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“Razza: la percezione della donna nera ieri e oggi”
Agency, colore e gender
LM- Scienze della comunicazione pubblica e sociale – Gender Studies
Erica Benedettelli
Mianù Catenaro Sara Ferri
Genere
1. Genere, femminismo e razza
Prima prospettiva del pensiero femminista
Seconda prospettiva del pensiero femminista
Una delle caratteristiche del genere è quella di essere fissato sul corpo grazie anche al suo intrecciarsi ad altre due dimensioni classificatorie: sesso e sessualità. Nella nostra cultura vige un allineamento normativo, rigido e dicotomico tra: Sesso: criteri biologici in base ai quali le persone vengono ascritte a categorie sessuali distinti; Genere: complesso di attributi personali culturalmente stabilizzati che rispondono a cosa ci si aspetta da persone di sesso diverso dal nostro; Sessualità: tutto ciò che ha che fare con i desideri erotici.
•Genere, sesso e sessualità
•Abuso sessuale I movimenti delle donne bianche
e l’apertura al mondo nero […] "e da dov'è venuto Cristo? da Dio e da una donna! L'uomo non c'entra proprio niente“ […]Ho arato, ho piantato, e lavorato nelle stalle e nessun uomo poteva comandarmi! E non sono donna? Ho lavorato e mangiato quanto un uomo e anche sopportato la sferza! E non sono donna? Ho messo al mondo 13 figli e quasi tutti me li hanno tolti per venderli in schiavitù, e quando ho pianto tutte le mie lacrime di madre solo Gesù mi ascoltava. E non sono forse Donna?
( Soujourner Truth; tratto da Ar’nt I A Woman, 1851)
•Liberazione della schiavitù e il razzismo delle donne bianche
Le due donne nell’immagine sono Elisabeth Cady Standon e Susan B. Anthony, che dopo il la liberazione schiavista, con il IIIX emendamento del 1864, divennero le principali attiviste delle donne bianche.
Voto alle donne
L’ottenimento del voto per le donne avvenne nel 1920, dopo i movimenti delle suffragette che avevano discriminato, sia le donne nere che le donne lavoratrici.
Ad oggi che in America è stato eletto un presidente di colore e, di conseguenza, una “first lady” di colore, il razzismo si può dire
finito?
( dal giornale online Il Punto; 23 ottobre 2012)
3. Le donne nel fascismo e le colonie africane
Relazione donne – fascismo: la visione della donna durante l’epoca fascista
•Colonie africane Il mito della Venere Nera – foto di Luigi Naretti, primo fotografo colono
La rappresentazione delle donne africane ha svolto un contributo fondamentale nella costruzione dell’immaginario collettivo italiano sull’Africa, fornendo un impianto culturale importantissimo per la legittimazione della conquista e il rafforzamento del consenso popolare sull’impresa coloniale.
•Colonie africane Il mito della Venere Nera – foto di Luigi Naretti, primo fotografo colono
La seconda tipologia di fotografie rientra nella diffusa commercializzazione di immagini pornografiche, prodotte per alimentare lo stereotipo della colonia come miraggio sessuale.
3. Analisi Pubblicità Per quanto riguarda l’utilizzo della donna nera nelle pubblicità in Italia abbiamo deciso di analizzarne due in cui sono state associate donne nere a prodotti italiani: Benetton
ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA
SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI
Corso di laurea magistrale in
Scienze della comunicazione pubblica e sociale
Titolo:
Agency, colore e gender. La percezione della donna nera ieri e oggi
Paper:
GENDER STUDIES
Professoressa:
Cristina Demaria
Presentata da:
Erica Benedettelli, Mianù Catenaro, Sara Ferri
A.A. 2012/2013
Indice
Introduzione ....................................................................................................................................... 7
Capitolo 1 (a cura di Erica Benedettelli) ........................................................................................... 13
Donne nere nella storia americana: dalla schiavitù al voto ................................................................ 13
1.1 Colonizzazione e schiavismo ................................................................................................... 13
1.2 I movimenti delle donne bianche e l’apertura al mondo nero .................................................. 16
1.3 Il razzismo delle donne bianche e il post-liberazione .............................................................. 22
1.4 Il voto alle donne...................................................................................................................... 26
Capitolo 2 (a cura di Mianù Catenaro) .............................................................................................. 29
Le donne durante l’epoca fascista: dalla donna bianca alle colonie africane .................................... 29
2.1 Le donne bianche ..................................................................................................................... 29
2.2 Un’Italia né bianca né nera ...................................................................................................... 32
2.3 Le colonie africane e il mito della donna nera ......................................................................... 33
Capitolo 3 (a cura di Sara Ferri) ........................................................................................................ 36
La donna nera oggi: analisi semiotica ................................................................................................ 36
3.1 Campagna pubblicitaria sociale: United Color Of Benetton ................................................... 36
3.1.1 Valori profondi, PN e Enunciazione ..................................................................................... 38
3.1.2 Livello plastico e figurativo, Floch ....................................................................................... 42
3.1.4 Logo e ideologia di marca ..................................................................................................... 44
3.2 Campagna pubblicitaria commerciale: Kinder Fetta Al Latte ................................................ 45
3.2.1 Valori profondi, PN e Enunciazione ..................................................................................... 46
3.2.2 Livello Plastico e Figurativo, Floch ...................................................................................... 50
3.2.3 Logo e slogan del Manifesto ................................................................................................. 52
Introduzione Gli studi di genere rappresentano un approccio multidisciplinare e interdisciplinare allo studio dei
significati socio-culturali della sessualità e dell'identità di genere, essa non deriva necessariamente
dalla biologia, e non riguarda l'orientamento sessuale. Nati in Nord America a cavallo tra gli anni
settanta e ottanta nell'ambito degli studi culturali, gli studi di genere si diffondono in Europa
Occidentale negli anni ottanta. Si sviluppano a partire da un certo filone del pensiero femminista
che considera il genere come il processo culturale che produce le identità sessuali, inclusa la nostra
percezione che esistano solo due sessi distinti. Questo pensiero ha in un primo momento sposato la
distinzione tra genere e sesso definendo il primo come un insieme di differenze di ordine simbolico
che venivano sovrapposte alle differenze biologiche apparenti ai due sessi. Il primo femminismo
contribuiva a naturalizzare il sesso. Il secondo femminismo ha adottato un approccio sempre più
radicalmente costruttivista, sviluppando una critica alla precedente distinzione tra sesso e genere
cambiando inoltre l’inquadramento di quest’ultimo. Secondo Pierre Bourdieu, che si è occupato di
sociologia dei processi culturali, il genere è un processo e una pratica che si realizza nelle diverse
realtà sociali in cui i soggetti si trovano ad agire, tale identità viene consolidata tramite aspetti
materiali: portamento, dimensioni corporee, modo di parlare.
Una delle caratteristiche del genere è quella di essere fissato sul corpo grazie anche al suo
intrecciarsi ad altre due dimensioni classificatorie: sesso e sessualità. Il rapporto tra genere, sesso e
sessualità è in effetti cruciale, al punto che è difficile parlare di uno di questi termini senza fare
riferimento agli altri. Nella nostra cultura vige un allineamento normativo rigido e dicotomico tra
sesso (l’insieme dei criteri cosiddetti biologici in base ai quali le persone vengono ascritte a
categorie sessuali distinte), sessualità (tutto ciò che ha a che fare con i desideri erotici) e genere (il
complesso degli attributi personali culturalmente stabilizzati che rispondono a cosa ci si aspetta da
persone di sesso diverso). Comunque vivano la propria sessualità, nella vita quotidiana, le persone
risultano impegnate, anche se spesso in modo del tutto inconsapevole, a mostrare di “essere” maschi
o femmine; queste rappresentazioni di genere hanno conseguenze importanti sulle possibilità di
azioni degli uomini e delle donne che le mettono in atto, limitando, o quanto meno orientando, in
modo diverso le loro opportunità. Le differenze di genere sono anche e soprattutto differenze di
potere e di opportunità: esiste cioè, ancora oggi, una stratificazione sociale che passa per la
distinzione uomo/donna. Sebbene i ruoli maschili e femminili siano diversi nelle varie culture non è
ancora esistita alcuna società stabile in cui le donne abbiano, nel complesso, maggiore potere degli
uomini. Questa situazione di vantaggio e dominio degli uomini sulle donne, definita “patriarcato”
dal pensiero femminista, è stata imputata a ragioni diverse che sono riassumibili nella riproduzione
umana che vincolerebbe le donne alla cura e alla crescita dei figli e nella loro minor forza fisica che
ne avrebbe fatto il principale bottino sessuale e di forza lavoro dei maschi. In tutte le società vi è
una divisione del lavoro che, seguendo norme culturali diverse e spesso assai rigide e complesse,
lascia alle donne le mansioni meno apprezzate, tanto da farle apparire come il “secondo sesso” o il
“sesso debole”.
Le questioni teoriche affrontate dal femminismo investono tutti i campi del sapere, non si limitano
quindi ad aprire un dibattito solo sulla categoria femminista di genere, ma si estendono ad altre
quali la razza e l’etnia. Tra le molteplici istanze che hanno trasformato la tendenza totalizzante del
femminismo statunitense, modificando la definizione stessa di genere, vi è anche quella
rappresentata dalle donne afroamericane, e cioè da soggetti che, oltre a subire la subordinazione
sessuale, sono innanzitutto caratterizzati come persone di colore, vale a dire da un’identità in cui
predomina la variabile della razza. La divisione sorta intorno al rapporto tra razza e genere, ha
anche prodotto l'idea di un femminismo "bianco" o "occidentale" in contrasto con un "femminismo
terzomondista statunitense" articolato in molti gruppi etnici e razziali , definito da Alice Walker
"womanism" (donnismo). Il termine "donne di colore" che comincia a circolare in quel periodo, ha
precisamente quel significato, ed è un termine teorico oltre che politico. La pratica di assumere
l'identità di "donna di colore" diffusasi negli USA (e similmente, di una identità "nera" in Gran
Bretagna), fra donne di diversissimi retroterra culturali, le asiatiche, le americane native, le
americane nere, le caraibiche, le latine ecc., è un esempio di coscienza personale e politica la quale
non è semplicemente fondata su differenze etniche o culturali rispetto alla cultura bianca
dominante; e non è affatto l'opposizione di un insieme di valori culturali riconosciuti all'interno di
una data minoranza etnica, contro quelli della maggioranza dominante. In altre parole, ad una donna
di colore l'identità di donna di colore non le viene offerta ma deve acquisirla, o svilupparla da una
specifica esperienza storica che non è quella etnica ma quella del razzismo nella società statunitense
di oggi dominata dalla cultura bianca e maschile. Quella identità si sviluppa dall'analisi del comune
bisogno personale e politico di costruire una società che vada oltre e contro, che sia in tensione e
anche in contraddizione con i valori culturali di un gruppo etnico tradizionale, di una famiglia o di
una"casa". Dato che la critica delle donne di colore è stata marcatamente, se non esclusivamente,
indirizzata verso le femministe bianche, piuttosto che verso le strutture del potere patriarcale, o
verso gli uomini di colore, ancora una volta il contrasto tra tema razziale e genere ha condotto ad
una polarizzazione e allo stesso tempo al tentativo di superarla, almeno internamente alle pratiche
femministe teoriche e culturali. Anche in questo caso, però, i risultati sono stati insoddisfacenti e
hanno raggiunto soluzione. In tutti i casi suddetti, dunque, anche se la polarizzazione può essere
messa da parte e sostituita da altre che sopravvengono, ciò nonostante non scompare, ma resta viva
e attiva nella coscienza femminista.
