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95 «ANCORA NEURO-MANIA? MA BASTA!» LA CONTRAPPOSIZIONE TRA IMPIANTI INTERPRETATIVI È PIÙ INTERESSANTE DELLA CONTRAPPOSIZIONE TRA SETTORI DISCIPLINARI FAUSTO CARUANA Università di Parma Peirce, James e Dewey avrebbero affermato che ci si deve fidare della ricerca democratica- mente condotta; non perché è infallibile, ma perché la via lungo la quale scopriremo dove e come occorrerà modificare i nostri procedimenti è quella che passa attraverso la ricerca stessa (H. Putnam, 2003, p .85). Eccoci qua, a più di un lustro dal libro di Legrenzi e Umiltà (2009), a parlare ancora di «neuro-mania». Dalla pubblicazione del celebre libro ad oggi molto inchiostro innocente è già stato versato, ma evidentemente non abbastanza. La novità, nella declinazione della neuro-mania proposta da Emiliani e Mazzara (E&M), sta nel rivolgere i riflettori neuro-fobici sul rapporto tra psicologia sociale e neuro- scienza. Nell’articolo di E&M l’attacco alle neuroscienze è condotto tramite un cocktail di intenti epistemologici e di argomenti legati ad aspetti molto più contingenti. Gli argomenti epistemologici fanno rife- rimento all’idea, classica, di una incapacità intrinseca alle scienze na- turali di rendere conto di alcuni aspetti del mentale. Secondo questa idea, la dimensione sociale della mente è in linea di principio irriduci- bile ad una descrizione neuroscientifica. Tuttavia nel corso dell’arti- colo la tematica epistemologica sfuma rapidamente in argomenti più contingenti secondi i quali, ad oggi, le neuroscienze (a) non hanno sa- puto rendere conto della complessità che caratterizza «le interazioni sociali, le appartenenze a gruppi e istituzioni, i contesti nei quali l’in- dividuo agisce, e più in generale la socialità implicita dei gesti e delle azioni quotidiane» (p. XXX), e (d) si sono limitate piuttosto a loca- GIORNALE ITALIANO DI PSICOLOGIA / a. XLII, n. 1-2, marzo-maggio 2015 Ringrazio Maddalena Fabbri Destro per i consigli e per avermi aiutato a stemperare i toni.

«Ancora neuro-mania? Ma basta!». La contrapposizione tra impianti interpretativi è più interessante della contrapposizione tra settori disciplinari

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«ANCORA NEURO-MANIA? MA BASTA!»LA CONTRAPPOSIZIONE TRA IMPIANTI

INTERPRETATIVI È PIÙ INTERESSANTE DELLA CONTRAPPOSIZIONE TRA SETTORI DISCIPLINARI

FAUSTO CARUANA

Università di Parma

Peirce, James e Dewey avrebbero affermatoche ci si deve fidare della ricerca democratica-

mente condotta; non perché è infallibile,ma perché la via lungo la quale scopriremo dove e

come occorrerà modificare i nostri procedimentiè quella che passa attraverso la ricerca stessa

(H. Putnam, 2003, p .85).

Eccoci qua, a più di un lustro dal libro di Legrenzi e Umiltà (2009), a parlare ancora di «neuro-mania». Dalla pubblicazione del celebre libro ad oggi molto inchiostro innocente è già stato versato, ma evidentemente non abbastanza. La novità, nella declinazione della neuro-mania proposta da Emiliani e Mazzara (E&M), sta nel rivolgere i riflettori neuro-fobici sul rapporto tra psicologia sociale e neuro-scienza. Nell’articolo di E&M l’attacco alle neuroscienze è condotto tramite un cocktail di intenti epistemologici e di argomenti legati ad aspetti molto più contingenti. Gli argomenti epistemologici fanno rife-rimento all’idea, classica, di una incapacità intrinseca alle scienze na-turali di rendere conto di alcuni aspetti del mentale. Secondo questa idea, la dimensione sociale della mente è in linea di principio irriduci-bile ad una descrizione neuroscientifica. Tuttavia nel corso dell’arti-colo la tematica epistemologica sfuma rapidamente in argomenti più contingenti secondi i quali, ad oggi, le neuroscienze (a) non hanno sa-puto rendere conto della complessità che caratterizza «le interazioni sociali, le appartenenze a gruppi e istituzioni, i contesti nei quali l’in-dividuo agisce, e più in generale la socialità implicita dei gesti e delle azioni quotidiane» (p. XXX), e (d) si sono limitate piuttosto a loca-

