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Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma

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LA COMPAGNIADI GESÙ

collana a cura di

michela catto

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Il Sole 24 ORE collectionDirett ore responsabile: Roberto NapoletanoIl Sole 24 ORE S.p.A. - Via Monte Rosa, 91 - 20149 MilanoRegistrazione Tribunale di Milano numero 78 del 22/02/2010

Sett imanale N. 15/2014 Tutt i i diritt i di copyright sono riservati.Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge. 

Da vendersi solo ed esclusivamente in abbinamento al quotidiano “Il Sole 24 ORE”.I numeri arretrati possono essere richiesti dirett amente al proprio edicolante di fi ducia al prezzo di copertina. Finito di stampare nel mese di sett embre 2014 presso Grafi ca Veneta S.p.A. – Via Malcanton, 2 – 35010 Trebaseleghe (PD)

© 2014 24 ORE Cultura S.r.l., Milano

In copertina Ritratt o di Roberto Bell armino.© 2014. Mary Evans Picture Library / Scala, Firenze

Realizzazione editoriale24 ORE Cultura S.r.l., Milano

RedazioneScriptum, Roma

Graphic designArdit Bala

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IL SOLE 24 ORE

franco mott a

ROBERTO

BELLARMINO

Teologia e potere nell a Controriforma

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SOMMARIO

9 Il controllo delle coscienze e la Compagnia di GesùMichela Catt o

25 Introduzione

43 1. Come si diventa un teologo gesuita (1542-1569)

82 2. Dalla frontiera confessionale al cuore della Chiesa (1569-1586)

122 3. Le controversie sulle Controversie (1586-1599)

180 4. Molinisti, giurisdizionalisti, anglicani, copernicani (1599-1621)

234 Bibliografi a

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“Oggi quest e eresie/si diff ondono come malatt ie. Che rest a, se si cambia la Scritt ura?/Ognuno dice e fa quel che gli

comoda/senza aver più paura. […] /Se certe idee fan presa, gente mia,/cosa può capitare?/ Non ci saran più chierici alla messa,/ le serve il lett o non vorran più fare.../ Brutt a storia! Non è cosa da poco:/ il libero pensiero è att accaticcio/come un’epidemia”, faceva dire Bertolt Brecht al cantastorie della sua Vita di Galileo. Libero pensiero, libertà di coscienza, autodeterminazione nei comporta-menti e nei pensieri erano le questioni che coinvolgevano l’Europa dell’età moderna: la perdita dell’unità religiosa, la sconfi tt a dei par-titi meno intransigenti, il bisogno di rinnovamento della Chiesa e della società dovevano venire incanalati, controllati e disciplinati.

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Tra i molti strumenti messi a disposizione dell’autorità politica ed ecclesiastica, e sp esso con le due autorità in contrasto per il controllo dei sudditi, vi fu il nuovo vigore impresso ai tribunali e particolarmente ai tribunali ecclesiastici che più di tutt i avevano l’agio di indagare nelle coscienze.

Il 21 luglio 1542, con la bolla Licet ab initio, Paolo III aveva ri-organizzato l’Inquisizione romana che, affi ancando i tribunali ecclesiastici diocesani, fu ingaggiata nella lott a contro l’eresia, il dissenso ereticale cui aveva dato origine la penetrazione del-le dott rine riformate nella penisola italiana. La bolla concedeva amplissimi poteri a un gruppo di cardinali, sei, incaricati di no-minare i poteri locali e sopratt utt o di operare senza più alcun “ri-sp ett o” di titoli ecclesiastici e privilegi. A capo dell’istituzione vi era il pontefi ce stesso. L’accento posto su quest o potere, sull’auto-rizzazione a indagare su tutt o e tutt i senza alcuna eccezione, con-traddistinse il primo operato dell’Inquisizione romana. Si tratt ò innanzitutt o di una guerra interna, “spirituale” è stata defi nita, tra le varie fazioni cardinalizie: intransigenti, controriformisti, spirituali, evangelici, erasmiani. La Sacra Congregatio Romanae et Universalis Inquisitionis (ora Congregazione per la Dott rina della Fede) sorse un anno dopo il fallimento dei tentativi conciliari tra catt olici e protest anti patrocinati dal cardinale Gasparo Contarini nei colloqui di Ratisbona. Essa rappresentava dunque la sconfi t-ta di quegli elementi moderati favorevoli all’uso degli strumenti

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della persuasione e del dialogo per ricomporre la fratt ura della respublica christiana1.

All’indomani dell’att ivazione dei tribunali dell’Inquisizione e fi n dall’inizio della caccia all’eretico, l’Italia fu interessata da un movimento di fuga da parte di coloro, intellett uali e non, che cer-cavano oltralpe una terra più sicura, e divenne teatro di una se-rie di processi a catena che non escluse neppure i più alti prelati, i quali furono sott oposti a processi o indott i alla fuga o all’abiura. L’Inquisizione romana riuscì a prevalere att raverso l’intransigen-za politica e l’aff ermazione dell’ortodossia. Tutt avia la sua att ività non si espresse soltanto nelle questioni ereticali nel senso strett o del termine, anzi ben prest o si ampliò fi no a punire e disciplinare una vasta gamma di comportamenti. Il concilio di Trento, come momento di disciplina della società, e la nascita dell’Inquisizione romana, su nuove basi e con nuove forme di controllo, si incon-trarono per governare, educare e punire le coscienze. Dopo aver debellato, anche grazie a un sofi sticato sistema di invito alla dela-zione, ogni forma di dissenso religioso, e aver respinto ogni traccia di eresia, i tribunali inquisitoriali mutarono i loro obiett ivi, che divennero lo sradicamento di ogni pratica magica o superstiziosa, della stregoneria, dei falsi santi, dei best emmiatori, dei sodomiti,

1 A. Prosp eri, Tribunali dell a coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996 e M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo processo d’eresia, Brescia 2005.

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dei celebranti senza ordinazione, dei simoniaci: tutt o ciò che si al-lontanava dai comportamenti del “buon cristiano” sanciti dai de-creti tridentini. Gli inquisitori divennero strumento della Chiesa con lo scopo di sostenere l’ortodossia e promuovere la cristianiz-zazione e l’acculturazione dei fedeli. Con la costituzione Immensa aeterni Dei del 1588, Sisto V conferiva infatt i alla Congregazione poteri amplissimi. Il campo di indagine dell’Inquisizione si era al-largato al vasto sett ore dei comportamenti presenti nella società; ogni allontanamento dalla pratica ortodossa, a partire dal man-cato risp ett o del digiuno del venerdì, poteva att irare l’att enzione dell’Inquisizione per sosp ett a eresia.

Il papa, al tempo stesso sovrano temporale di uno Stato, si tro-vava a gestire un tribunale che esercitava il suo potere al di là dei propri confi ni territoriali, imponendolo agli altri sovrani della penisola in nome della sua autorità di capo spirituale. Per gli Stati italiani ciò signifi cava dover ammett ere l’esistenza entro il proprio territorio di un’autorità indipendente; privati di ogni possibilità di controllo, essi erano obbligati a collaborare con essa quando puniva i propri sudditi, ne ordinava l’estradizione o la confi sca dei beni. Era una concessione che limitava il potere sovrano. Tra le funzioni non menzionate dalla costituzione sistina, ma che la Congregazione esercitò sin dagli inizi, vi fu quella della censura sulle opere a stampa e già nel 1549 i cardinali inquisitori generali avevano fatt o notifi care ai librai di Roma un elenco degli scritt i di

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cui era vietata la vendita. Fu quest a la prima traccia di un indice dei libri proibiti, cui seguì quello uffi ciale nel 1559. Solo nel 1572 Gregorio XIII istituì formalmente la Congregazione dell’Indice2 con il compito di aggiornare l’indice tridentino ed espurgare quelle opere che erano state condannate con la clausola sosp ensiva “do-nec corrigatur”. Ma le competenze tra le due congregazioni non erano chiarissime e il Sant’Uffi zio continuò a mantenere alcune funzioni in materia di censura di stampa e fi nì per esercitarle in esclusiva quando la Congregazione dell’Indice fu soppressa, nel 1917, da Benedett o XV.

Congregazione dell’Indice e Sant’Uffi zio furono strutt ure di lungo periodo, centralizzate, con un vertice a Roma, che limita-rono in varie misure la sovranità di tutt i gli Stati della penisola; i loro metodi si trasferirono sulle circoscrizioni territoriali, diocesi e parrocchie, cui tutt i gli italiani appartenevano. Gli eff ett i del loro operato e della loro interpretazione e applicazione nella peniso-la dei dett ami tridentini, come è stato fatt o notare, condizionò il “caratt ere originale” degli italiani e “della loro mentalità collet-tiva” con eff ett i tutt ’ora presenti nella cultura e nella religiosità3.

2 G. Fragnito, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nell a prima età moderna, Bologna 2005.3 G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiast ica e i volgarizzamenti dell a Scritt ura (1471-1605), Bologna 1997, p. 20.

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Il ruolo della Compagnia di Gesù nel sistema inquisitoriale fu controverso e in parte ancora da indagare4. Nel volume 1 abbiamo già visto quante discussioni presso le autorità ecclesiastiche e l’In-quisizione avesse generato l’operare di Ignazio di Loyola, i nume-rosi processi di cui fu protagonista, le censure di cui furono oggett o la pratica e il test o degli Esercizi spirituali. Quella ignaziana era una vicenda destinata a ripetersi innumerevoli volte nella storia della Compagnia di Gesù, ove non mancarono fi gure, meno fortunate di Ignazio, che caddero nelle maglie dell’Inquisizione. Comples-sivamente la Compagnia di Gesù espresse anche in quest o campo una varietà di att eggiamenti. Vi furono gesuiti che parteciparono att ivamente al funzionamento del Sant’Uffi zio, mett endo a di-sposizione conoscenze e saperi; altri che giocarono un ruolo indi-rett o, fornendo alla strutt ura inquisitoriale informazioni private ott enute durante l’esercizio dei loro ministeri, facendo da spia ad esempio quando operarono in paesi protest anti, nei Grigioni o in Inghilterra; altri che furono supplenti degli inquisitori ad esempio presso le comunità valdesi di Calabria e di Puglia; altri ancora che pur prest ando servizio presso il tribunale ne furono a loro volta vitt ime. Insomma è diffi cile nella storia della Compagnia di Gesù tracciare un nett o confi ne anche in materia di inquisizione. Juan

4 P. Scaramella, I primi gesuiti e l’Inquisizione romana (1547-1562), in “Rivista sto-rica italiana”, 117, 2005, pp. 135-157.

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de Mariana – volume 2 – ad esempio, che pur collaborò con l’in-quisitore Gaspar de Quiroga all’elaborazione dell’Indice dei libri proibiti pubblicato nel 1584, vide alcune delle sue opere condan-nate dall’Inquisizione spagnola; o, caso meno fortunato, l’italiano Gabriele Malagrida fu condannato dall’Inquisizione portoghese e arso sul rogo come eretico. E accenniamo inoltre alle questioni inquisitoriali che interessarono parti più ampie o addiritt ura l’in-sieme della Compagnia, mett endone in discussione metodi e in-terpretazioni: a ridosso degli ultimi decenni del XVI secolo esplo-se la controversia De auxiliis, in merito al valore della grazia e del libero arbitrio, in un confl itt o che vide contrapporsi domenicani e gesuiti5; fu poi la volta del probabilismo6 e del giansenismo7, del

5 Ebbe inizio dal libro di Luis Molina, De concordia gratiae et liberi arbitrii, usci-to a Lisbona nel 1588.6 Enunciata per la prima volta dal domenicano Bartolomé de Medina (1518-1580), la dott rina del probabilismo fu fatt a propria da Francisco de Toledo, Hermann Busenbaum. Ciò che caratt erizzò l’interpretazione proposta dai gesuiti fu lo slitt amento di una dott rina di teologia morale su un piano emi-nentemente pratico legato all’esercizio della confessione, il che portò alla na-scita del casuismo e all’accusa di lassismo morale. Con il nome di probabili-smo s’intende il sistema morale che aff erma che una legge non obbliga fi nché è probabile che non obblighi o, in altri termini, che nella prassi l’obbligazione non è reale fi nché essa è dubbia.7 Contro l’Augustinus (1640) di Cornelius Jansen o Giansenio, le indagini fu-rono sollecitate dai gesuiti di Lovanio. Nel 1653 con la bolla Cum occasione di papa Innocenzo X, venivano condannate come ereticali cinque proposizioni contenute nell’Augustinus.

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lassismo8 e del casuismo9, nonché degli interventi del Sant’Uffi zio in materia di riti cinesi e malabarici, cioè delle accuse mosse alla Compagnia di Gesù di autorizzare la pratica di alcuni riti ai con-vertiti di Cina e del Malabar e dunque di permett ere l’idolatria e la superstizione (come vedremo nel volume 5).

Roberto Bellarmino, protagonista di quest o volume, può es-sere considerato un esponente di tale ambivalenza dell’ordine ge-suitico. Da un lato egli fu il grande teologo della Controriforma, censore, inquisitore, teologo del papa e del Sant’Uffi zio, att ivo nei grandi processi dell’epoca, tanto che una parte considerevole del-la sua fama viene consacrata indirett amente proprio dalle fi gure delle sue illustri vitt ime e dalle censure praticate alle loro opere (da Giordano Bruno e Tommaso Campanella sino a Galileo Ga-lilei); d’altro lato le sue Controversiae furono oggett o di indagini da parte dell’Inquisizione spagnola e si temett e il loro inserimento

8 In senso molto generale, il lassismo è “la tendenza del giudizio morale ad at-tenuare il rigore di una legge, dando di quest a un’interpretazione che permett a la più ampia libertà di scelta possibile”. La coscienza lassa, per ignoranza o per vizio, sminuisce la gravità della norma stessa legitt imandone un’interpretazione blanda e benigna. In senso proprio e sp ecifi co il lassismo è un sistema morale, sorto in seno alla casuistica del XVII secolo, secondo il quale è lecito seguire l’opinione meno sicura, favorevole alla libertà di coscienza, anche se essa è de-bolmente probabile oppure dubbia.9 La casuistica è l’arte o la scienza che att ende a confi gurare situazioni tipiche e a defi nire quali comportamenti, in relazione ad esse, siano validi o leciti.

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nell’Indice dei libri proibiti (1594) per la dott rina sul potere indi-rett o del papa e per le critiche ad alcuni episodi della storia spa-gnola e ai privilegi che la corona deteneva sulla Chiesa in Sicilia. Il cardinale gesuita fu fautore delle idee della Controriforma e al contempo fu aspramente contrastato nella Chiesa durante il suo processo di canonizzazione; promosso dalla Compagnia di Gesù già nel 1622, esso subirà una serie di arresti, trovando una prima conclusione solo con Benedett o XV – il quale il 2 dicembre 1920 proclamerà l’eroicità delle virtù di Bellarmino – e poi con Pio XI che dal 1923 al 1931 lo eleverà da servo di Dio a santo e, infi ne, a dott ore della Chiesa.

Le origini di un compito all’interno delle strutt ure inquisitoriali nascevano dalla bolla Exposcit debitum del 1550 con cui Giulio III ampliava e meglio defi niva i doveri della neonata Compagnia af-fi ancando al ministero della propagazione della fede – e renden-dolo prioritario – quello della sua difesa, assente nella formula del 1539 contenuta nei Quinque capitula e nel test o approvato dalla bolla Regimini militantis ecclesiae del 1540: la Compagnia era costi-tuita “allo scopo precipuo di occuparsi sp ecialmente della difesa e propagazione della fede, e del progresso delle anime nella vita e nella dott rina cristiana”. Tutt avia tale formula non signifi cava nella realtà un eff ett ivo arruolamento della Compagnia all’in-terno dell’Inquisizione e la sua azione oscillò, sp esso per ragioni di opportunità, tra gli estremi della collaborazione att iva con il

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tribunale romano (sempre mantenendo la propria indipendenza) e la rivendicazione di una sostanziale libertà d’azione.

Da quest’ultimo punto di vista, il messaggio contenuto nelle Regole per sentire con la Chiesa (“Per il vero sentire che nella Chie-sa militante dobbiamo avere, si osservino le regole seguenti”, nn. 352-370 degli Esercizi spirituali) può off rire una chiave del modo di sentire della Compagnia di Gesù, quasi fosse un linguaggio ci-frato applicabile anche nei confronti dell’Inquisizione. Denomi-nate anche “regole di ortodossia”, esse sono un vero e proprio de-calogo di ciò che un gesuita deve compiere e pensare in materie controverse che spaziano dalla predestinazione al culto dei santi, dalla scolastica ai precett i dalla Chiesa. Una serie di disposizioni che possiamo riassumere nell’espressione: “pensare come pensa la Chiesa”. Esplicito a tale proposito il punto in cui si ricorda che “dobbiamo sempre ritenere, per essere certi10 in tutt o, che il bian-co che io vedo, creda che sia nero, se la Chiesa gerarchica così sta-bilisce; credendo che tra Cristo nostro Signore, sposo, e la Chiesa, sua sposa, vi è lo stesso spirito che ci governa e regge per la salvezza delle nostre anime, perché per lo stesso Spirito e Signore nostro, che diede i dieci comandamenti, è erett a e governata la nostra santa madre Chiesa”. Il signifi cato di quest e regole, ovvie e forse anche banali per chi viveva nella Chiesa e in comunanza con essa,

10 “para en todo açertar”. Açertar signifi ca: indovinare, azzeccare, centrare.

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è att ribuito alla necessità di crearsi una legitt imazione (rompen-do con le accuse di eresia e eterodossia rivolte alla Compagnia), e al bisogno – per chi opera a contatt o con gli eretici – di assumere un att eggiamento di dialogo; ma si tratt a anche di un “decalogo” per non att irare l’att enzione, per confondersi nei luoghi e presso le popolazioni in cui ci si trovava a operare, fossero le terre pro-test anti o l’Estremo Oriente. Le regole erano anche una sintetica proposizione dei doveri di obbedienza verso le gerarchie, forse un vademecum da osservare per non att irare l’att enzione meno desiderata in età moderna, quella dell’Inquisizione – quest’ul-tima, sempre pronta a rilevare ogni più piccolo att eggiamento e pensiero che si allontanava dalla norma, cavalcando le sott ili in-terpretazioni e i cavilli teologici in un’epoca in cui il confl itt o tra ortodossia ed eresia spingeva a irrigidire e radicalizzare posizio-ni e orientamenti, a vedere ovunque tracce di eresia e a costrui-re una nuova ortodossia, molto più intransigente verso uomini, esp erienze, idee e pratiche religiose che anche solo riecheggias-sero formule ereticali.

Ordine religioso istituito per la difesa e la propagazione della fede, la Compagnia di Gesù era stata dotata di sp eciali privilegi concessi dai pontefi ci in materia di possesso e ricerca di libri proi-biti, ma anche di assoluzione degli eretici in foro conscientiae, con la possibilità di assolvere coloro che si erano macchiati di peccati di

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eresia e di operare altre censure di riserva papale o vescovile (con la sola esclusione di quelle elencate nella bolla In Coena Domini). Un privilegio, quest’ultimo, che se interpretato ampiamente, come talvolta avvenne, permett eva ai gesuiti di concedere assoluzioni che avevano anche valore giudiziario, allargando in maniera si-gnifi cativa la loro autorità. Tali privilegi permett evano ai gesuiti di divenire sott o molti asp ett i un potere concorrente a quello dei tribunali dell’Inquisizione, in grado di mantenere una propria posizione e di muoversi a fi anco ma anche in opposizione alla Congregazione, a metà tra collaborazione att iva e rivendicazio-ne di una certa libertà d’azione, tra elogi e critiche. Quando, nel 1552, Giulio III est ese il privilegio all’uso ordinario delle facoltà di assoluzione in foro conscientiae di eretici e lett ori di libri proibiti, suscitò protest e e rimostranze da parte degli altri ordini religiosi e dei vescovi. E anche se nel 1587 un decreto di Sisto V promulgato dalla Congregazione del Sant’Uffi zio proibì ai gesuiti di assolve-re gli eretici e li obbligò a rinviarli ai tribunali inquisitoriali, ciò non impedì alla Compagnia di Gesù di continuare a difendere il sigillo sacramentale opponendosi all’uso del sacramento della pe-nitenza come strumento di controllo religioso, politico e sociale.

Su un campo per alcuni asp ett i molto vicino a quello dell’In-quisizione, i gesuiti non avevano dubbi di pratica e collaborazione: miravano a conoscere le anime, fossero quelle dell’eretico o più

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generalmente del cristiano, nei più reconditi pensieri e pulsioni, a dirigerne le coscienze, più come medici che come giudici. Nul-la il cristiano doveva celare, ogni passione e tentazione doveva-no essere palesate frequentemente al proprio maestro spirituale come davanti a un padre, quasi che il peccato fosse più una malat-tia individuale che il risultato della batt aglia tra il bene e il male.

Abbiamo già visto – volume 1 – come alla base della Compa-gnia di Gesù vi fosse la particolare esp erienza maturata da Loyola a Monserrat: gli Esercizi spirituali. Il suggerimento pratico indot-to dal piccolo libro e dal suo percorso di quatt ro sett imane era la trasformazione della fi gura del confessore e il mutamento del suo rapporto con il penitente in qualcosa di durevole e inserito all’in-terno di un percorso di perfezionamento: una confessione gene-rale, scavata, meditata, dett agliata, alla base di un mutamento o dell’inizio di una storia individuale di progresso. La particolare abilità che i gesuiti ebbero come confessori, sviluppando i casi di coscienza sino a risolvere pressoché ogni intrico e scrupolo mo-rale, trovava applicazione in quel rapporto duraturo con il peni-tente, nella sua direzione spirituale, conducendolo a divenire un perfett o cristiano att raverso un percorso personalizzato in cui il maestro si off riva come consigliere e conforto quotidiano, pronto ad ascoltare ogni più piccolo cedimento, in un’esp erienza totaliz-zante. Una pratica, quella della direzione spirituale, destinata a creare un legame personale e confi denziale, diverso sia da quello

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della confessione sacramentale sia da quello del foro inquisitoria-le, e privo di natura giuridica. Un rapporto dunque continuativo, sviluppato come quello di un padre e maestro nei confronti del fi -glio o del discepolo. In quest a att ività i gesuiti divennero eccellenti, dirigendo le coscienze europee e sviluppando particolari abilità, come att est ano i numerosi libri che scrissero per codifi carne la pratica e aiutare il confessore a dirimere ogni dubbio e incertezza incontrata nella direzione spirituale, fosse anche quella delle ani-me mistiche che percorrevano le vie più tortuose. Il diff ondersi dell’asp ett o pratico degli esercizi spirituali, la loro sempre mag-giore adozione nelle congregazioni mariane11, nei collegi e nelle corti, in Europa e in America, corrono infatt i parallelamente allo sviluppo della lett eratura di formazione del dirett ore spirituale, volta a fornirgli gli strumenti per adatt arsi a ogni temperamento. Nel mondo degli scritt ori gesuiti abbonda quest o genere di testi: da Virgilio Cepari col suo Essercitio dell a presenza di Dio (1621), a Gian Pietro Pinamonti con Il Dirett ore (1705) o, ancora a Gian Batt ista Scaramelli con i suoi Dirett orio ascetico (1752) e Dirett orio mistico (1754) a supporto di una articolatissima casuistica.

Blaise Pascal, che dalle sue posizioni gianseniste non lesinava critiche e osservazioni all’ordine ignaziano, dedicava la sua quin-ta lett era delle Provinciali (1657) proprio a quest o argomento, alla

11 Si veda L. Châtellier, L’Europa dei devoti, Milano 1988.

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IL CONTROLLO DELLE COSCIENZE E LA COMPAGNIA DI GESÙ

ricca casuistica che a suo dire era stata elaborata dai gesuiti tanto da far scomparire quasi il concett o di peccato trovando ogni scap-patoia per il perdono, troppo compiacente e accomodante. Secon-do Pascal l’obiett ivo della Società gesuitica “non è di corrompere i costumi, non è quest o il loro intento. Però non hanno nemmeno come unico fi ne quello di riformarli. Sarebbe una catt iva politica. Ecco il loro pensiero. Hanno di se stessi un’opinione abbastanza buona per credere che sia utile e quasi necessario per il bene della religione che la loro reputazione si est enda dappertutt o e che essi governino tutt e le coscienze. E poiché i precett i evangelici e seve-ri si confanno per governare alcuni tipi di persone, se ne servono nei casi in cui sono a loro favorevoli. Ma poiché questi medesimi precett i non s’accordano con gli intenti della maggioranza, li tra-lasciano nei rapporti con quest e persone, al fi ne di poter soddi-sfare tutt i. Ecco perché tratt ando con gente di ogni condizione e di nazioni tanto diff erenti, devono necessariamente avere un as-sortimento di casuisti per tutt a quest a diversità”12.

Michela Catt o

12 B. Pascal, Le Provinciali, a cura di C. Carena, Torino 2008, pp. 89-90.

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Ad Argoche in montagna scoprì la libertà,e la natura

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Si fa prest o oggi a parlare di teologia. Così lontana dal no-stro mondo, riguadagna interesse in virtù di quell’esotismo

che circonfonde tutt o ciò che è sott ratt o alla sfera dell’utilità materiale.

Astratt a, arcana, inatt uale, la teologia occupa le pagine dei quotidiani con dialoghi pensosi tra atei e credenti, gli scaff ali dei salott i con le edizioni dei Vangeli apocrifi , la leisure cultura-le con i festival e i pacchett i-vacanza che off rono lo studio del pensiero di Anselmo d’Aosta e Tommaso d’Aquino. La teologia come pratica dell’otium, sosp ensione del ciclo di produzione e consumo che ci riporta a un modo d’essere che abbiamo perso la facoltà di capire.

INTRODUZIONE

Se si considera l’origine di quest o grande dominio ecclesiast ico, si percepirà

agevolmente che il papato non è altro che lo sp ett ro del defunto impero romano, che siede, incoronato, sull a sua tomba.

Th omas Hobbes, Leviatano, c. 47 (trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 685)

Sovrano è chi decide sull o stato di eccezione.

Carl Schmitt , Teologia politica. Quatt ro capitoli sull a dott rina dell a

sovranità (tr. it. in Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, Il Mulino, Bologna 1972, p. 33)

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Un tempo non era così. Un tempo la teologia era la scienza che governava tutt e le altre scienze, come oggi l’economia. Era la “regina delle scienze”, o in termini tecnici la “scienza subal-ternante”, davanti alla quale tutt e le altre discipline dovevano inchinarsi.