Nel senso comune la parola razza è impiegata per indicare qualcosa che si considera
spontaneamente visibile e oggettivo dei gruppi umani che esistono e sono identificabili secondo
alcuni tratti somatici e il colore della pelle. Un’analisi più accurata dell’uso della nozione di razza
permette di capire che essa è impiegata per indicare dei gruppi considerati naturali, ossia dei gruppi
che esisterebbero in natura, indipendentemente dal contesto storico e culturale. La razza spiegherà il
sociale attraverso il naturale, stabilendo un rapporto deterministico tra comportamenti sociali,
culturali, psicologici e caratteri fisici, biologici e successivamente genetici. Questa nozione nasce
dunque proprio per giustificare determinati rapporti di potere, per rappresentarli come rapporti
naturali, per comprendere entro l’ordine della natura le differenze e le diseguaglianze prodotte da
rapporti storico – sociali. Ciò che caratterizza la nozione di razza è che essa identifica un gruppo
sociale come un gruppo naturale. Nella maggior parte della storia dell’umanità non si pensava ai
bianchi e neri come a delle razze, né alla discriminazione di alcuni gruppi sulla base
dell’appartenenza ad esse. Benché la percezione del colore di pelle o di altri tratti del corpo umano
abbia sempre accompagnato la storia dell’umanità, questa non sempre è stata associata all’idea di
appartenenza a un gruppo naturale; gli studi sulla nozione di razza e sul razzismo illustrano dunque
come essi siano inseparabili, e come non sia possibile immaginare un uso neutro, oggettivo della
parola razza. Per comprendere la nozione di razza è necessario comprendere l’ideologia che l’ha
prodotto e supportata: come scrive Tabet, la nozione di razza appartiene al razzismo stesso. Un altro
aspetto fondamentale del dibattito sulla razza è il rapporto tra colore, processi di razzializzazione e
agency in una prospettiva transnazionale e transdisciplinare che abbraccia soprattutto il mondo
coloniale e postcoloniale di area anglosassone e che fa sua la metodologia
dell’«intersezione»mirante a cogliere il prisma delle relazioni di potere che si ottiene
dall’intrecciarsi e riprodursi delle linee (o «assi del potere») di genere, colore, orientamento, classe
e cultura. L’accezione del termine agency implica i concetti di azione di auto-posizionamento del
soggetto agente e di responsabilità (anche in senso etico-politico) rispetto all’azione stessa, e l’idea
della «capacità di agire in senso trasformativo» del soggetto, singolo o molteplice, o di più soggetti
singoli o molteplici rispetto alle articolazioni del potere. L’obiettivo è di mostrare come la
costruzione relazionale del colore operata nel passato coloniale e schiavista e nel presente post-
coloniale e post-schiavista, consista e si fondi principalmente sulla privazione/diminuzione –
discorsiva e reale – dell’agency del soggetto razzializzato. Quello che viene sottratto/diminuito,
parzialmente o totalmente, prima ancora della capacità di soggettivazione nei termini del divenire
soggetto dotato di dimensione sociale, politica ed eventualmente giuridica che costruisce
attivamente o, al contrario, si oppone, talvolta destrutturando e destituendo mediante il conflitto
l’ordine che determina la sua condizione, è la capacità di resistere, sottrarsi, non aderire, prendersi
gioco, rallentare o non riprodurre in modo perfetto – trasgredire – il modello di dominio a cui il
soggetto razzializzato/colonizzato è sottoposto. E’ la specifica condizione sociale, economica e
politica del subalterno/colonizzato a materializzare il colore del soggetto razzializzato. Attraverso
l’assegnazione di colore così intesa, lui/lei è resa corpo unico indistinto dall’appartenenza
omogenea al gruppo dominato, la cui agency, di conseguenza, è subordinata al significante «colore»
– il colore assegnato significa il grado, i confini e le forme di agency del soggetto individuale e
collettivo. Lui/lei, divengono semplicemente «corpi» proprio perché «corpi di un determinato
colore» (similmente all’assegnazione del genere).
È d’altra parte necessario sottolineare come la negazione dell’agency del soggetto subalterno
razzializzato abbia l’effetto di ridimensionare la stessa soggettività del gruppo dominante, il quale,
in quanto anch’esso razzializzato in via esplicita o implicita, è inserito in un campo definito dal
rispecchiamento relazionale (del tipo bianco-nero, o bianco vs. non-bianco) che ne chiude il
pensiero in rigide dicotomie e ne limita l’agire (nelle relazioni di intimità, di amicizia, amore e
genitoriali, o in quelle pubbliche – commerciali, culturali, politiche e sociali) pur assegnandogli uno
status privilegiato. L’assegnazione relazionale di inferiorità/superiorità che si esprime attraverso
categorie che fanno per lo più riferimento diretto o indiretto al colore, dunque, produce e riproduce
per il gruppo dominante privilegi e restrizioni, laddove le restrizioni sono una sorta di violenza
riflessa della violenza perpetrata sui gruppi razzializzati/inferiorizzati e in grado di riprodurre
quest’ultima. Se, infatti, i confini dell’agency all’interno del gruppo dominante sono tali da limitare
la sua capacità d’azione in modo situato e a una serie di livelli, tali confini sono resi in realtà
necessari per riprodurre e rinsaldare le categorie all’interno delle quali si dà il potere di cui gode.
Nel 1958 Jean Genet si chiedeva: “ E per prima cosa, di che colore sono i negri?”. La domanda,
ancora attuale, svela il carattere di non evidenza, di non naturalità del processo di percezione del
colore di una persona, meccanismo considerato per lo più come un fatto spontaneo. Genet parlando
di negri, al plurale, segnala inoltre un altro aspetto centrale nella percezione del colore di un
individuo: questa infatti è sempre associata alla sua categorizzazione in quanto appartenente a un
gruppo (negri, bianchi, gialli). Nel momento in cui classifichiamo il colore di un individuo, si
attivano una serie di immagini, idee, rappresentazioni sociali che lo definiscono in quanto
appartenente a uno specifico gruppo con determinate caratteristiche sociali e psicologiche.
Percezione del colore e classificazione sociale vanno dunque di pari passo. Genet ha posto alla
nostra attenzione in modo conciso ciò che le ricerche socio-antropologiche illustrano in modo
analitico: la percezione del colore di un essere umano e la sua classificazione cambiano a seconda
del momento storico e del contesto culturale. La prospettiva storica innanzitutto ci aiuta a
ridimensionare l’importanza data a certi tratti del corpo, come il colore della pelle, da noi
considerati immediatamente visibili o particolarmente d’impatto per l’occhio umano, ed
immaginare che sono possibili altre modalità di vedere e descrivere la variabilità del corpo umano.
La definizione del colore di una persona è determinata da vari fattori: oltre al colore della pelle, i
tratti del viso sono decisivi, in particolare il tipo di capelli e di naso, ma sono tenuti in
considerazione anche elementi sociali, come la classe, lo status sociale, gli studi, il tipo di relazione
tra la persona che è classificata e quella che classifica. Questo meccanismo indica come alcuni
colori siano considerati più visibili di altri: l’espressione “persona di colore” sta ad indicare che
altre persone non hanno o hanno meno colore, e per questo tratto vengono identificate. Appare
quindi evidente come la percezione del colore non sia un fatto puramente naturale, pertinente al
semplice funzionamento dell’occhio umano, ma come essa sia determinata da contesti storici e
culturali, da motivazioni e contestazioni politiche, attraversata da tensioni e manipolazioni collettive
e individuali. E soprattutto che la percezione del colore non è dissociabile dall’ideologia che
storicamente ha definito i contenuti sociali dei gruppi di colore, l’ideologia razzista.
La prima analisi che si andrà ad affrontare tratterà, dal punto di vista storiografico, una specifica
figura: la donna nera nel contesto americano. Questo percorso porrà l’accento sull’evoluzione e
sulla maturazione della donna afroamericana nel periodo che va dalla schiavitù all’ottenimento del
diritto al voto, raggiunto grazie al XIX emendamento nel 1920. Prima di intraprendere la
ricostruzione storica è, però, opportuno fare due osservazioni. La prima riguarda il contesto storico
in cui emerge la figura della donna nera. Infatti, nonostante la sua condizione di emarginazione, la
donna di colore non può essere scissa dalle altre due figure femminili che convivono con lei: le
donne bianche borghesi e le donne lavoratrici. Queste tre categorie sono l’insieme e il fulcro del
movimento femminista che ha preso vita negli anni precedenti al 1920, un movimento che ha
portato alla luce i diversi problemi, che erano già parte integrante della società: il razzismo, lo
sfruttamento, la non uguaglianza sociale e i pregiudizi verso il diverso.
La seconda osservazione riguarda il rapporto uomo – donna. Nella società schiavista, gli uomini e le
donne erano sostanzialmente uguali, le donne, in particolare, lavoravano come gli uomini e avevano
una vita molto più faticosa rispetto a loro, visto che, in quanto donne, dovevano occuparsi della
casa, della famiglia e dei loro coniugi; questa situazione ha portato ad un reciproco rispetto fra i due
sessi, al punto che durante le ribellioni erano spesso le donne l’arma o l’esca per attirare il padrone
bianco ed erano anche le prime a subirne le conseguenze. Viceversa nella società, che potremmo
definire, dei padroni bianchi questa situazione non esisteva: la donna bianca, che precedentemente
era il fulcro familiare, culturale ed economico, nel periodo industriale (quando sono cominciati i
primi movimenti) era solo una donna di casa, madre e moglie, senza alcun valore nella società, la
quale vedeva come parte fruttuosa solo suo marito, quindi solo l’uomo. Questa situazione ha
portato, quindi, ad un astio reciproco fra i due sessi, che si è protratto lungo tutto il movimento per
il diritto di voto alle donne. In queste prime due osservazioni si può già leggere, nel movimento
femminista, un distaccamento dalle altre realtà sociali, dalle donne che lavoravano e
dall’emarginazione, che ha portato ad una diversa percezione e ad una diversa motivazione della
lotta stessa.
Capitolo 1
Donne nere nella storia americana: dalla
schiavitù al voto
1.1 Colonizzazione e schiavismo
La schiavitù è un antica istituzione umana che vede in un individuo, detto schiavo, la condizione
essenziale di produzione; questa naturale condizione è completamente rafforzata dalla sua
appartenenza ad un gruppo sociale, che egli stesso percepisce come estensione della natura stessa.
In sostanza uno schiavo non esiste se non nella sua forma di schiavo e produttore di bene, è il
sottomesso per eccellenza.
Questo era nel sistema antico, la differenza tra questo e il sistema americano è che se in una
struttura feudale ogni uomo “appartenente ad un gruppo sociale” era consapevole del suo posto
nella società sin dalla nascita, nel sistema americano gli uomini africani furono costretti a diventare
schiavi mentre non lo erano nella condizione iniziale, tanto più che venivano trasportati dal loro
ambiente naturale, dalla loro cultura e dalle loro relazioni sociali in nuovo contesto in cui le
relazioni a cui erano abituati erano completamente incompatibili con quelle di schiavitù.
Altra distinzione era la società in cui venivano istallati: un mondo caratterizzato altrimenti dal
“libero” lavoro salariato. Gli uomini e le donne nere, infatti, avevano sempre davanti a sé le catene,
mentre gli uomini bianchi, intorno a loro, erano liberi; alcune volte capitava che schiavi venissero
mandati a lavorare presso altri padroni come lavoratori salariati, peccato che non avessero alcun
diritto sulla misera paga guadagnata.
In questa situazione sono, quindi, nati dei cliché sulla donna nera che viveva in schiavitù, il primo
tra tutti era l’idea del matriarcato, ma non c’è nulla di più sbagliato di questa idea.
In un mondo dominato da padrone bianco, Il sistema degli schiavi non poteva riconoscere alcuna
struttura familiare matriarcale proprio perché, il concetto stesso di matriarcato, presupponeva una
presa di potere femminile su un popolo che era oltremodo sottomesso: un potere nel potere che
avrebbe irrimediabilmente portato al collasso del loro sistema.
Il modello di schiavitù americano era quanto mai rigido per quanto riguarda l’idea di famiglia, si
basava, infatti, sullo smembramento della vita famigliare e sull’impedimento di una qualsiasi forma
di struttura sociale: madri e padri erano separati, figli appena svezzati erano allontanati e marchiati,
la madre “biologicamente legittima” era irrilevante per la crescita del figlio; spesso,quindi, le
persone che vivevano sotto lo stesso tetto non avevano nessuna relazione di sangue.
