26
Le culture del precariato a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi Pensiero, azione, narrazione ombre corte / culture Le culture del precariato a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi È possibile trasformare il precariato da condizione subita a opportunità, fonte di energia creativa? È la questione centrale del presente volume, che si prefigge di analizzare sotto una luce inedita un tema ampiamente dibat- tuto negli ultimi decenni: la condizione precaria nell’Italia postfordista. I contributi qui raccolti ruotano intorno all’idea di cultura declinata al plu- rale in quanto espressione variegata dell’incertezza esistenziale e lavorativa. I tre approcci specifici, che costituiscono altrettante sezioni del volume, ri- guardano il pensiero filosofico e politico, l’estetica dell’azione e l’esito nar- rativo della precarietà. A corredo di questi saggi, le testimonianze di autori come Ascanio Celestini e Andrea Inglese evidenziano il risvolto emotivo della vulnerabilità dell’in- dividuo, lacerato tra rabbia e indignazione civile. Il “coraggio dell’incertez- za” potrebbe allora rappresentare l’atto indispensabile per trasformare la precarietà in una alternativa reale. SILVIA CONTARINI è professore ordinario all’Università Paris Ouest Nanterre la Défense, dove insegna Littérature et civilisation de l’Italie contemporaine. Direttrice della rivista “Narrativa”. MONICA JANSEN è docente di letteratura e cultura italiana contemporanea presso l’Uni- versità di Utrecht. Direttrice della rivista di studi italiani “Incontri”. STEFANIA RICCIARDI è docente a contratto alla Katholieke Universiteit Leuven e traduttrice letteraria. Ha pubblicato Gli artifici della non-fiction. La messinscena narrativa in Albinati, Franchini, Veronesi (Transeuropa, 2011). 18,00 a cura di Contarini, Jansen, Ricciardi Le culture del precariato ombre corte 0.cop.preca:Layout 1 19/03/15 14:54 Pagina 1

Aldo Nove e François Bon: intervista, istruzioni per l'uso romanzesco

Embed Size (px)

Citation preview

Le culture del precariato

a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi

Pensiero, azione, narrazione

ombre corte / culture

Le culture del precariatoa cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi

È possibile trasformare il precariato da condizione subita a opportunità,fonte di energia creativa? È la questione centrale del presente volume, chesi prefigge di analizzare sotto una luce inedita un tema ampiamente dibat-tuto negli ultimi decenni: la condizione precaria nell’Italia postfordista. Icontributi qui raccolti ruotano intorno all’idea di cultura declinata al plu-rale in quanto espressione variegata dell’incertezza esistenziale e lavorativa.I tre approcci specifici, che costituiscono altrettante sezioni del volume, ri-guardano il pensiero filosofico e politico, l’estetica dell’azione e l’esito nar-rativo della precarietà. A corredo di questi saggi, le testimonianze di autori come Ascanio Celestinie Andrea Inglese evidenziano il risvolto emotivo della vulnerabilità dell’in-dividuo, lacerato tra rabbia e indignazione civile. Il “coraggio dell’incertez-za” potrebbe allora rappresentare l’atto indispensabile per trasformare laprecarietà in una alternativa reale.

SILVIA CONTARINI è professore ordinario all’Università Paris Ouest Nanterre la Défense,dove insegna Littérature et civilisation de l’Italie contemporaine. Direttrice della rivista“Narrativa”.

MONICA JANSEN è docente di letteratura e cultura italiana contemporanea presso l’Uni-versità di Utrecht. Direttrice della rivista di studi italiani “Incontri”.

STEFANIA RICCIARDI è docente a contratto alla Katholieke Universiteit Leuven e traduttriceletteraria. Ha pubblicato Gli artifici della non-fiction. La messinscena narrativa in Albinati,Franchini, Veronesi (Transeuropa, 2011).

€ 18,00

a cura di Contarini, Jansen, R

icciardi Le culture del precariato

ombre corte

0.cop.preca:Layout 1 19/03/15 14:54 Pagina 1

Culture / 137

Le culture del precariatoPensiero, azione, narrazione

a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi

ombre corte

Prima edizione: aprile 2015

© ombre corteVia Alessandro Poerio 9 - 37124 VeronaTel./fax: 045 8301735; e-mail: [email protected]

Progetto grafico e impaginazione: ombre corte

ISBN: 9788897522973

Indice

7 INTRODUZIONE

di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi

PARTE PRIMA: PER UNA FILOSOFIA PRECARIA

17 Critica del lavoratore culturale di Andrea Inglese

31 Crisi biopolitica e conflitto costituente di Dario Gentili

43 Come le falene. Precarietà e pratica della filosofia di Massimiliano Nicoli

PARTE SECONDA: FORME DI ATTIVISMO PRECARIO

53 Intervista ad Ascanio Celestini di Christophe Mileschi

57 “Non confessiamo mai!”. Bartleby e la meritocrazia di Alessio Berrè

68 Azioni precarie: etica e retorica del lavoro nel caso No TAV di Sabrina Ovan

82 Il lavoro culturale di Teatro Valle Occupato: come abitare la crisi di Monica Jansen

92 Lavori postali: le missive precarie di Alighiero Boetti di Karen Pinkus

PARTE TERZA: NARRAZIONI DEL PRECARIATO

105 Le responsabilità del precario di Andrea Inglese

109 Otium e precarietà come “spaesamento” conoscitivo nella scrittura di Giorgio Vasta

di Vincenzo Binetti

122 Io sono quello che non ce la faccio. Precariato e disagio esistenziale di Manuela Spinelli

135 L’arsenale del futuro.Il racconto della borgata nella narrativa italiana di questi anni

di Gianluigi Simonetti

154 “Attaccati alla vita”. Una riflessione su La vocazione di Cesare De Marchi

di Fabio Treppiedi

162 Aldo Nove e François Bon: intervista, istruzioni per l’uso romanzesco di Stefania Ricciardi

175 Non si paga! Non si paga! Modernità di una commedia sul tragico quotidiano

di Maria Pia De Paulis-Dalembert

190 Pensare il precariato e le differenze nell’Italia della globalizzazione di Silvia Contarini

201 L’aporia tragica di Bartleby di Sonja Lavaert

213 Gli autori e le autrici

Aldo Nove e François Bon: intervista, istruzioni per l’uso romanzescodi Stefania Ricciardi

Le persone vengono costrette dentro a un discorso. Il mon-do le porta lì e ne diventano parte, sono parole di una storia di cui fanno parte ma non c’è trama.

