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Indice Allegoria e realtà nella poesia di Giorgio Caproni: p.2 Introduzione p.4 Come un'allegoria p.10 Ballo a Fontanigorda p.13 Finzioni p.18 Cronistoria p.22 Il Passaggio d'Enea p.44 Il seme del piangere p.53 Il congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee p.59 Il muro della terra p.71 Il franco cacciatore p.77 Il conte di Kevenhüller p.94 Res amissa p.102 L'allegoria moderna di Caproni e un breve confronto con Montale p.111 Bibliografia 1

Allegoria e realtà nella poesia di Giorgio Caproni

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Indice

Allegoria e realtà nella poesia di Giorgio Caproni:

p.2 Introduzione

p.4 Come un'allegoria

p.10 Ballo a Fontanigorda

p.13 Finzioni

p.18 Cronistoria

p.22 Il Passaggio d'Enea

p.44 Il seme del piangere

p.53 Il congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee

p.59 Il muro della terra

p.71 Il franco cacciatore

p.77 Il conte di Kevenhüller

p.94 Res amissa

p.102 L'allegoria moderna di Caproni e un breve confronto con Montale

p.111 Bibliografia

1

INTRODUZIONE

Chi si cimenti nella lettura delle raccolte poetiche caproniane non può non accorgersi di

quanto siano attraversate da un filo rosso che si dipana a partire da “Come un'allegoria” e si

conclude con la postuma “Res Amissa”. Tutte le sue raccolte poetiche infatti seguono uno

sviluppo evolutivo che si fonda su una relazione tra realtà ed allegoria, tra sensoriale e

sovrasenso. Scrivo evolutivo perchè, pur trattandosi di un tema costante nella poesia di

Caproni, subisce un cambiamento di raccolta in raccolta: il percorso poetico caproniano è

infatti caratterizzato da una scrittura nella quale viene perseguita una progressiva

evanescenza del reale nell'allegorico. Cosa si intenda qui con la parola “reale” non ha a che

fare con l'accezione letteraria di “realismo”, né tanto meno ha da ridursi a sinonimo di livello

letterale contrastante uno allegorico. La realtà per Caproni è quella percepita sensorialmente,

ed è stato segnalato più volte quanto siano in particolare i sensi dell'olfatto e del tatto a

predominare sugli altri. Scrive il poeta livornese:

L'artista in genere tende all'evasione, io invece ho cercato di fare poesia ad occhi aperti e guardare in faccia la realtà fino a metterne in dubbio l'esistenza. Nella mia prima raccolta, Come un'allegoria, esprimevo proprio il dubbio che tutta la realtà non fosse che allegoria di qualcosa d'altro che sfugge alla nostra ragione.1

E l'esistenza di tale realtà in effetti è messa fortemente in dubbio. Si guardino, per puro

valore esemplificativo, le due poesie Marzo e Anch'io, l'una da sempre voluta fortemente da

Caproni come poesia iniziale ad ogni sua raccolta complessiva, l'altra in conclusione alla

raccolta garzantiana di Tutte le poesie (che però essendo stata pubblicata postuma, viene

riportata qui come semplice esempio del modo di scrivere dell'ultimo Caproni):

MarzoDopo la pioggia la terraè un frutto appena sbucciato.

Il fiato del fieno bagnato

è più acre – ma ride il sole bianco sui prati di marzo a una fanciulla che apre la finestra.

1 Il sabato, 1984

2

Anch'ioUno dei tanti, anch'io

un albero fulminatodalla fuga di Dio.

È indicativo quanto diversamente venga percepita la realtà nei due componimenti. La prima

ha carattere essenzialmente descrittivo, è chiara l'intenzione di voler rappresentare una

immagine netta: chi scrive si trova in una prospettiva esterna al componimento e sebbene vi

sia una connotazione metaforica (“la terra/ è un frutto appena sbucciato”) il testo è dominato

da una componente letterale. Nella seconda poesia l'immagine che risalta è quella dell'albero

fulminato, non un'immagine della realtà sensorialmente sentita, ma una realtà esclusivamente

analogico-metaforica, in cui l'io è interno al componimento. Il livello letterale del testo non è

sufficiente alla sua comprensione, il lettore ha di fronte una immagine complessa e allegorica

nella quale si scrive, è vero, che un albero è fulminato, ma in cui si intende qualcos'altro,

ovvero che chi scrive – uno dei tanti – si sente come un albero fulminato e quindi spezzato e

ucciso, bruciato dalla fuga di Dio, e - potremmo teorizzare dunque - incompleto per la perdita

di una verità universale. La realtà descrittiva e quasi “impressionistica” della prima poesia si

perde del tutto per lasciare il posto a una allegorica.

Ci troviamo chiaramente, come abbiamo già notato, di fronte a un caso esemplare ed

estremistico, ma esso è indicativo del percorso poetico che è nostra intenzione evidenziare

con una lente che indaghi questo rapporto costante tra realtà e allegoria.

3

COME UN'ALLEGORIA

Caproni pubblica Come un'allegoria nel 1936, anche se già a partire dal 1932 dei testi escono

per alcune riviste. I primi recensori della raccolta la definiscono subito esclusivamente

descrittiva: in una rivista viareggina del 1934, Gioventù, venne scritto che “il suo fondamento

è descrittivo” e per Capasso, un letterato che guidò gli esordi di Caproni e curò la prima

edizione della raccolta, “egli [Caproni] prende la penna quando lo ha toccato un fatto

plastico, naturale o comunque esteriore: un paesaggio, una festa borghigiana, un gruppo di

saltimbanchi, l'atmosfera di un luogo e di un'ora determinatissimi. La sua, è poesia

descrittiva”2. Che possa parlarsi di descrittivismo è indubbio, ma andiamo a leggere ancora

una volta Marzo e le sue due versioni attestate, l'originale della raccolta genovese (a sinistra)

e quella accolta successivamente:

Dopo la pioggia la terraappare lucida e frescae odorosacome un frutto appena sbucciato.

Dopo la pioggia la terra è un frutto appena sbucciato.

Il fiato del fieno bagnato è più acre – ma ride il solebianco sui prati di marzo a una fanciulla che apre la finestra.

La differenza tra le due versioni è indicativa di un notevole cambiamento: dal maggiore

descrittivismo della prima (dato anche dalla similitudine espressa dal “come”), passiamo al

metaforismo più pronunciato della. Malaguti spiega bene questa differenza:

Il ruolo di guida interpretativa che nell'originale spettava al realismo descrittivo e soggettivo ora passa alla

tensione metaforica. Il testo non sviluppa più solo un senso della realtà esterna, come riconosce Capasso

nell'originale, ma sottolinea il suo potenziale rappresentativo e interpretativo: il reale diventa un sistema di segni

allusivi ed è quindi da interpretare. Non si tratta più solamente di vedere, ma […] di vedere come. […]. [Marzo]

2 Cito entrambe le recensioni dall'apparato critico curato da Luca Zuliani in Caproni. L'opera in versi, Mondadori, Milano, 2009; p.1055-56.

4

collocato all'inizio in tutte le raccolte in cui l'autore ha riordinato i suoi testi fin dagli esordi, da Finzioni a Tutte

le poesie, costituisce quindi, proprio partendo dalla metafora iniziale, un invito all'esperienza di un mondo visto

come, di una realtà di immagini da interpretare.3

D'altronde, come è lo stesso Caproni a suggerirci, fu per lui importante in quel periodo la

lettura di Ungaretti, che lo avvicinò maggiormente a un modo di concepire la poesia come

sintesi nominale, collegamento analogico e brevità del verso: “[Marzo] era molto più lunga

[riferendosi probabilmente a una versione manoscritta andata perduta], più descrittiva, ed io

ho tagliato corto, perchè poi mi capitò in mano, […] Allegria di naufragi del 1919, di

Ungaretti, e capii l'economia della parola4”.

Se guardiamo alla raccolta in generale ci accorgiamo subito che tutti i suoi testi nell'edizione

definitiva non possono essere intesi soltanto letteralmente, come il semplice intento di

dipingere la realtà attraverso un macchiaiolismo descrittivista.

Analizziamo un'altra poesia, Borgoratti, da un verso della quale prende il titolo la raccolta:

Anche le vampe fioriteai balconi di questo paese,labile memoria ormaidimentica la sera.

Come un'allegoria,una fanciulla apparesulla porta dell'osteria.Alle sue spalle è un vociareconfuso d'uomini – e l'asproodore del vino.

Il testo è diviso in due strofe il cui collegamento sfugge alla comprensione del lettore. Dopo

una prosopopea metaforica in cui la sera viene paragonata a una labile memoria che

dimentica i colori dei fiori sui balconi del paese, l'attenzione si sposta sulla porta d'ingresso di

3 A.Malaguti, La svolta di Enea: Retorica ed esistenza in Giorgio Caproni (1932-1956), Il Melangolo, Genova, 2008; p.20-1.

4 Intervista radiofonica Antologia, 1988.

5

un'osteria in cui appare improvvisamente una fanciulla. Potremmo interpretare il

collegamento come la realtà sensoriale di un io esterno al testo che sta osservando gli effetti

dell'approssimarsi della sera sui balconi del paese e sposta successivamente lo sguardo

(attratto da un vociare e dall'odore del vino) verso la luce di un'osteria. Ma di cosa è

esattamente allegoria il sopravvenire della fanciulla in questa immagine? Sembra assai

forzata l'interpretazione data dal Malaguti secondo cui la fanciulla sarebbe “una figura

liminale che invece di riferirsi al mondo reale e tangibile come le altre presidia l'ingresso

oltre il mondo: l'aldilà si risolve in un'osteria di Genova che ha tutto l'aspetto di un erebo,

dove le voci dei morti si confondono”. Per quanto l'interpretazione possa sembrare

suggestiva non sembra realistico l'accostamento tra un'osteria e l'erebo. In questo senso

semmai il gioco tra esterno e interno dovrebbe rovesciarsi: in un fuori che diventa oscurità e

oblio e in un dentro tratteggiato assai indicativamente con la scelta di un luogo realistico

come l'osteria, in cui ancora la sensorialità è viva. Potremmo interpretare questo scambio tra

oscurità e realtà in svariati modi, ma non raggiungeremmo mai una risposta sicura. Ed è

proprio questa incertezza che deve dominare la poesia: la fanciulla è sì una “figura liminale”

ed è il suo apparire ad essere come un'allegoria (e si noti la similitudine), ad essere dunque

un qualcosa che significa ed intende un qualcos'altro che non ci è dato sapere, di

incomprensibile.

D'altronde perchè la raccolta si intitola Come un'allegoria? È lo stesso Caproni a darcene una

spiegazione appropriata:

Nella mia prima raccolta, Come un'allegoria, esprimevo proprio il dubbio che tutta la realtà non fosse che allegoria di qualcosa d'altro che sfugge alla nostra ragione.

E ancora, in un altro articolo:

[in Come un'allegoria] si tratta di un “reale” ancora più pertinente alla natura che alla società. “Segni” cui già a quei tempi, in quel mio macchiaiolismo, più che impressionismo, già tentato dalle sirene dell'espressionismo, davo un valore di quasi un'allegoria: un significato sempre volto ad esprimere un qualcosa d'altro (una mia e altrui inquietudine) al di là del puro significato letterale o figurativo della parola.5

5 Avanti!, 1965

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Da quest'ultima affermazione in particolare riusciamo a trarre alcune importanti informazioni

sul primo periodo di produzione poetica di Caproni. Effettivamente il “reale” rappresentato

nelle poesie caproniane di Come un'allegoria non ha niente a che fare con la società, ma ha

un riflesso eminentemente bucolico6: prati, ulivi, pianure, colline dominano il paesaggio. Le

rare figure umane che abitano questi luoghi (bambini, fanciulle, donne...) hanno una funzione

più simbolica che realistica e provocano nel lettore una suggestione melanconica del tempo

che corre (ma se mi passa accanto / un ragazzo, nel soffio / della sua bocca sento / quant'è

labile il fiato / del giorno) o un erotismo sensoriale (Ma io sento ancora / fresco sulla mia

pelle il vento / d'una fanciulla passatami a fianco / di corsa). Di “società” c'è davvero poco in

questa raccolta, se non un primo segnale di quella che sarà poi una predilezione tutta

caproniana per la classe umile e i luoghi che essa frequenta: osterie, taverne, borghi di

periferia (si ricordi qui ancora Borgoratti). E forse è proprio questa quasi totale estraneità al

“sociale” e, semmai, l'avvicinarsi al “bucolico”, all'elemento povero e umile che

spiegherebbe la precisazione per cui Caproni si sentirebbe più vicino al “macchiaiolismo”

piuttosto che all'“impressionismo”. E in senso artistico va intesa anche la frase successiva

riguardante la tentazione della sirena espressionista. L'espressionismo caproniano è affine a

quello pittorico in cui vi è la propensione dell'artista a privilegiare, esasperandolo, il lato

emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente. E in effetti è proprio

intendere l'espressionismo caproniano sotto questa accezione a legare la prima parte del suo

discorso con la seconda a proposito dell'allegoria, anzi della quasi allegoria. L'allegoria

moderna è assai diversa da quella medievale: la prima è spesso indecifrabile, la seconda

invece ha un valore più convenzionale e in genere intertestuale (si pensi ai numerosi bestiari

6 La Frabotta usa il termine che crediamo adeguato di “idilli campestri” per descrivere i sedici componimenti di Come un'allegoria (B.Frabotta, Giorgio Caproni: Il poeta del disincanto, Officina Edizioni, Roma, 1993; p.14).

7

che permettono di vedere in ogni animale il corrispondente significato simbolico); la prima si

fa garante di un sovrasenso non univoco e relativo, spesso dipendente dalla sensibilità dello

scrittore e dunque non sempre convenzionale; la seconda di uno univoco e assoluto, che fa

del lupo l'allegoria dell'avidità, del leone della superbia, della realtà un'allegoria

comprensibile attraverso la volontà di Dio. Il quasi a cui si riferisce Caproni riflette proprio

l'incertezza dell'uomo moderno, l'impossibilità di leggere nella realtà un'allegoria chiara e

unica. All'uomo moderno resta soltanto l'incertezza, l'impressione che nella realtà si nasconda

una realtà altra, incomprensibile alla propria razionalità. In Come un'allegoria (ma come

vedremo anche nelle raccolte successive) questa incertezza filosofica si fonde con

l'espressività della parola, attribuendo alla realtà una peculiarità emotiva, quasi che proprio

attraverso la parola il poeta riesca a descrivere la realtà altra. Non sorprende dunque che nei

testi ricorrano quasi ossessivamente delle personificazioni, delle prosopopee che a nostro

avviso differiscono da quelle analogiche usate ad esempio da Ungaretti, perchè hanno un

carattere più descrittivo e possiamo dire ontologico. L'io di Ungaretti pervade la realtà: il

poeta ne I fiumi si raffigura come un albero “mutilato” e “abbandonato”. Il lettore sa che

l'uso dei due aggettivi è riferito solo in apparenza all'albero, ma che è stato scelto in realtà per

descrivere l'interiorità del poeta, mutilata e abbandonata anch'essa dal dramma della guerra.

L'io di Caproni invece è, nelle sue prime raccolte, come abbiamo già visto, quasi sempre

esterno alle poesie, perché descrive la realtà attraverso una sensorialità che non è soggettiva,

ma universale. Già Marzo di cui abbiamo parlato è di per sé un esempio, ma guardiamo ad

un'altra poesia, Prima luce:

Lattiginosa d'albanasce sulle colline,balbettanti parole ancorainfantili, la prima luce.

La terra, con la sua faccia

8

madida di sudore,apre assonnati occhi d'acquaalla notte che sbianca.

(Gli uccelli sono sempre i primi pensieri del mondo)

Dov'è l'io? Il componimento è un tipico esempio di poesia in cui il soggetto si annulla nella

descrizione di un paesaggio, in cui l'alto numero di personificazioni (“colline / balbettanti

parole ancora infantili”; “la terra, con la sua faccia /madida di sudore, / apre assonnati occhi

d'acqua”) ha il compito di attribuire alla realtà un lato emotivo, di esprimerla appunto.

In questo senso in Come un'allegoria si può parlare di espressionismo e di allegorismo. L'uno

vive in funzione dell'altro e alla fine ciò che risalta grazie al gran numero di personificazioni

presenti nella raccolta (“ride il sole”, “una cosa scipita questa mattina” “sangue ferveva di

meraviglia” “ombra dolce” “così sbiadito a quest'ora lo sguardo del mare” “un pigro

schiumare bianco sull'alghe” “labile memoria ormai dimentica la sera” “giocondi roghi” “mi

fai pensare, o sera, con la tua pallidezza” “estate ansiosa”) è una realtà che ne intende un'altra

piena di sensualità ed erotismo, ma anche malinconica per un tempo che non sa fermarsi.

Non possiamo ancora parlare di allegoria, ma appunto di quasi allegoria, perchè vi è un

gioco espressivo tutto interno alla parola e non un sovrasenso razionale che vive al di sopra

di un livello letterale. Eppure le prosopopee ontologiche usate dal primo Caproni - che come

vedremo si dissolveranno sempre maggiormente nelle raccolte successive - attribuiscono al

testo una leggibilità letterale inquieta e insoddisfacente.

9

BALLO A FONTANIGORDA

Per quanto sia tematicamente che stilisticamente la seconda raccolta caproniana, Ballo a

Fontanigorda, sembri quasi un prolungamento della prima, in essa sono avvertibili alcuni

cambiamenti. Continuano ad essere presenti quelle che abbiamo definito “prosopopee

ontologiche” (“scherzano battendo l'ale / candide sui tetti a fiore / giunti, le colombelle

nuove”; “fra luci di colori / e risa, s'infatua gaia / la danza d'una montana / allegria”;

“bruciano alla bramosia segreta, le carnagioni giovani”; “a farne inquieta l'aria”; “fiato

fatuo”; “fiera iride”; “altera luce”; “demente fuga del tempo”; “la procellaria esclama con

brevi grida la burrasca lontana”; “picchi il sole”; a”llegri rivi”), ma ve ne sono altre riferite a

un “tu”, che compariva in parte già in Come un'allegoria, ma che è sempre maggiormente

presente in questi testi (“virginei occhi”; “sopra i monti spaziosi / le poche case disperse /

invidiano il colore caldo / della tua pelle”; “per te il mondo ritorna con più casti pensieri”;

“sapori casti di sale ai labbri che tentano già i tuoi pii errori”); la realtà sensoriale però non

gode dello stesso tipo di letteralità della raccolta precedente, essa sembra meno allegorica,

non vuole nascondere un significato altro da ciò che viene avvertito coi sensi. Il motivo di

tale cambiamento è che Ballo a Fontanigorda è assai più soggettivo e autobiografico di

Come un'allegoria. Particolarmente importante in questo senso è la presenza di questo “tu”

che riduce quel descrittivismo oggettivo della prima raccolta e permette al poeta di parlare

anche attraverso un “noi” che rende i componimenti più emotivamente soggettivi.

Generalmente il “tu” a cui Caproni si riferisce varia tra due donne: Olga Franzoni, la prima

fidanzata morta precocemente e personaggio essenziale delle prime poesie e Rina, la moglie.

Non è sempre chiaro a quale delle due donne quel “tu” si riferisca né Caproni ci ha lasciato

delle testimonianze a tal proposito. D'altronde, come apprendiamo dall'apparato critico di

Zuliani, alcuni componimenti di questa raccolta risalgono al 1934 quando Olga era ancora

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viva. Eppure per il lettore inconsapevole di questo dato i due personaggi femminili assumono

una valenza allegorica importante che sarà sempre più rilevante nelle raccolte successive.

Come scrive Malaguti:

Più che a una confusione e a un'interscambiabilità dei riferimenti reali, che appare a prima vista, sarebbe però giusto ipotizzare l'opposto, cioè una definizione chiara e al limite anche forzosa dei ruoli simbolici delle figure femminili: se Olga è l'interfaccia della morte e il ricordo del passato da riscattare continuamente alla labilità della memoria, Rina, presente e viva, diventa la destinataria di ogni testo che solleciti e confermi la forza sensibile dell'immediato. Gli elementi biografici si trasfigurano quindi in istanze schiettamente testuali: Olga e Rina non valgono più per ciò che sono, ma per ciò che rappresentano in rapporto al contesto in cui si trovano.7

Infine viene accentuato in Ballo a Fontanigorda un tema tipico del primo Caproni: l'incontro

epifanico. Già in Come un'allegoria due poesie come Fine del giorno (ma se mi passa

accanto / un ragazzo, nel soffio / della sua bocca sento / quant'è labile il fiato / del giorno) e

San Giovambattista (Voci e canzoni cancella / la brezza: fra poco il fuoco / si spegne. Ma io

sento ancora / fresco sulla mia pelle il vento / d'una fanciulla passatami a fianco / di corsa)

suggerivano che il poeta da una realtà oggettiva trapassasse in un'altra realtà che potremmo

definire più immaginifica, ma in Ballo a Fontanigorda, questo passaggio si fa più presente.

In Incontro:

Nell'aria fresca d'odoredi calce per nuove case,un attimo: e più non restadel tuo transito brevein me che quella fiammadi lino – quell'istantaneo battito delle ciglia,e il pànico del tuo sorpreso- nero, lucido – sguardo.

La realtà oggettiva e sensoriale data dall'odore di calce per la costruzione di nuove case viene

interrotta da un incontro che amplifica la sensorialità di un unico attimo in tre immagini

rimaste nella mente del poeta: la fiamma di lino, il battito delle ciglia, il panico dello sguardo

sorpreso. L'intenzione del poeta qui è ancora prima di tutto quella di descrivere quell'attimo,

7 A.Malaguti, op.cit.; p.48-9

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una sensazione, una realtà “maggiorata”, ma più avanti nelle altre raccolte il tema

dell'incontro provocherà descrizioni più immaginifiche che preluderanno a una realtà

metafisica.

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FINZIONI

Finzioni, oltre ad essere la terza raccolta caproniana è stato anche il titolo della prima silloge

di tutte le poesie scritte fino a quel momento. Come un'allegoria e Ballo a Fontanigorda

diventano dunque delle sottosezioni e sono accorpate anch'esse con il titolo ambiguo di

Finzioni come se tutta la sua poetica potesse riassumersi in questa parola. Ancora un volta è

lo stesso poeta a commentare la scelta di questo titolo:

Dico, guardate i titoli: inconsciamente, già a vent'anni, si può dire che avevo intitolato Come un'allegoria. Cioè vedevo la realtà, non la vedevo; la vedevo come allegoria di qualcosa che ci sfugge. Poi, col secondo, anticipai di almeno quaranta anni Borges: Finzioni. Vedevo gli oggetti come finzioni di qualcosa di sfuggito.8

Tra la prima e la seconda raccolta viene a instaurarsi un rapporto di relazione tra quattro

sostantivi: realtà e allegoria nella prima e oggetti e finzioni nella seconda. Da una parte la

realtà nasconde un'allegoria, dall'altra gli oggetti acquisiscono la caratteristica di essere

soltanto delle finzioni, ma in entrambi i casi ciò che resta immutato è quel qualcosa che ci

sfugge. È questa una ragione fondamentale per cui le due raccolte possono essere contenute

all'interno di un unico volume: la realtà è costituita da oggetti e il livello letterale di una

allegoria è in qualche modo una finzione, un qualcosa che esiste solo come schermo in cui

intendere qualcos'altro. Questo senso di complementarità tra le raccolte non significa

comunque che non vi siano delle notevoli differenze. Anzi tutto in Finzioni spariscono quelle

prosopopee che abbiamo chiamato “ontologiche”: la realtà intesa come paesaggio idilliaco e

bucolico non è più la protagonista dei componimenti. Essa è attraversata sempre da figure

umane descritte in maniera molto essenziale ed espressive di una vitalità erotica o

malinconica allo stesso tempo: donne, fanciulle, marinai, pescatori dominano la scena

insieme all'io del poeta (soggetto quest'ultimo, sempre più interno e presente alla poesia e

avvertito come un io-comprensivo capace di inglobare tutta la realtà esterna e ogni

8 Poesia nuova, 1958

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percezione che essa proietta sul sé). La comparsa di tutte queste figure umane comporta una

predominanza del tema

dell'incontro epifanico. In Donna che apre riviere:

Sei donna di marine, donna che apre riviere.L'aria delle mattinebianche è la tua aria di sale - e sono veleal vento, sono bandierespiegate a bordo l'ampievesti tue così chiare.

Oppure in Sono donne che sanno:

Sono donne che sannocosì bene di mare

che all'arietta che fanno a te accanto al passare

senti sulla tua pellefresco aprirsi di vele

e alle labbra d'arselledeliziose querele.