La donna nera era la prima vittima di questo sistema: a lei era affidata la casa, come gli avevano
ricordato gli uomini bianchi e come le imponevano le tradizioni patriarcali, per natura biologica era
destinata a procreare, ma non a crescere i suoi figli, e per natura sociale a pulire, lavare, cucinare e
allevare i figli, degli altri. Ma è proprio qui che entra in gioco il suo ruolo, infatti oltre che badare a
uomini e bambini con i quali non era in stretto legame parentale, ella svolgeva l’unico lavoro utile
alla comunità degli schiavi che non avesse un resoconto per i dominatori; proprio svolgendo
l’ingrato lavoro affidato alla donna da sempre, lei trovava in esso la sua autonomia che agli uomini
della sua stessa razza non era concessa, diventava, cioè, qualcosa di essenziale alla sopravvivenza
della comunità stessa.
La differenza in questa gerarchia è che l’uomo nero non poteva rivendicare nessun potere, né fuori
le mura né dentro le mura di casa, ma era sempre e comunque sottomesso al padrone, anche la
donna lo era così come i bambini, ma lei all’interno della casa aveva un ruolo ben definito.
Le donne d’altro canto, quando si trovavano al pari degli uomini, dovevano lavorare tanto quanto
loro e per loro non c’era alcun rispetto nemmeno durante il periodo della gravidanza, dove non
potevano allattare i figli e dove venivano egualmente frustate.
Ma le donne nere compresero ben presto il loro potenziale di oppressione, loro erano necessarie
all’uomo bianco decisamente di più di quanto il l’uomo bianco fosse necessario a loro, lei viveva
sia l’esperienza domestica che quella nei campi, aveva cioè una visuale allargata che alla donna
bianca, che sceglievano l’una o l’altra via, era mancata e che quindi portava la donna nera ad essere
la volontà di resistenza del popolo.
Con i contributi forti delle donne nere la comunità di schiavi nel suo complesso poté arrivare a
punte irraggiungibili all’interno delle famiglie di bianchi o nei gruppi africani a struttura patriarcale.
Se la donna nera avesse fallito il suo compito nel cogliere l’occasione giusta per tormentare il
padrone, la comunità di schiavi non avrebbe potuto svilupparsi apertamente in quella direzione.
Con l’aiuto delle schiave si ebbero le prime rivolte, che si svilupparono sin dai primi del ‘700
attraversando tutta la costa est dell’America da nord a Sud. L’oppressione delle schiave, quindi,
dovette assumere anche le dimensioni della contro rivolta aperta e la repressione si abbatté violenta
su tutti quelli che si ribellavano apertamente; le donne furono punite con la stessa violenza degli
uomini, se non maggiore.
I motivi per cui alle donne nere si riservavano morti peggiori era, appunto, per dissuadere le loro
sorelle alla stessa lotta; infatti se tutte le donne nere si fossero messe accanto a tutti gli uomini neri,
l’istituzione schiavista avrebbe avuto non pochi problemi.
Ma i primi problemi di una schiava nera nascevano proprio nel suo stesso essere donna e schiava e
quindi dall’ abuso sessuale.
Il problema principale dell’abuso sessuale nell’epoca schiavista è che questo aveva un naturale
effetto “anti-rivolta”. Infatti, l’uomo bianco sapeva che per sottomettere una donna nera bastava
abusare sessualmente di lei nel luogo dove si sentiva più forte (la casa) per ricordarle che lui la
dominava sempre e comunque; inoltre con questi atti l’uomo bianco poteva anche ricattare la
donna, qualora questa opponesse un’inutile resistenza, tipo con il cibo o con la sicurezza dei suoi
figli. Con questi atti gli uomini bianchi non solo negavano ogni dignità alla donna nera, alla sua
libertà nella casa e alla sua volontà di ribellione, ma toglievano ogni briciolo di umanità ai neri che,
mossi dalla voglia di proteggere almeno le loro donne, se le vedevano portare via.
Lo scopo del padrone era chiaro: ogni volta che un uomo comprendeva di non essere riuscito a
proteggere la donna dagli assalti del padroni, avrebbe nutrito dei sospetti sulla capacità della stessa
di portarli alla ribellione. Tuttavia nulla di ciò servì, perché la donna nera non si sottomise mai
all’uomo bianco senza lottare, così come gli schiavi non rinunciarono mai alla loro voglia di libertà,
lavorando fianco a fianco con le donne e anzi ponendo loro stesse come guida alle loro rivolte.
1.2 I movimenti delle donne bianche e l’apertura al mondo
nero
Come si era già anticipato nell’introduzione del capitolo, i movimenti delle donne bianche non
posso essere scissi da quelli delle donne nere nel periodo industriale.
Ma la domanda sorge spontanea: perché molte donne bianche si unirono al movimento
antischiavista?
La risposta è da cercare nella letteratura. “La Capanna di Zio Tom” di Stowe era, infatti, un inno
alla maternità della donna, alla donna perfetta come mogli e madre, l’opera era disseminata di
pregiudizi: i neri erano gli schiavi docili e le donne erano madri e poco altro.
Ma siamo nel periodo industriale, il periodo in cui le donne non erano più necessarie se non
nell’ambiente domestico e quindi la loro inferiorità – a livello produttivo e non riproduttivo – si
andava delineando in misura maggiore. Le donne bianche dell’epoca dovevano rispettare quello che
era stato definito “Il Culto della Vera Femminilità”, ossia la ricerca della purezza, della gentilezza,
della sottomissione e dell’amore per la vita domestica. Ma non tutte le donne erano d’accordo con
questo modello che era stato imposto loro per tenerle accanto al focolare.
Gli anni tra il 1830 e il 1840 furono gli anni della lotta intensa. La rivolta di Nat Turner1
Molte donne bianche del nord paragonarono la loro condizione a quella della “schiava”, il
matrimonio, infatti, per loro era uno schiavismo in cui erano chiamate solo ad accontentare il
marito. Resta chiaro che il paragone era ovviamente eccessivo, visto che loro non vivevano
nemmeno la metà di quello che le donne nere schiave erano costrette a passare, ma era un modo per
attirare la loro condizione facendo leva su una situazione di completa impotenza.
proclamò
definitivamente il malcontento dei neri e delle nere per la loro condizione e dichiarò la lotta
all’uomo bianco. Nel 1831 cominciò la rivolta e, contemporaneamente, donne e bambini nelle
fabbriche avviarono la protesta; le donne bianche, nel frattempo, difendevano il diritto all’istruzione
extradomestica e ad una conseguente carriera.
Fra il 1830 e il 1840 comunque le donne bianche – sia casalinghe che lavoratrici – dimostrarono il
loro sostegno al movimento abolizionista. Nel 1833, quando nacque l’ Anty – Slavery Female
1 La rivolta di Nat Turner fu così definita perché fu promossa dallo schiavo Nat Turner che guidò alla ribellione gli schiavi nel Contea di Southampton (Virginia) nel 1831.
Society di Philadelphia, le donne che manifestavano la loro simpatia per le nere era talmente tante
da gettare un ponte tra le due categorie. Questa società venne fondata da un personaggio che
all’epoca era semplice donna con delle idee ben chiare sul suo ruolo e che divenne il fulcro del
movimento abolizionista: Lucretia Mott.
Tra le donne pioniere di questo periodo troviamo tre personaggi di spicco: Prudence Crandall e le
sorelle Grimke.
Prudence Crandall era un’insegnante bianca di Canterbury (Connetticut) che accettò nella sua
scuola un ragazza di colore. I genitori delle ragazze bianche che frequentavano l’istituto
organizzarono un boicottaggio a cui fu data ampia pubblicità all’accaduto; ma l’insegnante continuo
la sua battaglia e anzi decise di permettere l’iscrizione a nuove scolare e, se fosse stato possibile, di
creare una scuola per sole ragazze nere. Prudence riuscì in quest’ultimo intento , sfidando però l’ira
del paese che si rifiutò di collaborare con lei, dalle medicine per lei e le sue scolare, alla rabbia dei
giovani teppisti che più volte incendiarono la scuola.
Le sorelle Grimke – Sarah e Angelina – della Carolina del Sud collegarono con maggiore coerenza
la questione della schiavitù con la vita delle donne oppresse. Nate in una famiglia schiavista, le
sorelle Grimke svilupparono un’avversione per l’istituzione particolare che si viveva al Sud e
decisero di trasferirsi al Nord. Così nel 1836 cominciarono a tenere le loro prime assemblee nel
New England, dove raccontavano della loro esperienza personale con gli schiavi della loro famiglia;
a queste riunione parteciparono anche gli uomini realizzando qualcosa che era senza precedenti:
ascoltare una donna in pubblico senza che questa venisse disprezzata per il suo comportamento
poco femminile e non decoroso. Ma si parla sempre di un ristretto numero di uomini.
Nei loro discorsi iniziali. Infatti, non c’era nessun accenno alla condizione sociale delle donne, ma
dopo gli attacchi maschilisti si accorsero che se non si attivavano queste sarebbero state sommerse
dal potere maschile. Così Angelina contrattaccò con le sue conferenze, mentre Sarah scrisse una
serie di lettere Sull’uguaglianza fra i sessi e la condizione delle donne.
Sarah nelle sue lettere affermò chiaramente che l’uomo e la donna erano stati fatti da Dio a sua
immagine e somiglianza e che, pertanto, ciò che era giusto per uno era giusto anche per l’altro
sesso.
Angelina, invece, nei suoi discorsi s’impegno a far aprire gli occhi alle donne del Nord; nel suo
discorso Le schiave bianche del Nord, Appello alle donne degli stati nominalmente liberi (1837-
1840 ca) disse:
Care sorelle in un paese in cui le donne vengono
degradate e brutalizzate, e dove i loro corpi nudi
sanguinano contro la sferza, dove vengono vendute ai
macelli dei “mercanti di negri”, derubate dei loro sudati
guadagni, strappate dai loro mariti e depredate con la
forza della loro vistù e della loro prole; è del tutto
normale che loro desiderino conoscere le ragioni di
questo gesto. Quindi, non ammettiamo e non possiamo
ammettere il punto di vista secondo il quale, siccome si
tratta di una questione politica, le donne dovrebbero
incrociare le braccia e chiudere occhi e orecchie [...] e se
non abbiamo il diritto di agire, allora possiamo ben
essere definite “Le schiave bianche del Nord”
Spesso si suppone che la conversazione avvenuta Lucretia Mott e Elisabeth Cady Standon, dopo
il primo congresso antischiavista mondiale avvenuto a Londra nel 1840, abbia dato il via
movimento femminista organizzato negli Stati Uniti, acquistando un significato in qualche modo
leggendario.
Il problema di quel congresso è che le americane che vi parteciparono furono completamente
escluse dal voto e Lucretia Mott, come altre donne che provenivano dall’ American Anty – Slavery
Society, rimasero ovviamente indignate. Da quel congresso si prese sempre più atto di questa
situazione in tutte le donne presenti e, molte di loro, risposero all’appello del primo convegno sui
diritti della donna di Seneca Falls.
Prima di dare il via al convegno Elisabeth Standon presentò la sua proposta a Lucretia Mott, una
proposta fin troppo all’avanguardia che a Lucretia Mott, rifiutò di portare avanti: dare potere
politico alle donne, il diritto al voto. Il motivo per cui la proposta della Standon fu, infine, presa in
considerazione lo si deve a Frederick Douglass2
2 Frederick Douglass, il cui vero nome è Frederick Augustus Watshington Bailey, fu un politico, scrittore, editore, oratore, riformatore, abolizionista e grande sostenitore del diritto di voto. Fu un personaggio di grande spicco per la storia americana e fu il primo vicepresidente afroamericano per il Partito per l’eguaglianza dei diritti.
che difendeva apertamente il diritto politico delle
donne, inserendo in un pubblico editoriale, chiamato I diritti delle donne e promuovendolo, anche i
movimenti di liberazione dei neri.
La difesa dei diritti alle donne, quindi, non poteva essere negata, ma in cosa consisteva?
La Dichiarazione di Seneca Falls poneva l’accento sul matrimonio con i suoi molti effetti dannosi:
spogliava le donne dei loro diritti di proprietà; faceva dipendere le donne dai mariti tanto
economicamente che moralmente e le leggi sul divorzio constatavano la supremazia maschile. Poi
le disuguaglianze scolastiche e nelle professioni, infatti gli impieghi vantaggiosi e retributivi erano
inaccessibili alle donne. Ed infine la dipendenza mentale e psicologica delle donne.
