’agricoltura. In questo senso essi sono
suddivisi in tre principali categorie: il rapporto diretto (face to face, i consumatori acquistano
il prodotto direttamente dal produttore); la prossimità spaziale (spatial proximity, i beni sono
137 Si fa presente l’osservazione di Renting, Mardsen e Banks a proposito: «the reconfiguration of supply chains
is an important mechanism underlying the emergence of new rural development practices. SFSCs hold the
potential for shifting food production out of its “industrial mode” and to break out of the long, complex, and
rationally organised industrial chains, within which a decreasing proportion of total added value is captured by
primary producers. At the same time, new food supply chains are important carriers for creating new linkages
between agriculture and society, producers and consumers. They bring consumers closer to the origins of their
food and in many cases involve a more direct contact between farmers and the end-users of their products» (H.
Renting, T.K. Mardsen and J. Banks, Understanding alternative food networks, contenuto in Environment and
planning, volume 35, Pion, UK, 2003, p. 394). 138 Aa.vv, Cosa c’è di alternativo negli Alternative Food Networks? Un’agenda di ricerca per un approccio
interdisciplinare, contenuto in Scienze del Territorio, Ritorno alla Terra n°2/2014, Firenze University press,
Firenze, 2014, p.36. 139 E per quanto ancora non si sappia bene quanto efficienti possano essere: «although there is strong evidence
that all over Europe new food networks are emerging, it is still too early to judge their viability and efficiency in
delivering goals of sustainable agriculture and rural development. This is partly a result of the absence of empirical
data of sufficient reach and quality, but also because of the relatively `young' developmental stage of several
experiences» (H. Renting, T.K. Mardsen and J. Banks, Understanding alternative food networks, contenuto in
Environment and planning, volume 35, Pion, UK, 2003, p. 393).
96
prodotti e venduti in una singola regione o luogo di produzione); le estese spazialmente
(spatially extended, in cui il valore e l’identità regionali sono incorporati nel prodotto stesso e
trasmessi a consumatori al di fuori della regione o località)140.
La cosa interessante emersa da diversi studi è che esistono profonde differenze fra gli AFN del
nord e del sud Europa. In Paesi nord-europei come il Regno Unito, l’Olanda e la Germania, la
crescita degli AFN è spesso «basata su definizioni di qualità moderne e più commerciali, che
sottolineano la sostenibilità ambientale ed il benessere animale, e su forme di marketing più
innovative»141. Invece nei Paesi sud-europei, e specialmente in Italia, la cultura del cibo si basa
maggiormente su «una produzione fortemente regionalizzata che coinvolge molte piccole
aziende familiari, e su un’attenzione alla qualità (anche se definita più in termini culturali che
formali) che dura nel tempo, e su vendite dirette sia in azienda sia su mercati urbani o locali»142.
In generale dunque, qualunque sia la forma organizzativa di questi AFN, essi esprimono una
specificità territoriale molto marcata, definita dalle relazioni che si intrattengono con il
territorio, definito come insieme di spazio, risorse e relazioni. Da questo punto di vista, ad
esempio, «gli AFN alla scala locale possono essere facilmente sviluppati legando la produzione
agricola peri-urbana e la città»143.
Gli AFN si pongono dunque come sistemi di riconfigurazione dell’economia agricola, ma
bisogna chiedersi quanto effettivamente questi sistemi siano sostenibili e quanto possano
sopravvivere e durare nel medio-lungo periodo. Per favorire il prolungarsi dell’esistenza di
questi sistemi sono stati individuati nuovi ruoli per l’agricoltura, in alternativa a quello
tradizionale della produzione: una funzione economica, sia per la produzione di beni e servizi
sia per la creazione di nuovi posti di lavoro in spazi rurali; una funzione sociale per la gestione
del territorio, il miglioramento della qualità della vita rurale e la trasmissione di uno specifico
patrimonio culturale; e una funzione ecologica di tutela ambientale e di manutenzione del
paesaggio. Ma nonostante queste proposte (che pian piano stanno venendo messe in atto) la
risposta se ci potrà essere un futuro per questi sistemi agricoli “nuovi” dipende strettamente
dalla loro profittabilità per i produttori e dall’utilità ottenuta dai consumatori. «Mentre in
sociologia e in geografia esiste una consistente letteratura sugli AFN, lo stesso non può dirsi
140 H. Renting, T.K. Mardsen and J. Banks, Understanding alternative food networks, contenuto in Environment
and planning, volume 35, Pion, UK, 2003, p. 393. 141 Aa.vv, Cosa c’è di alternativo negli Alternative Food Networks?, Firenze University press, Firenze, 2014,
p.36. 142 Ibidem, p.36. 143 Ibidem, p.37.
97
per l’approccio economico. In questo campo, esistono pochi studi in materia di scelta tra canali
alternativi di commercializzazione da parte dei produttori agricoli»144.
144 Ibidem, p.39.
98
4.6 Nuovi metodi
Come abbiamo visto esistono diversi tipi di AFN e tutti quanti condividono la caratteristica di
utilizzare catene distributive differenti rispetto a quelle tradizionali. Per i produttori, i benefici
che derivano dalla partecipazione ad un AFN consistono spesso in prezzi più alti e/o in una
maggiore garanzia di riuscire a vendere i loro prodotti. Per i consumatori, il vantaggio può
consistere nell’accesso a un prezzo più conveniente ma anche in una maggiore utilità, che
discenderebbe da cibo presumibilmente più sano e più gustoso, nonché dalla partecipazione
stessa alla rete. Un tale sistema quindi può essere di fatto produttivo e sostenibile anche nel
lungo periodo, come messo in luce anche dalla teoria della coda lunga.
Non serve necessariamente produrre di più, basterebbe produrre il necessario e creare la propria
“nicchia” a cui vendere i prodotti. E questo non è applicabile solo alle grandi aziende che già
utilizzano il modello della coda lunga, come Amazon, ma anzi, potrebbe giocare un ruolo
rilevante proprio nella produzione agricola di piccola e media fattura. Grazie alle possibilità
offerte dalla rete una piccola azienda agricola può creare la propria comunità di consumatori,
la propria “nicchia”, tenerli aggiornati sul lavoro che viene svolto, su ciò che viene prodotto.
«Uscire dallo sviluppo, dall’economia e dalla crescita non vuol dire rinunciare a tutti gli istituti
sociali che l’economia si è appropriata, ma reinquadrarli in un’altra logica»145.