È una curiosa parentela, quella di teologia ed economia: tut-te e due sono fondate sulla logica e sui dogmi; tutt e e due hanno i loro chierici; tutt e e due parlano di un’entità astratt a, creata dall’uomo: per l’una Dio, per l’altra il denaro. Sono entità che non si fanno mai toccare nella loro “presenza reale” (così parla-vano, un tempo, i teologi) ma soltanto nei loro eff ett i, concreta-mente manifesti nella vita quotidiana: la povertà e la ricchezza, la giustizia e l’ingiustizia, la vita e la morte. I teologi regolavano la vita pubblica e privata, indirizzavano gli Stati, muovevano la mano dei governanti senza dover rendere conto a nessun altro. Oggi lo fanno gli economisti. Per la teologia si facevano le guer-re e si disfacevano i regni: così per l’economia, oggi.

La teologia, un tempo, era una disciplina arcigna. Pretende-va i giorni di chi la praticava, dall’adolescenza alla vecchiaia, e soltanto i più fortunati ricevevano in cambio qualcosa.

Essere teologi signifi cava padroneggiare le fonti, ossia un oceano di testi: l’Antico Test amento, il Nuovo Test amento, i Padri della Chiesa, orientali e occidentali, i canoni dei concili,

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INTRODUZIONE

e infi ne i dott ori, cioè i maestri della disciplina, coloro che sfi -lavano nella pallida galleria delle autorità indiscutibili: il Doc-tor gratiae, il Doctor angelicus, il Doctor subtilis, il Doctor eximius e via dicendo. Quest o signifi cava convivere lett eralmente con i libri per poterli dominare, per costruire catene infi nite di cita-zioni e di argomentazioni senza alcun altro strumento che non fossero carta, penna e memoria, in un’età in cui le biblioteche erano poche e disp erse e il sapere correva soltanto sull’inchio-stro e sulla parola.

Essere teologi signifi cava consacrare la vita a Dio e alla disci-plina in lunghe giornate passate alla scrivania, alla fi amma di una candela. Quest o non vuol dire che non si potesse essere altro. Si poteva essere teologi e predicatori, teologi e confessori, teologi e cappellani di un esercito in guerra: la prima di quest e funzio-ni, però, era comunque la più importante. La teologia chiedeva la vita, e conseguentemente poteva dare la vita e la morte. Da teologi si poteva diventare consiglieri di corte, confessori del principe, cardinali, e in qualche caso papi; si poteva anche es-sere messi alla galera e, a volte, a morte. Dipendeva da cosa si scriveva, a chi, e sopratt utt o in quali circostanze.

Per capire quest e dinamiche tutt o sta nel cambiare punto di vista. Se pensiamo alla nostra vita mortale come a una parente-si nell’eternità della vita dell’anima capiamo perché la teologia,

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conoscenza di Dio che è creatore della vita e giudice delle ani-me, possa avere governato per secoli l’Occidente. Del rest o ci basta guardare poco oltre i nostri confi ni: dove esiste, Dio non fa sconti, oggi come ieri; esige sacrifi ci; mal sopporta i concor-renti. “Io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei fi gli fi no alla terza e alla quarta generazione” (Dt 5,9), annuncia il primo comandamento.

La teologia fu padrona delle anime e degli intellett i per i dieci secoli del Medioevo. Poi in Europa fu costrett a al ritiro nell’età dell’umanesimo, fra il XV e il XVI secolo, dall’avanzare delle di-scipline profane come la fi lologia, la storia e la lett eratura. Nel Quatt rocento Dio non parlava più att raverso i teologi, ma att ra-verso i profeti e i predicatori. Gli intellett uali, i papi e i vescovi si occupavano d’altro, di arte e di lingue antiche. Dio sembrava essersi nascosto: erano tornati gli dèi, e si chiamavano bellezza, armonia e misura.

Dio, in realtà, continuava a vegliare. Il più raffi nato degli umanisti, Erasmo da Rott erdam, un religiosissimo laico che disprezzava il clero come nessun altro, lo cercava nel greco in cui erano stati scritt i i Vangeli, mostrando che in essi Dio non aveva previsto papi, vescovi e frati. La fi lologia di Erasmo e degli umanisti produsse Lutero, che ne trasse le conseguen-ze sostenendo che se papa, vescovi e frati non erano previsti dai Vangeli essi dovevano essere opera del demonio. Dal 1517,

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l’anno delle Novantacinque tesi di Lutero, il demonio tornò a muoversi fra gli uomini, e con lui tornò Dio – che in fondo l’aveva creato.

Fu grazie a Lutero e alla Riforma che Dio riconquistò il suo posto nel mondo e richiamò la teologia al rango che le sp ett ava. Una seconda primavera teologica, che durò meno di due secoli ma produsse eff ett i che mai si erano visti prima. Dio si prese la rivincita, governando i desideri e le vite degli uomini con mano di ferro. Se l’ho chiamata primavera, infatt i, è per risp ett o della dignità che la teologia riconquistò in quell’epoca: ma per chi la visse fu un lungo inverno di odio e di guerra, che alla religione sacrifi cò tutt o o quasi – vite, ricchezze, ragione.

In storiografi a il periodo che va da Lutero alla metà del XVII secolo è chiamato età confessionale, o in termini più tradizio-nali età della Riforma e della Controriforma, proprio a sott o-lineare quanto la rivalità tra le confessioni cristiane occupasse il centro delle relazioni sociali. Per la Chiesa catt olica romana fu un’età fondativa, irripetibile, l’età di una seconda nascita: se att orno al 1540 molti la davano per spacciata, cinquant’anni dopo essa era l’unico vero potere che potesse presentarsi come monarchia universale.

Non era una monarchia dei corpi, ma delle anime. La fedel-tà al papa – che da allora è diventata l’autentico tratt o distinti-vo dell’appartenenza catt olica – travalicava i confi ni e le lingue

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perché legava i fedeli nell’intimo della coscienza, pretendendo da essi che fossero prima catt olici, poi sudditi del re e membri della nazione. La qual pretesa, del rest o, era tutt o meno che il-legitt ima, visto che i funzionari dello Stato li si vedeva normal-mente soltanto al momento del pagamento delle imposte, men-tre il prete accompagnava i momenti più importanti dell’anno e dell’esistenza di ciascuno.

Fu in quest’epoca che visse e operò Roberto Bellarmino. La sua traiett oria biografi ca, se le date signifi cano qualcosa, coincise quasi alla perfezione con l’età confessionale: nacque nel 1542, l’anno della fondazione dell’Inquisizione romana, o Sant’Uffi zio, e morì nel 1621, pochi mesi dopo la batt aglia della Montagna Bianca, in Boemia, la prima grande batt aglia del-la Guerra dei Trent’anni, una schiacciante vitt oria dell’eserci-to catt olico degli Asburgo d’Austria sulle forze protest anti che sembrò davvero preludere alla riconquista militare catt olica di tutt o il continente.

Quell’illusione si sp ense in frett a, ma i libri di Bellarmino continuarono a essere ristampati per tutt o il rest o del secolo e oltre, e poi tornarono di moda nel 1870, al tempo del concilio Vaticano I, quando furono ristampati in un’unica edizione di dodici volumi, a sostegno di tutt i quei teologi che lavoravano alla proclamazione dell’infallibilità papale.

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INTRODUZIONE

Bellarmino, quanto a ruoli ecclesiastici, fu quasi tutt o. Do-cente, predicatore, inquisitore, cardinale, arcivescovo, poi santo e dott ore della Chiesa. In due conclavi si fece il suo nome an-che come papa, ma la cosa sfumò in frett a. Prima di tutt o, però, Bellarmino fu gesuita e teologo. Teologo controversista, per la precisione: una sp ecializzazione particolarmente importante, in quei tempi di controversie religiose senza fi ne.

Compito del controversista era di conoscere le eresie e confu-tarle, e confutandole precisare la dott rina della Chiesa. Le eresie non erano poche. Solo in quell’epoca se ne contavano a decine, fi orite in pochi anni come una malapianta, da quella luterana a quella calvinista, da quella anabatt ista a quella sociniana, cia-scuna con il suo catalogo di errori da ribatt ere uno a uno, per ogni articolo di fede. Poi c’erano le eresie più antiche, che risa-livano al Medioevo e più indietro ancora, fi no all’inizio dell’era cristiana, e pure quelle dovevano essere catalogate e confuta-te giacché, per la mentalità dell’epoca, nulla si creava dal nulla e tutt o discendeva dall’operare ostinato del demonio, che non lasciava occasione di guadagnare anime. Infi ne c’erano le qua-si eresie, che non erano state formalmente condannate ma in-ducevano comunque al sosp ett o, come quella dei gallicani, che professavano che il concilio era superiore al papa, e quella dei “politici”, i politiques, che ammett evano la tolleranza religiosa per il bene dello Stato.

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Confutando sistematicamente quest e eresie e semieresie Bel-larmino si fece un nome, al punto da diventare per parecchi anni uno fra i più celebri teologi d’Europa, certo il più temuto, tan-to dai protest anti quanto da non pochi catt olici. A parte quelli dei papi e dei re, il suo è uno fra i pochi nomi a essere tradott i ancora oggi in lingua straniera: Bell armin in francese e tedesco, Bell armine in inglese, Belarmino in spagnolo. Così voleva l’uso dell’epoca e così è rimasto.

Bellarmino non doveva avere un caratt ere semplice da avvi-cinare. Dalle testimonianze sappiamo che era schivo ma genti-le, freddo, avvezzo a una sp ecie di ascesi intellett uale che, per un teologo, era segno d’eccellenza. Per coerenza fu capace di aff rontare a visto aperto un papa, Clemente VIII, e di subirne le conseguenze con un confi no triennale lontano da Roma, a Capua. Eppure per almeno trent’anni fu il teologo di fi ducia di diversi pontefi ci (Clemente VIII compreso), poco meno di un oracolo al cui giudizio si sott oponevano le questioni più spi-nose, dal diritt o divino dei re alla teoria copernicana del moto della Terra.

Oggi quasi nessuno, a parte gli sp ecialisti di storia religiosa e di storia del pensiero politico, si ricorda di Bellarmino. Que-ste due discipline, però, ci dicono molto sulle ragioni della sua fama nell’età confessionale.

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Proprio perché esp erto di religione, egli era al sommo grado esp erto di politica. Così prescriveva la mentalità corrente, per-ché religione e politica erano un tutt ’uno, e l’una non si poteva pensare senza l’altra. Non la politica senza religione, perché si riteneva che gli atei fossero refratt ari al consorzio civile, che gli eretici (cioè i protest anti, secondo i catt olici) non potessero ricoprire cariche pubbliche e che i papisti (cioè i catt olici, se-condo i protest anti) fossero intrinsecamente sudditi inaffi dabili perché sudditi del papa (è la ragione per cui in Gran Bretagna i diritt i politici furono accordati ai catt olici solo a Ott ocen-to inoltrato). Non la religione senza politica, perché non c’era religione senza Chiesa e la Chiesa, di qualunque obbedienza fosse, andava governata, che fosse dal papa, dal re o da un’as-semblea elett iva.

Bellarmino dunque, che dedicò la vita a esplorare e dominare ogni anfratt o della dott rina, a calcolare tutt e le possibili ricadute di ogni proposizione che riguardasse la fede, entrò nell’imma-ginario collett ivo e nella memoria dei dott i essenzialmente per una teoria politica, quella della cosiddett a potest as indirecta in temporalibus, cioè del potere indirett o del papa nelle questioni politiche.

Quest a teoria prevede che il papa, in quanto capo della Chie-sa romana e supremo giudice della fede, in certe circostanze abbia il potere di intervenire negli aff ari del governo civile se è

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in gioco la salvezza delle anime, ad esempio se un sovrano pre-tende di imporre leggi che ledono il culto catt olico o concedono libertà di coscienza agli eretici. In tal caso è dovere del Romano pontefi ce far sentire la propria voce, in casi estremi arrivando a scomunicare il sovrano: e secondo il diritt o canonico un so-vrano scomunicato non poteva più esercitare il potere, e i suoi sudditi erano sciolti dal vincolo di obbedienza. Si potevano an-che scomunicare interi Stati, o meglio interdirli dalla celebra-zione della messa: accadde, come vedremo, con la Repubblica di Venezia per un confl itt o di giurisdizione.

La teoria del potere indirett o non era un’invenzione di Bel-larmino, e già tre secoli prima di lui il più grande teologo del Medioevo, Tommaso d’Aquino, l’aveva formalizzata. Anzi, va dett o che, accanto a essa, Bellarmino aveva anche aff ermato con chiarezza che in tutt e le questioni che non toccano la religione il potere politico è del tutt o autonomo e legitt imo, e che il papa non può essere considerato il sovrano del mondo intero, come ancora all’epoca molti credevano, secondo un antico principio che risaliva al tempo di Gregorio VII. Tutt avia aveva difeso la potest as indirecta con il suo metodo controversistico, che si fon-dava su una logica rigorosa e su una mole di argomentazioni mai vista fi no ad allora.

Inoltre, particolare importantissimo, Bellarmino era gesuita. Quest o signifi cava che le sue conclusioni non erano destinate a

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rest are nel chiuso delle pagine dei libri ma a volare att raverso le chiese, le piazze e i palazzi del potere, perché i gesuiti erano i più abili tra i predicatori, i confessori, i missionari, i cappella-ni, gli insegnanti di ogni disciplina, nonché i dirett ori spirituali dei principi.

Fu per quest e ragioni che egli divenne il simbolo stesso di quella teoria politica att orno alla quale, tra Cinque e Seicento, si combatt erono asp errime batt aglie d’idee. E anche da defun-to la nomea di nemico dei sovrani gli rest ò addosso al punto di ritardarne di tre secoli la santifi cazione (proclamata nel 1930), che il suo ordine, la Compagnia di Gesù, considerava cosa fatt a già poco dopo la morte.

Quest a dott rina del potere indirett o del papa sull’ordinamen-to politico ci si presenta oggi come una reliquia di un mondo passato e sepolto. Come tutt e le reliquie però (almeno per chi ci crede), continua a emanare la sua forza.

Non dobbiamo risalire molto indietro nel tempo. Nel no-vembre del 2002 la Congregazione per la dott rina della fede, il dicastero vaticano che ha preso il posto del Sant’Uffi zio, ha licenziato con fi rma dell’allora prefett o cardinale Ratzinger una Nota dott rinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei catt olici nell a vita politica, un documen-to rivolto “in sp ecial modo ai politici catt olici e a tutt i i fedeli

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laici chiamati alla partecipazione della vita pubblica e politi-ca nelle società democratiche” affi nché nelle questioni di eti-ca pubblica e privata si att enessero al risp ett o dei valori non negoziabili sanciti dal magistero ecclesiastico, ad esempio in materia di protezione della vita sin dal suo concepimento, di salvaguardia dei diritt i dell’embrione e di tutela dell’esclusiva legitt imità della famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna. Di lì a poco il presidente della Conferenza episcopale italiana, monsignor Camillo Ruini, ribadì il valore prescritt ivo della Nota dott rinale invitando i parlamentari catt olici a dare spazio solo alla propria coscienza di fedeli e a votare la legge 40/2004, che stabilisce fortissime restrizioni sulle terapie di procreazione assistita.

Ecco un esempio contemporaneo di potest as indirecta, senza corollario di roghi e scomuniche: i membri del parlamento e, più in generale, i detentori di cariche pubbliche sono chiamati a seguire non l’interesse del paese e dei propri elett ori bensì la propria coscienza di catt olici, e in quanto tali soggett i alle di-rett ive del magistero.

Del rest o già nel 1881, nell’enciclica Diuturnum ill ud – il pri-mo documento papale a riprendere il dialogo fra Stato e Chiesa dopo gli anni glaciali di Pio IX –, Leone XIII aveva usato il vo-cabolario del potere indirett o allorché timidamente aveva aper-to anche ai regimi rappresentativi l’abbraccio della Chiesa, che

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fi no ad allora aveva indicato nella democrazia niente di meno che un’invenzione di Satana.

Il cristianesimo, ricordava Leone XIII, è garanzia di obbe-dienza e di stabilità dell’ordine politico, a diff erenza delle “fi ni-time pesti che sono il comunismo, il socialismo, il nichilismo, orrendi mali e quasi sterminio della società civile”. Il cristiane-simo ha insegnato, da san Paolo in poi, che l’autorità viene da Dio, e che i governanti sono ministri di Dio e in quanto tali de-vono ricevere indiscussa soggezione.

Con un’eccezione. “Una sola ragione – ricordava il papa – possono avere gli uomini per non obbedire: qualora cioè si pre-tenda da essi qualche cosa che ripugni apertamente al diritt o naturale e divino, in quanto ogni volta in cui si vìola la legge di natura e la volontà di Dio è ugualmente iniquo tanto coman-dare ciò, quanto eseguirlo”.

Il rebus, enorme, stava in quest o dett aglio: cosa ricade sot-to la legge di natura e la volontà di Dio? Potenzialmente tutt o. E all’interno di quest o tutt o, possiamo dire oggi, a più di cen-totrenta anni da Leone XIII, certamente le questioni di etica sessuale e matrimoniale, come ci ha suggerito l’intenso impiego dell’idea di diritt o naturale da parte dell’att uale papa emerito Benedett o XVI.

Un solo punto è certo: la domanda a chi sp ett i decidere cosa è di diritt o naturale e divino, e cosa no, ha sempre avuto dalla

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Santa Sede (a parte interessanti suggestioni di papa Francesco) una risposta che non ammett e incertezze.

La tensione fra l’obbedienza alla Chiesa e l’obbedienza allo Stato si presenta dunque ancora oggi come un nodo cruciale dell’appartenenza catt olica. A suo tempo, in un’epoca in cui si andava molto meno per il sott ile in simili confl itt i, su quest o nodo Bellarmino si conquistò tanta fama quanti nemici.

Il confronto tra sovranità politica e sovranità religiosa fu il centro di gravità att orno al quale, nell’età delle confessioni, si aggregarono le idee moderne di Stato, di comunità e di nazio-ne. Gli scenari dello scontro erano numerosi: chi esercitava la giurisdizione su crimini di ordine morale quali la sodomia e l’adulterio? A chi sp ett avano i diritt i fi scali delle istituzioni ec-clesiastiche di un territorio? Chi conferiva i gradi accademici? Chi giudicava colpevoli di reato i chierici, che erano al tempo stesso sudditi di un principe e membri della Chiesa gerarchi-ca? A chi doveva obbedire in primo luogo un cristiano, al suo re o al papa?

Quest’ultima domanda era la più decisiva di tutt e. Era la do-manda alla quale la potest as indirecta di Bellarmino diede una risposta argomentata e risoluta, a suo modo la più moderna che allora la Chiesa potesse pensare, e quella risposta, alla fi ne, a Roma fece scuola.

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In realtà in quasi tutt a l’Europa quella risposta non ebbe ségui-to. I paesi protest anti avevano risolto la questione alla radice, al momento stesso dell’adozione della Riforma, con lo ius reformandi che dava al governo civile tutt e le prerogative di controllo in ma-teria ecclesiastica. La Francia ci arrivò nel Seicento, dopo decen-ni di guerra confessionale; l’Austria nella seconda metà del Set-tecento, nella stagione del riformismo illuminista; la Germania catt olica la subì dopo l’unifi cazione del 1871, con il Kulturkampf.

Per quanto riguarda l’Italia, invece, il problema non sembra sia stato ancora del tutt o superato. Le ragioni di quest o sono molteplici e si lasciano districare con diffi coltà: basti pensare a quella che fu l’alleanza tra la Santa Sede e il regime fascista, con i Patt i Lateranensi, e successivamente tra la Santa Sede e il par-tito di maggioranza del parlamento repubblicano, la Democra-zia cristiana.

E poi, in fondo, malgrado sia stato senza dubbio più lett o e di-scusso all’est ero che in Italia (dove la teologia controversista non era in vendita dai librai: materia troppo scott ante), Bellarmino era italiano, e salvo una breve parentesi nelle Fiandre visse sem-pre in Italia, principalmente a Roma. Di qui una breve conside-razione di ordine topografi co.

Il cardinale Bellarmino riposa nella chiesa di Sant’Ignazio, nella cappella che precede il transett o destro con la tomba di san Lui-gi Gonzaga. Fu traslato qui nel 1923, all’att o della beatifi cazione:

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fi no ad allora era sepolto nella chiesa del Gesù, att igua alla casa professa della Compagnia, dove aveva vissuto. Fu docente e ret-tore del Collegio Romano, che frequentava assiduamente anche da cardinale e che era la sua seconda residenza. Come inquisi-tore presenziava ai riti d’abiura e di condanna che si celebrava-no nella chiesa domenicana di Santa Maria sopra Minerva, die-tro il Pantheon. Come cardinale fu titolare della chiesa di Santa Maria in Via, a due passi da piazza Colonna. Morì nel noviziato dei gesuiti di Sant’Andrea a Montecavallo, di fi anco al palazzo del Quirinale. E va ricordato che il primo miracolo che gli fu at-tribuito, a un solo mese dalla scomparsa, fu la guarigione di una monaca di Santa Maria in Campo Marzio, nei pressi di piazza Montecitorio.

Se tracciamo una linea che congiunga tutt i questi luoghi ci accorgiamo di disegnare un perimetro che circonda da vicino i palazzi del potere italiano – Montecitorio, Palazzo Chigi, Palaz-zo Madama, il Quirinale. Quello che voglio suggerire al lett ore è di provare a credere che ogni luogo abbia il suo genius, come dicevano i romani, il suo genius loci. Per caso o per provviden-za divina, quello del cardinale Bellarmino si trova ad aleggiare proprio là dove può esercitare meglio la sua potest as indirecta.

Nelle pagine che seguono proverò a tratt eggiare un resoconto sintetico della vita di Bellarmino, delle vicende che lo portarono

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INTRODUZIONE

a essere identifi cato come il “teologo gesuita” per eccellenza e delle polemiche che ebbe con i contemporanei. Per quest o uti-lizzerò soltanto una minima parte dell’enorme massa di scritt i che ci ha lasciato, molti dei quali (fra cui il carteggio degli ultimi ventidue anni di vita, quelli da cardinale) rest ano ancora inediti negli archivi della Compagnia di Gesù.

I testi che userò, di Bellarmino e dei suoi contemporanei, sono in buona parte di caratt ere teologico, e quindi denunciano un’impronta teoretica che li rende di per sé diffi cili da maneg-giare in funzione di un racconto biografi co. Tutt avia lo stesso cardinale ci verrà saltuariamente in aiuto con uno suo breve scritt o che è d’uso chiamare “autobiografi a”.

Si tratt a di un piccolo lavoro (ventott o pagine a stampa nell’e-dizione del 1911) stilato nel 1613 dall’autore nel latino che gli era caratt eristico, colto ed essenziale, dietro richiest a del generale della Compagnia, il padre Acquaviva.

È un test o piutt osto enigmatico, in cui il cardinale, che all’e-poca ha sett antun anni, ripercorre la propria vita tratt enendo-si su ciò che (almeno presumibilmente) allo storico interessa di meno. Non sulle grandi questioni vissute in prima persona, come le lunghe dispute con il re d’Inghilterra o l’assoluzione che permise a Enrico di Navarra di diventare re di Francia, bensì su quegli episodi minori che in fondo rendono il sapore di una vita trascorsa, come le passioni lett erarie dell’adolescenza, le malatt ie

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soff erte, gli incontri casuali con persone di cui non fa neanche il nome, e infi ne le premonizioni – che gli fecero anticipare, fra l’altro, la morte inatt esa di due pontefi ci.

Un test o singolare, insomma, che a noi servirà essenzial-mente per la ricostruzione dell’ambiente culturale e, dove pos-sibile, psicologico in cui non soltanto il protagonista si formò, ma l’intera stagione storica dett a Controriforma ebbe in parte la propria origine.

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1.COME SI DIVENTA

UN TEOLOGO GESUITA1542-1569

I poco più di cento anni che coprono il periodo compreso fra il 1550-60 e il 1650-60 sono stati chiamati il “secolo di ferro”,

con un’espressione che riprende l’antico mito greco della succes-sione delle ere e della progressiva corruzione del mondo. Quei cent’anni videro in Europa guerre praticamente ininterrott e: fu il secolo in cui la Spagna, da potenza militare mondiale, si ridusse a una nazione povera e disabitata, in cui l’Olanda e l’Inghilterra lanciarono la propria vocazione maritt ima mentre Venezia per-deva la sua, in cui la Francia, da Stato sull’orlo del disfacimento, divenne il modello stesso della monarchia assolutista.

Dietro quest e traiett orie politiche ed economiche agivano di-verse forze, ma la più importante, in quel secolo, era la religione,

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o meglio le religioni, visto che dopo la Riforma l’Europa non era più l’omogenea respublica christiana del Medioevo. Le religioni si combatt evano, grosso modo lungo la linea di separazione fra catt olici e protest anti (nonostante le divisioni, anche profon-de, all’interno di ciascun fronte), e le religioni davano un senso alla vita dell’uomo, che si svolgeva sempre sott o l’occhio di Dio.

Se vogliamo scegliere un punto d’avvio di quest o secolo di guerre, il più indicato è paradossalmente l’anno di una pace, la pace di Augusta del 1555. Con essa, per la prima volta, veniva uffi cialmente riconosciuta in Germania l’esistenza di una se-conda confessione cristiana oltre al catt olicesimo, quella lutera-na. L’imperatore Carlo V d’Asburgo, sovrano del Sacro romano impero della nazione germanica (un sovrano che in realtà aveva ben pochi poteri al di fuori dei territori austriaci), fu costrett o ad accett arla dopo che pochi anni prima era stato sul punto di schiacciare militarmente i principi luterani, e il fallimento di quest o suo tentativo di imporre il catt olicesimo con la forza lo portò all’abdicazione.

Il protest antesimo era così diventato un aff are di grande politica internazionale: ogni principe dell’impero si vedeva ga-rantito il privilegio di adott are la confessione catt olica o quella protest ante come religione uffi ciale del proprio Stato, piccolo o grande che fosse, e i suoi sudditi erano costrett i all’alternativa tra adeguarsi o emigrare altrove, conservando però il patrimonio.

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Il 1555 fu anche l’anno in cui, a Roma, si succedett ero tre papi. Il primo, Giulio III, morì in marzo, lasciando un Sacro Colle-gio diviso, si direbbe oggi, tra le colombe della riconciliazione con i protest anti e i falchi della lott a a oltranza all’eresia. Il terzo papa, Paolo IV, al secolo Gian Pietro Carafa, elett o in maggio, era il capo indiscusso dei falchi, il cardinale più autorevole del-la congregazione del Sant’Uffi zio, il tribunale centrale dell’In-quisizione romana.