Questa dichiarazione racchiudeva in sé anni di lotte clandestine e silenziose e le portava alla luce in
solo documento. Ma aveva una pecca non indifferente: era un documento di donne borghesi che
pertanto ignoravano quelle operaie bianche e le donne nere.
Per quanto riguarda queste ultime, queste vivevano nel Sud in cui lottavano contro la schiavitù e nel
Nord in cui lottavano contro il razzismo. Mentre a Seneca Falls, dove c’è almeno un nero nei
documenti, non c’era nemmeno una nera in tribuna.
Tuttavia per quanto le prime attiviste si fossero mostrate immemori ai diritti delle donne, soprattutto
alla condizione delle sorelle nere, l’eco del loro movimento rimbalzò anche nel movimento di
liberazione schiavista. Infatti ,nel 1848 venne attivato il Congresso Nazionale per la Liberazione
degli Schiavi e sull’Uguaglianza delle Donne.
Due anni dopo il Seneca Falls, si tenne a Worcester, nello Stato del Massachusetts, il primo
Convegno Nazionale sui Diritti delle Donne.
Invitata speciale: Sojournet Truth. Le sue parole e i suoi discorsi testimoniarono l’unità con le
donne nere che aspiravano ad essere libere non solo come nere ma anche come donne. Non sono
una donna? è stato lo slogan dei movimenti ottocenteschi delle donne.
La presenta di Sojournet al raduno spazzò via ogni tipo di pregiudizio sulle donne, dotata com’era
di carisma e di oratoria, smontò la presunta debolezza delle donne, affermando che erano molto più
forti di quello che un uomo voleva o poteva credere. Fu l’unica nera partecipante a quel convegno
aveva fatto quello che nessuna delle sue sorelle bianche era stata in grado di fare e fu applaudita
come eroina del giorno. Non solo aveva sopraffatto le teorie sul sesso debole, ma aveva anche
confutato una teoria cristiana che diceva che le donne non avevano diritto al voto perché Cristo era
un uomo:
E da dove è venuto Cristo? Da Dio e da una donna!! L’uomo
non c’entrava proprio niente
[...]Ho arato, ho piantato, e lavorato nelle stalle e nessun
uomo poteva comandarmi! E non sono donna? Ho lavorato e
mangiato quanto un uomo e anche sopportato la sferza! E
non sono donna? Ho messo al mondo 13 figli e quasi tutti me
li hanno tolti per venderli in schiavitù, e quando ho pianto
tutte le mie lacrime di madre solo Gesù mi ascoltava. E non
sono forse Donna?
Il “Non sono forse donna?” di Sojournet Truth aveva implicazioni profonde: aveva lasciato un
solco nella mancanza delle donne bianche nel coinvolgere le donne nere che, solo più tardi,
lodarono. Infatti non furono poche le donne bianche che all’inizio del convegno si opposero a
sentire la sua parola. Nel decennio tra il 1850 e il 1860 i convegni locali e nazionali attirarono un
numero crescente di donne verso la campagna per l’uguaglianza. Non fu insolita la partecipazione
della Truth che conferiva uno spirito pungente ed audace alle donne schiave e libere.
Allo scoppio della seconda guerra di secessione le donne bianche si ritrovarono a portare avanti la
causa unionista. Elisabeth Strandon, Lucretia Mott e Susan B. Antony viaggiarono per lo Stato di
New York portando l’idea dell’unione nell’emancipazione e si accorsero solo allora di quanto era
forte e sentito il razzismo.
Sia la Standon che la Antony convennero, con gli abolizionisti, che la guerra sarebbe potuta finire in
fretta se gli schiavi fossero stati liberati e arruolati nell’esercito unionista. Queste donne si riunirono
nel Women’s Loyal League cercando di far girare petizioni per la loro causa.
La risoluzione presentata affermava che non si sarebbe mai stata pace “finché i diritti civili e politici
di tutti i cittadini di origine africana e di tutte le donne” non si fossero istaurati. Il tredicesimo
emendamento che aboliva definitivamente la schiavitù passo al senato nel 1864, ma divenne
effettivo il 6 dicembre 1865 quando anche la Georgia ratificò la proposta.
1.3 Il razzismo delle donne bianche e il post-liberazione
Il 26 dicembre 1865 Elisabeth Cady Standon inviò una lettera al direttore del New York Standard
con delle idee discutibilmente razziste:
The black man is still, in a political point of view, far
above the educated white women in this country. The
representative women of the nation have done their
uttermost for the last thirty years to secure freedom for
the negro; and as long as he was lowest in the scale of
being, we we willing to press his claims; but now, as
the celestial gates to civil rights is slowly moving on its
hinges, it becomes a serious question whether we had
better stand aside and see 'Sambo' 3 walk in the
kingdom first4
Parafrasando il discorso della Standon, lei dice che, all’inizio donne e neri erano vicini poiché
emarginati e oppressi dalla società, ma ora che i neri si stavano rialzando e stavano avanzando con
una parte dei diritti che erano frutto anche del lavoro delle femministe, era meglio allontanarsi da
loro per una questione di sopravvivenza sociale, affinché anche le donne ricevano le soddisfazioni
di questo progresso.
La lettera sciagurata della Standon sollevò molteplici proposte al punto che venne stabilito, nel
1866, un convegno a New York, l’ Equal Rights Association, che fondesse le lotte dei neri con
quelle delle donne. Il tentativo del convegno era quello di creare un unità che potesse essere stabile
sia per gli uomini neri che per le donne. Tuttavia anche quel convegno fu impregnato di razzismo,
Henry Beecher, per esempio, fece un discorso molto eloquente che con concluse con “Dico che è
più importante che votino le donne che non i neri”. Questa tesi venne portata avanti dalla Stanton,
che la recitò alla prima riunione annuale dell’ Equal Rights Association.
3 “Sambo” è un termine dispregiativo che indica la mescolanza razziale tra persone di pelle diverse. 4 L’uomo nero è, dal punto di vista politico, ancora al di sopra delle donne bianche istruite del paese. Le donne di questo paese hanno dato tutte loro, negli ultimi trent’anni, per assicurare la libertà al negro, che al tempo era nella più bassa scala sociale, noi siamo state disponibili a far valere le sue pretese. Ma ora , che come i celesti cancelli dei diritti civili, si sta muovendo sui cardini, la questione si sta facendo seria e noi faremmo meglio a farci da parte e vedere i “Sambo”” per primi nel regno.
La Standon arrivò al punto di rimangiarsi il passato affermando che le donne avevano fatto male a
sostenere il Sud Schiavista nella guerra di secessione. Infatti, dopo la vittoria, lei e altre donne
chiesero ai Repubblicani, favorevoli all’abolizione della schiavitù, di ottenere il premio per i loro
sforzi, come se fosse stato stabilito, il premio era, per loro, il diritto al voto. Ovviamente, i
repubblicani non concessero alcun premio o merito alle donne.
Infatti, bisogna notare che, per i repubblicani, la guerra era stata solo una mossa economica:
l’unione della nazione significava il dominio economico capitalista e anche la promessa del voto ai
neri, appena dopo la firma dell’abbassamento della schiavitù, era un’altra mossa politica per
garantire ai repubblicani l’egemonia anche nel sud dell’America, un voto che, tra l’altro, valeva
solo per i neri maschi e non per entrambe le categorie sessuali.
Quindi, quando l’Equal Right decise di muoversi verso il quattordicesimo emendamento5
La reazione delle donne bianche mostrò quanto fosse fragile la loro alleanza; loro non credevano
che la liberazione dei neri avrebbe condotto loro più vicini ai bianchi, ma che li avrebbe condotti a
pari merito con le donne: cittadini degli Stati Uniti senza riconoscimenti effettivi. E invece la
situazione sembrava andare verso un’altra direzione.
, queste
donne, capitanate dalla Standon, si sentirono profondamente tradite (dopo IVX emendamento, ci fu
anche il XV che proibiva di affidarsi alla razza, al colore o ad altre caratteristiche fisiche per privare
un ex schiavo del diritto al voto).
Molti sostenitori dei diritti alle donne vedevano il voto come fine a se stesso e per tale motivo tra
questi c’erano anche molti razzisti e le donne, del fronte Standon - Antony non si preoccuparono
affatto della loro provenienza e anzi lodavano il loro rappresentati, come James Brooks, direttore di
un giornale schiavista. Ad appoggiare ancora le donne c’erano anche i democratici che, all’epoca,
facevano i voleri dei proprietari di schiavi, quindi contrari categoricamente alla liberazione degli
stessi. Tra questi democratici ci fu George Francis Train che disse a chiare lettere “le donne per
prime e i negri per ultimi” offrendosi anche di finaziare Elisabeth Cady Standon e Susan B. Antony
nelle loro conferenze elettorali; nonostante i pareri discorsi sulla figura di quest’uomo, la Standon
ed la Antony accettarono la sua offerta.
All’alba del 15° emendamento, l’ Equal Rights Association tenne un nuovo congresso. Siamo nel
1869 e probabilmente tutti sapevano che era l’ultima occasione per tenere insieme quel progetto
fallimentare, ma Douglass provò, comunque, a convincere le donne sull’importanza della campagna
5 si tratta del primo emendamento cd. “della Ricostruzione”, poiché è nato dopo la guerra secessione ed ero atto a garantire ai neri la cittadinanza e la protezione legale da parte dello Stato come se loro fossero bianchi
dei neri, ponendo l’accento sulla condizione nella società. Douglass, nel suo discorso, mostrò come
il razzismo nei confronti dei neri era ben oltre il limite della decenza umana e quindi ben oltre la
condizione delle donne; con ciò non voleva sminuire la loro richiesta, ma anzi vedeva nella buona
riuscita del 15° emendamento, metà del loro lavoro realizzato: bisognava lottare ancora per la
seconda parte, ma sempre insieme. Non ci fu nulla da fare: nel 1869 si sciolse l’Equal Rights
Association e la Standon e la Anthony fondarono la Nation Woman Suffrage Association.
Ma come vivevano questa situazione le donne nere? Dopo un quarto di secolo di libertà, un
immenso numero di nere lavorava ancora nei campi. Quelle che avevano lavorato per le “grandi
case” si videro preclusa ogni tipo di possibilità, a meno che non volessero lavare a casa più panni di
famiglie bianche, invece che servirne una sola. Solo un numero effimero di loro era riuscito a
scappare dalle campagne, dalle case e dal lavoro domestico.
Nel 1890 c’erano 2.700 ragazze e donne nere di oltre 10 anni che lavoravano: 38% di loro per
lavori salariati, il 30% per lavori di casa, il 15% per lavori di lavanderia e solo il 2% per lavori di
fabbrica.
Come durante la schiavitù, le nere che lavoravano all’agricoltura non erano meno oppresse degli
uomini al loro fianco. Spesso erano costrette dalla fame a ripristinare contratti con i proprietari
terrieri per ricreare le situazioni preesistenti la guerra; in realtà questi contratti non avevano fine,
erano solo formali, poiché il proprietario terriero poteva affermare, al termine del contratto, che il
debito non era stato ripagato.
In sostanza gli uomini e le donne nere si trovarono a vivere una forma di “peonaggio6
”. Il problema
stava nel fatto che gli stessi peones non possedevano denaro, poiché dopo la guerra il Sud era
arretrato di cinquanta anni per la mancanza di schiavi, e spesso erano costretti ad ipotecare gli stessi
terreni o gli stessi prodotti che i neri lavoravano. In questa situazione bastava un minimo che i neri
venissero arrestati e costretti ai lavori forzati e, uomini e donne, si trovarono ancora a lavorare
insieme, appoggiati allo stesso recinto o legati allo stesso palo. Al congresso per la fondazione della
Afro-American Legue nel 1890 venne denunciata proprio questa situazione, il sistema penitenziario
e le punizioni dei neri non corrispondenti in alcun modo al danno arrecato allo Stato.
