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« PER BENEFICIO E  CONCORDIA DI STUDIO » STUDI DANTESCHI OFFERTI A ENRICO MALATO   PER I SUOI OTTANT’ANNI a cura di Andrea Mazzucchi BERTONCELLO ARTIGRAFICHE

Ancora sulla data della \"Monarchia\"

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« PER BENEFICIO E CONCORDIA DI STUDIO »

STUDI DANTESCHI OFFERTI A ENRICO MALATO  PER I SUOI OTTANT’ANNI

a cura diAndrea Mazzucchi

BERTONCELLO ARTIGRAFICHE

Enrico Fenzi

ANCORA SULLA DATA DELLA MONARCHIA

1. Nel 2007, in seguito all’uscita dell’edizione della Monarchia curata da Francesco Furlan, m’ero azzardato a riprendere la tormentata questio-ne della data dell’opera, finendo per dichiararmi d’accordo con lo stu-dioso che, sulla traccia di altri e con l’aggiunta di nuove considerazioni, la abbassava agli ultimi anni della vita di Dante.1 Recentemente e quasi contemporaneamente sono apparse due altre edizioni, a cura di Chie-sa-Tabarroni e di Quaglioni, entrambe importanti e molto commenta-te, il cui testo, tra l’altro, è stato rivisto alla luce dell’edizione critica prodotta da Prue Shaw nel 2009, in sostituzione di quella che aveva fat-to testo per anni, di Pier Giorgio Ricci, del 1965.2 Le due edizioni, in modo diverso, sollecitano un ritorno sul problema della data, che dopo tante proposte e discussioni sembrava essersi assestata a larga maggio-ranza intorno agli anni 1317-’18, ma che al momento si direbbe nuova-mente arenata nelle sabbie mobili dell’incertezza, che provoca a sua volta una sorta di rifugio verso il centro: lasciata cadere la vecchia e salda convinzione di Nardi che la Monarchia fosse precedente alla Com-media e andasse piuttosto accostata al Convivio (e dunque risalisse al 1307-’8), e lasciando l’ipotesi opposta che la vorrebbe degli ultimi anni della vita di Dante, di fatto, anche se con molte cautele, direi ci sia un

1. Vd. Dante, Monarchia - Cola di Rienzo, Commentario - Marsilio Ficino, Volgarizza-mento, Milano, Mondadori, 2004 (« Biblioteca dell’Utopia »). La trad. it. della Monarchia è di Nicoletta Marcelli (i e ii 1-5) e Mario Martelli (ii 6-11 e iii); quella del Commentarium è di Paolo D’Alessandro e Francesco Furlan; l’annotazione storico-critica, l’intr. e la cura generale sono di Francesco Furlan. Cfr. E. Fenzi, È la ‘Monarchia’ l’ultima opera di Dante? (a proposito di una recente edizione), in « Studi danteschi », vol. lxxii 2007, pp. 215-38.

2. In ordine di tempo: Monarchia, a cura di P.G. Ricci, Milano, Mondadori, 1965 (Ed. Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana); Monarchia, a cura di P. Shaw, Firenze, Le Lettere, 2009 (id.); Monarchia, a cura di P. Chiesa e A. Tabarroni, con la collab. di D. Elle-ro, Roma, Salerno Editrice, 2013 (« Nuova Edizione commentata delle Opere di Dante »); Monarchia, a cura di D. Quaglioni, in D.A., Opere, ed. diretta da M. Santagata, Milano, Mondadori, vol. ii 2014, pp. 807-1415.

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certo ritorno a quanto scriveva Boccaccio, e cioè dal piú al meno agli anni della discesa in Italia di Arrigo VII.3

In questa sede non vorrei tuttavia impigliarmi troppo in minute con-siderazioni e discussioni: darò per implicita la maggior parte dei riferi-menti bibliografici, per altro facilmente ricavabili da quanto si citerà, e cercherò di occupare un po’ dello spazio che ancora esiste per esprime-re qualche considerazione d’insieme. La prima e forse la piú importan-te sta nel fatto che gli studiosi, facendo il loro mestiere, hanno sviluppa-to le loro personali convinzioni sull’orientamento di massima del per-corso dantesco, e a tali convinzioni hanno subordinato l’interpretazio-ne dei pochi dati di fatto disponibili, a cominciare dal famoso inciso di Mon., i 12 6: « sicut in Paradiso Comedie iam dixi », che sposterebbe, ap-punto, la composizione del trattato all’altezza del Paradiso. Chi non è di tale parere, dunque, e anticipa la composizione dell’opera, lo rifiuta come spurio, e chi invece immagina una composizione piú tarda l’ac-cetta come originale. Ovviamente non ci si può fermare a ciò, e infatti tornerò piú avanti sul punto, sempre delicato e importante, mentre nell’immediato cercherò di argomentare quanto penso sui tempi di composizione indipendentemente dalla testimonianza di quell’inciso che pure giudico, sino a prova contraria (perché aspettare a dirlo?), as-solutamente accettabile.

2. La prima cosa che mi sembra di dover ricordare ripigliando il pro-blema della composizione della Monarchia è l’impostazione che Nardi gli ha dato, che meglio di ogni altra illustra il caso di una esemplare co-erenza nel piegare i dati secondo uno schema interpretativo generale. Aggiungendo subito, doverosamente, che quello che alquanto ridutti-

3. Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, a cura di P.G. Ricci, in Tutte le opere di G.B., a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, 1974, vol. iii p. 487 (ia red., § 195): « Similemente questo egregio auttore nella venuta d’Arrigo VII imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è Monarcia, il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre libri divise. Nel primo, loicalmente disputando, pruova che a bene essere del mondo sia di ne-cessità essere imperio; la quale è la prima quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio; ch’è la seconda qui-stione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l’auttorità dello ’mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo vicario, come li cherici pare che vogliano; ch’è la terza quistione ».

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vamente si può definire lo “schema” di Nardi non ha nulla di preconcet-to e strumentale, dal momento ch’è il risultato di conoscenze straordi-narie e in qualche caso ancora ineguagliate, e di un impegno di ricerca durato una vita intera. In sintesi (mi scuso se comprimo in poche righe un discorso che dovrebbe essere ben altrimenti complesso e sottile), Nardi ha tratto la convinzione che il percorso di Dante, dopo la giova-nile esperienza poetica della Vita nuova, sia spartito in due grandi sta-gioni: la prima stagione che per comodità diremmo laica e razionalista (Nardi usa spesso, come oggi probabilmente non si farebbe, l’aggettivo averroista) è quella al cui vertice, nel 1307-’8, immediatamente dopo il Convivio, sta proprio la Monarchia; la seconda stagione, con le ultime frasi della Monarchia a far da ponte, è quella della Commedia, nella quale prevalgono profonde istanze religiose che finiscono per indebolire se non proprio per rinnegare le proposizioni piú libere e ardite professate in precedenza. Tra i molti passi possibili, torno a citare questo che è chiarissimo al proposito:

La Monarchia, dunque, è posteriore al Convivio, ma anche anteriore all’Inferno. Nell’opera politica la logica che trasporta lo scrittore a definire la base filosofica dell’indipendenza dell’Impero dalla Chiesa, lo conduce a stabilire, implicitamen-te, un ugual rapporto d’indipendenza della ragione dalla fede, della perfezione naturale dell’umanità da quella soprannaturale. Il Virgilio della Monarchia [. . .] non attende nessuna Beatrice. Il rapporto medievale di dipendenza della ragione dalla fede, della « philosophia ancilla theologiae », è negato non meno di quello, asserito dai decretalisti, di soggezione dell’Impero al Papato. Ma questa afferma-zione dell’indipendenza della ragione umana manca, nel pensiero dantesco, di ogni ulteriore sviluppo, ed è, anzi, subito attenuata e svalutata colle parole [. . .] con cui finisce il trattato. Nelle quali parole è preannunziata la Commedia; ché nel Poema, pur mantenendosi la sostanza del pensiero politico quanto alla missione dell’Imperatore, l’ordine dei rapporti tra la ragione e la fede vien ristabilito secon-do il concetto teologico tradizionale, e Virgilio, simbolo della ragione umana, diventa messo e araldo di Beatrice, simbolo del pensiero divino. È probabile che, quando Dante ebbe concepito il disegno generale della Commedia, sentisse il biso-gno, per l’esecuzione di esso, di approfondire i problemi teologici che avrebbe incontrato per via. E da un piú accurato studio della teologia medievale egli fu certamente indotto a ristabilire la subordinazione della ragione alla fede, della filosofia alla teologia. Ma in tal modo la tesi del terzo libro della Monarchia perde-va la sola possibile giustificazione razionale e rimaneva una semplice dissonanza

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nell’armonia del pensiero filosofico dello stesso Poeta, una screpolatura nella sal-da compagine dell’edifizio teologico del Medio Evo. L’assoluta autonomia dello Stato attendeva di esser difesa da chi avesse svolto, senza pentimenti, il concetto dei « philosophica documenta » della Monarchia.4

Il grande pregio di un simile disegno d’insieme è quello d’essere, ap-punto, tale, e di corrispondere, per la parte che ci interessa, alla natura dell’oggetto: la Monarchia. Il trattato, infatti, certo per consapevole scel-ta di Dante, si muove in una dimensione speculativa che non prevede e anzi rifiuta d’essere schiacciata sopra circostanze e usi particolari. Il che comporta che i tentativi che da sempre sono stati fatti per determinar-ne la genesi attraverso il ricorso a circoscritti episodi storici restano, sí, utilissimi, in quanto modi per cogliere il “fondo” concreto delle affer-

4. B. Nardi, Il concetto dell’Impero nello svolgimento del pensiero dantesco (1921), in Id., Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 215-75, alle pp. 274-75 (il saggio di E.G. Parodi discusso da Nardi è Del concetto dell’Impero in Dante e del suo averroismo, in « Bullettino della Società Dantesca Italiana », vol. xxvi 1919, pp. 105-48). Ho citato le frasi conclusive di Nardi: le stesse conclusioni sono ripetute in fine al saggio che segue nello stesso volume: Tre pretese fasi del pensiero politico di Dante, pp. 276-310, nel quale Nardi contesta le tesi di F. Ercole, Le tre fasi del pensiero politico di Dante (1921), in Id., Il pensiero politico di Dante, Milano, Alpes, 1928, pp. 271-407, che a sua volta contestava puntualmente le sue e precisamente scioglieva quel “blocco” negando che vi fosse opposizione tra la Commedia e la Monarchia, che sarebbe stata composta dopo la morte di Arrigo VII, dunque dopo il 1313, in concomitanza con la fine del Purgatorio. Nardi ha continuato a ripetere e ad argomentare le sue convinzioni sino all’ultimo, ma ha pure rinunciato a intendere le ultime frasi del trattato come una sorta di palinodia circa la reciproca irriducibilità del potere dell’imperatore e del papa: vd. B. Nardi, Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’ (sei saggi danteschi), Roma, Ist. Storico Italiano per il Medio Evo, 1992, che comprende saggi usciti tra il 1955 e il 1956 (si tratta della rist. an. della prima edizione, del 1960, ora arricchita da una bella e importante premessa di Ovidio Capitani). Lí, vd. partic. il lungo saggio che dà il titolo al libro, pp. 37-150: alle pp. 66-96 c’è una riconsiderazione del finale della Monarchia, inteso ora come estrema conferma delle tesi sostenute per tutto il trattato, e alle pp. 120-21 sono tratteggiate « cosí all’ingrosso » le tre fasi dello sviluppo del pensiero dantesco, dalla prima fase guinizzelliana (Vita nuova) alla seconda filosofico-politica (rime allegoriche e dottrinali, De vulgari eloquentia, Convivio e Monarchia), e infine alla terza e ultima fase della poesia religiosa (Commedia). E vd. ancora, specie per le sue ultime pagine, l’ancor piú lungo saggio successivo, Intorno a una nuova interpretazione del terzo libro della ‘Monarchia’ dantesca, pp. 151-313. Pienamente d’accordo con la scansione temporale e ideale di Nardi, pur ammettendo una maggiore elasticità sul piano cronologico, è A.M. Chiavacci Leonardi, La ‘Monarchia’ di Dante alla luce della ‘Commedia’, in « Studi medievali », s. iii, a. xviii 1977, fasc. 2 pp. 147-83 (vd. partic. l’Appendice, pp. 181-83), e ancora d’accordo è S. Ferrara Pavlovic, La métaphore solaire. Les trois épitres politiques de Dante et le chant xvi du ‘Purgatoire’, in « Arzanà », a. xii 2007, pp. 99-116, alle pp. 100-1 n. 1.