La vista o l'incontro con la donna provocano nel poeta una serie di sensazioni che, una volta

trascritte in versi, vengono descritte attraverso una serie di immagini “ipersensoriali” e una

densità metaforica nella quale si celano un erotismo e una sensualità molto forti. Il bisogno di

descrivere l'attimo dell'incontro con immagini tanto sensoriali è indicativa di un bisogno da

parte del poeta di voler lottare contro il tempo, di voler contrapporre ad esso un momento

avvertibile concretamente, quasi come se ci trovassimo di fronte ad una scultura. In questo

senso non siamo d'accordo con Leonelli quando scrive che “il tempo entra nella poesia di

Caproni”9 con la raccolta successiva, Cronistoria. Una concezione nostalgica del tempo che

9 G.Leonelli, Giorgio Caproni: Una guida alla lettura di un grande poeta del Novecento, Garzanti, Milano,

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passa è presente in fin dei conti, come abbiamo notato, già a partire da Come un'allegoria,

ma è Finzioni la prima vera raccolta sul tempo, sulla necessità di salvarlo, custodirlo nella

memoria. Se usiamo questa chiave di lettura, ci accorgiamo subito che il libro si divide a

metà all'altezza di Batticuore. In tutta la prima parte viviamo in un presente costituito dagli

incontri e dalle sensazioni iperboliche del poeta, al massimo l'io può evadere in una realtà

immaginifica (come in Veneziana in cui la vista degli “iridati occhi” di una fanciulla

veneziana produce “l'arguta / ombrata grazia d'una / scena sulla laguna” in cui prendono

colore nell'immaginazione di quei “lindi paesi” le gioie e i dolori derivati dagli arrivi e dalle

partenze dei marinai; oppure come in A mio padre in cui si descrivono una realtà sensoriale -

perchè avvertibile attraverso l'olfatto - passata e ormai perduta tipica della generazione del

padre e una ancora valida nella realtà presente abitata dal figlio), ma tutto si svolge in un

presente cristallizzato.

La seconda parte del libro che comincia con Mentre senza un saluto introduce il motivo del

lutto e del ricordo, dell'attimo presente che quasi proustianamente riconduce alla cosa

perduta. In Sonetto d'Epifania:

Sopra la piazza aperta a una leggeraaria di mare, che dolce tempestacoi suoi lumi in tumulto fu la serad'Epifania! Nel fuoco della festarapita, ora ritorna a quella fieradi voci dissennate, e si ridestanel cuore che ti cerca, la tua cera allegra – la tua effigie persa in questatranquillità dell'alba, ove scomparein nulla, mentre gridano ai mercatialtre donne più vere, un esitared'echi febbrili (i gesti un dì acclamatial tuo veloce ridere) al passaredei fumi che la brezza ha dissipati.

La poesia è divisa tempolarmente dal “fu” del v.3 e dall' “ora” del v.5. Immerso (“ora”) nelle

1997; p.20

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luci di una festa per l'Epifania e nelle grida di donne più vere (perchè vive?), il poeta ricorda

quando alla stessa festività partecipava insieme alla donna amata e ormai perduta, Olga

Franzoni. Quest'ultima è spesso chiamata in causa con il senhal della cera, che lo si ritrova

appunto anche in un'altra poesia, E ancora:

Sorpresa in delicatetinte nella leggeraora di sera, a un'ariabruciata nel sudore del giorno la tua cerami reca una punturadi nostalgia:

Stasera ti troverò?

La rosa del tuo nome è bruciatanella memoria. E ancora:

Ti troverò stasera?

Anche in questo caso, lo scarto temporale si esprime attraverso i due senhal della cera e della

rosa, l'uno per Olga, l'altro per Rina (il cui primo nome era appunto Rosa e che come

vedremo in più di una poesia è richiamata col nome del fiore). Guardando la cera di Rosa il

poeta ricorda Olga con “una puntura di nostalgia”, tanto da bruciare per un attimo il nome di

Rina. In questo senso due oggetti come cera e rosa, rendendosi simboli di qualcos'altro,

diventano delle finzioni, degli oggetti che sono qualcosa, ma che per il poeta significano

altro, ingannando la sua vista.

Ma allo stesso modo, sono finzioni anche tutte quelle figure umane di cui abbiamo detto: le

fanciulle, i marinai, i pescatori della prima parte del libro che incontrandosi con (o osservati

da) il poeta trasformano l'attimo presente o in una realtà immaginifica o in un ricordo. Ecco

spiegato dunque il significato del titolo ed ecco anche spiegato il motivo per cui le due

raccolte precedenti possono in qualche modo rientrare in una silloge unica. La realtà

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continuamente è qualcosa che rimanda ad altro e cela un significato diverso e indecifrabile

per la razionalità umana.

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CRONISTORIA

Potremmo definire Cronistoria pubblicata nel 1942 un canzoniere in morte dell'amata. Per

quanto possa pensarsi immediato il collegamento tra l'amata morta e Olga Franzoni, in realtà

non abbiamo alcuna prova che ci permetta di ascrivere al “tu” interlocutorio un'identità

sicura. La morte potrebbe essere intesa in alcune poesie anche come la morte del tempo, la

fine irreversibile dell'attimo presente, un momento sensoriale che non potrà più tornare:

Dove l'orchestra un fiatodava a dolci figuresopra la scena, ancorami conduce al tuo latola tua insistenza – al rossobuio che appena in fuocoliberava il tuo volto.

Io non ero in ascoltodi quelle note: l'ore le bruciava l'odoredella tua maglia – il ventolieve che la tua boccasenza colore, nel rossodel teatro, libravail tuo sudore – l'ariadel tuo petto commosso.

Per quanto il tempo verbale della poesia (che coincide con il tempo verbale dominante

dell'intera raccolta) sia il passato, vi si scorge ugualmente quel momento epifanico tipico

delle raccolte precedenti. Il poeta ricorda un'orchestra, forse un giorno di festa passato con la

fidanzata, la cui vicinanza ricrea quella realtà immaginifica, ipersensoriale di cui abbiamo

detto. Che si tratti di Olga, di Rina o di qualsiasi altra donna, non possiamo dirlo, sappiamo

soltanto che l'uso del passato testimonia la scomparsa di qualcosa che è andato perduto ed è

irrecuperabile. Non a torto la Dei scrive che il “tu” interlocutorio “è una presenza precaria e

inafferrabile, volta alla fuga e alla sparizione, che ha una sua innata e caparbia resistenza,

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sembra prendere forza nei distacchi, ed è per questo inseguita e rimpianta”10, dunque,

potremmo aggiungere, quasi un fantasma. Il tono della raccolta è assai cupo. L'attimo del

ricordo, già preannunciato in Finzioni, diviene ora una ricerca ossessiva: tutta la realtà

sembra predisporsi per essere ricordata dal poeta:

Quale debole odoredi gerani ritoccaquesta corda del cuorecome un tempo?

Traboccanel mio cuore la pienadei tuoi giorni perduti,dei miei giorni vissutisenza spazio – con pena.

E lo spazio era un fuocodove ardevi per giococoi tuoi abiti – il biancodel tuo petto, ed il fiancoche nel vento odorosodei gerani, in riposoreplicava il tuo accento.

Era un debole ventoche portava lontanoil tuo nome – un umanovento acceso sul fronted'un continuo orizzonte.

L'odore dei gerani, sconvolge l'animo del poeta che si lascia trasportare da ricordi e da

immagini ipersensoriali. Allo stesso modo dei “gerani”, in ogni componimento s'individua un

oggetto che provoca un ricordo: l'orchestra, il “grigioverde e il sole” di Udine, un disco, un

abito rosso... è il tema solito delle finzioni, degli oggetti che sono altro da ciò che appaiono.

Ma in Cronistoria cambiano drasticamente l'intonazione e la realtà: non c'è più l'erotismo, la

sensualità, la dolce malinconia delle prima raccolte, domina un tono cupo, luttuoso e

10 Dentro 'Cronistoria', in Giorgio Caproni, I faticati giorni: quaderno veronese 1942, a cura di A.Dei, San Marco dei Giustiniani, Genova, 2000; p.12

19

disperato; dai verdi idilli bucolici di Come un'allegoria, dalle riviere azzurre e dai paesaggi

marini delle raccolte successive, si precipita nel cromatismo del rosso. Il fuoco, la brace, il

bruciare, ma anche il loro equivalente biologico, il sangue, permeano la raccolta. Un

cromatismo che, come molti studiosi hanno sottolineato, ricorda i Canti orfici che proprio nel

1941 erano stati ristampati da Falqui, rilanciando il “caso Campana”. È stato Oreste Macrì il

primo ad accostare il nome del “poeta visionario” a Caproni parlando di un metamorfismo

orfico e visionario che però si attuava con le forme di un classicismo rigoroso, seppure

intransitivo e autoreferenziale11. E certamente non è un caso che Cronistoria sia passata al

vaglio della critica come la raccolta più vicina all'ermetismo per certi usi linguistici tipici di

quel movimento12. Caproni proprio in quegli anni aveva stretto legami di amicizia con Luzi e

Betocchi, due dei poeti più importanti dell'ermetismo e si interessava certamente a quel

movimento se guardiamo alle tante recensione che dedica ad Alfonso Gatto e allo stesso

Luzi. Non possiamo negare che un certo grado di orfismo alla Campana sia presente nelle

poesie di Cronistoria: la realtà è legata a quei pochi oggetti appena accennati nelle poesie, ai

gerani, alle vesti della donna, a un'orchestra ma la poesia si affida tutta ormai al potere

evocativo e allusivo della parola, a una realtà altra, metafisica anticipatrice di quella onirica

de Il Passaggio di Enea.

Cronistoria stabilisce un punto di arrivo e un punto di svolta nel percorso poetico caproniano:

se da una parte preannuncia la totale sparizione della realtà presente e sensoriale tipica delle

prime poesie, è anche l'ultima raccolta in cui ancora è avvertibile un forte soggettivismo

autobiografico, in cui il poeta, in pieno tempo di guerra, si raccoglie in se stesso nell'estremo

tentativo di costruirsi un angolo soltanto suo e ancora essenzialmente lirico. Sebbene alcuni

critici come Malaguti abbiano azzardato l'ipotesi che la cupezza e il senso di luttuosità della

11 O.Macrì, Letture, “Libera voce”, a.V, n.15, 10/4/1947, ristampato con il titolo di Giorgio Caproni in Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1956; pp.295-305.

12 A.Dei, Giorgio Caproni, Mursia, Milano, 1992; p.41

20

raccolta siano dovute proprio al clima bellico degli anni della stesura13, non vi è nemmeno un

indizio nei componimenti che sia in corso una guerra. Il titolo stesso presuppone una storia

cronachistica, costituita da giorni “senza virtù” come scrive lo stesso Caproni in Ricorderò

San Giorgio, una vita che attraversa città reali come Udine, Pisa, Assisi, Tarquinia e

soprattutto Roma, l'eterna capitale celebrata dalla retorica fascista che in Finita la stagione

rossa diventa il simbolo di una precarietà della vita:

Finita la stagione rossaritroverò la passionedi questi mattoni cotti- l'aria di sangue e il nomebruciato nei giorni irrotti?

Ritroverò allentatala pietra nella balestra,e la mia mira accecatada quanta polvere infesta!

Né Roma avrà più gloriadalle campagne a fuocoverdi, ma cronistoriasulle sue lapidi spentedal mio soggiorno – dal giocorude che le sue lenteimmagini, alzando i massi,aprirono in dì precari.

(Oppure riudrò più chiarii suoi squilli – spaccherai tuil sasso sulla mia frontecol grido di gioventù?)

13 A.Malaguti, op.cit.;pp.81-153

21

IL PASSAGGIO D'ENEA

La raccolta ha una vicenda editoriale complessa. Pubblicata inizialmente nel 1952 col nome

di Stanze della funicolare, è composta da diciassette poesie divise in quattro sezioni, secondo

un indice assai diverso da quello definitivo14. Col titolo di Il Passaggio d'Enea esce nel 1956

una silloge di tutte le raccolte pubblicate sino a quel momento con notevoli cambiamenti

nella struttura e nell'ordine dei componimenti nella sezione “terzo libro” Stanze della

funicolare. Nel 1968 esce presso Einaudi Il ‹‹Terzo libro›› e altre cose, che appunto riprende

il terzo libro de Il Passaggio d'Enea e contiene trentaquattro componimenti suddivisi in otto

sezioni. La raccolta (intitolata adesso soltanto Il Passaggio d'Enea) acquista una versione

definitiva soltanto nel 1983 con la Garzanti in Tutte le poesie.

Come detto a proposito della silloge unificante di Finzioni, è assai indicativo che

nell'edizione del 1956 tutto il percorso poetico caproniano finora stampato assuma il nome de

Il Passaggio d'Enea. Abbiamo già in altra sede15 indagato i rapporti che intercorrono tra

questa quinta raccolta e le precedenti, basterà ricordare che con Il Passaggio d'Enea, Caproni

sviluppa un senso nuovo di fare poesia abbandonando il lirismo più autobiografico e

soggettivo delle prime quattro raccolte e avvicinandosi maggiormente all'epos. Se dunque

fino a questo momento Caproni si era limitato ad interpretare la figura di un Orfeo moderno,

ora si sentierà assai più legato ad un altro grande personaggio della mitologia romana, Enea:

(...)Concludevo dicendo che tale Terzo libro, così isolato dal resto, potevo finalmente riconsiderarlo, con

sufficiente distacco, come indicativo a me stesso della direzione - credo rimasta determinante - della mia ricerca

negli anni che pressappoco corrono, piccole appendici e digressioni a parte, dal '43 al '54. Anni per me di bianca

e quasi forsennata disperazione, la quale proprio nell'importance formale della scrittura (...), e quindi anch'essa

disperata tensione metrica (prolungamento dell'umanistico e ormai crollato <ei> apposto con stridore e ironia

14 Nel dettaglio si guardi all'edizione mondadoriana curata da L.Zuliani (a cura di), op.cit.; p.1124-28.15 L.Mandalis, Percorsi poetici caproniani: da Come un'allegoria a Il Passaggio d'Enea, tesi di laurea, Pisa,

2012

22

all'anodino <utente> delle Stanze della funicolare), forse cercava per via di paradosso, ma con lucida coscienza,

e certo del tutto controcorrente rispetto alle altrui proposte e risultanze, un qualsiasi tetto all'intima dissoluzione

non tanto dalla mia privata persona, ma di tutto un mondo d'istituzioni e di miti sopravvissuti ma ormai svuotati

e sbugiardati, e quindi di tutta una generazione d'uomini che, nata nella guerra e quasi interamente coperta - per

la guerra - dai muraglioni ciechi della dittatura, nello sfacelo dell'ultimo conflitto mondiale, già in anticipo

presentito e patito senza la possibilità o la capacità, se non in extremis, d'una ribellione attiva, doveva veder

conclusa la propria (ironia d'un Inno che voleva essere di vita) giovinezza.16

Si parla di “tutta una generazione d'uomini”. Ma vi sono altre dichiarazioni più esplicite:

(…) ormai è giunto il momento, dopo tanto paziente e isolato lavoro sulla parola (…) di indirizzare

risolutamente il gusto al discorso: di ritentare, insomma, dopo tanta effusione, la composizione, un'ombra

almeno di ciò che comunemente si intende per poema, tentando alfine il salto, ricchi di tanta esperienza formale,

dalla lirica pura alla poesia. Un salto sì, dall'alto in basso, ma appunto per questo dall'astrazione (dalla

solitudine) alla vita concreta (alla società).17

E infine:

Del resto ho sempre pensato che in poesia non basta "dire" patria amanda est per fare, putacaso,

poesia...patriottica. Si deve semmai suscitare l'amor di patria parlando d'altro, magari, per fare un paradosso,

di...cipolline. Parlarne con tanta forza da suscitare in chi legge uno spontaneo amore per la terra che le produce

e per gli uomini che le coltivano! Anche da questo punto di vista val molto di più la ballatetta del Cavalcanti che

non tutta la Bassvilliana di Vincenzo Monti, pur così ricca di fatti importanti, esplicitamente detti.18

Dunque la vocazione civile ed epica non deve esplicitarsi, ma nascondersi, rendersi indiretta,

spiegarsi in un modo, ma intendersi in altro. Ora, sappiamo che tutta la raccolta si basa su

una allegoria esterna dichiarata dall'autore riguardante la figura di Enea. Questi per Caproni è

16 G.Caproni, Nota a Il passaggio d'Enea, in Giorgio Caproni. L'opera poetica, pp.189-190, Garzanti17 G. Caproni, La parte dell'attor giovane, in “Mondo operaio”, 10 dicembre 1949 (ora cit. in Adele Dei,

Giorgio Caproni, p.68)18 F.Camon (a cura di), Il mestiere di poeta, Garzanti, 1982; p.130

23

l'eroe che

fuggendo da Troia in fiamme con su le spalle il padre Anchise e per mano il figlio Iulo, si fa

carico di un dilemma generazionale, per cui vanno portati al sicuro sia i padri che i figli verso

un futuro migliore:

Figlio e nel contempo padre, egli sofferse tutte le croci e le delizie che una tale duplice condizione comporta.

Dico Enea meno eroe che uomo, e per di più uomo posto al centro di un'azione suprema, la guerra, proprio nel

momento della sua maggior solitudine: quando non potendo più appoggiarsi alla tradizione, ossia al padre che,

ormai cadente, è lui ad aver bisogno d'essere sostenuto, tanto meno può appoggiarsi alla speranza, all'avvenire,

ossia all'ancor troppo piccolo figlio, tuttavia bisognoso d'appoggio.19

Svelata l'allegoria, bisogna tener di conto che essa pervade celatamente tutta la raccolta e

dunque gran parte dei componimenti vanno analizzati seguendo questa chiave di lettura.

Ognuna delle tre sezioni del libro corrisponde a una diversa relazione del rapporto realtà-

allegoria: la prima parte formata dai due componimenti introduttivi Alba e Strascico, da tutta

la sezione de Gli Anni tedeschi; la seconda dalla sezione intitolata Le stanze; la terza da In

appendice.

Nella prima parte ci troviamo di fronte ancora al tipico meccanismo caproniano finora

analizzato di una realtà presente che si trasforma in un'altra realtà. In Alba ad esempio:

Amore mio, nei vapori d'un barall'alba, amore mio che inverno lungo e che brivido attenderti! Qua dove il marmo nel sangue è gelo, e sadi rifresco anche l'occhio, ora nell'ermorumore oltre la brina io quale tramodo, che apre e richiude in eternole deserte sue porte?...Amore, io ho fermoil polso: e se il bicchiere entro il fragoresottile ha un tremitìo tra i denti, è forsedi tale ruote un'eco. Ma tu, amore,

19 G.Caproni, “Noi, Enea”, in La fiera letteraria, 3 luglio 1949

24

non dirmi, ora che in vece tua già il solesgorga, non dirmi che da quelle portequi, col tuo passo, attendo la morte.

Come scrive lo stesso Caproni a proposito della poesia:

A Roma, verso la fine del 1945. Ero in una latteria, solo, vicino alla stazione, e aspettavo mia moglie Rina che

doveva arrivare da Genova. Una latteria di quelle con i tavoli di marmo, con le stoviglie mal rigovernate che

sanno appunto di “rifresco”. Mia moglie non poteva stare con me a Roma perchè non trovavo casa e dovevo

stare a pensione. Erano tempi tremendi. Io insegnavo.20

Se torniamo alla poesia ci accorgiamo che in essa è ancora importante una realtà sensoriale,

per cui il poeta si trova in un bar, seduto davanti a un tavolino di marmo (di cui viene

avvertito il gelo), circondato da un odore molto forte di rifresco. Ma la differenza con i

componimenti delle altre raccolte però sta nel fatto che la “realtà altra” è sempre meno -

perdonandoci la quasi-anadiplosi – “realisticamente iperbolica” e invece sempre più onirica o

metafisica. La brina, i vapori e - sebbene non in questa poesia – la nebbia, dominano tutta la

raccolta e indicano sempre un limite confuso tra realtà e sovrasenso o come scrive questa

volta giustamente il Malaguti, tra realtà ed Erebo21. Il tram che s'intravede nella brina è un

oggetto fortemente simbolico, sembrerebbe quasi un Caronte infernale che una volta aperte le

proprie porte ai dannati le richiude in eterno. È (“forse”) l'eco delle sue ruote a far tremare il

bicchiere tra i denti dello scrittore nonostante abbia il polso fermo; poi con l'avversativa il

poeta crede che al posto dell'amata (Rina? Olga?) arrivi il sole e dunque l'alba (nelle varianti

precedenti al posto di “sgorga” era “sorga”) che preannuncerebbe la propria morte. Non è

facile interpretare il significato della seconda parte della poesia. Una spiegazione abbiamo

provata a darla nel nostro precedente studio22, in cui costatavamo che per “morte” si

20 Intervista a Giorgio Caproni, in Gente, 198121 A.Malaguti, op.cit.;pp.155-16322 L.Mandalis, op.cit.;

25

intendesse la morte del poeta lirico e per alba (che tradizionalmente è sempre simbolo di

qualcosa che inizia) la nascita di quello epico23, ma cosa ci interessa mostrare è il radicale

cambiamento che la realtà ha subito. Essa c'è ancora, ma sembra in costante evaporazione e

dissolvimento; gli oggetti non sono più finzioni, ma assumono un valore simbolico

difficilmente decifrabile: il tram, il bicchiere, l'alba, la donna hanno una valenza ambigua,

dicono altro da ciò che realmente sono e sembrano appannarsi tutti in una realtà spettrale.

Una caratteristica questa che pervade l'intera raccolta. Si guardi ad esempio a Strascico:

Dov'hai lasciato le ariose collane,e i brividi, ed il sangue? Nel lamentovasto che un pianoforte da lontane stanze nel novilunio gronda, io sento la tua voce distrutta – odo le trame in rovina, e l'amore morto. Il ventopreme profondo un portone – d'un cane dentro la notte, il gemitìo un accento pone di gelo nel petto. E tu i finidenti, perché tu non riaccendi, amore,qui dove alzava di brace i suoi vinisul selciato ogni giovane? Un madoredi brina, ora il giornale dove i primicrimini urlano copre, e il tuo cuore.

Le immagini sono lugubri, cupe, vi è un gusto quasi alla Poe di terrorizzare attraverso una

fitta rete di simbologie oscure che persistono anche nella prima sezione della raccolta, Gli

anni tedeschi e in particolare nella sottosezione dei tipici sonetti caproniani, I lamenti.

In questa prima parte della raccolta dunque la realtà pur essendo ancora una realtà

ipersensoriale, modifica radicalmente i propri ambienti e le proprie immagini. Tutto,

diventando più simbolico, diventa più universale: un'intenzione questa che si allinea

perfettamente con le caratteristiche dell'epos.

La seconda parte della raccolta - che inizia con la sezione Le stanze - è quella in cui la

23 Una chiave di lettura che risulterebbe assai comprovata da molte altre poesie della raccolta che si svilupperebbe tutta in questa costante dicotomia di fondo. Vedi Le Biciclette, Stanze della funicolare etcetc

26

vocazione all'epos si compie maggiormente, in cui è esplicita l'intenzione del poeta di

universalizzare la propria esperienza di vita e di sentimento:

Le Stanze della funicolare sono un poco il simbolo, o l’allegoria, della vita umana, vista come inarrestabile

viaggio verso la morte. La funicolare del Righi, a Genova, esiste davvero. Il suo primo percorso avviene al buio,

in galleria: un buio, e una galleria, che potrebbero essere interpretati come il ventre materno. Poi, la funicolare

sbocca all’aperto (è la nascita), e prosegue sino alla meta, tirata dal suo cavo inflessibile (il tempo, il destino),

senza potersi fermare. Ogni stanza è una stagione differente della nostra esistenza. E di stagione in stagione, il

passeggero (l' “utente”) cerca l'attimo bello (ogni stagione ha il suo) dove potersi arrestare: dove poter chiedere

un alt nel suo essere trascinato dal tempo (il cavo) inarrestabile, fino all'ultima stazione, che nel piccolo

poemetto è avvolta nella nebbia (mistero e lenzuolo funebre insieme).24

L'impulso allegorico permea il poemetto, la realtà di ogni stanza svapora in un sovrasenso,

gli oggetti che la compongono sono anch'essi qualcosa d'altro da ciò che sarebbero

letteralmente. E quando nella lettura ci troviamo di fronte a una realtà sensoriale che potrebbe

somigliare a quella delle prime raccolte, non procediamo più nel senso realtà-allegoria tipico

delle prime poesie, ma viceversa in quello allegoria-realtà. Nella terza strofa, ad esempio:

E lentamente, in un brivido, l'arca,di detrito in detrito, entro la lievenausea s'inoltra – oscillando defalcai mercati di pesce e d'erbe, e il piede via sospinge di felpa oltre le biancherocce del giorno. E laddove un coloredi febbre la trascorre sulle pancheancora intorpidite, a un tratto al soleahi quale orchestra frange fresca il marecol suo respiro di plettri. Col rame d'un primo melodioso tram nel saledi cui l'etere vibra, fra il sartiamed'un porto ancora tenero un'auroraecco di mandolini entro cui giàronza chiusa altra spinta – ecco un'altr'orain cui impossibile è chiedere l'alt.

24 Lettera di Caproni a Betocchi datata “Loco di Rovegno, 20 agosto 1979”

27

Mentre nelle prime raccolte, come abbiamo visto, il poeta da una realtà presente e sensibile

passava ad una ipersensoriale e immaginifica attraverso un incontro epifanico, adesso il

percorso è inverso: dall'allegoria di questa funicolare, dalla vita che scorre senza mai

fermarsi, il poeta intravede, quasi come fossero delle visioni, degli stralci di realtà: i mercati

di pesce e d'erbe, il primo tram della mattina e il sartiame d'un porto all'alba. È come se il

poeta sorvolasse la realtà, la guardasse dall'alto. D'altronde il poemetto stesso diventa un

contenitore di tutte le tipiche immagini caproniane delle raccolte precedenti, come ad

esempio nella strofa cinque:

L'ora che accendono bianche le tendeagitate alla prima brezza, e al marereca ragazze il cui sciame discendefresco le scalinate – arde di chiaremaglie la lana e l'acuta profluviedi capelli e di risa, e gli arrossaticalcagni acri nei sandali tra esuviedi conchiglie ristora e vetri. I lati vibrano della muta arpa che inclinaunicorde a altre balze, ma già un Righirosso da un'altra Genova la cimatira inflessibile al cavo – dai gridil'arca e dalle persiane verdi l'orastacca come un sospiro, oltre cui stadi specchiere freschissima la solastanza ove lieve era chiedere l'alt.