Paolo IV, il “papa inquisitore”, incarna l’archetipo del papato controriformista: devotissimo, intollerante, ossessionato dall’i-dea della purifi cazione della fede da qualsiasi minima traccia di contaminazione ereticale. Il suo stesso monumento fune-bre (a Roma, nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva, dove l’Inquisizione leggeva le sentenze più importanti) è ancora in grado di incutere soggezione nell’osservatore, anche quello che non sa davanti a chi si trova. Per far capire la nuova aria che spirava tra le mura vaticane Paolo IV fece arrest are nel 1557 il cardinale Giovanni Morone, il miglior diplomatico della curia romana, e lo sott opose a un umiliante processo per eresia. E già meno di due mesi dopo l’elezione, il 14 luglio del ’55, aveva emanato la bolla Cum nimis absurdum, che fondò il lungo re-gime di segregazione degli ebrei romani vietando loro ogni fa-miliarità con i cristiani e obbligandoli a vivere entro lo spazio recintato del ghett o.

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Tra Giulio III e Paolo IV, in realtà, regnò un terzo papa, Marcello II, al secolo Marcello Cervini, di Montepulciano in Val di Chiana. Oggi è praticamente dimenticato, e non senza ragione visto che morì dopo soli ventuno giorni di pontifi cato. Il suo nome è legato sopratt utt o al capolavoro della polifonia sacra italiana, la Missa papae Marcell i di Giovanni Pierluigi da Palestrina, che con il suo rigore armonico esemplare sembra la riproduzione in musica del programma di quel brevissimo pon-tifi cato: “Strappare gli abusi sorti nella Chiesa di Dio, purgar-la da ogni corruzione dei costumi e restituirla al candore della purezza originaria”1.

In verità agli occhi più esp erti di Hubert Jedin, tra i maggiori storici novecenteschi della Chiesa, la fi gura di Marcello II diceva qualcosa di più che a noi. In un suo citatissimo saggio del 1946, Riforma catt olica o Controriforma?, Jedin avanzò la tesi che la ri-presa della Chiesa romana dalla crisi provocata dalla Riforma protest ante fosse iniziata quando il caput, il “capo” (sia nel senso di “test a” che di “guida”, secondo la metafora con cui l’ecclesiolo-gia catt olica usa indicare il papa), era stato capace di rinnovarsi e di infondere nuove energie nella riconquista della cristianità.

1 A. Massarelli, De creatione, pontifi catu et obitu Marcell i II, in Concilium Tridentinum, ed. Societas Goerresiana, Friburgi Brisgoviae, Herder, II, 1911, Diariorum pars secunda, coll. S. Merkle, pp. 262-337, 254-255.

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Quello scarto fu datato dallo storico tedesco proprio al 1555, allorché erano saliti al soglio di Pietro due papi, Marcello II e Paolo IV, fi nalmente dotati della forza d’animo e dello zelo in-disp ensabili a condurre la guerra religiosa contro il protest an-tesimo. Finiva la splendida stagione del papato rinascimentale, in cui i pontefi ci si muovevano prima di tutt o come principi se-colari occupati a ritagliarsi un proprio spazio di potere in Italia. Allo spirare del secolo avrebbe poi preso vita il periodo del pa-pato barocco, quello di Paolo V e di Urbano VIII, di Bernini e della basilica di San Pietro: un papato che sarebbe stato in grado di presentarsi come monarchia universale e punto di riferimen-to indiscusso per tutt i i catt olici proprio grazie al superamen-to della crisi di credibilità della prima metà del Cinquecento.

Per compiere quest o salto, però, il vertice della Chiesa si era dovuto “santifi care”: abbandonare le consuetudini mondane, rac-cogliersi att orno alla pratica dell’ascesi e all’ideale della purezza di fede e, con quest o, riguadagnare legitt imità tra i fedeli. Se nel catt olicesimo contemporaneo quella del papa è una fi gura ca-rismatica, che parla prima di tutt o il linguaggio delle emozioni, lo si deve anche al clima che si instaurò in quegli anni cruciali, oltre quatt ro secoli fa.

I due predecessori di papa Cervini, Paolo III Farnese e Giu-lio III del Monte, appartenevano a un’altra epoca: Giulio III

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aveva suscitato scandalo elevando al cardinalato il proprio fa-vorito diciassett enne; Paolo III aveva addiritt ura scorporato i territori di Parma e Piacenza dai domini della Chiesa per do-narli al fi glio illegitt imo, Pier Luigi. Per avere un’idea del muta-mento che si realizzò con Marcello II basta sapere che questi non volle nemmeno che i fratelli mett essero piede nei palazzi apostolici per il consueto omaggio dei familiari al nuovo elett o.

Fu un att o simbolico, certo, come simbolica fu la scelta di conservare il nome di batt esimo anche da papa o di usare a ta-vola soltanto stoviglie di rame; ma proprio di att i simbolici di quel tipo c’era bisogno per marcare la discontinuità e far capi-re urbi et orbi che lo Spirito Santo era fi nalmente ridisceso sul Vaticano. Un uomo non certo digiuno di faccende curiali come monsignor Angelo Massarelli, il segretario del concilio di Tren-to, fi ssò in poche impressioni il nuovo clima che si era instau-rato: “Nessuna letizia nel suo pontifi cato, nessuna allegria […] ma tutt o era melanconico, tetro, cimiteriale”2.

Nello spazio di un trentennio, uomini come Marcello II e Paolo IV e poi Pio V e Sisto V (i quali, caso unico per l’epo-ca, provenivano addiritt ura da famiglie povere) furono capa-ci di concretizzare con i loro gesti un ideale eroico del papato in cui si incrociarono l’ascetismo e l’accentramento del potere,

2 Ivi, 262.

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il principio della purezza di fede e di costumi e quello dell’in-tolleranza verso ogni manifest azione di dissenso: una mistica dell’autorità che innervò il catt olicesimo della Controriforma e ne costituì il vero colore di fondo. Da notare che furono tut-ti uomini del Sant’Uffi zio, votati a reprimere l’eresia, ovunque essa si nascondesse.

Se l’ascesa al trono di Marcello II resuscitò in molti l’anti-ca sp eranza del “papa angelico” venuto a riportare la Chiesa al candore delle origini, egli fu però un angelo con la spada, come l’arcangelo Michele: ai suoi pochissimi giorni di regno risalgo-no i primi provvedimenti rivolti a colpire con effi cacia e siste-maticità le categorie della marginalità sociale come gli ebrei, gli omossessuali e le prostitute, poi resi coerenti col programma di governo dal suo successore. Da quel 1555 ogni residua possibili-tà di composizione pacifi ca della rott ura confessionale europea fi nì in cenere; se rest aurazione del catt olicesimo in tutt o il con-tinente sarebbe stata – e Roma si consumò in quest a impresa titanica fi no almeno alla metà del Seicento –, essa avrebbe do-vuto avere realizzazione con la guerra.

A custodire le spoglie di papa Cervini, nelle Grott e vaticane, è un severo sarcofago di marmo di epoca tardoantica. Nulla po-trebbe essere più diverso dai magnifi ci monumenti funebri dei pontefi ci precedenti come di quelli successivi. Soltanto il nome

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e la citt à d’origine segnalano il defunto: nessuna effi gie, nessun encomio, nessuna immagine allegorica. Il messaggio, in quell’e-poca di linguaggi allusivi e cifrati, doveva essere chiaro proprio per quest o suo caratt ere aniconico: nessuna gloria agli uomini, solo a Dio e alla sua Chiesa.

A scegliere quel sepolcro, nel 1606, in vista dell’imminente completamento della cripta della nuova basilica di San Pietro, fu il nipote di Cervini secondo la linea materna, Roberto Bel-larmino. Marcello II era morto che quest’ultimo aveva soltanto dodici anni: ma il suo ricordo l’accompagnò fi no alla vec chiaia, come quando nel 1620, scrivendo a sua volta a un nipote, ne rievocava le visite alla citt à natale: “Ogni domenica eravamo chiamati a vederlo cenare et stavamo tutt i i nipoti da parte di sorelle in piedi et scoperti et fi nita la cena andavamo secon-do l’età a baciargli la mano et tornavamo alle case nostre senza dirgli niente”3.

Nel 1606 Roberto Bellarmino era per tutt i il cardinale Bellar-mino, il porporato più autorevole del Sacro Collegio, il teologo di fi ducia del papa e, in quanto venerato difensore della dott ri-na catt olica, la bestia nera dei protest anti di ogni angolo d’Eu-ropa. In realtà era un cardinale particolare: il secondo cardinale

3 Bellarmino ad Antonio Cervini, 7.III.1620, in G. Buschbell, Aus Bell armin Jugend. Nach bisher ungedruckten und unbenutzten Familienbriefe, in “Historisches Jahrbuch”, 23, 1902, pp. 52-75, 307-319, 69, n. 1.

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gesuita dopo Francisco de Toledo, morto nel 1596 dopo anni di att eggiamento ben poco amichevole verso la Compagnia.

In linea di principio nessun membro della Compagnia di Gesù avrebbe dovuto accett are cariche nella gerarchia eccle-siastica, a meno di esservi obbligato dal papa sott o il vincolo d’obbedienza. Lo aveva stabilito il fondatore, Ignazio di Loyola, nelle Constitutiones, lo statuto che reggeva l’ordine. Bellarmino dovett e piegarsi alla volontà di Clemente VIII – in realtà la sua corrispondenza con il fratello Tommaso rivela una certa solle-citudine al riguardo – e accett are il titolo cardinalizio. Le parole pronunciate dal papa in quell’occasione furono a lungo ricordate dai suoi biografi come supremo att est ato di stima: “Scegliamo colui che non ha eguali nella Chiesa di Dio quanto a dott rina, ed è nipote dell’eccellente e santissimo pontefi ce Marcello II”4. A quasi mezzo secolo dalla morte, l’ombra di papa Cervini ac-compagnava ancora il nipote; e al momento della cerimonia uffi ciale di imposizione del cappello rosso quest’ultimo volle ricordarsene, rifi utandosi di ricevere i parenti.

L’infl uenza dello spirito di papa Marcello, in realtà, si era fatt a sentire molto prima: tra l’appartenenza di Bellarmino alla

4 G. Fuligatt i, Vita del cardinale Roberto Bell armino dell a Compagnia di Giesù, in Roma, appresso l’herede di Bartolomeo Zannett i, 1624, p. 123.

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famiglia Cervini e quella alla Compagnia di Gesù, infatt i, c’era un legame molto strett o.

I biografi antichi di Marcello II ci descrivono un incontro fra il papa appena elett o e Ignazio, venuto a rendergli omaggio; quest o incontro si chiude con un invito che è tutt o un pro-gramma di guerra: “Raccogli soldati e addestrali alla guerra. Io ne farò uso”5. Così parlavano i papi in quel secolo di ferro, e il confi ne tra la metafora e la realtà, come vedremo, era as-sai sott ile.

Cervini e Loyola appartenevano alla stessa generazione. Lo-yola aveva esatt amente dieci anni di più e morì un anno dopo, il 31 luglio 1556. Ma i due condividevano altro: la stessa austeri-tà di costumi, la stessa rigorosa fede nel primato assoluto della Sede apostolica come vertice della Chiesa, lo stesso zelo antie-reticale. Sono le caratt eristiche che disegnano il profi lo di quella generazione di mistici e pastori della Riforma catt olica che, ne-gli anni più bui della crisi, accompagnano alla tomba la Chiesa del tardo Medioevo e contribuiscono alla nascita di quella del mondo moderno.

Cervini conosceva bene i gesuiti e ne apprezzava senza riser-ve l’abnegazione, l’elasticità diplomatica e la grande competenza

5 P. Pollidori, De vita, gestis et moribus Marcell i II Pontifi cis maximis commentarius, ex typographia Hieronymi Mainardi, Romae 1744, p. 123.

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dott rinale. Da legato papale al concilio di Trento si era servito di due fra i migliori uomini di Loyola, Diego Laynez e Alfonso Salmerón, in qualità di consiglieri teologici in quella rischiosis-sima arena dove gli ordini ricevuti da Roma erano di allineare alle posizioni del papato i partiti dei vescovi spagnoli, francesi e imperiali, litigiosi e gelosi delle proprie prerogative vecchie di secoli. Aveva voluto Laynez come confessore, e, da vescovo di Gubbio, aveva fatt o uso dei primi compagni di Ignazio, la cer-chia dei più antichi adepti del fondatore, per “visitare” i mona-steri della diocesi – ossia, secondo la terminologia ecclesiasti-ca, per controllarvi rigorosamente la disciplina in anni in cui nei chiostri, come nel rest o della società, poteva consumarsi di tutt o, dalla sessualità illecita ai regolamenti di conti con tanto di morti e feriti.

Nel 1557 la Compagnia di Gesù inaugurò un collegio anche a Montepulciano, pensato, come altri, per l’educazione dei fi gli del patriziato della citt à. Qui Roberto Francesco Romolo Bel-larmino era nato nel 1542 da una famiglia di piccoli proprieta-ri terrieri, ascritt a all’albo dei nobili ma, in verità, assillata da sensibili diffi coltà economiche, tanto che i fi gli maschi avevano potuto frequentare le prime classi della scuola solo grazie alla generosità dei fratelli della madre, Cinzia Cervini. Il cognome autentico della famiglia, per la verità, era Bellarmini: ma già da

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adesso, per comodità, chiamerò il fi glio che ci interessa con la forma nominativa umanistica con cui è noto.

Roberto, secondo il giudizio della madre, era “di miglio-re ingegnio di tutt i”, per cui la sua decisione di prendere i voti rinunciando all’idea di laurearsi in medicina nella cele-bre università di Padova dovett e essere un brutt o colpo per le sp eranze di riscatt o sociale di una famiglia che già aveva dovuto subire il trauma di vedersi proiett ata e poi scalzata dall’apice del gran mondo nel giro di tre sett imane. A oppor-si, in realtà, risulta fosse solo il padre, Vincenzo: una fi gura pressoché assente dalle memorie del cardinale, e che dovett e rest are schiacciata dall’alleanza tra la più ricca famiglia del-la moglie, di gran lunga più autorevole, e il cenacolo gesuiti-co att ivo in citt à.

Di quest o rapporto privilegiato fra la madre e i gesuiti di Montepulciano è Bellarmino stesso a ragguagliarci nell’auto-biografi a: “Entrambi i genitori erano devoti, ma sopratt utt o la madre, che si chiamava Cinzia, ed era sorella di papa Mar-cello II. Ella conobbe la Compagnia per tramite del padre Pa-schase Broët, uno dei primi dieci [compagni di Ignazio], che per caso, con l’occasione di prendere i bagni e per curare la propria malatt ia, si era trovato a passare per Montepulcia-no. Lo venerava e lo elogiava con espressioni magnifi che, e per quest o amò sempre la Compagnia, tanto da desiderare

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che tutt i i suoi cinque fi gli vi entrassero. Si era consacrata alle elemosine, alla preghiera e alla contemplazione, ai digiuni e alle mortifi cazioni corporali”6.

L’elemosina, la preghiera, le mortifi cazioni corporali. In ap-parenza un normale ritratt o d’interni come tanti altri, di de-vozione controriformistica “mediterranea”, di quella che per secoli ha dominato la pratica religiosa catt olica e che ancora oggi, in alcuni ambienti, conta i propri adepti.

In quest o caso il profi lo religioso di Cinzia Cervini, per come ci è descritt o dal fi glio in pochissime parole a decenni di distan-za, presenta un elemento peculiare, sul quale concentreremo l’att enzione perché ci aiuterà a capire meglio quel mondo e le dinamiche che lo governavano. Cosa dobbiamo intendere per “preghiera” e “contemplazione”? Quando si studiano i gesuiti, e in particolare i gesuiti delle prime generazioni tra i quali lo spi-rito missionario e carismatico del fondatore pulsa ancora della sua forza originaria, questi due termini signifi cano di fatt o una cosa: gli esercizi spirituali, e cioè la più straordinaria tecnica di conversione e rigenerazione interiore conosciuta dal mondo catt olico nel XVI secolo.

6 Autobiografi a, in X.-M. Le Bachelet, Bell armin avant son cardinalat 1542-1598. Corr espondance et documents, Gabriel Beauchesne, Paris 1911, pp. 438-466, 442.

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Paschase Broët, originario della Piccardia, nella Francia set-tentrionale, era uno degli antiquissimi, i primi affi liati al gruppo dei discepoli di Ignazio; uno di quegli uomini della religiosità cinquecentesca che vivevano come un’urgenza esistenziale il desiderio di tornare allo spirito dei Vangeli. Prima ancora del-la Regimini militantis Ecclesiae, la celebre bolla del 1540 con cui Paolo III riconobbe uffi cialmente l’istituto della Compagnia di Gesù, era tra coloro che si incamminavano in lunghissime mis-sioni itineranti att raverso le citt à e le campagne per promuo-vere la riforma dei costumi tra i chierici e i laici, non di rado suscitando il sosp ett o delle autorità ecclesiastiche per la scarsa riverenza che mostravano nei confronti delle gerarchie e degli ordini religiosi di secolare tradizione.

In quell’epoca di distanze enormi e di condizioni di vita sem-pre al limite della sussistenza, l’att ività missionaria di Ignazio e dei suoi compagni come Diego Laynez, Pierre Favre o Claude Jaÿ sembrava sorrett a da un’energia soprannaturale. Tra il 1538 e il 1552 troviamo Broët nel Senese, poi in Irlanda e in Scozia, di nuovo in Toscana, in Lombardia, in Romagna e infi ne a Parigi. Soltanto i reparti militari erano capaci di muoversi con tale di-sinvoltura su scacchieri così vasti.

Il parallelo, naturalmente, non è casuale. Come è noto Igna-zio di Loyola aveva vissuto nell’esercito castigliano alcuni anni della giovinezza, e dopo il passaggio alla vita religiosa aveva

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deciso di dare alla sua congregazione un nome (“compagnia”) e una disciplina militari. Per quest o l’apostolato dei gesuiti era tutt ’altro che un apostolato della spontaneità, come invece era stato per i predicatori itineranti del tardo Medioevo che aveva-no lasciato nella memoria della Chiesa un pessimo ricordo di agitatori e fomentatori di instabilità sociale. Nelle missioni dei gesuiti lo spazio per l’iniziativa personale era minimo: il supe-riore, risp ett ato e temuto come poteva esserlo un comandante, assegnava a ciascuno la sua destinazione, i mezzi e gli obiett ivi.

La strategia di fondo puntava a un’irradiazione dai centri ne-vralgici alle periferie: prima conquistare i ceti superiori e le aree urbane a maggiore densità di popolazione, poi il popolo minuto, i contadini e le campagne. Su tutt o vigilava il generale, Ignazio, che att raverso un perpetuo contatt o epistolare con gli inferio-ri gerarchici era il perno att orno al quale ruotava l’intera mac-china delle missioni. Quello di Ignazio di Loyola è il più ampio carteggio di tutt o il XVI secolo: di nessun particolare, neppure il più minuto, della vita e della condott a dei suoi uomini dove-va essere tenuto all’oscuro. Una burocrazia spirituale che di lì a poco sarebbe stata replicata dalla colossale burocrazia ammi-nistrativa dell’impero di Filippo II, il re che aff ogava nelle carte.

La prima vocazione pastorale gesuitica si realizzò nell’area delimitata da tre coordinate, la comunione, la predicazione, gli esercizi spirituali, ossia nelle dimensioni del gest o, della parola

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e del pensiero. Fu in quest e tre dimensioni che la Compagnia di Gesù seppe rispondere effi cacemente alla domanda di sacro che saliva impetuosamente da società messe in crisi da un cao-tico sviluppo demografi co, dall’allargamento delle distanze tra i ceti, dall’aumento generalizzato dei prezzi dei beni di consumo e, prima di tutt o, dallo straordinario fermento religioso inne-scato dalla Riforma protest ante. Non stupisca la commistione di inquietudini sociali e religiose: dove non esisteva ancora una teoria della giustizia sociale su quest a terra, l’unico riferimento era l’eguaglianza archetipica di Gesù e degli apostoli.

Per capire il successo dei gesuiti e delle altre congregazioni dell’età tridentina (i cappuccini, i teatini, i barnabiti) dobbiamo tenere presente che fi no a tutt i gli anni quaranta del Cinque-cento la stessa penisola italiana era scossa da un capo all’altro dal sorgere spontaneo di cenacoli che si ispiravano a Lutero, nei quali le diff erenze tra clero e laici erano abbatt ute e anche l’ulti-mo mugnaio e tessitore si permett eva di aprire la Bibbia e dire la propria su Cristo, il papa e la grazia divina.

A fronte di tutt o quest o, il clero tradizionale versava nel migliore dei casi nell’impotenza – nel peggiore nella conni-venza. Impotenti erano gli antichi ordini mendicanti come i domenicani e i francescani, cristallizzati nell’educazione logica e dialett ica delle scuole medievali; impotenti erano i vesco-vi, il più delle volte distanti dalle loro diocesi e preoccupati

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sopratt utt o di amministrarne i relativi benefi ci; impotenti era-no i parroci, indisciplinati, sp esso poveri e privi persino dei rudimenti di dott rina. Senza contare che in quest e tre cate-gorie si annidavano parecchi simpatizzanti più o meno clan-destini della Riforma.

La risposta a quest a insoddisfatt a domanda di sacro che pro-veniva da tutt i gli strati sociali rappresentò il canale att raverso cui la Compagnia costruì la propria egemonia nell’Europa catt o-lica, a partire dalle classi dirigenti, fi no al XVIII secolo inoltrato.

La ragione di tutt o ciò va cercata nel lento emergere di un soggett o nuovo all’interno del panorama religioso della prima modernità, ossia la coscienza individuale, proprio quella cui si era appellato Lutero. Se il cristianesimo medievale era centrato essenzialmente sul primato della comunità (l’uso della confes-sione pubblica e i pellegrinaggi collett ivi ne sono un esempio), con il fi orire travolgente del protest antesimo il nucleo di signi-fi cato del discorso religioso era stato drammaticamente spo-stato all’interno della coscienza dell’individuo. Lutero, Calvino, Zwingli, Butzer e gli altri maestri della Riforma parlavano un linguaggio nuovo, che non era il linguaggio delle appartenen-ze est eriori o degli antichi culti di villaggio ma quello della fede e della salvezza dell’anima dopo la morte, che facevano capo all’individuo e a lui soltanto.

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Per quest o la coscienza dei fedeli divenne il campo di bat-taglia sul quale la Chiesa catt olica si trovò a dover combatt e-re per la propria sopravvivenza. L’unica vera arma possibile fu quella della persuasione, un concett o che tornerà più volte nelle prossime pagine in ragione della sua capitale importanza nel processo di ripresa, o di rinascita, del catt olicesimo moder-no. Senza l’idea della persuasione non potremmo capire non soltanto, come leggiamo sui saggi di storia dell’arte, la pitt ura e l’architett ura barocche, ma nemmeno l’esaltazione dei miracoli e delle apparizioni, né la predicazione, e nemmeno la teologia controversista di Bellarmino. Tutt o il programma egemonico della Controriforma fu un programma di persuasione, anche in quest o caso nella dimensione del gest o (la ritualità dei sacra-menti), della parola (la predicazione) e del pensiero. E qui tor-niamo alla preghiera mentale praticata degli esercizi spirituali.

Il test o degli Exercitia spiritualia (così il titolo latino) era sta-to fi ssato da Ignazio in oltre un decennio di soff erto travaglio interiore. La prima edizione a stampa uscì nel 1548, ma all’epo-ca già da parecchi anni il libro circolava nella cerchia gesuitica originaria in forma manoscritt a.

Senza dubbio gli Exercitia erano arrivati su un terreno già ampiamente fertile. Verso il tramonto del Medioevo aveva preso a crescere un modo diverso, più personale, di concepire

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la religione: ne sono testimonianza il moltiplicarsi, nel primo Cinquecento, delle congregazioni laicali dedite alla contempla-zione e alla carità, e prima ancora il movimento della Devotio moderna che si era diff uso dai Paesi Bassi dalla fi ne del XIV se-colo con le sue forme di preghiera destinate ai laici. Così come ha un signifi cato storico inconfondibile il progressivo incre-mento di traduzioni della Bibbia nelle lingue volgari europee: quindici edizioni italiane dell’Antico Test amento e sedici dei Vangeli stampate a Venezia nel solo trentennio fra il 1530 e il 1558, prima che le autorità ecclesiastiche vietassero i volgariz-zamenti biblici imponendo la sola Vulgata latina. I cristiani volevano leggere, o sentir leggere, nella loro lingua i misteri della parola divina.

È sullo sfondo di quest o clima culturale che va inquadrata la fortuna che la preghiera mentale seppe riscuotere: consentiva anche ai laici, impegnati nelle incombenze quotidiane, quell’e-sp erienza del religioso che il cristianesimo medievale aveva ri-servato all’uffi cio del coro praticato dai monaci; rompeva le barriere che, nel microcosmo della chiesa, separavano i laici dai chierici e gli uomini dalle donne; donava quella disciplina inte-riore e quel senso dell’esistenza capaci di trascendere la perpetua precarietà della vita nelle società preindustriali. Una “révolu-tion psychologique” la defi nì brevemente il grande storico delle mentalità Lucien Febvre.

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A decretare il successo degli esercizi era la loro concreta di-mensione terapeutica: curare i mali dello spirito, domare le in-quietudini, instillare un senso assillante del peccato per esalta-re la promessa del perdono. La prima sett imana di preghiera, quella impartita più di frequente agli allievi – la cosiddett a “via purgativa”, che precedeva la “via illuminativa” della seconda set-timana – era vista come una pratica di igiene dell’anima fondata sulla meditazione att orno ai peccati e all’inferno, con esiti che avevano dell’incredibile. Nell’est ate del 1550 Claude Jaÿ riferi-sce al generale di avere dato gli esercizi al potente vescovo Ott o Truchsess ad Augusta in Svevia: il prelato, abituato a una vita da principe, si volge alla penitenza, rinuncia all’enorme corte di servitori, alle statue nude di gusto classico e agli arazzi che ornano il suo palazzo. Successi analoghi si erano registrati po-chi anni prima con i patrizi di Dillingen, delle citt à renane, di Parma, dove Laynez e Favre avevano guidato nella meditazio-ne un centinaio di rampolli delle migliori famiglie della citt à, alcuni dei quali sarebbero diventati fi gure di primo piano della Compagnia.