Sempre durante il periodo successivo, chi non lavorava nei campi, nella maggior parte dei casi,
diventava domestica. Le domestiche non erano trattate meglio delle loro sorelle mezzadre, anzi il
6 i peones spagnoli concedevano del denaro che tu ripaghi lavorando loro la terra
loro lavoro rispettava in tutto e per tutto l’ideale di schiavitù domestica e agli occhi del padrone non
era cambiato nulla. Nel 1919 la Colored Woman National Association si ribellò a questa
situazione, soprattutto alla condizione del lavoro domestico per quanto riguardava la loro
“esposizione a tentazioni morali” sul lavoro, quindi agli abusi sessuali. Il problema è che fu proprio
in questo periodo che nacquero miti sulle donne nere, sulla loro “immoralità”, “promiscuità” e
“incapacità”, tutte idee che in realtà erano frutto della volontà maschile e non di quella femminile.
Quando i neri cominciarono ad emigrare al Nord scoprirono ben presto che la loro condizione non
migliorava. Il razzismo lavorava sotto l’acqua. Nessuno aveva mai pensato di complimentarsi con la
donna di colore per il suo lavoro, perché quello era ciò a cui era destinata. Naturalmente in tutta la
letteratura la schiava nera era sempre molto riconoscente e paziente nei confronti dei suoi padroni;
le nere erano costrette a questo mestiere per loro stessa natura e fu così fino all’avvento della
seconda guerra mondiale. Ancora negli anni 40 a New York e in altre città c’erano dei mercati in
cui le donne bianche potevano scegliere tra le domestiche nere (New York poteva contare ben
duecento di questi mercatini, la maggior parte nel Bronx). Le bianche – femministe comprese –
hanno mostrato una storica riluttanza a riconoscere le lotte delle lavoratrici della casa; infatti nei
programmi delle femministe borghesi non era presente alcuna traccia che riguardasse lo
sfruttamento delle loro cameriere. Le femministe borghesi esercitavano le stesse oppressioni che
abolivano per le donne bianche; in sostanza, il lavoro dei loro domestici non era riconosciuto come
tale perché loro in quanto domestiche erano inferiori alle donne bianche: la domestica era un
estensione delle donne bianche, le padrone, che la comandavano. Come si diceva fino alla seconda
guerra mondiale non ci furono cambiamenti per le domestiche, quando, però, gli Stati Uniti
entrarono in guerra, fu il tempo della fabbrica e furono le braccia delle donne nere, allontanatesi
dalla mura domestiche, a tenere in piedi il mercato bellico.
1.4 Il voto alle donne
Come si era già anticipato nell’introduzione al capitolo, l’ottenimento del diritto al voto per le
donne bianche borghesi non può essere scisso da quello di altre due categorie: le suffragiste nere e
le donne lavoratrici.
Analizziamo quindi la condizione operaia. In questo periodo una donna che lavorava era una donna
che era uscita dal suo posto di madre e moglie. Le donne di classe medie guardavano a queste
donne con disprezzo: infatti le donne che avevano la possibilità economica di lavorare in casa si
dovevano attenere a certi modi e costumi che, invece, le donne proletarie non potevano permettersi,
di conseguenza queste portavano il marchio del loro lavoro maschile.
L’unico vantaggio concesso alle donne lavoratrice era il soddisfacimento sessuale in quanto,
appunto, erano considerate degli uomini. Ma non essendoci contraccezioni questa possibilità era
decisamente negativa. Le donne bianche e le donne nere proletarie decedettero quindi, non avendo
molto da perdere, di darsi alla prostituzione, abbandonando ogni tipo di dignità o di valore. Nel
frattempo dei “riformatori” di classe media diedero vita a delle associazioni per il recupero della
purezza sociale di queste donne in degrado; generalmente queste tecniche compresero la
costruzione di orfanotrofi caritativi per i figli di queste donne e di riformatori femminili che
fornivano un’educazione contro la repressione sessuale, anche se ormai la vita di una prostituta era
irrimediabilmente rovinata avendo già perso la sua verginità.
Le donne lavoratrici, di conseguenza, trovavano poco interessanti le richieste della classe media.
Il voto, i diritti e altri punti della riforma sociale erano insignificanti rispetto ai loro problemi:
l’unica cosa che a loro interessava era il conoscere il “segreto” per non avere figli, ma l’unica
risposta che venne data loro era l’astinenza e quindi si beffano di chi gliela raccomandava.
Le donne lavoratrici erano a stretto contatto con il mondo maschile: guadagnavano soldi e
partecipavano alla produzione sociale, di conseguenza, si unirono agli uomini nei movimenti operai
e dei sindacati.
Nel gennaio del 1868 le lavoratrici avevano cominciato a difendere apertamente i loro diritti.
Durante la guerra di secessione e subito dopo, le cucitrici costituivano il gruppo più ampio di donne
che lavoravano fuori casa. Quando cominciarono ad organizzarsi la loro espansione andò da New
York, a Boston, a Philadelphia e fondarono la National Labor Union.
In seguito il consiglio si riunì nuovamente e si fondò la National Colored Labor Union, del 1869,
dove le donne nere furono le benvenute; questo tipo di associazione dimostrava di essersi impegnata
con maggiore attenzione verso i diritti delle donne nere, molto di più di quanto avessero fatti i loro
colleghi bianchi, al punto che loro elessero una donna di colore (Mary S. Carey).
La richiesta della giornata lavorativa di 8 ore insieme allo slogan antisessista “paga uguale per
lavoro uguale” portarono a dei risultati visibili come scioperi, strategie e obiettivi. Il movimento si
unì ben presto a quello promosso dalla Standon e della Anthony, ma pur dando degli importanti
contributi alla causa delle lavoratrici, queste non accettarono mai fino in fondo il principio di
sindacalizzazione. Non abbracciarono mai i principi di unità di classe, così come non avevano
abbracciato appieno la situazione dei neri.
Agli occhi delle suffragiste, la donna era il criterio decisivo: se la causa delle donne poteva essere
fatta progredire, non era sbagliato per le donne fare le crumire, quindi continuare a lavorare, quando
gli uomini scioperavano. Ovviamente la Anthony per questa sua idea venne cacciata dalla National
Labor Union. Certo le donne erano centro del discorso della Anthony e della Standon, ma non tutte.
La donna nera non era compresa. Inoltre le donne bianche della classe operaia non erano veramente
interessate al diritto al voto, loro sfruttavano il potenziale del movimento suffragista per far sentire
la loro voce, ma erano occupate da ben altri problemi. Il problema della visione femminista di
Susan B. Anthony stava nel fatto che vedeva il voto come il vero segreto dell’emancipazione della
donna e che il sessismo era di gran lunga più oppressivo della disuguaglianza di classe e del
razzismo.
In questo pensiero sta la cortina fumogena dell’intero movimento femminista borghese, che non
vedeva quanto le lavoratrici e le donne nere erano pienamente legate ai loro uomini in uno
sfruttamento di classe che non conosceva sesso e colore. Se gli uomini opprimevano le donne, loro
pure avevano un nemico, un nemico anche delle donne, che era il padrone, il capitalista.
Nonostante ciò l’intero movimento delle nere continuava a puntare al voto, anche se le donne
bianche non le accogliessero. Infatti, diversamente dalle loro sorelle bianche, le suffragiste nere
godevano dell’appoggio di molti dei loro uomini: proprio come nell’800 c’era stato Frederick
Douglass, nel 900 a difendere le nere c’era William Edward Burghardt Du Bois, meglio noto solo
con Du Bois.
Come difensore maschio questo personaggio non aveva pari fra gli uomini, bianchi e neri. Il suo
attivismo e la sua eloquenza, lo spinsero ad essere definito come il più autorevole difensore maschio
dell’uguaglianza politica delle donne.
Le donne nere erano state tradite, disprezzate e respinte dalla donne bianche e, quindi, quando si
andò al voto per il 19° emendamento furono proprio gli Stati del Sud a bocciare l’emendamento e
quasi rischiavano di non farlo passare.
Dopo tante lotte, la vittoria appena ottenuta del voto alle donne, non comprendeva tutte le donne di
colore: alle nere del Sud fu ovviamente impedito di esercitare il loro diritto al voto. Esplose il Ku
Klux Klan e a mala pane si poté udire un grido di protesta, per la condizione di quelle donne, da
parte delle donne bianche che tanto avevano difeso quel diritto.
Capitolo 2
Le donne durante l’epoca fascista: dalla
donna bianca alle colonie africane
2.1 Le donne bianche I primi Fasci femminili erano sorti nel 1920 e prima della marcia su Roma avevano sporadicamente
affiancato i Fasci maschili anche in qualche azione squadrista. Ma dallo statuto del 1921 in poi, la
loro funzione fu definitivamente circoscritta nel campo della propaganda e dell’assistenza. Il
fascismo riservò sempre l’attività politica, in senso proprio ai maschi mentre concepì il ruolo della
donna determinato esclusivamente dalla sua funzione di sposa, di madre e di educatrice familiare. Il
fascismo ostentò la sua avversione per l’emancipazionismo femminista, opponendogli il modello di
nuova femminilità che ricalcava i modelli tradizionali di sottomissione della donna all’uomo.
Tuttavia, nelle forme sue proprie, la politica totalitaria del partito introdusse una mobilitazione delle
donne fuori dell’ambito familiare e privato, coinvolgendole, a vari livelli, nell’organizzazione del
partito, per l’esecuzione del programma di fascistizzazione delle coscienze e dei comportamenti.
Alla donna, in quanto sposa e madre, era affidato il compito di fare figli per la patria e di educare
“l’uomo fascista” nei suoi primi anni, ma essa doveva impegnarsi anche fuori della famiglia, al
servizio del partito, per l’espletamento delle attività assistenziali,
sulle quali si basava larga parte della politica totalitaria rivolta alla
conquista del consenso fra le masse. Il fascismo ha ereditato le
divisioni di genere tradizionali spingendole all’esasperazione
attraverso la sua estetica virile e la sua visione della donna come
madre prolifica, riproduttrice della razza e “angelo del focolare”. Un
manifesto belga della Prima guerra mondiale mostra un’infermiera
dall’aspetto angelico con un grembiule munito di ali soccorritrici. In
un celebre manifesto americano degli stessi anni – The Greatest
Mother in the World – appare un’infermiera che tiene tra le braccia,
come un neonato, un soldato ferito disteso su una barella.
Da un lato i fascisti condannavano tutte le pratiche sociali connesse con l’emancipazione femminile,
dal voto al lavoro extradomestico, al controllo delle nascite, cercando per lo più di estirpare quegli
atteggiamenti volti all’affermazione dei propri interessi individuali che sottostavano alle richieste di
autonomia e uguaglianza da parte delle donne. Dall’altro lato, nel tentativo di accrescere la forza
economica della nazione e di mobilitare ogni risorsa disponibile, inclusa la capacità riproduttiva
delle donne, i fascisti finivano inevitabilmente per promuovere quegli stessi cambiamenti che
cercavano di evitare. Le istituzioni fasciste, infatti, nello stesso momento in cui restauravano
nozioni antiquate di maternità e paternità, femminilità e virilità, richiedevano nuove forme di
coinvolgimento sociale: come in altri ambiti della vita sociale, il regime affermava l’intenzione di
ripristinare il vecchio mentre suo malgrado promuoveva qualcosa di nuovo. La ridefinizione dei
rapporti tra i sessi andò di pari passo con un riordinamento delle istituzioni economiche e politiche
volto a rassicurare gli interessi conservatori a fronte delle nuove incertezze sul terreno economico e
dei rischi connessi alla democratizzazione della vita pubblica. Alla vigilia della Grande Guerra si
stava ormai profilando una nuova “politica della vita”, permeata da darwinismo sociale, ispirata al
principio della lotta per la sopravvivenza. I programmi di eugenetica 7
7 La parola eugenetica a rigore fa riferimento allo studio dei metodi volti al perfezionamento della specie umana attraverso selezioni artificiali operate tramite la promozione dei caratteri fisici e mentali ritenuti positivi.
e di previdenza sociale
dovevano servire a due obiettivi principali: impedire il declino della forza dello Stato nei rapporti
internazionali, accrescere il suo controllo sull’insieme della popolazione. Nella misura in cui la
diversità razziale e l’emancipazione femminile erano viste come ostacoli al perseguimento di questi
obiettivi, la “politica della vita” finiva per identificarsi con l’antifemminismo e l’antisemitismo. La
strategia mussoliniana di costruzione e rafforzamento del regime aveva ripercussioni decisamente
negative sulla condizione delle donne italiane, specialmente se appartenenti alle classi operaie e
contadine. La politica demografica cercava di stabilire un controllo sempre maggiore sul corpo delle
donne, e in particolare sulla loro funzione riproduttiva; al contempo il regime cercava di restaurare i
modelli familiari tradizionali basati sull’autorità maschile. Per rendere le donne più adeguate al
complesso sistema di richieste che veniva loro rivolto, oltre che per sfruttare il loro desiderio di
identificarsi e di servire la comunità nazionale, il regime cercò un difficile equilibrio tra
modernizzazione e emancipazione. Mentre si cercavano nuovi tipi di organizzazione che
consentissero di soddisfare il desiderio di impegno pubblico delle donne, si reprimevano le varie
forme di solidarietà femminile e i valori di libertà, individuale e politica, in precedenza promossi
dalle associazioni femministe. Lo sviluppo economico implicava anche processi di urbanizzazione
con la relativa separazione tra l’abitazione (il luogo dell’attività riproduttiva) e il luogo di lavoro.