Sono viste dall'alto anche le fanciulle tante volte protagoniste della poesia caproniana, quegli

oggetti-finzione che apparivano in un modo, ma erano anche allegorie di un “qualcosa di

sfuggito”. È vista dall'alto pure Genova e, come apprendiamo da alcuni autocommenti al

testo, la vecchia camera della defunta Olga Franzoni, caratterizzata dalle persiane verdi e da

una specchiera. Quindi non solo la realtà viene vista dall'alto, da un punto di vista in fondo

irreale perché allegorico, ma sembrerebbe quasi che la funicolare passi sopra lo stesso

percorso poetico intrapreso da Caproni, sopra tutte quelle immagini e quelle sensazioni e quei

28

suoni che avevano caratterizzato le raccolte precedenti dell'autore.

Nel secondo poemetto della seconda sezione All alone, il soggetto poetante perde totalmente

il contatto con la realtà, è immerso in una allegoria costituita soltanto da simbologie. I due

testi (Didascalia ed Epilogo) che fanno da cornice al terzo (All alone) si relazionano in una

temporalità per cui il primo descriverebbe l'arrivo a Genova, il secondo la partenza.

Dobbiamo tener presente che da ora in poi Genova è sì un luogo reale, ma anche come è stato

detto un “luogo dell'anima”. Lo stesso Caproni la definirà la città del mézigue (di me stesso

in argot) in cui ha acquisito la propria personalità e maturità. In Didascalia:

Entravo da una porta stretta,di nottetempo, e il mareio lo sentivo bagnare la mia mano – la ciecaanima che aveva frettae, timida, perlustravail muro, per non inciampare.

Dal vicolo, all'oscillared'una lampada (biancaed in salita finoa strappare il cantinoal cuore), ahi se suonavail lungo corno il vento(lungo come un casamento)nell'andito buio e salino.

Con me, mentre un cerinomi si sfaceva bagnatofra le dita, alla guazzamarina anche la lunaentrava – entrava una ragazza, che la calza,cauta, s'aggiustava.

Era un portone in tenebra,di scivolosa arenaria:era, nell'umida ariapromiscua, il mio ingresso a Genova.

Difficile, se presa alla lettera, capire di che cosa stia parlando il poeta. È un componimento in

29

cui la tensione erotica è molto forte e non è impossibile darne una lettura che alluda proprio

ad un'esperienza sessuale avuta dal poeta in quel portone nella tenebra. Anzi, questo tipo di

interpretazione si fa più verosimile se leggiamo in quel “mio ingresso a Genova” un ingresso

verso la maturità, verso il mèzigue. Il senso può essere ricostrutito grazie ad una poesia

successiva pubblicata ne Il congedo del viaggiatore cerimonioso, Lamento (o boria) del

preticello deriso che non per niente porta la dedica a Mézigue e nella quale compare

nuovamente il portone:

Da giovane amavo arraffareanch'io, con la vostra sete.[…]

Fors'era in me un sessualeémpito il voler arricchire.La Genova mercantiledei vicoli – l'intestinaletenebra dov'anche il mare,se s'ode, pare insaccaredenaro nel rotoliodella risacca (ma io,scusate, non mi so spiegaretroppo bene), il Malein me sembrava inculcarecon spasimo quasi viscerale.

Eppure fu in quel portualecaos, ch'io mi potei salvare.Che dirvi, se la vera autrice della mia conversione(ma sì: non ho altra ragioneda addurre) fu una meretrice?

Alessandra Vangeloè il suo nome e cognome.Di Smirne: una giunonecosì – una dannazioneper me, privo di cielocom'ero, - che per mia ossessione(vedete: da lei non si staccala mia mente) imperoebbe, giù da Porta dei Vacca,fino a Vico del Pelo.

30

[...]

Eh sì, sarebbe canzonelunga, se dovessi narrarecom'io, ormai costrettoda un impeto di liberazione,sfogai, fino all'estenuazione,l'anima, in un portone.

All'alba me n'andai sul mare,a piangere. Di disperazione.

È la descrizione di un atto sessuale avuto con una prostituta in un portone. È assai probabile

che i due componimenti descrivano lo stesso episodio: d'altronde se nel primo l'atto sessuale

porta il poeta a prendere consapevolezza di sé e a una maturazione, allo stesso modo, nella

seconda, il poeta, nei panni di un prete, decide di prendere l'abito subito dopo aver compiuto

l'atto sessuale con la prostituta.

Con All Alone l'io poetante sparisce totalmente lasciando il posto a “Uomini miti con piccole

borse / di cuoio, dove vanno parlottando / soli – scansando con brevi rincorse i veicoli, e

ancora parlottando / soli, di nottetempo nei portoni / neri dei loro vicoli la mano / mettono

avanti a tastare i polmoni / umidi che li inghiottirono?”, una poesia in cui il poeta descrive “il

rincasare e un po' il delirare a letto di certi piccoli uomini miti che girano tutto il giorno

parlottando soli e facendo i conti, con certe piccole borse di cuoio dove non sai cosa ci sia, e

che negli oggetti casalinghi trovano ancora la loro fede etc. etc.”25 Non è semplice

comprendere il motivo per cui Caproni abbia deciso di inserire All alone tra Didascalia e

Interludio ovvero tra due poesie stilisticamente e tematicamente molto simili che hanno però

davvero poco in comune con questo terzo componimento. Forse tra la poesia del suo arrivo a

Genova e quella della sua partenza ha voluto inserire un poemetto che descrivesse gli

“uomini miti” che abitano la città, con un tono polemico (marginale, ma non del tutto assente

25 Lettera a Betocchi datata “Roma, 6 giugno 1954”. Vedi anche apparato critico di Zuliani nel volume mondadoriano, op.cit; p.1233.

31

nella poesia caproniana) nei confronti della società industriale che aliena l'uomo dalla propria

vita e lo riduce ad un omuncolo che, con una valigetta in mano, se ne va per le vie della città

parlando da solo.

L'ultimo poemetto, quello che dà il titolo alla raccolta, Il Passaggio d'Enea si divide in tre

componimenti: Didascalia, Versi ed Epilogo. In Didascalia il poeta passa la notte in una

Casa Cantoniera vicino a una “rotabile”26 e il continuo passaggio delle automobili con i fari

accesi filtrati dalle persiane compone una specie di scheletro nella stanza, un qualcosa che

ricorda al poeta il passaggio d'Enea:

Fu in una casa rossa:la Casa Cantoniera.Mi ci trovai una seradi tenebra, e pareva scossala mente da un transitarecontinuo, come il mare.

Sentivo foglie secche,nel buio, scricchiolare.Attraversando le stecchedelle persiane, del mareavevano la luminescenzascheletri di luci rare.

Erano lampi errantid'ammotorati viandanti.Frusciavano in me l'ideache fosse il passaggio d'Enea.

La realtà sensoriale è tornata. Essa è cupa come quella dei sonetti introduttivi Alba e

Strascico e de I lamenti, e il procedimento con cui viene descritta somiglia a quello delle

prime raccolte in cui da una realtà presente ne presupponeva un'altra inconoscibile. In questo

caso il passaggio delle automobili ricorda a Caproni, in un procedimento assai allegorico, il

passaggio d'Enea. Allegorico e non simbolico perché tra realtà sensoriale e oggetto vi è uno

26 “Questa casa cantoniera era naturalmente su una rotabile, allora le autostrade non c'erano ancora, e io sentivo sempre questo fruscio” (Intervista radiofonica Antologia, 1988)

32

scarto razionale e non immediato. Allo stesso modo del Baudelaire di Benjamin27 che vede

nell'albatro, nella corona, nella prostituta etc... oggetti che allegoricamente significano altro

da ciò che sono, esprimendo la fragilità interiore dell'io poetico e la decadenza della funzione

del poeta, Caproni vede negli “scheletri di luci rare” il “passaggio d'Enea”. Come ha riportato

Zuliani nell'apparato critico “l'immagine iniziale del poemetto, ossia le luci dei fari attraverso

le stecche delle persiane, presente anche nella Didascalia”28, ritorna in una breve prosa

inedita […]:

A volte di nottetempo, mi sveglio di soprassalto e non posso più dormire. Sarà stata un'automobile lontana che passa, o lo scheletro di luce che i fari, attraverso le stecche delle persiane, fanno trascorrere fosforico sul soffitto (chissà), ma è un fatto che ho il sonno così leggero, e a dormire non ci riesco più.Mi metto ad ascoltare il fresco rotolio della ghiaia marina nella risacca, ma poi ricordandomi subito che sono a Roma e che il mare non c'è (il mare a quest'ora, nel plenilunio è una profonda viola odorosa di pesce), allora mi accorgo ch'è il fresco respiro in coro della mia sposa e dei miei due bambini, e questo mitiga un poco lo sgomento che sempre mi prende ogniqualvolta, d'un tratto, m'accorgo d'essere qui.

In Versi il poeta scrive di ciò che vede in quel passaggio, una realtà immaginifica in cui poi

viene svelata esplicitamente l'allegoria alla base del poemetto. Il componimento è assai

importante per indagare il rapporto tra realtà e allegoria in Caproni e vale la pena analizzarlo

strofa per strofa. Nella prima strofa:

La notte quali elastiche automobilivagano nel profondo, e con i fariaccesi, deragliando sulle mobilicurve sterzate a secco, di lunarivampe fanno spettrali le ramagliee tramano di scheletri di lucei soffitti imbiancati? Fra le magliefitte d'un dormiveglia che conduceil sangue a sabbie di verdi e fosforicheprosciugazioni, ahi se colpisce l'occhiodella mente quel transito, e a teorichelo spinge dissennate cui il malocchiofa da deus ex machina!...Leggèredi metallo e di gas, le vive piumeceleri t'aggrediscono – l'acume

27 W.Benjamin, Das Passagen-Werk, Frankfurt a.M., Suhrkamp Varlag, 1982; trad. it., Parigi, capitale del XIX secolo. I “Passages” di Parigi, a cura di R.Tiedemann, Torino, Einaudi, 1986.

28 L.Zuliani (a cura di), op.cit,; p.1262

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t'aprono in petto, e il fruscìo, delle vele.

Il poeta è nel dormiveglia, nel momento quindi che precede l'incoscienza del sonno, in cui la

razionalità sta andandosene per lasciar spazio al sogno. La realtà e gli oggetti diventano in

quel momento qualcosa di confuso, a metà tra un'esistenza materiale e l'evanescenza o la

trasformazione onirica. Come nella poesia precedente il poeta steso sul letto vede proiettate

sul soffitto le luci dei fari delle auto che, filtrando attraverso le persiane della stanza, formano

la tetra immagine di uno scheletro tra delle “ramaglie”. Il transitare di queste luci colpisce l'

“occhio della mente” del poeta e lo spingono a pensare a “teoriche dissennate cui il

malocchio fa da deus ex machina”. È descritto qui il procedimento allegorico-razionale del

poeta che guarda con l'“occhio della mente” che formula teorie insensate nelle quali fa da

deus ex machina (notoriamente l'elemento risolutore della tragedia) il malocchio. Nel

dormiveglia tutto si confonde in un connubio di simboli e allegorie: le auto diventano “vive

piume celeri” che aprono nel petto del poeta un acume, un suono (il fruscìo) e una immagine

(delle vele). “Occhio della mente”, “teoriche dissennate” e “acume” sono tutti sinonimi di un

procedimento razionale in atto durante il dormiveglia che porterà più avanti il poeta a

formulare esplicitamente la celebre allegoria su Enea.

Nella seconda strofa:

T'aprono in petto le folli faleneaccecate di luce, e nel silenziomortale delle molli cantilenesoffici delle gomme, entri nel denso fantasma – entri nei lievi stritoliilucidi del ghiaino che gremiscele giunture dell'ossa, e in pigoliiminimi penetrando ove finiscesul suo orlo la vita, là Euridicetocchi cui nebulosa e sfatta cascala palla morta di mano. E se diceil sangue che c'è amore ancora, e schiantainutilmente la tempia, oh le leghe lunghe che ti trascinano – il rumore

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di tenebra, in cui il battito del cuoreti ferma in petto il fruscìo delle streghe.

La realtà sensoriale avvertita nel dormiveglia si confonde con quella onirica: e così il suono

delle gomme diventa una cantilena nel silenzio mortale e le falene, sebbene non viste

direttamente ma evidentemente esperite (chiunque abbia guidato la sera, ha in mente

l'immagine della falena ipnotizzata dalla luce dei fari), diventano i due tramiti necessari per

giungere all'Erebo, nell'aldilà di nebbia, dove un'Euridice spettrale è colta nell'attimo in cui

svanisce per sempre a causa del contatto (in questo caso non solo visivo, ma anche tattile) col

poeta. Euridice rappresenterebbe probabilmente la solita Olga Franzoni e come dice Zuliani,

questa è l'ultima apparizione esplicita nei testi di Caproni29.

Nella terza strofa:

Ti ferma in petto il richiamo d'Avernoche dai banchi di scuola ti sovrastametallurgico il senso, e in quell'eternorombo di fibre rotolanti a un'astaassurda di chilometri, sui lidinubescenti di latte trovi requienell'assurdo delirio – trovi i gridispenti in un'acqua che appanna una quietesenza umano riscontro, ed è nel raggio d'ombra che di qua penetra i pensieriche là prendono corpo, che al paesaggiodi siero, lungo i campi dei Cimmeridel tuo occhio disfatto, riconosciil tuo lémure magro (il familiarespettro della tua scienza) nel pulsaredi quei pistoni nel fitto dei boschi.

Anche in questo caso la realtà sensoriale esterna entra nel sogno (“metallurgico”, “fibre

rotolanti”, “asta assurda di chilometri”, “pistoni nel fitto dei boschi”). La presenza di un

bosco, di campi, di un'acqua che assai verosimilmente è quella del Lete, rimanda al

29 Ibid.; p.1263

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paesaggio infernale descritto nel VI libro dell'Eneide ai vv 703-9 là dove Enea incontra il

padre Anchise:

Frattanto Enea vede in fondo alla valleun bosco appartato, folto sussurro di selva,e la corrente di Lete lambir quelle placide sedi.Intorno al Lete aleggiavano stirpi e tribù senza numero:come nei prati, allora che l'api, splendendo l'estatesi posan sui fiori di vario colore e s'affollanointorno ai candidi gigli, tutta un sussurro è la piana.

I sussurri virgiliani sono sostituiti dai rumori più meccanici del poemetto caproniano, ma ci

troviamo sempre alle soglie dell'Erebo. Più precisamente il poeta si trova nel campo dei

Cimmeri una popolazione mitica che prende il nome dalla regione in cui abitavano, la

Cimmeria. La fonte, in questo caso, è senz'altro quella omerica dell'Odissea: per Omero i

Cimmeri sono gli abitanti di una mitica terra oltre l'Oceano perennemente avvolta dalle

nebbie, dove non arriva mai il sole ([…] Là dei Cimmeri è il popolo e la città / di nebbia e

nube avvolti). Ulisse vi arriva su indicazione di Circe e, dopo aver celebrato un sacrificio in

onore di quella popolazione, incontra le anime dei morti risalite dall'Erebo e attirate dal

sangue della vittima. Il poeta si trova dunque al confine ultimo della realtà.

Sull'oscurità dei versi finali non è mai stata fatta troppa chiarezza. Per districarsi in questo

passo difficile dobbiamo far riferimento ai due poeti che più o meno esplicitamente hanno

influenzato i motivi del poemetto: Virgilio e Baudelaire. Il richiamo al primo è abbastanza

ovvio: tutto il componimento - ma potremmo ben dire tutta la raccolta – si incentra sul

personaggio di Enea, rivoluzionandone però la figura tradizionale e virgiliana di eroe troiano

fondatore di una grande civiltà e facendone l'eroe di una modernità in cui l'epicità non può

essere enfatica, e deve spogliarsi di ogni rivendicazione patriottica (e non scordiamo quanto

una scelta del genere fosse in contraddizione con la retorica fascista). Il libro cui dobbiamo

far riferimento per comprendere il poemetto caproniano è ancora il VI, la discesa nell'Ade di

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Enea e più in particolare il suo ultimo incontro prima di tornare alla luce: quello con Anchise.

Questi “nel cuore di una verde valletta / anime ch'eran lì chiuse, pronte a salire alla luce, /

passava in rassegna, appunto contava dei suoi / con amore le schiere, tutti i cari nipoti, / e le

fortune e le sorti degli uomini, i costumi, le imprese”, dopo aver riconosciuto il figlio

venutogli in contro e provatolo invano ad abbracciare, risponde alle sue domande

pronunciando un lungo discorso in cui riassume la storia di Roma e quella dei propri

discendenti. Il discorso è ovviamente assai celebrativo, enfatico e colmo di propagandistica

devozione verso l'imperatore Ottaviano, ma quel che è importante sottolineare è una parola,

un accusativo nel verso 689: notas. Quando Anchise vede il figlio esclama:

Venisti tandem tuaque expectata parenti

Vicit iter durum pietas? Datur ora tueri,

nate, tua et notas audire et reddere voces?

Finalmente sei giunto, la tua pietà – che tanto

ho aspettato – ha potuto vincere le durezze

del cammino? Ti vedo, sento la nota voce,

posso parlarti, figlio!

È dunque un riconoscimento, quello di Anchise, che è possibile attraverso una sensorialità

uditiva. Questo accusativo è particolarmente importante perché si collega in parte al verso di

Baudelaire inserito da Caproni nell'incipit del proprio poemetto: A l'accent familier nous

devinons le spectre. È il verso 25 del componimento VII di Le voyage che conclude Les

fleurs du mal. I protagonisti del poemetto baudelairiano sono dei viaggiatori che, interrogati

su quanto debba essere esaltante viaggiare e scoprire nuovi popoli e culture, rispondono che

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c'è poco di entusiasmante nel viaggio: l'uomo è lo stesso ovunque e la noia ti perseguita in

ogni attimo, solo la morte si preannuncia come qualcosa di diverso, un vero viaggio verso

l'ignoto:

c'imbarcheremo allora sui mari delle Tenebre,

lietamente, col cuore d'un passeggero giovane.

Ascoltate le magiche e funebri sirene

che cantano: Venite, o voi tutti cui giova

il Loto aulente; è qui dove s'ammira e coglie

il frutto la cui fame le vostre anime ha invaso.

Su, di strana dolcezza saziatevi le voglie,

davanti a questo sole che non conosce occaso”.

Dal familiare accento lo spettro si ravvisa;

a sé laggiù c'invocano i Piladi seguaci.

“Vuoi refrigerio? Nuota a Elettra tua” ci avvisa

colei cui le ginocchia coprimmo un dì di baci.

Ci troviamo ancora di fronte a un viaggio verso l'Erebo e ancora una volta l'azione del

riconoscimento dello spettro avviene attraverso la parola (“dal familiare accento”). A

differenza di Enea, in Baudelaire sono i vivi che riconoscono il suono della voce dei “Piladi”

(degli amici”) e non chi è già nell'Ade (Anchise).

Tornando ora alla strofa del poemetto caproniano ci accorgiamo che anche in essa gioca un

ruolo fondamentale l'azione del “riconoscimento”: “ed è nel raggio / d'ombra che di qua

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penetra i pensieri / che là prendono corpo, che al paesaggio / di siero, lungo i campi dei

Cimmeri / del tuo occhio disfatto, riconosci / il tuo lémure magro (il familiare / spettro della

tua scienza) nel pulsare / di quei pistoni nel fitto dei boschi”. “Nel raggio d'ombra” - che

nessuno ha spiegato cosa rappresenti, ma che secondo noi è l'intervallo non luminoso riflesso

dalla persiana (non scordiamoci che il poeta è sdraiato su un letto e nel dormiveglia osserva

sul soffitto le proiezioni dei fari delle macchine filtrate da una persiana) – in questo “raggio

d'ombra dunque”, un “di qua”, in cui si trova il poeta, è separato da un “là” in cui i pensieri (e

dunque la razionalità) del poeta prendono forma. È ancora l'indizio di un procedimento

razionale che si aggiunge a quelli dell'“occhio della mente”, delle “teoriche dissennate” e

dell'“acume” della prima stanza che presagiscono la formulazione della allegoria alla base del

poemetto e della raccolta. È comunque in questo raggio d'ombra il posto in cui il poeta

immagina di trovarsi lungo il campo dei Cimmeri: ed è in esso che avviene il riconoscimento.

Un riconoscimento esclusivamente visivo (rilevato dall' “occhio disfatto) e non uditivo, che

come abbiamo visto caratterizzava invece i due precedenti letterari. A differenza dell'Enea

virgiliano Caproni non incontra un padre che lo esalti fastosamente assicurandogli gloria

eterna e neppure dei Piladi o una Elettra baudelairiani che lo rassicurino sul nuovo viaggio da

affrontare. In questo caso il poeta si trova di fronte non a se stesso (nell'interpretazione che

vuole darne la Frabotta30), ma, come è scritto, a un lémure. Interessante in questo senso è

30 Da B.Frabotta, op.cit.;p.163: “Nel Passaggio d'Enea l'impossibilità di sciogliere l'aenigma dell'incertezza storica di quegli anni in un verdetto basato sull'omonimia (un significante capace di designare significati diversi ed eterogenei secondo una sola interpretazione) precipita nell'ossessione simbolista dello speculum, magistralmente rievocato nell' "assurdo delirio" della terza strofa dei Versi.Nel tema romantico-simbolista del "doppio", l'allegoria è spesso esitante; non possiede cioè quella sicumera necessaria a oltrepassare la nebbia della lettera e della rappresentazione del simbolo, ma non per questo rinuncia all'aspirazione razionale di riconvertire il mithos sul logos. Invece di ricongiungersi all'effigie paterna, come vorrebbe l'episodio del VI Libro dell'Eneide, invece di raccogliere dalla bocca di Anchise il vaticinio di una storia laica fondata però sui pilastri di un'indiscutibile ontologia, Enea, controfigura semi-sublime del Soggetto poetico, non riesce ad incontrare altri che se stesso e la sua ambiziosa prosopopea si trasforma nella eroica spedizione di Orfeo che, al massimo, potrà riconoscere in sé il fantasma della moderna poesia, quell'Euridice "cui nebulosa e sfatta casca la palla di mano" nell"'amer savoir" di cui parlava già Baudelaire, consapevole che nessun turistico voyage potrà ripristinare i fasti del Viaggio iniziatico.Nelle rovine del "passaggio" dal classicismo al simbolismo, i due grandi sistemi dell'Istituzione Poetica occidentale si specchiano l'uno nell'altro in un disincantato quanto amaro riconoscimento, e in questa allegoria "esitante" fra la verticalità ermeneutica del Senso e l'orizzontalità della Storia Giorgio Caproni ci lascia, alla fine degli Anni Cinquanta, la sua più alta testimonianza poetica e, io credo, una lezione per tutti noi.”

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notare come la variante “lémure” abbia sostituito quella originaria manoscritta di “fantasma”

in un'accezione che certamente si allinea meglio con l'ambiente romano classico-mitologico

in cui si trova il poeta, ma che si riallaccia anche alle immagini cupe e orrifiche della

raccolta. Il lémure era infatti nella mitologia romana uno spirito maligno, qualcosa di simile

all'odierno demone cristiano e dunque non proprio un fantasma. Nella poesia questo lémure è

“il familiare spettro della tua scienza”: ritorna l'aggettivo “familiare” usato anche da

Baudelaire, ma in questo caso è lo spettro della scienza e non l'accento ad essere tale. In tal

senso allora sembrerebbe veritiero che il poeta riconosca nell'Ade la parte razionale di sé,

come se essa prendesse corpo e si materializzasse in un lémure e, come vedremo nella strofa

successiva, in Enea e nell'allegoria di cui abbiamo detto.

E infatti nella quarta strofa ecco finalmente l'allegoria:

Nel pulsare del sangue del tuo Eneasolo nella catastrofe, cui sgallail piede ossuto la rossa fumeabassa che arrazza il lido – Enea che in spallaun passato che crolla tenta invano di porre in salvo, e al rullo d'un tamburo ch'è uno schianto di mura, per la manoha ancora così gracile un futuroda non reggersi ritto. Nell'avvampo funebre d'una fuga su una renache scotta ancora di sangue, che scampopuò mai esserti il mare (la falena verde dei fari bianchi) se con lui senti di soprassalto che nel punto,d'estrema solitudine, sei giuntopiù esatto e incerto dei nostri anni bui?

Abbiamo già spiegato cosa rappresenti Enea per Caproni, qui ciò che preme far notare è la

totale disillusione sul futuro: il mare è paragonato a una falena tra i fari di una automobile,

ovvero a una creatura attratta da qualcosa che la porterà alla morte. L'Enea-Caproni parte

lasciandosi alle spalle un passato insalvabile (al v. 5 “tenta invano”), le atrocità della guerra e

sa che il mare non sarà uno scampo e non porterà la gloria o la fama dell'Enea virgiliano, ma

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ancora altre incertezze e solitudini.