Ed è proprio in quest’ottica che quella nicchia di consumatori che si crea non necessariamente
deve essere vista come tale: si tratta di allargare le proprie vedute e immaginarsi nuove forme
di lavoro. «Oggi per far funzionare un’azienda agricola non basta saper fare pomodori e
melanzane: occorrono le competenze manageriali e gestionali necessarie ad allargare il campo
d’azione sia per quanto riguarda la vendita che la definizione di altri servizi che l’azienda può
offrire»146.
Un’azienda agricola potrebbe per esempio destinare parte dei propri terreni all’auto-produzione
da parte dei propri consumatori. Affittando piccoli appezzamenti per esempio (come già
145 Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p.110. A lui fa eco
Tasch che ritengo necessario inserire almeno in nota per smorzare un po’ la drasticità del pensiero di Latouche:
«il punto non è essere ideologicamente contro il mercato né essere ideologicamente incapaci di riconoscere che il
mercato non è la panacea. Ciò che cerchiamo è un sistema di riferimento "coerente" ed "equilibrato" che sia
superiore al potere del mercato ma lo inglobi e rispetti. Analogamente, la meta-economia [realtà in cui è
ascrivibile anche il modello della decrescita, nda] non è contro l'economia; è contro un'economia priva di un
radicamento sociale e ambientale (gli studiosi di Adam Smith sottolineano spesso che oltre alla Ricchezza delle
nazioni Smith scrisse anche la Teoria dei sentimenti morali, che prendeva in esame la rete di solidarietà, virtù e
doveri che costituiscono il contesto etico dell'attività della mano invisibile del mercato). (W. Tasch, Slow money,
Slow Food editore, Bra, 2009, p.65). 146 Aurelio Magistà (a cura di), La Repubblica, Guida a lavoro e professioni, settori che cambiano, Roma, Gruppo
editoriale L’Espresso, 2013, p.13.
99
avviene del resto grazie al portale http://adottaunazolla.bio/), o semplicemente richiamando
persone giusto per creare attività di svago e ricreative, ma che portano effettivamente un valore
economico all’azienda agricola, e sociale per le persone (come per esempio nel caso di
Seminare il futuro147).
Un altro esempio può derivare dal diverso sfruttamento (per quanto questa parola sia
particolarmente brutta inserita in questo contesto) del turismo, il quale può svolgere un ruolo
guida nello sviluppo di economia locali148.
Di certo le soluzioni sono infinite, basta avere un po’ di immaginazione.
Un’immaginazione che esiste ed è sempre più evidente in campo agricolo nella creazione di
agri-asili, campi estivi, agriturismi, collaborazioni scolastiche e universitarie149.
Parte della forza propulsiva con cui viene identificata l’agricoltura nei confronti di tutto
l’impianto economico attuale è proprio data dal fatto che «farming is recognised as not only
producing agricultural commodities but also as the generator of environmental, social and
cultural services important to the welfare of society (the socalled multi-functionality of the
European model of agriculture). There is a strand of opinion that believes that the present
structure of the industry, dominated by family farms, is better placed than an industry
dominated by other types of farm business to provide benefi cial environmental and social
externalities and public goods associated with agriculture»150.
147 http://www.seminareilfuturo.it/. 148 Si veda a questo proposito il lavoro svolto da Camilla Garruti, The farm holidays: a diversification of the tourist
supply, Università di Salerno, 2006, nel quale l’autrice afferma: «the farm-holidays enter this dimension becoming
a proposal of cultural and social maturity, before and more than an economic strengthening in low-income sectors
and areas, an aspect that cannot be certainly ignored, but instead must be integrated in a correct scale of values. It
becomes an effective alternative to the traditional tourist forms, at “hard” environmental impact, directed to
perpetuate the organization in free-time of relaxation and amusement, the farm-holidays are the means through
which we can refer to the age-old experiences to recover some possibilities of personal and social balance tied to
obsolete schemes; even if we often hear about “sustainable tourism,” a suitable organization is still far away and
in fieri, while an effective system of tourist planning consists in involving the inhabitants of the interested zones
who can manage the hospitality, the farmers, who for almost spontaneous reasons, will have a greater interest in
protecting and preserving the territory». 149 Un’immaginazione descritta anche da Magistà nel presentare le attività lavorative possibili per i giovani
laureati: «le aziende agricole crescono, la percentuale di agricolture nelle aziende agricole diminuisce. In questo
apparente paradosso sta il futuro di un settore che si definisce ancora primario, quasi a sottolinearne l’aspetto
arcaico, ma confina sempre di più con il futuro. I campi tornano a offrire una sponda interessante a chi cerca
lavoro e reddito, ma è una sponda sfaccettata in cui occorre ricavarsi una nicchia trovando capacità e competenze
anche in attività non direttamente legate alla produzione di cibo. Alla campagna non si arriva più solo per
tradizione, seguendo consuetudini antiche. Il trauma prodotto dall’impatto delle coltivazioni estensive,
dall’overdose chimica, dall’abuso incentivi ha spezzato quel legame. Oggi, per stare sul mercato, bisogna
reinventare il mestiere coltivando valore aggiunto che in parte è contenuto in un prodotto di qualità (biologico,
biodinamico, a marchio territoriale) e in parte in attività non agricole ma connesse alla terra» (Aurelio Magistà (a
cura di), La Repubblica, Guida a lavoro e professioni, settori che cambiano, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso,
2013, p.12. 150 G. Howe (a cura di), The new rural economy, The Institute of Economic Affairs, Londra, 2005, p.87.
100
Questa visione del mondo agricolo permette l’aprirsi di nuovi scenari produttivi nei quali la
formazione e l’educazione (non solo dei più piccoli) possono svolgere un ruolo di primo piano,
insieme a quegli aspetti legati alla salvaguardia del territorio di cui l’agricoltura può e deve
farsi carico.
Riguardo a ciò il messaggio della CIA (confederazione italiana agricoltori), presentato a oltre
50 ministri delle Risorse Agricole durante il primo Forum Internazionale dell’Agricoltura,
tenutosi nell’Auditorium di Expo2015, e nel quale è stata presentata la Carta di Milano151, è
sicuramente rappresentativo di quanta importanza riveste oggi l’agricoltura: «mettiamo il
lavoro della terra al centro del nuovo modello di crescita. Va assicurato reddito alle imprese e
protagonismo sociale agli agricoltori per tutelare la biodiversità e sfamare il pianeta, evitando
l'omologazione ed esaltando i valori rurali. Noi siamo i custodi del mondo buono e
rivendichiamo un giusto reddito e il riconoscimento del nostro ruolo sociale»152.