GIORNALE ITALIANO DI PSICOLOGIA / a. XLII, n. 1-2, marzo-maggio 2015

Ringrazio Maddalena Fabbri Destro per i consigli e per avermi aiutato a stemperare i toni.

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lizzare nel cervello le strutture preposte a determinati compiti, senza offrire nessuna nuova teoria interpretativa. La scaletta si conclude poi con la solita accusa secondo la quale le neuroscienze si inseriscono in dibattiti interni ad altri settori scientifici, offrendo spiegazioni sem-plicistiche e riconfigurando in chiave «neuro» discipline consolidate, pretendendo di candidarsi a diventare una nuova chiave interpretativa universale. Come è chiaro, i tre aspetti sono assolutamente indipen-denti (e io non sono d’accordo con nessuno dei tre).

PUNTO 1: PERCHé NON VI È UNA PARTITA TRA DISCIPLINE CONTRAPPOSTE

Una volta accantonata l’obiezione epistemologica, resta da capire se è vero che le neuroscienze hanno la tendenza a semplificare eccessiva-mente la variabile ambientale, quella sociale o, più in generale, quella extracranica. Credo che impostare il dibattito in questi termini, ov-vero nei termini di una contrapposizione tra neuroscienze e psicologia sociale, sia ottimo se si vuole fraintendere totalmente quello che real-mente sta succedendo. Se nel dibattito scientifico molte partite aperte in effetti ci sono, queste non si giocano tra la «Nazionale Psicologi» e la «Nazionale Neuroscienziati». Al contrario, l’unico campionato veramente interessante è composto da squadre piuttosto eterogenee in quanto a provenienza disciplinare dei giocatori, ma contrapposte piuttosto per credo filosofico. Vi sono (tanto in neuroscienze, quanto in psicologia, in filosofia, e così via) indirizzi teorici che focalizzano senz’altro l’attenzione sui processi interni alla mente (e al cervello), come ad esempio fanno le teorie cognitive classiche. In questo caso, il punto di partenza è che per studiare la mente basti studiare i pro-cessi interni al soggetto, benché questo stesso traguardo possa essere descritto da una varietà di livelli esplicativi gerarchicamente organiz-zati (rappresentazionale, funzionale, neurofisiologico, ecc. Si veda il commento di Marraffa e Meini in questo numero per un approfon-dimento di questa tematica). Ma vi sono anche al capo opposto so-stenitori di teorie ecologiche radicali che rispondono all’internalismo delle prime con un esternalismo estremo. Secondo questi ultimi, ad esempio, l’oggetto di studio minimo delle scienze cognitive non è la mente individuale (o il cervello) ma un «sistema dinamico» – ovvero un sistema costituito da una serie di variabili eterogenee (cervello, sto-ria personale, ambiente sociale, ecologico, storico, ecc.) che cambiano dinamicamente nel tempo in maniera interdipendente, costituendo un tutto indifferenziato (Chemero, 2009). Sono stati proprio i sostenitori di queste posizioni radicali, che mescolano la teoria dei sistemi dina-mici al naturalismo americano, a chiamare recentemente a raduno i neuroscienziati per valutare la fattibilità di una estensione della «ra-