E infatti nella quinta e ultima strofa con l'alba alle porte e la scomparsa sul soffitto delle

proiezioni dei fari delle macchine, il poeta ancora nel dormiveglia (ancora una volta la realtà

sensoriale esterna si confonde con quella allegorica e il calcagno di Enea è assimilato al

fanale rosso di una automobile) non ravvisa in sé i sintomi di una vita nuova da erigere, di un

vero risveglio dal passato pieno di orrori in un'alba che, come la descrizione del figlio Iulo

nella strofa precedente, è assai debole e stenta a farsi avanti. Non c'è un nuovo impero da

fondare, la rivendicazione mitica di una civiltà distrutta, c'è soltanto la baudelairiana noia dei

giorni, l'impossibilità di cambiare davvero gli eventi della storia, nella solitudine più totale (e

si guardi a questo proposito al v. 7 la citazione esplicita del celebre sonetto di Nerval El

Desdichado, il diseredato) :

Nel punto in cui, trascinando il fanalerosso del suo calcagno, Enea un pontilecerca che al lancinante occhio via marepossa offrire altro suolo – possa offrireal suo cuore di vedovo (di padre,di figlio – al cuore dell'ottenebratoprincipe d'Aquitania), oltre le magretorri abolite l'imbarco speratoda chiunque non vuol piegarsi. E,con l'alba già spuntata a cancellaresul soffitto quel transito, non è certo un risveglio la luce che appare timida sulla calce – il tremolioscialbo del giorno in erba, in cui già un soleche stenta ad alzarsi allontana anche in cuoredi quei motori il perduto ronzio.

Dunque possiamo concludere sostenendo che in questo poemetto la realtà raggiunge l'apice

dell'onirismo e dell'allegorismo di tutto il percorso poetico caproniano. La realtà sensoriale

esterna così tipica delle prime poesie è assorbita da quella onirica che a sua volta diventa

allegorica. Raggiunto quest'apice e svelata l'allegoria che ha preso lentamente corpo non

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soltanto attraverso il poemetto, ma tutta la raccolta, ecco che il poeta torna a una realtà più

sensoriale nella quale è ormai palese l'accostamento ad Enea. Nel terzo componimento de Il

Passaggio d'Enea, Epilogo:

Sentivo lo scricchiolio,nel buio, delle mie scarpe:sentivo quasi di talpeseppellite un rodìosul volto, ma sentivogià prossimo ventilareanche il respiro del mare.

Era una sera di tenebra,mi pare a Pegli, o a Sestri.Avevo lasciato Genova a piedi, e freschi nel sangue i miei rancoribruciavano, come amori.

M'approssimavo al maresentendomi annientaredal pigolio delle scarpe:sentendo già di barcheal largo un odoredi catrame e di notte sciacquante, ma anche sentendo già al sole, rotte,le mie costole, bianche.

Avevo raggiunto la rena,ma senza avere più lena.Forse era il peso, nei panni,dell'acqua dei miei anni.

Torna, oltre che una realtà sensoriale e una toponomastica precisa, anche un soggetto

poetante, un io caratterizzato da rancori personali che passeggia nella sera e si dirige verso il

mare. Negli ultimi quattro versi è descritto (in un senso atipico perché non raggiunto via

mare, ma via terra) letteralmente l'approdo ad una riva che sembrerebbe essere

metaforicamente (o allegoricamente, come nei più classici esempi del naufrago, della barca e

del porto salvatore) il raggiungimento di una serenità sconosciuta al lettore perché assai

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soggettiva. Come scrive Caproni in una lettera inviata a Betocchi a proposito di questo

componimento:

Per quel tanto di settimana che mi avanza (mozziconi di ore in mozziconi di giorni) ho cercato di portare a termine per la Chimera una cosa che mi sta a cuore. Ma sì, i soliti assilli e scrittarelli economici hanno avuto il sopravvento. Anche se ho trovato, invece, questi settenari, o quasi, che non mi dispiacciono del tutto come allegoria del mio stato presente, in verità composti come didascalica conclusione a quel Passaggio d'Enea che vi si trova e che è stato pubblicato, tranne quelli, su Letteratura.

L'ultima sezione della raccolta, In appendice, prelude alla stagione della realtà immaginifica

delle raccolte successive e in particolare de Il seme del piangere. L'ascensore è una poesia

che si fonda tutta su una fantasia del poeta che, volendo andare in Paradiso con l'ascensore di

Castelletto, immagina di incontrarsi con la madre Annina:

[…] Con lei mi metterò a guardarele candide luci sul mare.Staremo alla ringhieradi ferro – saremo solie fidanzati, come mai in tanti anni siam stati.E quando le si farà a puntini,al brivido della ringhiera,la pelle lungo le braccia,allora con la sua diacciaspalla se n'andrà lontana:la voce le si farà di ceranel buio che la assottiglia,dicendo “Giorgio, oh mio Giorgiocaro: tu hai una famiglia.”

L'accuratezza con cui il poeta descrive la pelle d'oca della madre fa parte di una realtà tutta

immaginata dal poeta, una realtà che ha addirittura connotazioni freudiane in cui la madre

diventa anche fidanzata. Allo stesso modo Genova nell'altro celebre componimento della

sezione, Litania, completa quella metamorfosi cui avevamo accennato trasformandosi da

semplice città topografica a città dell'anima, diventando l'io stesso del poeta.

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IL SEME DEL PIANGERE

La quinta raccolta caproniana, Il seme del piangere, esce per Garzanti nel 1959. È divisa

fondamentalmente in due sezioni: Versi livornesi e Altri versi più il prologo cavalcantiano

Perch'io... . Dedicato alla madre Anna Picchi, il libro è un canzoniere in vita e in morte di

questa donna, di cui Caproni ha rilasciato in una intervista una breve biografia:

Anna Picchi nacque a Livorno nel 1894 ed è morta a Palermo nel 1950. figlia di Gaetano Picchi, guardia doganale ed “ebanista” a tempo perso, e di Fosca Bottini, frequentò da ragazza il Magazzino Cigni, una delle case di moda allora in auge a Livorno: nella Livorno ancora ottocentesca che tanto mi attira. Fu donna d'ingegno fino e di fantasia , sarta e ricamatrice abilissima, suonatrice di chitarra, ecc. Amava molto frequentare i “circoli” e ballare. Continuò a far la sarta e la ricamatrice anche nella mia prima infanzia, in corso Amedeo, presso il Parterre, e forse fu ascoltando i suoi discorsi che s'affinò in me il gusto e la passione per l'arte.Non ricordo l'anno del matrimonio con mio padre, Attilio Caproni, avvenuto nella chiesa di Sant'Andrea.Da corso Amedeo trasferì il suo laboratorio in via Lardarelle, e di lì poi, scoppiata la guerra del '15, e mio padre partito, in via Palestro, in casa della bellissima Italia Bagni, nata Caproni.Furono anni di lacrime e miseria nera.Poi, nel '22, il trasferimento a Genova. Eppoi, nel '50 la morte, avvenuta a Palermo, dove ora riposa con mio padre, la figura del quale è vivissima, proprio come “padre”, a ben cercarla, nei miei versi […] [mentre] Anna Picchi non è presente come madre, ma come ragazza da me vezzeggiata e vagheggiata.31

Per quanto riguarda invece la genesi dell'opera, dobbiamo riferirci ad un'altra intervista

risalente a venticinque anni dopo la sua pubblicazione:

Il seme del piangere è nato per combinazione, e, se non ci fosse stato il De Robertis ad incoraggiarmi, io non sarei andato oltre le due prime poesiole, Preghiera […] e La ricamatrice […]; non ero troppo convinto di questo esperimento cavalcantiano. Queste due poesie m'erano state chieste dal “Raccoglitore” di Parma. Il De Robertis, quando mi recensì Il Passaggio d'Enea, si lamentò perché non avevo incluso quelle due poesie, che gli parevano così belle, a mezzo tra l'antico e il nuovo – cosa che, poi, tutti i critici hanno ripetuto. Io, naturalmente, ne fui molto lusingato, perché stimavo molto il De Robertis, oltre ad essergli molto amico. […] Dunque, scrissi qualche altra poesia, come l'amico mi aveva suggerito. Più, vi fu l'occasione di un concorso anonimo, il cui premio era la pubblicazione, credo a Cervia, bandito dalla Mondadori. Scrissi ancora qualche poesia e venne fuori Il seme del piangere, che inviai al concorso. Se non che, in giuria c'era il mio grande amico Alfonso Gatto, il quale, lette le poesie, si mise a gridare: ma questo è Caproni, non si può premiare!, e così mi scartò per far vincere un certo... che Gatto confuse con un suo amico. Viceversa, Mondadori mi inviò un telegramma dicendo che voleva stampare lo stesso il libro: solo, era un po' esile, aveva bisogno di altre poesie. Io non ne avevo delle altre, e allora ne scrissi, non mi vergogno a dirlo, quasi su commissione. E poi, dietro l'insistenza di Bertolucci, diedi il libro a Garzanti invece che a Mondadori32.

Originariamente quindi la raccolta si è sviluppata attorno a un nucleo fondamentale di due

poesie, Preghiera e La ricamatrice. L'aggiunta delle poesie successive segue un movimento

31 F. Camon, Il mestiere di poeta, Garzanti, Milano, 1965; pp.129-3032 Avvenire, 1984

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concentrico ed espansivo che ha il suo centro tematico già in Preghiera, una dicotomia tra

anima e mente:

Anima mia, leggerava' a Livorno, ti prego.E con la tua candelatimida, di nottetempofa' un giro; e, se n'hai il tempo,perlustra e scruta, e scrivise per caso Anna Picchiè ancora viva tra i vivi.

Proprio quest'oggi torno,deluso, da Livorno.Ma tu, tanto più nettadi me, la camicetta ricorderai, e il rubinodi sangue, sul serpentinod'oro che lei portavasul petto, dove s'appannava.

Anima mia, sii bravae va' in cerca di lei.Tu sai cosa dareise la incontrassi per strada.

Se nel Passaggio d'Enea i procedimenti razionali e allegorici sono alla base della raccolta, ne

Il seme del piangere essi si mostrano soltanto come impedimenti o portatori di slanci vitali

frustrati. L'anima infatti, “assai più netta” dell'Io, riesce a incontrare la madre, magari non a

interagire con lei, ma è capace di porsi o come una osservatrice esterna o addirittura, come

vedremo, sua introspezione psicologica; l'Io invece, pur provando il desiderio di incontrare la

madre (che nel '59 era già deceduta), non riesce a trovarla. Come lo stesso Caproni ha scritto:

Preghiera la scrissi dopo un viaggio a Livorno, mia città natale lasciata per sempre quando avevo nove anni. Rivedendo certe strade, il mio pensiero corse spontaneo a mia madre, Anna Picchi, che ingenuamente mi misi a cercare in quelle vie, dov'era nata e vissuta. Tornato deluso a Roma pregai la “mia anima” d'andarla a cercar lei. Nacque così Il seme del piangere, che appunto tenta di ritrarre Anna Picchi, prima che si sposasse e oltre.

Se di realtà dobbiamo parlare è evidente dunque che nella raccolta ci troviamo di fronte a

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una realtà totalmente immaginifica, ricostruita da questa non meglio precisata anima. Persino

la città di Livorno, una delle città più bombardate d'Italia, sembra rianimarsi, ricostituirsi in

questo spazio immaginario:

Ora io di Livorno ho una immagine che appartiene alla geografia e alla mitologia della mia infanzia. Ed è perciò

del tutto inutile il dirmi che Livorno è quasi totalmente a pezzi, io sapendo bene che la mia Livorno nessun

bombardiere può averla toccata, cioè che esisterà sempre, finché esisto io, questa città malata di spazio nella

mia mente.

Non ci sono indizi o dichiarazioni che ci diano una migliore spiegazione di cosa intendesse

Caproni con la parola anima. Potremmo banalmente dire che questa misteriosa costruttrice

sia composta essenzialmente da ricordi e nostalgie, e senz'altro avremmo in parte ragione.

Ma in essa gioca un ruolo importante anche una componente psicologica che confonde

spesso questa realtà già di per sé immaginifica. Come ne L'ascensore (che abbiamo già detto

ha in sé alcuni caratteri tipici della nuova raccolta) il poeta riconosce la madre come propria

fidanzata, in maniera inversa in Ad portam inferi ci troviamo di fronte alla madre che

confonde il figlio col marito Attilio già morto da tempo:

[…]Davanti al cappuccinoche si raffredda, Anninadi nuovo senza anello, pensadi scrivere al suo bambinoalmeno una cartolina:“Caro, son qui: ti scrivo per dirti...” Ma invano tenta di ricordare: non sanemmeno lei, non rammentase è morto o se è ancora vivo,e si confonde (la testa le gira a vuoto) e intanto,mentre le cresce il piantoin petto, cerca confusa nella borsettala matita, scordata(s'accorge con una strettaal cuore) con le chiavi di casa.Vorrebbe anche al suo maritoscrivere due righe, in fretta.

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[…]Ma poi s'accorge che al ditonon ha più anello, e il cervellodi nuovo le si confondesmarrito; e mentrecerca invano di berefreddo ormai il cappuccino[…]ritorna col suo pensiero[…] al suo bambino.

Almeno le venisse in menteche quel bambino è sparito!È cresciuto, ha tradito,fugge ora rincorsopel mondo dall'erroree dal peccato, e morsodal cane del suo rimorsoinutile, soloè rimasto a nutrire,smilzo come un usignolo,la sua magra famiglia(il maschio, Rina, la figlia)con colpe da non finire.

[…]

Nemmeno sa distinguere bene,ormai tra marito e figliolo.[...]

L'anima in questo caso ricostruisce non solo una realtà fisica, ma anche una realtà

psicologica. Sappiamo che a parlare non è la madre, ma il poeta e in particolare il rimorso di

questi per averla abbandonata, eppure siamo trascinati dai pensieri e dalla psicologia di

questa magnetica figura femminile e ci confondiamo con lei nel non sapere quale debba

essere il destinatario del proprio amore.

È curioso poi che in una realtà fortemente antirealistica come quella della raccolta non sia

assente un certo immaginario scenografico simile a quello utilizzato in alcuni film dell'epoca

in cui la matrice realista era ancora molto forte, influenzata ancora dalla stagione neorealista

conclusasi da poco. In La stanza:

Ragazzi in pantaloni corti, e magri, lungo i Fossi, aizzandosi per nome

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giocavano, a pallone(Annina li guardavadi sottecchi, e come- di voglia – acceleraval'ago, che luccicava!)E in Barbaglio:

“Annina Elettra e Adaprofumano la strada. Le guardano, in mezze maniche, i giovani, e tra carrette cariche d'acetilene e frescura,ahi quanto a lungo dura (mentre alla prima svoltaAnnina, ma prima si volta,scompare) la figuraacuta nel loro pettoche grida, per dispetto”

In Eppure:

“Branchi di ragazzetti scalzi e magri, col loro urlio (Annina tirava confettia manciate) lo scampanio coprivano alzandole il cuore (e un polverone) nel sole.”

Questa influenza neorealista è presente, ora in misura maggiore ora minore, un po' in tutte le

poesie dei Versi livornesi e vi è, da parte di Caproni, una predilezione per la descrizione delle

classi umili come avevamo già notato in alcune poesie delle prime due raccolte. Annina non è

un personaggio altro da questa ambientazione, essa stessa è una figura che potrebbe ricordare

in un certo modo e in alcune poesie una “bella donna” delle borgate romane: come vediamo

dalle poesie che abbiamo riportato sopra, Annina interagisce sempre in quelle situazioni e in

altri componimenti si fa portatrice di un fascino che ricorda un po' certe commedie del

tempo: “tutto Cors'Amedeo, / sentendola, si destava. / ne conosceva il neo / sul labbro, e

sottile / la nuca e l'andatura / ilare – la cintura / stretta, che acre e gentile / (Annina si voltava)

/ all'opera stimolava.”; al suo passare per strada “la gente se l'additava”; “andava / per la

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maggiore a Livorno”; e non si può non citare la celebre Scandalo in cui Annina si muove per

la città con una bicicletta azzurra tra i brusii di chi la guarda (e lo scandalo era proprio

questo, perché allora era considerato scandaloso per una donna andare in bicicletta). Eppure

questa scenografia e ambientazione vagamente neorealisti si esprimono in una cornice che di

realistico ha solo una parvenza. L'anima del poeta ricostruisce una realtà che l'Io non ha mai

vissuto, che ha potuto vedere magari soltanto attraverso cartoline, vecchie fotografie qualche

proiezione cinematografica, di cui ha sentito parlare attraverso i ricordi della madre o del

padre, ma che non ha mai esperito personalmente. Si tratta quindi essenzialmente di una

ricostruzione spirituale influenzata da una certa cinematografia del tempo. Si leggano ad

esempio alcune parole di Vittorio De Sica a cui era stato chiesto quale fosse lo scopo del

neorealismo: “Il mio scopo è di rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il

meraviglioso nella piccola cronaca, anzi nella piccolissima cronaca, considerata dai più come

materia consunta”33. Nella raccolta caproniana queste parole sembrano adatte a descrivere un

certo modo di vedere la storia. In Urlo ad esempio:

Il giorno del fidanzamentoempiva Livorno il vento.Che urlo, tutte insieme,dal porto, le sirene!

Tinnivano, leggeri,i brindisi, cristallini.Cantavano, serafini,gli angeli, nei bicchieri.

Annina, bianca e nera, bastava a far primavera.Com'era capinera,col cuore che le batteva!

Fuggì nel vento, strettaal petto la sciarpetta.In cielo, in mare, in terra

33 Vittorio De Sica, Perché “Ladri di biciclette”, in La fiera letteraria, 6 febbraio 1948; ora in Neocacchismo. Poetiche e polemiche, Claudio Milanini (a cura di); p.58.

49

che urlo, scoppiata la guerra...

Non c'è ne Il seme del piangere una vocazione civile alta o fortemente allegorica, come

quella ne Il passaggio d'Enea. Eppure non possiamo dire che essa manchi totalmente, anzi

come ha ben spiegato la Frabotta:

Non bisogna lasciarsi ingannare dal tono minuto e dimesso del Seme o dall' “effetto realtà” che ha convinto alcuni interpreti a confrontare quest'altra allegoria domestica con la più complessa struttura sinfonica delle Stanze della funicolare. Non mancano i classici espedienti del realismo come gli interventi del “parlato” che però, già nell'Ascensore non servono ai fini della verosimiglianza o di una coloritura colloquiale; al contrario sottolineano l'inconciliabilità fra la realtà della signora Caproni e la leggenda di Annina Picchi rimbalzata nella rêverie filiale da qualche racconto colto a frammenti o da poche, ingiallite fotografie.Il corpo di Annina, come quello della città nativa, proprio perché entrambi spariti, potranno miracolosamente riapparire nella fantasia poetica, unica qualità umana che può resuscitare i morti indipendentemente dall'ausilio della memoria e dal suo penitenziale gusto barocco di razzolare fra i rifiuti del tempo perduto.L'estremo gesto dell' “orfano” Enea è ora soltanto la rifondazione del nulla, una “realtà figurale”, puramente ritmica, antidescrittiva e in fondo antirealistica.[…]. Sarà una allegoria con la minuscola per sempre deprivata dalla virile prosopopea della poesia civile, ma zampillante di una sorgività creaturale, quasi unica nella poesia italiana del Secondo Novecento34.

La definizione di “allegoria domestica” ci sembra particolarmente calzante, eppure la

Frabotta non ne spiega criticamente il significato, attribuendole un valore scontato. Perché

allegoria? L'allegoria per definizione dovrebbe generalmente intendere un significato magari

non sempre decifrabile, ma comunque convenzionale e non domestico, collettivo e non

soggettivo. Quale significato nascosto soggiace alla figura musicale a tratti eterea, a tratti

drammatica, della madre? Perché il poeta separa la figura reale da quella “leggendaria” e

decide di focalizzare l'attenzione soltanto su quest'ultima? Battendo a macchina, una poesia

non troppo considerata dalla critica e che invece è essenziale per le sue caratteristiche di

componimento-dichiarazione di poetica, può venirci in soccorso:

Mia mano, fatti piuma:fatti vela; e leggeramuovendoti sulla tastiera,sii cauta. E bada, primadi fermare la rima,che stai scrivendo d'unache fu viva e fu vera.

34 B.Frabotta, op.cit.; p.88-9

50

Tu sai che la mia preghieraè schietta, e che l'erroreè pronto a stornare il cuore.Sii arguta e attenta: pia.Sii magra e sii poesiase vuoi essere vita.E se non vuoi tradita la sua semplice gloria,sii fine e popolarecome fu lei – sii arditae trepida, tutta storiagentile, senza ambizione.

Allora sul Voltone,ventilata in un maggiodi barche, se pazientechissà che, con la gente,non prenda aire e coraggioanche tu, al suo passaggio.

Annina diventa parte di una “storia gentile senza ambizione”, una madre “fine e popolare”

portatrice di una “semplice gloria”. In realtà è presente una vocazione civile nella raccolta,

una vocazione che è sempre nascosta (che è sempre un parlar di cipolline per parlare in realtà

di patria, come direbbe Caproni) e che ritrae una madre dalla giovinezza fino alla morte,

passando dalla guerra e dal distacco dal marito morto e dal figlio. Annina diventa in un certo

senso l'allegoria e della madre e della madre che ha vissuto una determinata epoca35; e

diventa un personaggio letterario che probabilmente poco ha a che fare con la figura reale di

Annina Caproni. Ed è certamente vero che è lei la protagonista della raccolta, ma è altrettanto

vero che parlando di lei il poeta parla di se stesso, del rimorso più grande che possa provarsi

in vita: l'abbandono della madre, la fidanzata, l'amore vicendevole che non può sussistere e

che forse è alla base delle nostre sofferenze (“Il seme del piangere”). In questo senso va letta

la poesia più celebre della raccolta Ultima preghiera, che assomma in sé le due componenti

che abbiamo visto caratterizzare l'anima costruttrice: quella psicologica e quella fisica. Gli

35 E a proposito di questa vocazione civile ecco cosa ha scritto Caproni ne La Fiera letteraria (1975) parlando de Il seme del piangere: “è un fiore posto sulla sua tomba: un libro tutto vezzeggiativo, anche se sottilmente polemico – forse - contro la guerra.”

51

ultimi versi in particolare esprimono bene il concetto dell'amore impossibile e il rimorso che

ne deriva:

Anche se io, così vecchio,non potrò darti la mano,tu [Anima] mormorale all'orecchio(più lieve del mio sospiro,messole un braccio in giroalla vita) in un soffiociò ch'io e il mio rimorso,pur parlassimo piano,non le potremmo mai diresenza vederla arrossire.

Dille che ti ha mandato:suo figlio, il suo fidanzato.D'altro non ti richiedo.Poi, va' pure in congedo.

52

CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO & ALTRE PROSOPOPEE

Il Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee esce nel 1965 per Garzanti.

Caproni progettò un “poemetto dove mi piacerebbe descrivere una mia calata nel limbo e un

mio incontro con i morti, divenuto loro concittadino e fratello”36. Di tale opera che

inizialmente doveva intitolarsi L'uscio dei morti, uscirà soltanto il preludio, ovvero il testo

vero e proprio del Congedo del viaggiatore cerimonioso. Poi con le altre prosopopee e gli

ultimi componimenti della raccolta il percorso poetico caproniano si volge verso strade

differenti che porteranno in seguito al Muro della terra. In effetti come lo stesso Mengaldo

ha scritto “Il Congedo del viaggiatore cerimonioso è il libro più essenziale di Caproni, con

aspetti che potrebbero sembrare anche transitori37”. D'incompletezza è lo stesso Caproni a

parlare:

Forse questo Congedo è ancora incompiuto, se il brusio che sento nella mente è quello non di un solo altro mézigue (me stesso) che, nelle brevi pause in cui m'è concesso di dare ascolto alle “voci” (ci son tante cose da fare, nel mondo), sta preparandosi per entrare in iscena. Può darsi che un giorno io trovi il tempo di portare il libro a compimento. Ma chi si fida della speranza? Per questo mi son deciso, intanto, a licenziarlo com'è.

La raccolta si inserisce a metà tra quella che Mengaldo ha definito la “seconda stagione” del

poeta (iniziata con Il passaggio d'Enea) e la “terza ed ultima” che inizierà da Il Muro della

terra. Se alcune poesie come La lanterna, Toba, Odor vestimentorum etc... preludono alla

nuova stagione, le altre e forse le più celebri della raccolta si legano maggiormente a Il seme

del piangere. Se la figura della madre Annina era in un certo senso una prosopopea

allegorica, un personaggio letterario non realistico, ma esemplare e leggendario, nel Congedo

prendono vita altri personaggi esterni (ma non del tutto) all'io. Come ha scritto Mengaldo “la

scoperta fondamentale, pur già sfiorata, di Caproni in questa raccolta, è in due parole la

seguente: come si possa parlare di sé senza dire io, delegando il proprio discorso a

36 Lettera a Betocchi datata “Roma, 9 marzo 1961”37 P.V.Mengaldo, op.cit.;p.XXVII

53

controfigure38”. È vero che in Annina giocava un ruolo assai importante, una componente

psicologica e soggettiva del tutto assente nei personaggi della nuova raccolta, ma è indubbio

che ci troviamo ugualmente di fronte a delle prosopopee, come già il titolo suggerisce ([...]&

altre prosopopee). Da un abbozzo raccolto da Zuliani veniamo a sapere che un titolo

alternativo a quello scelto sarebbe dovuto essere proprio Le Prosopopee ed in calce al foglio

è annotata una definizione probabilmente desunta da un dizionario: “Prosopopea: figura con

cui s'introduce a parlare persone lontane o morte, ed anche cose inanimate, come se fossero

vive e presenti in persona”39. Le prosopopee più importanti sono quelle contenute nelle due

poesie Il fischio e il Lamento (o boria) del preticello deriso che, insieme al Congedo,

rappresentano i componimenti più celebri della raccolta. In entrambe le poesie la componente

allegorica è assai importante e ciò che le caratterizza è ancora, come spiegheremo meglio più

avanti, la presenza di una realtà che si dissolverà del tutto a partire dal Muro della terra in

poi (e già si dissolve, come abbiamo detto, nelle poesie della raccolta più legate al periodo

successivo).