La Carta di Milano rappresenta sicuramente uno spunto interessante di riflessione, proprio in
quanto si fa sempre più conto sullo sviluppo dell’agricoltura per il raggiungimento di una nuova
fase di prosperità e benessere.
Partendo dal documento presentato al Forum (Il Territorio come destino), la CIA costruisce
«un vero e proprio decalogo per disegnare il futuro agricolo, convinta com'è che il diritto al
cibo non sia un generico appello a risolvere l'emergenza alimentare, ma debba essere diritto al
cibo buono, di qualità e identitario contro una visione dell'agricoltura capace di produrre solo
commodity in mano alle multinazionali.
Il decalogo della CIA ha come titolo "l'agricoltura sostenibile" e si riassume nei seguenti punti:
1- L'Agricoltura è il motore dello sviluppo sostenibile
2- L'Agricoltura tutela e mette in valore la biodiversità
3- L'Agricoltura è identitaria e territoriale
4- L'Agricoltore è custode del mondo
5- L'Agricoltore ha diritto a un reddito sostenibile
6- L'Agricoltore ha diritto al riconoscimento del suo ruolo sociale
151 «Atto di Expo che impegna cittadini, imprese e istituzioni ad assumere precise responsabilità per garantire il
diritto al cibo e la promozione di modelli sostenibili con azioni immediate».
(http://www.palazzochigi.it/Notizie/Ministeri/dettaglio.asp?d=78648, ultimo accesso 12/06/15). 152 Expo: l’agricoltura è il motore dello sviluppo sostenibile, ultima modifica 04/06/15, http://www.cia.it/news
101
7- L'Agricoltura ha il dovere di provvedere al genere umano nel rispetto di tutte le specie
vegetali e animali
8- L'Agricoltura promuove e utilizza la ricerca al fine di migliorare le condizioni dell'uomo
e della biosfera
9- L'Agricoltura è protagonista di tutta la filiera alimentare e trae il suo reddito da questo
protagonismo
10- L'Agricoltura è un valore culturale, le pratiche agricole s'ispirano alle identità
territoriali, gli agricoltori sono gli operatori di questo complesso valoriale»153.
Questi punti rappresentano un po’ la summa di quanto fin qui descritto.
L’agricoltura italiana viene quindi da più parti chiamata ad assolvere il ruolo di motore della
crescita, di volano dell’economia; viene ad essere rivestita di ruoli sociali e culturali da politici
e commentatori; viene a configurarsi come nuovo terreno fertile per la produzione di
innovazioni.
Tutto questo però, non riesce ad essere svolto da tutte le aziende presenti sul territorio, anzi, si
può dire che tutto quello che abbiamo descritto fin qui sia solo un’aspettativa di come le cose
possano svilupparsi.
Ci sono però dei casi particolarmente interessanti in cui si riesce a sviluppare tutto questo e
forse anche di più. Ci sono, non sono molti ma esistono, e stanno lavorando quotidianamente
per far sì che il messaggio venga recapitato e divulgato il più possibile, per far sì che una nuova
agricoltura italiana (e in generale Europea) possa veramente venire alla luce ed affermarsi, e,
perché no, possa finalmente ricrearsi quel legame tra uomo e terra andato perduto nel corso
degli ultimi secoli.
153 Ibidem.
102
Rural Hub
Now renegades are the people/
With their own philosophies/
They change the course of history/
Everyday people like you and me/154
Come abbiamo visto, il futuro dell’agricoltura pare inscritto nei geni dell’informatizzazione,
da un lato, e nel ritorno a forme tradizionali di produzione dall’altro. In Italia, in particolare, si
avverte la necessità di ripartire dall’agricoltura per “ritornare a crescere”, economicamente
parlando.
In questa situazione le aziende agricole, grazie ad un rinnovato interesse delle nuove
generazioni, si trasformano in attività plurime, contraddistinte quindi non solo dalla capacità
di produrre beni alimentari e/o agricoli in genere, ma anche e soprattutto da attività collaterali
di vario tipo. Oltre ad essere differenziate per tipologie di produzione/attività economiche, si
caratterizzano per essere più concentrate e organizzate, anche sotto il profilo informatico ed
energetico, andandosi a configurare come vere e proprie Smart Farm, in contrapposizione alle
Smart City155. Come afferma Magistà: «se oggi si parla molto di Smart City, non bisogna
dimenticare che anche l’agricoltura italiana si dà da fare per costruire il suo modello di fattoria
intelligente: un’azienda dinamica ed eco-friendly che si fonda sulla razionalizzazione dei
consumi energetici, sul riciclo degli scarti agricoli e sulle coltivazioni a basso impatto
ambientale»156.
154 Rage Against The Machine, Renegades of Funk,contenuto in Renegades, Epic Records, 2000. 155 Il sempre vivo “scontro” tra città e campagne, che ha caratterizzato i decenni passati, sembra oggi venir meno
(anche se permane sempre una certa visione di inferiorità della campagna nei confronti della città). A questo
proposito Barberis afferma: «Che storicamente la città sia stata animata da un’aspirazione dominatrice nei
confronti della campagna, non vi sono dubbi. Ma, alla luce delle trasformazioni che negli ultimi decenni hanno
investito gran parte delle aree rurali, appare oggi un anacronistico luogo comune l’idea che vede la campagna
condannata a un ineluttabile destino di inferiorità rispetto alla città, riservando a quest’ultima il ruolo di motore
imprescindibile della crescita produttiva e occupazionale.
Già nel 2001 l’analisi della struttura dell’occupazione rurale e urbana segnalava che la composizione sociale del
mondo rurale è oggi molto simile a quella del mondo urbano e che le campagne possono vantare ormai
un’eterogeneità sociale paragonabile a quella cittadina. Non trovava già più alcun riscontro nelle statistiche
occupazionali quella rappresentazione tradizionale della ruralità che associa al mondo rurale una struttura
socioprofessionale più semplice e arretrata - meno moderna - di quella urbana» (Corrado Barberis (a cura di),
Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.83). 156 A. Magistà (a cura di), La Repubblica, Guida a lavoro e professioni, settori che cambiano, Roma, Gruppo
editoriale L’Espresso, 2013, p.14.