Aldo Nove, La vita oscena

Trasformare una serie di interviste a lavoratori precari in opera letteraria presume spiccate doti affabulatorie e notevole maestria del-le tecniche narrative. Nell’impresa si sono cimentati di recente Aldo Nove, al secolo Antonio Centanin, nato in provincia di Varese nel 1967, e François Bon, nato a Luçon, in Francia, nel 1953, autori di due libri-inchiesta apparsi entrambi in collane di impronta finzionale: Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese1, pubbli-cato nel 2006, e Daewoo2, dal nome della casa coreana produttrice di automobili ed elettrodomestici, edito da Fayard nel 2004.

La lettura di queste due opere offre spunti salienti per una rifles-sione su quella tranche di testi narrativi ispirati dal lavoro precario che, nell’ultimo decennio, si è espansa a dismisura nel perimetro del romanzo. In particolare, si tenterà di soppesare l’incidenza letteraria della precarietà nell’ottica geografica – l’Italia e la Francia – e in quel-la del sistema statutario, tenendo conto della mescolanza di generi (fiction e nonfiction) e di mezzi espressivi (letteratura e teatro).

Riguardo al primo aspetto della questione, sul versante francese la presenza di opere che attingono dall’universo lavorativo spesso transi-torio è decisamente minore. Nell’esiguo panorama si distingue il libro d’esordio di François Bon, Sortie d’usine3, del 1982, un’autobiografia in cui l’autore descrive la propria esperienza di operaio per quattro mesi alla Thomson di Angers in veste di disegnatore industriale e stila l’inventario di ciò che si finisce per abbandonare e dimenticare, in pri-mis la vita stessa, mostrando con dovizia di mezzi “la mécanisation de

1 Aldo Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, Einaudi, Torino 2006.

2 François Bon, Daewoo, Fayard, Paris 2004.3 François Bon, Sortie d’usine (1982), Minuit, Paris 2011.

ALDO NOVE E FRANÇOIS BON 163

l’homme amputé de ses sensations, rendu sourd, indifférent au mon-de par l’agression trop forte d’un univers réglé, minuté, totalitaire”4, come ha osservato Dominique Viart.

Una menzione particolare merita ugualmente La centrale5, di Éli-sabeth Filhol, classe 1965, edito da P.O.L. nel 2010 e tradotto in Italia da Fazi. Anche in questa opera prima folgorante “de ferme-té politique, de précision sociale et scientifique, de force littéraire dans sa façon de produire des ‘effets de réel”6, secondo René de Ceccatty, il rapporto personale dell’autore con la materia narrata gioca un ruolo fondamentale. A differenza di Sortie d’usine, si passa però dalla prospettiva dell’operaio a quella del consulente e diri-gente d’azienda, incarico ricoperto dalla Filhol, il che rende ancora più sconvolgente l’approccio al testo, molto critico nei confronti del sistema imprenditoriale. Con impeccabile precisione documentaria, l’autrice affronta il tema della precarietà mescolandolo a quello delle centrali nucleari e ai rischi che comportano per quanti vi lavorano, nella fattispecie a Chinon e a Blayais. La voce narrante è quella di Yann, un operaio che racconta la sua quotidianità in una professio-ne ad altissimo rischio, dominata dalle logiche di mercato. Insieme ai suoi colleghi, questo giovane tecnico incarna la generazione cre-sciuta all’ombra della catastrofe di Chernobyl e definita “carne da reattore” per l’incombere del pericolo dovuto alle irradiazioni e alla sovraesposizione.

Sulla sponda italiana l’universo della fabbrica è al centro di due ro-manzi recenti: Ternitti, di Mario Desiati7, nato nel 1977, già distintosi per Vita precaria e amore eterno, e Amianto, del quarantenne Alberto Prunetti8, mirabile intreccio autobiografico tra la “storia operaia” an-nunciata dal sottotitolo – e incarnata dal padre dell’autore – e la vi-cenda precaria del figlio, l’autore stesso, costretto a vivere in un mon-do che “scopre la precarizzazione come destino di una generazione

4 La citazione, riportata in quarta di copertina, è tratta da Dominique Viart, François Bon. Étude d’une œuvre, Bordas, Paris 2008.

5 Élisabeth Filhol, La centrale, P.O.L., Paris 2010 (La centrale, trad. it. di M. Ferrara, Fazi Editore, Roma 2011).

6 René de Ceccatty, “La Centrale”, d’Elisabeth Filhol: dans l’enfer froid du nucléaire, in “Le Monde des Livres” supplemento letterario di “Le Monde”, 22 gennaio 2010.

7 Mario Desiati, Ternitti, Mondadori, Milano 2011; Vita precaria e amore eterno, Mondado-ri, Milano 2006.

8 Alberto Prunetti, Amianto. Una storia operaia, con introduzione di Valerio Evangelisti, Agenzia X, Milano 2012. Una nuova edizione, con un capitolo inedito e la consulenza editoriale di Wu Ming 1 è apparsa dalle edizioni Alegre di Roma nel 2014.

164 LE CULTURE DEL PRECARIATO

che credeva, studiando grazie alla fatica operaia dei propri genitori, di poter sfuggire allo sfruttamento di classe”9.

Il dato anagrafico non è irrilevante, se si considera che i princi-pali artefici dell’abbondante fioritura di romanzi sul precariato che ha segnato l’inizio del nuovo millennio sono nati tra gli anni Sessan-ta (Massimo Lolli, Aldo Nove, Giorgio Falco) e soprattutto Settanta (Michela Murgia, Andrea Bajani). Al 2004 risale Pausa caffè dell’esor-diente Giorgio Falco, una testimonianza polifonica ma di voci senza identità definite sul non lavoro di massa nell’era della globalizzazione, mentre nel 2006, oltre al Mi chiamo Roberta di Aldo Nove, appare Mi spezzo ma non m’impiego. Guida di viaggio per lavoratori flessibili di Andrea Bajani, marcato da una più incisiva impronta generazionale e da un tono che suscita l’immediata empatia del lettore. Lo stesso anno debutta sulla scena letteraria Michela Murgia (premio Viareggio 2009 per Accabadora) con Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria. Ispirandosi a questo libro autobiografico, nato come blog sulla realtà degli operatori dei call center, Paolo Virzì ha realizzato il film Tutta la vita davanti (2008). Nel contesto, l’opera for-se di maggiore spessore, benché meno assurta alla ribalta, è Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio di Massimo Lolli, imperniata sul declino del manager vicentino Andrea Bonin, che perdendo il lavoro da “figo è diventato uno sfigato”, per citare la quarta di copertina, su cui si legge tra l’altro una illuminante sintesi del nostro tempo, “dove invecchiare è una colpa, lavorare un privilegio, amare un lusso”. Die-tro lo stile spigliato, nei lampi di comicità grottesca come negli inserti vernacolari, si cela una normalità tutt’altro che lieve, oppressa dal-la provvisorietà del presente e amplificata dal suo imprimersi nello sguardo altrui. In cerca di lavoro, Andrea Bonin finirà a Shangai e “già l’atroce rappresentazione della realtà urbana e industriale cinese potrebbe valere la lettura del libro”, a giudizio di Gianni Turchetta10. A conclusione di questa carrellata11 va ricordato l’originale romanzo