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dical embodied cognitive science» ad una «radical embodied cogni-tive neuroscience» (si veda l’omonimo numero speciale di «Frontiers in Human Neuroscience» curato da Wilson, Golonka e Barrett nel 2014). Si tratta, come è chiaro, di una corrente che scommette al massimo sull’importanza della componente extracranica. A prima vi-sta parlare di esternalismo e neuroscienze può sembrare addirittura un controsenso: se credo che la mente varchi i confini del cervello, dovrei dunque essere poco propenso a spendere i miei giorni a stu-diare cosa succede dentro la scatola cranica. Ma ci sono tuttavia im-portanti controesempi che mostrano non solo la dignità ma anche la ricchezza di questo filone di ricerca in neuroscienze (Kelso, Dumas e Tognoli, 2013). Per non parlare poi delle recenti interazioni tra neu-roscienze, paleoantropologia ed uno dei temi classici della dimensione extracranica, ovvero quello della mente estesa (Bruner et al., 2014), studi nei quali emerge chiaramente l’idea che solo una joint venture tra discipline diverse può dire qualcosa di interessante e nuovo sull’e-voluzione del cervello del genere Homo. Tra i due estremi vi sono innumerevoli posizioni «ibride» che non rinunciano al computazio-nalismo e ad un minimo di internalismo, e che sostengono proficua-mente versioni computazionali di teorie embodied, grounded, situated (per una panoramica mi si permetta di rimandare a Caruana e Borghi, 2013). Una delle poste in gioco, ad esempio, è quella di determinare quanto i processi cognitivi siano permeabili a tali variabili extracrani-che, e quanto tali variabili influenzino o siano addirittura costitutive di questi processi. Ogni squadra in questo campionato necessita del maggiore arsenale di strumenti, tecniche e competenze, così come ogni squadra di calcio che ambisca a vincere qualcosa necessiti di di-fensori, centrocampisti e attaccanti. Ritenere che la psicologia sociale, o le neuroscienze, o la filosofia della mente, possano dare risposte più esaustive da sole di quanto non possano fare insieme, equivale a credere che una squadra di soli difensori abbia le migliori chances di vincere la Champions League.

Pertanto, mi sembra che la distinzione tra tradizioni disciplinari non sia un punto chiave. D’altra parte, stando agli stessi E&M anche in psicologia sociale vi è una contrapposizione tra «quanti considerano la dimensione sociale solo come una delle possibili fonti di condiziona-mento del funzionamento psichico e quanti invece la considerano come costitutiva della mente umana» (p. XXX). Conseguentemente, gli ap-procci socio-costruzionisti e culturalisti rappresentano la branca ester-nalista della psicologia cognitiva, tanto quanto l’enattivismo o l’embo-died cognition rappresentano la branca esternalista delle neuroscienze cognitive. Sostenere che i neuroscienziati in toto reputino come unico oggetto di interesse degno di nota lo spazio intracranico, e conside-rino conseguentemente ambiente, socialità, e via dicendo come uno

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stimolo indifferenziato, significa non prendere atto del fermento che viceversa caratterizza una grossa parte del dibattito contemporaneo in neuroscienze. Inoltre, gli stessi E&M indicano una serie di riviste e ambienti in cui l’attenzione a questi aspetti è di primaria importanza, caratterizzati da una sempre crescente consapevolezza di cosa signi-fichi studiare le interazioni con l‘ambiente e con gli altri individui. Non a caso, le interazioni tra neuroscienziati cognitivi da una parte, e psicologi sociali, antropologi, filosofi e altri studiosi dall’altra, sono in continuo aumento. A titolo di esempio, basti pensare ad un studio recente (e non a caso proveniente dagli ambienti dell’embodied cogni-tion) in cui le esperienze pregresse negative dei bambini di strada re-clutati nei riformatori della Sierra Leone diventano la variabile fonda-mentale per studiare se e quanto tali esperienze impattano sulla ca-pacità di riconoscere le emozioni altrui, misurata mediante parametri elettrofisiologici, oltreché comportamentali (Ardizzi, Martini, Umiltà, Sestito, Ravera e Gallese, 2013).