103
Le aziende che si vengono così a costituire sono ancora caratterizzate da un’esigua presenza
sul territorio, seppur in costante crescita numerica, e rappresentano appunto l’apporto giovane
al settore157.
In questa parte del settore agricolo giovane, variegata e in costante espansione si colloca una
realtà molto particolare che si mette in luce non solo per le caratteristiche evidenziate nel
precedente capitolo, ma anche per essere foriera di un pensiero di rinascita vero e proprio.
Si caratterizza infatti particolarmente per il lavoro di analisi e ricerca che, da diversi anni a
questa parte, persegue con costanza e attenzione, mettendo in gioco forze legate alle più
disparate attività (ricercatori, studenti e professori universitari, professionisti di marketing,
manager, attivisti, blogger, agricoltori ecc.). Lo sforzo è teso a riuscire a identificare e
realizzare non solo una nuova ruralità, ma aiutare gli altri a metterla in atto, fungendo da
aggregatore per startup e venture capitalist in grado di investire in questa visione, organizzando
laboratori, workshop e attività di discussione e scambio continuo. Creando una comunità
agricola che agisca, finalmente, come un unicum.
Questa realtà si chiama Rural Hub.
Nell’ottica di «innescare un rinnovamento imprenditoriale, tecnologico e sostenibile»158, Rural
Hub nasce come collettivo di ricerca «per favorire il collegamento tra nuove realtà innovative,
investitori e associazioni di categoria»159. Realtà innovativa di per sé, unisce quelle
caratteristiche tipiche dei movimenti hacker con la tradizionale tipicità dell’ambiente rurale
italiano, come testimonia del resto la località in cui si inserisce la sede: la Residenza Rurale
L’incartata a Calvanico, alle porte del Cilento, in provincia di Salerno. Per dirla con le parole
di Gennaro Fontanarosa, tra i fondatori di questo progetto: «Rural Hub è un luogo fisico ma è
anche un luogo virtuale in quanto mette in connessione e consente lo scambio e la condivisione
tra persone, idee e progetti sull’innovazione sociale applicata alla ruralità. Rural Hub è pensato
come un luogo condiviso di vita (co-living) e lavoro (co-working), è centro di studi e ricerca
permanente sull’innovazione sociale applicata alla ruralità»160.
157 Non ci sono ancora dati accurati sulla quantità e specificità di queste aziende, in quanto si configurano ancora
come fenomeno giovane e in divenire. L’esiguità con cui le identifico è data da una personale ricerca empirica. 158 Progetto rural hub, http://www.ruralhub.it/progetto/, ultimo accesso 15/06/15. 159 Ibidem. 160 Ruralhub, http://www.comunikafood.it/rural-hub-agricoltura-ecosostenibile/, ultimo accesso 15/06/15.
104
Le persone dietro al progetto sono molte e provenienti dai più diversi ambiti161. Da questo
punto vista Rural Hub si configura già in nuce come attività volta al recupero delle tradizioni.
Il lavoro che si svolge all’interno della cornice della località l’Incartata è basato proprio sulla
condivisione, sullo scambio continuo e reciproco. In una parola, sulla comunità (reale e
virtuale).
161 Faccio qualche nome per dovere di cronaca e perché lo reputo giusto, vista l’importanza che questa attività
svolge nella definizione di una nuova agricoltura. Il cuore di Rural Hub è composto da Francesco Martusciello,
fondatore della cantine vinicola Grotta del Sole e CEO di Rural Hub. Alex Giordano, fondatore di Ninja Marketing
e presidente e direttore scientifico della startup. Ci sono poi Agostino Ritano, project manager, Gennaro
Fontanarosa, chief communication officer, e Michele Sica, ventisettene tornato nella sua terra dopo un’esperienza
a Roma in una società di web e social media e che ora fa il ricercatore e il contadino 2.0.
Tra i collaboratori assidui figurano invece Adam Arvidsson, sociologo e professore associato di sociologia
all’Università degli Studi di Milano, che riveste il ruolo di direttore scientifico per Rural Hub, John Grant,
scrittore e pubblicitario, Danielle Gould, Ceo e founder di Food+tech connect e Nathan Jurgenson, teorico e
ricercatore. Oltre a questi si aggiungono poi agricoltori, studenti, ricercatori, studiosi, manager, venture capitalists,
curiosi e appassionati, di passaggio e non, che forniscono il loro contributo al progetto. (Fonti:
http://www.ruralhub.it/progetto/il-team/ e http://food24.ilsole24ore.com/2014/03/lagricoltura-del-iii-millennio-
sa-di-antico-e-di-nuovo-lesperienza-di-rural-hub/ ultimo accesso e entrambi i siti 15/06/15).
105
5.1 Rural Social Innovation
Tra le varie attività svolte dal Rural Hub - come, per esempio l’Investor Day tenutosi
all’Internet Festival di Pisa nel 2013 – la Summer School 2014 è quella che più si è distinta per
importanza teorica. Durante questo workshop (riducendo l’esperienza in una sola parola) si
sono messi in campo pensieri, concetti, idee e progetti. Le tante riflessioni maturate durante
quel periodo hanno portato alla formazione del Manifesto della Rural Social Innovation.
L’elaborazione del manifesto parte dalla presa di coscienza che, concentrandosi solo ed
esclusivamente sul digitale per garantire un’innovazione, si rischia di perdere la concretezza di
tale innovazione e il ruolo sociale che essa ha o potrebbe avere. «Il rischio che si corre è elevare
gli strumenti tecnici da mezzo a fine con la conseguenza che il social innovator divenga un
professionista capace di gestire un flusso sempre più ampio di possibilità, e che egli riduca il
sociale solo a schemi e grafici dimenticando, consapevolmente o inconsapevolmente, la vera
essenza dell’innovazione»162. Come soluzione vengono indentificati proprio il ritorno alla
ruralità e il cosiddetto downshifting o “semplicità volontaria”163. Le giovani generazioni sono
quelle in cui è più facile veder sviluppati questi atteggiamenti, che permetterebbero quindi un
nuovo approccio allo sviluppo, proponendone un nuovo modello che, accompagnato dalle
possibilità della rete, ha maggiori probabilità di poter essere diffuso e di poter trovare dunque
un maggior campo di applicazione.