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mazioni dantesche, ma non sono immediatamente convertibili in cer-tezze di tipo cronologico. Per intenderci, la Monarchia rappresenta una sorta di summa o di distillato di una riflessione politica entro la quale Dante ha condensato i risultati delle sue varie esperienze, ma nulla ci assicura che esista uno stretto vincolo temporale tra alcune di quelle esperienze o circostanze e il momento della scrittura. Per dire subito dell’ipotesi basata sulla testimonianza di Boccaccio, che all’origine del-la Monarchia ci sia la discesa in Italia di Arrigo VII,5 dovremo almeno osservare che sí, è affatto naturale che quella particolare vicenda con i suoi importanti corollari (al proposito, si citano spesso le Costituzioni pisane emanate da Arrigo in Pisa, nell’aprile 1313) abbia fortemente se-gnato l’esperienza di Dante, ma il momento della scrittura che ne tra-scende i dati empirici nella sistemazione teorica può ben essere anche di parecchio posteriore. E ciò vale anche per gli altri momenti che sono stati invocati. Si tratta, soprattutto, delle proposte che spaziano dal 1316 al 1318, intese non tanto a stabilire una data fissa di composizione, quan-

5. Ipotesi che è stata a lungo dominante, e che ora è riproposta da M. Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Milano, Mondadori, 2012, pp. 257-61 e 414-17, al quale rissuntivamente rimando. Di essa era certo, per esempio, Gustavo Vinay (coerentemente ritenendo spurio o frutto di un’aggiunta posteriore quel rinvio al Paradiso): vd. il cap. La cronologia del trattato, nell’intr. a D.A., La Monarchia, testo, intr., trad. e commento a cura di G.V., Firenze, Sansoni, 1950, pp. xxix-xxxviii. Ma, seppur con lievi differenze, questa (ripeto, 1312-’13, a ridosso della morte di Arrigo) era anche l’opinione di Barbi e Parodi e poi di M. Maccarrone, Il terzo libro della ‘Monarchia’, in « Studi danteschi », vol. xxxiii 1955, pp. 5-142, minuziosamente confutato per quanto riguarda i contenuti da Nardi, Intorno a una nuova interpretazione, cit., pp. 151-313. A questa proposta cronologica, essenzialmente sulle orme di Vinay, tornano ora E. Malato, Dante, Roma, Salerno Editrice, 20093 (19991), pp. 773-1052, alle pp. 179-81, e, partic. importante e tenuto ben presente da Santagata, A. Casadei, « Sicut in Paradiso Comedie iam dixi », in « Studi danteschi », vol. lxxvi 2011, pp. 179-97 (e ora in Id., Dante oltre la ‘Commedia’, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 107-27), che si basa essenzialmente sull’incipit e sul cap. 10 del ii libro, oltre che a pertinenti riscontri con l’epistola vi ai Fiorentini, ed è convinto che il trattato risalga a « un periodo che vedeva nel pieno delle loro funzioni Arrigo e Clemente, ancora non contrapposti nei fatti, come avverrà poco dopo l’incoronazione romana del giugno 1312 » (p. 190). Ma già Sergio Cristaldi (che accetta l’inciso di Mon., i 12 6) in alcune dense e belle pagine che mi scuso di aver letto troppo tardi e che mi sembrano tra le migliori che siano state dedicate alla questione aveva spostato l’ante quem del trattato al 1316: di nuovo, però, le sue argomentazioni, pur restando preziose e assolutamente convincenti, non direi che possano garantire molto circa la data di composizione, che può ben essere (e io credo sia) posteriore al preciso contesto storico evocato (vd. S. Cristaldi, Dante di fronte al gioachimismo. i. Dalla ‘Vita nova’ alla ‘Monarchia’, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2000, pp. 400-10).

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to piuttosto a indicare l’insieme di altre possibili circostanze che verosi-milmente potrebbero essere state all’origine dell’iniziativa dantesca. Allora, infatti, Giovanni XXII, papa nel 1316, nega la consacrazione tan-to a Ludovico il Bavaro che a Federico d’Asburgo, designati da opposti schieramenti a Francoforte nell’ottobre 1314; dichiara vacante la sede imperiale; conferma vicario dell’impero Roberto d’Angiò, e prima con la costituzione Si fratrum et coepiscoporum del 31 marzo 1317 e poi con la bolla del 6 aprile 1318 ordina a Matteo Visconti, Passerino Bonacolsi e Cangrande della Scala che rimettano nelle sue mani il titolo di vicari imperiali ottenuto da Arrigo VII, finendo cosí per mettere in discussio-ne la loro effettiva signoria rispettivamente su Milano, Mantova e Vero-na.6 Il Bonacolsi e Cangrande si fanno però riconfermare il titolo da Federico, e oppongono alle crescenti minacce di Giovanni XXII la vali-dità del titolo concesso dal re dei Romani che, in virtú dell’elezione, gode della piena giurisdizione imperiale anche se privo della confirmatio papale.

Ora, la contesa andava al cuore del rapporto tra impero e papato, e riapriva con particolare urgenza le ancor fresche lacerazioni che aveva-no opposto Clemente V, il Guasco, ad Arrigo VII, sí che Dante, che vive la fase veronese della sua vita e nel Paradiso si fa esaltatore di Cangran-de, avrebbe tratto proprio da questo rinnovato scontro lo spunto per affrontare in modo organico e definitivo il problema. E questa è proprio l’ipotesi che, già fortemente sostenuta dallo Zingarelli che ravvisava l’occasione polemica decisiva nella bolla papale In nostra et fratrum del marzo 1317, è stata argomentata con maggiore ampiezza da Ricci, aven-

6. Vd. G. Biscaro, Dante a Ravenna (indagini storiche), in « Bullettino dell’Ist. Storico Italia-no », vol. xli 1921, pp. 1-142, partic. pp. 5 sgg. Una eco vicina di questi avvenimenti è forse nel Paradiso. Dopo aver esaltato Cangrande (Par., xvii 70-93), Dante attacca nel canto successivo (xviii 127-36) papa Giovanni XXII, condannando dapprima, in generale, l’uso della scomu-nica come arma contro gli avversari, e immediatamente dopo personalizzando l’obiettivo con l’energico Ma tu: « Ma tu che sol per cancellare scrivi [. . .] ». Secondo l’interpretazione piú ovvia, e coerente con il contesto, qui si dice che tratto caratteristico di Giovanni XXII è quello di usare della scomunica non come atto di guerra, come i predecessori, ma solo per poterla poi « cancellare » a pagamento, per pura avidità di denaro. Ma non si può del tutto escludere che l’alone allusivo dell’espressione s’allarghi a comprendere anche le bolle con le quali il papa pretendeva di cancellare, dichiarandoli decaduti, quei titoli di vicario imperiale.

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dola entrambi fornita del buon puntello esterno costituito dalla frase: « sicut in Paradiso Comedie iam dixi ».7 Non c’è dunque da meravigliarsi se abbia goduto di particolare credito, considerando, in aggiunta, che è stata sanzionata da Petrocchi il quale fa salva la nascita veronese del trattato e finisce per accogliere anch’egli la data del 1318.8

Con tutto ciò anche queste circostanze, per quanto plausibili e certa-mente importanti nel definire meglio i contenuti della teoria dantesca, sono incapaci di fornire un reale e indiscutibile aggancio che inchiodi la composizione a una e una sola serie di fatti, e generano per contro qual-

7. Vd. N. Zingarelli, La vita, i tempi e le opere di Dante, Milano, Vallardi, 1931, vol. ii pp. 683-84 sgg.; P.G. Ricci, s.v. Monarchia, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Ist. della Enciclopedia Ital., vol. iii 1971, pp. 993-1004, e ancor prima Id., L’ultima fase del pensiero politico di Dante e Cangrande vicario imperiale, in Dante e la cultura veneta, a cura di V. Branca e G. Padoan, Firenze, Olschki, 1967, pp. 366-71.

8. Vd. G. Petrocchi, Vita di Dante, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 192. Naturalmente, molti e da molto tempo, con argomentazioni diverse, hanno pensato che la Monarchia sia stata scritta dopo la morte di Arrigo VII, e insomma dal 1314 in avanti: vd. per es. U. Chiurlo, Le idee politiche di Dante Alighieri e di Francesco Petrarca, in « Giornale dantesco », vol. xvi 1908, fasc. 2-3 pp. 1-61 (1318); E. Flori, Dell’idea imperiale di Dante. Con un’Appendice sulla data di composizione del ‘De monarchia’, Bologna, Zanichelli, 1921, pp. 173-205 (ultimi anni ravennati, dando piena fiducia all’autocitaz.: vd. pp. 196-97); Biscaro, Dante a Ravenna, cit., p. 11 (ipotizza addirittura che il trattato dantesco costituisca una sorta di “memoria” redatta per aiutare sia Cangrande che il Bonacolsi a rispondere alle pretese papali); F. Ercole, Il pensiero politico di Dante, Milano, Alpes, 1928, pp. 399 sgg. (1314-’17); A. Solmi, La ‘Monarchia’ di Dante, in « Nuova antologia », a. lxx, aprile 1935, pp. 321-31, alle pp. 321 sgg. (tra il 1314 e il 1316, o poco dopo: ma precedentemente, Il pensiero politico di Dante, Firenze, La Voce, 1922, partic. pp. 174-82, pensava alla data 1312-’14); e soprattutto F. Mazzoni, Teoresi e prassi in Dante politico, in D.A., Monarchia. Epistole politiche, con un saggio introd. di F.M., Torino, Eri, 1966, pp. lx-lxv (non prima del 1314, e non dopo l’aprile 1317, perché non vi si parla della bolla In nostra et fratrum), ora seguíto, per non fare che un esempio, da R. Hollander, Dante. A Life in Works, New Haven-London, Yale Univ. Press, 2001, pp. 150-51 e p. 206 n. 207. Collocano inoltre il trattato attorno al 1318 P. Shaw, in D.A., Monarchy, ed. by P. Shaw, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2003, p. xxxiii (ma vd. pure l’edizione “maggiore”, ivi, id., 1996, pp. xxxviii-xli, per una discussione piú ampia sulle date via via proposte dagli studiosi) e J. Scott, Dante and Philosophy, in « Annali d’italianistica », a. viii 1990, pp. 258-77, alle pp. 270-72, e Id., Perché Dante?, Roma, Aracne, 2010, pp. 235-73, a p. 236, ove si rimanda in particolare agli argomenti in tal senso di R. Kay, Dante’s ‘Monarchia’, transl. and commentary by R.K., Toronto, Pontifical Inst. of Mediaeval Studies, 1998, partic. pp. xxviii-xxx (vedine la recensione di J. Scott, in « Speculum », a. lxxvi 2001, pp. 427-30). Sta recisamente per gli ultimi anni ravennati G. Padoan, Il vicariato cesareo dello scaligero. Per la datazione dell’Epistola a Cangrande, e « Alia utilia reipublice ». La composizione della ‘Monarchia’, saggi ora raccolti in Id., Ultimi studi di filologia dantesca e boccacciana, a cura di A.M. Costantini, Ravenna, Longo, 2002, risp. pp. 29-39 e 41-57, e infine, come s’è detto, Furlan (vd. qui nota 1).

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che perplessità. L’ipotesi “arrighiana”, per esempio, si scontra con il completo silenzio circa Firenze, capofila della resistenza all’imperatore e da lui inutilmente assediata, e ciò è abbastanza curioso se si pensa che alcune espressioni che sono nell’epistola ai Fiorentini intrinseci (marzo 1311), effettivamente vicine ad altre della Monarchia, sono intimamente intrecciate a una violentissima rampogna contro di loro che per abbiet-ti motivi rifiutano di riconoscere l’autorità del principe romano re del mondo e ministro di Dio:9 le parole di Dante nella Monarchia, insomma, volano piú alte della cronaca di quegli anni e sulla base di una amara diagnosi complessiva abbracciano ormai un orizzonte piú largo che ac-cantona Firenze e nel quale è semmai possibile intravvedere un giudi-zio sulla monarchia francese (vd. partic. Mon., ii 1 3, 10 1-3, e iii 3 8).10

E la stessa cosa la si può dire circa l’ipotesi per dire cosí “veronese”, visto che proprio Cangrande s’era fatto riconfermare il vicariato non già dall’Arrigo che Dante aveva amato e seguito, ma dal suo rivale Fe-derico d’Asburgo con il quale la stessa Firenze si era schierata,11 e visto sopprattutto che l’esaltazione dei grandi elettori tedeschi, fatti diretti denuntiatores della volontà divina (Mon., iii 16 13-14), abbisognava di qualche cautela dopo che s’erano drammaticamente divisi, nel 1314, tra Ludovico il Bavaro e Federico. E Dante mostra cautela, appunto, ma alla luce di una considerazione generale che, di nuovo, trascende l’oc-

9. Ep., vi 2: « Vos autem divina iura et humana transgredientes, quos dira cupiditatis inglu-vies paratos in omne nefas illexit, nonne terror secunde mortis exagitat, ex quo, primi et soli iugum libertatis horrentes, in romani principis mundi regis et Dei ministri, gloriam fremui-stis, atque iure prescriptionis utentes, debite subiectionis officium denegando, in rebellionis vesaniam maluistis insurgere? » (su questo passo punta in particolar modo Casadei, « Sicut in Paradiso Comedie iam dixi », cit., p. 185, e vd. pure Quaglioni, intr. a Monarchia, ed. cit., pp. 850 sgg.). Ora, la corrispondenza c’è, forte e indubitabile, ma devo ripetere che il fatto che singoli concetti ed espressioni particolarmente calzanti con la Monarchia si trovino in testi precedenti (anche nel Convivio, se è per questo, come piú volte è stato indicato: vd. per es. ivi, iv 4 1) non dice nulla circa il momento in cui Dante ha raccolto, organizzato e sviluppato il suo pensiero in un’opera compiuta e programmaticamente lontana da ogni compromis-sione con circostanze reali.

10. Vd. le note ad l. di Chiesa-Tabarroni. Contra, vd. l’importante nota di Quaglioni a ii 10 1, a proposito della polemica dantesca contro i zelatores fidei, identificati sulla base di una diffusa falsa etimologia con i guelfi (ma cosí non si spiega bene la loro sistematica attività di rapina dei beni della Chiesa, che fa pensare, piuttosto, ai re francesi, da Filippo il Bello in giú).