Naturalmente, ci sono ambiti all’interno dei quali le neuroscienze non hanno avuto ancora molto da dire. Spesso la ragione di tale ri-tardo è legata ai limiti dello sviluppo tecnologico, come ad esempio la difficoltà di registrare segnali biologici simultaneamente in due in-dividui durante reali interazioni sociali – difficoltà affrontata solo re-centemente (Hari, Himberg, Nummenmaa, Hämäläinen e Parkkonen, 2013). Un esempio illuminante di lacuna neuroscientifica e di (a mio avviso erronea) contrapposizione tra ricette neuroscientifiche e ri-cette di psicologia sociale, è quello relativo allo studio delle variabili in gioco nella prevaricazione e nella crudeltà. Recentemente Baron-Cohen (2012) ha proposto, sulla base di argomenti neuroscientifici, che la prevaricazione e la crudeltà dipendano da una serie di possi-bili alterazioni di una ben definita circuiteria cerebrale dell’empatia. A questa proposta si è obiettato che, dati determinati contesti sociali o culturali, la prevaricazione può essere attuata in assenza di altera-zioni della circuiteria cerebrale dell’empatia, ovvero in soggetti non patologici (Galzarano, 2015). Infatti, una costante degli esperimenti di psicologia sociale sulla prevaricazione, dall’esperimento carcerario di Stanford all›esperimento di Millgram, per citare i più noti, è quella dell’equilibrio mentale e l’assenza di tratti patologici nei partecipanti. Con buona pace di Baron-Cohen, dunque, anche guardando al micro-scopio il cervello di alcuni grandi prevaricatori (o quantomeno i loro «circuiti dell’empatia»), potremmo non trovarvi nulla di anomalo. Ad oggi questa seconda posizione è difendibile grazie ad esperimenti clas-sici della psicologia sociale (che a loro volta fanno riferimento ad ar-gomenti filosofici – si pensi alla «banalità del male» di cui parlava la Arendt), ma poco da dati neuroscientifici. Probabilmente E&M inter-preterebbero questo dibattito come l’ennesimo marchio della contrap-

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posizione tra psicologia sociale e neuroscienza. Viceversa mi sembra che una migliore prospettiva la si guadagni interpretandolo ancora una volta come un dibattito tra una posizione internalista (secondo la quale la previsione del comportamento di un individuo non richieda altro che una fotografia di alcuni suoi aspetti in un dato istante - poco importa che tali elementi siano identificati in termini neurofisio-logici, rappresentazionali, o altro ancora) e una posizione esternalista (secondo la quale la previsione del comportamento di un individuo richiede la conoscenza di una ampia gamma di variabili intra ed ex-tracraniche, in reciproca interazione dinamica).

PUNTO 2: PERCHé LOCALIZZARE NON È (SEMPRE) UN OZIOSO ESERCIZIO DI STILE

Ci sono alcune dicerie popolari sui neuroscienziati che non cor-rispondono al vero. La prima in ordine di popolarità riguarda l’idea per cui le neuroscienze si limitano ad individuare localizzazioni cere-brali, che di per sé non aggiungono molto alla conoscenza del feno-meno studiato. Totalmente falso. Sono d’accordo nel denunciare che certi neuroscienziati abbiano scommesso troppo sul valore della loca-lizzazione in sé e per sé. Questa è un’accusa che spesso viene fatta agli studi di risonanza magnetica funzionale (fMRI), una tecnica de-cisamente Molto diffusa in neuroscienze cognitive, piuttosto precisa in termini di localizzazione spaziale, ma disastrosa dal punto di vista della localizzazione temporale. Ma, ahimè, è la finezza temporale che spesso ci regala i dettagli più interessanti, che permette di spiegare certi fenomeni mentali a livello meccanicistico, e di proporre nuove interpretazioni. Non a caso uno dei campi di studio più vitali oggi in neuroscienze cognitive è quello che si occupa del definire il ruolo funzionale dei differenti ritmi oscillatori cerebrali, quello giocato dalle interazioni tra questi ritmi, nonché il ruolo della sincronizzazione tra ritmi e regioni differenti del cervello, nei processi cognitivi e percet-tivi (Varela, Lachaux, Rodriguez e Martinerie, 2001; Buszáki, 2006). Tutto questo, naturalmente, si gioca sul fattore tempo e non sulla lo-calizzazione spaziale. Tale dibattito, apparentemente per i soli addetti ai lavori, è stato invece recepito ed approfondito in certi ambienti fi-losofici i quali hanno visto negli studi di Buszáki e di altri neuroscien-ziati una convergenza con l’idea dinamica di coscienza tipica di una tradizione filosofica che parte da Eraclito e arriva a Merleau-Ponty, passando per Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche (Goodrich, 2010). Quindi, non solo localizzazione.