162 A. Arvidsson, A. Giordano (a cura di), Manifesto della Rural Social Innovation, 2014, p.5. 163 «La semplicità volontaria (neologismo della lingua italiana, in inglese downshifting) all'interno del mondo
del lavoro e del più vasto concetto di lifestyle «stile di vita» o simple living «vivere in semplicità» è la scelta da
parte di diverse figure di lavoratori - particolarmente professionisti - di giungere ad una libera, volontaria e
consapevole autoriduzione del salario, bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alle attività
professionali, così da godere di maggiore tempo libero (per dedicarsi alla famiglia, all'ozio, all'hobbystica, ecc.).
Questa innovazione all'interno delle filiere produttive industriali ed economiche ha dato vita ad un vero e proprio
movimento di pensiero ed è considerata dai sociologi una delle più eclatanti e vistose conseguenze di uno fra i
molti mutamenti sociali e di costume intervenuti negli ultimi anni nell'ambito del mondo del lavoro» (fonte:
Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Semplicit%C3%A0_volontaria ultimo accesso 16/06/15). A questo
proposito si veda anche il lavoro di Messenger e Ghosheh, che si domandano quali effetti possa avere una
riduzione dell’orario di lavoro: «The experience of the Great Recession also raises a larger question: given the
substantial overall success of working-time reductions in main-taining employment during an economic
downturn, does the available evidence suggest that work sharing can be something more than a measure which is
solely intended for crisis response? Can work sharing possibly also serve as an effective tool for creating more,
and perhaps even better jobs, in a more positive economic environment? In other words, to what extent can
permanent reductions in work hours (for example, reduced standard workweeks, increased periods of paid leave,
targeted hours reductions in specific industries, voluntary, preference-based reductions in working hours and so
on) help to create employment while improving individual well-þeing, and thus contribute to more sustainable
economies and societies? his chapter will consider those questions as well» (J. C. Messenger, N. Ghosheh, Work
sharing during the great recession, Edward Elgar Publishing Limited, Cheltenham, UK, 2013 p.260).
106
La domanda a cui fa capo tutto il pensiero dietro all’elaborazione del manifesto è quella che,
dopo due secoli, inizia a diffondersi maggiormente anche su scala globale e che abbiamo
affrontato nei precedenti capitoli: «è giusto adottare un approccio anglosassone per il contesto
mediterraneo?»164. Da questa domanda scaturiscono quindi i processi che vengono messi in
atto da Rural Hub, collocandosi in un rapporto dialettico con il modello contemporaneo allo
stesso tempo collaborativo e conflittuale. Collaborativo per quanto riguarda il contesto in cui
inserirsi e le dinamiche a cui prendere parte, conflittuale per quanto riguarda i metodi da
applicare per farlo.
Il pensiero critico da cui sono partiti per lo sviluppo di questo Hub fa capo a Franco Cassano e
al suo libro Il pensiero meridiano, i cui concetti ho brevemente esposto nel precedente
capitolo165. Come affermano gli autori nel manifesto «Le esigenze ecosistemiche a cui
l’innovazione dei giovani neorurali guarda sono antropologicamente differenti da quelle a cui
rispondono altri modelli. Smarcare da stereotipi negativi di arretratezza i valori intrinseci della
cultura mediterranea, come la lentezza, diviene uno dei primi passi necessari da compiere»166.
Si tratta dunque di ridare una dignità alla lentezza e a tutto ciò a cui essa richiama: riflessione,
approfondimento, resilienza. Il tutto condito dallo spirito tipico del Mediterraneo, «mare che
media le terre emerse»: uno spirito che è fatto di continui scambi, di accoglienza, di diversità.
«Il mediterraneo di per se non fa niente. Dà solo l’opportunità di mettersi a sedere, prendere un
tè o un caffè, contrattare, discutere, perdere tempo, incuriosirsi dell’interlocutore, essere
164 A. Arvidsson, A. Giordano (a cura di), Manifesto della Rural Social Innovation, 2014, p.7. Un contesto
mediterraneo che è evidentemente applicabile su scala globale, dato che le difficoltà dell’estensione del modello
Occidentale, come abbiamo visto, sono particolarmente diffuse anche (e forse soprattutto) nei Paesi emergenti e
in quelli considerati del Terzo Mondo. Ovviamente da questa domanda si dipanano anche le altre conseguenti,
relative alla sostenibilità ambientale, alla disgregazione della comunità, ecc. 165 La brevità con cui ne ho parlato merita di essere approfondita con un pensiero dell’autore che reputo
fondamentale per comprendere al meglio in che ottica si inserisce Rural Hub: «Se si vuole ricominciare a pensare
il Sud sono necessarie alcune operazioni preliminari. In primo luogo occorre smettere di vedere le sue patologie
solo come la conseguenza di un difetto di modernità. Bisogna rovesciare l’ottica e iniziare a pensare che
probabilmente nel Sud d’Italia la modernità non è estranea alle patologie di cui ancora oggi molti credono che
essa sia la cura. Per iniziare a pensare il Sud è in altri termini necessario prendere in considerazione anche l’ipotesi
che normalmente si scarta a priori: la modernizzazione del Sud è una modernizzazione imperfetta o insufficiente
o non è piuttosto l’unica modernizzazione possibile, la modernizzazione reale? Liberare la modernità dalle sue
responsabilità considerandola sempre e soltanto dal lato dei rimedi conduce a commettere due errori
complementari che si rafforzano a vicenda: da un lato si ricorre ad una terapia che spesso aggrava le patologie,
dall’altro si sopprime in radice la possibilità di rovesciare il rapporto: non pensare il Sud alla luce della modernità
ma al contrario pensare la modernità alla luce del Sud» (Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori
Laterza, 1998, p.3). 166 Ibidem, p.12.
107
disposti a rimetterci qualcosa che alla fine vale meno di quello che si sta imparando durante la
conversazione»167.
Da questo punto di vista, un ruolo di primo piano nella stesura del manifesto è stato dunque
giocato proprio dalla capacità di «capovolgere l’immaginario negativo di elementi della cultura
mediterranea e renderli vantaggio competitivo»168, nell’ottica di ridare dignità al passato e al
presente per costruire un futuro più solido, duraturo e responsabile.
In questo contesto gli attori primari sono le persone, ma la necessità di strumenti efficienti è
evidente nel momento in cui questi permettono una migliore realizzazione del progetto. Da qui
deriva l’enorme sforzo cognitivo messo in atto per cercare di identificare quali sono quelli
necessari (non semplicemente utili) a tal fine.