11. Vd. R. Davidsohn, Storia di Firenze, trad. it., Sansoni, Firenze, 1960, vol. iii p. 864 n. 1.

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casione, là dove scrive che avviene « ut aliquando patiantur dissidium quibus denuntiandi dignitas est indulta, vel quia omnes vel quia quidam eorum, nebula cupiditatis obtenebrati, divine dispentationis faciem non discernunt » (Mon., iii 16 14). Da un lato, infatti, si è indotti a rianda-re alla spaccatura del 1314, dalla quale sono usciti due imperatori in guerra tra loro (mentre cosí non era stato nel 1309, quando i grandi elettori riunti a Middelburg « sanza niuno discordante elessero a re de’ Romani Arrigo conte di Luzzinborgo »),12 ma dall’altro, di nuovo, il to-no è quello distaccato di una diagnosi che abbraccia insieme le elezioni passate e le future.13

Per la verità, c’è un’altra via puntualmente indimostrabile ma legitti-ma per conciliare opinioni diverse, ed è quella di pensare che l’opera, che ci è giunta completa, sia stata il frutto di un lavoro in progress, che a partire dagli anni di Arrigo ha conosciuto stratificazioni e aggiunte suc-cessive delle quali quel famoso inciso, di cui resta ancora da parlare, sa-rebbe la spia piú evidente. Su ciò ha insistito in particolare Dolcini, che fondamentalmente accoglie l’ipotesi difesa con convinzione da Vinay che l’esordio del ii libro, là dove Dante condanna il fatto che sovrani e principi concordino solo nell’opporsi all’imperatore (ed è qui, aggiun-go, che ci si aspetterebbe almeno un coperto rimando alla repubblicana Firenze, e non solo ai populi e reges et principes della terra, in linea con l’epistola vi agli « scelestissimis Florentinis », e della violentissima invet-tiva rinnovata contro di loro in Ep., vii 23-28), non possa riferirsi ad altro che ad Arrigo ancora vivente, ma insieme suggerisce che l’opera sia ri-masta per anni aperta e “aggiornata” sino agli ultimi anni dell’esilio.14

12. Cosí Giovanni Villani, Nuova Cronica, ix 101 (vd. l’ed. critica a cura di G. Porta, [Milano-]Parma, Fondaz. Pietro Bembo-Guanda, vol. ii 1991, p. 197). Sottolinea questi diversi esiti A.K. Cassel, The ‘Monarchia’ Controversy. An Historical Study with Accompanying Translations of Dante Alighieri’s ‘Monarchia’, Guido Vernani’s ‘Refutation of the Monarchia Composed by Dante’, and Pope John XXII’s Bull ‘Si fratrum’, Washington D.C, The Catholic Univ. of America Press, 2004, pp. 339-40 n. 442, ritenendo che l’elezione del 1314 costituisca sicuro termine post quem per la composizione della Monarchia (lo cita anche Quaglioni, ad l.).

13. Cfr. Chiesa-Tabarroni, ad l.: « la frase sembra voler comprendere tutti i casi possibili, e non riferirsi necessariamente a particolari situazioni storiche », ecc.

14. Vd. C. Dolcini, Dante Alighieri e la ‘Monarchia’, in Id., Crisi di poteri e politologia in crisi. Da Sinibaldo Fieschi a Guglielmo d’Ockham, Bologna, Pàtron, 1988, pp. 427-38, partic. alle pp. 428-29), e Id., Qualcosa di nuovo su Dante. Sue tesi politiche nel 1306, in « Pensiero politico

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Può essere che sia cosí, e certo si tratta di un’ipotesi in sé e per sé ra-gionevolissima e però difficile da dimostrare (Chiesa e Tabarroni so-spettano anch’essi la cosa: vd. nella loro ed. p. lxvi, e, come vedremo, l’ha da poco ripresa uno studioso come Giorgio Inglese), ma il punto di partenza è sempre lo stesso: il trattato “non vuole” essere considerato l’espressione di una situazione specifica, ma aspira a porsi in una sfera piú alta degli accadimenti che magari l’hanno provocato, e per questo si sottrae ai condizionamenti dei quali soffrirebbe quando lo si ricondu-cesse ai suoi possibili e inevitabilmente interessati riscontri storici. Quando ancora Chiesa e Tabarroni scrivono, nella loro introduzione, p. lxiv, di non essere in grado di assumere una posizione precisa e di non avere elementi nuovi e convincenti da proporre (che poi non sia proprio cosí, lo vedremo poco avanti), non esprimono un semplice pa-rere personale, ma danno conto del punto d’arrivo degli studi, e seppur in altro tono vanno in questa direzione i ripetuti inviti di Quaglioni alla prudenza, anche se per parte sua lo studioso, che ha esaminando a fon-do la questione, mostra di restare fermo al 1312-’13. Il che a me suona un poco contraddittorio, e di una contraddizione che risale, direi, a Vinay, il quale prende ben atto del carattere speculativo del trattato, sino a scrivere che tra la Monarchia e i fatti sin lí invocati per datarla, da Arrigo a Cangrande « non c’è alcun rapporto di necessità », ma poi, sulla base del cap. primo del libro ii, conclude che « l’opposizione fattasi generale alla politica dell’imperatore non può riportarci molto piú in là della primavera del 1312: e questo sarà il termine post quem. Il termine ante quem sarà invece la morte di Arrigo, cioè l’agosto del 1313, perché [. . .] Dante ci dice che quando scrive “vede” i principi avversarlo, il che vuol dire che, almeno per la cronologia, non è l’idea ma l’uomo in carne ed ossa che deve contare ».15 Quando invece, a leggere e rileggere il passo

medievale », a. i 2003, pp. 19-25 (ove si accettano in particolare le tesi di Kay: vd. qui nota 8): nello stesso numero della rivista, suggerisce un’ipotesi di soluzione R. La Terra Bellina, ‘Mon.’ ii, i: note per la datazione, pp. 41-45, che analizza i tempi verbali del passo in questione e ne deduce la possibile esistenza di stesure successive. Di nuovo: può essere cosí, ma ci vorrebbe qualcosa di piú. Ma vd. ancora C. Dolcini, Sul tempo della ‘Monarchia’: ?-1314, ivi, a. ii 2004, pp. 33-39, e Id., Per la cronologia del trattato politico dantesco. Risposta a Enrico Fenzi, ivi, a. v 2007, pp. 145-50.

15. Vinay, ed. cit., pp. xxxii e xxxvi-xxxvii. Il passo, centrale per Vinay e per chi lo segue,

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in questione, esso sembra piuttosto contenere una diagnosi pesante-mente negativa sull’epoca presente che ha visto e vede lo scadimento dell’autorità imperiale aggredita da una diffusa e generalizzata ribellio-ne che coinvolge tutti, popoli, principi e re,16 e che andando indietro arriva, direi, a comprendere, sullo sfondo, anche le vicende italiane del « buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona » (Purg., xviii 119-20), cioè il Federicus prior di Ep., vi 5.17

3. Quanto si è osservato sin qui non comporta che sia inutile tentare di precisare il piú possibile il momento della composizione della Monar-chia, ma che il metodo di mescolare piani diversi di discorso, come sono i dati della cronaca e la logica interna al discorso dantesco, in questo caso lascia troppi dubbi. Al confronto, i risultati chiari e lineari ai quali Nardi è approdato sono sí discutibili e in generale ormai da tutti respin-ti, ma pure paiono piú corretti, ordinati come sono a una visione com-plessiva del percorso dantesco. E sulla linea di Nardi, non per la data ma per l’esigenza di cogliere le linee di pensiero che il trattato esprime, sta indubbiamente Ovidio Capitani, che sulla Monarchia ha scritto pagine importanti.18 Il quale Capitani muove appunto dal rifiuto di considerare

Mon., ii 1 3-4, recita: « Sed postquam medullitus oculos mentis infixi et per efficacissima signa divinam providentiam hoc effecisse cognovi, admiratione cedente, derisiva quedam supervenit despexio, cum gentes noverim contra Romani populi preheminentiam fre-muisse, cum videam populos vana meditantes, ut ipse solebam, cum insuper doleam reges et principes in hoc unico concordantes, ut adversentur Domino suo et uncto suo, Romano principi. Propter quod derisive, non sine dolore quodam, cum illo clamare possum pro populo glorioso, pro Cesare, qui pro principe celi clamabat: Quare fremuerunt gentes et populi meditati sunt inania? Adstiterunt reges terre et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Cristum eius [Ps 2, 1-2] ».

16. Vd. sotto, nota 19, in questo stesso senso, le note ad l. di Chiesa-Tabarroni. Non mi fermo sul passo quanto sarebbe necessario, ma vorrei almeno sottolineare che Dante fa anche ammenda del suo passato guelfismo: « cum videam populos vana meditantes ut ipse solebam » (corsivo mio), e con ciò stesso allarga l’orizzonte del suo giudizio.

17. Vd. B. Nardi, Dante e il « buon Barbarossa » ossia Introduzione alla ‘Monarchia’ di Dante, in Dante Alighieri, Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi, to. ii 1979, pp. 241-69, alle pp. 253-55.

18. Mi riferisco in particolare a O. Capitani, Chiose minime dantesche, Bologna, Pàtron, 1983, nel quale cinque capitoli su sette, diversamente datati dal 1961 al 1980, sono dedicati alla Monarchia, e al piú recente saggio La questione della datazione della ‘Monarchia’. Il senso concettuale e istituzionale della polemica di Dante contro la funzione « costituzionale » degli electores del « re dei Romani », in « Studi Medievali », s. iii, a. li 2010, pp. 921-53 (donde cito: ma pure in

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cogente il rinvio agli anni 1312-’13, distinguendo opportunamente tra ispirazione e composizione del trattato,19 e insegue per contro un filo diverso. Lo studioso mette infatti al centro del trattato un’intenzione di natura squisitamente giuridica, che s’esprime nella preoccupata pole-mica non tanto contro la donatio Constantini in sé, ma contro la vera e propria usurpatio iuris che se ne era voluto trarre da parte della Chiesa, che era arrivata a sostenere che non tanto di una donatio si trattasse, ma di una ‘restituzione’ (resignatio): « Dante vuole propriamente combat-tere una concezione dell’impero che non ha alcuna base nemmeno nel testo della donatio, ma che si fonda sull’assioma che Extra Ecclesiam nul-lum imperium e quindi della nullità dello stesso impero che non sia in-corporato nella Chiesa ».20 Sí che, sulla base di tale impropria esegesi della donatio, Innocenzo IV nella Eger cui lenia ricavava che l’impero, da Augusto a Costantino, non era stato altro, propriamente, che una inor-dinata tyrampnis, essendo la Chiesa, e il papa, l’unico e naturale deposi-tario dell’autorità imperiale, al punto che il papa « solus possit uti impe-rialibus insigniis », come già voleva, nel 1075, il cosiddetto Dictatus Pa-

Lectura Dantis Bononiensis, a cura di E. Pasquini e C. Galli, Bologna, Bon. Univ. Press, vol. i 2011, pp. 103-25, ove le note sono diminuite di un’unità perché la prima, con le indicazioni bibl. di base, è posta in esergo).

19. Cfr. Capitani, Chiose minime, cit., p. 40 (ribattendo a Vinay): « E certo, se di guerra si deve vedere un cenno nel passo dantesco [ii 1, 3], nessun tempo è piú rispondente di quello compreso tra il 1312 ed il 1313: ma i re e i principi che solo su di un punto trovano una inconsueta concordia possono essere quelli italiani? E quali, oltre Roberto d’Angiò, i re italiani? Federico III era semmai con Arrigo. Confessiamo che il discorso dantesco non ci sembra consenta facilmente un’interpretazione cosí puntuale. Che se si dovesse osservare che di reges et principes Dante parla perché di reges terre e di principes parla il salmo, si dovrebbe allora spiegare come si possa andare al di là di un significato che pare Dante abbia voluto, proprio per quel richiamo costante al salmo che è in tutto il capitolo 1 del II, generale e generico. Se non si dà ad unto il significato preciso di consacrato e incoronato, una collocazione cronologica puntuale su di un punto specifico, che consenta di agganciare ad un momento particolare della vita di Dante la composizione – altra cosa può essere, crediamo, l’ispirazione – del trattato, quella collocazione non ci pare possa venire dal resto del passo » (e vd. ancora, con ulteriori decisive argomentazioni, Id., La questione della datazione, cit., pp. 933 sgg.). E vd. ora anche Chiesa-Tabarroni, ad l., pure essi persuasi del valore generale del passo, dato che « Dante cerca di trasportare il discorso sul piano didattico-conoscitivo, assegnandovi una valenza piú generale e in un certo senso assoluta ».

20. Capitani, Chiose minime, cit., p. 96. Ma vd., per quanto qui troppo brutalmente riassunto, tutto l’intenso saggio, a mio parere decisivo, Riferimento storico e pubblicistica nel commento di Bruno Nardi alla ‘Monarchia’ dantesca, ivi, pp. 83-114.

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pae, prop. viii, di Gregorio VII: tesi, queste, non solo inaccettabili ma addirittura mostruose agli occhi di Dante, e infatti la sua « è la prima voce preoccupata e coerentemente lucida a levarsi contro un processo di integrazione globale di tutto lo svolgimento della storia. L’usurpatio iuris è anche questo: è l’annullamento, nonché dell’impero, dei presup-posti di ogni razionalità umana ».21

Tutto questo lo si dice non per entrare in questa sede in una lunga e inevitabilmente complessa discussione, ma semplicemente per sottoli-neare come la Monarchia sia da Capitani inserita in un orizzonte assai ampio, sia sul piano dei contenuti che dei tempi, davvero ben oltre ogni specifico spunto di cronaca. E anche nel saggio piú recente, La questione della datazione, del 2010, lo studioso prosegue tale sforzo, facendo della Monarchia il grande testo polemico che affronta il problema dell’elezio-ne dell’imperatore, e dunque del ruolo rispettivo degli electores e della successiva conferma papale tramite l’“unzione” o consacrazione, che sola avrebbe trasformato il “re dei Romani” in imperatore. E l’affronta rovesciando direttamente ed esplicitamente l’intera linea della teocra-zia papale che attraverso la consacrazione si riservava l’ultima parola nella faccenda, ripetutamente rivendicata dalla decretale Venerabilem di Innocenzo III, del 1202, sino alla Determinatio compendiosa di Tolomeo da Lucca, forse composta proprio negli anni in cui era priore del con-vento di San Romano a Lucca e poi, dal 1300 al 1302, priore generale di Santa Maria Novella a Firenze, cioè negli anni culminanti della carriera politica di Dante e del suo fallimento.22

Di nuovo, non posso entrare in tali temi che richiederebbero ampio spazio anche solo per una loro corretta esposizione, ma è sul loro sfon-do, anche se appena evocato, che vorrei ora aggiungere qualcosa, non

21. Ivi, p. 109 per la citaz., e pp. 113-14. Per la Eger cui lenia, vd. C. Dolcini, « Eger cui lenia » (1245/46): Innocenzo IV, Tolomeo da Lucca, Guglielmo d’Ockham (1975), ora in Id., Crisi di poteri, cit., pp. 119-46. Riassuntivamente, vd. anche la raccolta di saggi di O. Hageneder, Il sole e la luna. Papato, impero e regni nella teoria e nella prassi dei secoli XII e XIII, trad. it., a cura di M.P. Alberzoni, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 215 sgg. per la Eger cui lenia, e pp. 167-69 e 219-20 per il Dictatus Papae.