Mentre alcune donne sarebbero rimaste ancora più isolate tra le mura di casa, altre, la maggioranza,
dovevano essere introdotte nelle forme più libere di socialità tipiche della vita cittadina. Infine, lo
sviluppo economico non poteva non accompagnarsi alla crescita del consumo di massa del tipo
ormai in atto nella società americana. La radio, il cinema, i grandi magazzini, la stampa femminile, i
rotocalchi suggerivano nuove forme di espressione individuale e di gruppo, nuovi stili di vita e
nuove modalità di impiego del reddito disponibile. Il modo in cui le donne interagirono con la
propria famiglia, con la società e con le altre donne, fu certamente il risultato di un insieme di
politiche riguardanti la crescita demografica, il mercato del lavoro, i programmi educativi,
scolastici, culturali. Ma non meno importante fu l’iniziativa delle donne: il modo in cui risposero,
individualmente e collettivamente, alle nuove abitudini del consumo di massa, ai nuovi modelli di
gestione della famiglia e di educazione dei figli, alle nuove occasioni di vita sociale offerte dalle
organizzazioni femminili fasciste e cattoliche, dai più informali rapporti di vicinato, alle
associazioni femministe rimaste in vita. La trasformazione della cultura politica delle donne deve
essere considerata in un contesto più ampio, per vedere non solo cosa il fascismo chiedesse ai suoi
gruppi femminili, ma anche come le donne mettessero in rapporto i propri obiettivi individuali, i
bisogni della famiglia e i doveri sociali, con le istituzioni e i programmi politici del regime. In
questo contesto, non sorprende che il movimento delle donne in Italia – e forse le donne in generale
– abbia sviluppato un atteggiamento ambivalente, se non antagonistico, nei confronti dell’ideologia
e delle istituzioni liberali. Le prime a parlare di emancipazione furono pertanto le donne della classe
operaia e del ceto medio inferiore, per lo più lavoratrici di fabbrica, impiegate, insegnanti delle città
industriali del nord. Con l’intensificarsi delle spinte emancipazioniste all’inizio del secolo, emersero
tre grandi correnti nel movimento femminile: la prima traeva origine dai gruppi di donne lavoratrici
aderenti al movimento socialista, ma anche le donne cattoliche presero a organizzarsi, dopo il 1908,
per differenziarsi dai gruppi laici. I punti di dissenso erano il divorzio, il diritto di voto, l’influenza
della Chiesa nella scuola. C’è infine il movimento borghese: il Consiglio nazionale delle donne
italiane, fondato nel 1903, la milanese Unione femminile nazionale, l’Associazione della donna di
Roma e parecchi altri gruppi minori. I tre movimenti, per quanto differissero nelle finalità, nelle
tattiche e nei legami con partiti e associazioni dominati dagli uomini, avevano un obiettivo comune:
i diritti civili per le donne.
2.2 Un’Italia né bianca né nera All’inizio del XX secolo il progetto di un’Italia unificata era ben lungi dall’essere compiuto. Ciò
non dipendeva esclusivamente dal fatto che l’Italia doveva ancora organizzare il suo potere sulle
popolazioni annesse, ma anche dal fatto che mancava di una identità nazionale forte e
universalmente riconosciuta. Era assente l’idea di appartenenza nazionale che potesse fungere da
collante per la molteplicità di identità locali racchiuse dentro i confini dello Stato – nazione. Una
declinazione dell’identità nazionale era imprescindibile da una precisa impronta di razza. A quel
tempo il Sud, così come le zone rurali e di montagna del Centro e del Nord, veniva descritto come
una sorta di corpo estraneo – sia culturalmente, socialmente che politicamente – da addomesticare e
rendere coerente al resto del Paese. Seguendo una logica che è stata definita da Suzanne Stewart –
Steinberg di colonialismo interno, l’inferiorità e l’infantilismo dei meridionali dovevano essere
recuperati al progresso e al progetto nazionale. La tesi della deaerazione razziale che fin da Roma
era stata causata dalle influenze africane e asiatiche – già avanzata da Darwin – era stata teorizzata
in Italia da uno dei più influenti scienziati del tempo, Cesare Lombroso. L’influenza corrutrice dei
due ceppi inferiori sui meridionali , e sui calabresi in particolare, poteva emergere, singolarmente o
combinata, nel fenotipo o nel comportamento, in particolare nel carattere. Il risultato della
circolazione del darwinismo sociale e delle teorie anti-meridionaliste all’interno dei confini
nazionali e all’estero fu quello di indurre forme di discriminazione e segregazione dei meridionali
neri, che impedivano la loro rappresentazione a auto – rappresentazione in quanto italiani e bianchi
in madrepatria e nei Paesi riceventi. All’interno del fenomeno dell’emigrazione si sviluppò un’idea
di italianità che non coincideva con quelle che il capitalismo industriale del Nord voleva dominante.
Inoltre la differenza culturale/fenotipica del meridionale, coerentemente con quanto affermato da
Lombroso, la posiziona al di fuori del perimetro che definisce lo spazio sociale politico della nuova
nazione. In tal senso, nessuna unificazione culturale poteva essere concepita a meno
dell’espulsione/esclusione di un settore significativo della popolazione che abitava la Penisola. Fu
solo con il 1927 che l’Italia, sotto il regime fascista, decise di porre un freno all’emigrazione di
massa, approvando una legge che formalizzava l’idea di emigrazione come perdita demografica,
indebolimento nazionale e vergogna storica. La forza di una nazione dipendeva, secondo la
rielaborazione delle posizioni pro-nataliste da parte delle dottrine fasciste, dalla sua crescita
demografica: se dalla nazione si usciva, questo flusso doveva avere come meta esclusiva le colonie.
2.3 Le colonie africane e il mito della donna nera La rappresentazione delle donne africane tanto nella fotografia quanto nel cinema, nella letteratura e
nelle canzoni, ha svolto un contributo fondamentale nella costruzione dell’immaginario collettivo
italiano sull’Africa, fornendo un impianto culturale importantissimo per la legittimazione della
conquista e il rafforzamento del consenso popolare sull’impresa coloniale. L’importanza della
rappresentazione dell’Altro come inferiore nel discorso coloniale è stata ampiamente messa in luce
negli ultimi trent’anni dai postcolonial studies – a partire sopratutto dal pionieristico Orientalism di
Edward Said che, per primo, ha dimostrato quanto le scienze sociali, l’arte e la letteratura
costituiscano strumenti indispensabili per la costruzione e giustificazione del dominio coloniale.
Uno sforzo di definizione dell’alterità che non ha determinato solamente l’immaginario europeo
sulle colonie ma ha contribuito, specularmente, anche al rafforzamento di una certa idea
dell’identità occidentale. La costruzione di quest’immaginario collettivo – tramite l’appropriazione
visuale delle terre conquistate grazie alle nuove tecnologie del tempo come la macchina
fotografica e la cinepresa – rappresenta pertanto un elemento decisivo per definire le caratteristiche
della conquista e del dominio. Svariate ricerche in ambito internazionale hanno oltretutto dimostrato
quanto siano presenti, in questo tipo di discorso, riferimenti alle gerarchie di genere molto
significativi. Anche in Italia negli ultimi anni l’occupazione dell’Africa orientale è stata riletta
secondo quest’approccio d’analisi.
Le donne dell’Africa orientale furono infatti il soggetto più fotografato dai colonizzatori italiani,
tanto da generare un mercato estremamente fiorente di cartoline e fotografie. Una delle immagini
più ricorrenti fu quella della donna somala che, grazie anche alla diffusione di un’importante
letteratura esotica, divenne il simbolo di un’Africa “paradiso dei sensi”. Un territorio in cui il
maschio italiano riscopriva una primordiale virilità, conquistando quelle terre naturalmente
selvagge le cui donne erano considerate parti integranti del paesaggio. Come chiariscono Campassi
e Sega la donna africana diventa perciò il simbolo della conquista e l’azione colonizzatrice e
civilizzatrice viene rappresentata anche come il giusto dominio dell’uomo bianco europeo sulla
donna nera, secondo una precisa gerarchia di razza e di genere:
“La donna nera diventa il simbolo dell’Africa…e il rapporto uomo bianco-donna nera è simbolico
del rapporto nazione imperialista-colonia: l’uomo è colui che dà la sua virilità fecondatrice e
vivificante, la donna è colei che riceve da ciò un arricchimento nella realizzazione di sé come
completamento dell’espandersi dell’io maschile.”
L’immaginario popolare italiano sull’Africa si colloca pertanto in linea con quella che Anne
McClintock ha definito porno-tropics traditions, ossia quella tradizione culturale che, fin dalle
prime espansioni geografiche del XVI secolo, erotizzava lo spazio coloniale attraverso la
femminilizzazione delle nuove terre, rappresentate appunto come donne fertili, disponibili e passive
alla conquista. È utile quindi ricordare quanto l’accostamento colonia/donna sia un’immagine di
lunghissimo periodo che ha attraversato e condizionato, anche se in forme molto differenti, la
costruzione dei rapporti di dominio in tutte le esperienze coloniali. L’ambivalenza dell’immaginario
sulle colonie risiede proprio nell’accostamento tra l’attrazione sessuale delle donne indigene e il
pericolo di essere travolti da queste terre selvagge così lontane dalla civiltà. Un tema molto presente
anche nel colonialismo italiano, sopratutto quando inizieranno ad aumentare le condanne
all’eccessiva promiscuità in quanto causa del meticciato. Un quadro quindi che testimonia una sorta
di atteggiamento schizofrenico, in bilico tra l’immagine di un Africa ricca d’avventure erotiche, che
promettono una riscoperta della virilità e una rigenerazione dello spirito e il timore di perdere la
propria superiore identità europea, mischiando il proprio sangue con le africane e
rimanendo insabbiati nel territorio della colonia.
Le fonti visive (fotografie, cartoline e vignette) rappresentano una testimonianza fondamentale per
comprendere come si è formato quest’immaginario e, successivamente, quali novità sono
intervenute con la proclamazione dell’impero (1936) e la successiva promulgazione delle leggi
razziali (1937).
Malgrado l’intenzione del regime di dimostrare già dai primi anni la netta superiorità degli italiani
sugli africani e di scongiurare perciò il persistere dei temi dell’esotismo più romantico, lo stereotipo
dell’Africa, formatosi come si è visto nel corso del XIX secolo, era ancora fortemente presente
nell’Italia fascista, non solo nell’immaginario collettivo popolare ma anche nella letteratura, nella
pubblicità e nei mezzi di comunicazione visiva. La contraddittorietà nella rappresentazione delle
colonie raggiungerà con il fascismo, e con l’approdo finale di quest’ultimo al razzismo biologico, il
momento più eclatante. Se infatti l’immagine dell’Africa come paradiso dei sensi verrà ancora
alimentata dal regime – sia per spronare i soldati, sia per attrarre forza lavoro maschile necessaria
per il progetto di colonizzazione demografica – si svilupperanno parallelamente le tendenze più
specificatamente razziste che modificheranno la rappresentazione delle donne africane. È
importante però ricordare da subito che, seppur il periodo che va dalla proclamazione dell’impero
(9 maggio 1936) alle prime misure legislative per la difesa della razza rappresenti certamente un
momento di svolta, esso non costituisce una radicale rottura con il passato bensì l’esito di un
approccio razzista posto in essere già nel periodo liberale. È perciò necessario sciogliere questa
apparente contraddizione: la rappresentazione delle donne africane come prede sessuali era
funzionale al dominio coloniale fintanto che, giunti alla fondazione dell’impero, si decise di
affermare la netta superiorità degli italiani tramite un sistema di segregazione razziale che
necessitava di una disciplina e un’autodisciplina che coinvolgessero tutti gli aspetti della vita
quotidiana. La contraddizione tra il periodo coloniale e il fascismo è perciò soltanto apparente: il
nesso tra politiche razziali e politiche sessuali è decisivo e la rappresentazione della donna cambia
proprio in relazione alla trasformazione del colonialismo in un più ampio progetto di dominio
imperiale di cui il razzismo è una parte fondamentale.