Tra questi, ovviamente, ci sono i Big Data, costituiti, come afferma Arvidsson, da due livelli:
uno legato ai dati della vita digitale (social network, blog, ecc.), l’altro relativo ai dati misurabili
delle persone (attraverso le tecnologie wearable) e, aggiungo io, della produzione (attraverso
quei sistemi che l’Unione Europea inscrive nella categoria dell’Agricoltura di precisione).
Questo per creare valore, non solo attraverso la tecnologia169, ma soprattutto con la generazione
di contesti relazionali in cui è la vita stessa ad essere messa in gioco in un’ottica di comunità:
«il mio talento, la mia identità, la mia autorealizzazione diventano modi per creare valore a
partire dalla creazione di comunità e opportunità per generare relazioni e forme di vita
diverse»170. A questo obiettivo possono essere particolarmente utili strumenti come i social
media, da un lato, ed attività di co-working e co-living dall’altro. Non solo: forme partecipatorie
di produzione permettono anche agli innovatori neorurali di potersi riappropriare «della
funzione di soggetto economico. In quest’ottica considerano la sharing economy
un’opportunità per garantirsi un sostegno non più fornito dai sistemi istituzionali»171.
Come abbiamo visto le istituzioni sono sempre state particolarmente carenti nel confrontarsi
con le realtà agricole ed ora in particolare si vive un profondo clima di sfiducia nei loro
167 Scipione Guarracino, “Mediterraneo, Immagini, storie e teorie da Omero a Braudel”, Milano, Mondadori, 2007,
p.187. 168 A. Arvidsson, A. Giordano (a cura di), Manifesto della Rural Social Innovation, 2014, p. 14. 169 Che ha indubbiamente avuto un impatto importante in questo senso, come affermano Arvidsson e Peitersen:
«one important impact of digital media has been the socialization of value creation, that is, a tendency for value-
creating activities to coincide with and become indistinguishable from ordinary actions. This has occurred both
within corporate forms of knowledge work and, importantly, outside the boundaries of corporate organizations,
in the "participatory culture" that is becoming a central feature of life itself» (A. Arvidsson, N. Peitersen, The
ethical economy,Columbia University press, New York, 2013, p.50). 170 A. Arvidsson, A. Giordano (a cura di), Manifesto della Rural Social Innovation, 2014, p. 20. 171 Ibidem, p.27.
108
confronti. I motivi sono talmente vari e vasti che meriterebbero una trattazione a sé stante, basti
qui la considerazione che esse vengono viste come “lontane” e troppo concentrate solo sul
ruolo dei grandi attori del settore. Per emanciparsi da questa lontananza delle istituzioni, le
possibili soluzioni vengono identificate in sistemi di disintermediazione che portano alla ribalta
le comunità locali come luogo di redistribuzione del valore, fundraising in testa172. La
disintermediazione in particolare, «opera in una dinamica di rapporto diretto nella comunità
attraverso una filiera diffusa fatta di distributori locali, innescando meccanismi di
redistribuzione del valore, sia economico che immateriale»173.
Queste proposte, tuttavia, mantengono ancora una certa difficoltà ad espandersi in quanto ciò
che manca nel mondo agricolo è proprio la capacità di sviluppare sia singoli network che reti
di essi che abbiano la capacità di creare «relazioni fatte di più livelli fra soggetti che non hanno
lo stesso carattere di autenticità o di matrice culturale»174. A questo servirebbe un approccio
dualistico costituito, da un lato, dalle specificità dei movimenti hacker e, dall’altro, da quelle
dei più tipici modi di operare dell’agricoltura, teso alla costituzione di una forte base legata ai
principi della permacultura175.
Obiettivo del team di Rural Hub è dunque quello di proporre una nuova economia rurale che
sia basata sulla riappropriazione dei processi di produzione e della loro riorganizzazione ad un
livello comunitario, al fine di restituire valore ai prodotti e all’essere umano.
Alla base c’è la costituzione, da parte dei giovani innovatori neorurali, di un nuovo modello
basato sulla «triple bottom line (people, planet, profit) per far nascere aziende che sappiano
coniugare esigenze ambientali, sostenibilità economica e responsabilità sociali»176. Questo
processo, come evidenziano Arvidsson e Giordano, potrebbe essere visto come un ritorno ad
un’economia rurale preindustriale, e per certi versi lo è. La differenza è però costituita dalle
tecnologie oggi a disposizione e ciò che esse permettono.
172 Personalmente ritengo che la totale emancipazione sia difficilmente applicabile. Credo che una soluzione
migliore sia l’integrazione di diversi sistemi per permettere anche alle istituzioni di riavvicinarsi (o avvicinarsi
per la prima volta) alle realtà agricole più piccole. Di sicuro un movimento emancipatorio da vincoli istituzionali
è altresì necessario per permettere una riappropriazione di valore non solo produttivo, ma anche personale. 173 Ibidem, p.39. 174 Ibidem, p.45. 175 «La permacultura è un metodo per progettare e gestire paesaggi antropizzati in modo che siano in grado di
soddisfare bisogni della popolazione quali cibo, fibre ed energia e al contempo presentino la resilienza, ricchezza
e stabilità di ecosistemi naturali. Il metodo della permacultura è stato sviluppato a partire dagli anni settanta da Bill
Mollison e David Holmgren attingendo da varie aree quali architettura, biologia, selvicoltura,
agricoltura e zootecnia» (Permacultura, https://it.wikipedia.org/wiki/Permacultura#Italia, ultimo accesso
16/06/15). 176 A. Arvidsson, A. Giordano (a cura di), Manifesto della Rural Social Innovation, 2014, p.58.
109
Si tratta dunque di riconfigurare le dimensioni temporali, unendo ciò che di meglio ha da offrire
il passato con ciò che di meglio ha da offrire il presente, per poter costruire un futuro migliore.
Allo stesso modo, si tratta di riconfigurare le dimensioni spaziali, coniugando parallelamente
il locale e l’iperlocale, il mondo della rete, permettendo dunque più livelli informativi,
caratterizzati da informazioni locali, ontologiche e narrative delle persone dietro ai prodotti e
dei prodotti stessi. «Si riducono le distanze spazio-temporali tra una modernità metropolitana
nella quale avvengono i fatti del futuro e una ruralità arretrata, ancorata al passato. Per questo
parliamo di #smartrurality, di ruralità vissuta come elemento critico per rileggere il
contemporaneo, attraverso una dialettica su stili di vita sostenibili e nuove possibilità»177.