In quegli stessi anni anche l’Appennino tosco-umbro è uno scenario favorito dai missionari gesuiti. Nel 1539 giunge a Mon-tepulciano Francisco de Estrada, un giovane castigliano che si esprime in un italiano approssimativo ma è capace di infi ammare

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gli animi con la forza della parola. Pochi anni dopo, come ab-biamo visto, è la volta di Paschase Broët: nel 1547 dà gli esercizi a Cinzia Cervini, a suo fratello Alessandro e alla cognata Gi-rolama Bellarmini.

La piccola comunità, dietro la quale giganteggia la fi gura di Marcello Cervini, diventa devotissima alla Compagnia; è il centro di una ristrett a cerchia di famiglie della piccola nobiltà municipale legate da vincoli matrimoniali e da una dedizione assoluta al nuovo modello di pietà che impone di vivere la vita come un costante esercizio di preghiera e di penitenza senza ri-nunciare al perseguimento del potere e degli interessi mondani. Da quest a élite di provincia, la curia romana e la Compagnia di Gesù att ingeranno energie preziose: Francesco Maria Tarugi, fondatore dell’Oratorio di Napoli e cardinale nel 1596; France-sco Benci, docente di retorica al Collegio Romano e rinomato cultore di oratoria ciceroniana; Roberto Bellarmino, che al cap-pello rosso arriverà nel 1599.

In realtà non sappiamo con esatt ezza in quale momento della sua adolescenza Bellarmino si accosti agli esercizi spirituali. Sap-piamo invece che la sua decisione di prendere i voti e indossare l’abito dell’ordine risale ai primi mesi del 1558, all’età di quindici anni e mezzo. Nel maggio di quell’anno il padre Giovanni Gam-baro del collegio di Montepulciano scrive al generale Laynez, a proposito dell’assiduità degli studenti nella comunione, che “uno

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parente di papa Marcello, santa memoria, cominciò di Natale et dall’hora in qua è stato desideroso di servire Iddio nella Compa-gnia crescendo sempre in desiderio et spirito”.7 Le memorie del cardinale, con la distanza della terza persona, confermano: “A se-dici anni, nell’accingersi a trasferirsi a Padova per gli studi superio-ri […], decise di lasciare il mondo ed entrare nella Compagnia”.8

Quello che possiamo desumere con certezza dai documenti è che l’abito mentale del cardinale Bellarmino è intimamente compenetrato della spiritualità militante degli Exercitia. Sen-za di essi non sarebbero pensabili i manuali di contemplazione che redige nell’estrema maturità, come il De ascensione mentis in Deum (“L’ascesa della mente a Dio”, 1615) e il De arte bene morien-di (“L’arte del ben morire”, 1620), nei quali l’uso dell’immagine mentale è dett agliatamente studiato per accendere la reazione emotiva e condurla al fi ne della perfezione. Sono librett i distillati nell’ombra dei ritiri autunnali di meditazione nel noviziato della Compagnia, a Sant’Andrea a Montecavallo, e che si imporranno come classici della lett eratura d’edifi cazione controriformista.

Senza gli Exercitia, però, non sarebbe pensabile nemmeno la virulenza fredda e tagliente che rende celebri le lezioni di controversie che Bellarmino impartisce dalla catt edra con la

7 15.V.1558, in Le Bachelet, Bell armin avant son cardinalat, op. cit., pp. 6-7.8 Autobiografi a, op. cit., p. 444.

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precisione di un chirurgo e l’eleganza di un ritratt ista: è il caso della prolusione che apre la Controversia generalis de Christo, ri-salente all’autunno del 1581, con la metafora dei due eserciti che si preparano alla batt aglia – i catt olici da una parte, gli eretici dall’altra – che richiama da vicino la meditazione sui due ves-silli, l’uno issato nel campo di Cristo l’altro in quello di Lucifero, con cui Ignazio apre il quarto giorno della seconda sett imana di meditazione. Lo stesso vale, infi ne, per il Bellarmino predica-tore. Un sermone pronunciato a Lovanio nel 1569 è una para-frasi quasi lett erale del quinto esercizio della prima sett imana, ossia la meditazione sulle pene infernali secondo la percezione dei cinque sensi: lo sp ett ro terrifi cante di Satana per la vista, gli ululati di dolore per l’udito, il puzzo di sentina per l’olfatt o, la sete che tortura il palato per il gusto, il fuoco che ulcera la pel-le per il tatt o.

Dobbiamo ricordare, del rest o, che i gesuiti impegnati nelle missioni trovano negli Exercitia un arsenale retorico da cui trar-re temi, immagini e metafore, ciascuna adeguata all’argomento della predica e al pubblico che si trovano di fronte. Un caleido-scopio di peccato e punizione che contribuisce ad alimentare i grandi rituali controriformistici del perdono (le processioni, le Quarant’ore, le preghiere collett ive) e la cerimonia gerarchica dell’eucarestia – una delle pietre angolari del modello culturale che rilegitt ima l’autorità della Chiesa romana, con il fedele, dal

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re all’ultimo dei contadini, in ginocchio a ricevere il cibo spiri-tuale dal sacerdote.

È in quest a pratica di rinnovamento interiore che sono da ricercare alcune tra le radici più profonde della psicologia col-lett iva dell’età della Controriforma: prima fra tutt e quella mi-stica dell’obbedienza che spira dalle diciott o regole per “senti-re con la Chiesa” che chiudono gli Exercitia e rappresentano lo “scandalo” storico dell’ordine dei gesuiti (“Per essere senza dub-bio concordi e conformi alla Chiesa catt olica dobbiamo sempre proclamare nero ciò che essa ha defi nito nero, anche se dovesse apparire bianco ai nostri occhi”)9.

L’att ività oratoria del cardinale Bellarmino non ha mai goduto di grande att enzione fra gli storici, messa in ombra dalla presen-za ben più imponente degli scritt i di teologia. Eppure, per tutt a la prima metà del Seicento le sue omelie riscuotono ammira-zione e corrono fra le mani di predicatori e dirett ori spirituali.

Quest a disatt enzione si spiega in parte con il fatt o che le cul-ture dell’oralità – un tempo interpretate da un largo sp ett ro di ruoli sociali, dal predicatore al cantastorie al capofamiglia anziano – sono ormai estranee al nostro orizzonte dialett ico, assuefatt o

9 Regulae aliquot servandae, ut cum orthodoxa Ecclesia vere sentiamus, in Exercitia spiritualia, op. cit., pp. 404-16, regola 13, pp. 410-412.

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alla supremazia della forma scritt a e visiva di comunicazione, e ormai quasi impermeabile alle seduzioni dell’arte oratoria. Quest’ultima, invece, nell’Europa moderna possedeva il dono preziosissimo di muovere le coscienze, creare immaginari, for-giare verità inconfutabili perché argomentate dialett icamente.

Vista da vicino, la traiett oria biografi ca di Bellarmino ci mostra come la sua esp erienza di predicatore abbia preparato quella di teologo, e ne abbia posto le basi. I sett e anni trascorsi a Lovanio, in Belgio, fra il 1569 e il 1576 costituiscono il punto di congiunzione fra quest e due fasi. Così è esplicitamente di-chiarato nelle memorie: “Predicò per i primi sei anni, ma se ne astenne il sett imo perché le forze già gli erano venute a man-care, mentre insegnò gli ultimi sei. Dunque il primo anno si limitò a predicare, l’ultimo a insegnare, e nei cinque anni di mezzo predicò e insegnò assieme”10. Dietro quest a rievocazio-ne si profi la, nel linguaggio asciutt o dell’autore, una memoria di formazione, la testimonianza di una “seconda nascita” descrit-ta come passaggio dalla retorica sacra alla teologia controver-sista. Del rest o entrambe le discipline, l’ho già notato, avevano il fi ne di convincere.

Risalendo ancora più in là nella memoria e approdando agli anni dell’infanzia, Bellarmino ci tiene a dipingere il quadro di

10 Autobiografi a, op. cit., p. 451.

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una sua precoce vocazione alla parola: “Ancora bambino – di cinque o sei anni, direi – pronunciava sp esso dei discorsi, e, in piedi su di uno sgabello rovesciato, con una vest e di lino ad-dosso, predicava sulla passione del Signore”11. Naturalmente è labile il confi ne fra l’att endibilità del ricordo e la tarda rielabo-razione del passato secondo un modello agiografi co. Tutt avia il fatt o stesso che Bellarmino abbia cura di raccontarsi in questi termini rest a signifi cativo della percezione che doveva avere di sé e della propria storia.

Qual era, dunque, la sua storia di formazione? Per essere con-cisi potremmo usare una parola sola: classicismo. Il culto per il latino di Virgilio in particolare, che all’epoca era marchio indi-scusso di eleganza, rigore e disciplina del linguaggio. Il mondo della Riforma catt olica, dal grande cardinale umanista Gasparo Contarini a quella sp ecie di monumento della santità tridentina che era Carlo Borromeo, era intriso di classicismo. Alla pari di quest e fi gure era anche Marcello Cervini, ansioso collezionista di manoscritt i antichi tra i quali si gett ava non appena libero dagli impegni di curia.

Gli “studi di umanità” – studia humanitatis: lett eratura, reto-rica, storia greca e romana – erano anche un veicolo dell’intesa

11 Ivi, p. 442.

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fra la politica egemonica dei gesuiti e i ceti dirigenti delle citt à italiane. A quest e fonti, reinterpretate con il fi ltro ideologico della pietà cristiana (e cioè depurate di tutt o ciò che sapeva di paganesimo, erotismo e immoralità), si formavano le giovani generazioni della nobiltà e del mondo delle corporazioni cit-tadine. La capacità di att ingere con scioltezza al vocabolario di Tacito, Cicerone e Virgilio era infatt i un segno di distinzione sociale come pure una garanzia di saper tratt are i delicati aff ari della politica in un’età in cui si dava per scontato che la storia fosse “maestra di vita”.

Arrivato a Roma da pochi giorni con il cugino Ricciardo, Bellarmino è accolto dal generale dei gesuiti in persona, Diego Laynez, che in deroga alle costituzioni dell’ordine che impon-gono due anni di noviziato consente ai due giovani di pronun-ciare seduta stante i voti minori. Si tratt a evidentemente di un omaggio alla memoria di Marcello II, che noi possiamo leggere ex post come il saldo di un debito postumo. Laynez, l’abbiamo lett o prima, era stato infl essibilmente al servizio dell’opera ri-formatrice del cardinale Cervini: e adesso quest’ultimo, cinque anni dopo la morte, lo ripaga simbolicamente donando alla Com-pagnia due nipoti di promett ente ingegno. Di Ricciardo Cervi-ni sappiamo che, dopo due anni di studio al Collegio Romano, sarà inviato al collegio gesuitico di Loreto dove si sp egnerà, nel 1564, all’età di venticinque anni.

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È al Collegio Romano, durante il triennio di studi superiori, che Bellarmino entra in contatt o con alcune tra le menti che orienteranno la teologia catt olica fi no alla fi ne del XVI seco-lo e oltre: Francisco de Toledo, incaricato del corso di logica e primo cardinale gesuita; Juan de Mariana, autore di un tratt a-to sullo Stato, il De rege, che diverrà uno dei simboli della teo ria politica della Controriforma; Benito Pereyra, autorevole ese-geta biblico; Juan Perpinyá, maestro di stile ciceroniano. Un insieme di intellett uali di eccezionale rilevanza riuniti sott o lo stesso tett o con giovani provenienti da tutt a l’Europa catt olica. Al Collegio Romano si respira un’aria di crociata condott a con le armi del sapere. Le notizie delle favolose conversioni opera-te dai missionari nelle Indie orientali si incrociano con i reso-conti delle batt aglie teologiche combatt ute in Germania, dove i gesuiti si stanno facendo un nome come avversari formidabili dei predicatori protest anti. Se mai la Controriforma ha avuto una sua età eroica, qui ne siamo al cuore.

Per Bellarmino, tutt avia, si tratt a di un periodo non breve, ma comunque di passaggio. Nel 1563 gli viene diagnosticata la tisi. I superiori decidono di allontanarlo dall’aria insalubre del-la capitale del papa.

È il momento in cui il giovane gesuita, convinto di dovere alla grazia divina la propria capacità “di capire e spiegare tutt o”, sa

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fare tesoro delle proprie straordinarie energie intellett uali: “Fu costrett o – ricorda nelle memorie – a insegnare il greco, le regole della retorica, la teologia scolastica, e dalla prima adolescenza a predicare nelle chiese e a recitare le esortazioni ai confratelli. E per questi obblighi apprese da sé il greco e l’ebraico, lesse quasi per intero i Padri, la storia, parecchi dott ori scolastici, i concili o i loro sommari, e così pure quasi tutt o il diritt o canonico”12. Al nett o delle probabili esagerazioni, capita non di rado che i grandi maestri siano autodidatt i.

Il periodo fi orentino è singolarmente breve. Emanuele Fili-berto di Savoia, comandante supremo dell’esercito imperiale, sta riorganizzando il suo Stato con la stessa infl essibile disciplina con cui ha vinto per Carlo V contro i francesi la decisiva batt a-glia di San Quintino del 1559, quella che decise per cinquant’an-ni gli equilibri strategici dell’Europa continentale. È anche un uomo singolarmente devoto, abituato a trascorrere le nott i in trincea come in cappella a pregare.

A Mondovì, da poco riconquistata ai francesi dopo una lun-ga trafi la di guerre, Emanuele Filiberto ha affi dato l’università italiana del ducato di Savoia al padre Antonio Possevino, fi dato consigliere di Laynez. Sono terre che pullulano di valdesi e cal-vinisti, e l’affi damento ai gesuiti della rete dell’istruzione – oltre

12 Autobiografi a, op. cit., p. 464.

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a Mondovì i collegi di Chambéry e Torino – è in genere una ga-ranzia per quest o genere di questioni.

Nell’ott obre del 1564 – di nuovo ott obre, mese di mutamenti per Bellarmino – Juan de Polanco, segretario di Laynez, impar-tisce al giovane docente la nuova destinazione: “Il buon talento che havete per le lett ere humane lo sp enderete ivi con più frut-to che in Fiorenza, leggendo la prima classe di retorica […]. La Compagnia nostra non può mancare a mandare un buon su-gett o per quella lectione quest o anno et non ci è niuno al pro-posito se non voi”13.

La classe primaria di retorica, ossia Cicerone, e Demostene nell’originale greco. E poi un’intensa att ività oratoria nell’uni-verso ecclesiastico locale: le lett ure sacre durante i pasti della comunità, i sermoni nella chiesa del collegio e in duomo, le esor-tazioni ai confratelli – oltre naturalmente alle mansioni quoti-diane della casa professa, l’assistenza ai sacerdoti nella funzione, la sorveglianza dell’ingresso, la sveglia matt utina dei padri. È il nuovo modello di predicatore della Riforma catt olica: una soli-da preparazione classica asservita allo zelo pastorale, una dedi-zione totalizzante all’apostolato, la vita personale come esempio di edifi cazione da off rire all’uditorio.

13 Polanco a Bellarmino, 28.X.1564, in Le Bachelet, Bell armin avant son cardinalat, op. cit., p. 50.

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Di quest o modello i gesuiti si rappresentano come gli interpreti più fedeli. Nelle grandi opere propagandistiche della Compagnia, come la magnifi ca ed enigmatica Imago primi saeculi Societatis Iesu licenziata dai padri del collegio di Anversa nel 1640, centenario della fondazione, il munus concionandi, la funzione predicatoria, fa il paio con l’insegnamento (il munus docendi) a stabilire le due grandi colonne su cui poggia l’architett ura ignaziana. Le Histo-riae Societatis Iesu di Francesco Sacchini (1620) e la Vita di sant’I-gnazio di Daniello Bartoli (1650) provvedono a rendere materia comune le rivelazioni est atiche di Arcangela Panigarola, una delle “sante vive” del primo Cinquecento che, ben prima della fondazione dell’ordine, aveva presagito l’arrivo di una schiera di uomini devoti che “come novi apostoli, si sariano aff aticati per la conversione di tutt o il mondo, et haverebero levato il pulpito alli frati”14 – e dunque ai membri dei più antichi ordini regolari come i domenicani e i francescani, che nei gesuiti avrebbero vi-sto immancabilmente pericolosi rivali in chiesa.

Per comprendere il successo della predicazione gesuitica oc-corre tornare alle origini della Compagnia. Nelle Constitutiones Ignazio si era limitato ad assegnare alla retorica, alla grammatica,

14 Presunta profezia dell a serva di Dio suor Arcangela Panigarola circa la fondazione dell a Compagnia di Gesù, in P. Tacchi Venturi, Storia dell a Compagnia di Gesù in Italia, Edizioni “La Civiltà catt olica”, Roma 19503, I/2, Documenti, p. 219.

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alla storia, al greco e all’ebraico una funzione propedeutica allo studio della teologia. Ma quest a scarna dirett iva si era tradott a, nella vita militante dei collegi, in una didatt ica dei classici che mirava a produrre una vera e propria catarsi nella psiche degli allievi: l’abbandono della vita mondana, l’assuefazione alla vir-tù suprema dell’obbedienza.

Se i poeti dell’antichità pagana erano stati ripudiati dal cano-ne degli intellett uali protest anti, la pedagogia controriformista li aveva invece piegati al proprio vasto disegno educativo: la ric-chezza espressiva della lingua di Virgilio, il ricorrere del tema della virtù, la presa dei racconti mitologici sull’immaginario li avevano resi strumenti incomparabili di didatt ica. I semi della cultura occidentale erano stati normalizzati con l’espulsione dei passi che parlavano di caso, di eros e di inelutt abilità del corso naturale delle cose. Tutt ’altra cosa risp ett o all’accoglienza en-tusiastica del patrimonio degli antichi da parte degli autori del Rinascimento: nel nuovo clima tridentino il passato lett erario della classicità era vagliato minuziosamente, reinterpretato, e consegnato alle esigenze presenti della lott a religiosa.

Naturalmente i gesuiti non erano stati i soli interpreti di que-sto rinascimento della parola. I grandi intellett uali catt olici di metà Cinquecento, i vescovi e cardinali umanisti che avevano infuso nel papato le energie necessarie alla ripresa, erano tutt i allievi dell’umanesimo cristiano che univa il culto per il latino

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pulito dell’età augustea al fervore religioso che imponeva umil-tà e innocenza di costumi.

Alcuni tra i più diff usi breviari per i predicatori della prima Controriforma – al tempo stesso manuali di stile e codici di com-portamento – erano stati pensati per formare rètori-asceti che risultassero esemplari nell’uso della parola e nella condott a di vita: il Modus concionandi di Contarini del 1540, l’Aviso di quan-to si ha da osservare dall i predicatori voluto da Giovanni Moro-ne per la diocesi di Modena nel 1551, le istruzioni di Gabriele Paleott i per la diocesi di Bologna degli anni sett anta del secolo e sopratt utt o il grande test o precett istico della retorica triden-tina, le Instructiones praedicationis verbi Dei del cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, pubblicate per la provincia ecclesiastica milanese nel 1573.

Con le Instructiones di Borromeo siamo al cuore di quel pro-gramma di inculturazione religiosa che ha forgiato l’anima dell’I-talia moderna, e la cui ombra lunga si distingue ancora oggi nel catt olicesimo lombardo.

Il tono è quello dell’esaltazione che accompagna il diramar-si, nelle citt à e nelle campagne, della voce di una Chiesa votata all’assoggett amento delle coscienze. Nelle parole di Borromeo, pronunciate con un accento più simile a quello di un sovrano spirituale che di un semplice vescovo, le regole dell’oratoria sacra,

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se accompagnate alla sott omissione alla volontà divina, sortisco-no eff ett i miracolosi: “A malapena si può descrivere con quale facilità, con il primario aiuto del cielo, non soltanto la mente dei giusti s’infi ammi per ogni particolare della pietà e della reli-gione, ma anche il più duro dei cuori dei malvagi e dei peccatori s’infranga, e l’animo degli scellerati, immerso nella nott e tene-brosa del vizio, si illumini della luce soavissima della verità”15.

Non si tratt a di semplici iperboli retoriche. Tutt a la pasto-rale di Borromeo, così come ci è descritt a dai suoi biografi an-tichi, è intrisa di frenesia religiosa e salda pratica di governo: la sua oratoria penitenziale trasforma la liturgia della parola in uno psicodramma collett ivo nel quale l’emozione del pubblico è cercata, eccitata, spinta all’apoteosi e infi ne guidata nella sicura pratica dei sacramenti, portatrice di salvezza.

È all’incrocio fra carisma, ascesi, pulizia stilistica e nitidezza della dott rina che si pone la forza persuasiva della grande ora-toria sacra del catt olicesimo tardocinquecentesco, una colonna di quella riconquista delle anime che permett e alla Chiesa ro-mana di salvarsi dal precipizio cui sembrava destinata verso gli

15 Instructiones praedicationis Verbi Dei ex concilii provincialis III decreto omnibus concionandi munere in urbe, dioecesi, provinciaque Mediolanensi fungentibus editae, in Acta Ecclesiae Mediolanensis, cur. A. Ratt i, Mediolani ex Typographia pontifi cia Sancti Iosephi, II, 1890, p. 1206.

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anni trenta e quaranta del secolo. Ed è sulla scia di quest o mo-dello che si colloca anche l’oratoria di Bellarmino, la disciplina sulla quale egli costruisce la primissima fase della sua carriera ma che infl uisce profondamente sul suo abito mentale, sulla ten-denza all’ascesi e sulla sua virtù intellett uale suprema, la capa-cità di spiegare il dogma e individuare l’eresia con la maggiore semplicità possibile.

Più volte nei suoi scritt i pubblici e privati Bellarmino espri-me la convinzione di una strett a relazione causale fra la purez-za della dott rina e la purezza dei costumi.

La somma maestria del predicatore sta nella capacità di annul-lare i residui della propria soggett ività e farsi “mero strumento” d’irradiazione della dott rina: un ruolo non dissimile da quello che la Bibbia att ribuisce ai profeti. Ricordo di sfuggita che Bor-romeo aveva consigliato ai suoi predicatori di recitare una bre-ve preghiera silenziosa, salendo sul pulpito, per chiedere a Dio di liberarli da ogni tentazione di gloria personale.

Quest o, tutt avia, non è tutt o. Il programma culturale della Riforma catt olica non intende la predicazione solo come mo-vente di conversione a un modello etico fatt o di rinuncia e ob-bedienza, ma anche come strumento di istruzione nelle verità di fede canonizzate dal concilio di Trento e condensate nella Professio fi dei tridentina. Anche quest o comporta l’elaborazione di un linguaggio chiaro, lineare, privo di quelle ambiguità che,

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nelle piazze delle citt à italiane della prima metà del Cinquecen-to, avevano consentito a tanti predicatori passati segretamente al protest antesimo di instillare nelle menti degli ascoltatori il verbo riformato della salvezza per sola fede.

Laynez e Borromeo, nei loro programmi di riforma dell’ora-toria sacra, avevano dato massimo rilievo alla questione dello stile, e avevano indicato in un eloquio naturale ma di alto pro-fi lo, immediato senza essere prosaico, il modello più idoneo per la grande arte comunicativa catt olica.

Nelle sue note sul metodo oratorio Bellarmino comprende la questione negli stessi termini, descrivendo il suo predicato-re come un soggett o investito di autorità per il caratt ere sacrale dell’uffi cio della parola, ma in grado al tempo stesso di impiega-re un registro di comunicazione dirett o ed effi cace. “Per fuggire il difett o [dell’artifi ciosità], nonostante parli a tante persone da una posizione elevata egli pensi di doversi comportare come se parlasse a ciascuna di esse”: chi si rivolge a qualcuno per persua-derlo di qualcosa, infatt i, “di certo non si serve di tanti appellativi, di frasi poetiche o di voce e gesti strani, ma lo fa educatamente, e, all’inizio, con il corpo fermo, con voce bassa e frasi semplici”, per modulare il tono a seconda dell’importanza degli argomenti16.

16 De ratione formandae concionis, in Auctarium Bell arminianum. Supplement aux

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Persuadere gli ascoltatori (“convincere mentem auditorum”) non signifi ca indirizzarsi a una platea indistinta, ma nel pubbli-co discernere la moltitudine delle presenze individuali e preve-dere e provocare in ciascuna di esse la reazione desiderata. Su scala diversa, il meccanismo è analogo a quello che permett e al confessore di esercitare un’azione di controllo e di orientamen-to sulla coscienza del proprio allievo spirituale.

Tutt avia c’è di più. La prosa pulita di Bellarmino, quale si fa leggere nelle prediche recitate a Lovanio, ha la propria funzio-ne principale nell’istruzione nelle verità di fede: è un’eloquen-za didatt ica, intessuta di argomentazioni scolastiche e di un fi tt o ricorso a citazioni bibliche, patristiche e storiche. Fissata nell’andamento più lento e meditato della pagina scritt a, non è altro che la prosa della teologia controversista, pensata in que-sto caso per colpire e convincere non l’uditorio che si stringe nelle navate di una chiesa ma il pubblico sparso dei lett ori che si concentrano sulle righe e le colonne di un volume.

Se facciamo un lungo passo indietro e da quest e note sul modo di predicare torniamo al giovane Bellarmino a Mondovì possiamo assistere al passaggio dall’adesione giovanile all’ideale

œuvres du Cardinal Bell armin, a cura di X.-M. Le Bachelet, Gabriel Beauchesne, Paris 1913, p. 656.

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aulico dello stile latino, qual è testimoniato da due lett ere indi-rizzate allo zio Alessandro Cervini nel novembre-dicembre 1558, composte secondo l’ideale della imitatio di Virgilio, alla prima maturità delle prediche recitate a Lovanio, che si segnalano in-vece per quella sobrietà lessicale e quella linearità della sintassi che sono il marchio della prosa bellarminiana.

È il vespro del giorno di Natale di un anno compreso fra il 1564 e il 1566. In duomo, probabilmente. Il gesuita tiene una pre-dica, scritt a con tutt i i riguardi per la squisitezza della lingua, mandata a memoria grazie a uno sforzo di alcuni giorni. Il ser-mone catt ura il pubblico: Mondovì è pur sempre la sede della nuova università ducale ed è verosimile che la platea abbondi di eruditi di seconda e terza fi la, assetati di quello stile raffi na-to che nei centri minori è merce rara. Finita l’omelia i canonici del capitolo gli si fanno subito att orno, lo coprono di elogi, in-sistono perché predichi anche il matt ino dopo.