9 Girolamo De Michele, Il mastice della scrittura, in “L’Indice dei libri del mese”, febbraio 2013.

10 Giovanni Turchetta, “Nei bassifondi della lingua”, in Vittorio Spinazzola (a cura di), Ti-rature 2010. The New Italian Realism, il Saggiatore; Fondazione Alberto e Arnoldo Mon-dadori, Milano 2010, p. 20.

11 In ordine di citazione: Giorgio Falco, Pausa caffè, Sironi, Milano 2004; Andrea Bajani, Mi spezzo ma non m’impiego. Guida di viaggio per lavoratori flessibili, Einaudi, Torino 2006; Michela Murgia, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, Isbn, Milano 2006; Massimo Lolli, Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio, Mon-dadori, Milano 2009.

ALDO NOVE E FRANÇOIS BON 165

in versi, Perciò veniamo bene nelle fotografie (2012), apprezzabile per la ricerca formale perseguita con lodevoli intenti dal più giovane di questi scrittori, Francesco Targhetta12, classe 1980.

Da una rapida scorsa al mondo del lavoro inadempiente e spietato, in particolare nei confronti degli immigrati e degli operai stagionali, un’istantanea ad alta risoluzione emerge dalle opere di Marco Rovel-li13, musicista e scrittore nato nel 1969, e di Alessandro Leogrande14, tarantino di nascita (1977) stabilitosi a Roma, tra i giornalisti d’inchie-sta più dotati della sua generazione, attuale vicedirettore della rivista “Lo Straniero”. I loro reportage narrativi sono limpidi ritratti dei volti dell’Italia che il comune cittadino non conosce, perché opportuna-mente occultati dai media, dalla classe dirigente, dal potere.

Restringendo la visuale ai due testi oggetto di studio, Mi chiamo Roberta è apparso da Einaudi nella collana “Stile Libero Inside”, de-dicata alla storia e ai problemi contemporanei. È un’inchiesta sotto forma di intervista a quattordici lavoratori precari negli ambiti più disparati, dai lavori manuali a quelli più intellettuali e artistici. Non meno variegata è la provenienza, considerando l’estrazione sociale e l’area geografica: nord, sud, isole, le grandi città come Roma e Milano, la provincia di Urbino.

Due righe in corsivo, in basso alla pagina che precede la prima storia, racchiudono una solerte avvertenza: “Tutte le interviste sono state pubblicate da ‘Liberazione’ tra il 2004 e il 2005. Nomi e luoghi sono stati modificati. Non le storie”. Prima ancora che il lettore si imbatta nel testo, l’autore ne ha tracciato i solchi: le storie e la loro veridicità. L’impiego del termine “storie” e il nesso immediato con la declinazione inglese di storytelling, quindi con la tendenza principe delle strategie comunicative, sembra inficiare la promessa di aderenza totale alla realtà. Ma la sfida dell’autore, come in tutte le opere all’in-tersezione tra fiction e nonfiction, consiste precisamente nell’inserire il dato fattuale in uno schema finzionale. In tale ottica, Aldo Nove adot-

12 Francesco Targhetta, Perciò veniamo bene nelle fotografie, Isbn, Milano 2012.13 Di Marco Rovelli ricordiamo: Lager italiani, Rizzoli, Milano 2006; Lavorare uccide, BUR

Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2008; Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavo-ro, Feltrinelli, Milano 2009.

14 Di Alessandro Leogrande vale la pena di menzionare: Il paese dei viceré. L’Italia tra pace e guerra, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2006; Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, Milano 2008; Le male vite. Storie di contrab-bando e di multinazionali (2003), Fandango Libri, Roma 2010; Il naufragio. Morte nel Mediterraneo, Feltrinelli, Milano 2011.

166 LE CULTURE DEL PRECARIATO

ta una struttura ben precisa. Se si escludono i Riferimenti bibliografici dei libri citati, le centosettantasei pagine che compongono il testo non sono divise in capitoli, ma in storie, quattordici come le interviste. Scorrendo l’indice, troviamo in apertura Storia di Roberta, seguita da tredici storie corrispondenti alle persone intervistate, cinque donne e dieci uomini (due dei quali figurano insieme), tutte indicate nel ti-tolo con un nome fittizio. Ogni storia consta di due testi: il primo, di massimo tre pagine, costituisce una sorta di cornice per il secondo, l’intervista vera e propria, annunciata da un’interruzione di pagina e caratterizzata dalle domande in corsivo, staccate in interlinea. Nessu-na cifra onomastica, neanche puntata, per ribadire l’identità dei due interlocutori.

Tipograficamente, una volta di più, la parola prevale sulla perso-na, che viene davvero “costretta dentro a un discorso”, parte di una storia senza trama, riprendendo la citazione in epigrafe a questa ana-lisi. È infatti il dialogo a stagliarsi limpido sulla pagina, dove il flus-so delle risposte è intervallato dalla replica dell’autore-intervistatore che traccia la rotta del racconto. Talvolta ne fissa la gravità, ripetendo un’affermazione che risuona però con un timbro più intenso, come nel caso dell’incipit della prima storia: “Mi chiamo Roberta, ho qua-rant’anni, vivo a Roma, guadagno duecentocinquanta euro al mese...Duecentocinquanta euro al mese?”15

Altrove funge da semplice raccordo (“Perché?”, “Cioè” “E inve-ce”), o scandisce la cronologia degli eventi con rinvii del tipo “Un tempo, mi pare di capire, non era così”16 o ancora “Torniamo per un momento ancora più indietro, ai tempi del liceo...”17, mostrando di conoscere in anticipo la storia che il lettore ha l’impressione di ascol-tare in presa diretta.