Un ruolo di primo piano, in quest’ottica di ridefinizione, viene giocato dall’auto-
organizzazione di marketing e distribuzione. I Gruppi di Acquisto Solidale (G.A.S.) in questo
senso sono particolarmente efficaci e rimettono le persone al centro, permettendo loro
contemporaneamente un rapporto diretto con i prodotti e i produttori e rendendoli attivamente
partecipi del processo di scelta. Parte di queste attività viene svolta online, ma buona parte del
processo è frutto del lavoro di persone membri del sistema che sono disposte a ricevere un
compenso esiguo, o a non riceverlo affatto, in quanto ripagati dall’accresciuto valore non
monetario che la sola partecipazione ad attività di questo tipo dona. La creazione di network di
questo tipo permette dunque di ridare un’istituzionalizzazione alla parte immateriale della
catena del valore, accrescendo allo stesso tempo il valore etico e civico del prodotto e, di
conseguenza, del territorio.
La catena del valore viene quindi a riconfigurarsi in un sistema basato su disintermediazione,
storytelling, marketing e redistribuzione:
«Il Rural Social Innovation System sovverte la catena convenzionale e mette al centro il
prodotto, in un rapporto di osmosi con la comunità, che non è più un target ma parte attiva del
processo. Se il prodotto diviene leva di una nuova dinamica comunitaria in grado di valorizzare
il patrimonio immateriale, l’agricoltura diviene un’opportunità di condivisione e trasmissione
della cultura e della tradizione, non più solo lo strumento per la mera produzione alimentare»178.
177 Ibidem, p.60. 178 Ibidem, p.67.
110
Conclusioni
Alla luce di quanto fin qui esposto risulta evidente come qualcosa stia cambiando e come
questo cambiamento sia particolarmente necessario anche e soprattutto per poter uscire
definitivamente da una crisi economica e sociale che caratterizza questi ultimi anni.
L’agricoltura, come ho mostrato a più riprese nel corso di questo lavoro, rappresenta uno dei
settori che chiave per uscire da questa situazione di stallo: attualmente gode di una forte crescita
a livello occupazionale e, parallelamente, garantisce una risoluzione per molti di quei problemi
che attanagliano l’uomo contemporaneo; problemi che ho evidenziato e di cui ho cercato di
mostrare delle possibili soluzioni.
Il caso Rural Hub rappresenta una summa di tutto ciò che abbiamo visto essere le possibili
soluzioni e, come tale, rende l’idea del corso che può prendere la realtà agricola. Rural Hub è
forse l’esempio più eclatante di quanto sta avvenendo nel mondo dell’agricoltura, per le
specifiche mostrate che lo rendono un attore a 360° nel campo agronomico, ma di sicuro non è
l’unico.
Sempre più persone coinvolte nel settore agricolo decidono di diversificare l’offerta e di non
rendere la propria attività legata esclusivamente alla coltivazione, garantendosi così la
possibilità di estendere il proprio lavoro ad altri settori affini: il turismo, la formazione, la
salvaguardia del territorio.
Quanto evidenziato fin qui mette in luce dunque quanto un cambiamento sia necessario per
potersi riappropriare della propria vita, delle proprie origini e della propria cultura
d’appartenenza.
Ma se ciò che ho voluto mostrare rappresenta le motivazioni che spingono ad un’inversione di
rotta e i possibili strumenti per renderla possibile, c’è da chiedersi quanto questo cambiamento
sia praticabile dalle persone comuni.
Gli esempi riportati dei ragazzi di Rural Hub mostrano per esempio quanto sia stato difficile
inizialmente abbandonare un determinato percorso lavorativo, e uno stile di vita conseguente,
per dedicarsi ad un lavoro più umile, più “basso”, per dirla con un epiteto con cui si descrive
spesso il lavoro agricolo.
Tutti vorremmo smetterla di lavorare dove lavoriamo, dedicarci ad attività più rilassanti e che
non ci facciano tornare a casa la sera stressati, nervosi, soli. Ma quanti sono disposti a cambiare
111
drasticamente le proprie abitudini, i propri ritmi, per dedicarsi ad un lavoro che non dà garanzie
né sicurezze? Pochi, se non pochissimi.
Come se in realtà le garanzie e sicurezze che crediamo di possedere siano effettivamente tali…
Si può dunque creare una nuova forma di economia basata sulle persone e sulla cultura? Si
possono riaffermare sistemi economici legati alla comunità e al dono? Si può effettivamente
guardare all’agricoltura “nuova” come a quel motore che può rendere il nostro futuro un futuro
migliore?
Non lo so e non ho la presunzione di poterlo sapere, né di poterlo dimostrare.
I fenomeni di downshifting stanno prendendo sempre più piede, ma il processo è lento e la
maggior parte delle persone forse non è ancora pronta ad affrontare un cambiamento. Tanti
aspetti della nostra società sono già permeati da situazioni in cui la comunità e il dono la fanno
da padrone, soprattutto online. Si pensi per esempio ai fenomeni legati al crowdfunding, o
banalmente, al peer-to-peer.
Spesso le comunità online sono più affiatate di quelle reali: riacquisire la fiducia negli altri
nella vita reale, dopo secoli di “tutti contro tutti”, di individualismo, è decisamente complicato,
e in questo i fenomeni legati allo scambio in rete, ai forum, a chi passa le notti sveglio per
garantire i sottotitoli in italiano delle serie televisive straniere, possono fornire un valido aiuto
a ripristinare dei comportamenti che sono inscritti nella nostra indole, o nella nostra “coscienza
collettiva”, come alcuni tendono a chiamarla.
Le possibilità che offre l’agricoltura, da questo punto di vista, sono infinite e, cosa che si fatica
a considerare, non solo in contesti rurali. Spesso infatti si pensa che agricoltura sia
necessariamente sinonimo di una realtà bucolica e “fuori dal tempo”, che non ha attinenza con
la realtà. Ma non è assolutamente così ed anzi, la diffusione di pratiche di coltivazione urbana
ne è la prova. Vivere con un po’ di natura in più anche nelle città è stato notato come sia
portatore di benefici evidenti per la comunità cittadina e questo possa portare a dei risvolti
interessanti anche da un punto di vista meramente economico. Come già Barberis faceva notare
alle soglie del nuovo millennio:
«L’agricoltura urbana, se rappresenta una necessità vitale per il nuovo urbanesimo orticolo dei
Paesi emergenti e in via di sviluppo, costituisce anche una chance per il vecchio urbanesimo
112
dell’occidente sviluppato. L’idea di riportare l’attività agricola-forestale dentro la città,
rivitalizzando le aziende che ancora sopravvivono nello spazio urbano, oppure destinando alla
coltivazione una parte degli spazi che si rendono liberi a causa della dismissione di complessi
industriali e commerciali e in occasione dell’attuazione di progetti di rinnovo urbano, ovvero
rilanciando la tradizione degli orti urbani, non è più considerata una proposta folkloristica, ma
un obiettivo concretamente perseguibile delle politiche urbanistiche e sociali»179.