22. Uno dei tanti meriti della piú volte citata ed. di Chiesa e Tabarroni è quello dell’aver pubblicato, tradotto e brevemente commentato a corredo della Monarchia la Determinatio compendiosa: Appendice i, pp. 247-316, alla quale rimando.

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per risolvere alcunché ma per contribuire almeno marginalmente a chiarire alcuni elementi che mi sembrano tuttavia confusi. Tenendo a mente le analisi di Capitani, un buon punto di partenza mi sembra sia nelle considerazioni di Chiesa e Tabarroni, là dove osservano, p. lxiv (mi sembra opportuno citare il passo per intero: ma vd. anche, piutto-sto importante, quanto affermano nella pagina seguente a proposito della donazione di Costantino):

È indubbio, ed è già stato ampiamente osservato, che dal punto di vista dei con-tenuti, ma anche del linguaggio, la Monarchia è piuttosto vicina al Paradiso, men-tre piú scarse affinità si ritrovano con l’Inferno, e solo qualcosa in piú con il Purga-torio. Al di là del dubbio riferimento esplicito di i 12 6, la trattazione del libero ar-bitrio in Par., v, e in Mon., i 12, è pressoché identica: ugualmente molto simili sono i riferimenti alla storia romana presentati da Giustiniano in Par., vi, e nel secondo libro della Monarchia. Ma al di là di questi casi macroscopici, tali affinità appaiono in una trama abbastanza fitta, ancora, almeno in parte, da portare esattamente alla luce. Per fare qualche esempio, il tema del coraggio della verità, che compare nel prologo del terzo libro, è trattato in termini simili in Par., xvii (l’episodio di Cacciaguida), e richiamato in Par., x (in relazione a Sigieri). I casi di ignoranza che non provocano litigio (iii 3 2) – il geometra che non conosce la quadratura del cerchio e il teologo che non conosce il numero degli angeli – si ritrovano in forma molto simile negli ultimi canti del Paradiso (xxxiii e xxix); soprattutto nel primo dei due si penserebbe a un’immagine che Dante ha elaborato di recente e che gli piace utilizzare. L’attacco ai decretalisti di Mon., iii, ha paralleli precisi nei canti x e xi del Paradiso; quello contro chi piega ai propri interessi la lettura esegetica della Scrittura in Mon., iii 4 10, è analogo a quello di Par., xxix. Nello stesso canto si ritrova l’opposizione sole-luna all’alba del giorno dell’equinozio, un’immagine usata da Dante anche in Mon., i 11 5. La considerazione che occorre accettare per fede che il non cristiano, anche se virtuoso, non può salvarsi, perché si tratta di un elemento che fugge alla ragione (Mon., ii 7 4), è centrale nel canto xix del Paradiso. Sarebbe vano trovare un’altrettanto ricca rete di riferimento nelle altre cantiche, anche se a livello di tematiche generali naturalmente le analogie non mancano.23

23. Come si vede, di là dalle esplicite prudentissime dichiarazioni degli autori, il loro orientamento generale emerge abbastanza chiaramente. Cosí come emerge dall’altrettanto cauto atteggiamento di Capitani, che evita date precise ma osserva, Chiose minime, cit., p. 114: « sembra ormai assai probabile che la Monarchia sia stata scritta per lo meno contestualmente a certe parti del Paradiso » (ove quel « per lo meno contestualmente » apre, mi sembra, alla possibilità che sia stata scritta dopo). Cade qui opportuno ricordare anche le parole di G. Contini, Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni, 1970, p. 412: « I

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Per cominciare ad accogliere il loro invito, torniamo dunque a un caso particolare, quello del canto xvi del Purgatorio, con il discorso di Marco Lombardo (vv. 65-129), là dove sono i famosi versi 106-8:

Solea Roma, che ’l buon mondo feo, due soli aver, che l’una e l’altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo,

sempre e senza problema alcuno citati insieme al loro piú ampio conte-sto a proposito del motivo centrale della distinzione e reciproca auto-nomia dei due poteri nel iii della Monarchia. Ma i problemi ci sono, ed emergono appena ci teniamo all’interno del passo del Purgatorio e cer-chiamo di intenderlo nel miglior modo possibile. Come punto di par-tenza, possiamo prendere i versi sul libero arbitrio, 67-84, attraverso il quale l’uomo, seppur a prezzo di varie battaglie contro ciò che in lui soggiace agli influssi celesti, può affermare la sua libertà e la sua respon-sabilità. Con ciò, egli pur liberamente « disvia », e insomma esce di stra-da ingannato dai minori e falsi beni terreni (vv. 94-96):

Onde convenne legge per fren porre; convenne rege aver, che discernesse de la vera cittade almen la torre.

Ecco che le cose si complicano, o almeno, sono state complicate pro-prio dall’accostamento, per non dire appiattimento, sulla Monarchia. La Chiavacci Leonardi, nel suo commento ad l., nota infatti che nel conte-sto dantesco la « vera cittade » non è l’agostiniana “città di Dio”, ma è « la vera meta dell’uomo sulla terra, cioè quell’ideale regno di libertà e di pace al quale deve tendere l’umano consorzio sotto la guida dell’im-peratore », assunto, a norma della Monarchia, come garanzia di una fe-licità su questa terra che costituisce un obiettivo distinto e autonomo

rapporti cronologici fra Monarchia e ultima cantica possono essere simili a quelli fra Convivio e De vulgari, di approssimativa contemporaneità », citate già da Aldo Rossi che per parte sua scrive: « l’elaborazione pragmatica, della stesura scritta come si presenta ai nostri occhi, può avere recuperato quelle suggestioni pregresse [la politica ierocratica di Bonifacio VIII, e la venuta di Arrigo VII], ma è indiscutibile la concordanza di fase con il giro di pensieri che si mostra sotteso al Paradiso » (A. Rossi, Precisazioni testologiche sull’edizione oporiniana con referenze ad un nuovo codice londinese della ‘Monarchia’, in Id., Da Dante a Leonardo. Un percorso di originali, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 1999, pp. 175-80, a p. 178).

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rispetto a quello della felicità celeste. Similmente intende Giorgio In-glese nel suo piú recente commento, osservando anch’egli che qui si tratta del fine della vita terrena, e terrena sarebbe infatti la città di desti-nazione. Ma significativamente aggiunge: « Intendendosi invece che la vera cittade è la “Gerusalemme celeste” (Vandelli, ecc.) o la civitas Dei (Maccarrone, La teoria, p. 361) interverrebbero complicazioni e con-traddizioni insormontabili ».24

Ma le insormontabili contraddizioni nascono appunto quando si so-vrappongano le pagine della Monarchia a questi versi, che in effetti dico-no tutt’altro, e semmai appaiono come un pallido incunabolo di quelle. Il filo del ragionamento di Marco Lombardo è insieme chiaro e però singolarmente impreciso: rispetto al vero e giusto fine della felicità ce-leste l’uomo erra scegliendo la piú facile e promettente strada della fe-licità terrena con il corteggio del suo « picciol bene », e cosí perde di vi-sta la meta vera e si fa peccatore, e al rege tocca precisamente porgli delle regole coercitive (« legge per fren porre »), che traggono la loro legittimità dal fatto di essere ordinate a uno scopo finale che le trascen-de e che, da un limitato punto di vista sociale e civile, basta intravvedere o indovinare, cosí come una torre vista in lontananza presuppone una intera città attorno a sé. In altri termini, l’immediata funzione delle leggi e del concreto reggimento che le impone è, in questo contesto, di tipo esclusivamente negativo: è il remedium peccati, e nulla, in questi versi, allude a una possibile autonoma dimensione di felicità chiusa nell’ambito terreno. E quel verso « de la vera cittade almen la torre » indica come meglio non si potrebbe un obiettivo finale che, pur giusti-ficandola, esorbita dalla sfera di tale legge.

Del resto, se ho visto bene, diversamente dai due citati, tutti i com-mentatori hanno inteso che la « vera cittade » sia e non possa essere che la civitas Dei (con frequente e opportuno rinvio a Purg., xiii 94-95),25 es-

24. Vd. Dante Alighieri, Commedia, rev. del testo e commento di G.I., vol. ii. Purgato-rio, Roma, Carocci, 2011, p. 208, nota ad l. La menzione di Vandelli è comprensiva, come vedremo, della generalità dei commentatori, mentre l’altra citaz. riguarda M. Maccarrone, La teoria ierocratica e il canto xvi del ‘Purgatorio’, in « Rivista di Storia della Chiesa in Italia », a. iv 1950, pp. 359-98.

25. Ho usato naturalmente del comodissimo Dartmouth Dante Project (http://dante.dart-

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sendo l’espressione dantesca troppo pregnante e, di piú, essendo quella civitas evocata come necessaria a definire il senso complessivo del con-testo che non contempla, ripeto, altro tipo di alternative positive. Cosí, siamo rimandati ad Agostino, ch’è una chiave decisiva per questi versi e per i loro sviluppi. È Agostino, infatti, che spiega come la civitas Dei viva già in questo mondo quale “città” in pellegrinaggio verso la pace cele-ste ch’è l’unica meta che meriti d’essere considerata come tale (De civ. Dei, xix 17):

Utitur ergo etiam caelestis civitas in sua peregrinatione pace terrena et de rebus ad mortalem hominum naturam pertinentibus humanarum voluntatum com-positionem, quantum salva pietate ac religione conceditur, tuetur atque appetit eamque terrenam pacem refert ad caelestem pacem, quae vere ita pax est.

Ma tutto questo capitolo di Agostino è estremamente interessante e meriterebbe una sosta, perché sembra contenere in nuce la possibilità di una distinzione tra mete di felicità diverse, sulla base di una “composi-zione” tra la civitas Dei animata dalla fede e la civitas terrena che, essen-do in ogni caso composta da una “umanità plurale” fatta di razze e reli-gioni diverse, non ha bisogno di porsi una comune meta trascendente per poter del tutto legittimamente aspirare alle medesime ordinate condizioni di vita (ci si potrebbe ricordare, al proposito, degli « Asyani et Affricani omnes » di Mon., iii 14 7).26 Torniamo tuttavia al discorso di

mouth.edu/), che dà in linea tutti i piú importanti commenti: rispetto all’interpretazione corrente meriterebbe d’essere considerata a parte quella di Giovanni da Serravalle.

26. Vd. almeno l’inizio del capitolo: « Sed domus hominum qui non vivunt ex fide pacem terrenam ex huius temporalis vitae rebus commodisque sectatur; domus autem hominum ex fide viventium exspectat ea, quae in futurum aeterna promissa sunt, terrenisque rebus ac temporalibus tamquam peregrina utitur, non quibus capiatur et avertatur quo tendit in Deum, sed quibus sustentetur ad facilius toleranda minimeque augenda onera corporis corruptibilis, quod aggravat animam. Idcirco rerum vitae huic mortali necessariarum utrisque hominibus et utrique domui communis est usus; sed finis utendi cuique suus proprius multumque diversus. Ita etiam terrena civitas, quae non vivit ex fide, terrenam pacem appetit in eoque defigit imperandi oboediendique concordiam civium, ut sit eis de rebus ad mortalem vitam pertinentibus humanarum quaedam compositio voluntatum. Civitas autem caelestis vel potius pars eius, quae in hac mortalitate peregrinatur et vivit ex fide, etiam ista pace necesse est utatur, donec ipsa, cui talis pax necessaria est, mortalitas transeat; ac per hoc, dum apud terrenam civitatem velut captivam vitam suae peregrinationis agit, iam promissione redemptionis et dono spiritali tamquam pignore accepto legibus terrenae civitatis, quibus haec administrantur, quae sustentandae mortali vitae accommodata sunt,

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Marco Lombardo, che non raccoglie questo spunto e prosegue lamen-tando l’assenza di una autorità in grado di far rispettare le leggi, dal momento che, nella vacanza dell’impero,27 la Chiesa abdica al suo com-pito e si mostra interessata solo a quei beni terreni dei quali tutti sono avidi, « e piú oltre non chiede » (vv. 97-102), corrompendo il mondo con il suo pessimo esempio.28 Di qui ha origine la « mala condotta » che ha infettato il mondo, e diversamente da Roma che soleva « due soli aver », il presente vede uniti il potere terreno e il potere spirituale (la « spada » e il « pasturale »), in modo tale che entrambi (ma concretamente il di-scorso riguarda la Chiesa, non l’impero) possono impunemente trava-licare le loro rispettive competenze (« però che, giunti, l’un l’altro non

obtemperare non dubitat, ut, quoniam communis est ipsa mortalitas, servetur in rebus ad eam pertinentibus inter civitatem utramque concordia ». Ma basti l’accenno, ché troppo vasto e complesso sarebbe affrontare il grande tema delle due “città” in Agostino e, insieme, il peso di un’idea di “cittadinanza universale” di stampo romano che di per sé contempla e di fatto addirittura impone la coesistenza pacifica di culture e religioni diverse.