La voce di Nove intervistatore è lieve, discreta, incisiva ma anche spontanea, come quando esclama “Boh”, “Che bello!” o “Non ci ca-pisco più niente”. In ogni caso, è ben diversa da quella compassata dei brevi testi introduttivi, che l’incipit dell’opera (“Quando ho scritto Superwoobinda, dieci anni fa”) autorizza ad attribuire al Nove autore. Come ha osservato Raffaele Donnarumma, si tratta di una “riflessione secca, paratattica, volutamente assertiva e scucita”18, in un contesto in

15 Nove, Mi chiamo Roberta..., cit., p. 5.16 Ivi, p. 7.17 Ibidem18 Raffaele Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne: narratori italiani di oggi,

in “Allegoria”, 57, 2008, p. 40.

ALDO NOVE E FRANÇOIS BON 167

cui il ruolo principale spetta alle storie vere, esaltate nella loro oralità dagli scarti di registro.

Aldo Nove opera dunque una scissione netta tra la parola narrata e la parola data per autentica, incanalandole lungo binari paralleli. Paradossalmente però sono le storie vere a innescare sovente la fin-zione, dal momento che la realtà è più forte della fantasia, e sembra inverosimile che la felicità possa consistere nel “prendersi il tempo di capire”19 o che si possano svolgere quattro lavori diversi al giorno e dormire solo tre ore a notte, per citare Roberta e Carlo, protagonisti delle storie di apertura e di chiusura.

Il “carotaggio” della realtà, mutuando un’espressione cara a Gior-gio Vasta, scaturisce piuttosto dalla riflessione dell’autore, dall’accura-ta perizia del lembo di pelle che sente staccarsi da un corpo diventato merce e gestito come tale, dalla percezione della precarietà non solo professionale, ma esistenziale, addirittura mentale:

Come fossimo software umani, fuggiti da un film di Cronenberg, viviamo in un costante upgrade di programmi che conosciamo al trenta per cento e che, appena acquisiamo una certa dimestichezza con uno di loro, dobbiamo sostituire con quello nuovo20.

Ripristinare il contatto con la realtà dopo averne resettato i para-metri, tentare di comprenderne il funzionamento, armare il proprio disincanto a scapito del cinismo incombente: a questi imperativi l’au-tore obbedisce nutrendosi di parola, della parola dei testi citati, che spaziano dalla saggistica alla filosofia, dalla narrativa alla poesia. Per quanto crude possano risultare alcune testimonianze delle voci inter-vistate, per quanto atroci le situazioni personali narrate, l’angoscia nella sua dimensione corale si insinua straziante con la preghiera laica che Aldo Nove formula chiudendo la cornice alla Storia di Carlo:

Parlano di noi.Storie.Urgenti.Sono dappertutto.Vanno raccolte.Dobbiamo dircele21.

19 Nove, Mi chiamo Roberta..., cit., p. 16.20 Ivi, p. 69.21 Ivi, p. 168.

168 LE CULTURE DEL PRECARIATO

Su queste parole che introducono l’ultima intervista si apre la ver-sione teatrale del libro, scritta in collaborazione con Federica Fracassi nel 2011 e messa in scena, con varianti giornaliere, dal dicembre 2010 al Teatro i dalla stessa Federica Fracassi con Guido Baldoni, per la regia di Renzo Martinelli:

GUIDO Non c’è più la storia. Ce ne sono infinite. Le storie dei nostri vicini di casa. Dei nostri parenti. Dei nostri amici. Dei nostri genitori. Le nostre stesse storie. Adesso. Parlano, queste storie, di drammi piccoli. Drammi meschini. Irraccontabili. Tragedie normali. Meschine come la vita che ci hanno cucito addosso. Parlano di noi. Storie. Urgenti. Sono dappertutto. Vanno raccolte. Dobbiamo dircele22.

Dalla presa di coscienza che – citando Roland Barthes – “il lin-guaggio è potere”23 all’urgenza della parola il passo è breve, e segna una tappa importante nel percorso letterario di Aldo Nove. L’autore del racconto Il mondo dell’amore, inserito nella fortunata antologia Gioventù cannibale24, ma anche dei romanzi successivi, da Puerto Pla-ta Market (1997) a La più grande balena morta della Lombardia (2004) passando per Superwoobinda (1998), si rivela meno incline al sensa-zionalismo, all’amalgama di forme espressive talvolta incongruamente dosate. La virata verso la nonfiction sancisce un rapporto diverso con la scrittura, come mostra La vita oscena, un’autobiografia dichiarata in cui, in termini di importanza, la parola viene addirittura prima dell’io che la pronuncia e che, non a caso, segue immediatamente Mi chiamo Roberta. L’opera più recente, Tutta la luce del mondo25, di ambienta-zione medievale, corredata dal sottotitolo eloquente di Romanzo di San Francesco, conferma una ispirazione sempre più ancorata alla real-tà, nella fattispecie alla biografia del santo di Assisi attraverso i ricordi del nipote Piccardo.

Dall’urgenza della parola nasce anche Daewoo di François Bon, il racconto del passaggio da un “vasto universo” – tale è il significato del termine daewoo – a un universo distrutto, quello di tre fabbriche di forni a microonde e televisori impiantate in Lorena dall’azienda core-ana meglio nota per la produzione di automobili. Nel giro di cinque

22 Aldo Nove con Federica Fracassi, Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni, guadagno duecento cinquanta euro al mese. Versione 2.0, Transeuropa, Massa 2011, p. 9.

23 Nove, Mi chiamo Roberta…, cit., p. 58.24 Daniele Brolli (a cura di), Gioventù cannibale. Antologia dell’orrore estremo, Einaudi, To-

rino 1996.25 Aldo Nove, Tutta la luce del mondo. Romanzo di San Francesco, Bompiani, Milano 2014.

ALDO NOVE E FRANÇOIS BON 169

mesi, dal settembre 2002 al gennaio 2003, si attua la chiusura delle tre fabbriche che impiegano complessivamente 1200 persone, perlopiù donne. La principale, quella di Mont Saint-Martin, l’unica a prevalen-za maschile con i suoi 550 impiegati specializzati nella produzione di tubi catodici, viene addirittura incendiata.

Se per Aldo Nove la versione teatrale segna l’esito finale del suo testo narrativo, per François Bon avviene il contrario, poiché da quel progetto prenderà le mosse il romanzo. La prima rappresentazione si svolge nel marzo del 2004 a Florange, vicino a Fameck, sede della fab-brica di unità di montaggio di televisori. Seguirà la messa in scena al Festival di Avignone, dal 18 al 24 luglio 2004, con le attrici Christine Brücher, Julie Pilod, Samira Sedira e Agnès Sourdillon, per la regia di Charles Tordjman26.