Non solo.
Le comunità stanno risorgendo ma non siamo capaci di rendercene conto, o forse la stragrande
maggioranza di noi ha semplicemente il dubbio che ciò non sia vero, dopo secoli a pensare
ognuno per sé. Forse ha semplicemente paura perché non è abituata all’idea di non essere sola.
Indipendentemente da tutto ciò, però, sono tanti, come ho cercato di mostrare, gli aspetti che
fanno presagire come questo cambiamento sia in corso. Il processo è lento ancora ma ci si sta
muovendo in una direzione che permette lo sviluppo futuro di tante realtà caratterizzate proprio
da quegli aspetti che il processo di industrializzazione, il capitalismo e la globalizzazione,
hanno cercato di eliminare: la comunità, la solidarietà, il dono, il luogo, la lentezza…
Sicuramente tante teorie economiche che sottendono questo cambiamento sono esagerate,
deprecabili e, probabilmente, di difficile, se non impossibile, attuazione. Ciò non toglie che
esse rappresentino una presa di coscienza che qualcosa di alternativo a ciò che abbiamo
imparato a conoscere e, a seconda dei casi, amare o odiare, sia possibile. E per quanto sia nella
natura delle nuove teorie il voler cancellare il passato in favore di qualcosa di nuovo (o, come
in questo caso, di cancellare il passato recente in favore di un passato remoto), personalmente
credo che la soluzione non sia abbattere tutto ciò che fin qui si è costruito.
Come nel mito della biga alata narrato da Platone, infatti, un cavallo bianco tira da un lato la
biga e un cavallo nero la tira nel verso opposto; è compito dell’uomo trovare l’equilibrio
necessario per governare le forze opposte e percorrere la strada che reputa migliore.
La decantata “fine del capitalismo” potrebbe non essere una fine in quanto tale, ma la possibilità
di integrare ciò che il capitalismo ha rappresentato nel corso di questi due secoli con ciò che si
è voluto cancellare dalla società in favore di esso.
179 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.182.
113
L’integrazione, da sempre, è la chiave che permette alle società di andare avanti: far propria
una novità e renderla parte della cultura che ci contraddistingue.
E in questo si può dire che noi italiani siamo dei campioni.
Come fa notare Guarracino, del resto:
«Più che per quanto gli è originario, il Mediterraneo si definisce come un mondo di nuovi
venuti, che finisce per accogliere e far propria qualsiasi cosa, come se da sempre fosse stata sua.
Autenticamente mediterranei si diranno perciò gli uomini che, avendo compreso questo gioco
e le sue regole, assimilano tutto da tutti, per poi rimanipolarlo a modo loro. Ciò che appare
tipicamente mediterraneo, nelle popolazioni umane come pure nelle piante, si rivela spesso un
intruso relativamente recente e ben acclimatato. Il cosmopolitismo sembra allora un carattere
permanente della mediterraneità»180.
Ed è proprio questa capacità di accogliere la diversità ciò che forse abbiamo scordato e che
oggi, anche alla luce della grande ondata di immigrazione, si fa sempre più attuale e necessario.
Se impariamo a capire che la diversità è ricchezza possiamo tornare a crescere, non solo in
senso economico, ma anche evolutivo, un termine, questo, che rappresenta, come lo definisce
il dizionario Garzanti, uno «sviluppo lento e graduale, cambiamento da una forma a un’altra,
generalmente più completa e perfetta»181.
Una lentezza e una gradualità che l’agricoltura e le attività a lei connesse ci insegnano a
conoscere. Sta a noi imparare a utilizzare queste conoscenze nel migliore dei modi per rendere
il mondo in cui viviamo più perfetto di come l’abbiamo conosciuto finora.
E per quanto questo discorso possa sembrare utopistico, ci sono persone che stanno lavorando
quotidianamente per renderlo possibile e non solo: vogliono raccontarlo e diffonderlo ed ora
possono farlo coinvolgendo anche chi è lontano da queste realtà.
«Il pensiero meridiano è radicato qui, nella resistenza della molteplicità delle voci, delle vie,
delle dignità, nella capacità di rovesciare in risorse quelle che nell’ottica primitiva dello
sviluppano sembrano solo vincoli, limiti e vizi. Esso deve custodire la confidenza con forme di
vita immobili, lente, stratificate [...]. A fronte della monocromia della velocità i mille colori che
si possono percepire solo quando la vita rallenta; a fronte dell’incontinenza del tempo reale, il
valore della distanza fisica e culturale dell’altro, dell’incomprensibilità del suo orgoglio, della
difficoltà di capirlo, del rischio di avvicinarlo. [...] La scommessa intorno alla quale tutto ruota
180 S. Guarracino, Mediterraneo, Immagini, storie e teorie da Omero a Braudel, Milano, Mondadori, 2007, p.95. 181 Evoluzione, http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=evoluzione, ultimo accesso 01/07/2015.
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è che il sud riesca a pensarsi, a guardare se stesso con la forza di un sapere che in qualche forma
già possiede. La chiave sta nel ri-guardare i luoghi, nel duplice senso di aver riguardo per loro
e tornare a guardarli»182.
Forse semplicemente dobbiamo cercare di guardare oltre il nostro naso per poter notare quei
piccoli cambiamenti che stanno avvenendo su scala globale e che, per quanto piccoli e
insignificanti possano essere in confronto a quanto di negativo viene quotidianamente
perpetrato, rappresentano di fatto una novità importante.
Forse dovremmo semplicemente imparare che niente è infinito e che «se il mondo occidentale
andrà più piano, anche tutti noi dovremo rallentare. Proviamoci, con un po’ di storia alle spalle,
con un po’ d’intelligenza e d’umanità davanti»183.
182 Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori Laterza, 1998, pp.6-9. 183 Edmondo Berselli, L’economia giusta, Torino, Einaudi, 2010, p.99.
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