27. Al tempo nel quale è posta l’azione della Commedia era imperatore, dal 1298 (ma vera-mente fu consacrato tale solo nel 1303 da Bonifacio VIII) Alberto I d’Asburgo, condannato da Dante per il suo totale abbandono della missione imperiale (non mise mai piede in Italia, « ’l giardin de lo imperio » e si occupò solo del suo regno) in Purg., vi 97 sgg. Vd. anche Par., xix 115-17, e Conv., iv 3 6, ove Dante afferma di considerare Federico II « ultimo imperadore de li Romani ».

28. Possono porre qualche puntuale difficoltà d’interpretazione i vv. 98-99: « ’l pastor che procede, / rugumar può, ma non ha l’unghie fesse », che si rifà alla legge mosaica, Lev., 11 1-47, e Deut., 14 3-21, secondo la quale ci si poteva cibare solo di animali ruminanti e con l’unghia dello zoccolo bipartita, mentre gli altri erano da considerarsi impuri (come il cammello, che rumina ma non ha lo zoccolo bipartito, o il maiale, che ha lo zoccolo bipartito ma non rumina: ugualmente, si possono mangiare solo i pesci che hanno pin- ne o squame). Al proposito si cita Thom. Aq., Summa Theol, ia-iiae qu. 102 a. 6 ad 1, il quale premette che la ratio figuralis di tali interdetti sta nel designare una serie di peccati, e intende che « fissio ungulae significat distinctionem duorum Testamentorum; vel Patris et Filii; vel duarum naturarum in Christo; vel discretionem boni et mali. Ruminatio autem significat meditationem Scripturarum, et sanum intellectum earum ». Ma il senso è senz’altro quello inteso dai commentatori antichi, ben riassunto da Benvenuto da Imola: « Modo ad pro-positum vult dicere autor quod pastor modernus bene ruminat, quia habet in ore legem Dei, et plene discutit, et de rei veritate Bonifacius, qui tunc erat papa, bene sciebat leges et sanctam scripturam, et scripsit de jure canonico, sed non dividit potestatem temporalem a spirituali, imo utrumque officium confudit in unum ». Piú semplicemente, si potrebbe anche intendere che il papa, e cioè la Chiesa, « si pasce » (« raguma ») solo di beni materiali, senza mostrare alcuna consapevolezza della sua vera missione, ch’è quella di distinguere tra il materiale e lo spirituale.

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teme », v. 112), con tutte le conseguenze che sono evidenti nei frutti che se ne hanno.

La parafrasi è tutto sommato facile, ma a uno sguardo ravvicinato spiccano alcune incongruenze, o meglio alcune approssimazioni che nascono dal non essere ancora operante una lucida distinzione tra feli-cità terrena e felicità celeste, e tra le due autorità preposte a tali felicità: in altri termini, non siamo ancora alla compiuta elaborazione concet-tuale della Monarchia, e, a dire il vero, non siamo neppure al principio di distinzione e alla “concordia” già auspicata da Agostino. Sarà pure che la « spada » è unita al « pastorale », con devastanti conseguenze, ma è altrettanto vero che la « spada », a stare al testo, non avrebbe qui altra funzione oltre quella di sgomberare il cammino verso la « vera cittade », e se si allude alla vacanza dell’impero, ebbene, esso, in quanto tale, co-me istituzione terrena che agisce entro un orizzonte terreno, in questi versi non ha alcun ruolo autonomo o autosufficiente.

Si obietterà che c’è pure quella famosa terzina: « Soleva Roma [. . .] », con la chiara indicazione de « l’una e l’altra strada / [. . .] del mondo e di Deo ». Ma Dante non dice affatto che la « strada » del mondo abbia altra meta che non sia la « vera cittade », la quale è il punto d’arrivo medesi-mo dell’altra “strada”, quella di Dio. Tant’è vero che ci sono commen-tatori che si limitano a chiosare che i « due soli » che brillavano un tem-po a Roma erano quelli del papato e dell’impero, ma altri, volendo pre-cisare meglio, dichiarano qualche imbarazzo, dal momento che nell’an-tica Roma il sommo sacerdote non era certo una controparte dell’im-peratore (ma a questa situazione, quando « i sacerdoti non pretendeva-no di governare », rinvia il commento di Bosco-Reggio), e nella Roma del Medio Evo nessun altro potere stava alla pari con quello del papa.29 A meno di non restare alla chiosa di Benvenuto, alla quale si rifanno Nardi e Sapegno, pur restringendola all’epoca che precede la donazio-ne di Costantino. Scrive dunque Benvenuto, che nei « due soli » intende il pontefice e l’imperatore:

29. Vd. per es. Inglese, ad l.: « Non è facile situare in termini storici effettivi il “passato” in cui, a dire del Lombardo, Roma soleva godere dei due soli, concordemente operanti per il bene degli uomini ».

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Ita reddebant quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo, sicut patuit in Constantino et Silvestro, in Justiniano et Agapito, in Carolo Magno et Adriano: et ita postea in quibusdam Othonibus germanis, et papis romanis. Ideo bene Justi-nianus imperator ait: « Magna in hominibus sunt dona Dei a suprema collata cle-mentia, sacerdotium et imperium ». Illud quidem divinis ministrans, hoc autem humanis praesidens, ex uno eodemque principio utraque manantia,

al quale potremmo fornire il parziale, indiretto appoggio di Agostino, che in De civ. Dei, v 24-26, parla della felicità di alcuni imperatori cristiani (in sostanza, Costantino e Teodosio). Anche se, fatta salva la personale grandezza e la fede di Costantino, proprio dalle sue ottime intenzioni ebbe principio la “distruzione” del mondo (Par., xx 58-60). Per piú di un aspetto, insomma, si tratta di una mezza spiegazione, perché Dante sembra alludere a qualcosa di piú specifico rispetto ai casi in cui non ci fu conflitto ma collaborazione tra Chiesa e impero, e qualcosa, in par-ticolare, che dovrebbe essere radicato nella Roma « che ’l buon mondo feo » (con ricordo, dunque, del « buono Augusto » di Inf., i 71?). In altre parole, si direbbe che ci sia qui un’allusione alla Roma di Augusto e dei suoi successori, nella quale, per altro, l’imperatore era anche capo reli-gioso, sí che il “sole” era in effetti uno solo, e ne riusciva riprodotta a parti inverse la squilibrata mescolanza che caratterizza il presente di Dante.

A meno che, proprio alla luce dell’intero capitolo di Mon., i 16, non si voglia intendere il « solea [. . .] aver » come un “ebbe”, e intendere che la Roma di Augusto vide splendere due soli: Augusto medesimo e Cristo, realizzando cosí, nella pace universale, quella “pienezza dei tempi” che da quel momento in poi avrebbe dovuto costituire il modello piú alto e l’archetipo del doppio ordine che avrebbe dovuto governare l’umanità intera.30 Il che ci riporterebbe, tra l’altro, al famoso capitolo di Orosio, Hist., vi 12. Tutto, qui, porta dunque alla Monarchia, ma in maniera sfuocata, quasi in abbozzo, proprio perché ancora non è chiaro il prin-

30. Vd. Chiesa-Tabarroni, p. xxxvii: « La frase di san Paolo sulla “pienezza dei tempi” al momento dell’incarnazione di Cristo [Gal., 4 4], e dunque durante l’impero di Augusto, autorizzava a considerare centrale questo punto della storia », ecc. Vd. ora anche F. Fontanella, L’impero romano nel ‘Convivio’ e nella ‘Monarchia’, in « Studi danteschi », vol. lxxix 2014, pp. 39-142, alle pp. 78-83.

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cipio rigorosamente dualistico che governerà il trattato, sí che, per dirla in altre parole, Marco Lombardo lamenta una confusione senza aver prima definito con chiarezza gli elementi di per sé diversi e autonomi che si sarebbero indebitamente confusi. Mentre per contro ben diversa è la chiarezza di Dante nell’ultimo capitolo del trattato latino, Mon., iii 16 10:

Propter quod opus fuit homini duplici directivo secundum duplicem finem: scili-cet summo pontifice, qui secundum revelata humanum genus perduceret ad vi-tam ecternam, et imperatore, qui secundum phylosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret.

E quella limitazione vale anche nel caso di maggior spicco, cioè in quei « due soli », anche se la loro importanza non si può certo sottovalutare, se non altro come provocatorio punto d’approdo di un percorso che parte proprio dalla polemica di parte ecclesiastica contro chi pretende-va di fare dell’imperatore un “altro sole”.31 Senza particolare tono di polemica Clemente V, nella conciliante lettera ad Arrigo Divine sapien-

31. Vd. partic. J. Scott, I due soli di ‘Purgatorio’ xvi 107, in Dante e la scienza, a cura di P. Boyde e V. Russo, Ravenna, Longo, 1995, pp. 149-55. Scott (ivi, p. 151) rimanda a un testo, l’Adversus simoniacos, composto intorno al 1050 dal cardinale Umberto di Silva Candida, ove si legge (iii 21): « inter alia sua deliramenta et praestigia, quibus tanquam novo aucupio incautos illaqueant, patulis et avidis auribus principum mundanam potestatem maximeque imperatoriam regiamque potentiam supra modum magnificant et ecclesiasticam dignita-tem attenuant. Et quia vicissitudo est omnium rerum sub sole, ut aliquando proficiant, aliquando deficiant, secundum exteriorem profectum aut defectum ecclesiasticae causae meritum et potentiam sacerdotalis dignitatis aestimant, ut modo ei velut lunae solem saeculares potestates praeponant, modo velut soli alterum solem apponant [. . .] » (ed. F. Thaner, in Libelli de lite imperatorum et pontificum saeculis XI et XII conscripti, Hannoverae, Impensis Bibliopolii Hahniani, vol. i 1891 [« Monumenta Germaniae Historica. Scriptores »], p. 225). Ma sul tema, oltre al volume di Hageneder cit. sopra, nota 21, vd. soprattutto D. Quaglioni, « Quanta est differentia inter solem et lunam ». Tolomeo e la dottrina canonistica dei « duo luminaria », in « Micrologus », a. xii (Il sole e la Luna) 2004, pp. 395-406, e le ricchissime note a Mon., iii 4 1-3, alle pp. 1252-57 della sua edizione. Dal saggio (p. 400), cito un celebre passo del canonista Enrico da Susa, detto Ostiense (vd. Par., ix 133-36 e xii 82-85): « Quia quanta est differentia inter Solem et Lunam, tanta est inter sacerdotem et regalem dignitatem [. . .]. Que verba licet per doctores diversimode exponantur, tu tamen dic quod sicut Luna recipit claritatem a Sole, non Sol a Luna, sic Regalis potestas recipit authoritatem a sacerdotali non econtra, sicut etiam Sol illuminat mundum per Lunam quando per se non potest, scilicet de nocte: sic sacerdotalis dignitas clarificat mundum per Regalem quando per se non potest, scilicet ubi agitur de vindicta sanguinis » (Henrici Cardinalis Hostiensis Summa Aurea, iv 9, Lugduni, s.e., 1556, f. 319va). Vd. inoltre S. Ferrara Pavlovic, Dante, Cino, il sole e la luna, in

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tie del luglio 1309, che ha lasciato positive tracce in Dante (vd. Chie-sa-Tabarroni, ad iii 16 18), aveva ripreso il paragone, che ha la sua origine biblica in Gen., 1 16-18, nella forma tradizionale che vedeva la doppia equivalenza sole/Papa, e luna/imperatore, e Dante l’aveva accettato, nella chiusa dell’epistola v, del 1310, ove quello dell’impero è « splendor minoris luminaris », pur non mancando, nella prima parte (§ 3), di para-gonare l’imperatore al sole, definendolo Titan pacificus e ‘sole di giusti-zia’.

Ancora, anche se in contesto sarcastico, Dante si rifà alla medesima metafora in Ep., vi 8, dell’anno successivo, diretta agli ‘scelleratissimi Fiorentini’ accusati di voler ‘sdoppiare’, ribellandosi ad Arrigo, il potere temporale, e invitandoli dunque a ‘sdoppiare’ in parallelo anche il papa-to, sí da avere, per assurdo, due lune e due soli.32 Ma in Ep., vii 5 e 7, Ar-rigo è di nuovo « ceu Titan preoptatus exoriens », e poco avanti « sol noster », mentre in Ep., xi 21, ai cardinali italiani, scritta tra maggio-giu-gno del 1314, si deplora che Roma sia « utroque lumine destitutam ». Si direbbe, insomma, che Dante abbia cominciato da subito a ridurre la portata ideologica dell’immagine sole-luna, e che proprio attraverso il sarcasmo impiegato contro i Fiorentini sia arrivato, nel xvi del Purgato-rio, a quella dei « due soli », a proposito della quale si osservi ancora che, nel caso dell’imperatore, sole significa polemicamente ‘non-luna’, e che il rimando ai tempi della Roma « che ’l buon mondo feo », per quanto imprecisa, oltre la chiosa che poco sopra ho azzardato (Augusto e Cri-sto), punta discretamente anche sul fatto che fu proprio e solo per me-rito dell’impero e per vie provvidenziali tutte proprie che nacque e si sviluppò il « buon mondo », indipendentemente e prima che il potere papale si costituisse (vd. Conv., iv 5 8).

Anche qui, insomma, pare esserci l’abbozzo di un discorso che solo in seguito sarà posto in termini definitivi: precisamente là dove, Mon., iii 13 3, Dante sviluppa uno stretto sillogismo per dimostrare che l’auto-

« L’Alighieri », n.s., n. 25 2005, pp. 27-47 (e della stessa studiosa il saggio La métaphore solaire, già sopra cit., nota 4).