Il matt ino dopo è il giorno di santo Stefano, il martire mes-so a morte per la forza prodigiosa della sua parola nella dispu-ta con gli ebrei ellenisti. Fatt o sta che comporre e memorizzare un sermone nello spazio di una nott e, compito di per sé tutt ’al-tro che agevole, rischia di diventare un’impresa senza sp eranza se condott a con i canoni retorici dello stile aulico e ciceroniano in voga all’epoca. Ecco allora che il giovane sceglie di necessi-tà la strada di un’esposizione di sintesi, libera ed essenziale. E il

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giorno dopo i risultati sono al di là delle asp ett ative: “Piacque a Dio che egli non avesse mai arringato con tanta effi cacia, libertà e spontaneità. I canonici, infatt i, gli dissero: ‘Tu hai predicato altre volte, oggi lo ha fatt o un angelo del cielo’. Da quel giorno decise di abbandonare del tutt o gli ornamenti verbali e scrivere in latino solo i punti principali”17.

Il primo biografo del cardinale, Giacomo Fuligatt i, nel 1624 avrebbe descritt o quest o episodio come la conversione a “libe-rar la parola divina da’ ceppi dell’ornata e composta elocutio-ne” con lo scopo di “penetrar sino alla divisione delle midolle, e dell’ossa” del discorso18. È un metodo, possiamo aggiungere, che si prest a facilmente a essere tradott o nella maniera espositiva della didatt ica teologica delle controversie. Ed è a quest o pun-to che lasciamo il Bellarmino giovanile del pulpito per cercare quello che si apprest a a diventare uno tra i più celebri teologi della Compagnia di Gesù.

17 Autobiografi a, op. cit., p. 448.18 Fuligatt i, Vita del cardinale Roberto Bell armino, op. cit., p. 34.

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AL CUORE DELLA CHIESA1569-1586

Nell’autunno del 1568 il dirett orio della Compagnia matura l’idea di distaccare Bellarmino a Lovanio nel Brabante,

regione dei Paesi Bassi meridionali.La sollecitudine verso il nipote di papa Marcello, ancora

minato dalla tisi, è scrupolosa. Si diff erisce la partenza alla pri-mavera per evitargli un viaggio invernale att raverso le Alpi e le colline piovose della Franca Contea. Si raccomandano al ret-tore del collegio di Lovanio, padre Schipman, delicate premure verso il giovane, descritt o come “persona di molto buon spiri-to, et gratia, et eruditione”: vino anziché birra, un po’ di carne fresca al posto di quella salata, pane bianco anziché di segale19.

19 J. de Polanco a J. Schipman, 12.IV.1569, ivi, p. 64.

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La citt à di destinazione era sede di una fra le più rinomate uni-versità d’Europa, ma diffi cilmente in quel periodo quest o sarebbe stato il primo pensiero di qualcuno che vi si dovesse trasferire. Le Fiandre, la regione storica che comprendeva il Brabante, da qual-che anno erano il teatro di una guerra durissima fra l’esercito del legitt imo sovrano, il re di Spagna Filippo II, e i nobili delle provin-ce sett entrionali, Olanda in test a, guidati dal principe Guglielmo d’Orange, dett o il Taciturno. I ribelli chiedevano più peso nel go-verno dei Paesi Bassi, senza ripudiare la sovranità di Madrid. Ma sopratt utt o, da calvinisti, chiedevano la libertà di culto, un’istan-za che alle orecchie di Filippo suonava peggio di una best emmia.

Nel 1566 erano scoppiate le ostilità, con un’ondata iconoclasta che si era abbatt uta sulle province del Nord: chiese e conventi presi d’assalto, immagini sacre distrutt e, reliquie gett ate al ven-to. Per l’austera religiosità di Calvino, la devozione ai santi e alle immagini era un omaggio al demonio e di certo, con premes-se simili, le possibilità di un’intesa risultavano piutt osto scarse. Filippo aveva scelto la soluzione di forza inviando un corpo di sp edizione di diecimila uomini – spagnoli, italiani, tedeschi – al comando di Fernando Álvarez de Toledo, duca d’Alba, il quale aveva instaurato nelle Fiandre una sanguinosa ditt atura mili-tare. Non soltanto i protest anti, ma anche i catt olici favorevoli alla tolleranza furono messi a morte a centinaia, sbarrando la strada a ogni ipotesi di armistizio.

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La guerra, con alterne vicende, sarebbe durata ott ant’anni, fi no al 1648. La Spagna vi bruciò le sue risorse fi nanziarie, i fa-volosi carichi d’argento che giungevano dal Nuovo Mondo, e il rango di prima potenza mondiale; l’Olanda vi costruì la propria identità nazionale e la fortuna di repubblica di mercanti arma-ti. A farne le sp ese furono anche i Paesi Bassi catt olici (l’att uale Belgio), ridott i a scenario di trincee e piazzeforti.

Tutt o quest o, nel 1569, era ancora all’inizio. Lovanio era un’importante capitale della cultura catt olica e la Compagnia di Gesù l’aveva da poco scelta come sede di uno dei propri collegi, in modo che i convitt ori potessero frequentare i corsi univer-sitari vivendo nella disciplina dell’ordine. Bellarmino vi arrivò come studente ancora in formazione e ne uscì sett e anni dopo come teologo maturo e att rezzato. Tanto potevano le urgenze della lott a confessionale, che non risparmiava alcuna energia.

Fu un passaggio fondamentale della sua biografi a, uno dei più cruciali. Nelle memorie esso è scandito da una serie di grazie divine che gli consentono di att raversare incolume la regione del Reno sconvolta dai movimenti di truppe, di salvarsi dalle incursioni del principe di Orange e dalla pest e di Douai, per-sino di pronosticare con esatt ezza, appena arrivato in citt à, la durata della permanenza: “Entrato nel collegio disse: ‘Mi man-da il padre generale perché resti qui due anni, ma io ne rimarrò

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sett e’. Così fu. Quale spirito lo inducesse a dire quest o egli non sa: sa soltanto che così gli venne alla mente”20.

In realtà le ragioni dell’incarico a Lovanio, sede del tutt o estranea ai consueti percorsi dei gesuiti italiani, e della repen-tina promozione alla catt edra nel 1570, quando Bellarmino, in primavera studente, divenne in autunno docente di teolo-gia, sono state a lungo un mistero. Nelle Fiandre ancora alla fi ne del Seicento, negli strascichi delle polemiche fra gesuiti e giansenisti, ci si ricordava di quel caso, e si raccontava che il giovane, poi divenuto “magnus iesuita”, fosse stato inviato là per raccogliere segretamente informazioni sull’ortodossia di Michel de Bay, dett o Baius, all’epoca decano della facol-tà teologica dello Studio e da poco condannato da Pio V con la bolla Ex omnibus affl ictionibus, un elenco di sett antanove proposizioni sosp ett e sulla grazia e il libero arbitrio che gli era stato richiest o di abiurare – in forma privata, per risp et-to della posizione.

Di quest a leggenda poco si può dire se non che è priva di fon-damento. Rest a tutt avia il fatt o che l’eff ett iva frequentazione dei corsi di teologia dell’università di Lovanio da parte di Bel-larmino rimane un interrogativo irrisolto. Egli non ne fa mai cenno, né vi è traccia del suo nome nei rotuli, gli elenchi degli

20 Autobiografi a, op. cit., p. 450.

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studenti immatricolati. L’ipotesi più probabile è che abbia stu-diato da autodidatt a, dentro le mura del collegio della Compa-gnia: e quest o fa supporre che la predicazione agli studenti sia stata, in realtà, il vero obiett ivo del suo incarico.

Data la vicinanza alla linea del fronte confessionale che se-parava il catt olicissimo Brabante dalle aree a maggioranza cal-vinista, infatt i, Lovanio rest ava una citt à a fortissimo rischio di infi ltrazione ereticale. Era il momento più incerto del confl itt o religioso europeo, quando i confi ni tra le fedi e le appartenen-ze erano ancora tutt ’altro che stabili. A Roma si pensava a una possibile capitolazione dell’Inghilterra, e in Francia i predica-tori ugonott i contavano di poter convertire l’intera nazione alla parola di Dio secondo l’interpretazione di Calvino.

Negli stessi giorni in cui Bellarmino percorreva la Via spa-gnola, la grande arteria di comunicazione militare tra il ducato di Milano e le Fiandre, alcune migliaia di mercenari raduna-ti da Pio V stavano precipitandosi in Francia in sostegno alla Lega catt olica, mentre in Italia si temeva l’imminente calata di un’armata ugonott a pronta a mett ere Roma a ferro e fuoco. In un contest o di quest o tipo l’arte predicatoria era un sapere stra-tegico: la capacità di mobilitare le coscienze att raverso la paro-la una virtù di importanza incalcolabile, sopratt utt o nell’ott i-ca dei gesuiti, che da fi ni conoscitori di cose politiche avevano ben chiaro che la via d’uscita dalla crisi fi amminga non passava

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né per il regime di terrore del duca d’Alba né per le forze ormai inerti del corpo della Chiesa tradizionale.

Il 2 luglio 1565 era stato elett o il nuovo generale Francisco Borja – Borgia, nella trascrizione italiana – fi glio del terzo duca di Gandía, nipote di papa Alessandro VI e dunque nome di pri-ma fi la dell’aristocrazia spagnola. La sua fi gura è una di quelle che compendiano i tratt i più caratt eristici dell’epoca storica in cui vivono. Se con Diego Laynez la Compagnia era stata gover-nata da un teologo di indiscusso sp essore, con Borja essa aveva di nuovo alla propria test a un mistico, come ai tempi eroici di Ignazio: in lui si realizzava quel medesimo intreccio di pulsio-ne contemplativa, att itudine al potere e intelligenza politica che troviamo in Carlo Borromeo e Michele Ghislieri – quest’ultimo elett o papa nel 1566 con il nome di Pio V e rimasto nella me-moria come il papa di Lepanto.

Il carisma personale del nuovo generale si traduceva in un’au-torità spirituale sull’ordine che, per quanto discussa (era giunto tardi a vestire l’abito della Compagnia), appariva invincibile. Era un carisma che si nutriva della pratica costante dell’ascesi e della mortifi cazione del corpo, ma era anche profondamente pregno di visione politica e sensibilità intellett uale: il biografo dei primi generali, Pedro de Ribadeneyra, ci narra, oltre che degli accessi est atici, della sua abitudine di recitare intere parti della Summa

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di Tommaso come una litania. Fu con Borja che si arrivò all’uni-formazione del piano gesuitico degli studi con la promulgazione del primo codice didatt ico per i collegi, la Ratio studiorum dett a “borgiana” che anticipò quella più celebre del 1599.

Borja ebbe la fortuna di incontrare un papa di cui condivide-va la vocazione ascetica e lo spirito di crociata. Pio V era l’erede spirituale di Paolo IV: nato da una povera famiglia dell’Alessan-drino, grazie alla carriera nella strutt ura dell’Inquisizione era ar-rivato al cappello rosso e nel gennaio del ’66 al papato. Con lui raggiunse il culmine il culto ideologico della purezza della fede che aveva dominato le frange intransigenti della Riforma cat-tolica: un carisma politico, il suo, che scaturiva dal riemergere dell’elemento sacrale dell’autorità nella congiuntura storica delle guerre di religione del secondo Cinquecento. A diff erenza di uo-mini alteri come Carafa e Cervini, però, Pio V sapeva calibrare con att enzione la propria immagine, alternando pratiche peni-tenziali pubbliche e distribuzione di denari ai poveri. Alla morte lasciò al papato un ingente capitale simbolico di santità, che la Chiesa seppe sfrutt are elevandolo agli altari nel 1712 – primo e unico papa santo dell’età moderna fi no a Novecento inoltrato.

Già durante la cerimonia del “possesso”, nella quale il nuovo papa sfi lava in cavalcata solenne att raverso Roma fi no alla sede episcopale di San Giovanni in Laterano, Pio V aveva voluto dare un segnale forte della propria benevolenza verso la Compagnia

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fermandosi davanti alla casa professa e intratt endendosi per diversi minuti, fra il nervosismo generale, con Borja. Il passo decisivo fu compiuto due anni dopo, nel luglio del 1568, in un colloquio riservato tenuto nei giardini vaticani fra il pontefi ce, il segretario personale di Borja, Polanco, e Peter Kanijs, dett o Canisius, plenipotenziario dei gesuiti in Germania, uomo di energia prodigiosa che alternava l’att ività diplomatica alla pre-dicazione e alla direzione spirituale dei principi tedeschi. Da notare che di questi quatt ro nomi quello di Polanco è l’unico a non fi gurare tra i santi.

Oggett o del colloquio era la strategia di riconquista religiosa nei territori dell’impero, disegnata da Canisius e discussa con Borja e l’assistente di Francia e Germania Everard de Marcour, dett o Mercurianus. Obiett ivo prioritario, impedire a qualsiasi costo il radicamento del protest antesimo in Austria e in Bavie-ra, nella consapevolezza che la caduta di quegli Stati, i più forti di tutt a la Germania, avrebbe signifi cato la dissoluzione della fede catt olica di là dalle Alpi.

Accanto a quest a, il piano di Canisius contemplava altre due priorità: il controllo della piena ortodossia dei vescovi imperiali, che sp esso erano anche i principi temporali delle loro diocesi e più di una volta avevano dato prova di essere sensibili alle sug-gestioni ereticali, e la formazione di una classe sacerdotale te-desca colta, motivata e fedele a Roma. Fu in quest o momento,

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probabilmente, che la Compagnia di Gesù acquisì in via defi -nitiva il ruolo guida nella controff ensiva catt olica nell’Europa centrale e occidentale. Gregorio XIII, il successore di Pio V, ne fu munifi co patrono, fi nanziando con le casse papali i collegi ro-mani destinati all’istruzione del clero dei paesi a religione mista: il Germanicum, salvato dal fallimento nel 1573, l’Anglicum e lo Hungaricum, fondati nel 1579.

Se proiett iamo le vicende personali di Bellarmino sullo sfon-do di un quadro storico di quest o tipo comprendiamo perché la sua preparazione e le sue competenze potessero essere con-siderate dai superiori una risorsa preziosa, tale da poter essere impiegata in un’orizzonte più ampio di quello italiano.

Ecco una signifi cativa chiave di lett ura dell’invio di Bellar-mino a Lovanio: se nell’università si formava la futura classe dirigente delle Fiandre, era opportuno che essa fosse introdot-ta a dovere alla nuova sfera etica e dott rinale defi nita dalla Ri-forma catt olica. E il gesuita, benché giovane, in quella sfera era nato e cresciuto.

Le memorie del cardinale, di nuovo, ci sono utili ad avere un’i-dea della forza di att razione che la nuova retorica umanistica dei gesuiti poteva esercitare. Siamo tra la fi ne del 1572 e i primi mesi del ’73, Lovanio è stata appena rioccupata dalle colonne del duca d’Alba dopo essere caduta nelle mani dei ribelli, e Bellarmino

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riprende le consuete omelie domenicali nella Michielskerk, la parrocchiale di San Michele vicina al collegio: “Quanta fosse la folla degli sp ett atori lo si può dedurre dal fatt o che, a predica fi -nita, uscendo da diverse porte gli sp ett atori occupavano due o tre piazze, al punto che i citt adini si chiedevano da dove venisse tutt a quella gente, e dicevano che erano alcune migliaia. Un gior-no, mentre N. [così Bellarmino indica se stesso nelle memorie] stava andando a recitare l’omelia […] gli si affi ancò un uomo di un certo contegno, che non capì che era proprio lui il predica-tore perché era piccolo di statura, mentre dal pulpito sembrava alto perché si mett eva uno sgabello sott o i piedi, per cui in citt à si era sparsa la voce che era venuto dall’Italia un giovane alto che faceva prediche in latino; quell’uomo dunque cominciò a chie-dere molte cose a N., se conoscesse il predicatore, di dove fos-se, dove avesse studiato, e nello stesso tempo lo elogiava più di quanto non meritasse. E poiché N., rispondendogli, non rivelò la propria identità, quello gli disse ‘Tu cammini troppo lentamen-te, ti chiedo scusa ma procedo più in frett a per trovar posto’. ‘Fa’ come vuoi – gli rispose N. –, a me il posto non può mancare’”21.

Al nett o di possibili iperboli autocelebrative, e della probabile mobilitazione dei fedeli da parte delle comunità gesuitiche delle citt à vicine, quest a scena ci dice parecchio sull’interesse che lo

21 Ivi, p. 454.

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sp ett acolo della dott rina proclamata att raverso l’arte oratoria era in grado di riscuotere.

Alla metà del XVI secolo le Fiandre erano ancora la regione più ricca d’Europa, il che, in termini di reddito diff uso, signifi -cava verosimilmente la più ricca del mondo.

L’economia fi amminga aveva i suoi capisaldi nelle manifat-ture tessili e nel commercio, con l’epicentro nel porto di An-versa, presso l’estuario della Schelda. Il commercio e la tes-situra (che in buona parte all’epoca era ancora praticata da artigiani itineranti che si muovevano di villaggio in villaggio con i propri telai) erano anche le due att ività più naturalmen-te vocate allo scambio e al movimento degli uomini, e dun-que alla circolazione delle idee, ortodosse o meno. Per tutt i gli anni venti e trenta del Cinquecento le suggestioni della Rifor-ma avevano potuto fi orire quasi indisturbate, germogliando, fra l’altro, in un vivace movimento anabatt ista che praticava il batt esimo degli adulti, la comunione dei beni e il rifi uto delle cariche politiche.

Soltanto nel 1540 Carlo V si era deciso a promulgare una du-rissima legislazione antiereticale: quest a comminava, fra l’altro, la pena capitale non solo ai colpevoli ma anche agli imputati di favoreggiamento, e riservava al sovrano la competenza esclusi-va sulle suppliche di grazia. Il tessuto mercantile del paese era

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lacerato con l’annullamento immediato dei contratt i privati sti-pulati da chi aveva già abbracciato l’eresia.

Vero è che l’esecuzione della pena, in tempi di Stato centrale debole, era quantomeno aleatoria. Gli arresti erano demandati a uffi ciali civili ad hoc, che si qualifi cavano così come inquisitori del principe in dirett a concorrenza con i vescovi e con l’inqui-sitore apostolico di nomina papale. Il risultato era stato un so-stanziale fallimento dell’azione repressiva, a fronte dell’ondata dei predicatori calvinisti, fi nanziati dalle comunità dei mercan-ti fi amminghi residenti in Inghilterra, che dagli anni cinquanta si erano riversati nei Paesi Bassi facendo presa sulle borghesie urbane con la loro teologia della comunità, dell’elezione e della pratica infl essibile della virtù.

Già verso il 1560 era praticamente impossibile per gli uffi -ciali del re eff ett uare arresti nelle Fiandre sett entrionali, dove i nobili con le loro bande armate erano passati alla Riforma. Nel 1559 a Lorenzo de Villavicencio, alto funzionario castigliano del Consiglio privato, era bastato uscire dal palazzo ducale di Bru-xelles per acquistare liberamente in piazza alcuni libri eretici e una bolla papale contraff att a, che aveva poi mostrato a uno stupefatt o Filippo II “diciéndole que mirase lo que se vendía a las puertas de su casa”22.

22 A. Goosens, Les inquisitions modernes dans les Pays-Bas méridionaux 1520-1633,

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Fu in quest a fase critica che ai vertici del governatorato spa-gnolo dovett e maturare la percezione dell’urgenza di un muta-mento di strategia per impedire che tutt o il paese si convertisse al calvinismo. La capacità di rispondere concretamente a quest a urgenza e la crescente ispanizzazione della corte di Bruxelles aprirono alla Compagnia di Gesù inatt esi spazi di manovra. A pochi giorni dall’abdicazione di Carlo V il padre Ribadeneyra, longa manus di Ignazio, era già sulla strada per i Paesi Bassi.

Fino alla seconda metà degli anni sett anta l’espansione nel-le Fiandre dei gesuiti – i “padri spagnoli”, com’erano conosciuti – sembrò non conoscere ostacoli. Prima i centri minori dell’a-rea francofona, Dinant, Cambrai, Saint-Omer, poi nel 1574-75 le citt à di prima grandezza, Anversa, Bruges, Maastricht. Qui come altrove gli uomini della Compagnia, padroni di una for-midabile eloquenza delle emozioni, guadagnavano alleati presso le élite muovendosi come apostoli di un catt olicesimo militante, purifi cato dall’interesse corporativo, sovranamente libero dagli stanchi ritualismi degli antichi ordini regolari.

Nelle loro mani le consuete risorse del soprannaturale – i miracoli, le processioni, le reliquie, i santi protett ori – pulsa-vano di nuova vita. Come i loro nemici giurati, i ministri della

Éditions de l’Université de Bruxelles, I, Bruxelles 1997, p. 429.

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Chiesa riformata calvinista, i gesuiti possedevano la chiave del-la persuasione, e ne facevano un uso spregiudicato: all’est etica protest ante della sott razione opponevano l’eccesso percett ivo, l’apoteosi dei simboli e delle allegorie, la pienezza di una presen-za divina che si lasciava plasmare, toccare, ascoltare.

All’aurora della stagione barocca – la grande architett ura ec-clesiastica gesuitica, come noi la conosciamo, stava muovendo in quegli anni i suoi primi passi – era comunque la parola a do-minare incontrastata il repertorio degli strumenti di governo delle anime. Nella già citata Imago primi saeculi Societatis Iesu i padri fi amminghi della Compagnia avrebbero enfatizzato la predicazione come arma d’elezione delle loro fatiche erculee per il bene della religione, “la spada che ha sgozzato l’eresia, la guarnigione che ha difeso la fede, l’ariete che ha sfondato la re-sistenza del crimine”23.

Nerbo del lealismo romano e asburgico, prima delle grandi missioni popolari del Seicento i gesuiti rivolgevano le loro cure assai più sistematicamente ai gruppi dominanti che non ai ceti inferiori, sui quali ricadeva il grosso del peso della guerra. Da qui il sorgere di leggende come quelle secondo le quali essi nascon-devano le truppe spagnole nelle loro residenze o le guidavano

23 Imago primi saeculi Societatis Iesu a Provincia Flandro-Belgica eiusdem Societatis repraesentata, ex Offi cina Plantiniana Balthasaris Moreti, Antverpiae 1640, p. 779.

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a cavallo in batt aglia e negli assedi (lo si disse in occasione del tragico sacco di Anversa del 1576).

Fu in quest o scenario di confl itt o che Bellarmino diventò teologo. Ancora dall’autobiografi a: “Nel 1572, nell’ott ava degli apostoli [il 6 luglio], N. emise la professione dei quatt ro voti. In quell’anno il re Filippo perse molte citt à, e quando il principe di Orange mosse contro Lovanio con un grande esercito, quasi tutt i i religiosi fuggirono, perché la citt à non era facilmente di-fendibile e gli eretici calvinisti, dei quali l’esercito del principe era pieno, si accanivano sopratt utt o contro i religiosi. Poiché i nemici si avvicinavano molto più rapidamente di quanto si sp e-rasse il rett ore del collegio ordinò a tutt i di cambiare abito e di radersi i capelli in modo che non si vedesse la tonsura clericale, divise tra loro quel po’ di denaro che c’era in collegio e li sp edì via due a due, in modo che si salvassero come potevano dal pe-ricolo imminente. Allora N. con un compagno si avviò a piedi verso l’Artois e dopo parecchi giorni, con gran fatica e pericolo, arrivò a Douai, dove per sfuggire alla guerra trovò la pest e, che imperversava in quella citt à”24.

24 Autobiografi a, op. cit., pp. 452-453. Da menzionare, ivi., n. 3, un’altra rievocazione che Bellarmino fa dell’assedio di Lovanio da parte di Orange a margine delle Historiae Societatis Iesu del padre Sacchini: “Tutt a la difesa di Lovanio dalli heretici, che altrove havevano rott e tutt e le sacre immagini, nacque solo dalli dott ori et scholari, et non dal populo”.

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La peculiarità del metodo di Bellarmino, lo scarto che lo rese indiscusso maestro nell’arte della controversia, stava nell’in-fondere contenuto dott rinale nella forma del genere oratorio di scuola gesuitica.

Di quest a sua peculiarità la testimonianza più antica provie-ne dalla raccolta delle Conciones Lovanienses, le prediche latine tenute nella Michielskerk di Lovanio; ne possediamo la trascri-zione dal vivo fatt a da qualche devoto ascoltatore – una pratica abbastanza comune, all’epoca. Fra esse un ruolo particolare è tenuto da un ciclo di dodici sermoni pronunciati fra il dicem-bre del 1571 e il marzo del ’72: “Dodici sermoni contenenti al-trett anti argomenti per consolidare nella sua fede il catt olico e convertire l’eretico dalla sua malafede”.

I testi si sviluppano ordinatamente lungo una linea di argo-mentazioni il cui obiett ivo è di provare la verità inoppugnabile del catt olicesimo att raverso il suo confronto con l’eresia. L’op-posizione verità-errore è infatt i il nucleo pulsante del regime discorsivo della controversia religiosa.

Di sermone in sermone l’autenticità della fede catt olica è convalidata per i suoi segni di legitt imità, tutt i legati a una pre-messa di partenza: e cioè che la verità sia conoscibile att raver-so la ragione. “Due cose sopratt utt o – così l’esordio della prima predica – ci muovono a credere, il lume interiore della fede e alcuni argomenti est erni. E questi argomenti […] sono in tutt o

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dodici: la verità del cristianesimo, la sua purezza, la sua effi ca-cia, l’antichità, la diff usione, la solidità, la rivelazione profetica, la gloria dei miracoli, la rett itudine morale, le testimonianze e le prove dei suoi nemici, i costumi della Chiesa antica e degli antichi eretici”25.

Dunque, si discute di fede. Ma dobbiamo fare att enzione: la fede di cui parla Bellarmino non è quella soggett iva (la cosid-dett a fi des qua creditur, secondo la partizione di Agostino, “la fede con cui si crede”), ossia la tensione interiore che ci spinge a credere in Dio, bensì la fede oggett iva (fi des quae creditur, “la fede che si crede”), il sistema dogmatico cui il fedele è tenuto ad assentire. Quest a fede oggett iva si pretende verità e si impone ai sensi e alla ragione grazie alla gloria eterna dei trionfi della Chiesa militante.

Sin dai primi oppositori catt olici di Lutero, come Iohannes Eck, l’appello all’antichità e alla compatt ezza della Chiesa ro-mana, contrapposte alla “novità” del protest antesimo e alla sua precoce suddivisione in tante scuole teologiche, era diventato un luogo comune. Bellarmino fa propria quest a linea apologetica

25 Concio I de lumine fi dei, in Conciones duodecim continentes argumenta totidem ad hominem catholicum in sua fi de confi rmandum, et haereticum a perfi dia sua convertendum, in Roberti Bell armini Politiani opera omnia, ed. J. Fèvre, Vivès, IX, Paris 1873, pp. 513-583 (516).