Per quanto riguarda Il fischio è stato lo stesso Caproni a ricollegare la poesia a un fatto

realmente accaduto durante un suo soggiorno a Bracciano. Un appunto su un foglio (scritto

probabilmente per una presentazione pubblica) conserva infatti il seguente brano:

È imbarazzante parlare dei propri versi. Comunque, di questi posso dirvi che si tratta, in fondo, d'un semplice raccontino allegorico. Il senso è talmente chiaro da render superflua ogni spiegazione. Mi capitò una notte di dormire, a Bracciano, nella cacciatora degli Odescalchi. All'alba, aspettando il treno, m'imbattei nella piumatissima figura d'un guardiacaccia. Da quel ricordo è forse nato questo mio raccontino allegorico. Un guardiacaccia, una sera di maltempo, sta bevendo e giocando a carte coi suoi compagni. Un fischio dal bosco, che non può essere quello del solito bracconiere, perché c'è troppa nebbia in giro, mette in allarme la compagnia. Il guardiacaccia, ligio ai suoi doveri, si alza per andare a sincerarsi. Ma sul volto dei compagni legge chiaramente ch'essi temono per lui un più grave pericolo. Allora fa il discorsetto che fra poco ascolterete, il cui succo è pressappoco questo: se il nostro peggior nemico è la morte, è vana la prudenza e il restarsene a casa; tanto essa è già qui, in casa nostra; è dentro di noi. Evidentemente, nei trepidi compagni del guardiacaccia ho visto la mia persona esitante e timorosa, mentre nel guardiacaccia stesso, e nel suo recitativo appena ironico, quell'alter-ego che vorrei essere e che, purtroppo, non sono40.

38 Ibid.;p.XXVIII39 L.Zuliani (a cura di), op.cit.; p.149740 Ibid.; p.1514

54

La poesia in effetti consiste in tutto ciò che l'autore ha riportato in questo brano, ma è curioso

notare che in essa Caproni si personifica nel guardiacaccia e non nei suoi compagni seduti a

tavola (come invece fa credere nel brano). Nelle strofe sei e sette infatti:

Vedete, una volta vivevo sul mare. Stavo a Livorno.Che città! Dal FornoMascagni fino ai Quattro Mori,un vento profondo sbiancavale piazze, mentre vibravanei vetri la sirenamarittima dei vapori.

Uscivo di rado. Fuori,rammento, circolavaun'aria che mi sgomentavadi solitudine. Eppure,sapeste come si popolava quel vento, e che figliolepassavano, tra sassaiolefitte di ragazzacciaizzati, che si sgolavano,per troppo amore, in ingiurie.

Per quanto riguarda il secondo personaggio, il “preticello deriso”, Caproni commenta così

“badi che chi parla non sono io, o sono io fino a un certo punto: è il preticello. Di mio c'è la

forza (o la debolezza) dell'invettiva contro la comoda società del benessere d'oggi, tutta tesa

ai beni elettrodomestici, al carrierismo, ecc., facendosi puntello, magari d'un Dio nel quale, in

fondo dell'animo, non crede più. | Il bisogno di Dio del preticello è soprattutto bisogno di un

poco di giustizia, di un poco di luce, di un poco di anima in tanta massa condizionata dai

potenti mezzi di diffusione (e di educazione alla rovescia) oggi esistenti.41” Anche in questo

caso in realtà di non-caproniano, di qualcosa di non legato all'autore, c'è poco: la poesia è

dedicata significativamente a Mezigue che come ancora Caproni ha chiarito “in argot […]

41 Il mestiere di poeta, 1965

55

vuol dire a me stesso”42 (un gergo che Caproni conosceva bene dopo essersi impegnato assai

alacremente nella traduzione Mort à crédit di Céline); si parla di Genova e soprattutto

dell'episodio già analizzato ne Il Passaggio d'Enea della prima esperienza con una prostituta

compiuta appunto da Caproni e non dal preticello. E ancora è possibile ravvisare nelle parole

del preticello deriso che se la prende con la società consumistica del tempo, alcune chiare

riflessioni che lo stesso Caproni andava scrivendo su riviste e giornali. Per farne un esempio:

Coi mezzi attuali di propaganda, non ci vuol molto a un “partito di massa” per creare una “massa”. Cioè un agglomerato di gente che la pensa tutta allo stesso identico modo, senza persone realmente capaci di pensare in proprio. E a questo modo i partiti di massa non fan che ripetere la chiesa, con la differenza che alla giustificazione d'un premio ultraterreno, al crescete e moltiplicate, sostituiscono il miraggio d'un premio terreno: un aspirapolvere, un frigorifero, una macchina, una casa, una villeggiatura (campa cavallo) per tutti.43

I due personaggi, per quanto diversi nelle loro professioni, si legano assai profondamente:

entrambi esprimono un loro proprio senso del dovere, un loro essere nel mondo che contrasta

con chi hanno attorno, un carattere da eroe-semplice, del quotidiano. Un senso del dovere che

però esula dal semplice livello letterale del “questo è il mio compito e devo svolgerlo”, e che

invece allegoricamente si trasforma nella fermezza dello stare al mondo, nella capacità di dar

la “diritta via” alla propria vita. Come lo stesso Caproni ha scritto a proposito dei personaggi:

personaggi che se non propongono, né tanto meno impongono loro soluzioni nuove (e del resto non credo ciò sia compito della poesia, la quale non può che testimoniare), già abbastanza nettamente, mi pare, oppongono il più radicale rifiuto a uno stato di cose ch'essi non considerano affatto fatale, ma fondato anche su ben determinate colpe di pochi (le dichiara, per tutti quanti il “preticello”), interessatissimi, questi pochi, al condizionamento di molti. Sono tutti personaggi, dirò en passant, che apparentemente non credono più a nulla, se non alla morte, ma che nel profondo riescono invece a conservare nel caos una loro unità e dignità di uomini, sia pure unicamente e paradossalmente basata sul puro e semplice dovere di vivere.44

Chi, come il guardiacaccia, va incontro alla morte è anche il protagonista del Congedo del

viaggiatore cerimonioso, il poemetto da cui prende il titolo la raccolta. Come ha scritto

Calvino, in questo componimento “l'allegoria dell'addio al mondo s'innesta su di una

semplicissima situazione ferroviaria: un passeggero che saluta i compagni di scompartimento

42 Antologia, 198843 Critica d'oggi, 196244 Avanti, 1965

56

prima di scendere alla sua stazione”45. L'autore si preoccupa di descrivere nel dettaglio le

azioni compiute dal personaggio del componimento: una strofa intera è dedicata all'azione

del tirare giù la valigia perché è arrivato il momento di scendere:

(Scusate. È una valigia pesanteanche se non contiene gran che:tanto ch'io mi domando perchél'ho recata, e quale aiuto mi potrà darepoi, quando l'avrò con me.Ma pur la debbo portare,non fosse che per seguire l'uso.Lasciatemi, vi prego, passare.Ecco. Ora ch'essa è nel corridoio, mi sento più sciolto. Vogliate scusare).

Non sappiamo cosa contenga la valigia (che ovviamente rappresenterebbe simbolicamente il

contenitore dei ricordi). Riusciamo a dedurne il contenuto leggendo l'apparato di Intarsio, un

componimento scritto successivamente e inserito ne Il conte di Kevenhüller: vi si trova una

“scalinata di marmo bianco” su cui il poeta diede il primo bacio ad una ragazza di nome

Germana. È questo l'unico ricordo che il poeta vorrebbe portare con sé nella valigia? In un

altro appunto :

Come scegliere? Quali scegliere? Ora capisco perché tutti quelli che son qui con me, sotto la stessa pensilina mentre, nella nebbia, trilla lento il campanello del treno in arrivo, con le mani in tasca e il bavero tirato su, e battendo i piedi per scaldarseli, non hanno con sé un'ombra di bagaglio. Finirò col far come loro. Col far come tutti i morti, che se ne vanno all'aldilà senza portarsi assolutamente nulla, sì da essere all'aldilà, per non aver laggiù nulla da rivivere (da rammemorare) veramente morti. È tutta colpa di quella maledetta dogana. Ci dovrebbero lasciar portar tutto, anche il brutto (anche l'orrido) insieme col bello, e permetterci poi di scegliere una volta a destinazione, con tutto il comodo che offre l'eternità. Già. Ma anche le ferrovie normali impongono un limite di bagaglio. Eppoi, mica si morirebbe allora...46

Se i discorsi – sempre in forma di monologo - sono affidati a prosopopee allegoriche, la

45 I.Calvino, Nel cielo dei pipistrelli, in “la Repubblica”, 19 dicembre 1980. Poi, col titolo di Il taciturno ciarliero, in Genova a Giorgio Caproni, volume che per iniziativa del Comune di Genova (Edizioni S.Marco dei Giustiniani 1986) raccoglie a cura di Giorgio Devoto e Stefano Verdino, in 19 saggi e 7 testimonianze, i maggiori contributi relativi al convegno tenutosi a Palazzo Tursi per onorare i 70 anni del poeta. Inserito anche all'interno del volume Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, 1999; p.1001

46 L.Zuliani (a cura di), op.cit.; p.1514

57

realtà che è in essi diventa essa stessa allegorica: i bicchieri, la valigia, la lanterna della

poesia omonima, i sacchi di Prudenza della guida, il vino il fucile e le cartucce de Il fischio,

il cilizio del Lamento, il gibbone etc. sono tutti oggetti simbolici di una realtà allegorica.

Persino le due città caproniane, Livorno e Genova, e la sequela di personaggi citati in Scalo

dei fiorentini e in I ricordi (Otello, il Decio, il Rosso, l'Olandese, il Vigevano; Gina, Ottorina,

Italia) perdono la loro concretezza e realtà biografica e diventano qualcosa d'altro da ciò che

sono, testimoni d'un tempo perduto e ricordato nostalgicamente. Per concludere con le parole

di Mengaldo, “questi luoghi e persone indicati con tanta precisione e una volta realissimi,

ora, lontani nel tempo e in bocca a terzi, finiscono per allontanarsi, sbiadire, se non diventare

addirittura denotazioni senza connotazione. (Quasi una controprova ci è data dal bellissimo Il

gibbone, dove la perdita della vera città di chi scrive, Genova, “tutta una scintillazione | di

lumi” è detta con un pathos ancor più accusato che in precedenza.) Siamo alle soglie della

toponomastica e onomastica inventate e fredde dei libri successivi”47.

47 P.V.Mengaldo, op.cit.;p.XXIX

58

IL MURO DELLA TERRA

Il muro della terra esce per Garzanti nel 1975, dieci anni dopo il Congedo. Nel 1973 Caproni

intervistato da “Il Tempo” annuncia:

Sto piano piano ultimando una delle mie solite magre raccolte. Potrei forse già pubblicarla, ma per il momento ho la mente altrove. […] Sono i miei consueti temi, più scarniti: la solitudine dell'uomo d'oggi nella massa, forse la morte stessa dell'uomo, Enea sempre più solo e che sempre meno sa quale città fondare. E forse potrei aggiungere scherzando, anche se nel contesto non scherzo affatto, uno strano modo di prendermela con Dio, che certi miei piccoli personaggi accusano (e non gliela perdonano) di non esistere. (Una poesia, dunque, religiosamente atea, o viceversa?).48

Il libro uscirà due anni dopo per Garzanti con il titolo Il muro della terra e non sarà affatto

una raccolta “magra”, ma contando sessantanove testi si presenterà come la più ampia

realizzata dal poeta livornese fino ad allora. Il titolo rimase a lungo incerto, nel 1965 doveva

essere Orgoglio e dismisura, negli anni seguenti Il vetrone, e nelle stesure complessive

conservate nelle carte compare come Col favor delle tenebre e Tristissima copia, mutato

anche in Tristissima copia o Il muro della terra prima di prendere la forma definitiva tratta da

Inferno X 1-3 (Ora sen va per un secreto calle, / tra 'l muro de la terra e li martìri, / lo mio

maestro, e io dopo le spalle). Scrive Caproni “questo muro della terra evidentemente in Dante

non è altro che il muro di cinta della città di Dite, per me viceversa significa il limite che

incontra, ad un certo momento, la ragione umana49”. Come ha ben notato Zuliani, Caproni di

frequente associa questo titolo ai “luoghi non giurisdizionali” menzionati al v.24 di Ultimo

borgo e presente nella raccolta successiva Il franco cacciatore: “Io sono un razionalista che

pone limiti alla ragione, e cerco, cerco. Che cosa non lo so, ma so che il destino di qualsiasi

ricerca è imbattersi nel “Muro della terra” oltre il quale si stendono i “luoghi non

giurisdizionali”, dove la ragione non ha più vigore al pari di una legge fuori del territorio in

cui vige. Questi confini esistono: sono i confini della scienza; è da lì che comincia la ricerca

48 Intervista ne “Il Tempo”, 197249 Antologia, 1988

59

poetica. Non so se aldilà ci sia qualcosa; sicuramente c'è l'inconoscibile”. Si comprende

dunque che “il muro della terra” allegoricamente rappresenterebbe quel confine invalicabile

tra noto e ignoto, tra realtà e aldilà. È questo il confine ultimo in cui ogni uomo, immerso

nella più totale solitudine, deve confrontarsi con Dio e con la sua esistenza o inesistenza, in

cui deve decidere se affidarsi soltanto alla propria razionalità o invece capire che essa non è

sufficiente. In questo senso le prime quattro poesie sono introduttive di tutta la raccolta. In

Falsa indicazione:

Confine, diceva il cartello.Cercai la dogana. Non c'era.Non vidi, dietro il cancello,ombra di terra straniera.

Ritroviamo qui l'oggetto e il luogo di cui avevamo parlato per il Congedo: la dogana. Anche

in questo caso essa è un luogo meramente simbolico e non reale e allo stesso modo devono

essere interpretati pure il cartello, il cancello e la terra straniera. È una poesia che per essere

compresa deve essere letta non secondo il suo livello letterale, ma secondo quello allegorico:

non esiste una realtà sensoriale con un cartello e una dogana, esiste una creazione razionale

di tali luoghi che a loro volta rimandano a significati altri: a quel confine di cui abbiamo

parlato e in particolare all'impossibilità di vedere (e si badi bene al verbo sensoriale,

denotativo forse di un limite soltanto umano e razionale) l'aldilà o ancora più

allegoricamente, di percepire oltre i propri sensi.

Nella seconda poesia Tristissima copia ovvero Quarantottesca:

Partivan tutti e addioe addio e addio e a Dio.Soltanto chi non partiva (io)partiva in quel rimescolio.

Come ha scritto Leonelli in essa assistiamo a una “crisi della razionalità che si regge sul

60

principio aristotelico di non contraddizione”50, una crisi anche a dire la verità che andrà

sempre maggiormente manifestandosi come crisi del linguaggio.

In Dedizione:

J'ai mis bas les armes.J'ai amenè les voiles.J'ai baissè pavillon.Que me reste-t-il, sinonbattre la chamade?

Il titolo, come è lo stesso Caproni a suggerirci nelle note al testo, va inteso “nel senso militare

di resa”. Anche in questo caso, se letteralmente sembriamo trovarci di fronte alla resa di

qualcuno che è nell'atto di combattere, sappiamo che le stesse parole rimandano a un

significato altro: è espressa qui non la resa di un soldato, ma quella della razionalità, una resa

all'incomprensibile.

Infine Condizione:

Un uomo solo, chiuso nella sua stanza.Con tutte le sue ragioni.Tutti i suoi torti.Solo in una stanza vuota,a parlare. Ai morti.

La poesia descrive la condizione esistenziale di un uomo immerso nella più totale solitudine

e impossibilitato a partecipare ad una comunicazione reale: l'unico contatto possibile è quello

che può essere instaurato con i morti e quindi realizzabile soltanto passivamente. Questa è la

“condizione” dell'uomo nell'aldiquà del “muro della terra”, nella realtà empirica.

La raccolta si snoderà tutta nella descrizione di queste tre dimensioni che circondano l'uomo:

l'aldiquà; il muro, confine ultimo della razionalità umana; e l'adilà. Con tale tripartizione,

50 G.Leonelli, op.cit.;p.136

61

presente a livello testuale quasi in ogni singolo componimento, la realtà sensoriale (l'aldiquà)

viene percepita continuamente come tendente verso l'aldilà, verso ciò che sta oltre il “muro

della terra” e che, non essendo conoscibile, può essere descritto o tramite allusioni o

attraverso simboli e allegorie. Come ha scritto Leonelli:

[…] Un Controcaproni così diverso e lontano da quello che nel 1936, in apertura del viaggio, s'era fatto salutare con Come un'allegoria (un titolo che si sarebbe rivelato un presentimento) dal prefatore Aldo Capasso come “uomo per cui il mondo esterno esiste”. Alla fine del percorso, il “poeta del sole, della luce e del mare” (Bo) s'è trasformato in poeta d'ombre, di contorni e di figure svaporanti in nebbie; all'estremo della parabola, è l'uomo per cui si rovescia la definizione di Capasso: per lui, il mondo esterno non esiste più.51

Ci sono alcune poesie che ricordano quella realtà tipica delle raccolte precedenti (Finita

l'opera, Il vetrone, L'Idalgo), ma esse sono così totalmente disperse nella moltitudine delle

altre da renderle a quest'ultime assai simili.

Le tre sezioni più importanti della raccolta sono Acciaio, Bisogno di guida e Il murato.

Nella prima si torna a un certo tipo di poesia civile che sembra riprendere i temi del

Passaggio d'Enea e in particolare nella sezione degli Anni tedeschi, ma con una forma e una

lingua assai diversi: “Mentre prima si trattava di una guerra, diciamo così determinata, […]

italiani contro tedeschi, in quest'altra, c'è l'idea della guerra proprio come guerra, in un certo

senso un'idea universale, non più particolare e legata a particolari eventi. Ma purtroppo la

guerra continua, siamo continuamente in guerra. E quindi è la guerra in sé stessa, con ricordi

naturalmente della mia esperienza della guerra vissuta […]. E più che alla guerra ufficiale

sono legate al ricordo della guerra partigiana, della guerra di liberazione.” Particolarmente

evidente in questo senso è la prima poesia della sezione, All'alba:

Eran costretti, tutti,a seguir lui, il soloche avesse una lanterna. Ma all'albatutti, si sono dileguaticome fa la nebbia. Tutti.

51 G.Leonelli, Ibid.

62

Chi qua, chi là.

(C'è anche chi ha preso,pare, una strada falsa.Chi è precipitato. È facile.)

Oh libertà, libertà.

L'ideale perseguito, luminoso che aveva avuto cagione d'esistere durante la guerra, le

speranze che si nutrivano nella ricostruzione del dopoguerra, si dileguano nella nebbia

proprio nel momento in cui un nuovo sole sarebbe potuto nascere. E allo stesso modo vanno

intese le altre poesie della sezione come L'esito o In eco in cui viene espressa probabilmente

una critica a chi ha gridato “vittoria” soltanto alla fine della guerra e quindi con la fine del

regime fascista, e invece non ha avuto il coraggio di alzare la voce a tempo debito:

(piano)(Qualcuno avrà anche gridatonel bosco. Chi l'ha ascoltato.)

(fortissimo)Ma tutti – tutti! - hanno cantatovittoria, prima del rantolo.

Alla fine la guerra e gli anni che le sono succeduti hanno portato soltanto rammarico e altre

guerre e soprattutto hanno comportato la sparizione di un mondo, di una realtà che è quella

tipica delle prime poesie caproniane. In Tutto:

Hanno bruciato tutto.La chiesa. La scuola.Il municipio.

Tutto.

Anche l'erba.

63

Anche, col camposanto, il fumotenero della ciminieradella fornace.

Illesa,albeggia sola la renae l'acqua: l'acqua che tremaalla mia voce, e specchialo squallore d'un gridosenza sorgente.

La gente non sai più dove sia.

Bruciata anche l'osteria.

Anche la corriera.

Tutto.

Non resta nemmeno il lutto,nel grigio, ad aspettar la sola(inesistente) parola.

Tutti i luoghi e gli oggetti tipici della prima poesia caproniana: la realtà cittadina (descritta

curiosamente attraverso tre strutture-modello come la chiesa, la scuola e il municipio che

simbolicamente alludono a una vita spirituale, una educativa e una politica) l'osteria e la

corriera. Persino la parola si è persa, soltanto l'acqua e la rena sono rimaste a specchiare un

grido che non ha una provenienza e vive del proprio squallore. Sembrerebbe di assistere agli

esiti del viaggio che si era prefissato di fare Caproni nelle vesti di Enea: salvare il passato dei

padri e costruire un futuro solido ai figli. E non è un caso che la poesia che sta tra le due

sezioni Acciaio e Bisogno di Guida sia la poesia dedicata al figlio A mio figlio Attilio Mauro

che ha il nome di mio padre (poesia che fa sezione a sé in Poesia (o tavola) fuori testo):

Portami con te lontano ...lontano...nel tuo futuro.

64

Diventa mio padre, portami per la manodov'è diretto sicuroil tuo passo d'Irlanda-l'arpa del tuo profilobiondo, altogià più di me che inclinogià verso l'erba.

Serba di me questo ricordo vanoche scrivo mentre la mano mi trema. Rema con me negli occhi al largo del tuo futuro, mentre odo(non odio) abbrunato il sordobattito del tamburoche rulla – come il mio cuore: in nomedi nulla – la Dedizione.

Come ne il poemetto Il passaggio d'Enea dell'omonima raccolta ci troviamo di fronte al rullo

del tamburo: “Enea che in spalla / un passato che crolla tenta invano / di porre in salvo, e al

rullo d'un tamburo / ch'è uno schianto di mura, per la mano / ha ancora così gracile un

futuro / da non reggersi ritto”. Nella raccolta precedente esso equivale alla caduta delle mura

di Troia e quindi allegoricamente all'infrangersi degli ideali della generazione precedente a

quella di Caproni che hanno portato alla guerra; ora invece, che Enea ha perduto il ruolo di

figlio e rimane soltanto padre del piccolo Iulo, il rullo di tamburi vuol significare che l'ultima

guerra che rimane da combattere è quella verso l'aldilà e l'inconoscibile, anzi, verso il nulla.

Ed è già una resa, perché anche in questo caso (come nella poesia omonima) la parola

Dedizione, ancora secondo la stessa nota al testo di Caproni, vuol significare proprio resa

militare. Ecco dunque che sorge disperato il bisogno di una guida, la necessità dell'arrivo di

qualcuno che sappia accompagnare Enea oltre il confine della razionalità e oltre il muro della

terra. Proprio con l'ultima poesia della sezione di Acciaio, I coltelli, Caproni anticipa il tema

della sezione successiva, Bisogno di guida, ovvero l'inesistenza di Dio:

65

“Be'?” mi fece.Aveva paura. Rideva.D'un tratto, il vento si alzò.L'albero, tutto intero, tremò.Schiacciai il grilletto. Crollò.Lo vidi, la faccia spaccatasui coltelli: gli scisti.Ah, mio dio. Mio Dio.Perché non esisti?

Tutta la sezione di Bisogno di guida, esprime in una forma aforistica e paradossale la

mancanza e l'inesistenza di una guida divina oltre il confine. In essa, come d'altronde in tutta

la raccolta, domina una figura retorica assai importante dell'ultimo Caproni: l'ironia. L'ironia

letteraria è di per sé, già secondo Quintiliano e altri autori antichi e più moderni come

Derrida o De Man, una forma di allegoria52: d'altronde essa generalmente dice qualcosa per

affermarne il contrario. Caproni che ne ha sempre fatto uso a partire almeno da Il seme del

piangere, ora insiste molto su questa figura retorica, colorandola spesso di sfumature ricche

di cinismo. Particolarmente importante in questo senso sono le due poesie conclusive della

sezione.

In Deus absconditus:

Un semplice dato:52 Per quanto riguarda Quintiliano nella Institutio oratoria lo scrittore romano avvicina il processo allegorico a

quello ironico perchè “come la metafora continuata crea l'allegoria, così una serie intrecciata di tropi-ironie dà luogo alla figura-ironia” (IX,2,46) e continua affermando che l'ironia altro non è se non un tipo di allegoria che intende il contrario di ciò che afferma. Per De Man e Derrida invece si guardi per esempio a Psyché. Invenzioni dell'altro (nella versione italiana a cura di J.Ries, Psyché. Invenzioni dell'altro, Vol.1, JacaBook, Milano, 2005;p.30-1) in cui il filosofo francese si trova in accordo con il critico americano quando ne riporta un'affermazione da Retorica della temporalità (in traduzione italiana in P.De Man, Allegorie della lettura, Einaudi, 1997) : “l'atto di ironia, come lo intendiamo ora, rivela l'esistenza di una temporalità che è certamente non organica, in quanto si rapporta alla sua fonte solo in termini di distanza e di differenza, e non lascia posta ad alcuna fine, ad alcuna totalità. L'ironia divide il flusso dell'esperienza temporale in un passato che è pura mistificazione e un avvenire che resta per sempre assillato da una ricaduta nell'inautentico. Essa può soltanto riaffermarla e ripeterla a un livello sempre più cosciente, ma resta indefinitamente chiusa nell'impossibilità di rendere questa conoscenza applicabile al mondo empirico. Si dissolve nella spirale sempre più stretta di un segno linguistico che si allontana sempre di più dal suo senso, e non può sfuggire a questa spirale. Il vuoto temporale che rivela è lo stesso vuoto che abbiamo incontrato quando abbiamo scoperto che l'allegoria implica sempre un'anteriorità inaccessibile. L'allegoria e l'ironia sono associate nella loro scoperta comune di un predicament realmente temporale.”