32. Epist. VI 8: « tanquam alteri Babilonii, pium deserentes imperium nova regna temptatis, ut alia sit Florentina civilitas, alia sit Romana? Cur apostolice monarchie similiter invidere non libet, ut si Delia geminatur in celo, geminetur et Delius? ».

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rità della Chiesa non è causa dell’autorità imperiale, dal momento che l’impero possedeva interamente il suo potere anche quando la Chiesa ancora non esisteva o non esercitava alcun potere.33 Il che torna a con-fermare che la Monarchia è frutto di un momento successivo, che porta a sviluppo e maturazione una serie di riflessioni che, all’altezza del can-to xvi del Purgatorio, non hanno ancora trovato una organizzazione concettuale adeguata. Per tornare a quell’immagine, sarà infatti in Mon., iii 4, che Dante, che pur continua a definire papa e imperatore come « duo luminaria magna », s’impegnerà minuziosamente a sostenere l’improprietà del paragone delle due opposte autorità con la coppia so-le-luna, e a distruggerne la portata ideologico-politica. Se vogliamo in-vece trovare un terreno finalmente comune tra Commedia e Monarchia, e in esso la possibilità di forti riscontri di sostanza, dovremo andare avanti, appunto, e arrivare, come Chiesa e Tabarroni hanno indicato, al Paradiso, e in particolare al canto vi dedicato a Giustiniano.

4. Il punto sul quale vorrei ora insistere non è tanto quello di una ge-nerale quanto indubbia corrispondenza tra la visione della storia roma-na che è nel canto vi del Paradiso e le tesi della Monarchia, corrisponden-za che andrebbe vista piú da vicino ma che credo, in questa sede, di poter dare in larga misura per scontata.34 C’è un nodo specifico, invece, che lega strettamente due momenti del discorso di Dante, e che non so se sia stato sin qui considerato. Si tratta di quanto nel canto si dice dei rapporti tra Giustiniano e papa Agapito, da una parte, e dall’altra parte delle ultime frasi della Monarchia. In un primo tempo Nardi, abbiamo

33. Mon., iii 13 3: « Quod autem auctoritas ecclesie non sit causa imperialis auctoritatis probatur sic. Illud quod non existente aut quod non virtuante aliud habere totam suam virtutem, non est causa illius virtutis; sed ecclesia non existente aut non virtuante imperium habuit totam suam virtutem; ergo ecclesia non est causa virtutis imperii et per consequens nec auctoritatis, cum idem sit virtus et auctoritatis eius », ecc.

34. Nel far ciò dovrò rimandare a una “lettura” che ne ho fatto, liberamente leggibile in rete: Il volo dell’aquila. Una lettura di ‘Paradiso’ vi, in « Chroniques italiennes », série web, n. 24 2012, fasc. 3 pp. 1-58. Non ha fatto in tempo a tenerne conto M. Leone, Il canto di Giustiniano nell’interpretazione della recente critica dantesca. Il punto sulla questione, in « Studi danteschi », vol. lxxviii 2013, pp. 345-57, mentre ne ridiscute e ne precisa alcuni elementi M. Corrado, Una nuova fonte per ‘Paradiso’, vi 12: « d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano », in « Rivista di studi danteschi », a. xii 2012, pp. 148-63. Da questi saggi si trarrà buona parte della abbondante bibl.

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visto, ha addirittura considerato le parole del trattato come una sorta di estrema ritrattazione di quanto detto in precedenza, e come un “pon-te” gettato verso la Commedia, mediante il quale « l’ordine dei rapporti tra la ragione e la fede vien ristabilito secondo un concetto teologico tradizionale ».35 Egli ha poi mutato opinione, ma resta che il punto ab-bisognava di un chiarimento, perché è pur vero che, una volta fissata senza dubbio alcuno la rispettiva autonomia dei due poteri e il loro ambito proprio, si rientrava in un terreno delicato quando si tornava, in sede di conclusione, a definire in chiave positiva il loro desiderabile e affatto ineludibile rapporto. Che non vi sia contraddizione tra quanto detto sino a quel punto e la filiale reverentia che l’imperatore, senza nul-la perdere della pienezza dei suoi poteri, deve in ogni caso al papa, non mi pare ci siano dubbi, e ora basta ricorrere alle ampie note sia di Chie-sa e Tabarroni che di Quaglioni (queste particolarmente agguerrite sul piano giurisdizionale: ma si veda anche la citata edizione di Kay) per rendersene conto, e per avere un’ampia e coerente serie di rimandi ad altri studiosi. Non è dunque il caso di insistere su cose già benissimo dette da altri,36 ma, appunto, di segnalare come il discorso condotto nella Monarchia sul piano dei princípi goda di una clamorosa, esemplare verifica storica nel canto di Giustiniano.

Subito dopo essersi presentato (« Cesare fui e son Iustinïano », vv. 10 sgg.), l’imperatore, riferendosi alla sua opera di ordinatore dei Codici, racconta (vv. 13-24):

E prima ch’io a l’ovra fossi attento, una natura in Cristo esser, non piúe,

35. Vd. sopra, nota 4. 36. Posso tuttavia ripetere il rimando a Marsilio da Padova, Defensor pacis, ii 26 4, che, nel

contesto di un’aspra difesa della piena autonomia dell’imperatore, investito di una carica che sono i grandi elettori, e solo essi, a dargli, senza che occorrano successive approvazioni e consacrazioni papali, parla anch’egli della devotio e della reverentia « sponte per Romanos principes exhibita » nei confronti del papa, che però trasforma subito tale devozione in usurpazione giuridica. Vd. la bella edizione Marsile de Padoue, Œuvres mineures: ‘Defensor minor’. ‘De translatione imperii’, texte établi, trad. et annoté par C. Jeudy et J. Quillet, avant-propos de B. Guenée, Paris, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, 1979, con vari riscontri tra Marsilio e Dante, e in generale, specie nella seconda parte, Gianluca Briguglia, Marsilio da Padova, Roma, Carocci, 2013.

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credea, e di tal fede era contento; ma ’l benedetto Agapito, che fue sommo pastore, a la fede sincera mi dirizzò con le parole sue. Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era, vegg’ io or chiaro sí, come tu vedi ogni contradizion e falsa e vera. Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, a Dio per grazia piacque di spirarmi l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi.

L’auto-rappresentazione messa in bocca a Giustiniano si articola attor-no a tre nuclei: l’ortodossia religiosa raggiunta attraverso l’abbandono di precedenti posizioni eretiche; l’attività di legislatore;37 l’attività belli-ca affidata a Belisario. I tre nuclei sono tuttavia unificati nel segno del favore divino mediato dall’ossequio alla Chiesa per quanto riguarda le verità di fede, favore che da un lato gli ha ispirato l’opera legislativa, e dall’altro ha garantito le vittorie militari. In questo percorso, e nella logica della costruzione dantesca, il momento della conversione dell’imperatore alla vera fede è posto come momento preliminare e fondante non solo di per sé, ma anche e soprattutto per il suo contenuto e i suoi specifici effetti.

La prima cosa che Giustiniano afferma è d’essere stato mosso dallo Spirito Santo (il « primo amor » del v. 11, cfr. Inf., iii 6) a mettere mano al riordinamento legislativo; subito dopo egli precisa che una sorta di pre-condizione per tale epocale opera di riordino è stata la sua conver-sione dall’eresia monofisita alla vera fede, e ancora in rapida, diretta successione conferma che della verità di tale fede la sua condizione di

37. Richiamo per comodità pochissimi dati: il programma legislativo di Giustiniano produsse nel 529 un’opera che raccoglieva le costituzioni imperiali a partire da Adriano, il Codex Iustinianus del quale è giunto a noi solo un indice. Nel 533 furono pubblicate le Institutiones, un manuale in quattro libri, e il Digesto, o Pandette, collezione degli iura che raccoglie la dottrina dei giuristi romani dall’età classica in poi. Nel 534 fu approntata una edizione rivista del Codex, il Codex repetitae praelectionis, in dodici libri. Infine, Giustiniano raccolse le leggi da lui emanate dal 535 al 565 nella raccolta delle Novellae. Tale legislazione entrò in vigore in tutte le regioni dell’impero: la sua osservanza in Italia fu ribadita da Giustiniano con la Pragmatica sanctio dell’agosto 554, promulgata dietro richiesta di papa Vigilio.

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anima beata gli porge ora inoppugnabile testimonianza. E, continua Giustiniano, solo dal momento in cui si è mosso in pieno accordo con la Chiesa (« Tosto che con la Chiesa mossi i piedi », v. 22), Dio l’ha ispira-to nel suo « alto lavoro », e contemporaneamente con il suo favore ha assicurato la vittoria alle campagne militari di Belisario. Non c’è insom-ma nulla in questi versi che sfugga all’« ombra delle sacre penne », che nel caso non sono quelle dell’aquila, ma quelle della Chiesa. Ma allora, è vero o no che tali versi modulano in maniera diversa il rapporto tra l’impero e la Chiesa quale è definito nella Monarchia?

A prima vista e con giudizio assai superficiale si direbbe di sí. Ma una tale lettura è del tutto infondata. Giustiniano passa dall’eresia monofi-sita alla ortodossia delle due nature, ove l’integrazione della natura umana accanto a quella divina è precisamente quella che fa di Cristo un civis romano soggetto in tutto e per tutto alle leggi dell’impero (vd. Purg., xxxii 102). Ciò da un lato ridà tutto lo spazio che le compete alla dimensione umana e terrena della civilitas, e dunque alla politica nella pienezza delle sue accezioni, e dall’altro costituisce l’elemento indi-spensabile per dare legittimità giuridica alla condanna di Cristo, con-creto rappresentante dell’intero genere umano, come Giustiniano stes-so spiega nel corso del canto, vv. 88-90, e come chiosa benissimo Mon., ii 11 5.38 La natura umana di Cristo è precisamente ciò che ne fa un sud-dito dell’impero, e sul piano giuridico legittima la sua condanna: né, come ha scritto Mariotti, « è pensabile una prerogativa piú alta concessa da Dio all’impero romano di quella rappresentata dalla condanna di Cristo ».39 In altri termini, la legittimità della giurisdizione imperiale

38. « Si ergo sub ordinario iudice Cristus passus non fuisset, illa pena punitio non fuisset. Et iudex ordinarius esse non poterat nisi supra totum humanum genus iurisdictionem habens, cum totum humanum genus in carne illa Cristi [. . .] puniretur » [‘Se Cristo non fosse stato condannato da un giudice ordinario, la sua pena non sarebbe stata una punizione. E il giudice non poteva essere ordinario se non in quanto avente giurisdizione sopra tutto il genere umano, dal momento che nella carne di Cristo era tutto il genere umano ad essere punito’]. Ma vd. tutto il precedente cap. 10; Ep., vii 3, e Orosio, Hist., vi 6-7, al quale Dante, come sopra s’è accennato, si ispira. Sul passo della Commedia, vd. L. Marcozzi, Canto vi. Il processo al presente, in Cento canti per cento anni, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, vol. iii. Paradiso, Roma, Salerno Editrice, 2015, to. i pp. 161-99, alle pp. 182-86.

39. Cosí, assai giustamente, S. Mariotti, Il canto vi del ‘Paradiso’ (1972), in Id., Scritti medievali e umanistici, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1976, pp. 87-113, a p. 99.

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“copre” perfettamente, nella sua autonomia e compiutezza, la condan-na di Cristo, e nella visione di Dante, che Giustiniano rende esplicita, non c’è nulla che mostri con maggior chiarezza le prerogative e la fun-zione universale dell’impero, che non può in alcun modo essere confu-sa con la legge religiosa, che non ha alcun valore giuridico (per Marsi-lio, ricordiamo, la Chiesa non ha neppure il diritto di punire gli eretici, che solo nell’aldilà subiranno quanto meritano). Lungo questa via è del tutto coerente che Giustiniano esalti « non piú il valore del diritto og-gettivamente inteso, quanto piuttosto la funzione del legislatore, me-diatore fra l’aequitas di un ordinamento ideale superumano [. . .] e l’or-dinamento positivo », come mostra la trasposizione all’inizio di Cod. Just., i 14 1 (p. 102 Krueger), di una costituzione contenuta nel codice Teodosiano: « Inter aequitatem iusque interpositam interpretationem nobis solis et oportet et licet inspicere ».40 Il supremo ruolo del monarca quale sola e unica fonte del diritto in quanto solo e unico rappresentan-te della giustizia divina in terra è sancito anche altrove. Nelle prime ri-ghe della lettera al suo grande giurista Triboniano che fa da prologo al Digesto Giustiniano scrive:

Deo auctore nostrum gubernantes imperium, quod nobis a caelesti maiestate traditum est, et bella feliciter peragimus et pacem decoramus et statum rei publi-cae sustentamus: et ita nostros animos ad dei omnipotentis erigimus adiutorium, ut neque armis confidamus neque nostris militibus neque bellorum ducibus vel nostro ingenio, sed omnem spem ad solam referamus summae providentiam trinitatis: unde et mundi totius elementa processerunt et eorum dispositio in or-bem terrarum producta est.41

40. ‘Tra la giustizia e il diritto solo noi dobbiamo e possiamo decidere quale sia la mediazione interpretativa’ (vd. G.G. Archi, Giustiniano legislatore, Bologna, Il Mulino,1970, pp. 86 sgg.).

41. ‘Governando secondo la volontà di Dio il nostro impero che la celeste maestà ci ha affidato, conduciamo vittoriosamente le guerre, esaltiamo la pace e provvediamo alla conservazione dello stato. Per questo abbiamo innalzato i nostri cuori per aprirli all’aiuto di Dio onnipotente, sí che non confidiamo né nelle armi né nei nostri soldati e nei loro condottieri né nel nostro ingegno, ma riponiamo ogni speranza nella sola provvidenza dell’altissima Trinità dalla quale procedono gli elementi dell’universo e la loro disposizione nel mondo’. Anche altrove, naturalmente, le vittorie militari sono attribuite al favore divino: vd. per es. nella lettera prefatoria alle Institutiones, diretta alla ‘gioventú desiderosa di leggi’ (« cupidae legum iuventuti »), ove si accenna al § 1 alle vittorie assicurate dal « caelesti numine ».