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e la difende con mille evidenze: “Non è forse una grande prova a sostegno della verità il fatt o che noi possiamo mostrare l’ori-gine delle singole eresie al punto di fare il nome del loro auto-re, di fi ssare l’anno, di designare il luogo d’origine e d’indicare la causa, o meglio l’occasione dei nuovi dogmi?”26.

Siamo di fronte a una tipica forma mentis controriformista, comune ai maggiori teologi e storici della Chiesa dell’età confes-sionale, a partire da Melchor Cano e Cesare Baronio. Mentre l’identità della Riforma si richiama all’idea della veritas abscon-dita – la verità nascosta per secoli dalle mistifi cazioni del pa-pato e fi nalmente tornata alla luce con la nuova alba del Van-gelo protest ante – la visione della Controriforma è invece tutt a centrata sulla difesa della tradizione, in quanto manifest azione visibile della verità nella storia: la tradizione, cioè la Chiesa con i suoi santi, i suoi miracoli, il suo clero, il suo diritt o canonico e insomma tutt o quanto incarna la concretizzazione storica del catt olicesimo.

Le ierofanie controriformiste, le manifest azioni del divino, della santità e dell’autorità ecclesiastica, sono tutt e saldamen-te inscritt e nella sfera del sensibile. Di nuovo Bellarmino: “Tre sono le cose che possono persuadere e muovere gli uomini, e cioè la Scritt ura, la viva voce e gli esempi. Fra esse, la Scritt ura

26 Ivi, p. 521.

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tiene l’ultimo posto, poiché non contiene altro che parole, pa-role morte. […] Ebbene, gli esempi sono cose, opere, fatt i che possono essere visti con gli occhi e toccati con le mani. Per que-sto sp esso godiamo di più dell’ascolto di un semplice racconto di vita che di un’elegantissima orazione, e per quest o sono più effi caci le vite e le azioni dei santi, ancorché narrate con un pi-glio semplice e incolto, piutt osto che tutt e le argomentazioni e gli orpelli della retorica”.27 La Scritt ura non contiene che paro-le, “parole morte”: se pensiamo che per l’intera galassia prote-stante, da Lutero in poi, la Scritt ura è fonte di vita, abbiamo la misura della distanza mentale che separa le culture dei fronti confessionali europei.

All’origine di quest o att eggiamento vi è l’importantissima esi-genza controversistica di ribatt ere al principio del sola scriptura (“solo con la scritt ura ci si salva”, la parola d’ordine della Rifor-ma) e ribadire il ruolo insostituibile del sacerdozio e la necessi-tà delle opere nella vita del cristiano. Tutt avia la gamma delle realtà coinvolte è più ampia: si tratt a di una concezione del re-ligioso per la quale la visibilità è il primo dei modi att raverso i quali Dio si fa conoscere. Di qui una fortunata defi nizione della Chiesa che dobbiamo a Bellarmino e che diventerà una sp ecie di architrave dell’ecclesiologia della Controriforma: “La Chiesa

27 Concio VII de tribulatione, in Conciones de quatuor novissimis, ivi, p. 638.

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[…] è un’adunanza di uomini, visibile e palpabile come l’adu-nanza del popolo romano, o il regno di Francia, o la Repubblica di Venezia”28. Ci stiamo avvicinando al nesso profondo che lega religione e politica. Si profi la, sullo sfondo, la psicologia dell’im-manenza che permea gli Exercitia di Ignazio.

La carriera di docente di teologia ebbe inizio per Bellarmino nel 1570. “All’inizio di ott obre gli fu chiest o dai padri di insegna-re la teologia scolastica, e accett ò; malgrado non avesse assistito che alle lezioni di una parte della Prima e della Tertia, tutt avia gett ò al Signore la sua preoccupazione e insegnò tutt a la Prima per due anni, la Prima secundae per un anno, la Secunda secun-dae per due anni e l’inizio della Tertia per un altro anno. […] Fu il primo ad aprire una scuola teologica a Lovanio, visto che fi no a quel giorno l’università non aveva permesso che i nostri insegnassero pubblicamente”29.

La Prima, la Prima secundae, la Secunda secundae e la Tertia sono le parti costitutive della Summa theologiae di Tommaso d’Aqui-no, il dott ore angelico, che all’epoca era il codice capitale della teologia scolastica, insegnata nelle scuole degli ordini regolari.

28 Controversia IV De conciliis et Ecclesia, in Roberti Bell armini Politiani opera omnia, op. cit., II, 1870, p. 318.29 Autobiografi a, op. cit., pp. 451-452.

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La Summa è costruita sul rigoroso metodo dialett ico delle tesi, delle obiezioni, delle risposte alle obiezioni e delle conclu-sioni; att raverso quest o metodo essa esponeva e risolveva gli ele-menti dell’ossatura fondamentale della sacra dott rina: era come una costituzione del sapere teologico, articolata lungo principi generali dai quali discendevano, per deduzione, tutt e le conse-guenze applicative necessarie a governare le anime e il mondo.

Nella Summa era contenuto a grandi linee tutt o ciò che un teologo doveva sapere su Dio, sul bene e il male, gli angeli e i demoni, le virtù teologali e quelle cardinali, le azioni dell’uo-mo e ciò che le muoveva, i vizi, il peccato originale, la grazia e la redenzione, i sacramenti. Per coerenza di metodo e preci-sione di discorso era uno dei capolavori assoluti della cultura medievale: le sue argomentazioni potevano essere scomposte e ricomposte, e impiegate in questioni che in essa non erano aff rontate dirett amente. Con la grande rinascita tomista dei commentatori scolastici del primo Cinquecento, come il car-dinale Tommaso de Vio dett o il Caietano e Francisco de Vi-toria, fondatore della scuola di Salamanca, la Summa era stata defi nitivamente acquisita come enciclopedia di base del sapere teologico catt olico e interpretata per rispondere alle nuove que-stioni imposte dallo sviluppo del mondo moderno. Tanto per fare un esempio, era stato in forma di commento alla Summa che Vitoria aveva stilato att orno al 1532 le sue famose Relectiones

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de Indis, le “lezioni sugli indiani” dedicate alla conquista delle Americhe, in cui aveva negato il diritt o degli spagnoli a ridur-re in schiavitù gli indios.

Per quest o, alla metà del XVI secolo Tommaso d’Aquino era per la Chiesa il principale contraff orte teoretico contro il metodo delle scuole protest anti: se la Riforma parlava in ter-mini di primato della Bibbia e della fede nella grazia di Cristo, la cultura catt olica parlava nei termini rigorosi della dialett ica tomista, fatt a di quaestiones, articuli, dubia e obiectiones, come in un mosaico nel quale il cristianesimo si scomponeva in infi nite tessere, ciascuna delle quali in grado di essere pensata e com-presa con l’uso della ragione.

Di qui il tipico caratt ere razionalistico e intellett ualistico del cristianesimo mediterraneo, nel quale anche l’apparato della de-vozione, fatt o di miracoli, reliquie e apparizioni, è regolato se-condo i meccanismi con cui l’economia divina opera nel mon-do. Non è un caso che un mistico come Ignazio avesse imposto la scolastica di Tommaso come metodo esclusivo da adott are nei collegi della Compagnia; come pure che Pio V avesse pro-clamato Tommaso dott ore della Chiesa nel 1568.

Quando Bellarmino (che sarà a sua volta proclamato dot-tore della Chiesa nel 1931) avvia a Lovanio le proprie lezioni di commento alla Summa theologiae, che rest eranno nella memoria

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dell’ordine con il nome di Lectiones lovanienses, nell’università fi amminga è ancora in uso l’altro grande manuale teologico del Medioevo, le Sententiae di Pietro Lombardo, mirabile raccolta di citazioni commentate dei Padri della Chiesa risalente alla metà del XII secolo, che però, nel clima generale di rinnova-mento delle scienze sacre, sembra più che altro una farragine di errori e imprecisioni. Solo nel 1596, dopo lunghe insistenze, Filippo II riuscirà a imporre allo Studio di Lovanio la lett ura della Summa al posto delle Sententiae.

Naturalmente di lett ori di teologia scolastica ne esistevano parecchi, quantomeno in tutt i i conventi domenicani (i france-scani preferivano la teologia di Duns Scoto, il Doctor subtilis), nei collegi della Compagnia di Gesù e in diverse facoltà teolo-giche universitarie. Nessuno di loro però, almeno all’epoca, si sp ecializzò nella teologia controversista al punto di diventarne principe indiscusso, come Bellarmino. Cosa fece la diff erenza?

Anzitutt o, e abbiamo già avuto modo di notarlo, la sp ecifi ca formazione oratoria ricevuta nell’alveo della cultura della Rifor-ma catt olica, che gli donava la preziosissima capacità di muo-vere le coscienze con la forza del discorso e di argomentare, ri-batt ere, provare con la logica stringente dello stile classico del foro. Poi lo spirito di missione antiprotest ante che distingueva la Compagnia di Gesù, sul quale essa alimentava in tutt o l’orbe catt olico la propria fama di antemurale contro l’eresia.

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A quest o proposito va sott olineato che le prime testimo-nianze dell’interesse di Bellarmino per l’eresiologia, lo studio sistematico delle dott rine eterodosse con lo scopo di confutarle, risalgono proprio agli anni di Lovanio. Esse ci mostrano la sua capacità di maneggiare la lett eratura riformata, nonché il suo approccio alla storia sacra e profana come giacimento di argo-mentazioni da impiegare nel discorso controversistico. Dispo-neva di diversi strumenti: un “Indice degli scritt ori ecclesiasti-ci”, un catalogo di Padri della Chiesa e dott ori che sarà dato alle stampe solo nel 1613; una “Breve cronologia dalla fondazione del mondo” con cronotassi di papi, principi, autori sacri ed ere-siarchi; una “Cronologia e questioni sui tempi della Sacra scrit-tura”; e infi ne l’opera più signifi cativa, un “Indice degli eretici” (Index haereticorum), iniziato nel 1572-73 e perfezionato lungo tutt o quel decennio, in cui 217 eresie, dalle più antiche alle più recenti, sono descritt e secondo una divisione per secoli.

Un formidabile inventario dell’errore, quest’ultimo, nato per essere tenuto a portata di mano sulla scrivania e mai dato alle stampe. Se ne conosceva l’esistenza; fu ritrovato solo nel 1933 da un indefesso cultore della memoria bellarminiana, il padre gesuita Sebastiaan Tromp, nella biblioteca civica di Trier.

È in questi anni dunque che Bellarmino orienta decisamen-te la propria sp ecializzazione teologica verso la controversisti-ca. Dal 1571, segno della profonda stima intellett uale che gli è

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riservata, gode di un limitato accesso alla collezione proibita di testi della Riforma tenuta sott o chiave dal rett ore Schipman per le esigenze del collegio; due anni dopo il permesso di lett u-ra è ampliato dal nuovo generale Mercurianus in persona, al-lorché le sue lezioni su Tommaso att irano stabilmente un paio di centinaia di studenti e si presentano ormai come un vero e proprio corso di controversie. A Roma si sta già prendendo in considerazione l’idea di richiamarlo in Italia.

Del test o autografo, vergato in minutissima grafi a, che pos-sediamo delle Lectiones lovanienses, conservato presso l’Archi-vio centrale della Compagnia (Archivum Romanum Societatis Iesu), una sezione risulta particolarmente importante perché ci permett e di fi ssare a una data signifi cativamente precoce un rapporto dirett o tra l’insegnamento controversistico di Bel-larmino e la sua costruzione teorica circa il potere del papa; probabilmente ai mesi compresi tra la fi ne del 1573 e l’inizio del ’74. Nell’aprile del 1574, infatt i, il gesuita inizia le lezioni sulla Secunda secundae, che nella Summa si apre con il proble-ma capitale della prima delle virtù teologali, la fede. Autorità di riferimento nel suo commento è Francisco de Toledo, di cui ha già seguito e compendiato il corso al Collegio Roma-no del 1562-63.

Il test o che ci interessa ha la forma di una lunghissima nota marginale che, per quanto possa risultare poco att raente per il

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lett ore, vale la pena di seguire passo passo perché rivela effi ca-cemente il rapporto logico, consequenziale, tra fede e potere secondo il metodo dei maestri della Controriforma.

Cosa spinge l’uomo a credere in Dio e nelle dott rine della re-ligione cristiana? Ecco il punto di partenza della tratt azione: dal generale al particolare, secondo il ben noto procedimento de-dutt ivo che gli scolastici del Medioevo avevano imparato dalla logica di Aristotele. “È questione diffi cilissima – chiosa Bellar-mino – [stabilire] a cosa si sostenga il primo articolo da crede-re, ossia che Dio ha rivelato i suoi misteri alla Chiesa. Infatt i se ciò viene creduto per fede divina, allora deve essere creduto in virtù della rivelazione divina, ossia si deve credere che Dio ha dato la rivelazione perché Egli stesso ha rivelato di avere dato la rivelazione. Ma anche quest o viene creduto per fede divina, e dunque perché Dio ha rivelato di avere rivelato che ha rivela-to, e così all’infi nito”30.

La risposta al rebus era già stata data a suo tempo da Tom-maso, e successivamente era stata approfondita dal Caietano e da Melchor Cano. È la “luce infusa” (lumen infusum) in ciascun credente a costituire il modo della rivelazione originaria, lo stru-mento con cui Dio illumina della verità prima, ossia del fatt o

30 Bell arminus in IIa-IIae, in Archivum Romanum Societatis Iesu, Opp. NN. 235, 4r-6r, nota a margine.

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di avere rivelato alla Chiesa gli articoli di fede. Lumen, come la lampada che ci permett e di muoverci nella nott e.

Ciò dett o, la questione era soltanto aperta, dal momento che la luce divina permett e di credere al fatt o che Dio ha rive-lato la sua fede ma non ci indica quale fede, cioè quale dott rina in particolare: l’articolo di fede, aggiunge Bellarmino, è infatt i qualcosa che “non è evidente né di per sé, né per qualcos’altro”, cioè non obbliga l’intellett o ad assentire né immediatamente né att raverso i principi primi, “come le conclusioni che i mate-matici dimostrano”.

Quella in cui il cristiano è costrett o a muoversi, quando è po-sto di fronte alla necessità di credere gli articoli di fede, non è quindi la sfera della verità autoevidente bensì la sfera della ve-rità credibile, la sfera della ricostruzione indiziaria nella quale egli deve stabilire la verità di un fatt o cui non ha dirett amente assistito: “Se un giudice vede qualcuno uccidere un uomo ha l’e-videnza della verità dell’omicidio che è stato perpetrato. Ma se non lo vede, e in presenza del reo ascolta venti o trenta uomini att endibili testimoniare che quello ha commesso l’omicidio, al-lora ha l’evidenza della credibilità”31.

È una ricaduta, in termini che defi niremmo oggi di teoria della conoscenza, del principio di tradizione canonizzato dal

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concilio di Trento: nella sfera dell’“evidentemente credibile” do-mina incontrastata l’autorità della Chiesa catt olica, “che come un sole ha sempre avuto, come raggi innumerevoli, testimonianze e segni dai quali può essere riconosciuta”32. Su quest a premessa si fonda l’obbligo per il cristiano di credere agli articoli fonda-mentali della fede proclamati nell’antico Credo, il Simbolo ni-ceno che dal IV secolo fi ssa la formula dogmatica delle persone divine: l’onnipotenza del Padre, l’incarnazione e la resurrezione del Figlio, l’azione dello Spirito Santo.

Sin qui Bellarmino si muove nel solco consolidato del ma-gistero dell’Aquinate: anche la Summa theologiae aveva stabi-lito che la fede, in senso oggett ivo (come proposizione dott ri-nale), si rende riconoscibile alla ragione att raverso gli articoli del Simbolo, e che al Sommo pontefi ce assieme al concilio ne sp ett a l’interpretazione, eventualmente con la precisazione di nuovi articoli dogmatici.

Le conclusioni cui era giunto Tommaso, però, erano in-suffi cienti in un mondo di confessioni contrapposte. Lutero e Calvino avevano asserito che soltanto la parola di Dio, la Scritt ura, è regula fi dei, “regola di fede”, criterio per distingue-re il vero e il falso in materia di religione: infatt i – e quest o è il nucleo concett uale di base dell’ermeneutica biblica della

32 Ibid.

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Riforma – la Bibbia è chiara, e parla chiaramente e limpida-mente a tutt i; dunque non c’è bisogno di papa né di conci-lio perché tutt o è immediatamente leggibile nelle pagine del test o sacro.

In quest o senso, la più importante urgenza teoretica di Bel-larmino e degli altri controversisti catt olici dell’età confessio-nale era quella di legitt imare l’autorità esclusiva della Chiesa sulla base di un principio che fosse a monte della diversità delle opinioni, e che anzi si radicasse proprio nell’esistenza storica di quella diversità di opinioni, e delle dispute che ne consegui-vano. Un principio metateologico, potremmo dire. Tale prin-cipio fu identifi cato nella fi gura dello iudex controversiarum, il “giudice delle controversie”.

La Bibbia, secondo l’apologetica catt olica, era tutt o meno che chiara e limpida; la Bibbia era oscura e densa di contraddizioni e per quest o non poteva essere compresa dall’uomo né con le proprie forze naturali né in virtù di una personale illuminazio-ne soprannaturale (una posizione tipica della Riforma radicale, quest’ultima), ma solo tramite un att o d’autorità che discendes-se da un potere erett o da Dio a quello scopo. “Dio non ignora-va che si sarebbero verifi cati tanti dissensi sulla fede e sul senso della Scritt ura, e per quest o ha dovuto lasciare un giudice alle cui sentenze ognuno potesse credere con certezza: e nessuno

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si può immaginare più idoneo a quest o che il supremo pastore con il concilio degli altri pastori”33.

Un’autorità giudiziaria suprema, universale, viva e imma-nente, e sopratt utt o infallibile, si presenta così come l’unica via d’uscita dal labirinto delle interpretazioni. La fi gura del papa come giudice supremo delle controversie di fede fu il più rilevante contributo della teologia controversista alla ri-costruzione del potere papale nell’età della crisi religiosa, e tale funzione rest ò la più importante tra quelle con cui i pontefi -ci governarono la Chiesa universale fi no al Vaticano II. Essa era tutt ’uno – lo vedremo meglio in seguito – con il privile-gio dell’infallibilità, poiché ogni giudizio vincolante per le co-scienze defi nisce una verità e deve quindi essere infallibilmen-te preservato dall’errore.

“Tu sei Pietro, e su quest a pietra edifi cherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”, aveva dett o Gesù al suo discepolo (Mt 16,18) conferendogli il dono dell’indefett ibilità nella fede, dono che si sarebbe trasmesso senza interruzione a tutt i i suoi successori, i pontefi ci roma-ni. E prima ancora il Deuteronomio (17,8-9) aveva anticipato il ruolo arbitrale dei pontefi ci nella fi gura dei sacerdoti dell’antico Israele: “Se ti accorgerai che per te è diffi cile e impenetrabile il

33 Ivi, 31r.

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giudizio fra assassinio e assassinio, fra causa e causa, fra lebbra e lebbra, e vedrai che le parole dei giudici della tua citt à sono in disaccordo […] andrai dai sacerdoti di Levi e dal giudice in carica, li consulterai, ed essi ti indicheranno il vero giudizio”. L’origine dell’autorità infallibile del papa precedeva addiritt u-ra la nascita del cristianesimo e della Chiesa: essa era conna-turata, per volere divino, al corpo del popolo di Dio sin dal tempo di Mosè.

Bellarmino però non poteva accontentarsi delle prove desun-te dall’Antico e dal Nuovo Test amento, consapevole del modo in cui la parola di Dio può essere tratt a da una parte e dall’altra e, pertanto, l’esegesi della Scritt ura da sola non basti a stabilire a chi competa l’interpretazione della Scritt ura stessa. Quello che gli era indisp ensabile era una regola fondata sulla ragione che prescrivesse la necessità di un giudice ultimo nelle cause di fede: e con quest o la Bibbia smett eva di essere criterio di verità, come volevano i protest anti, per diventare oggett o essa stessa del giudizio teso a stabilire la verità.

È un lucido sillogismo, nelle sue pagine, a mostrare nella fi -gura del papa il luogo d’elezione della perseveranza della Chiesa catt olica nella vera fede, in opposizione agli errori degli eretici. In sintesi: storicamente la Chiesa non ha mai errato, perché ha sempre abbracciato la maggioranza dei cristiani e ha puntual-mente condannato le eresie; la Chiesa universale è rappresentata

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nel concilio convocato e confermato dal pontefi ce; ergo il pon-tefi ce, come garante ultimo delle defi nizioni del concilio, non può errare.

Non siamo molto distanti dalla realtà se identifi chiamo in quest a nota marginale alla quaestio I della Secunda secundae delle Lectiones lovanienses il terreno nel quale aff onda le radici tutt o l’edifi cio ecclesiologico – la teoria della costituzione della Chie-sa – delle Controversiae bellarminiane. Di quest e ultime, l’intero libro terzo della controversia De verbo Dei, dedicata alla Bibbia e alla sua interpretazione, non è altro che l’ampliamento de-gli argomenti già contenuti in essa. Poi le argomentazioni del-la nota De iudice controversiarum riemergono nel libro quarto della controversia sul papa, De potest ate spirituali Summi pon-tifi cis, “sul potere spirituale del Sommo pontefi ce”, la più lett a e discussa di tutt e le Disputationes, che si apre con l’aff ermazione dell’autorità suprema del magistero romano “nel giudizio sulle controversie circa la fede e i costumi”.

Il paradigma giudiziario che fonda il potere del papa si qua-lifi ca così come il fi lo rosso lungo il quale l’autorità della Chiesa catt olica nel mondo trova la propria giustifi cazione. Anticipan-do i tempi, possiamo già dire di essere arrivati al nucleo della teoria politica della Chiesa della Controriforma, poiché, come vedremo, dal tardo XVI secolo un altro soggett o contende alla Bibbia il primato d’importanza, e cioè lo Stato.

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Prima di proseguire è opportuno, per comodità di racconto, tornare alle vicende biografi che di Bellarmino.

Maggio 1576: il generale Mercurianus è messo al corrente del “grande desiderio di tornare in Italia” che si è impadronito del giovane gesuita incaricato del corso di teologia a Lovanio. Bellarmino è minato da un precario stato di salute (verosimil-mente una recrudescenza di tubercolosi) che fa temere per la sua vita. Cento giorni dopo: il primo sett embre Bellarmino si lascia alle spalle per l’ultima volta il collegio in cui ha soggior-nato per sett e anni, come aveva previsto.

Nelle memorie, la relazione causale fra la guarigione, il rien-tro in Italia e l’accesso alla catt edra di teologia controversista al Collegio Romano sembra governata da un’unica mano: “Al-lorché N. scendeva da Aosta e cominciava a respirare l’aria ita-liana, cominciò a sentire con gran meraviglia un cambiamento nel corpo. Le forze sembravano ritornare, ed egli si liberava dai vari dolori che lo affl iggevano. Alla fi ne arrivò a Roma così ri-sanato che dopo uno o due mesi iniziò, dietro mandato dei su-periori, a leggere le controversie nel Collegio Romano, e tenne quel ruolo per undici anni”34.

Non è chiaro se il ritorno di Bellarmino a Roma sia stato il frutt o di una sp ecifi ca decisione presa al vertice della Compagnia

34 Autobiografi a, op. cit., p. 455.

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di Gesù. Sappiamo però che nell’ordine, in quegli stessi anni, va montando un clima di mobilitazione att orno all’idea di una stra-tegia complessiva di lott a teologica al protest antesimo.

Nelle congregazioni generali del 1571 e 1573 (di fatt o, il parla-mento della Compagnia) le province del Reno e della Germa-nia superiore insistono presso il generale affi nché si istituiscano centri di studio teologico nelle aree di frontiera e si assegnino incarichi per la stesura di tratt ati di controversie. È percepibi-le l’esigenza di un passaggio dalla fase ormai consolidata della pastorale (la predicazione, gli esercizi spirituali, le confessioni) a una nuova off ensiva teologica in grande stile contro i prote-stanti, un salto di qualità che consolidi la missione antiereticale come pilastro dell’azione della Compagnia.

Dalle regioni poste lungo la frontiera confessionale si doman-dano prima di tutt o libri: “opuscoli e tratt atelli”, come invoca da Ingolstadt il padre Peltanus. Nel 1582 il padre Pisa, att ivo in Po-lonia, ricorda al nuovo generale Claudio Acquaviva che i libri di controversie sono come prediche destinate a essere “lett e e rilett e” infi nite volte, e che un teologo che pubblica un manuale di dott rina catt olica “insegna in eterno a lett ori di ogni genere, in cento luoghi diversi”35.

35 A. Mancia, La controversia con i protest anti e i programmi degli studi teologici nell a Compagnia di Gesù 1547-1599, in “Archivum historicum Societatis Iesu”, 54, 1985, 3-43, pp. 209-266, 15 ss.

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Quando Bellarmino rientra, da docente, al Collegio Roma-no la catt edra di teologia controversista, a suo tempo tenuta per alcuni anni dal padre Diego Ledesma, è “in sonno”. Per la verità, la disciplina nel suo complesso deve ancora essere dota-ta di un proprio statuto di metodo: di opere di controversia se ne contano fi n dall’antichità, ma l’ampiezza della sfi da lanciata dalla Riforma è tale da imporre un completo ripensamento di metodo e di obiett ivi.

Bellarmino nell’autunno del 1576 riapre la questione. Fac-cenda delicata: insegnare le controversie signifi ca far salire in catt edra le opinioni degli eretici, analizzarle, spiegarle. Come portare il diavolo in chiesa. Alle sue lezioni sono ammessi qua-si esclusivamente allievi stranieri – francesi, ungheresi, inglesi, tedeschi – quelli che dopo la laurea in teologia torneranno nelle terre d’origine per le incombenze della lott a confessionale. Di italiani se ne contano pochissimi, i migliori, selezionati per la predicazione dott rinale: in Italia la Riforma deve rest are sott o silenzio, quest e le dirett ive di curia.

Del corso tenuto da Bellarmino al Collegio Romano fra il 1576 e il 1587 possediamo le relectiones, gli appunti presi dagli studenti: cinque ponderosi volumi manoscritt i in ott avo gran-de conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana, un grosso in quarto dell’Ambrosiana di Milano e ulteriori frammenti rin-venuti a inizio Novecento dai padri Le Bachelet e Tromp. La

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loro ubicazione, non la biblioteca del Collegio Romano (oggi Pontifi cia Università Gregoriana) ma le raccolte private del papa, suggerisce che essi siano stati inizialmente raccolti e ri-legati come prontuario di teologia a disposizione degli organi di curia, poi superati dalla versione a stampa che inizia a uscire dal 1586 a Ingolstadt – in Baviera, la sede della più importante università gesuitica della Germania meridionale – per i tipi di David Sartorius.