66

Dio non s'è nascosto.Dio s'è suicidato.

E nella sua prosecuzione Postilla che originariamente doveva seguire a Deus absconditus e

non separarsene:

(Non ha saputo resistere al suo non esistere?)

Questa ironia però, questo scrivere qualcosa ma intenderne il contrario, rientra in un pensiero

più complesso e profondo il quale ha il suo antecedente in un filone della filosofia

occidentale che prende il nome di Teologia negativa. Partendo da Plotino e arrivando fino a

Kierkegaard, Rudolf Otto e Karl Barth questa filosofia tratta di quel tipo di riflessione

teologica e filosofica che si propone di cercare Dio secondo una prospettiva logico-formale.

È una riflessione che si concentra tutta sul limite a cui l'uomo può arrivare con la sua logica e

oltre il quale non può andare, dovendo da lì in poi cedere il passo alla fede e a un sapere

rivelato. Secondo il procedimento logico è possibile al massimo affermare che Dio non può

non essere, appropriandosi di un metodo negativo, noto altrimenti come via negationis, che

consisterebbe nello studiare e nel definire una realtà a partire unicamente dal suo contrario.

Di qui la valorizzazione del limite, dell'errore che pur opponendosi alla verità, permette in

qualche modo di circoscriverla. Particolarmente importante fu per Caproni la lettura delle

Confessioni di Sant'Agostino che viene considerato il padre della tradizione negativa

cristiana. Melius scitur Deus nesciendo (Dio si conosce meglio nell'ignoranza), Si

comprehendis non est Deus (se lo comprendi allora non è Dio) sono alcune delle

affermazioni che Agostino scrive evidenziando come Dio sia il totalmente Altro rispetto alla

coscienza umana. Allo stesso modo però Egli è presente in noi più di quanto non lo siamo noi

stessi e rappresenta per il nostro pensiero sia la condizione del suo costituirsi che la meta

naturale (“il nostro cuore non ha pace finché non riposi in Te”). Il dubbio inoltre, secondo

67

Agostino, è un momento essenziale e indicativo del disvelarsi della verità, perché nel dubbio

la ragione prende coscienza di ciò che Dio non è. E non si può avere coscienza del negativo

senza avere già inconsciamente trovato il positivo. È probabile che le nozioni di tale filosofia

siano giunte a Caproni attraverso la mediazione di un autore che sappiamo essere stato assai

caro a Caproni, il filosofo scettico Giuseppe Rensi. Se ci soffermiamo infatti su alcuni suoi

scritti ci avviciniamo maggiormente alla comprensione delle poesie dell'ultimo Caproni:

“Realtà è uguale ad assurdo: l'elemento veramente permanente, dominante, signore della

realtà, è l'elemento della negazione e della contraddizione”53. Come scrive Leonelli “questo

Dio che si proietta nel futuro e prende vigore e senso non dall'affermazione, ma dalla

negazione, dalla propria inesistenza, è quello di cui parla il Rensi un po' in tutta la sua

opera”54. E infatti se andiamo a leggere le pagine diaristiche di Scheggie, uscite nel 1930,

Rensi aveva scritto:

Dio – non ti vedo e ti nego. Ma tu sei forse qui presente in me, entro di me, in guisa più intima e vivificatrice che non in molti di quelli che ti affermano. Perché sei Eterna Verità, sei proprio il mio impulso ad abbracciare energicamente e ad affermare a costo d'ogni detrimento mondano ciò che scorgo come verità […]. Nella mia negazione di Te sei Tu stesso che ti affermi.

E in Frammenti d'una filosofia dell'errore e del dolore, del male e della morte del 1937:

“amo calorosamente nella religione ciò che dovrebbe essere e che con tutto il mio animo

vorrei che fosse”55. Si badi bene, però, che questa ostentata e ossessiva negazione di Dio da

parte di Caproni non vuol significare assolutamente che egli si creda un ateo. Come lo stesso

poeta ha affermato durante un'intervista il 15 aprile del 1986 a uno dei “Martedì letterari” di

Sanremo, presentando ancora in bozze alcune poesie della raccolta successiva al Muro, il

Conte di Kevenhüller:

Qualcuno ha detto che io appartengo alla teologia negativa, quella della morte di Dio: morte nella coscienza

53 G.Rensi, Scheggie: pagine d'un diario intimo, Biblioteca editrice, Rieti, 1930; p.7454 G.Leonelli, op.cit.; p.68-955 G.Rensi, Frammenti d'una filosofia dell'errore e del dolore, del male e della morte, Guanda, Modena, 1937;

p.205

68

dell’uomo, intendiamoci. C’è addirittura chi mi definisce ateo. Cosa falsa. Prima di tutto io non sopporto nessuna definizione. Le definizioni limitano. Non sono ateo, non sono credente, sono io. Poi 'ateo' mi dà fastidio. È una parola ottocentesca che mi fa venire in mente certi livornesi col sigaro toscano in bocca, la cravatta alla Lavallière, i liberi pensatori. Tutte cose pittoresche che mi danno fastidio. Io pongo solo un limite alla ragione.Dico che la ragione umana compie miracoli, ma è destinata a imbattersi in un muro o arrivare a un ultimo borgo oltre il quale non ha accesso. L’uomo di fede fa presto: scavalca il muro, supera l’ultimo borgo, e beato lui. Ma il povero razionalista rimane interdetto: non dice però non c’è Dio, non c’è nulla. Anzi c’è un personaggio mio, l’'antimetafisicante', che dice: 'Un’idea mi frulla, / scema come una rosa. / Dopo di noi non c’è nulla. /Nemmeno il nulla, / che già sarebbe qualcosa'. E un altro personaggio, di rimando: 'E allora, sai che ti dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / - nemmeno il dove - c’è Dio': Come mi si può definire ateo in questo senso?»

La terza sezione della raccolta Il murato descrive la condizione di chi si trova esattamente al

confine, murato appunto tra l'essere e il non essere, immerso nella propria infinita solitudine

con i sentimenti propri dell'uomo: tornano quindi il dolore e l'amore, ma velati da un

sentimento nichilistico e smarrito e soprattutto dalla consapevolezza che la parola e il

linguaggio siano insufficienti a descrivere anche la realtà sensoriale. In Senza esclamativi:

Com'era alto il dolore.L'amore, com'è bestia.Vuoto delle paroleche scavano nel vuoto vuotimonumenti di vuoto. Vuotodel grano che già raggiunse(nel sole) l'altezza del cuore.

D'altronde come lo stesso Caproni ha scritto:

Forse Pascal mi annovererebbe fra i ciechi. Cieco o no, per me il rovello o mistero dell'esistenza è qua, impenetrabile alla vista opponendosi “Il muro della terra”, per usare un'espressione dantesca che forse adotterò come titolo della raccolta. C'è un piccolo pazzo, nel mio libro, che vorrebbe forare quel muro, ma non per vedere cosa c'è di là, bensì cosa c'è di qua: qua.56

Sapere cosa ci sia al di là del confine permetterebbe al murato di capire meglio cosa sia la

realtà sensoriale in cui vive, ama e soffre.

Con il Muro della terra le riflessioni filosofiche e teologiche prendono il sopravvento sulla

realtà, essa diventa esclusivamente composta da oggetti e luoghi che trascendono il loro

significato letterale e diventano allegorici. Come in L'idrometra:

56 La Fiera Letteraria, 1975

69

Di noi, testimoni del mondo,tutte andranno perdutele nostre testimonianze.Le vere come le false.La realtà come l'arte.

Il mondo delle sembianzee della storia, egualmente porteremo con noiin fondo all'acqua, incertae lucida, il cui velo neronessun idrometra piùpattinerà – nessuna libellula sorvolerànel deserto, intero.

L'unica realtà sembrerebbe essere il nulla, che Caproni chiama Nibergue57 , un nulla che però,

come abbiamo visto, sarebbe già qualcosa secondo alcune sue poesie successive. Come ha

notato ottimamente Calvino nella poesia di Caproni “ciò che è, è poca cosa, mentre il resto (il

tutto, o quasi) è ciò che non è, che non è stato, che non sarà mai. […]. Il segreto che Caproni

ci comunica non è l'esperienza del nulla, che è comune a tanta parte della poesia moderna;

egli ci dimostra che ciò a cui il nulla si contrappone non è il tutto: è il poco” 58. Il termine

“ontologia negativa”59 coniato da Calvino per descrivere la poesia caproniana è quindi quanto

mai appropriato perché persino l'essere, la realtà, gli oggetti subiscono gli effetti di una

evaporazione: “[...] è una concezione della realtà, dell'essere non solo sempre più teologica, o

nichilistico-teologica (e quindi del sì/no: tenebra/luce o altro, anche nella loro coesistenza o

meglio inversione reciproca); ma è anche una concezione che si esprime sempre più in

assenza di oggetto, e perciò oniricamente per un verso, assertivamente per l'altro.”60

57 In una bozza dell'autore rinvenuta da Zuliani leggiamo “In argot Nibergue (o Nib) significa niente, no, come l'italiano nisba”

58 I.Calvino, op.cit.; p.100159 Ibid.; p.100260 P.V.Mengaldo, op.cit.;p.XXXII

70

IL FRANCO CACCIATORE

Il Franco cacciatore viene pubblicato nel 1982 per la Garzanti. Cinque anni dopo Caproni

commentò così la scelta del titolo nell'intervista radiofonica registrata per Frangitempo:

È stata per me una sorpresa, perché quando mi son visto di fronte questi versi scritti, ho avuto l'impressione,

mettendoli insieme non più in ordine cronologico di composizione, ma secondo un ordine logico, che avessero

obbedito a un progetto […]. Hanno tutti una loro consequenzialità, tanto che formano una specie di poemetto

unico: […] forse è il subconscio che aveva preparato questo progetto. Poi, cercando un titolo, […] mi cadde il

dito proprio sul Franco cacciatore, Der Freischüz...”61

Der Freischüz è un'opera in tre atti di Carl Maria Von Weber, considerata la prima importante

opera del romanticismo tedesco. Come vedremo ci sono delle consonanze esplicite tra l'opera

di Caproni e quella del compositore, quindi nell'intervista Caproni si riferiva a quelle

composte prima d'organizzare la raccolta. In un'altra intervista radiofonica del 1987,

Buonanotte Europa, Caproni spiega come il progetto abbia preso forma:

Io avevo cominciato questo libro nuovo con un tirassegno: [Caproni recita L'occasione]. Poi m'accorsi che

proprio il libretto, almeno la traduzione francese e italiana, parla di questo tirassegno […]. Allora ho trovato

altri punti di contatto, è stata soprattutto la musica a suggerirmi certe idee, perchè il tedesco non lo capivo. […]

Ho ambientato la prima poesia al limite della foresta, ho letto meglio il libretto, ho introdotto Max, Samiel e

altri personaggi, poi [la sezione] In Boemia (così si finisce con L'aria del tenore). Ho cercato di dargli questa

struttura, diciamo così, operistica (ma non è il termine esatto), questa simulazione, ecco, di opera.62

Una “simulazione di opera” quindi. Le novità tematiche rispetto a ciò che abbiamo detto a

proposito del Muro della terra non sono molte. Si delinea sempre maggiormente la figura di

61 Intervista radiofonica per Frangitempo62 Intervista radiofonica per Buonanotte Europa

71

questo nuovo personaggio in-absentia, chiamato “Lui” (da cui una intera sezione) o “Dio”.

Dopo Enea e Annina, l'ultimo Caproni affida la sua poesia a questo nuovo protagonista che

compare (o meglio non-compare) e viene cercato da una miriade di altri personaggi minori.

Primo fra tutti, appunto, il cacciatore:

quella che soprattutto m'interessa è la figura del cacciatore (e cacciatori già se ne trovano parecchi nelle mie precedenti opere), vista – come già la figura del viaggiatore – in veste di cercatore. Cercatore di che? Di dio? Della verità? Di ciò che sta dietro il fenomeno ed oltre l'ultimo confine cui può giungere la ragione? Della propria o dell'altrui identità? Una domanda vale l'altra, e forse si tratta solo di ricerca per amor di ricerca.63

In L'occasione ad esempio:

L'occasione era bella.Volli sparare anch'io.Puntai in alto. Una stellao l'occhio (il gelo) di Dio?

Esplicita la ricerca di Dio attraverso il ruolo del cacciatore. Ma quest'ultimo non è l'unico

personaggio della raccolta, ci sono anche il guardiacaccia, lo stoico, il perfido, il chierichetto,

lo scemo del paese, il fuor di senno, l'autobiografante, il cambiavalute, lo spatriato, la

sentinella... Caproni parla attraverso tutti questi personaggi, nascondendosi in essi. Eppure

non dobbiamo commettere l'errore di confondere un procedimento del genere con un

meccanismo che potrebbe essere definito polifonico o pluricentrico. Caproni non riesce mai a

distaccarsi da se stesso, non riesce ad essere altro da sé: neppure con il personaggio di

Annina, con la quale più di tutti prova a impersonificarsi in una persona altra, è capace di

oltrepassarsi. Alla fine tutti questi personaggi minori, non sono altro che “variazioni su un

tema”, uno scorrere di tante metafore che insieme sembrano formare un'unica grande

allegoria: il continuo oscillare ora nell'incertezza ora nella negazione dell'esistenza di Dio.

Particolarmente evidente in questo senso è Ribattuta:

63 AA.VV., Il poeta e la poesia, convegno a Roma, 8 febbraio 1982

72

Il guardiacaccia con un sorriso ironico:

- Cacciatore, la predache cerchi, io mai la vidi.

Il cacciatore, imbracciando il fucile

- Zitto. Dio esiste soltantonell'attimo in cui lo uccidi.

Un tema nuovo, non ancora presente ne Il muro della terra, cerca di rispondere a un quesito

moderno fondamentale: “che cos'è l'uomo senza Dio?”, una volta che se ne nega l'esistenza,

cosa rimane da fare all'uomo? Determinazione, un altro componimento fortemente allegorico,

ne è l'esempio più evidente:

Non è arrivato nessuno.Tutti sono scesi. Uno(l'ultimo) s'è soffermatoun attimo, il volto nel lampodell'accendino, poiha preso anche lui – deciso -la sua via.

Ci siamoguardati. Lo avremmopugnalato, lui(l'ultimo!) che pur poteva,doveva necessariamenteesser lui, se luinon era giunto.

Lo abbiamolasciato passare dirittodavanti a noi.

E soloquand'è scomparso, il deserto

73

ci è apparso chiaro.

Che fare.

Inutile aspettare,certo, un altro treno. Il testoera esplicito. O qui,e ora, o... nulla. Siamovenuti via.

Abbiamovoltato le spalle al vuotoe al fumo.

Abbiamoscosso le spalle.

Faremo,ci siamo detti, senzadi lui.

Saremo,magari, anche più fortie liberi.

Come i morti.

La poesia secondo le stesse parole dell'autore è ispirata a un fatto realmente accaduto: “Ero

andato alla stazione. Aspettavo Piero [fratello dell'autore] da Genova. Non venne. Così mi

nacque questo I° verso.” Capiamo subito però che chi il poeta sta realmente aspettando non è

Piero, ma Dio, quel Lui che dà il titolo alla sezione. Ecco perchè tutto il testo va inteso

allegoricamente. Gli ultimi versi si rifanno a un passo scritto da Katherine Mansfield che

Caproni ha letto nella Vita breve di Katherine Mansfield di Citati: “Non si può credere quale

piacere mi dava il mio compagno invisibile, immaginario. Se fosse stato vivo, una cosa

simile non sarebbe stata possibile: ma è un gioco che mi piace quello di passeggiare, di

74

parlare coi morti che sorridono, che sono silenziosi e liberi interamente e per sempre”.

L'uomo senza Dio potrebbe quindi essere più forte, trovare un senso altro alla propria

esistenza e - per quanto Caproni ne dia una accezione pessimistica paragondandola a quella

dei morti – trovare una nuova libertà.

La realtà è così esterna da questa raccolta da richiedere l'intervento della prosa. Caproni ha

sentito la necessità di affidare i suoi pensieri a un discorso più razionale e chiaro di quanto

non fosse la poesia: ha inserito infatti due brevi riflessioni intitolate Inserti. Come egli stesso

ha dichiarato nell'intervista radiofonica Antologia del 1988: “Penso che qui sia puro

ragionamento, e quindi non si può fare la poesia per puro ragionamento. […] Questa

vorrebbe essere una professione di stoicismo, in fondo io mi sento uno stoico”. Nel primo

inserto, ancora una volta prova a definire come sarebbe la vita dell'uomo senza Dio:

Vi sono casi in cui accettare la solitudine può significare attingere Dio. Ma v'è una stoica accettazione più

nobile ancora: la solitudine senza Dio. Irrespirabile per i più. Dura e incolore come un quarzo. Nera e

trasparente (e tagliente) come l'ossidiana. L'allegria ch'essa può dare è indicibile. È l'adito – troncata netta ogni

speranza – a tutte le libertà possibili. Compresa quella (la serpe che si morde la coda) di credere in Dio, pur

sapendo – definitivamente – che Dio non c'è e non esiste.

È una riflessione che trascende la realtà e che non ha niente di allegorico: una riflessione che,

come tale, deve essere letta essenzialmente nella sua accezione letterale. L'Altro inserto cerca

in qualche modo di inserire il tarlo del dubbio nell'asserzione di “Dio non esiste” ripetuta

ossessivamente nella raccolta:

Per quanto tu ragioni, c'è sempre un topo – un fiore – a scombinare la logica. Direi che tutto nel tuo ragionamento è perfetto, se non avessi davanti questo prato di trifoglio. E sarei anche d'accordo con te, se nella mente non mi bruciasse (se non mi bruciasse la mente – con dolcezza) quest'odore di tannino che viene dalla segheria sotto la pioggia: quest'odore di tronchi sbucciati (d'alba e d'alburno), e non ci fosse il fresco delle foglie bagnate come tanti lunghi occhi, e il persistente (ma sempre più sbiadito) blu della notte.

75

In quest'altro inserto Caproni sembra tornare al descrittivismo delle prime raccolte nelle quali

la realtà raccoglie in sé un significato altro e inconoscibile da ciò che è sensorialmente.

D'altronde però in una raccolta come quella del Franco cacciatore, questa riflessione vuole

essere la testimonianza di un dubbio, di un tarlo del logos, ricordare al lettore che si può

negare l'esistenza di Dio razionalmente come fosse un sillogismo filosofico “non vedo-non

credo”, ma che in fondo ci sono momenti nella vita in cui la bellezza della sensorialità,

l'estasi di un momento suscita convinzioni diverse. Se avessimo trovato una riflessione del

genere in Come un'allegoria, avremmo detto che si trattava di un ulteriore esempio di come

la realtà nascondesse una verità non rivelata, ma in una raccolta come questa, in cui si nega

costantemente l'esistenza di Dio essa acquista un significato diverso e più emblematico: la

fallibilità e limitatezza del pensiero razionale. Alla fine Caproni si è chiuso così tanto in se

stesso, nel proprio pensiero e nella propria poesia razionalistica e aforistica da volersi

scordare di quella realtà inconoscibile delle prime (ma possiamo dire – con espedienti diversi

– fino a Il seme del piagere) raccolte di cui abbiamo parlato. L'ultimo Caproni dunque non è

al di là del “muro della terra”, né si trova più a quel confine tra realtà e inconoscibile in cui

gran parte delle sue poesie precedenti si svolgevano, ma è tutto asserragliato in quell'al di qua

che è tutto pensiero, che è tutto un volersi ripetere (e quasi un volersi rassicurare) che Dio

non esiste, che è morto o si è addirittura suicidato. In realtà abbiamo già spiegato come

questa insistenza tematica alla fine produca un effetto contrario, come nella negazione si

nasconda un celato spirito di affermazione, eppure tutta la raccolta si concentra su questa

assenza divina. Ecco perchè questo inserto, oltre a rappresentare quella realtà da cui tanto si

fugge, trascende la propria letteralità e ha la funzione di incarnare il dubbio che tutta la

razionalità umana basi la sua forza su fondamenta sbagliate.

IL CONTE DI KEVENHÜLLER

76

Il Conte di Kevenhüller, l'ultima raccolta edita dall'autore, esce per Garzanti nel 1986.

Caproni descrisse la nascita dell'opera con parole simili a quelle usate per Il franco

cacciatore:

[Le mie ultime raccolte] obbediscono ad una progettazione, che però è inconscia: ma me ne sono accorto perché quando io scrivo dei versi […] non penso mai al libro totale. Sennonché, quando poi li raccolgo (e credo di averne, così, volumetricamente, un numero bastevole per fare una raccolta) mi accorgo che se li mettessi in ordine di data, il libro non uscirebbe fuori; viceversa se li pongo in un certo ordine ho proprio l'impressione che il libro sia stato progettato (come si dice oggi, programmato). […] Quindi penso che al posto della musa oggi vi sia [il subconscio], e che il subconscio abbia un suo progetto, e che quando scrivo inconsciamente io vi obbedisca. […] L'esempio più lampante è proprio Il conte di Kevenhüller: il libro è proprio organizzato, ma mentre lo scrivevo no[n lo era], basta guardare le date”64.

Per quanto riguarda il titolo, è sempre Caproni a fornircene la spiegazione in un articolo:

Il Conte di Kevenhüller, che dà il titolo al libro pur non essendone il protagonista, è un personaggio realmente esistito, firmatario dell'avviso riprodotto in fac-simile a pagina [541] [Caproni si riferisce all'edizione originale pubblicata nel 1986 con Garzanti], nel quale esorta la popolazione a una generale caccia contro una feroce Bestia. Non ho fatto particolare ricerche sulla figura di questo Conte, ma per primo è stato Giovanni Bonalumi, dell'università di Basilea, a ricordare recentemente ai distratti che il Parini scrisse la famosa ode Alla Musa nella primavera del 1795, nove mesi dopo le nozze del Marchese Febo d'Adda con la contessina Leopolda Kewenhüller (un w in luogo di una v non fa...testo!). Dirò che il Conte di Kevenhüller è un titolo che mi è piaciuto per il suo sapore operettistico”. Il bando del resto potrebbe anche non essere autentico, ma poco importa. L'ho trovato per caso in un rotolo di manifesti d'epoca che mi regalarono anni fa. Sfogliandoli scorsi in riproduzione l'avviso65.

Il manifesto è dunque ancora una volta un pretesto - come lo era stato il libretto weberiano

per la raccolta precedente - per dar seguito a una vocazione narrativa. Dopo essersi dedicato

ne Il franco cacciatore al personaggio del cacciatore, è venuto il momento di occuparsi della

preda che letteralmente dovrebbe essere una bestia feroce che devasta e razzia i campi e le

popolazioni del nord-Italia, ma che allegoricamente è ben altro:

Può essere presa a simbolo (o metafora) del Male, in tutte le sue molteplici forme. Soprattutto del Male che l'uomo stesso, quasi per vocazione al suicidio, si fabbrica con le proprie mani, distruggendo la natura e diffondendo nubi tossiche o radioattive più micidiali, certo, della ferocia della Bestia ducale. A meno che il male non sia l'uomo stesso: questa nostra stupida e feroce (feroce perché stupida) umanità di oggi, per la quale la violenza, in ogni sua forma, quasi viene esercitata a passo di danza. […] Basterebbe (e lo dico in più di un punto

64 Antologia, 198865 Unione sarda, 1986

77

nel libro) averne seriamente paura. Allora sì che si correrebbe, seriamente, ai ripari”66.

Avere paura della bestia significa quindi prendere consapevolezza del male che è in noi:

La Paura, che una volta era l'effetto voluto attraverso i Mostri corpacciuti appositamente inventati, scacciati questi come gingilli puerili grazie all'improvvisa ascensione dei Lumi, oggi è diventata essa stessa il Mostro, prendendo tutte le più svariate forme possibili (biologiche, psicologiche, politiche, pseudoreligiose ecc.), e riuscendo così a dare l'illusione d'un intero popolo di mostri, mentre in realtà ce n'è uno solo, il quale fu quello stesso che all'epoca della Caverna, e dalla Caverna, figliò e liberò qualche milioncino d'anni fa l'orribile Mandria.”67

Fondamentalmente questo involucro narrativo fa da cornice a una raccolta che è un po' una

summa di tutte le principali tematiche caproniane. Con Il Conte di Kevenhüller la poetica

caproniana raggiunge un apice tematico. Nella trama narrativa si inseriscono i temi della

mancanza di una guida, la sfiducia nel linguaggio, le riflessioni sull'esistenza di Dio,

l'impotenza della ragione e soprattutto un ritorno della realtà sensoriale che si differenzia

totalmente da quella delle prime raccolte. Ma procediamo con cautela.