Le cartoline, spesso fornite direttamente dall’Ufficio Storico della Milizia Volontaria di Sicurezza
Nazionale furono uno degli strumenti più utilizzati dal regime per diffondere il mito della Venere
nera tra le truppe, specialmente nella fase di preparazione e nei primi mesi della campagna di
Etiopia. Per combattere quindi in modo deciso la promiscuità tra italiani e africani e imporre così
una «naturalizzazione dei rapporti di dominio»[41], il razzismo già ampiamente diffuso diviene,
grazie a una capillare azione di propaganda voluta dal governo e sostenuta dal supporto
“scientifico” di antropologi e medici, un razzismo biologico che, sommato a un’escalation
legislativa, porterà al razzismo di Stato.
Capitolo 3
La donna nera oggi: analisi semiotica Dopo aver trattato storicamente la visione della donna di colore in America e in Italia, rimaniamo
nel nostro Paese e giungiamo ai giorni nostri per concentrarci sull’utilizzo della donna nera nelle
pubblicità. Tra le diverse campagne sociali e commerciali che vedono protagonista la donna nera,
abbiamo deciso di analizzare due cartelloni pubblicitari nei quali la donna in questione è associata a
prodotti italiani; pertanto, verranno svolte due analisi semiotiche: la prima sulla campagna sociale di
Benetton e la seconda sulla campagna commerciale della Kinder.
3.1 Campagna pubblicitaria sociale: United Color Of
Benetton
Nella campagna pubblicitaria proposta da Benetton (come si può vedere nell’immagine) si entra
subito nel centro della contrarietà: una donna nera allatta un bambino bianco. Questa foto, infatti, è
stata scattata per Benetton, nel 1989-90, da Oliviero Toscani, un fotografo di fama internazionale
noto per l’arte di creare immagini con forti contrasti che a proposto questa immagine come
messaggio contro la discriminazione razziale. Essa è stata in assoluto una delle più espressive e
toccanti immagini di Oliviero Toscani per Benetton tanto da essere stata la foto più premiata
dell’azienda, ma è, allo stesso tempo, fortemente criticata.
La foto in questione, infatti, è stata discussa dalle comunità americane bianche a causa della
rappresentazione di uno stereotipo di subalternità del ruolo di nurse delle donne di colore rispetto
alla razza bianca (non è presente, infatti, una foto di una donna bianca che allatta un bimbo nero).
Dal 1982 al 2000, Toscani ha trasformato l’azienda Benetton in uno dei marchi più conosciuti a
livello mondiale e, con il suo stile rivoluzionario e anticonformista, definisce la strategia di
comunicazione rifiutando i canoni pubblicitari tradizionali, soprattutto per la scelta dei temi e delle
atmosfere: il messaggio che Toscani e Benetton intendono lanciare è “c’è altro oltre al consumo e
noi lo diciamo”.
Il discorso pubblicitario è esplicitamente seduttivo, si identifica e si distingue semioticamente per il
suo carattere strategico, cioè generalmente volto alla valorizzazione positiva di un prodotto o di una
marca; l’intento di Alessandro Benetton, infatti, era il lancio di un messaggio, anche se
provocatorio, di accoglienza, un messaggio volto a “promuovere la vicinanza tra popoli, fedi,
culture, nella pacifica comprensione delle ragioni altrui mediante immagini volutamente forti”.
Questa foto fa parte della campagna pubblicitaria sponsorizzata dalla Fondazione Unhate, voluta e
fondata dal Gruppo Benetton, che cerca di contribuire alla creazione di una nuova cultura della
tolleranza per combattere l’odio e il razzismo. Tutto ciò rappresenta un passo importante nella
strategia di responsabilità sociale del gruppo: non un semplice esercizio cosmetico, ma un
contributo al concetto di “messaggio universale” che ha avuto un impatto reale sulla comunità
internazionale, in particolare attraverso il veicolo della comunicazione, raggiungendo attori sociali
di diverse culture. Nelle immagini di Toscani non compare il prodotto da vendere ma solo il logo:
Benetton condivide attraverso la sola comparsa del suo logo il messaggio sociale che Toscani vuole
comunicare e che è rivolto ai clienti/potenziali consumatori che condividono questi valori.
3.1.1 Valori profondi, PN e Enunciazione Effettuando una analisi semiotica, seguendo il percorso generativo di Greimas, si possono
considerare i seguenti quadrati semiotici:
Maternità Infertilità
Non infertilità Non maternità
Maternità vs Infertilità
Il valore prevalente è la maternità che viene assiologizzata positivamente; infatti la donna nera,
posta nel contesto dell’allattamento, acquisisce i pieni riconoscimenti materni con un valore
aggiunto in quanto allatta un bambino di un altro colore. Questo pone, quindi, l’accento sulla non
divisione razziale e sull’uguaglianza femminile.
Internazionalità Nazionalità
Non nazionalità Non internazionalità
Internazionalità vs Nazionalità
Il valore prevalente è l’internazionalità che viene assiologizzata positivamente. Il rapporto tra la
donna nera e il bambino bianco assume, infatti, i toni dell’uguaglianza e della solidarietà che vanno
oltre i confini territoriali e che voglio abbracciare l’intera umanità. La foto, scatta a cavallo tra il
1989 e il 1990, porta alla luce le problematiche tra nazioni, molto vive nel post guerra fredda, e
mostra una possibile soluzione: l’unione tra chi apparentemente sembra diverso.
Bianco Nero
Non nero Non bianco
Bianco vs Nero
Il valore nero viene assiologizzato positivamente poiché è il carattere distintivo della foto: la donna
nera, quindi quella discriminata, sempre schiava, sempre sottomessa, che allatta un bambino bianco,
quindi un bambino di un’altra cultura, razza e condizione sociale, rappresenta un’immagine
scioccate che provocò, tra le prime reazioni, proprio quelle della popolazione nera negli Stati Uniti,
ma che allo stesso tempo pone sullo stesso piano bianchi e neri.
Il target di questa pubblicità è rappresentato da uomini donne e bambini di qualsiasi nazionalità, ma
soprattutto coloro che condividono i valori sociali che Benetton vuole comunicare attraverso
l’estrosità di Oliviero Toscani. La campagna può essere letta da due punti di vista differenti, uno
interno alla pubblicità e uno esterno di marketing. Per considerare, quindi, questa pubblicità
dobbiamo prendere in esame due programmi narrativi:
PN interno
SOGGETTO donna nera
OGGETTO DI VALORE allattare il bambino
MANIPOLAZIONE la donna nera vuole allattare il bambino bianco
COMPETENZA la donna può e sa allattare il bambino
PERFORMANZA l’immagine non conferma la sua competenza ma la si dà per scontata
SANZIONE Positiva
PN esterno
SOGGETTO Azienda Benetton
OGGETTO DI VALORE campagna contro la discriminazione razziale
MANIPOLAZIONE l’azienda propone al consumatore il suo valore tramite la rappresentazione
figurativa
COMPETENZA il consumatore che rispetta i valori dell’azienda, può e sa apprezzarli
PERFORMANZA il consumatore se d’accordo si avvicina alla campagna e al prodotto
SANZIONE Positiva, se il consumatore condivide il valore
Negativa, se il consumatore non condivide il valore
E’ presente, infine, un débrayage enunciativo in quanto l’enunciato assume una forma oggettivata
data dal taglio della testa della donna. Nella foto, infatti, nessuno dei due soggetti rappresentati
guarda il destinatario, quindi non si stabilisce un rapporto io-tu, ma viene tagliata la testa alla donna
appositamente, in modo che possa inclusa nell’immagine un qualsiasi tipo di donna e un qualsiasi
tipo di spettatore.
3.1.2 Livello plastico e figurativo, Floch
Considerando il livello plastico, prendiamo in esame i seguenti dettagli: il seno della donna,
simbolo di femminilità, e la mano della donna, che tiene il bambino, simbolo di protezione.
Categoria Topologica
L’immagine della donna nera che tiene in braccio il bambino bianco è centrale, copre tutta
l’affissione pubblicitaria. La donna sembra più grande dello spazio a lei dedicato, tanto che non è
possibile identificarla, ed è, invece, il suo seno ha ricoprire il ruolo centrale di collegamento tra la
donna e il bambino (l’allattamento, la maternità e l’amore interraziale): non a caso, infatti, la
mammella è l’unica parte definibile del corpo della donna, altrimenti coperto dal bambino e dalla
maglia.
Categoria Eidetica
Prevalgono le forme tondeggianti e circolari: il seno della donna, il bambino, la maglia molto larga
lasciano spazio a forme morbide che richiamano alla donna, ai valori della femminilità e della
maternità.
Categoria Cromatica
I colori prevalenti sono il nero, della pelle della donna nera, in contrapposizione al bianco, della
pelle del bambino, che sono i punti della cardine della campagna e dell’intero messaggio
antirazziale. Il colore rosso del maglione, in questo caso, richiama all’amore tra madre e figlio e tra
due razze differenti; Toscani gioca molto sul contrasto dei colori nero/bianco, capace di riassumere
simbolicamente il tema universale della “differenza”, inteso per lui come concetto di
insieme/unione ed equilibrio sociale, contrapponendosi al concetto di diffuso stereotipo dell’
associare il bianco all’idea del bene e il nero a quella del male.
E’ presente un alto livello figuratività in quanto l’immagine rappresentata nella campagna
pubblicitaria è realistica.
Utilizzando, infinite, la teoria dei valori di consumo di Floch:
Referenziale Mitica
Sostanziale Obliqua
questa campagna può essere considerata Referenziale poiché il testo pubblicitario si mantiene legato
alla realtà facendo emergere il senso sociale dal prodotto e dalla marca.
3.1.4 Logo e ideologia di marca
La marca produttrice del testo pubblicitario è la United colors of Benetton che, letteralmente,
“Colori uniti di Benetton” ed è in questo senso, infatti, che si muovono le campagne pubblicitarie di
Benetton che mettono insieme persone appartenenti a diverse razze, quindi aventi pelle diverse.
Il fotografo Toscani, con la sua poetica, è riuscito nell’affermazione efficace dell’identità della
marca e dei suoi tratti ideologici.
L’ideologia di marca è stata trasmessa grazie a valori estrinseci rilevanti per il consumatore, che
hanno investito la marca e, di riflesso, anche i prodotti, influenzando, quindi, i comportamenti
d’acquisto:
- valore etico: l’azienda si concentra su tematiche di rilevanza sociale;
- valore emozionale: i contenuti delle campagne non lasciano indifferenti;
- valore d’identità: la marca esprime la personalità di un consumatore maturo, sensibile e attento;
- valore mitico: l’azienda si distingue dalle concorrenti per la sua originalità.
L’ideologia, o missione aziendale, si fonda su “precisi valori e correlative pratiche definiti dalla
stessa azienda”: il suo obiettivo è aiutare ad agire nel mondo, in questo caso invitando a relazionarsi
con il prodotto senza dimenticare problemi importanti e soprattutto reali; se la trasmissione
dell’ideologia di marca passa spesso attraverso la provocazione, è perché questa, secondo Toscani, è
l’unica possibilità di aprire un varco al dubbio, di offrire nuovi punti di vista.