Il teatro, dunque, come risposta immediata a quello che Bon non ha esitato a definire un crimine sociale27, dal momento che la deci-sione di chiudere la Daewoo non è determinata dal fallimento della ditta, ma dalla logica imprenditoriale dell’“usa e getta” cara a Kim Woo-Choong, il fondatore e patron arricchitosi in modo esponenziale sotto la dittatura di Park Chung Hee, insignito della Légion d’honneur e onorato della cittadinanza francese da Jacques Chirac allorché nel suo Paese era perseguito dalla giustizia per reato di truffa. Da qui il proliferare di fabbriche costruite sulle sovvenzioni pubbliche e sman-tellate per essere impiantate altrove, sicuramente più facili da dislo-care rispetto alle vite che le hanno abitate. L’idea di redigere un atto d’accusa contro la logica del denaro che prevale su quella aziendale balena d’emblée nello scrittore francese e nell’amico regista Charles Tordjman, direttore del Centre Dramatique National di Nancy, quan-do, davanti al distributore automatico del caffè del Centro, leggono sul quotidiano locale “L’Est républicain” dell’imminente chiusura di una delle fabbriche Daewoo, quella di forni a microonde a Villers-la-Montagne, 229 impiegate tutte donne.

Munito di macchina fotografica digitale e di registratore Sony mi-ni-disc, François Bon inizia una serie di sopralluoghi insieme a Char-les Tordjman per afferrare immagini, voci, volti. Si accorgerà presto che la semplice trascrizione rende una testimonianza parziale:

26 La pièce Daewoo è stata nuovamente rappresentata al Centre Dramatique National di Nancy, poi in tournée regionale, quindi al Théâtre National di Tolosa, dall’ottobre al dicembre 2004.

27 Si veda Sylvain Bourmeau, Finalement, on appelle roman un livre parce que…, entretien avec François Bon, in “Les Inrockuptibles”, 25 août 2004.

170 LE CULTURE DEL PRECARIATO

On m’a laissé prendre des notes, on m’a demandé souvent de ne pas faire état du nom, parfois ni du nom ni du prénom. Je ne prétends pas rapporter les mots tels qu’ils m’ont été dits: j’en ai les transcriptions dans mon ordi-nateur, cela passe mal, ne transporte rien de ce que nous entendions, mes interlocutrices et moi-même, dans l’évidence de la rencontre28.

D’altronde, è il valore della testimonianza stessa a vacillare, per come è concepito: “Je me suis aperçu assez vite que comptait moins de témoigner que de laisser venir au jour ce qui subsistait dans chaque témoignage comme question, et question alors qui nous concernait forcement en retour”29.

Lo choc più grande, nel visitare la prima volta la fabbrica Daewoo, è vedere la catena di produzione accuratamente imballata, etichettata, protetta da plastica imbottita, pronta a essere caricata su dei camion per andare a funzionare in Turchia. Da qui l’interrogativo lancinante sugli effetti di ciò che resta in città, sul prosieguo della vita quotidiana per il personale ormai disoccupato.

Ma a determinare l’urgenza del racconto in chiave romanzesca, nella consapevolezza che la versione teatrale non basta a tradurre lo scempio in atto, è la seconda visita, con l’immagine dei tre operai sul tetto, impegnati a smontare l’insegna Daewoo. Ogni lettera rimossa sancisce la scomparsa di un universo e delle persone che lo hanno abitato, e innesca il rifiuto perentorio che funge da incipit: “Refuser. Faire face à l’effacement même”30. Due verbi all’infinito con valore di imperativo per fugare l’idea che la cancellazione di quell’insegna possa corrispondere alla cancellazione degli operai. L’autore si pre-mura di precisare più volte l’immensa portata del termine. A titolo di esempio, si osservi questo commento:

Effacement: parce que ce qui transperce l’actualité, séparant ou brisant ce qui était établi de façon stable entre les hommes et les choses, a disparu sans suffisant examen préalable des conséquences31.

Le prime conseguenze emerse dai rapporti ufficiali sono tutt’altro che rassicuranti: “Divorces, suicides, proliférations de cancers32”. A

28 Bon, Daewoo, cit., p. 48.29 Jean-Claude Lebrun, Parler pour?, entretien avec François Bon, in “L’Humanité”, 27 août

2004.30 Bon, Daewoo, cit., p. 9.31 Ivi, p. 13.32 Ivi, p. 96.

ALDO NOVE E FRANÇOIS BON 171

differenza di Sortie d’usine, dove l’indagine era concentrata sui risvolti deleteri del lavoro in fabbrica, qui è precisamente la mancanza del lavoro in fabbrica a disumanizzare l’individuo nella misura in cui lo priva di una prospettiva di vita dignitosa. François Bon si interroga sul destino riservato a queste esistenze, su come cambierà la loro vita, come riusciranno a riciclarsi professionalmente, come sarà passare da una produzione meccanica all’igiene dei cani. Perché i servizi di con-sulenza per la riqualificazione del personale propongono anche que-sto genere di impiego. Intanto, a Fameck e a Villers hanno ricostruito un call center, una filiale ThyssenKrupp, un centro di ridistribuzione di tubi di scappamento a basso costo, mentre a Mont Saint-Martin, dalle ceneri dei locali incendiati, è sorto un punto vendita Auchan, ciò che si definisce fieramente il più grande ipermercato d’Europa. Se la riconversione dei luoghi è rapida e funzionale, quella degli esseri umani fiacca e inadeguata.

A livello strutturale, le oltre trecento pagine che compongono Da-ewoo sono suddivise in quarantanove sezioni debitamente documenta-te in cui si alternano le riflessioni dell’autore, gli stralci dello spettacolo teatrale, le interviste alle operaie che ruotano attorno alla figura di Syl-via F., una collega morta suicida, alla memoria della quale è dedicato il libro. Se Nove punta sulla veridicità delle storie, Bon, tranne in due casi33, presenta le sue interviste come “entretiens fictifs”, con una tec-nica che in gergo cinematografico si definisce montaggio esibito e che trova in Jean-Luc Godard e nella Nouvelle Vague i massimi esponenti: il regista mostra allo spettatore ogni artificio della sua messinscena. Al contrario di Aldo Nove, che non fornisce alcun indizio sul montaggio, né su come ha condotto le sue interviste, François Bon dichiara aperta-mente la finzione, precisa ogni dettaglio del suo lavoro di costruzione e rende conto del metodo di indagine, di ciò che viene tagliato o trascrit-to fedelmente, come testimonia questo frammento: “Phrase recopiée: ‘Ce qui me fait peine, c’est tous ceux dont on ne parle même pas, qui n’ont même pas eu la consolation des journaux’”34.