Il tema della mancanza di una guida, viene espresso subito con le prime due poesie che

introducono la raccolta, Avvertimento e Codicillo:

AVVERTIMENTO

«Quant'odio, nell'amore.Quanto amore, nell'odio...»

Salito appena sul podio,un colpo fredda il direttore.

L'orchestra dovrà far senza.Il pubblico urla d'impazienza.

Così (e sarà di certoun baratro) comincia il concerto.

CODICILLO

66 Ibid.67 La Fiera Letteraria, 1958

78

Vi assista la partitura.Ma... non sperate paura.

(Paura dal campo nostro,è chiaro.

Dal vostro.)I due testi sono chiaramente collegati, ed entrambi nascondono una evidente allegoria: è solo

un'interpretazione, ma nel direttore d'orchestra freddato nel momento esatto in cui sale sul

podio si riflette l'immagine di Dio e della guida che personificherebbe (e per quanto riguarda

la sua salita sul podio vengono in mente i versi che lo stesso Caproni utilizza nel Franco

cacciatore: “Dio esiste soltanto / nell'attimo in cui lo uccidi”), mentre i componenti

dell'orchestra, data la loro abilità musicale, rappresenterebbero probabilmente i poeti che,

seguendo il direttore, dovrebbero avere la funzione di far arrivare la composizione

armoniosamente corretta al pubblico. Senza guida però, il concerto è un disastro e l'unico

espediente a cui l'orchestra può ricorrere è lo spartito, la trascrizione della musica, e quindi

verosimilmente la trascrizione di qualcosa di astratto. Allo stesso modo il poeta può affidarsi

alla trascrizione di ciò che sente attraverso la parola, ma sia per l'orchestra che per il poeta,

questo tipo di trascrizione risulta insufficiente nel descrivere cosa siano rispettivamente la

musica e il proprio stato d'animo. La crisi del linguaggio, la sfiducia nella parola - derivata a

Caproni da Maurice Blanchot, secondo il quale la parola, nel momento esatto in cui viene

pronunciata, dissolve e addirittura uccide l'oggetto - sono state un tema abbastanza ricorrente

nella poesia caproniana, già a partire da Il Passaggio d'Enea, ma con Il Conte di Kevenhüller

diventa quello principale. La paura di cui si parla nella poesia deriva proprio da questa

limitatezza del linguaggio, dall'impossibilità di definire una cosa nella sua essenza. In un'altra

poesia della raccolta, Squarcio:

Viltà d'ogni teorema.

Sapere cos'è il bicchiere.

79

Disperatamente sapereche cosa non è il bicchiere,le disperate serequando (la mano trema,trema) nel patemaè impossibile bere.

La disperazione e la paura nascono proprio da questo limite umano. Alla fine persino la

Bestia non vuole essere altro che una allegoria, un espediente narrativo che simboleggia

proprio questa limitatezza del linguaggio. In L'ora:

[…]

…È l'ora...

L'ora della Bestia... Primadi nominarla, spara!

Spara prima che spariscanel suo nome.

Tira- a zero! - nel vento irto che aral'erba nera...

Spara!

Non cercare la mira.

Spara! Spara!! Spara!!!

E ancora più esplicitamente l'accostamento tra la Bestia e il limite della parola è in Io solo:

La Bestia assassina.

La Bestia che nessuno mai vide.

La Bestia che sotterraneamente- falsamente mastina -ogni giorno ti elide.

La Bestia che ti vivifica e uccide...

80

…...

Io solo, con un nodo in gola,sapevo. È dietro la parola.

Se torniamo a rileggere l'interpretazione che lo stesso Caproni dà della Bestia, vediamo che

viene detto quanto essa rappresenti il “Male in tutte le sue molteplici forme” e in particolare

quello che “l'uomo stesso, quasi per vocazione al suicidio, si fabbrica con le proprie mani,

distruggendo la natura e diffondendo nubi tossiche o radioattive più micidiali, certo, della

ferocia Bestia ducale” e concludendo che forse “l'uomo stesso è il male”, “questa nostra

stupida e feroce (feroce perché stupida) umanità di oggi, per la quale la violenza, in ogni sua

forma, quasi viene esercitata a passo di danza”. Quella di Caproni è una interpretazione

abbastanza letterale e non completa perché se la Bestia è il Male, e se come abbiamo visto la

Bestia altro non è che la personificazione allegorica di un concetto astratto, possiamo dire

allora che il Male si origina proprio da questo concetto astratto: la limitatezza della parola. In

Di un luogo preciso, descritto per enumerazione:

È l'imbrunire...

Gli alberi sono brulli...

I due che senza volto seganolegna, presso la carbonaia...

La Trebbia... La sua ghiaiarossosoriana...

Lontanae annebbiata di viola,la cima già emilianadel Lésima...

Il climaè aspro...

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D'in alto- a piombo – i due costonisull'acqua scabra...

L'asfaltod'un cielo che opprime - chiuso -la statale.

Passa- deserta – l'ultima(faticosa) corriera...

È forsein questa geografia precisae infrequentata (in questagola incerta, offuscata di fumo) la provaunica – evanescente -di consistenza?...

È già notte...

Nessuno in vista... Nessunoche parli...

Nell'oraspenta, non una solasillaba...

Il luogoè salvo dal fruscìodella bestia in fuga, che sempre- è detto – è nella parola.

Come vedremo la poesia testimonia una nuova comparsa della realtà sensoriale che era

andata dissolvendosi nelle raccolte precedenti, ma ci occuperemo dopo di questa

problematica, per ora ci basti dire che ancora una volta essa è prova del fatto che la Bestia (e

dunque il Male) risiedono in realtà nella parola. Solo nel silenzio e nella desolazione in un

luogo offuscato e pieno di fumo, è possibile trovare l'unica prova (evanescente) della

consistenza, dell'essere, di ciò che è libero dalla Bestia. La divisione tra ciò che è e ciò che è

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nominato, e quindi tra ciò che è e ciò che appare in fin dei conti è un tema ricorrente

all'interno della raccolta. Per fare un esempio, in Due madrigaletti:

I

(Appassionatamente)

Mio nome, avvicinati.Stringiti al mio corpo.Fa' che nome e corpo non siano,per me, più due distinti.

Moriamo insieme. Avvinti.

II

(Sempre con cuore)

Bruciamo la nostra distanza.Bruciamola, mio nome.Cessiamo di viverla comeil sasso la sua ignoranza.

Alla fine il contrasto tra ciò che è e ciò che appare è la riflessione portante anche del mito

della Caverna platonica citato precedentemente da Caproni a proposito della “paura”, quando

scrive che il Mostro è “uno solo, il quale fu quello stesso che all'epoca della Caverna, e dalla

Caverna, figliò e liberò qualche milioncino d'anni fa l'orribile Mandria”68.

"Ciò che è" è anche, per sua definizione, la realtà e come abbiamo già accennato, l'altro tema

portante del libro è proprio il ritorno di una realtà sensoriale. Partendo quindi dal presupposto

che per Caproni l'essere è inconoscibile in quanto è solo apparenza e vacuità di un nome, ci

accorgiamo subito che la realtà stessa altro non è se non pura apparenza, e “immaginazione”.

In L'ubicazione:

Nel dominio, forse,

68 Ibid.

83

dell'evanescenza...

Nel vento(nel tempo) decapitato...

A Savona,sul porto...

Al bardove – di fuga – un nostromomi fa il gesto d'accenderglie sfuma via...

A Palo Alto...

A Lodi...

Magariin questa stessa miastazione, mentre con me il gestore- semilarvale – al bancobeve nel suo bicchierela sua inesistenza...

A Seal Rocks, in California:

quandoil Pacifico batteil pack di cemento, e sottoil sasso della pioggia scattanominuti uccelletti nerivelati d'acqua...

O altrove...

Ad libitum...

(Non contal'ubicazione.

Il luogodi stanza – sempre - è pura immaginazione.)

L'ossessiva ripetizione di luoghi e di una topografia spaziale precisa, la capacità della parola

di nominare posti e città...tutto fa parte del “dominio dell'evanescenza”, tutto in realtà è “pura

84

immaginazione”.

Ritorno a una realtà sensoriale dicevamo: mentre ne Il franco cacciatore, tutta la poesia si era

fatta aforistica e quasi filosofica, priva d'ogni oggettualità che non rappresentasse essa stessa

simbolicamente o allegoricamente qualcosa d'altro, ne Il Conte di Kevenhüller, per quanto

non manchino esempi di continuità con la raccolta precedente, molti componimenti si fanno

più lunghi e più descrittivi. Sembra a volte di essere tornati al clima delle prime raccolte, ma

se leggiamo poi a fondo le poesie ci accorgiamo che ne siamo ben lontani. In La frana:

No, il Conte non stravedeva.Anzi, aveva avuto fiuto, il Conte.

Giorno: il 14 luglio.Anno: quello tra Il Flauto Magico,a Vienna, e, a Parigi, il Terrore.

In lui, non il minimo erroredi calcolo.

Anche se non esisteva,la Bestia c'era. Esisteva,e premeva.

Nel cuore.

Fra gli alberi.

Sul ponte,pugnalato e in tremore.

Uscito dalla mia tana,guardavo – nel linciaggiodella mente – il paesaggio.

Ai miei occhi, una frana.

La frana d'un' alluvione.

La frana della ragione.

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Lasciando da parte le indicazioni precise del tempo e del luogo in cui ci troviamo che hanno

una funzione meramente narrativa, ci accorgiamo subito che tra gli alberi, su di un ponte, il

poeta viene pugnalato dalla vista di un paesaggio: una realtà che forse è causata dalla frana di

una alluvione. A quella vista forse il poeta è stato colto impreparato, catturato in un momento

di irrazionalità che ha causato la frana della ragione. Per comprendere meglio che cosa il

poeta ci vuole dire, leggiamo in Sospetto:

Guardavo il lago. L'acqua.

La durezza dell'acqua.

Franavo nella durezza.

La durezza dei mortiche hanno orecchi d'ortiche.

Boccheggiavo, quasi.

Ero stordito.

La Bestia m'aveva aggredito?

Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una realtà che causa una reazione psicologica

nel poeta: il boccheggiare e lo stordimento sembrano rimandare alla probabile descrizione di

un attacco di panico (oltretutto sappiamo dall'accurata biografia scritta dalla Dei che Caproni

soffriva di nervi69). La vista del lago e della sua acqua produce nell'animo del poeta una frana

(e non a caso la parola scelta rimanda alla poesia che abbiamo analizzato precedentemente),

una momentanea perdita della razionalità: nel lago osserva la durezza dell'acqua nella quale

balena come un lampo l'immagine macabra dei morti con orecchie di ortica. È in questa

immagine – che scatena una sensazione di panico e nella momentanea perdita di un controllo

razionale - che la Bestia potrebbe avere aggredito il poeta. La realtà non produce le immagini

69 L.Zuliani (a cura di), op.cit.,; pp.XLVIII-LXXVIII

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ipersensoriali cariche di un celato erotismo delle prime raccolte, né le visioni oniriche del

Passaggio d'Enea, essa è soltanto causa di paura, angoscia e ansia. Il Caproni-filosofo delle

ultime raccolte, un poeta tanto intriso di razionalismo da rendere i suoi componimenti simili

ad aforismi, nei momenti di estasi ha perso ormai anche il dubbio che ancora esprimeva nel

secondo Inserto del Franco cacciatore che abbiamo analizzato dianzi: che la bellezza della

realtà sensoriale porti perlomeno a sospettare l'esistenza di Dio. Con Il Conte di Kevenhüller

invece quel dubbio sembra trasformarsi soltanto in paura e angoscia. In Nel protiro:

Scappai.

Mi rifugiainel protiro della cattedrale.

Tentati di pregare.

Cercaid'ordinare la mente.

L'11 agosto.

La fronte mi scottava.

Il montel'avevo tutto interosulle spalle.

Un piombo.

Presi a seguire il sentierocon lo sguardo – la pistadiretta, tortuosamente,dove s'abbruna la vista.

La preda mi passò in un lampodavanti agli occhi.

Bionda. Nera. Senza lasciare orma.

87

Non ebbi nemmeno il tempodi spianare il fucile.

Mi sentii inerme.

Vile.

Riprovai – ma invano – a pregare,nel protiro della Cattedrale.

(Nel Protiro, forse,della Preda stessa?...

Di un Nome?...

Un Nume?...

Forsedi un qualsiasi animale?...)

Il componimento inizia in medias res, con il poeta che sta scappando dalla Bestia. Trova

rifugio nel protiro di una cattedrale, il quale curiosamente - essendo la costruzione ad arco

che antecede l'entrata in una chiesa - non si presta affatto ad esser usato come rifugio. La

preghiera di Caproni è pronunciata al confine che separa l'interno della chiesa dall'esterno, il

che probabilmente vuol testimoniare l'incertezza del suo spirito. Le sensazioni che prova

sono ancora quelle tipiche di qualcuno che ha perso il controllo e che è stato colto dal panico

di una fuga: la fronte che scotta, disordine mentale.

Con lo sguardo poi il poeta segue una pista tortuosa dove la vista è resa debole dall'oscurità.

In un fascicolo ritrovato viene posta a lato la modifica a “dove s'abbruna la vista” con la

variante “dove si fa cieca la vista” e in una nota a lato è scritto “La preda | rende cieca la

vista”. In un attimo la Bestia compare e scompare, senza lasciare il tempo al poeta-cacciatore

di preparare il fucile. La Bestia è descritta con un aspetto ossimorico (bionda e nera) che non

lascia tracce e fa sentire il poeta inerme e vile. L'attimo della comparsa della Bestia deve

essere letto in chiave allegorica: si tratta probabilmente anche qui, come nei casi che abbiamo

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descritto precedentemente, di un attimo di estasi che però non arreca al poeta sensazioni

felici, ma soltanto paura e angoscia. E infatti negli ultimi versi egli riprova a pregare, ma

invano...e alla fine il poeta si chiede se stia pregando non nel protiro della cattedrale, ma in

quello della “Preda stessa”, in quello “Di un Nome”, di “Un Nume” o forse in quello “di un

qualsiasi animale”. Insomma ancora una volta nella Bestia si riflettono le incertezze spirituali

di un uomo che vede nella parola uno strumento espressivo vacuo e altamente imperfetto, il

massimo prodotto di quella razionalità tutta umana che già avevamo visto scontrarsi con quel

“muro della terra” oltre il quale non è possibile andare. In questa raccolta il limite di quella

razionalità è diventato il limite della parola e con essa della realtà. Come afferma in una delle

sue ultime interviste: “La parola limita...è una mistificazione, è una simulazione della realtà

(se la realtà esiste)...in quanto la parola è un oggetto a sé e voler conoscere la realtà attraverso

la parola è come voler conoscere un oggetto attraverso un altro oggetto...Iddio ha creato

l'universo, l'uomo l'ha nominato: vi sono due universi paralleli che non collimeranno mai”70.

Eppure alla fine del libro il poeta approda ad una soluzione ai suoi pensieri: e se proprio quel

nulla fosse Dio? Se oltre la crosta, la buccia della parola si nascondesse il nulla, forse allora

proprio quel nulla sarebbe Dio. In Pensatina dell'antimetafisicante:

«Un'idea mi frulla,scema come una rosa.Dopo di noi non c'è nulla.Nemmeno il nulla,che già sarebbe qualcosa»

E nella Pronta replica, o ripetizione (e conferma):

«E allora, sai che ti dico io?Che proprio dove non c'è nulla- nemmeno il dove – c'è Dio»

70 Video intervista raccolta dall'archivio rai e disponibili su internet a questo sito: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-c2a0181b-34b3-4a2a-b0d7-3d9b5cb3536d.html

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Ancora una volta Caproni si affida a dei personaggi per dare voce alle proprie perplessità

spirituali: in questo caso da una parte l'antimetafisicante esprime un nichilismo assoluto,

dall'altra la pronta risposta di chi vede in quel nichilismo incomprensibile per la razionalità e

per il linguaggio umani, l'unica prova dell'esistenza di Dio.

Il Conte di Kevenhüller, come abbiamo scritto inizialmente, è la raccolta in cui si sommano e

convergono tutti i principali temi di Caproni. Certo ad una prima vista potrebbe sembrare che

manchino le sue città marine, Livorno e Genova, che manchino le osterie che tanto piacevano

al primo Caproni...ma a una lettura più attenta ci accorgiamo subito che esse ci sono,

inglobate però in tematiche che le comprendono e le trascendono, in un tempo ormai troppo

lontano da quella vitalità che colorava le prime raccolte. In uno dei componimenti più belli

ed evocativi della raccolta, tornano le due città prive anche della loro denominazione, quasi

con l'intenzione di non voler limitare con un nome topografico tutto l'amore che Caproni ha

sentito per loro. In La piccola cordigliera, o: i transfughi:

(Da una località neglettadell'Alta Val Trebbia)

Fa freddo, su queste balze.L'altezza non è molta. Siamo a quota mille. Ma il vento.L'esposizione, quasi del tutto a nord. Il fiumegiù a fondovalle, e il geloche il suo alito aggiungealla boscaglia.

Di fagliain faglia, la nottefa presto qua a coprire un cielogià di lavagna.

Tremiamo,buona parte dell'anno.

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Le ore, quassù, non hanno- nemmeno sotto il Cane – vampeo impennate di sorta.

Ma cos'importa.

Siamo- in profondo – lietidi questa scelta. È questa- pensiamo – la temperatura giustadella nostra salvezza.

Non abbiamo rimpianti.

Le città d'una volta(le belle città costieree le bianche spiagge del sole.Le barche. Le bandiere.Le donne nudeggiantisventate e pigre) la mente più non ci turbano.

Ormaiconosciamo i veleniche le deturpano.

I vilimercati d'anime.

Le storievili, nel cuoredelle sparatorie.

Qua,in questo acciaio, l'ombranon tenta nemmeno i festivanti.

Di nulla – qua – noi temiamo.

Fa freddo, è vero.Copre i muri il salnitro,e non sempre il camino basta.

Ma basta,a tenerci su, all'osteria,l'antico mezzolitrofra gente di buona compagnia.

91

Viviamo di poco.

Al fuocodella bêtise, preferiamobattere – invisibilmente – i denti.

…...

Lasciateci qua. Contenti.

E in un'altra poesia, Lo scomparso, torna persino il personaggio della ragazza che lava i

bicchieri tanto presente ne Il Passaggio d'Enea e che rappresenta Olga Franzoni:

È divenuto anche lui- morto – uno scomparso.Al bar, la ragazza del banco,se le chiedono, dice:«Già, non s'è più visto.È scomparso. Dove,lo sa gesucristo».E riprende a sciacquare i bicchieri,ripresa dai suoi pensieri.

…... «Scomparso»

Per tutti,sempre più «uno scomparso»...

Tra breve lo coprirà la neve- il piombo – dell'oblio.

(Pari – almeno in questo – a Dio)

C'è insomma in questa raccolta la volontà di chiudere un cerchio tematico iniziato da Come

un'allegoria e anche quindi un guardare il proprio percorso poetico da lontano, con un

sentimento nostalgico e di rimpianto. In Arietta di rimpianto, sembra appunto di tornare al

Caproni delle prime raccolte, ma soltanto nell'immagine nostalgica di un ricordo:

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(Per voce tenorile)

Entravo pieno d'allegria,nel colmo della tempesta.Il buio dell'osteriaera ardente. Lesta come sempre, al banco appariva di fuocola mia bottiglia. Un gioco,per me, mischiarmi al branco,lasciata ogni malinconia.

Ora dov'è, dov'èla bella compagniad'allora – la gaia gentepronta a spartire il vino(il cuore) e l'amicizia?

Io non vedo più niente.Solo scempio e nequizia.

RES AMISSA

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Per quanto riguarda Res Amissa, la raccolta postuma curata da Agamben e pubblicata per

Garzanti nel 1991, riusciamo a comprenderne la tematica essenziale grazie agli

autocommenti lasciati da Caproni sui fascicoli manoscritti. Particolarmente importanti sono

questi due appunti:

Tutti (senza ricordare da chi) | riceviamo un dono prezioso | e lo riponiamo così gelosamente | da non ricordare più dove, e, perfino | di qual dono si tratti | Res amissa Il contrario del Conte | Centro la perdita.

Questa poesia [Res amissa] sarà il tema del mio nuovo libro (se ce la farò a comporlo), seguito da variazioni, come nel Conte di K. Il tema è la Bestia (il male) nelle sue varie forme e metamorfosi. - Tutti riceviamo in dono qualcosa di prezioso che poi perdiamo irrevocabilmente. (La Bestia è il Male. La res amissa (la cosa perduta) è il Bene[ ) ].

Difficile in realtà analizzare un'opera ricostruita filologicamente su fascicoli i cui titoli sono:

Altre stesure rifiutate, Versicoli e altre cosucce tutti da ordinare e rivedere, Abbozzi e da

rifare, Passabili meno passabili meno meno passabili e così via. Ci occuperemo quindi

essenzialmente delle poesie che, secondo le indicazioni di Caproni, avrebbero fatto

sicuramente parte della raccolta, rispettando così in un certo qual modo la volontà dell'autore.

Partiamo proprio dalla poesia che avrebbe dato il titolo all'opera, Res amissa:

Non ne trovo traccia.

…...

Venne da me apposta(di questo sono certo)per farmene dono.

…...

Non ne trovo più traccia.

…...

Rivedo nell'abbandonodel giorno l'esile facciabiancoflautata...

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La manicain trina...

La grazia,così dolce e allemanicanel porgere...

…...…...

Un ventod'urto – un'ariaquasi silicea agghiacciaora la stanza...

(È lamadi coltello?

Tormentooltre il vetro ed il legno- serrato – dell'imposta?)

…...…...

Non ne scorgo più segno.Più traccia.

…...…...

Chiedo alla morgana...

Rivedoesile l'esile facciaflautoscomparsa...

Schiude- remota – l'albeggiante bocca,ma non parla.

(Non può- niente può – dar risposta.)

…...…..

Non spero più di trovarla.

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…...

L'ho troppo gelosamente(irrecuperabilmente) riposta.Da quel che sappiamo la cosa perduta è letteralmente una lettera di Simoncelli Palazzeschi a

cui Caproni accenna anche in un'intervista radiofonica: “Per aver perso una lettera mi nasce

un libro: perché poi questa lettera diventerà tutto: sarà la libertà, sarà...Res amissa: l'avevo

riposta così gelosamente, e veramente non la trovavo più”71. In realtà, come abbiamo appreso

dagli autocommenti caproniani, l'oggetto perduto è soltanto il pretesto per parlare,

nuovamente attraverso un'allegoria, della Grazia divina perduta. Inutile aggiungere altro alle

parole che lo stesso Agamben ha usato nella sua prefazione:

il tema dell'amissibilità della Grazia s'incontra per la prima volta proprio in un autore caro a Caproni, Agostino, a proposito della disputa che lo oppone a Pelagio nel De natura et gratia. È nota la posizione di Pelagio, una delle figure più integre fra quante l'ortodossia dommatica ha respinto ai margini della tradizione cristiana: alla natura umana inerisce in maniera inseparabile (ed è a questo proposito che Agostino conia l'aggettivo inamissibile) la possibilità di non peccare (impeccantia), e non c'è bisogno, per questo, dell'intervento di una grazia ulteriore, perché la natura umana è essa stessa immediatamente opera della grazia divina. […] La tesi di Caproni è una specie di pelagianesimo spinto all'estremo: la Grazia è un dono così profondamente infuso nella natura umana, che le resta per sempre inconoscibile, è sempre già “res amissa”, sempre più inappropriabile. Inamissibile, perché già sempre perduto, e perduto a forza di essere – come la vita, come, appunto, una natura – troppo intimamente posseduto, troppo “gelosamente (irrecuperabilmente) riposto”72

La realtà esiste ancora, non ci troviamo di fronte alla sua totale dissoluzione o alle poesie

aforistico-filosofiche tipiche del Franco cacciatore (anche se, come vedremo, gran parte dei

componimenti inediti fuori dalla sezione Res amissa sembrano invece tornare a quel tipo di

scrittura). Certamente però non è una realtà che ha un valore letterale o descrittivo, perché la

poesia per essere compresa deve essere letta allegoricamente. E in un certo senso anche il

tessuto testuale è ricamato da una serie di simboli: dal vento ghiaccio premonitore di una

morte immanente (che si figura quasi nella lama di un coltello) alla morgana, che forse,

personificando un evento magico, rappresenterebbe la possibilità miracolosa di ritrovare

l'oggetto perduto. Una speranza che però rimane frustrata negli ultimi versi, in cui anche

71 Antologia, 198872 L.Zuliani (a cura di), op.cit.; pp.1014-15

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l'evento magico non riesce a parlare.

Della sofferta stesura del componimento sono rimaste numerose testimonianze forniteci tutte

da Agamben e successivamente da Zuliani. Se andiamo a leggere le versioni precedenti della

poesia ci accorgiamo subito che, per quanto rimanga stabile la lettura allegorica di fondo, il

livello simbolico cui abbiamo accennato, cali drasticamente lasciando il posto ad una più

ampia descrizione di un evento realmente accaduto. Sappiamo da una lettera inviata a Gianni

D'Elia che il germanica (nella versione finale sostitituito da allemanica) “può lasciar

perplessi, tanto più in coppia con «dolce». È un fatto che ho scritto questi versi dopo un

soggiorno a Colonia con mia figlia Silvana. Ci figuriamo, di solito, i tedeschi come esseri

duri. È il perfetto contrario. Io e Silvana siamo rimasti ammaliati (appunto perché sorpresi)

dalla dolcezza «tutta germanica» di una giovane inserviente dell'Albergo, venuta a liberarmi

alle tre di notte dal bagno dove, con terrore, ero rimasto rinchiuso. Una semplice domestica,

ma con gesti davvero, da balletto romantico. (Che il dono, allora, sia la libertà?) .