L’opera più celebre di Bellarmino, quella che lo ha reso l’in-carnazione stessa della teologia della Controriforma e il simbolo del potere del papa presso i protest anti, è costituita infatt i dalle Disputationes, o meglio, come recita esatt amente il titolo, le Di-sputationes de controversiis christianae fi dei adversus huius tempo-ris haereticos, le “dispute sulle questioni controverse della fede cristiana contro gli eretici del nostro tempo”, pubblicate nella prima edizione fra il 1586 e il 1593 in tre grossi volumi in folio.

In poche parole, si tratt a di un’articolata discussione di tutt i i punti di dott rina oggett o di contenzioso fra catt olici e prote-stanti, dalla composizione del canone biblico allo statuto giuri-dico degli ecclesiastici, nei quali sono compendiate e confutate migliaia di tesi provenienti da tutt e le correnti protest anti. Nei volumi delle Disputationes è ossifi cata la spina dorsale della dog-matica stabilita dal concilio di Trento e perfezionata nei grandi laboratori teologici catt olici, in Italia, in Spagna, in Germania,

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nelle Fiandre: per quest o l’opera di Bellarmino non è soltanto raccolta di prove contro gli eretici, ma una vera e propria guida che serve ai ceti dirigenti ecclesiastici, in primo luogo a Roma, per orientarsi con sicurezza nelle questioni religiose in un’età in cui l’ortodossia era il primo criterio da seguire nelle azioni.

Att raverso le trascrizioni originali del corso del Collegio Ro-mano siamo in grado di ricostruire l’evoluzione del metodo di Bellarmino nel passaggio dalle lezioni orali alle Disputationes a stampa. Ad esempio, nelle pagine dei manoscritt i la scansione delle controversie segue ancora il modello dialett ico per quae-stiones della Summa theologiae, mentre nell’edizione a stampa essa è sostituita da uno schema più moderno articolato per libri e capitoli. Ma al di là di quest a scelta espositiva è la successione delle controversie a riservare qualche interesse. Vediamo perché.

Grazie ai manoscritt i sappiamo che durante il primo anno di corso (1576-77) Bellarmino lesse anzitutt o la controversia De verbo Dei, poi la De Ecclesia militanti e, al terzo posto, la De con-ciliis (“sui concili”). Il secondo anno le controversie De pontifi ce e De clericis (“sul pontefi ce” e “sul clero”), il terzo quelle De mona-chis et religiosorum ordinibus (“sui monaci e gli ordini religiosi”), De politico magistratu (“sul magistrato politico”, cioè sul potere politico) e De purgatorio. Il quarto anno le controversie nona e decima sui santi e sullo stato di Adamo prima e dopo il pecca-to originale. Il quinto anno la controversia sul libero arbitrio e

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la giustifi cazione, il sest o quella su Cristo come mediatore tra l’uomo e il Padre. Negli anni successivi riprese daccapo. Come si nota, solo alla fi ne del terzo anno di corso, nell’est ate del 1579, Bellarmino cominciò a tratt are la dimensione soprannaturale della Chiesa, con il purgatorio: fi no ad allora si era occupato della sua dimensione istituzionale e gerarchica su quest a terra.

Se a quest a scansione di temi accostiamo gli indici dei volu-mi delle Disputationes vediamo che la prima controversia rest a quella sulla Scritt ura. Come lo stesso Bellarmino premett e, in-fatt i, le controversie con gli eretici possono avere luogo solo in presenza di un minimo denominatore comune, che è appunto l’accett azione della Bibbia come test o ispirato. E poi esiste un’al-tra ragione: la controversia De verbo Dei pone all’att enzione da subito il perno logico att orno al quale ruota tutt a l’opera, e cioè il problema dell’interpretazione biblica, che è la vera chiave di volta dell’edifi cio apologetico, dal momento che tale problema comprende l’insuffi cienza della Scritt ura, la necessità di un ar-bitrato supremo sulle dispute (lo iudex controversiarum) e l’im-portanza della tradizione quale fonte della fede.

La controversia De verbo Dei è seguita dalla controversia De Christo, che nelle lezioni del Collegio Romano era invece af-frontata solo al sest o anno di corso. Perché quest a anticipazio-ne? Di ragioni esplicite nessuna traccia: ma rest a il fatt o che, collocata al secondo posto dell’Indice, essa impone un senso e

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una direzione precisi all’andamento dell’opera, che assume un asp ett o “piramidale”. Se Cristo infatt i è caput Ecclesiae, “capo della Chiesa”, allora il discorso sulla Chiesa si presenta come discor-so sulla sovranità, la sovranità di Cristo sulla Chiesa universa-le – in terra e in cielo, cioè sui vivi e i defunti – e la sovranità del suo vicario, il papa, sulla Chiesa militante, la Chiesa dei vivi che combatt e su quest a terra. Per quest o la terza controversia, la De Summo pontifi ce, la più celebre e la più discussa, diventa il cuore del sistema teologico di Bellarmino sulla fede e il potere.

Se nel corso al Collegio Romano essa era preceduta dalle le-zioni sulla Chiesa nel suo complesso e sui concili – con un moto dal basso verso l’alto, potremmo aggiungere –, nelle Disputatio-nes infatt i la De Summo pontifi ce tiene immediatamente dietro alla controversia su Cristo, rimarcando la verticalità dell’isti-tuzione ecclesiastica – e il suo procedere dall’alto verso il bas-so, in quest o caso – e la posizione liminale del papa, al confi ne tra cielo e terra e punto di giuntura fra Cristo e la sua Chiesa.

Bellarmino ha modo di sintetizzare con l’effi cacia che gli è tipica quest o status del romano pontefi ce che lo fa essere non soltanto vertice della Chiesa, come nella tradizionale visione che si aff erma da Gregorio VII in poi, ma anche sintesi e punto d’equilibrio di tutt o l’organismo ecclesiale. Il papa, per il teolo-go gesuita, è summa rei christianae, “compendio del cristianesi-mo”: “Da dove […] se non dalla Sede [apostolica] ci vengono la

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concordia nella dott rina, il vincolo della pace, l’unità della fede, che è tutt ’uno con la conservazione e la vita della religione?”36.

Delineata la fi gura piramidale della Chiesa – meglio, potrem-mo azzardare una fi gura “a clessidra”, con la Chiesa nei cieli e quella in terra sp ecularmente convergenti att orno alla catt edra di Pietro –, le rest anti controversie ecclesiologiche si dispongo-no secondo quello che appare ora come l’ordine naturale della sovranità: dopo il papa il concilio, poi i membri consacrati del-la Chiesa, monaci, frati e preti, e infi ne i laici, ossia la comuni-tà politica con le sue leggi. Il fl usso discendente della sovranità raggiunge con quest o il suo punto terminale. È per quest a via che le Disputationes de controversiis si aff rancano dal caratt ere puramente polemico del genere teologico della controversia e si propongono come l’autoritratt o teologico, e il progett o costi-tuzionale, della Chiesa catt olica.

36 Controversia III De Summo pontifi ce, in Roberti Bell armini Politiani opera omnia, op. cit., I, 1870, p. 454.

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Appena approdate sul mercato le Disputationes de contro-versiis fecero subito sensazione. Dai tempi del cristia-

nesimo antico non si era più visto un simile catalogo di tesi dott rinali, ciascuna esposta, spiegata, sezionata secondo le posizioni delle diverse scuole protest anti, poi illustrata nella corrett a interpretazione catt olica con tutt o l’apparato del-le prove desunte dalla Scritt ura, dai Padri della Chiesa, dal diritt o canonico, dalle leggende agiografi che, dalla storia sa-cra e da quella profana. Era come se l’intero sapere teologico cinquecentesco, con le sue radici nei secoli dell’antichità e del Medioevo, fosse stato distillato e cristallizzato nell’inchiostro della stampa. Un’opera strabiliante, per un’epoca in cui l’accesso

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LE CONTROVERSIE SULLE CONTROVERSIE

ai testi era limitatissimo e la maggior parte delle biblioteche monastiche non possedeva che poche centinaia, forse poche decine di libri.

Nelle Disputationes tutt i i maggiori teologi della Riforma era-no citati profusamente: Calvino, Lutero, Melantone, Zwingli, Beza, Chemnitz, Pietro Martire Vermigli, Bullinger, Brenz, Bi-bliander, Carlostadio, Chytraeus, Schwenckfeld, Simler, Flacius Illyricus. Nomi che in buona parte oggi dicono poco o nulla ai non addett i ai lavori, ma che all’epoca erano i maestri del pensiero religioso, gli intellett uali di riferimento delle Chiese e delle comunità, dei sovrani e delle magistrature.

Sulla confutazione di quest a legione di avversari Bellarmino costruì la propria fama di martello degli eretici. Ne fa fede, tra l’altro, il caleidoscopio di anagrammi del suo nome (un eser-cizio di stile molto in voga all’epoca) che rinviano a metafo-re polemiche. Uno per tutt i, quello che correda il suo ritratt o nella seconda edizione (1644) della biografi a scritt a dal padre Giacomo Fuligatt i: Luteri err ores ac ast utias Calvini omnes dele-bis, “cancellerai tutt i gli errori di Lutero e le astuzie di Calvino”, ricavato da Robertus card. Bell arminus e Societate Iesu37.

37 Vita di Roberto card. Bell armino dell a Compagnia di Gesù […] rivista ed accresciuta, in Roma, per Lodovico Grignani, 1644.

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La prima edizione uscì in tre volumi in folio, di almeno mille colonne ciascuno, e per un’opera di tale mole il successo edito-riale fu inatt eso. Nel sett embre del 1588, appena dopo la pubbli-cazione del secondo volume, le copie arrivate alla fi era dei libri di Francoforte andarono tutt e vendute: “Non ne avrebbero la-sciata una sola al tipografo se anche ne avesse portate duemila”, scrive il rett ore del collegio di Magonza Hermann Th yraeus ad Acquaviva38.

Scorrendo le pagine della Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, il grande catalogo di opere di autori gesuiti stilato sott o la direzione del padre Carlos Sommervogel alla fi ne dell’Ott ocen-to, possiamo farci un’idea delle dimensioni della presenza delle Disputationes sugli scaff ali delle biblioteche pubbliche e private: dopo la prima edizione, Sartorius di Ingolstadt ne tira una se-conda, corrett a, nel 1588-93, poi una terza, in due ristampe, nel 1590 e 1592. Nel 1596 tre ristampe: Ingolstadt, Lione e Venezia (quest’ultima è una quarta edizione, ampliata e corrett a perso-nalmente dall’autore e considerata la più completa). Poi, a scor-rere, Ingolstadt 1599 e 1601, Venezia e Parigi 1602, Lione 1603, Colonia e Ingolstadt 1605, Parigi 1607 in due ristampe, Lione 1610 in due ristampe, Parigi 1613, Colonia 1615 e 1617, Parigi 1619

38 Th yraeus ad Acquaviva, 29.IX.1588, in Le Bachelet, Bell armin avant son cardinalat, op. cit., p. 219.

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e 1620, Colonia 1628 e 1665, Ingolstadt 1699, Venezia, Milano e Francoforte 1721, Roma 1832-42, Magonza 1842-43, Milano 1857, Napoli 1856-62, Parigi 1870-74 (l’edizione usata in quest a sede, basata su quella veneziana) e Napoli 1872.

Facciamo att enzione a quest o conteggio, anche se può appa-rire sterile. Il grosso delle edizioni delle Disputationes si concen-tra nei trent’anni compresi fra il 1590 e il 1620, con un picco fra il 1601 e il 1605 e una cadenza regolare di uscite per il quindi-cennio successivo. Poi le presenze si fanno più sporadiche (solo tre per il rest o del Seicento) e di nuovo – con la parentesi del centenario della morte di Bellarmino, nel 1721 – registrano un addensamento tra il 1857 e il 1874 (in quest o caso si tratt a sem-pre di opera omnia, raccolte di opere complete).

In un certo senso, anche solo con le nude cifre Bellarmino ci orienta nella storia della Chiesa: al di là del naturale invecchia-mento dell’opera (anche la teologia, malgrado tutt o, ha i suoi cicli d’età), notiamo che l’interesse del pubblico per la contro-versia religiosa è massimo nel clima che precede la Guerra dei Trent’anni, il periodo in cui la lott a tra le confessioni raggiunge il culmine e con essa, come vedremo, l’att rito tra potere tem-porale e potere spirituale. Quanto all’appendice ott ocentesca, è in buona parte coincidente con il lungo pontifi cato di Pio IX, il papa dell’infallibilità, e in particolare con gli anni del conci-lio Vaticano I.

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Naturalmente un successo simile si fondava anche su ragioni intrinseche. Prima di tutt o le Disputationes presentavano pregi impagabili per il pubblico degli sp ecialisti: compendiavano una disciplina nata da poco – qualche decennio tutt ’al più – ma che godeva di una notevole risonanza pubblica; la ordinavano meto-dicamente; ne mett evano in fi la le fonti, fi no ad allora numerose e disp erse, e le citavano con abbondanza di test o. Secondo Richard Montagu, teologo di rilievo presso la corte d’Inghilterra, Bellar-mino era stato il primo a mett ere mano “con stupefacente abilità alla massa informe e al caos enorme delle controversie, a ridurre quella confusione a ordine e a conferirle eleganza. […] Coloro che oggi tratt ano di controversie traggono praticamente tutt o il loro materiale dai suoi scaff ali, come i poeti fanno con Omero”39.

Poi contava l’urgenza della lott a religiosa. Da quest o punto di vista potremmo azzardare che, storicamente, le Disputatio-nes stanno all’età confessionale come l’Encyclopédie sta all’Illu-minismo: opere che oggi ricordiamo sopratt utt o come simbolo di un’epoca, ma che per i contemporanei erano funzionali alla precisa esigenza di fondare un sapere nuovo.

Bellarmino era in tutt o e per tutt o fi glio della Compagnia di Gesù e più in generale della Chiesa della Controriforma: e sia

39 Apparatus ad origines ecclesiast icas, 1635, qui cit. da J. Brodrick, Th e Life and Works of Robert Francis Cardinal Bell armine, SJ, 1542-1621, Burns Oates and Washbourne, London 1928, I, p. 147.

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l’una che l’altra, tra la metà del XVI e la metà del XVII seco-lo, plasmarono nello spazio concett uale della controversia una propria identità che perdurò anche nei secoli successivi. “Abbia-mo troppo imparato il nostro catechismo contro Lutero, contro Baio o anche contro Loisy” scriveva nel 1938 uno dei maggiori teologi del Novecento, Henri de Lubac, puntando il dito contro la dimensione ancora essenzialmente reatt iva della lett eratura religiosa catt olica40.

La controversia religiosa aveva conosciuto un caotico svi-luppo a partire dal 1520 circa, come conseguenza della dialet-tica innescata dalla Riforma: a lungo, tutt avia, essa non fu una vera e propria disciplina a sé. Verifi chiamolo con una semplice prova empirica. Se scorriamo rapidamente i titoli prodott i dai maggiori polemisti catt olici (come Eck, Fabri, Cochlaeus, Pigghe, Catarino e un’altra manciata di nomi) nel periodo compreso fra le Novantacinque tesi di Lutero e la conclusione del concilio di Trento notiamo che i due signifi canti linguistici fondamentali della pratica della disputa, e cioè le parole disputatio e controver-sia, sono praticamente assenti. Non si tratt a di defi cienza lessi-cale – entrambi i lemmi appartenevano al vocabolario teologico

40 Catt olicismo. Asp ett i sociali del dogma, in id., Opera omnia, tr. it. a c. di E. Guerriero, Jaca Book, VII, Milano 1978, p. 235 (orig. Catholicisme. Les asp ects sociaux du dogme, 1938).

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sin dall’antichità – ma, diremmo oggi, di carenza epistemologi-ca. Quei teologi praticavano la disputa di fede ma non la rico-noscevano come una scienza a sé, perché non ne avevano ela-borato un metodo preciso. Per capirci meglio, è un po’ come la diff erenza tra un alchimista e un chimico: entrambi lavorano con gli elementi della materia, ma il secondo si rifà a rigorosi protocolli metodologici, il primo no.

Ora, se proseguiamo dagli anni sett anta-ott anta del Cinque-cento fi no al primo quarto del Seicento e sondiamo la bibliogra-fi a dei più conosciuti teologi gesuiti (Valencia, Gretser, Becanus, Francisco Suárez, e ovviamente Bellarmino) ci accorgiamo che quegli stessi due termini disputatio e controversia diventano as-solutamente dominanti nel panorama dei titoli a disposizione. Il che ci segnala il fatt o che la scuola teologica della Compagnia di Gesù fa del metodo controversistico il proprio metodo costitutivo.

In quest o processo, che si compie nel giro di alcuni decenni, la confutazione dell’eresia e l’aff ermazione dell’ortodossia proce-dono di pari passo: come la scolastica medievale aveva defi nito la dott rina att raverso il metodo logico-dialett ico, così possiamo dire che la scolastica tridentina la defi nisce att raverso quello controversistico, e dunque att raverso l’uso della dicotomia ori-ginaria verità/errore. È un lato dell’anima culturale della Con-troriforma: l’“altro” viene conosciuto e acquisito come parte del “sé” in negativo, per opposizione.

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Da quest o punto di vista la percezione della fi gura di Bellar-mino presso i suoi contemporanei oscillò sempre tra l’interes-se verso il grande erudito nelle scienze sacre e l’ostilità verso il campione delle prerogative della Sede romana.

Di entrambi i punti di vista abbiamo ampie testimonianze. “Nel 1589 – stiamo di nuovo leggendo l’autobiografi a –, allor-ché il cardinale Caetani fu inviato in Francia come legato per la gravissima situazione di quel regno, N. fu mandato con lui da papa Sisto V. In Francia il suo nome cominciava a essere famoso per la pubblicazione dei libri delle controversie, e perciò molti volevano vederlo, e sp esso lo andavano a incontrare”41. Qual-che mese dopo, al ritorno dalla missione francese, “durante il tragitt o passò per Basilea, ma non fu riconosciuto; e dicono che quando si seppe che N. era stato lì molti ebbero gran dispiace-re di non averlo potuto vedere. Se gli avessero voluto fare del male oppure onorarlo, non è dato sapere”42. Lontani echi di un mondo in cui la fama dei padroni della cultura scritt a si irrag-giava dall’alto verso il basso e diventava mito.

Ancora più signifi cativo il ricordo di Fynes Morison, giovane gentiluomo inglese e anglicano, protagonista, durante l’ultimo

41 Autobiografi a, op. cit., pp. 455-456.42 Ivi, p. 457.

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decennio del secolo, di un lungo viaggio di formazione att raver-so l’Europa e il Vicino Oriente.

Moryson scende fi no a Tivoli con alcuni compagni di viaggio – tutt i protest anti in incognito – poco prima della Pasqua del 1594; poi questi risalgono in frett a e furia verso Siena, nel granducato di Toscana, per timore di essere nel sosp ett o dell’Inquisizione. Moryson invece tenta una puntata a Roma: “Avevo soltanto un ostinato proposito di vedere Bellarmino. Per quest o fi ne […] raggiunsi audacemente il collegio dei gesuiti; Bellarmino sta-va passeggiando nei dintorni, e lo asp ett ai all’ingresso […], poi lo seguii nel collegio, vestito come un italiano e att ento a non fare alcun gest o strano, anzi evitando di osservare l’edifi cio e di guardare qualcuno per non att irare occhi su di me. Fu così che entrai nella camera di Bellarmino e potei vedere quest’uomo così famoso per il sapere e quest o grande campione dei papi”43.

43 An Itinerary Containing his Ten Yeeres Travell through Germany, Denmark, Poland, Italy etc., 1617, qui in Brodrick, Th e Life and Works of Robert Francis Cardinal Bell armine, op. cit., I, pp. 323-324. Può essere interessante continuare la lett ura per avere un ritratt o di prima mano dell’asp ett o e dei modi del gesuita: “Non sembrava avere più di quarant’anni [in realtà ne aveva cinquantadue], era di corporatura magra e piutt osto basso di statura, con un viso lungo e una piccola barba affi lata sul mento di colore bruno, un contegno non particolar.mente autorevole [grave] e, per la sua mezza età, forse carente dell’autorità che danno i capelli bianchi. Entrato in camera sua e fatt agli la professione del mio grande risp ett o, gli dissi che ero un francese e che ero venuto a Roma per soddisfare alcuni voti e vedere i monumenti […], e lo pregai calorosamente affi nché, per poter tornare meglio istruito nella mia

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La curiosità, naturalmente, era solo uno dei volti di una fama costruita sulla contrapposizione religiosa. L’altro volto si chiamava ostilità, oltraggio, odium theologicum – espressione che richiama un’avversione radicale, violenta, non dett ata dalla razionalità o dall’interesse personale ma dal semplice senso di appartenenza.

Combatt ere la fede dell’altro, nell’età confessionale, signifi ca-va aff ermare la propria, e quindi signifi cava difendere identità, celebrare poteri, consolidare appartenenze.

L’alba delle nazioni era parecchio di là da venire. Il principio di nazionalità non era del tutt o sconosciuto, ma viveva ancora di uno stato embrionale, mentre era l’appartenenza religiosa a de-terminare omogeneità e diff erenze. Forse solo la grande potenza catt olica, la Spagna, contava già su una ben avviata idea di coinci-denza tra religione e identità etnica, costruita sulla persecuzione degli ispanici di ascendenza ebraica, sugli autos da fé e la guerra senza quartiere contro gli eretici. L’Inghilterra elisabett iana stava concependo qualcosa di simile, dipingendosi – sopratt utt o in via simbolica – come protett rice della causa protest ante. Ma, per il rest o, prima che tedeschi, francesi o fi amminghi si era luterani, ugonott i o catt olici. L’Italia, che aveva defi nitivamente regolato

terra, mi volesse ammett ere durante le ore di riposo a godere della sua autorevole conversazione. Mi rispose gentilmente, […] e mostrando che la mia compagnia gli sarebbe stata graditissima comandò al suo novizio di farmi entrare subito non appena lo fossi andato a visitare”.

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i conti con le sue comunità riformate intorno al 1560-1570, stava avviandosi verso la lunga stagione di disciplinamento culturale che l’avrebbe plasmata come “nazione catt olica”.

Dobbiamo inoltre considerare il fatt o che, su un fronte come sull’altro, decine, se non centinaia di intellett uali trovavano la propria ragion d’essere – come pure le sp eranze di carriera – nella lott a religiosa. Per frati e monaci, docenti universitari e consiglieri teologici, pastori e predicatori un’opera con qualche fortuna di pubblico poteva aprire le porte della carriera, cioè della grazia di sovrani e cardinali.

La teologia, fra le altre cose, era anche un’imponente indu-stria delle professioni, che in quanto tale operava per riprodur-si: pensiamo soltanto ai colossali apparati burocratici e alle reti clientelari che succhiavano il latt e dalle tre Inquisizioni catt o-liche, in Portogallo, Spagna e Italia.

Nella cornice di quest o sistema religioso, politico ed econo-mico va inserito l’asp ett o più sinistro della fortuna di Bellarmi-no nell’Europa di quei decenni.

Se apriamo di nuovo la Bibliothèque di Sommervogel pos-siamo seguire una scia di circa centocinquanta tratt ati scrit-ti appositamente a favore o contro le sue opere, disseminati lungo l’arco temporale che abbiamo visto prima, fra il 1590 e il 1620 circa.

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Fra i libri pubblicati contro le Disputationes in generale non si contano gli Anti-Bell arminus. Poi, nella congerie bibliografi ca, altri titoli che, anche senza traduzione, evocano il clima del tempo: Er-nestus Zephyrus, Speculum Iesuiticum, h.e. demonstratio Esauiticae profanitatis, Pelagianae levitatis, blasphemae impietatis Bell arminia-nae et Gretserianae, Witt enberg 1619; Andrew Willet, Synopsis pa-pismi, hoc est totius doctrinae anti-christianae, quae hodie a synagoga Romana imprimis vero Rob. Bell armino defenditur, solida refutatio, Oppenheim 1614; Iakob Laurentius, Conscientia iesuitica cauteria-ta […] ex quatuor tomis disputationum R. Bell armini, Amsterdam 1615; Jakob Reneccius, Panoplia, id est armatura theologica libri duo quibus omnia Rob. Bell armini deliria refutantur, Witt enberg 1618; William Ames, Bell arminus enervatus, Franecker 1625-1626.

La controversia De Summo pontifi ce da sola solleva un vespaio di att acchi. Tra i più fortunati: Matt hew Sutcliff e, De pontifi cis iniusta dominatione, contra Bell arminum, Londra 1599; George Downam, A Treatise Affi rming the Pope to be Antechrist, against Bell armine, Londra 1603; Nicolas Vignier, Th eatre de l’Antechrist auquel est respondu au card. Bell armin, s.l. 1610; Th omas Bright-mann, De Anti-Christo iesuitarum fi ctitio contra Bell arminum, Francoforte 1609.

Sopratt utt o, Bellarmino indossava la doppia maschera di apo-logeta della sovranità papale e di gesuita, e quindi membro di un ordine percepito, dai protest anti come da parecchi catt olici,

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come una società segreta dedita alla congiura contro le monar-chie e la libertà religiosa.

William Whitaker, il più rinomato teologo inglese dell’età elisabett iana, comprese da subito, nel 1588, la compresenza delle due anime, a giudicare dalla sua risposta alla controversia sul-la Scritt ura di Bellarmino, Disputatio de Sacra Scriptura contra huius temporis papistas, imprimis Robertum Bell arminum (che già dal titolo si presenta come un suo omologo sp eculare): “Fino a oggi sono stati tanti […] quelli che hanno difeso l’interesse e la sovranità del papa con il massimo impegno […]. Fra quest e lo-custe […] nessuna è mai sembrata così bramosa di far danno, e meglio preparata e att rezzata per compierlo, dei gesuiti di oggi, che in breve lasso di tempo hanno superato tutt e le altre socie-tà di quel tipo per numero, riconoscimento e audacità. […] Fra questi gesuiti Roberto Bellarmino, originario dell’Italia, ha ott e-nuto da diversi anni fama e celebrità di nome. […] Le sue lezioni sono avidamente ascoltate dai suoi uditori, trascritt e, sp edite a ogni angolo e custodite come gioielli e amuleti”44.