L’attenzione rivolta a coloro che i media considerano dissolti nel nulla insieme alle fabbriche in cui lavoravano è il motore costante del-la narrazione, puntualmente alimentato dall’espressione “faire mémoi-re” variamente declinata. Come ha spiegato nel corso di un’intervista

33 Si tratta delle due sezioni intitolate Hommage. Una riguarda una sindacalista CFDT di Vil-lers, la fabbrica dei forni a microonde, l’altra la responsabile di un altro sindacato, la CGT di Longwy.

34 Bon, Daewoo, cit., p. 73.

172 LE CULTURE DEL PRECARIATO

rilasciata a Jean-Claude Lebrun35, François Bon ritiene che il romanzo intervenga per ripristinare il contatto con il reale, per ritessere il le-game tra le tracce della morte e il crimine sociale, non presentandolo come casualità, ma riproducendo il complesso gioco degli elementi che lo compongono: “[...] on n’écrit pas des faits, mais plutôt des re-lations. Et les signes qu’on cherche, ceux qui décryptent le comment de ces relations en oriente les bascules”36.

Riguardo allo statuto del testo, anche qui Bon ha giocato d’antici-po, fornendo ampie delucidazioni (“Finalement on appelle roman un livre parce que...”) tese a giustificare quell’appellativo di “romanzo” che ha voluto apporre sul frontespizio di Daewoo, un’opera in cui la materia sociale così ampiamente documentata sembra vietare l’acces-so alla minima incursione della vena del romanziere, senza contare che è precisamente l’esattezza, la trascrizione fedele dal registratore, a lasciare più ampio margine per attraversare i silenzi, per ricostruire con rigore non solo le parole, ma anche i volti, le pause della voce: “ma raison de noter avec précision, c’était aussi pour la nécessité de librement peindre: qu’à ce prix seulement on est juste”37.

Tracciare i confini dell’inchiesta disegnandola a matita nei minimi dettagli per poi darle rilievo mediante quelle gradazioni di colore – le voci, i volti, gli sguardi, le sensazioni percepite, il senso di umiliazio-ne in primo luogo – che consentono al racconto di bucare la pagina e di imprimersi nella memoria del lettore. Ecco come Bon coniuga dato fattuale e strategia romanzesca, a dimostrazione che la presenza di elementi statistici non mina la natura finzionale del testo: “Moi, oui, j’ai voulu parler des regards, des visages, des gosses, et il fau-drait m’interdire, parce que c’est littérature, de dire des noms et des chiffres?”38. In un’altra intervista la questione è ripresa in maniera definitiva:

J’ai mis “roman” par provocation. Pour ne pas être classé dans la case do-cumentaire, voire sociologie. [...] J’ai peint une fresque. Cela suppose de reconstruire, de partir de son propre matériau pour rejoindre ce qu’on sait être vrai, mais que le réel occulte, efface. L’écriture convoque tous les pro-cédés de la fiction, l’illusion des lieux et qu’on s’y déplace, la proximité des

35 Lebrun, Parler pour?, cit.36 Bon, Daewoo, cit., p. 224.37 Ivi, p. 103. 38 Lebrun, Parler pour?, cit.

ALDO NOVE E FRANÇOIS BON 173

visages, le grain ou le rythme des voix: le plaisir, c’est d’amener l’écriture là où le réel est énigme, où la raison ne peut aider à comprendre39.

Un libro sulla condizione operaia può allora contenere un’interro-gazione – e una risposta in atto – sulla condizione del romanzo, sulla permeabilità delle frontiere tra realtà e finzione. Al pari delle storie ricostruite da Aldo Nove, gli “entretiens fictifs” di François Bon, nella loro densità poetica, si risolvono nella scomparsa dell’identità sogget-tiva, nell’esortazione alla realtà fattuale su cui si chiude Daewoo: “Et laisser toute question ouverte. Ne rien présenter que l’enquête”40.

Al di là delle evidenti differenze stilistiche e concettuali, ad acco-munare i due scrittori è la costante ricerca espressiva, la versatilità di una scrittura che rigetta le forme chiuse. Bon si distingue in partico-lare per la sobrietà di uno stile capace di rivitalizzare anche i paesaggi più devastati evidenziandone la ricchezza di umanità che ancora li abita, e su cui era imperniato Paysage fer41, splendido racconto in-spiegabilmente inedito in Italia, come d’altronde l’intera opera dello scrittore francese. Difficile trovare analogie italiane. Un’eco remota, percepita nella potenza espressiva e nell’amore nei confronti di una materia solitamente parca di slanci emotivi, viene forse da un racconto di un ex “cannibale”, Matteo Galiazzo42, Il ferro è una cosa viva, dove è possibile “leggere un’esaltazione delle acciaierie, un breve canto in lode dell’altoforno”43.

Tornando al contesto italiano, si ha l’impressione che le narrazioni sul precariato, nel rapido evolversi nell’ultimo decennio, esprimano sempre meno una tendenza letteraria e, al contrario, siano sempre più rappresentative di un romanzo generazionale o, se si preferisce, della contemporaneità, dal momento che la condizione professionale del protagonista del nostro tempo difficilmente esula dal carattere della provvisorietà. Si pensi ad esempio a un’opera di pura fiction come Il peso della grazia di Christian Raimo44 – non a caso, classe 1975 –, con un plot articolato sulle vicissitudini sentimentali di un ricercatore di fisica dallo statuto precario.

39 Bourmeau, Finalement, on appelle roman un livre parce que..., cit.40 Bon, Daewoo, cit., p. 290.41 François Bon, Paysage fer, Verdier, Paris 2000.42 Matteo Galiazzo, Sinapsi. Opere postume di autore ancora in vita, a cura di Matteo B.

Bianchi, prefazione di Tiziano Scarpa, Indiana Editore, Milano 2012.43 Giorgio Vasta, L’ex “autore cannibale’ che ha scelto di essere postumo in vita, in “Minima&

Moralia”, 18 luglio 2012, http://www.minimaetmoralia.it/wp/tag/matteo-galiazzo/44 Christian Raimo, Il peso della grazia, Einaudi, Torino 2012.

174 LE CULTURE DEL PRECARIATO

In ambito italiano come in quello francese, Mi chiamo Roberta e Daewoo offrono uno spaccato di realtà grazie alla notevole capacità degli autori di convertire in racconto anche una forma scabra come l’intervista, di far emergere l’intreccio di relazioni umane dinanzi allo sfregio compiuto dalla vita. Sarà il tempo a confermare o a smenti-re questa impressione, trattandosi di opere troppo recenti per poter formulare un giudizio di valore scevro di effetti contingenti. Se può risultare azzardato parlare di letteratura del precariato, scrivere sulla condizione dei lavoratori precari va di sicuro a esplorare, nelle forme più riuscite, la condizione del romanzo attuale.