(Nel libro apparirà anche il Reno, tante altre cose gentilmente tedesche, forse, appariranno, e

allora il lettore avrà chiaro il senso di quell'aggettivo «germanica».)”73

L'episodio a cui fa riferimento risale al novembre del 1986. Rifacendoci alla ricostruzione

filologica di Agamben (in cui “Il corsivo tra parentesi quadre segna le forme cancellate nel

manoscritto. L'asterisco segna varianti e note autografe. Il grassetto segna le forme adottate

nel testo. Le parentesi uncinate segnano interventi del curatore.”), in un foglio rimasto di una

stesura precedente, leggiamo:

La giov<ine> inservienteche, disperatamenterimasto rinchiuso,di notte seppe recarmi il donodella libertà Oscurità

73 Lettera a G.D'Elia del 2 gennaio del 1987

97

E in un altro:

[Non ne trovo traccia.Aveva salito appostala scala (ne sono certo)per farmene dono.Qual era la cosa persa?Chi, a farne il dono?Ricordo la kellerinadi Colonia, leggeranella sua grazia germanica.La manica* in trinain trina *La sua [La graziacosì dolce e germanica...] faccia[La sua] biancoflautata [traccia tracc][La voce clarineggiante][clarinescente]Mi aprì in un soffio la porta[Il dono (perduto) erala libertà?] Rivedoesile l'esile faccia biancoflautata

Per farmene dono.Rivedo nell'abbandono[del giorno, esile] del giorno l'esile faccia[l'esile faccia] *biancoflautata

Chiedo alla morgana.

Rivedoesile l'esile faccia[biancoflautata] flautoscomparsa *piùNon ne trovo traccia

Venne da me apposta(di questo ne sono certo)per farmene dono.

Ma particolarmente importante è la versione definita I stesura (col monito: Rifare

tutto) che è contenuta in un foglio che si apre con due versi:

Ogni ritrovamento,

98

dunque, è una perdita?

*Res SPES AMISSA

Mi trovi chiuso,a Colonia. Di notte.

Rinchiuso- perduta la speranzae la chiave – nel buiodella mia piccola stanza.

Fu provato ogni mezzoper aprirmi.

Invano.

Poi una manica in trina,- un miracolo! - lievecon la sua bacchetta magica,apparve dalla porta schiusa

La giovane kellerinasorridente.

La grazia,così dolce e germanica,nel rendermi la libertà.

[Rivedo la sua esile faccia][biancoflautata]

Era salita apposta(di questo sono certo)per farmene dono.

Rivedo la sua esile facciabiancoflautata...

Ah, morgana[!]subito flautoscomparsanella notte, al Konigshof,io solo, con Silvana!

*anch'essa un dono.

99

A proposito di queste versioni Caproni, scrivendo ancora a D'Elia, dimostra la sua profonda

insoddisfazione: «Caro D'Elia, | non mi mandi al diavolo, La prego! Ma sono costretto a

spedirLe una terza lezione di Res amissa, dove – come vedrà – son tornato, o quasi, alla

prima. | Se non si fa in tempo a “rimediare”, almeno sulla bozza, si rimandi ad un altro

numero. Io non ho nessunissima fretta. Sempre meglio, per me, che uscire così come appaio

nei due precedenti testi.»

A questo punto confrontando le due stesure con quella finale, ci accorgiamo di quanto in esse

sia particolarmente presente un'attenzione descrittiva e realistica dell'evento. Nella versione

finale la realtà viene elisa così tanto da risultare simbolica e, per comprendene il senso, sono

necessari sia le stesure precedenti che l'autocommento del poeta.

D'altronde questo procedimento di riduzione della realtà si pone in una linea del tutto

coerente all'ultimissimo Caproni, in cui la realtà torna protagonista dopo la sua dissoluzione

nella forma aforistica tipica del Franco cacciatore.

Continuando ad analizzare la sezione di Res amissa, un'altra poesia risulta interessante per il

suo sviluppo tematico, L'ignaro:

S'illuse, recuperato l'oggetto accuratamente perso,d'aver fatto un acquisto.

Fu gioia d'un momento.

E rimaseturbato.

Quasicome chi si sia a un tratto vistospogliato d'una rendita.

(Lui,ignaro che ogni ritrovamento- sempre – è una perdita.)

100

Quel “E rimase / turbato” derivato dal III canto del Purgatorio dantesco in cui Virgilio

mestamente conclude un discorso sulle inutili ambizioni del pensiero umano. L'oggetto sarà

quindi perso per sempre: un suo eventuale ritrovamento annullerebbe il tema molto

leopardiano del piacere dell'attesa prima dell'esaudirsi di un desiderio.

L'ALLEGORIA MODERNA DI CAPRONI E UN BREVE CONFRONTO CON

MONTALE

101

Caproni non sembra far molto caso a una differenza che spesso ha interessato la critica

letteraria: quella tra simbolo e allegoria. In più di una intervista, come abbiamo visto, accosta

le due figure retoriche senza soffermarsi in troppe distinzioni: “Le Stanze della funicolare

sono un poco il simbolo, o l’allegoria, della vita umana, vista come inarrestabile viaggio

verso la morte74”. E in particolare non sembra avere un'idea precisa di cosa sia il simbolo, se,

parlando a proposito della bestia, lo paragona anche ad una metafora: “può essere presa a

simbolo (o metafora) del Male, in tutte le sue molteplici forme.75”

La problematica legata alla ricerca di una definizione da attribuire al simbolo e in particolare

delle differenze che lo contraddistinguono dall'allegoria risale all'epoca moderna, quando

Goethe, in occasione di una discussione epistolare con Schiller, decretò quanto fossero

differenti le loro caratteristiche e quanto l'uno fosse poeticamente più importante dell'altra.

Negli aforismi di Massime e riflessioni:

È molto diverso che il poeta cerchi il particolare in funzione dell'universale oppure veda nel particolare l'universale. Nel primo caso si ha l'allegoria, in cui il particolare vale solo come esempio, come emblema dell'universale; nel secondo invece si svela la vera natura della poesia: si esprime il caso particolare senza pensare all'universale e senza alludervi.Ora chi coglie questo particolare vivente coglie allo stesso tempo l'universale senza prenderne coscienza, o prendendone coscienza solo più tardi. Vero simbolismo è quello in cui l'elemento particolare rappresenta quello più generale, non come sogno e ombra, ma come rivelazione viva e istantanea dell'imperscrutabile.L'allegoria trasforma il fenomeno in concetto, il concetto in un'immagine, ma in modo che il concetto nell'immagine sia da considerare sempre circoscritto e completo nell'immagine e debba esser dato ed esprimersi attraverso di essa.Il simbolismo trasforma il fenomeno in idea, l'idea in un'immagine, in tal modo che l'idea nell'immagine rimane sempre infinitamente efficace e inaccessibile e, anche se pronunciata in tutte le lingue, resta tuttavia inesprimibile76.

Viene a definirsi una opposizione di carattere filosofico tra una esperienza sensibile e una

74 Lettera di Caproni a Betocchi datata “Loco di Rovegno, 20 agosto 1979”75 Unione sarda, 198676 Si tratta degli aforismi 279, 314, 1112, 1113 delle numerazioni Hecker o 749-752 di quella data dalla

Hamburger Ausgabe, per la quale cfr. Goethes Werke, Band XII: Schriften zur Kunst, Schriften zur Literatur, Maximen und Reflexionem, Verlag C. H. Beck, München 1973, pp.470-71. Per una traduzione italiana dei passi citati, cfr. J.W. Goethe, Massime e riflessioni a cura di S.Seidel, TEA, Roma 1983.

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intellettuale, tra il vedere e il cercare, tra un metodo deduttivo e uno induttivo. Seguendo

queste differenze comprendiamo quanto il simbolo sia espressione di qualcosa che avviene

nella istantaneità, un collegamento (o se vogliamo una corrispondenza) immediato tra

individuo e oggetto; l'allegoria presuppone invece una durata, un momento intellettuale e

razionale che il poeta deve instaurare tra sé e l'oggetto. Come scrive Luperini “il simbolo si

presenta come unità di apparenza e di essenza che la percezione coglie concretamente e

simultaneamente; l'allegoria sconta invece la loro scissione ed esige per questo il momento

dell'astrazione e della successione cronologica77”. Non dobbiamo scordare però che Goethe

aveva in mente la plasticità classica del simbolo nel quale l'unità dell'ideale e dell'apparenza

coincidevano. Ma quasi contemporaneamente alle sue teorizzazioni, un altro poeta agli albori

del moderno, Novalis, attribuiva al simbolo una dimensione diversa, magica e mistica. Negli

Inni alla notte scrivendo che “fiumi, alberi, fiori, animali, tutto aveva un senso di umano78”,

Novalis crede nel legame profondo e impalpabile capace di unire natura e interiorità

dell'uomo, dando il via a quella linea di pensiero che condurrà alla teorizzazione

baudelairiana delle correspondances. In realtà sia Goethe che Novalis, per quanto precursori

di molte tematiche caratterizzanti il moderno, ignoravano un concetto del tutto estraneo alla

cultura illuministica: quello dell'Erlebnis teorizzato da Dilthey e Bergson, ovvero

dell'esperienza vissuta e autentica. È l'Erlebnis che garantisce una unità fra poesia e vita:

“alla coincidenza fra particolare e universale del simbolo corrisponde quella fra il momento

concreto dell'esperienza individuale e la totalità della vita nell'Erlebnis, e la poesia è appunto

l'espressione di tale unità79”. La modernità comporta un allontanamento dall'armoniosa

organicità del classicismo, una progressiva dissociazione della percezione sensibile che

sempre maggiormente cerca di raffinarsi e specializzarsi. Questo allontanamento e questo

raffinarsi dei sensi porta a ricercare per la poesia lirica un linguaggio sempre più

77 R.Luperini, Il dialogo e il conflitto: per un'ermeneutica materialistica, Laterza, Bari, 1999; p.5278 Ibid.79 R.Luperini, L'allegoria del moderno, Editori Riuniti, Roma, 1990; p.87

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settorializzato e sempre più portato a riflettere su sé medesimo e perciò fortemente

fonosimbolico e allusivo. Se il tutto intuito è sempre più remoto e inaccessibile, se la natura

stessa tende a presentarsi come imitazione di una natura che in effetti non esiste più o esiste

sempre di meno, la originaria essenza teologica del simbolo si rovescia in una religione

paradossale: quella dell'arte che, pretendendo di avere in sé stessa la capacità di cogliere un

tutto che al di fuori di sé le è ormai inaccessibile, si riduce ad adorare sé stessa. Il nesso fra

estetismo, specializzazione e autoriflessività linguistica, imitazione di un tutto naturale o

metafisico ormai sempre più difficilmente percepibile, è il tratto permanente del moderno

simbolismo e in Italia D'Annunzio può esserne citato come l'esempio più importante.

Affermando però il carattere esclusivamente simbolico del moderno, commetteremmo un

grave errore: è opinione di molti studiosi che già nel primo poeta moderno della letteratura

occidentale, Baudelaire, agiscano allo stesso tempo un impulso simbolico e uno allegorico.

Particolarmente interessato al secondo aspetto, Benjamin si è soffermato ad analizzare la

poesia del poeta francese, tramite il quale ha potuto dar vita anche ad una propria teoria del

moderno. Sappiamo che tra il 1938 e il 1939 Benjamin avrebbe dovuto pubblicare un libro

intitolato Studi sociologici su Baudelaire. In realtà non è rimasto neppure il manoscritto di

questi studi, ma ci è pervenuto il saggio Di alcuni motivi in Baudelaire che doveva

corrispondere, nella sua prima stesura, alla seconda delle tre parti in cui l'opera era suddivisa;

ci sono poi pervenuti appunti su cui Benjamin lavorava e che ora occupano la sezione

Baudelaire di Parigi, capitale del XIX secolo. Nell'Allegoria del moderno Luperini riunisce

filologicamente tutto questo materiale e tenta di ricostruire criticamente una interpretazione

benjaminiana sul moderno e su Baudelaire. Benjamin critica anzitutto la nozione di Erlebnis

elaborata dalla “filosofia della vita” di Dilthey e Bergson, perché entrambi questi filosofi

ignorano le conseguenze scioccanti e alienanti della grande industrializzazione. L'Erlebnis

nell'epoca pre-moderna presupponeva “una condizione di integrità dell'io in cui riflessione e

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impressione si corrispondono armonicamente, ma l'epoca moderna condanna l'individuo

all'atrofia progressiva dell'esperienza”, quella stessa esperienza che si presenterebbe dunque

“agli artisti moderni, come qualcosa di perduto, appartenente a “una vita anteriore” ai “giorni

festivi” di una preistoria, rispetto ai quali le “correspondances” sono le date del ricordo”80.

Ma per Benjamin tali corrispondenze in Baudelaire non sono simultanee come quelle

coltivate in seguito dai simbolisti, ma momenti fuori del tempo fra i quali l'immaginazione

coglie una rete di correlazioni. Ecco dunque che la poesia baudelairiana, sostiene Benjamin,

viene a strutturarsi come l'innesto di una “fantasia allegorica” con la sua “più concentrata

contemplazione” e di una “attività simbolica” con la sua immaginazione e “raffinata

sensibilità”. Il rapporto tra le due oltretutto non si stabilizzerebbe in una parità, ma in una

netta preferenza da parte di Baudelaire per la fantasia allegorica. Ne deduciamo che l'albatro,

la corona, il flâneur, il mimo, la prostituta etc... sono tutti oggetti-soggetti che sono prima di

tutto delle allegorie, vivono nella razionalità intellettuale del poeta e solo successivamente si

trasformano in simbolo.

Nell'allegoria, dunque, l'immagine e gli oggetti sono posti continuamente al servizio del

pensiero, presupponendo un distacco dell'individuo dalla natura. Scrive Luperini che “mentre

le correspondances simboliche mimano la pienezza di un rapporto ancora autentico con il

mondo naturale e tentano di riprodurne l'Erlebnis, l'allegoria prende atto del tramonto di tale

possibilità nell'epoca della grande industria. Per questo può porsi come la forma artistica

propria del moderno”81.

La figura chiave di questa nuova allegoria, l'allegoria moderna, è il ricordo, il quale si

caratterizza sempre più come un oggetto-ricordo nella mente dell'individuo che lo cataloga

come morto possesso, feticcio da preservare. E non a caso Benjamin scrive che

“l'apprezzamento della transitorietà delle cose e la preoccupazione di salvarle per l'eternità

80 Ibid.81 R.Luperini, op.cit., 1990; p.98

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costituisce uno degli impulsi più forti dell'allegoria”82. L'allegorista diventerebbe qualcosa di

simile a un “collezionista” di ricordi che quasi come un fotografo “scioglie l'oggetto da tutte

le sue funzioni originarie (o dall'insieme delle sue relazioni funzionali)”83 e lo colloca

all'interno di un proprio spazio, conferendogli un “suo” significato. È abbastanza evidente in

questo senso l'influenza degli scritti economici marxiani: non di quelli giovanili (che

identificano il moderno con le conseguenze della rivoluzione francese, con la nascita del

mercato nazionale e di uno Stato centralizzato), ma nei successivi in cui si parla di una

“seconda natura che domina la vita degli uomini”:

modifica cronologia e tipologia del moderno, collegandolo al carattere permanentemente innovatore assunto

dalla grande industria ed al costituirsi di leggi di mercato che sfuggono agli agenti della produzione,

presentandosi piuttosto nella forma di leggi naturali. […]. Ciò che va sottolineato è che per Marx la malattia

mortale del mondo moderno deriva dal costituirsi, proprio con l'affermazione del capitalismo industriale, di una

“seconda natura” artificiale che domina la vita degli uomini.84

Ed è in questa “seconda natura” che viene a definirsi il celebre concetto marxiano

dell'alienazione dell'uomo ed è in essa che Benjamin vede la possibilità di una comprensione

allegorica del moderno perché “la crescente autoalienazione dell'uomo, che fa l'inventario del

suo passato come di un morto possesso, si è depositata. L'allegoria ha abbandonato nel corso

del secolo diciannovesimo il mondo circostante per trasferirsi nel mondo interiore”85.

Il poeta diventa il testimone privilegiato della nascita di questa seconda natura e della lenta

sparizione dell'esperienza vissuta, in cui l'Erlebnis non fa più riferimento a una integrità

dell'io, presupponendo un distacco dalla naturalezza e razionalità del creare un sistema

concettuale, uno sguardo che coglie le cose nella loro frammentarietà disorganica. Baudelaire

stesso è costretto dal tempo ad adattarsi a questa doppia natura. In una società di massa

82 W. Benjamin, op. cit.;p.17083 R.Luperini, op.cit., 1990; p.9984 R.Luperini, op.cit., 1990; p.9985 Ibid.; p.100

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dominata dal feticcio della merce, in cui non esistono più i mecenati e vige invece la

concorrenza del mercato, il poeta è costretto a rivendicare un valore di mercato per la propria

poesia e a divenire impresario di se stesso86. Eppure a Baudelaire è ancora riconosciuta una

posizione sociale, che per quanto marginale e precaria (perchè la borghesia era sul punto di

negare la sua funzione di scrittore), si identifica con la borghesia. Presto, secondo Benjamin,

il poeta si sarebbe potuto identificate totalmente con il flâneur: il vagabondo in cui “rivive

quel tipo di individuo ozioso che, sulla piazza di Atene, Socrate sceglieva come

interlocutore” con la differenza che nell'epoca moderna “non c'è più nessun Socrate, ed è

finito anche il lavoro degli schiavi che gli garantiva il suo ozio”87.

Tutto questo ovviamente non poteva non avere una ripercussione profonda sulla poesia e in

particolare sulla poesia lirica che attraverserà un periodo di forte crisi. La seconda natura

alienante cambia radicalmente la vita interiore dell'individuo la quale, una volta sottratta

all'Erlebnis, non può che smarrire la propria aura, ovvero l'emanazione espressiva

dell'intimo. È in questa crisi che secondo Benjamin si alimenta il procedimento allegorico, è

probabile “che le epoche che tendono a un'espressione allegorica abbiano esperito una crisi

dell'aura”. Come scrive Luperini “l'allegoria è dunque un modo di prendere atto della crisi

della lirica, della perdita di funzione sociale del poeta e della trasformazione in merce

dell'oggetto poetico”. Quest'ultima caratteristica in particolare fa sì che l'arte, dovendosi

subordinare alla dialettica della produzione di merci, si presenti nello stesso tempo come

nuova e come sempre uguale. E d'altronde Baudelaire elaborò per primo l'idea di una

originalità adeguata al mercato e impostò un rapporto con la tradizione scrivendo, ad

esempio, alcune poesie per “distruggere” delle altre composte prima delle sue.

Il nostro Caproni si inserisce in questo contesto come un autore ancora pienamente moderno.

86 Ecco anche perché una delle figure (allegorie) più care al poeta è la prostituta. Il poeta infatti non fa altro che vendere la propria intimità e i propri sentimenti alla stregua di una prostituta col proprio corpo.

87 W.Benjamin, Das Passagen-Werk, Frankfurt a.M., Suhrkamp Varlag, 1982; trad. it., Parigi, capitale del XIX secolo. I “Passages” di Parigi, a cura di R.Tiedemann, Torino, Einaudi, 1986; p.431

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Abbiamo notato a suo tempo quanto nella poesia caproniana la voce dell'autore, in particolare

da Il seme del piangere in poi, sia spesso affidata a personaggi che hanno la funzione di

esprimere l'interiorità del poeta. Come Baudelaire si affida alle figure dell'albatros, della

prostituta e del flaneur per identificare una sua condizione esistenziale, così Caproni fa

parlare il preticello deriso, l'antimetafisicante, lo stoico e così via fino ad identificarsi persino

in un personaggio letterario come Enea. Il procedimento allegorico che secondo Benjamin

stava alla base della poesia di Baudelaire e poi della poesia moderna in generale, è attivo

anche in Caproni.

E in questo senso è indicativo e interessante provare a paragonare i due percorsi seguiti da

due poeti parzialmente contemporanei: Montale e Caproni. Gli studi di Luperini e, prima

ancora, di Jacomuzzi88 su Montale dimostrano che nelle sue raccolte l'allegorismo misto a

una certa dose di simbolismo diventa sempre meno presente fino a sparire con le ultime

raccolte. In una delle sue ultime poesie ripresa da Altri versi:

Il figlio del nostro fattoreaveva fama di pessimo tiratore:lo chiamavano Schiappa o con più graziaSchiappino.Un giorno si appostò davanti alla rocciadove abitava il tasso in una buca.Per essere sicuro del suo tirosovrappose al mirino una mollica di pane.A notte alta il tasso tentò di usciree Schiappino sparò ma il tasso fecepalla di sé e arrotolato sparvenella vicina proda. Non si vedeva a un passo.Solo un tenue bagliore sulla Palmaria.Forse qualcuno tentava di accendere la pipa.

Come scrive Luperini:

La poesia si presenta come una scarna cronaca: una serie di nudi dettagli o di triti fatti. Il lessico è ostentatamente denotativo.[...] Il figlio del fattore è solo il figlio del fattore, così come il tasso è solo un animale oggetto di caccia, mentre il tiro mancato non è altro che la dimostrazione di quanto Schiappino meriti il proprio

88 A.Jacomuzzi, La poesia di Montale. Dagli “Ossi” ai “Diari”, Einaudi, Torino, 1978

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nomignolo, essendo senz'ombra di dubbio un pessimo tiratore. Davvero, ormai “gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son donne, e tutto è quello / che è, soltanto quel che è” senza neppure più la carica di disperazione espressionistica che invece resta sempre in Sbarbaro. Privata di qualsiasi rapporto simbolico col mondo del soggetto, la realtà si offre nella sua deserta opacità. […] È chiaro che anche in Schiappino il particolare sembra ignorare l'universale, essere ridotto a mero frammento senza luce di redenzione. E d'altronde dell'allegoria Schiappino sembra possedere anche l'indubbia disposizione narrativa. Ma: e il soprasenso? Montale sembra volerci dare solo la storicità biografica del suo personaggio e voler escludere qualsiasi altro significato. Si direbbe che manca la struttura anfibologica che è propria dell'allegoria: se il senso letterale e storico è ben presente, quello allegorico parrebbe del tutto assente. C'è un'allegoresi – proporrebbe de Man – cui non corrisponde un allegorema89.

In realtà tutta questa letteralità è solo apparente e nasconde un significato allegorico

ricostruibile soltanto attraverso altre poesie precedenti dello stesso Montale, nelle quali

compaiono di nuovo un tasso e un figlio del fattore. Dunque, secondo Luperini, non

dobbiamo parlare di una letteralità del testo nel senso di una “scarna cronaca”, ma di una

letteralità dell'oggetto preso in considerazione, ovvero: nella poesia il tasso non è un tasso

qualsiasi, ma è un oggetto personale che Montale ha voluto riprendere per svuotarlo di quel

senso allegorico che aveva acquisito nelle raccolte precedenti. Secondo Luperini quindi il

testo preso in esame è comunque allegorico, ma esprime la propria allegoria nella letteralità.

Ecco che cosa intende il critico con il concetto di “allegoria vuota”.

Un percorso completamente inverso, in questo senso, è stato intrapreso invece da Caproni,

che come abbiamo visto è partito da un sostanziale descrittivismo e ha infine modellato in

senso allegorico la sua poesia, fin quasi a dissolverne il reale e ad astrarla in puro pensiero

aforistico. Per quanto la forma espositiva – un verso più narrativo - sia comune ad entrambi,

Montale e Caproni sono i rappresentanti di concezioni dell'allegoria diametralmente opposte:

la narrazione dell'ultimo Montale da Satura in poi è sempre meno allegorica fino a ridursi a

mera letteralità, quella di Caproni comincia con un verso più letterale e diventa sempre più

allegorica, in particolare a partire da Il passaggio d'Enea. Un'allegoria - quella caproniana -

tra l'altro molto spesso intertestuale o interculturale (per le numerose connessioni che devono

farsi con l'Eneide o con le operette di Weber o con problemi di natura più filosofica o

89 R.Luperini, L'allegoria del Moderno, Editori Riuniti, Roma, 1990: p.283-4

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addirittura teologica, come nel caso di Res amissa) e quindi in un certo senso distante dalla

teoria di Benjamin, secondo il quale l'allegoria moderna è spesse volte indecifrabile perché

appartenente alla sola interiorità dell'individuo che la scrive (una concezione questa più

vicina a Montale se diamo credito all'interpretazione luperiniana secondo la quale gli oggetti

nel testo si richiamano tra loro auto-richiamando significati differenti di raccolta in raccolta).

Al termine di “allegoria vuota” proposto da Luperini per caratterizzare l'ultimo Montale si

oppone quello di un'allegoria piena di significato in Caproni. Potremmo ben dire che senza

intendere il sovrasenso delle poesie caproniane, perderemmo tutto il significato della sua

poesia e dei suoi tre più grandi personaggi: Enea, Annina e Dio.

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