3.2 Campagna pubblicitaria commerciale: Kinder Fetta Al
Latte
In questa seconda pubblicità viene raffigurata Fiona May, l’ex atleta inglese di origine giamaicana,
ora naturalizzata italiana, insieme alla sua figlia naturale, Larissa, che è mulatta, in quanto il padre è
di carnagione chiara; le due protagoniste vengono poste insieme in una pubblicità di un prodotto
bianco e nero, com’è appunto, il Kinder fette al latte.
La campagna è stata realizzata nel 2004 dal direttore creativo di Pubbliregia, Franco Carrer. Con la
nuova comunicazione, la Kinder ha mirato ad allargare il target del prodotto “Fetta al latte“ senza
però abbandonare quello consolidato rappresentato dai bambini. La scelta di Fiona May come
testimonial, infatti, rientra in questa filosofia, perché la May impersonifica molti valori positivi di
una donna: è sportiva, è affascinante ed è una mamma premurosa. Nello spot, girato da Leo Solanes
e prodotto da Movie Magic International, Fiona viene ripresa in tre differenti momenti della sua
vita: quando si allena, mentre fa la modella a una sfilata di moda e mentre gioca con la figlia
Larissa, tuttavia in questa analisi abbiamo considerato la campagna cartacea, nella quale viene
rappresentato l’abbraccio tra madre e figlia.
3.2.1 Valori profondi, PN e Enunciazione
Anche per questa campagna consideriamo i seguenti quadrati semiotici:
Bianco Nero
Non nero Non bianco
Bianco/nero
Il valori subcontrari non nero e non bianco vengono assologizzati positivamente richiamando sia al
prodotto, che non è ne completamente nero né completamente bianco, sia alla pelle della figlia
Larissa che di fatto presenta lo stesso principio.
Semplicità Complessità
Non complessità Non semplicità
Semplicità/complessità
Il valore che prevale è la semplicità in quanto il messaggio che si vuole comunicare è che questa
merendina è semplice e naturale; il messaggio viene espresso attraverso lo slogan “più semplice di
cosi”.
Colore Bianchezza
Non bianchezza Non colore
Colore/bianchezza
Il valore non bianchezza viene scelto in quanto la pelle della figlia di Fiona, la vera utilizzatrice di
questa merendina, non è né bianca né nera; in questo caso, il prodotto viene assiologizzato
positivamente a livello di marketing, in quanto esprime al meglio il colore, ma produce una
percezione negativa a livello sociale poiché il confronto tra pelle e prodotto potrebbe apparire
discriminatoria;
Multinazionalità Nazionalità
Non nazionalità on multinazionalità
Multinazionalità/nazionalità
Il valore che prevale è la nazionalità in quanto, sia il prodotto che il testimonial Fiona e, di
conseguenza, Larissa sono italiani;
Nutrire Affamare
Non affamare Non nutrire
Nutrire/affamare
Il valore che prevale è nutrire in quanto il messaggio che si vuole comunicare è che questa
merendina è nutriente; Il valore nutrire viene assologizzato positivamente dalle azioni di Fiona
verso sua figlia.
Verità Finzione
Non Finzione Non Verità
Verità/Finzione
Il valore che prevale è la verità poiché Fiona, essendo la vera madre di Larissa, stabilisce un
rapporto vero con il consumatore, testimoniando e confermando il valore nutritivo del prodotto. Il
target di questa pubblicità comprende sia mamme che bambini, di ogni nazione, infatti Fiona viene
raffigurata nella situazione tipica dove una mamma prepara la colazione al proprio bimbo
scegliendo il prodotto migliore e più nutriente per lui, in questo caso il kinder fette al latte.
Muovendoci secondo la grammatica narrativa di Greimas, consideriamo i due programmi
narrativi:
PN interno
SOGGETTO Fiona e sua figlia
OGGETTO DI VALORE Nutrimento
MANIPOLAZIONE Fiona vuole nutrire sua figlia con il Kinder Fetta a Latte
COMPETENZA grazie alle caratteristiche intrinseche del prodotto, che dà nutrimento e fa
crescere il bambino, è possibile realizzare il desiderio di Fiona
PERFOMANZA Larissa è nutrita
SANZIONE Positiva
PN esterno
SOGGETTO L’azienda Ferrero
OGGETTO DI VALORE Promuovere il prodotto
MANIPOLAZIONE l’azienda inserisce nella promozione del prodotto una testimonial
conosciuta e salutista che dà il prodotto alla sua vera figlia, nel tentativo di dimostrare la sua utilità
COMPETENZA l’azienda riesce ad realizzare la campagna con successo
PERFORMANZA Il consumatore è indotto all’acquisto poiché vede nel prodotto un valore reale
SANZIONE positiva
In questo caso, è presente un débrayage enunciazionale in quanto s’instaura un rapporto “io-tu”
con il consumatore dato sia dal rapporto tra Fiona e lo spettatore, sia dalla relazione madre-figlia
che permette un immedesimazione diretta nella campagna pubblicitaria.
3.2.2 Livello Plastico e Figurativo, Floch
L’affissione pubblicitaria è divisa in due parti: a sinistra è presente l’immagine ingrandita del
Kinder Fetta al latte in una dimensione sproporzionata rispetto a quella reale (questa scelta è stata
fatta appositamente per dare importanza al prodotto in questione e per attirare l’attenzione dei
possibili acquirenti) a destra, invece, è presente l’ immagine stereotipata della famiglia felice in cui
Fiona abbraccia la sua bambina.
Categoria Topologica
E’ presente una stessa distribuzione spaziale del Kinder e di Fiona, infatti, entrambi sono centrali
nella affissione pubblicitaria e il kinder Fetta al latte, come già anticipato, ha assunto delle
dimensione non reali e inverosimili;
Categoria Eidetica
Prevale la forma spigolosa e rettangolare: infatti i mobili della cucina, compresi gli oggetti, sono
rettangolari; il richiamo è implicito e chiaro nella forma della merendina kinder.
Categoria Cromatica
Per quanto riguarda questa categoria bisogna considerare tre aspetti:
- la pelle di Larissa è mulatta, come il prodotto che è un mix di bianco e nero;
- il maglione di Fiona è bianco. In questo caso si effettua un paragone bianco e nero
comparando la sua pelle al cioccolato e il suo maglione al latte;
- inoltre, effettuando una nuova analisi comparativa, possiamo notare che la scritta Kinder è
composta da due colori: il rosso e il nero; tali colori sono presenti, in modo figurativo, all’interno
della scena, infatti Larissa, che, ripetiamo, è di carnagione mulatta, porta un maglione rosso e si
abbraccia alla mamma che ha un maglione bianco. In tal senso, le loro due figure realizzano il logo
in modo chiaro e semplice.
E’ presente un alto grado di figuratività in quanto le immagini riportate fanno parte delle
immagini della vita reale.
Infine, secondo la teoria dei valori di consumo di Floch:
Referenziale Mitica
Sostanziale Obliqua
Questa pubblicità mette da valore ai valori contraddittori, infatti, è sia sostanziale nell’immagine del
prodotto iperrealistica che referenziale in quanto cerca di mantenersi legata alla realtà.
3.2.3 Logo e slogan del Manifesto
Il logo Kinder è composto , come si è già anticipato, da due colori principali rosso e nero, mentre il
contorno è bianco. Tali colori sono riportati negli abiti delle due protagoniste e nella loro pelle. Lo
slogan utilizzato è “più semplice di cosi” ed esprime sia i valori del prodotto kinder, come una
merendina semplice e nutriente, che la semplicità dell’amore tra madre e figlia. E’ uno slogan breve
e d’effetto che non lascia molto spazio ad altre interpretazioni.
Conclusione
Il nostro lavoro ha promosso, in una lunga analisi storica, la visione della donna nera nelle varie
epoche, per dimostrare una semplice realtà: la donna di colore non è una figura eterea che occupa
una situazione spaziale non devi finita, ma è principalmente una donna, con tutte le sue
sfaccettature e le sue caratteristiche, che non ha nulla di diverso da una donna bianca, che pure si è
imposta su di lei nelle varie vicende.
Se prendiamo in esempio personaggi storici, come Soujourner Truth o come Mary S. Carey
(capitolo 1), notiamo come queste donne, non solo avevano un animo carismatico paragonabile, se
non superiore, a quello delle loro sorelle bianche, ma erano soprattutto una guida per i loro popolo,
diventando il simbolo della riuscita e della possibilità di liberazione.
Senza portare ad esempio donne di una certa potenza storica, basta guardare e osservare la
popolazione nera nell’ambiente schiavista: la donna era un’istituzione, era un personaggio guida
nelle rivolte ed era quasi sempre in prima linea con la figura maschile. La società capitalista ha
inconsciamente creato proprio quello contro il quale aveva lottato: l’unione del popolo nero, la non
distinzione tra donna debole e uomo forte, che ha fatto sì che questa società fosse davvero unita
contro il nemico e che tutt’ora lo combatta; la differenza dalla società bianca è chiara, questa si è
sparpagliata e divisa, nella borghesia e nel volgo, nelle donne ricche e nelle donne lavoratrici
riuscendo nelle loro imprese storiche grazie anche all’aiuto delle persone di colore, donne e uomini,
che si sono schierati dalla parte delle donne bianche, anche quando queste si sono rivoltate loro
contro. In Italia la situazione non è stata molto diversa da quella vissuta in America, anche se le
caratteristiche e l’entità delle azioni sono state senza dubbio inferiori a quelle vissute dalle donne
oltre oceano, queste portavano con sé delle pratiche tipiche della struttura del “terzo mondo”, il
mondo africano. Indubbiamente, la situazione coloniale ha messo in luce gli stessi stereotipi di
dominazione anglosassone che troviamo nel mondo oltre oceanico, ma le donne africane vivevano,
già nella loro terra, una situazione di oppressione maschilista che, come si è visto in America, era
invece tipico della società bianca. Il potere maschile e la debolezza femminile si manifestavano già
all’interno della tribù, dove la donna era madre e moglie senza alcuna voce in capitolo. In tal senso,
i dominatori che entravano in quelle terre, pur con l’uso della forza e della violenza, trattavano
queste donne in modo analogo a quello che veniva impartito loro dalla popolazione: oggetti ad uso
riproduttivo e sessuale. Lo sfruttamento delle donne del “terzo mondo” non avvenne solo secondo
un’idea di colonizzazione/dominazione dell’uomo bianco italiano, ma giunse prima di tutto dalla
stessa percezione occidentale della razza, in quanto la razza bianca è superiore a quella nera e le
donne nere avevano un’alfabetizzazione, un’educazione sessuale meno sviluppata di quella delle
donne bianche, per questo potevano essere donne atte alla prostituzione e alla dominazione. Non
c’è, ovviamente, nulla di più di più sbagliato in questa idea, poiché, ricollegandoci alla storia
americana, si può vedere come se ad una donna nera dai la possibilità, che dalla stessa società gli è
stata negata, questa raggiunge i massimi livelli di una donna bianca e, di conseguenza di un uomo
bianco, in capacità intellettiva e lavorativa.
Vediamo, infine, come l’attuale realtà italiana ci ripropone la distinzione bianco/nero nelle sue
campagne pubblicitarie. Fermo restando che le campagne non vogliono promuovere discriminazioni
razziali, la pubblicità della Benetton e della Kinder portano ad analisi, soggettive, che possono
indicizzare verso questo pensiero. In entrambi i casi il corpo nero è posto nel contesto semantico
/maternità/ che viene associato all’allattamento o alla crescita del bambino. Al di là dell’analisi
prettamente semiotica di un prodotto pubblicitario, al livello superficiale se da un lato si può
sostenere che la donna nera viene posta nel contesto di donna in quanto madre, dall’altro viene
quindi spontaneo chiedersi: ma quindi la donna nera è solo madre?
Si ritorna al punto di partenza: donna come madre e moglie, donna intesa universalmente, senza
distinzioni, poiché spesso, come i programmi televisivi di alcuni canali ci ricordano, la donna
universalmente intesa è “obbligatoriamente” amante dello shopping, amante della cucina, degli abiti
da sposa e delle crisi isteriche. In conclusione, ad oggi che in America è stato eletto, per il secondo
mandato, un presidente di colore e quindi una First Lady di colore, possiamo dire che il razzismo è
finito?
( immagine tratta dal giornale online “Il punto”, 23 ottobre 2012)