Gli autori e le autrici

ALESSIO BERRÈ è dottore di ricerca, in cotutela, in Culture letterarie, filo-logiche e storiche presso l’Università di Bologna e l’Université Paris Ouest Nanterre la Défense. Si occupa di letteratura italiana post-unitaria e con-duce una ricerca sulla costruzione della figura del criminale tra letteratura, diritto e scienze mediche.

VINCENZO BINETTI è professore ordinario di “Italian Studies” presso la University of Michigan, Ann Arbor. È autore, tra l’altro, di Città nomadi. Esodo e autonomia nella metropoli contemporanea (2008) e di Cesare Pave-se. Una vita imperfetta. La crisi dell’intellettuale nell’Italia del dopoguerra (1998). Tra i suoi lavori di traduzione: con C. Casarino, Giorgio Agamben, Means without End: Notes on Politics. Minneapolis: University of Minne-sota Press, 2000; con A. Terradura, Bill Ayers, Fugitive Days: memorie dai Weather Underground. Milano: Cox Edizioni, 2007. I suoi interessi di ri-cerca riguardano anche la letteratura della migrazione, i movimenti politici degli anni Sessanta e Settanta, il rapporto tra filosofia politica e letteratura, il precariato e la post-autonomia. Sta lavorando a un libro su nozioni di “resistenza”, “diserzione” e “esclusione” nel cinema e nella letteratura.

ASCANIO CELESTINI è una delle voci più note del teatro di narrazione in Italia. La sua scrittura nasce sempre da un lavoro di indagine condotto attraverso interviste e laboratori. Del 2000 sono gli spettacoli Radio Clande-stina, sull’eccidio delle Fosse ardeatine, e Cacafumo, sulla fiaba. Del 2002 è Fabbrica. Del 2006 Appunti per una lotta di classe. Con Fandango ha girato i documentari Senza Paura, storie e musiche di lavoratori notturni, e Parole sante, che ha dato il titolo a un omonimo disco. Per Radio 3 ha scritto e interpretato diverse trasmissioni, tra cui Bella Ciao sul tema del lavoro e della Resistenza. Con Donzelli ha pubblicato Cecafumo, Fabbrica e la ripre-sa televisiva di Radio Clandestina. Per Einaudi ha pubblicato: Storie di uno scemo di guerra (2005), La pecora nera (2006), il cofanetto con DVD dello

214 LE CULTURE DEL PRECARIATO

spettacolo Scemo di guerra (2006), Lotta di classe (2009), La pecora nera (“Stile libero/DVD”, 2010), Io cammino in fila indiana (2011) e Pro patria (2012). È fra gli autori di Scena padre (2013).

SILVIA CONTARINI è professore ordinario all’Université Paris Ouest Nan-terre la Défense, dove insegna “littéraure et civilisation de l’Italie contem-poraine”. Dirige la rivista Narrativa e codirige, con Christophe Mileschi, il centro di ricerca CRIX. I suoi interessi spaziano dalle avanguardie alla lette-ratura femminile, agli studi di genere, alla letteratura migrante e postcolo-niale. Tra le sue pubblicazioni, la monografia La femme futuriste. Mythe, modèle et représentation de la femme dans la théorie de la littérature futuriste (2006) e diversi volumi in curatela, tra cui, con Luca Marsi, Précariat. Pour une critique de la société de la précarité (2014). È partner del progetto di ricerca NWO Internationalisation Network “Precarity and Post-Autonomia: The Global Heritage (2010-2013)”.

MARIA PIA DE PAULIS-DALEMBERT è professore ordinario di letteratura italiana all’Université Sorbonne Nouvelle-Paris 3. Codirige il CIRCE (Centre interdisciplinaire de recherche sur la culture des échanges). Ha pubblica-to: Giovanni Papini. Culture et identité (2007), e curato i volumi seguenti: Autour de Montale, Chroniques Italiennes 62, 2000; L’Italie entre le XXe et le XXIe siècle: la transition infinie, (2006); L’Italie en “jaune” et “noir”. La littérature policière de 1990 à nos jours (2010); Sicile(s) d’aujourd’hui (2011). Autrice di numerosi studi su autori italiani del Novecento, si occupa delle riviste letterarie di inizio XX secolo, di letteratura di genere, dei rapporti tra letteratura e storia e tra le diverse forme di espressione artistica. I suoi due saggi più recenti sono: Histoire et réalités dans le roman policier italien con-temporain (2014) e Il teatro di Dario Fo tra storia, politica e società (2014).

DARIO GENTILI ha conseguito il dottorato di Ricerca in Etica e filosofia politico-giuridica presso l’Università di Salerno; ha svolto nel biennio 2009-2010 un post-dottorato in Filosofia e storia delle idee presso il Sum (Istituto Italiano di Scienze Umane); nel 2011-2012 ha avuto una borsa post-doc DAAD presso il Walter Benjamin Archiv di Berlino; nel 2013-2014 è stato assegnista di ricerca presso il Sum; nel 2014 visiting researcher presso la Heinrich-Heine-Universität-Düsseldorf. Collabora con la cattedra di Filo-sofia morale dell’Università di Roma Tre. È autore delle seguenti monogra-fie: Il tempo della storia. Le tesi “sul concetto di storia” di Walter Benjamin (2002); Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida (2009); Italian Theory. Dall’operaismo alla bio-politica (2012).

GLI AUTORI E LE AUTRICI 215

ANDREA INGLESE vive vicino a Parigi. Ha pubblicato un saggio di teoria letteraria (L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, 2003), libri di poesia (Colonne d’aveugles, 2007; La distrazione, 2008; Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, 2013, La grande anitra, 2013), libri di prose (Prosa in prosa, 2009; Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2010; Commiato da Andromeda, 2011), saggi di attualità po-litica e culturale (La confusione è ancella della menzogna, 2012), traduzioni dal francese (Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, 2009). È membro del blog letterario Nazioneindiana e di GAMMM. È nel co-mitato di redazione di “alfabeta 2” e scrive per “il manifesto”. Ha lavora-to come insegnante nelle carceri, educatore, docente di storia e filosofia al liceo, insegnante precario di letteratura e lingua italiana all’Università Sorbonne-Nouvelle Paris 3. Insegna attualmente in una scuola di design.