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E si veda ancora, per l’ispirazione divina che ha guidato l’opera (dopo aver osservato la forte analogia di pensiero che corre tra le ultime paro-le del passo appena citato e quelle riferite sopra di Mon., iii 15 12: « qui totalem celorum dispositionem presentialiter intuetur »), come la Const. Tanta affermi che l’impresa non era « humanae vero imbecillitati nullo modo possibile. Nos itaque more solito ad immortalitatis respexi-mus praesidium et summo numine invocato deum auctorem et totius operis praesulm fieri optavimus » (anche Triboniano del resto ha opera-to con l’aiuto divino, « numine caelesti »).42 Ed è precisamente di qui che Giustiniano può tornare piú e piú volte a rivendicare l’essenziale ruolo della maestà imperiale, come dichiara per esempio, in maniera molto forte, ancora nel titolo de legibus, Cod. Just., i 14 12 (p. 104 Krueger), ove si legge:

Quid enim maius, quid sanctius imperiali est maiestate? Vel quis tantae superbiae fastidio tumidus est, ut regalem sensum contemnat, cum et veteris iuris condito-res constitutiones, quae ex imperiali decreto processerunt, legis vicem obtinere aperte dilucideque definiunt? [. . .] Definimus autem omnem imperatoris legum interpretationem sive in precibus sive in iudiciis sive alio quocumque modo factam ratam et indubitatam haberi. Si enim in praesenti leges condere soli impe-ratori concessum est, et leges interpretari solum dignum imperio esse oportet [. . .] tam conditor quam interpres legum solus imperator iuste existimabitur, ecc.43

E, aggiungiamo pure, se torniamo ora alla strettissima consonanza tra i vv. 88-90 del canto vi e la parte corrispondente del trattato latino nel definire in termini nuovi e sorprendenti quell’elemento portante del ragionamento dantesco che s’avvolge attorno all’essenza squisitamen-

42. ‘in alcun modo possibile alla debolezza umana. Come sempre Noi ci siamo rivolti al presidio dell’immortalità e avendo invocato il sommo Iddio abbiamo voluto che fosse l’autore e il supervisore di tutta l’opera’.

43. ‘Cosa c’è di piú grande e di piú santo della maestà imperiale? chi è talmente gonfio di tanta superbia da non tenere in conto il giudizio regale, quando anche i fondatori del diritto antico definiscono in modo aperto e chiaro che le costituzioni provenienti dal decreto imperiale hanno valore di legge? [. . .] Stabiliamo dunque che ogni interpretazione della legge da parte dell’imperatore, sia nelle suppliche come nei giudizi o resa in qualsiasi altro modo, deve essere considerata valida e indubitabile. Se al presente emanare leggi è concesso unicamente all’imperatore, è anche necessario che egli solo sia degno di interpretarle [. . .] sarà giudicato giusto che solo l’imperatore sia autore e interprete delle leggi’.

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te giuridica della condanna di Cristo, non si può che pensare, di nuovo, a un momento speculativo al quale probabilmente sbaglieremmo a vo-ler assegnare una data precisa, ma che possiamo tranquillamente ravvi-sare nella stagione stessa che ha visto la scrittura del Paradiso.

5. Nonostante tutto quello che è già stato scritto, sono certo che an-cora si debba andare molto avanti nel lavoro di ricucitura tra il Paradiso e la Monarchia, magari a partire proprio dalla mezza pagina di messa a punto nell’introduzione di Chiesa e Tabarroni. Ripetendo ancora una volta che, data la natura del trattato, appare molto piú importante il percorso di pensiero e l’orizzonte concettuale che ne è scaturito, anche se può darci solo delle indicazioni temporali di massima, rispetto all’ag-gancio a fatti precisi che, tutti insieme, sono stati certamente determi-nanti come momenti d’esperienza ma che sono inutilizzabili se preten-diamo di usarli per inchiodare la stesura dell’opera a una data precisa. Ma è il momento di concludere, e non lo si può fare se non rinviando all’insieme delle considerazioni raccolte e sviluppate da Furlan (in par-ticolare alle pp. xxx-xxxiv della sua introduzione), e però soffermandoci ancora una volta sull’inciso di Mon., i 12 6, che tante discussioni ha pro-vocato: « sicut in Paradiso Comedie iam dixi », che rimanda a Par., v 19-24. Per dire, prima di tutto, che una volta che si riconosca non dico la certezza ma anche solo la possibilità di una larga coincidenza tempora-le della Monarchia con il Paradiso, della quale molti prima di me si sono mostrati convinti e io con loro,44 davvero non si capisce come lo si possa espellere dal testo con una pratica che è stata giustamente definita di « vandalismo filologico ».45

44. Vd. sopra, nota 23. Tra i molti, resta per me significativo il giudizio, basato su quanto dimostrato dalla Shaw, di un esperto del pensiero dantesco come P. Falzone Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel ‘Convivio’ di Dante, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 255, per il quale la Monarchia « appartiene di sicuro all’ultimo periodo della vita di Dante ».

45. Cosí M. Palma di Cesnola, Questioni dantesche. ‘Fiore’, ‘Monarchia’, ‘Commedia’, Ra-venna, Longo, 2003, pp. 43-62. Lo studioso, per parte sua, alza alquanto la data del Paradiso, e data la Monarchia all’ottobre 1314 (vd. la discussione con lui in Fenzi, È la ‘Monarchia’ l’ultima opera di Dante?, cit., pp. 222-25). Poco diversamente, già Contini scriveva che, circa la data della Monarchia, « per una data piú tarda parla la citazione del Paradiso (si tratta del canto v) fatta nel i libro, e della quale ci si sbarazza troppo a buon mercato espungendola come una presunta interpolazione ulteriore » (Letteratura italiana delle origini, cit., p. 412).

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L’ipotesi della sua cancellazione, dinanzi alla sua ormai conclamata presenza nell’archetipo e di qui nella stragrande maggioranza dei ma-noscritti, anche in rami diversi della tradizione, non è in alcun modo sostenibile, e non è dunque il caso di almanaccare sul vuoto per puro partito preso con considerazioni che potrebbero valere allo stesso mo-do per qualsiasi frase della Monarchia. Confesso, insomma, di trovare insieme superficiali e poco corrette le ripetute affermazioni che suona-no, piú o meno: “sí, c’è quell’inciso, ma si sa, filologicamente è sospet-to, o inattendibile [. . .]”, e cosí via, che dilagano come quel tale “venti-cello” della calunnia. Ma perché mai calunniarlo cosí? Non vedo neppu-re l’ombra di una ragione per sostenere qualcosa di simile se non, come ho detto, in una preconcetta idea della cronologia del trattato che urti in maniera inconciliabile con quelle parole. Ho letto persino che sareb-be qualcosa di estraneo allo stile o all’uso di Dante. Non è vero, ché anzi suona perfettamente dantesco e quasi impossibile da immaginare in bocca o nella penna d’altri, mentre l’altro trattato latino di Dante, il De vulgari eloquentia, è pieno, letteralmente pieno, ad apertura di pagi-na, di ut diximus, ut superius dictum est, ut dixi e simili: insomma, come che sia, il valore probatorio di una simile affermazione è uguale allo zero. Ed è in generale vero il contrario, perché non c’è che Dante capa-ce di essere in ogni momento totalmente presente a se stesso, e capace di interpretare se stesso, di mettersi in prospettiva (non solo nella prosa, ma anche nella lirica, come in Amor che nella mente, vv. 73-74: « Canzone, e’ par che tu parli contraro / al dir d’una sorella che tu hai »).46

Il rimando che quelle parole istituiscono, poi, con Par., v 19-24, a pro-posito del libero arbitrio, è perfettamente calzante, come non si può mancare di osservare. Nel Paradiso, infatti, « viene espresso, in forma sin-tetica e poetica, ma con parole di evidente e profonda affinità, il medesi-mo concetto ». Cosí Chiesa e Tabarroni, p. lxi, che però aggiungono:

Non si può fare a meno di notare, però, che nonostante l’ottimo livello di attesta-zione l’inciso presenta degli elementi sospetti. Molto curiosa, ad esempio, è la presenza della parola iam, che avrebbe senso in un rimando interno, ma non si spiega con riferimento a un altro testo (come se si volesse istituire “apposta” una

46. Ma ancora, per es., Conv., iii 1 1 e 5 10; Par., xi 25-26 e xiii 46-47, ecc.

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ancora sulla data della monarchia

cronologia relativa); un’autocitazione di questo genere, in un passo argomentati-vo, appare stonato; un rimando a un’opera che non è un’auctoritas scientifica sembra fuori luogo in un trattato come la Monarchia.

Ma possiamo benissimo giocare a rivoltare queste parole nel loro con-trario. Infatti: chi se non Dante avrebbe potuto sottolineare un caso, magari ai suoi occhi specialmente interessante, di cronologia relativa? dove, se non all’interno di un passo di tipo argomentativo, è piú natura-le il rimando a un’argomentazione del tutto analoga? e infine, che senso ha dire che per Dante il suo Paradiso fosse un testo privo di auctoritas scientifica? Mi scuso per qualche minima intemperanza polemica, ma a provocarla è paradossalmente l’alta stima che i due studiosi meritano, e la qualità eccellente della loro edizione. Il fatto è che essi paiono essersi intimiditi o addirittura spaventati dinanzi al caso presente, tant’è che, a parer mio, sono in contraddizione con se stessi, visto che nella nota ad l. significativamente osservano:

Il passo del Paradiso corrisponde con molta precisione a quanto Dante scrive qui: la libertà è un dono di Dio, anzi è il dono piú grande, in quanto è condiviso con le creature intellettuali, e con esse soltanto. Dal punto di vista tematico, il nesso che lega questo capitolo con la terza cantica è di importanza cruciale: solo attraverso la concezione qui esposta del libero arbitrio è possibile fondare l’orizzonte etico che fa da sfondo al Paradiso, il cui soggetto nel senso letterale, secondo Ep., xiii 33, è lo status animarum beatarum post mortem, cioè lo stato dopo la morte di quelle anime beate (bene hinc abeuntes) di cui qui si spiega come, pur non potendo piú peccare, mantengono « de la volontà la libertate ».

Non si può non essere d’accordo, glossando semmai che « cruciale », detto di quel nesso tematico, vuol dire che si tratta di un nesso caldo, attivo, a dispetto di quel iam. E chissà non sia per niente casuale un ri-mando cosí preciso e diretto a un canto, il v, che è nella medesima “zo-na” del canto vi, tra cielo della Luna e cielo di Mercurio, al quale la Mo-narchia è specialmente legata. Ma, appunto, essi hanno finito per sce-gliere una soluzione testuale che di quella timidezza è lo specchio, la-sciando l’inciso a testo, ma tra parentesi quadre, riversando sul lettore l’imbarazzo della scelta. Meglio allora, davvero, toglierlo del tutto!47

47. Al proposito aggiungo una testimonianza che mi era sfuggita, contraria a quell’inciso.

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A questo punto, infine, per concludere anche se provvisoriamente un discorso destinato a durare ancora per molto, non è possibile non dire della soluzione offerta nella sua edizione da Diego Quaglioni. Rias-sumendo rapidamente e rinviando per piú minuziose precisazioni ai saggi citati: un manoscritto londinese, Add. 6891 della British Library (Y), rimasto sconosciuto al Ricci, è stato descritto da Aldo Rossi, e da lui apparentato a due codici, il lucchese della Bibl. Capitolare Feliniana 224 (F), e il Pal. Lat. 1729 della Vaticana (P). Poi, neppure la Shaw l’ha preso in considerazione per la sua edizione critica del 2009, ma due anni dopo l’hanno minuziosamente analizzato sia Diego Quaglioni che la Shaw medesima, collocandolo entrambi all’interno del sottogruppo beta 2, individuato già da Ricci nella sua precedente edizione critica del 1965, formato da un altro Additional, il 28804 (N), e dai due indicati sopra, F e P.48 Quaglioni non condivide, tuttavia, il giudizio già di Ricci che il sottogruppo beta 2 sia formato da manoscritti particolarmente scorret-ti, ed è convinto che la loro posizione stemmatica vada completamente riconsiderata. La questione è certo delicata e importante, ma per quan-to ci riguarda egli si è fermato sull’inciso di i 12 6, che Y, f. 4r, dà in forma aberrante. Non dunque sicut in Paradiso Comedie iam dixi, ma sicut inmi-nuadiso immediate iam dixi (ove -adiso è scritto in lettere leggermente piú grandi della norma). Di fronte a ciò, il comportamento dei manoscritti affini è il seguente: P sicut [spazio vuoto] Comedie iam dixi; F sicud in [spazio vuoto in fine riga corrispondente alla parte mancante]; N sicut in paradiso Comedie iam dixi,49 il che ha facilmente convinto prima Aldo

Vedo ora, infatti, che G. Holmes, Dante’s Attitude to the Popes, in Dante and Governance, ed. by J.R. Woodhouse, Oxford, Clarendon Press, 1997, pp. 46-57, a p. 48, resta dell’idea che l’autocitazione posa essere « a natural addition for a copyst who knew Paradiso », e che gli riesce difficile pensare che la Monarchia appartenga agli ultimi anni di Dante.