Ma vi sono tuttavia casi in cui la semplice localizzazione ha un va-lore intrinseco. Il caso dei neuroni mirror, citato dagli autori, è un caso palese. Secondo E&M «se l’intersoggettività è un sistema moti-

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vazionale innato essenziale per la sopravvivenza, perché stupirsi dell’e-sistenza di correlati neurologici che a livello cerebrale dimostrano l’at-tivazione di tale funzione?». Infatti il punto non è questo. Il punto è che alcuni processi cognitivi (relativi all’interazione sociale, all’osser-vazione di oggetti, al dominio emozionale, o a quello linguistico) ri-chiedono il contributo del sistema motorio. Questa, secondo me, non è solo una chicca per i feticisti della localizzazione. È al contrario un fatto fondamentale che, come ha notato Marc Slors, non era prevedi-bile neppure da un approccio embodied o enattivista:

The question is what the chances are that the hypothetical early enactiv-ist theory of social perception would predict neural resonance to be a part of the sensorimotor contingencies underlying social perception. What are the chances that the motor side of these contingencies would have been pre-dicted to consist partly in the neural mimicking of the observed action? The chances would be very slim, I think (Slors, 2009).

La scoperta che una parte dei processi cognitivi sia espressa in un formato motorio è qualcosa che poteva essere, al più, sospettato da qualche visionario e che le tecniche di localizzazione cerebrale hanno aiutato a confermare e a studiare ulteriormente. C’è ad esempio una celebre citazione di Mead in cui sembra appunto sospettare (tra le al-tre cose) un coinvolgimento dei centri motori durante la semplice os-servazione di un cavallo:

Una persona che ha familiarità con un cavallo, gli si avvicina come uno che intende cavalcarlo. Si dirige verso il lato adatto ed è pronto a mettersi in sella. Il suo avvicinarsi determina il seguito di tutto il processo. [...] Tali ca-ratteristiche sono implicite nell’idea di cavallo. Se noi andiamo in cerca di que-sto carattere ideale di cavallo nel sistema nervoso centrale, dovremmo trovarlo in tutte le parti differenti degli atti iniziati (Mead, 1934; corsivo mio).

Ora, se Mead avesse fatto uno studio di risonanza magnetica con risultati che avvalorassero l’attendibilità del suo sospetto, il valore del suo lavoro non sarebbe stato minore, giusto? È vero, probabilmente avrebbe vinto un grosso finanziamento (quindi non italiano), e magari avrebbe ottenuto la foto di copertina in una rivista di divulgazione scientifica, ma non vedo come questo possa in alcun modo diminuire il valore della sua idea. Incidentalmente, sembra che l’idea di Mead trovi numerose conferme nelle neuroscienze contemporanee.

Il fatto che una qualche area nel cervello si attivi durante l’osserva-zione di un’azione non è sorprendente, è ovvio. Il fatto che quell’area sia esattamente la stessa area normalmente attiva in compiti motori in-vece sì. Allo stesso modo, il fatto che una qualche area nel cervello si attivi quando creo storie inventate o immagino eventi futuri non è in-teressante, è ovvio. Il fatto che quell’area sia esattamente la stessa area

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attiva quando io ricordo eventi passati invece lo è – poiché solleva l’ipotesi che il ricordo di eventi passati sia in larga parte un’attività creativa (Eichenbaum e Fortin, 2009). Insomma, il vantaggio dell’i-dentificare una correlazione tra una funzione e un’area cerebrale sta anche nella possibilità di interpretare la funzione studiata alla luce di tutte le precedenti conoscenze relative a quell’area. Spesso, scoprire che due processi sono legati dalla stessa implementazione neurale è come scoprire un legame sotterraneo, un fiume carsico che lega le due funzioni. Inevitabilmente ci aiuta a capire meglio entrambi pro-cessi in questione. Ha torto sia chi sostiene che questo ci dica tutto, sia chi sostiene che questo non ci dica niente.