MONICA JANSEN è docente di Letteratura italiana all’Università di Utrecht. I suoi ambiti di ricerca riguardano il (tardo)postmodernismo e il modernismo, con particolare attenzione ad alcuni nodi problematici della cultura italiana, tra cui la memoria culturale del precariato e della post-autonomia e delle vittime di una giustizia mancata. È autrice del saggio Il dibattito sul postmoderno in Italia: In bilico tra dialettica e ambiguità (Cesati 2002) ed è co-curatrice di una serie di volumi, tra cui The History of Futu-rism: The Precursors, Protagonists, and Legacies (in collaborazione con G. Buelens e H. Hendrix, Lexington Books 2012). È partner del progetto di ricerca NWO Internationalisation Network “Precarity and Post-Autonomia: The Global Heritage (2010-2013)”. È direttrice di “Incontri. Rivista euro-pea di studi italiani” e editrice di diverse collane scientifiche.

SONJA LAVAERT è docente di filosofia politica moderna, cultura italiana e traduzione alla Vrije Universiteit Brussel VUB. È autrice di Het perspectief van de multitude (2011) e di numerosi saggi su Machiavelli, Spinoza, filo-sofia politica moderna, pensiero radicale, arte e traduzione. Le sue ricerche attuali riguardano la rappresentazione filosofica della storia e la genealogia di concetti etici e politici nell’ambito multidisciplinare della filosofia, lin-gua, letteratura e traduzione, tra il presente, il Seicento e il Rinascimento, e soprattutto ma non esclusivamente tra i Paesi Bassi e l’Italia. Fa parte dell’Institut Interdisciplinaire pour l’étude de la Renaissance et de l’Huma-nisme e dei gruppi di ricerca Centrum voor Literatuur in Vertaling CLIV e Centre for Ethics and Humanism ETHU.

CHRISTOPHE MILESCHI è professore ordinario all’Università Paris Ouest Nanterre La Défense, co-direttore, con Silvia Contarini, del centro di ricer-ca CRIX. È autore di testi poetici, racconti e romanzi, e traduttore (Boine,

216 LE CULTURE DEL PRECARIATO

Meneghello, Canali, Moravia, Pasolini, Celestini ecc.). Ha dedicato saggi a Campana, di cui ha tradotto i Canti orfici, a Gadda (Gadda contre Gadda, 2007) e a numerosi autori del Novecento.

MASSIMILIANO NICOLI è dottore di ricerca in Filosofia, ha svolto attività di ricerca e insegnamento presso l’Università di Trieste e l’EHESS di Parigi. Si occupa soprattutto del pensiero di Michel Foucault e di critica del mana-gement, a partire dalla propria esperienza di lavoratore e attivista sindacale. Su questi temi di ricerca ha pubblicato numerosi saggi in volumi collettivi e sulla rivista “aut aut”, di cui è redattore. Una sua monografia sulla critica del management delle risorse umane è di prossima uscita per le edizioni Ediesse di Roma.

SABRINA OVAN è “assistant professor of Italian and Italian Studies” allo Scripps College, Claremont, California. Dottore in letterature comparate (University of Southern California), la sua ricerca si focalizza sulla collettivi-tà nella letteratura contemporanea, in particolare nelle sue intersezioni con il pensiero post-autonomo: moltitudini, precariato e precarietà, general in-tellect. Il suo metodo include l’analisi linguistica, il marxismo (in particolare il marxismo italiano più recente) e le teorie sulla sovranità, la poiesis, e lo “stato d’eccezione” di Giorgio Agamben. Ha pubblicato saggi sulla lettera-tura collettiva, sul romanzo storico e sul cinema italiano, tra cui Milano dei Miracoli. Le cinque giornate secondo Argento e Lizzani, capitolo del volume Cinema e Risorgimento (2012).

KAREN PINKUS è professore ordinario di “Italian and Comparative Lite-rature” alla Cornell University. È autrice di numerosi libri e saggi sul pen-siero italiano, sull’arte visuale, sul cinema e sulla letteratura. Recentemente si occupa del cambiamento climatico attraverso la teoria critica. Sta lavo-rando a un libro su automazione e autonomia nell’Italia pre-digitale.

STEFANIA RICCIARDI è dottore in Italianistica e traduttrice letteraria. Spe-cialista di letteratura italiana tra XX e XXI secolo e dei rapporti tra fiction e nonfiction, ha svolto attività di insegnamento e ricerca in Francia e in Belgio. Ha pubblicato il saggio Gli artifici della non-fiction. La messinscena narrativa in Albinati, Franchini, Veronesi (Transeuropa 2011). È docente a contratto alla Katholieke Universiteit Leuven (Campus Brussel).

GIANLUIGI SIMONETTI insegna Letteratura moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi dell’Aquila; tra il 2012 e il 2013 ha lavorato in Francia, ospite dell’IEA (Institut d’études avancées) di Parigi. Si occu-pa soprattutto di lirica italiana del Novecento e di romanzo postmoderno.

GLI AUTORI E LE AUTRICI 217

È autore tra l’altro di un libro su Montale e la terza generazione (Dopo Montale. Le “Occasioni” e la poesia italiana del Novecento, Lucca 2002). Sta ultimando un saggio sull’assetto del campo letterario italiano degli ultimi vent’anni.

MANUELA SPINELLI è attualmente ricercatrice a contratto all’Università d’Avignon et des Pays de Vaucluse. Ha conseguito un dottorato di ricerca, in cotutela tra le università Paris Ouest Nanterre e Bologna. La sua tesi verte sul personaggio dell’inetto nella letteratura italiana degli anni Ottanta. Ha dedicato ricerche alla letteratura italiana del XX secolo, in particolare a Dino Campana e alla rivista “Lacerba”. Tra le sue pubblicazioni, un saggio sugli intellettuali italiani e la Grande Guerra e alcuni articoli riguardan-ti autori italiani contemporanei quali Michele Mari, Daniele Del Giudice, Giuseppe Culicchia.

FABIO TREPPIEDI è dottore di ricerca in filosofia presso l’Università di Palermo e insegna filosofia e storia nei licei. Ha studiato presso il centro internazionale di studi sulla filosofia francese contemporanea (CIEPFC) dell’École Normale Supérieure di Parigi e fa parte del comitato editoriale della rivista “La Deleuziana”. Ha curato con Giuseppe Bianco la traduzio-ne italiana degli scritti giovanili di Gilles Deleuze (Da Cristo alla borghesia e altri scritti, 2010).

Finito di stampare nel mese di aprile 2015 per conto di ombre corte

presso Sprint Service - Città di Castello (Perugia)