48. Vd. Rossi, Precisazioni testologiche, cit., pp. 175-80; D. Quaglioni, Un nuovo testimone per l’edizione della ‘Monarchia’ di Dante: il Ms. Add. 6891 della British Library, in « Laboratoire italien », a. xi 2011, pp. 231-80 (http://laboratoireitalien.revues.org/595); Prue Shaw, Un se-condo manoscritto londinese della ‘Monarchia’, in « Studi danteschi », vol. lxxvi 2011, pp. 223-63. Per l’individuazione del gruppo beta, vd. Ricci, intr. alla sua ed. cit., pp. 67-72.

49. Vd. G.P. Renello, A proposito della ‘Monarchia’. Note in margine al ritrovamento del ms. Additional 6891, in « L’Alighieri », n.s., n. 41 2013, pp. 115-56, partic. alle pp. 118-27. Nonostante la divergenza, Renello è molto aperto alle ipotesi di Quaglioni circa l’importanza di Y. Vd. già Id., L’edizione critica della ‘Monarchia’, in « Italianistica », a. xl 2011, fasc. 1 pp. 141-80. Merita attenzione l’opinione di Renello che la lezione “corretta” di N, a fronte delle lacune di FP e

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Rossi e poi la Shaw che si tratti di un tipico caso di diffrazione in praesen-tia (uno dei testimoni, N, ha la lezione corretta) che suona come sicura conferma della lezione per dir cosí normale. Diversamente, Quaglioni in un primo momento, nello studio piú ampio dedicato al manoscritto, ha azzardato (parola sua) quanto poteva stare a monte del testo di Y: sicut in inmu‹tabilibus voluntatibus in par›adiso immediate iam dixi, non accettato da Gian Paolo Renello che ha studiato il caso finendo per par-te propria per proporre: sicut item in Paradiso Comedie iam dixi(t), ove l’ipotesi della terza persona del verbo serve a lasciare aperta la possibili-tà di una glossa penetrata nel testo. Finalmente, nel 2014 Quaglioni in collaborazione con Annalisa Belloni ha proposto una nuova spiegazio-ne del pasticcio di Y, immaginando la sua origine da un sicut inmissum a Domino inmediate iam dixi, frase da lui messa senz’altro a testo nell’edi-zione mondadoriana dello stesso anno, sostenendo con speciale forza di convinzione che proprio questa sarebbe stata la lezione originale, mentre la versione diciamo cosí “vulgata” sarebbe solo un « arbitrario tentativo di emendare parole mal lette già dai primi copisti ».50 E que-sto, tra l’altro, sarebbe da solo un elemento capace di nobilitare la testi-monianza di Y che unico conserverebbe traccia della lezione corretta, e di conferirgli, in prospettiva, un nuovo posto nello stemma codicum.

Ora, l’ipotesi di Quaglioni appare piuttosto spericolata, e stemmati-camente insostenibile dal punto di vista della pratica ecdotica persino nel caso che Y non avesse il pasticcio che ha, ma proprio la lezione rico-struita, che non può essere messa a testo e data come cosa sicura. Né si può dire che la lezione di Y non sarebbe quella che effettivamente si legge nel manoscritto, ma quella ricostruita con evidenti forzature an-che sul piano paleografico, o dichiarare che l’inautenticità dell’inciso sarebbe ormai dimostrata da Casadei (Casadei legittimamente esprime il proprio parere avverso all’inciso, e per contro torna a rimotivare nel

del pasticcio di Y sia frutto di contaminazione (A proposito della ‘Monarchia’, cit., p. 118), anche se pare improbabile, dinanzi alla massa di lacune ed errori del codice, che sia stata messa in atto solo in questa circostanza.

50. Vd. A. Belloni-D. Quaglioni, Un restauro dantesco: ‘Monarchia’ i xii 6, in « Aevum », a. lxxxviii 2014, pp. 493-501. Vd. anche la Nota al testo dell’edizione mondadoriana cit., pp. 889-90.

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miglior modo possibile, dal suo punto di vista, il nesso tra la Monarchia e la discesa di Arrigo VII). Di piú, l’emendamento suona male. L’auto-citazione rimane: « ut dixi », ma non ci è spiegato a cosa precisamente si riferisca. Forse a quel « a Deo collatum », a cui immediatamente segue la brutta ripetizione « inmissum a Domino »? La frase intera (a mio pa-rere, s’intende) per piú versi non sta in piedi. Ma, una volta dichiarato il mio forte disaccordo e l’impossibilità di accettare la nuova lezione, non voglio insistere, e spero invece che il nodo costituito dalla classificazio-ne e ordinamento dei manoscritti continui a sollecitare l’acribia degli studiosi, e di Quaglioni prima di tutti, visto che proprio qui potrebbe celarsi qualche elemento di novità, e la possibilità di certezze piú larga-mente condivise.51

51. In una comunicazione privata, della quale di tutto cuore lo ringrazio, come anche dell’autorizzazione assai cortese a riprodurla almeno in parte, Quaglioni ha ribadito le sue convinzioni, puntualizzando che la Shaw, che ignorava l’esistenza del manoscritto, non fa che ripetere la sistemazione di Ricci « che declassò la famiglia beta 2, cui appartiene anche Y, senza però riuscire a giustificarne la posizione stemmatica. Qui sta uno dei punti che piú mi preme di chiarire: né il Feliniano né il Palatino, né tanto meno Y sono dei deteriores. E in ogni caso la loro posizione nello stemma deve essere radicalmente riconsiderata. Io ho un’ipotesi molto diversa da quella di Ricci, che continua ad essere accolta dalla Shaw, sia pure con l’illusoria modifica dello schema, che da bifido diviene trifido, suggerendo la possibilità di una costituzione meccanica del testo. Bisogna ripartire dal guasto testimoniato dai codici beta 2 e dalla princeps (edizione umanistica e non semplice testimone, certo, ma pur sempre portatrice di varianti tipiche che l’apparentano a beta 2) ». Quanto al pasticcio di Y, esso « è in realtà il frutto di una attentissima trascrizione di un “pasticcio” che, caso mai, era nel suo antigrafo, e che ha generato le lacune e la successiva “invenzione” dell’autocitazione del Paradiso », per concludere, infine: « Avrei dovuto essere piú prudente? Ma certo, soprattutto se per prudenza s’intende il desiderio, legittimo, di mettersi al riparo dalle critiche, inevitabili quando si metta in discussione un punto cosí delicato. Ho a lungo esitato, prima di decidermi. Potevo semplicemente congetturare la lezione “originaria” dell’antigrafo di Y e dei suoi fratelli, senza metterla a testo, limitandomi a racchiudere fra parentesi quadre l’inciso di Monarchia, i 12. Ma questa soluzione mi è apparsa infine timida, e vi ho rinunciato dopo averne discusso a lungo con Annalisa Belloni. La mia scelta potrà apparire temeraria (non “azzardata”, ché azzardata, nel senso del rischio insito in ogni ipotesi ricostruttiva su base congetturale, era la divinatio nella provvisoria trattazione di « Laboratoire italien »). Ma finché non si mostrerà con argomenti strettamente ecdotici e paleografici che sono in errore, non vedo ragioni per alcuna retractatio ». Quanto all’impostazione generale del discorso, Quaglioni rovescia il rapporto anche per lui evidente tra Paradiso e Monarchia, giudicando « che sia la Monarchia a racchiudere un complesso di motivi che Dante espanderà nel Paradiso ». Devo dire, infine, che anche con Casadei c’è stato un fitto e altrettanto cortese scambio di opinioni di cui lo ringrazio, che non ci ha indotto a mutare le rispettive convinzioni ma si è rivelato in ogni caso interessante e utile.

INDICE

Premessa v

Bibliografia dantesca di Enrico Malato ix

Tabula gratulatoria xix

StudI dAnteSChI OFFeRtI A enRICO mALAtO

Gianfranco Ravasi, « un nugolo di testimoni » 3Roberto Antonelli, da ‘Vita nuova’, xvi 6 al frammento berga-

masco e ritorno 7Guido Arbizzoni, Appunti su traduzioni latine ottocentesche del-

la ‘Commedia’ 21Marco Ariani, ‘Adulescentes in bivio’: il simbolo pitagorico tra

dante, Petrarca e Boccaccio 37Luca Azzetta, tra gli amici e i cultori di dante: documenti per

Francesco da Barberino, Lapo Gianni, Andrea Lancia 61Guido Baldassarri, “Antidantismi” nel tasso 73Alessandro Barbero, dante e il medioevo nell’impresa di Fiume 87Bruno Basile, Victor hugo e dante: due postille e un documento 97Lucia Battaglia Ricci, Immagini piene di senso. Varianti d’auto-

re: dante e l’immaginario visivo 113Francesco Bausi, L’ospite d’inverno. Variazioni petrose 127Concetta Bianca, Intorno a dante: Alessandro Astesi e Pio II 147Gerardo Bianco, Per enrico malato 155Corrado Bologna, « La navicella del mio ingegno »: dante, nuo-

vo Orfeo « nel casser de la mente » 161Lina Bolzoni, L’albero dei peccati: qualche nota su ‘Inferno’, xi 191Giancarlo Breschi, L’epistola dedicatoria della Raccolta Arago-

nese. edizione critica 201Francesco Bruni, Le due vie: allegoria dei poeti e allegoria dei

teologi (ancora su ‘Convivio’, ii 1) 221Massimo Cacciari, I classici di Zanzotto 239

937

indice

938

Corrado Calenda, Reticenza e allusione: strategie comunicative dell’autore e attese del lettore sulla soglia della ‘Vita nuova’ 247

Floriana Calitti, Il foscoliano parallelo fra dante-Petrarca 255Luciano Canfora, Il nobile castello 271Franco Cardini, Il Saladino: un eroe per l’europa cavalleresca e

per l’Occidente umanistico 277Vittorio Celotto, Per l’edizione critica dell’‘Ottimo Commento’:

specimen delle chiose al primo canto del ‘Paradiso’ 293Massimiliano Corrado, una « disgraziata fatica »: vicende edi-

toriali del commento dantesco di Vittorio Rossi attraverso lettere inedite (con edizione critica del testamento olografo) 317

Nicola De Blasi, « Quello pane orzato »: la misericordia e il vol-gare 349

Arturo De Vivo, Fetonte in volo da Ovidio a dante 363Enrico Fenzi, Ancora sulla data della ‘monarchia’ 377Giulio Ferroni, Ancora sul punto (e il cerchio) 411Luciano Formisano, Ancora su dante e Rutebeuf: a proposito di

‘Inf ’., xxi-xxii 427Giovanna Frosini, « Luce nuova, sole nuovo » (con qualche nota

su malebolge) 439Giuseppe Galasso, tre note su dante e gli Svevi 455Claudio Gigante, dante e il tesoro della montagna. nota su

‘Conv’., iv 11 8 473Marco Grimaldi, L’anniversario di Beatrice 479Massimiliano Malavasi, del buon uso della superbia: una nota

sui rilievi di ‘Purgatorio’, x 493Luca Marcozzi, I ritratti dei Sanseverino nel commento figurato

alla ‘Commedia’ di Antonio Grifo 507Valerio Marucci, Come dante utilizza i classici 519Antonio Marzo, Le tre edizioni del commento alla ‘Commedia’

del p. Pompeo Venturi 529Paolo Mastandrea, Voli folli e voli audaci (ulisse, epicuro e Co-

lombo): traiettorie di una metafora 543

939

indice

Adriana Mauriello, I peccati capitali nella novellistica tra XV e XVI secolo: schede di lettura 573

Andrea Mazzucchi, « e questo fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me » (Vn, iii 14). Paralipomeni sugli antichi commenti alla ‘Commedia’ 589

Maria Luisa Meneghetti, Come lavorava Antonio Grifo: ancora sulla decorazione (e la data) dell’incunabolo della Casa di dante in Roma 611

Francesco Montuori, Per un accessus lessicale ai canti della ‘Commedia’: ‘Par’., xvii 621

Paolo Orvieto, dante nel romanzo di fiction letteraria 665Matteo Palumbo, Inferno, Purgatorio e Paradiso secondo Boccac-

cio 681Manlio Pastore Stocchi, Il raggio riflesso: noterella su ‘Purga-

torio’, xv 16-23 697Ciro Perna, Le postille autografe di Andrea Lancia alla ‘divina

Commedia’ (ms. new York, morgan Library & museum, m676) 707Carlachiara Perrone, dante in giallo: nuove vesti per un classi-

co ne ‘I delitti della medusa’ di Giulio Leoni 727Marco Petoletti, Romeo di Villanova (‘Par’., vi 127-42) e l’evan-

gelico « vilicus iniquitatis » 747Donato Pirovano, « Contra questo avversario de la ragione »:

dante, ‘Vita nuova’, xxxix, e Guido Cavalcanti, ‘Rime’, xv 755Giovanni Polara, note di lettura alla corrispondenza bucolica fra

Giovanni del Virgilio e dante 769Paolo Procaccioli, Scrivere a dante nel Cinquecento: la lettera

di niccolò Franco 783Eugenio Ragni, dall’eterno al tempo (quasi una fantasia) 797Emilio Russo, Altre tessere ariostesche (e dantesche) per la ‘Libe-

rata’ 815Antonio Saccone, « non è un poeta moderno »: dante “esposto”

da montale 827Luca Serianni, Riflessi danteschi nella poesia di fine Ottocento 847

indice

940

Pasquale Stoppelli, ‘Se Lippo amico, lo meo servente core’ e il codice Bardera 861

Andrea Tabarroni, dante e marsilio: due vie alla naturalizzazio-ne della politica 877

Carlo Vecce, « dietro a le mosche, et altri dietro a i grilli »: varia-zioni sul limbo dei fanciulli 891

Indici

Indice dei nomi 905Indice delle tavole 934

BERTONCELLO ARTIGRAFICHE35013 cittadella (padova) - via tito livio 4 -

tel. 049-5970920 - fax 049-5975728e-mail [email protected]

Dic

embr

e 20

15