D’altra parte, benché io creda che molti risultati neuroscientifici rappresentino un passo avanti rispetto a precedenti sospetti non-neuroscientifici (guardate un po’ come ci tocca parlare), tuttavia mi rifiuto di pensare (a) che questo implichi il fare a meno degli altri approcci, e (b) che questi risultati rappresentino in alcun modo un «punto di arrivo» – per usare un’espressione usata da E&M. Non v’è proprio alcun motivo di credere che la strada per la conoscenza sia già ad un punto di arrivo. E in realtà, non so neanche se abbia senso parlare di punti di arrivo.

PUNTO 3: DI COSA STIAMO PARLANDO, REALMENTE?

Riassumendo, spero di aver convinto qualcuno di quanto sia im-precisa l’idea per cui la prospettiva neuroscientifica si candida a di-ventare una chiave interpretativa universale (sbagliata) – poiché le neuroscienze non hanno una chiave interpretativa loro propria (nep-pure quella riduzionista). Comunque ad un certo punto gli autori di-fendono anche la tesi opposta: «[...] nella maggior parte dei casi [le neuroscienze] confermano i risultati e gli impianti interpretativi già da tempo sviluppati» (p. XXX). In tal caso concordo. Il dibattito interes-sante è quello che riguarda la contrapposizione tra impianti interpre-tativi, che è trasversale alle tradizioni disciplinari. Inoltre, gli impianti interpretativi sono vecchi come la filosofia per cui, badate bene, non ne farei neanche una questione di copyright: mettiamoci l’anima in pace, ci sarà sempre uno storico della filosofia che potrà alzare il dito e dire «questo l’ha già detto Aristotele».

Chiuderei lasciando da parte le repliche alla solita serpeggiante re-torica per cui ci sono i buoni (psicologi) e i cattivi (neuroscienziati), quando la contrapposizione non è addirittura declinata in termini di «profondi contro superficiali». E poi, a queste accuse hanno già ri-sposto Gallese e Sinigaglia (2009) qualche anno fa. Chiudo invece con una «cattiveria». Questo continuo ritornello contro il riduzioni-

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smo biologico a cosa dovrebbe portare, concretamente? A non pro-varci neanche? Ovvero a non dare alle neuroscienze una chance di affrontare la complessità dell’ambiente e del sociale? Coerentemente con la citazione posta in apertura, se si pensa che questo programma stia incontrando difficoltà allora andrebbe incentivato, non ostacolato. Magari fallirà, ma ad oggi non vi è motivo di crederlo. Piuttosto, af-frontiamo l’invettiva antiriduzionista degli autori da un altro punto di vista: parafrasando Nietzsche, «che cosa rivela una tale affermazione di colui che la fa»? Un sospetto viene, ma è pensar male. Una simile contesa tra approcci la si vide ai tempi della disputa contro lo psico-logismo, ovvero quello che fu considerato, tra la fine del XIX e l’ini-zio del XX, il tentativo della psicologia sperimentale di appropriarsi dell’intero campo della filosofia. Anche in quel caso, apparentemente, si trattò di una disputa paradigmatica. A distanza di anni, tuttavia, questo resta sui libri di storia:

il progressivo insediarsi degli psicologi nel campo accademico sarebbe stato percepito dai filosofi come una minaccia. È innegabile che nelle dispute paradigmatiche (quando cioè si tratta di paradigmi in competizione), quasi sempre sono implicate anche questioni di finanziamenti, di cariche accademiche, di «potere» (D’Agostini, 1999, p. 39).

Così la cattiveria non l’ho detta io.

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La corrispondenza va inviata a Fausto Caruana, Istituto Italiano di Tecnologia, Brain Center for Social and Motor Cognition e Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Fisiolo-gia, Università di Parma, Via Volturno 39, 43100 Parma. E-mail: [email protected]