La cultura popolare inglese, che per decenni fu ossessionata dalle missioni segrete dei gesuiti, da quell’epoca prese a chiama-re Bell armines i recipienti da birra di foggia tedesca decorati con il volto di un uomo barbuto in rilievo.

44 Ivi, I, pp. 138-139.

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Quest o, però, non spiega tutt o. Dove trovare dunque il pun-to di congiunzione fra il suo discorso sulla Chiesa e la questione più generale della sovranità politica? Qual era il ponte fra l’au-torità spirituale del papa e l’autorità temporale dei principi, se la primazia dei pontefi ci si esprimeva nella sfera religiosa, senza toccare il governo civile della comunità?

Per capire le ragioni di quest a peculiarità della controversi-stica bellarminiana dobbiamo dare un’occhiata al dibatt ito po-litico degli anni delle Disputationes. L’occasione ce la off re una lett era che Bellarmino indirizza al suo anziano confratello Al-fonso Salmerón nel luglio del 1584. “Mi scrisse, il giugno dell’an-no passato, il padre Possevino come un libro di Matt hia Illyrico, De translatione imperii romani [“Sul trasferimento del titolo im-periale romano”], faceva gran danno nelle corti de’ principi di Germania, percioché persuasi da quel libro si credevano esser falso che il papa fosse stato autore di quella translatione dell’im-perio da’ greci a’ tedeschi in persona di Carlo Magno […]. Per il che mi esortava a rispondere al dett o libro”45.

Antonio Possevino era il plenipotenziario del papa nell’Eu-ropa orientale: con le sue missioni tra Polonia, Russia e Transil-vania era stato tra gli artefi ci del contenimento dell’espansione

45 Bellarmino a Salmerón, 19.VII.1584, in Le Bachelet, Bell armin avant son cardinalat, op. cit., p. 141.

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calvinista a oriente, fra le popolazioni di etnia magiara, e dell’av-vicinamento dei ruteni all’obbedienza romana. La sua cono-scenza degli ambienti di corte, in Polonia come in Germania, gli donava inoltre una fi ne sensibilità per le questioni politiche all’ordine del giorno.

L’att enzione per il volume di Illyricus, peraltro, era ampia-mente giustifi cata dalla fama dell’autore. Matija Vlacic’, istriano, dett o Flacius Illyricus, era stato il capo dell’ala luterana intran-sigente che si era opposta ai tentativi di mediazione dott rinale con i catt olici imposti da Carlo V nel 1548: gli gnesioluterani, i “luterani autentici”, fedeli al principio secondo il quale il papa era l’Anticristo e dunque nessuna concessione alle sue dott rine poteva essere presa in considerazione.

Ma Flacius era anche un formidabile polemista e organizza-tore culturale, il creatore del gruppo dei cosiddett i “centuriatori di Magdeburgo”, i fi lologi militanti che con la loro Ecclesiast ica historia, pubblicata a partire dal 1559, avevano seminato il pani-co a Roma dipingendo una grande storia del cristianesimo che seguiva una linea dirett a di continuità fra Cristo, gli apostoli e le Chiese protest anti.

Che l’oggett o del nuovo libro di Flacius fosse l’incoronazio-ne di Carlo Magno – allorché papa Leone III nell’800 aveva posto sul suo capo il diadema imperiale che mancava in Oc-cidente dal V secolo, facendo nascere un archetipo simbolico

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della relazione tra i due poteri – ci dice chiaramente di come il terreno dello scontro si fosse ormai allargato alla storia di qua-si ott o secoli d’Europa.

Att ingendo alle tesi di Marsilio da Padova (lo scritt ore po-litico trecentesco che aveva celebrato le prerogative imperiali e che per la Chiesa romana era un anticipatore della Riforma), Flacius aveva levato ossigeno a una vulgata secolare che voleva che fossero stati i papi a togliere il titolo imperiale romano ai monarchi bizantini per conferirlo ai carolingi e poi, successiva-mente, ai sassoni. Come è facile capire, dietro quest a tradizione stava la tesi della superiorità gerarchica dei pontefi ci sugli im-peratori medievali, e quindi, più in generale, sui sovrani: era il vicario di Cristo che conferiva il regno e il potere, e lo trasferi-va dall’uno all’altro secondo gli interessi della cristianità – ergo, nell’ott ica romana, della Chiesa.

Contro quest a tesi Flacius aveva propugnato con dett aglio di prove l’autonoma legitt imità del potere temporale, che si fon-dava sull’immediato diritt o divino e sul consenso dei governati. Per quest o il suo libro aveva preso a riscuotere un certo inte-resse presso le cancellerie dei principi tedeschi, catt olici o pro-test anti che fossero.

Quando scrisse a Salmerón Bellarmino aveva già pronta da qualche mese la risposta a Flacius. Portava praticamente lo

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stesso titolo, De translatione imperii romani a Graecis ad Francos, ed era il primo vero impegno del teologo gesuita att orno al tema dell’autorità del papa sopra gli ordinamenti politici.

Il De translatione imperii romani vide la luce soltanto nel 1589, dopo la morte di Gregorio XIII e del cardinale Sirleto, che per prudenza ne aveva messo in mora la pubblicazione. In compen-so fu stampato nella bott ega di Christophe Plantin di Anversa, all’epoca il tipografo probabilmente più autorevole dell’Europa catt olica. Di qui i riferimenti al test o nella seconda edizione delle Disputationes, che così si aprivano a una prosp ett iva più strett a-mente politica lasciata in secondo piano nella prima edizione.

Obiett ivo polemico di Bellarmino era la ricostruzione storio-grafi ca di Flacius, per la quale erano “una fi nzione e una favola quello che generalmente si crede, e cioè che l’impero romano sia stato trasferito dai greci ai germani per l’autorità del Sommo pontefi ce”46. Per quest o aveva deciso di aff rontare con un taglio teologico la questione del potere d’investitura del papa. “L’intera questione – aveva sintetizzato – si basa su due assunti: il primo, che il Romano pontefi ce è il padre e pastore di tutt a la Chiesa, e cioè di tutt i i cristiani; il secondo, che il sommo pastore di tutt a

46 De translatione imperii romani a Graecis ad Francos adversus Matt hiam Flaccium Ill yricum libri tres, in Roberti Bell armini Politiani opera omnia, op. cit., VI, 1873, pp. 559-647, 562.

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la Chiesa è a capo non solo dei semplici citt adini, ma pure dei re e degli imperatori cristiani, in modo che, se la causa di Cri-sto e della Chiesa lo richiede, egli li possa spogliare dei regni e degli imperi, trasferendoli ad altri”47. Sarebbe diffi cile trovare una descrizione più limpida del nesso che lega la primazia del papa sulla Chiesa e la sua superiorità risp ett o ai detentori del potere politico. Al nucleo del discorso sta una nozione di Chiesa non come corpo dei chierici consacrati, ma come collett ività di tutt i i cristiani, che è in eff ett i l’accezione originaria di ekklesia, “assemblea dei fedeli”.

Tra il potere politico tout court e il potere politico cristiano esisteva così una diff erenza di qualità: entrambi erano legitt imi, ma solo il secondo faceva parte di un sistema più ampio, volu-to da Dio e rett o da una legge trascendente: “Quando i principi sono cristiani e sono annoverati tra i membri e i fi gli della Chie-sa catt olica quei due poteri [temporale e spirituale] si congiun-gono, e concordano fra sé al punto da dare vita a un solo Stato, a un regno, a una famiglia, e fi nanco a un corpo solo”48.

La metafora del corpo non era scelta a caso. Era una metafo-ra importante, che rinviava a san Paolo, fondatore teologico del cristianesimo, e poi a tutt a la tradizione medievale della Chiesa

47 Ivi, p. 600.48 Ivi, p. 617.

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come corpus Christi, “corpo di Cristo”, con il suo capo e le membra sott omesse a esso. Bellarmino la usava come allegoria in grado di tenere in sé tutt o il discorso politico papale: “In quest o cor-po mistico della Chiesa il potere ecclesiastico è come l’anima, il potere politico come il corpo […] e dunque il fi ne del primo è l’eterna beatitudine, del secondo la pace e la tranquillità civile; quello regge le anime e i cuori, quest o esercita la sua forza sui corpi”. La conseguenza era naturale, in termini gerarchici: “Per-ché l’anima governi è necessario che la carne si sott omett a”49. Nessuno all’epoca – a parte la sulfurea genìa degli atei, o come si chiamavano al tempo gli “spiriti forti” – avrebbe negato la maggiore importanza della beatitudine dell’anima risp ett o alla tranquillità del corpo e della società. Il discorso, dunque, era ben fondato.

Quest o rapporto gerarchico fra anima e corpo era il cuore del potere politico cristiano; e in quest a prosp ett iva la suprema-zia spirituale del pontefi ce sulla Chiesa racchiudeva già la sua supremazia sui fi ni e le azioni dello Stato, il quale, come collet-tività degli uomini, era dentro la Chiesa: “Il papa trasferì l’im-pero occidentale dai greci ai germani non perché fosse re dei re, o massimo monarca temporale come erano stati Augusto o Costantino, ma in qualità di pastore della Chiesa universale,

49 Ibid.

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costituito nella suprema potest à da Cristo stesso, che può con-tare anche re e imperatori fra le sue pecore”50. Messo in questi termini, il nesso fra legge civile e legge religiosa, fra potere tem-porale e potere spirituale, fra “corpo” e “anima” della collett ivi-tà era un capitolo di un più ampio sistema teorico, e cioè della concezione del pontefi ce come sovrano spirituale dei credenti. Il suo dominio, indiscusso, si esercitava sulla coscienze: un “im-pero delle anime”, come recita il titolo di un bel saggio sul pen-siero politico bellarminiano51.

La tesi fondamentale della teologia politica di Bellarmino, quella della potest as indirecta, e il test o che la contiene, il quarto libro della controversia De Summo pontifi ce, dedicato al potere spirituale del papa, parlano dunque il linguaggio della teologia anziché quello del diritt o per esprimere un concett o di ordine politico: è la sovranità teologica del papa come giudice delle controversie a fondarne la sovranità politica indirett a.

Giudicando delle questioni di fede, il pontefi ce può emett ere sentenze vincolanti per tutt i i cristiani, compresi i sovrani. Tali sentenze sono vincolanti perché interpretano esatt amente la dott rina voluta da Cristo per la salvezza degli uomini, e quest a

50 Ivi, p. 619.51 Stefania Tutino, Empire of Souls. Robert Bell armine and the Christian Commonwealth, Oxford University Press, Oxford – New York 2010.

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interpretazione esatt a, sott ratt a a ogni ulteriore controversia, è garantita al papa dal privilegio dell’infallibilità. Solo un papa infallibile può essere giudice supremo delle controversie e dun-que esercitare la sua autorità sull’ordinamento politico. Ecco il perno della teologia del potere della Controriforma.

Torniamo alle pagine delle Disputationes, alla controversia sul Sommo pontefi ce. Vi sono elencate alcune questioni sostan-ziali: “Una concerne il potere di giudicare delle controversie di fede e di costumi, e cioè se tale potere risieda nel papa. La seconda concerne la certezza, o per così dire l’infallibilità del suo giudizio, ossia se il Sommo pontefi ce possa errare nel giu-dicare di tali controversie. La terza concerne il potere coatt ivo delle leggi che sono promulgate, e cioè se il Sommo pontefi ce […] possa anche promulgare leggi che obblighino gli uomini in coscienza e li costringano a credere, o ad agire come egli ha giudicato”52.

Prestiamo att enzione al passaggio intermedio di quest a se-quenza dedutt iva: il Sommo pontefi ce è titolare dell’infallibilità del giudizio sulle controversie di fede. Le sentenze e dunque le leggi da lui emanate sono coatt ive in coscienza. Verifi chiamo-ne l’importanza.

52 Controversia III De Summo pontifi ce, in Roberti Bell armini Politiani opera omnia, op. cit., II, 1870, p. 77.

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A sostegno della tesi dell’infallibilità, Bellarmino riporta il luogo biblico del Deuteronomio che abbiamo lett o prima: “Se ti accorgerai che per te è diffi cile e impenetrabile il giudizio […] andrai dai sacerdoti di Levi e dal giudice in carica, li consulte-rai, ed essi ti indicheranno il vero giudizio”.

Esistono dunque due fi gure, quella del sacerdote e quella del giudice, entrambe preposte all’emissione di una sentenza che riguarda la collett ività. Il versett o successivo però aggiun-ge: “Colui che si comporterà con superbia, e si rifi uterà di ob-bedire all’ordine del sacerdote che in quel momento servirà il tuo Signore e alla sentenza del giudice, sarà messo a morte” (Dt 19,13). In altre parole l’ordine (imperium) del sacerdote e la sen-tenza (iudicium) del giudice sembrano due momenti consecutivi del medesimo processo. Quello che emerge, chiosa Bellarmino, è che “al sacerdote è demandata la pronuncia della sentenza, al giudice politico la sua esecuzione”, dove nel primo è da identi-fi care il pontefi ce, nel secondo il principe53.

Ecco stabilita una gerarchia tra due gradi di adempimento della legge, giudiziario il primo, esecutivo il secondo. È da qui che Bellarmino si inoltra nel lungo percorso della certifi cazione dell’infallibilità del papa. “Occorre sapere dall’inizio che il pon-tefi ce può essere considerato sott o quatt ro forme. Nella prima

53 Ivi, p. 78.

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come individuo, e cioè come dott ore privato. Nella seconda come pontefi ce da solo. Nella terza come pontefi ce assieme alla cer-chia ordinaria dei suoi consiglieri. Nella quarta come pontefi ce unito al concilio generale”54.

La persona privata del papa, la sua persona pubblica, il rap-porto fra quest a e il concilio. Bellarmino ci sta guidando nella sfera più intima della costituzione gerarchica della Chiesa.

A partire dal tardo Medioevo, e in particolare dalla prima metà del Quatt rocento, la questione aveva diviso praticamente tutt i. Le Disputationes, con il loro meticoloso metodo di analisi, riassumono quatt ro posizioni: il papa può errare, da solo o con il concilio (era la tesi unanime fra i protest anti); il papa può er-rare se non è unito al concilio (era la tesi della tradizione conci-liarista quatt rocentesca di Pierre d’Ailly e Jean Gerson: l’aveva condivisa addiritt ura un pontefi ce, Adriano VI, ed era comu-ne in Francia); il papa non può errare in nessun caso, nemme-no come dott ore privato (era la tesi radicalmente infallibilista di Albert Pigghe, uno tra i più noti polemisti antiluterani degli anni precedenti il concilio di Trento); il papa “sia che possa es-sere eretico, sia che non possa esserlo, non può in alcun modo defi nire alcunché di eretico che la Chiesa sia tenuta a credere”

54 Ivi, pp. 78-79.

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(era la tesi mediana e comunemente recepita dalle autorità sco-lastiche quali Tommaso, Caietano, Cano)55.

Va dett o che l’eventualità dell’eresia del papa non era un semplice caso di scuola, ma la logica conseguenza del dilem-ma errabilità-inerrabilità: poiché essendo l’eresia null’altro che l’errore nella fede, l’ammissione della possibilità che il papa po-tesse errare equivaleva a ragionare sulla possibilità che il papa cadesse nell’eresia.

Storicamente erano esistiti casi di papi eretici: Onorio I era stato condannato nel 680, quarant’anni dopo la morte, dal Terzo concilio di Costantinopoli per la sua adesione al monotelismo, la dott rina secondo la quale esisteva in Cristo la sola volontà divina, una dott rina intimamente legata al monofi sismo che ne-gava autonomia alla natura umana in Cristo. Più recentemente anche papa Giovanni XXII (1316-34) aveva espresso un’opinio-ne sul giudizio delle anime dopo la morte che era stata uffi cial-mente abrogata dal suo successore. Ma più di ogni altra cosa contava la tradizione canonica, visto che per essere considera-ti eretici era suffi ciente abbracciare l’errore anche soltanto nel foro interno della coscienza, senza esprimerlo pubblicamente. Chi poteva escludere che persino il giudice delle controversie potesse, in privato, agire in quest o modo?

55 Ibid.

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Bellarmino, non c’è bisogno di dirlo, respinge senza sbavatu-re la prima tesi, quella protest ante. Quanto alla seconda, quel-la conciliarista, la ritiene “del tutt o erronea e prossima all’ere-sia, tanto che la Chiesa potrebbe a buon diritt o considerarla eretica”56. Quello che gli serve è infatt i una precisa delimitazione dell’infallibilità alla sola istanza ultima di giudizio, ossia al papa come arbitro delle controversie di fede. Qualsiasi concessione ai diritt i del concilio rappresenterebbe un’incrinatura di tutt a la costruzione dialett ica su cui si basa la costruzione dell’auto-rità del papa come iudex controversiarum.

Per quest o, oltre ad accett are in toto la quarta tesi, quella comune ai dott ori scolastici, per la quale il papa non potrebbe comunque sbagliare ex cathedra, Bellarmino concede una una cauta legitt imità all’idea di Albert Pigghe, pur indicandola come un’opinione priva di adeguato sostegno teologico.

Nella sua Hierarchiae ecclesiast icae assertio (1538) Pigghe aveva teorizzato l’impossibilità che il papa cadesse in eresia non solo come caput della Chiesa, ma anche come persona particularis, “persona privata”, ossia nella sua sfera privata di uomo e di cre-dente. E Bellarmino, che situa il più alto uffi cio papale proprio nel giudizio e nel magistero della verità – “il pontefi ce non solo

56 Ivi, p. 80. La Chiesa romana, in realtà, ebbe la forza di condannare uffi cialmente il conciliarismo solo nel 1870, quando esso non era più sostenuto dalla monarchia francese.

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non deve e non può predicare l’eresia, ma anche insegnare sem-pre la verità” –, non canonizza quest a posizione ma la defi nisce “probabile”, una locuzione che segnala una prossimità alla certez-za nelle materie di fede. Il papa, se anche fosse eretico, sarebbe costrett o da Dio a parlare soltanto secondo la vera fede, come l’asina che, con voce umana, si era rifi utata di portare l’indovi-no Balaam presso i nemici di Israele: “Di certo Dio può est or-cere una confessione della vera fede da un cuore eretico, come una volta pose la parola nella bocca dell’asina di Balaam: pur essendo quest a un’azione violenta e lontana dal costume della provvidenza divina”57.

A quest o punto, dopo la conferma della pertinenza esclusi-va al papa del giudizio nelle controversie e della sua personale e assoluta infallibilità, sino all’intimo della coscienza, la contro-versia sul potere spirituale del pontefi ce si apre agli scenari più politicamente pregnanti.

Il problema, ora, è infatt i di stabilire se il papa “possegga un reale potere spirituale su tutt i i fedeli, come hanno i re nelle questioni temporali; e se, come essi possono emanare leggi ci-vili e punire i trasgressori con pene temporali, così il papa possa emanare leggi religiose che obblighino realmente in coscienza,

57 Ivi, p. 88.

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e possa punire i trasgressori con pene spirituali come la scomu-nica, la sosp ensione e l’interdett o”58.

All’interno della concezione della scolastica tridentina di un monopolio unico della verità, l’imposizione alla coscienza del cristiano di un enunciato di fede si presenta senza dubbio come giurisdizione coatt iva, naturalmente nell’ambito della coscien-za stessa. È in quest o passaggio logico che il modello giudizia-rio della sovranità papale arriva a confrontarsi con il modello statuale della sovranità politica, istituendo un faccia a faccia tra la dignità del re e quella del sommo sacerdote che sarà il fi lo rosso delle polemiche dominanti in tutt a la prima metà del Seicento europeo.

La relazione imperativa con la coscienza individuale è la forma in cui si esprime la sovranità spirituale del papa secondo Bellarmino. Siamo, con quest o, al culmine teorico di un percor-so aperto dall’emergere della persuasione come obiett ivo chia-ve della riconquista delle anime, e proseguito att raverso l’af-fermarsi della teologia come disciplina argomentativa volta a proporre un metodo certo di approssimazione alla verità nello spazio della controversia. È alla fi ne di quest o percorso che ci è possibile comprendere come, al crepuscolo del XVI secolo, la sovranità papale possa ambire a porsi quale potere realmente

58 Ivi, p. 120.

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coatt ivo nel reticolo di pratiche e saperi che legano al magiste-ro le coscienze dei fedeli.

Da quanto lett o sinora potrebbe sembrare che la carriera teologica di Bellarmino sia stata una marcia trionfale verso la fama, e le sue Disputationes l’opera che una volta per tutt e, sen-za contest azioni, ha dipinto il moderno ritratt o della Chiesa. In realtà la faccenda risultò molto più complicata, e né la contro-versistica del gesuita, né la sua tesi del potere indirett o e nem-meno la sua stessa autorevolezza furono riconosciute con unani-me consenso in seno alla Chiesa romana. È quello che vedremo nelle pagine che seguono.

Partiamo dalle controversie. L’età confessionale fu l’età del-le grandi dispute pubbliche fra i maestri della teologia, veri e propri sp ett acoli che si tenevano al cosp ett o dei principi e delle magistrature e potevano durare sett imane intere. La Francia e la Germania meridionale, in particolare, furono la scena privi-legiata di quest o genere di drammi teologici.

Per la gerarchia catt olica, tutt avia, la disputa di religione con-tinuava a essere un’incombenza sgradita, sp esso accett ata solo per dovere diplomatico, poiché per la sua natura pubblica impli-cava il riconoscimento dell’altro, cioè dell’eretico, seppure come avversario da smentire, e quindi sfregiava la pretesa esclusivi-tà della “vera Chiesa” che discendeva dall’investitura di Pietro.

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Non a caso la catt edra di teologia controversista al Collegio Romano fu soppressa nel 1587, all’indomani della pubblicazione del primo volume delle Disputationes, e fu ripristinata defi niti-vamente solo oltre un secolo dopo, nel 1698. Durante quell’in-termezzo, per gli alunni dell’Anglicum e del Germanicum la co-noscenza del pensiero protest ante si limitò a mezz’ora di lett ura quotidiana della grande silloge bellarminiana.

Il sapere di Bellarmino, quello delle Disputationes, era infatt i un sapere di confi ne, e in quanto tale bifronte. Era un effi cace compendio dell’ortodossia tridentina, certo, ma al tempo stesso una grandiosa e inquietante enciclopedia del pensiero ereticale. Le copiose citazioni di Lutero, di Calvino e degli altri capifi la del-la Riforma non potevano che essere considerate estremamente pericolose per una mentalità che vedeva l’eresia nei termini di una malatt ia contagiosa dell’anima.

Le Disputationes, nella loro epoca, furono quindi il limite estremo della conoscenza e della catalogazione del mondo rifor-mato da parte della teologia catt olica. La cancellazione dell’in-segnamento delle controversie a Roma dopo la loro edizione a stampa ci suggerisce che a vincere fu l’illusione di avere cristal-lizzato in quelle pagine, una volta per tutt e, l’intero sp ett ro del pensiero eterodosso: un’illusione che ci dice molto sui limiti culturali della Controriforma e sulle precoci avvisaglie della sua sclerotizzazione nel momento stesso in cui raggiunse lo zenit.

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Per i profani, ossia per tutt i coloro che non appartenevano alla ristrett issima cerchia di intellett uali che aveva accesso ai libri proibiti, l’eresia rest ava una presenza nebulosa, una chi-mera di cui si sapeva soltanto che aveva divorato interi popoli, inducendoli a disprezzare la Vergine e i santi. Da quest o punto di vista Bellarmino era il sommo esp erto di una scienza proi-bita, la controversistica, che rest ava preclusa anche alla grande maggioranza degli stessi ecclesiastici.

Secondo non pochi quella scienza, oltre che proibita, do-veva essere del tutt o abbandonata. Il parere “dei religiosi più dott i, qui, è che le Controversiae abbiano più nuociuto che gio-vato alla Chiesa, e che abbiano off erto armi agli eretici anzi-ché strappargliene. Mai, infatt i, i calvinisti e i luterani hanno saputo trovare tanti e tanto solidi argomenti per difendere le loro sett e come ne trovano in Bellarmino”. Così scrive dall’Au-stria, nel 1591, il padre István Szánto (latinizzato in Arator) al generale Acquaviva, rivelandoci come all’interno della stessa Compagnia la scelta di metodo di Bellarmino fosse tutt ’altro che condivisa59.

Fatt o sta che, in quell’occasione, Acquaviva difese Bellarmino e la sua risposta al padre ungherese suonò come un’infl essibile

59 Arator ad Acquaviva, prima dell’ott obre 1591, in Le Bachelet, Bell armin avant son cardinalat, op. cit., p. 317.

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troncatura di ogni polemica sul tema. Ma ancora diversi anni dopo, nel 1610, il canonista Francisco Peña, consigliere giuridi-co dell’ambasciata di Spagna a Roma e implacabile nemico dei gesuiti (lo incontreremo altre volte nelle pagine che seguono), avrebbe manifest ato un’opinione analoga, ricordando al papa che “poi che lui [Bellarmino] publicò le sue controversie, tutt i li heretici di quest o secolo se ne servono contro la Chiesa e con-tro l’autorità del vicario di Cristo”60.

Al volgere del XVI secolo, in realtà, non soltanto Bellarmi-no, ma l’intera Compagnia di Gesù era oggett o di att acchi che trovavano motivo in ostilità vecchie di decenni. I gesuiti non avevano portato la concordia ma la divisione nel mondo catt o-lico: e adesso, nella fase della loro piena espansione, ne pagava-no le conseguenze nei termini di un confronto duro con gli altri ordini religiosi e persino con il vertice della Chiesa, il papa, cui pure con il loro quarto voto giuravano – almeno formalmente – incondizionata obbedienza.

Al centro delle polemiche era quell’ombra che dalla sua na-scita accompagnava l’istituto ignaziano, cioè la sua singolarità nel contest o ecclesiale, la sua ambiguità, la sua natura ancipite

60 Cit. in V. Frajese, Regno ecclesiast ico e Stato moderno. La polemica fra Francisco Peña e Roberto Bell armino sull ’esenzione dei chierici, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, 14, 1988, pp. 273-339, 330.

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di compagine sosp esa a metà via fra il religioso e il politico, fra il regolare e il secolare. L’obbedienza ferrea, la distinzione fra l’élite dei professi di quatt ro voti e i semplici coadiutori, l’ob-bligo di rendere conto al superiore dello stato della coscienza erano gli elementi di spicco della fi sionomia eccentrica dell’or-dine, i tratt i che lo rendevano più somigliante a una mostruosa monarchia degli spiriti che ai tanti istituti di perfezione della Chiesa militante.

Sisto V prest ò orecchio volentieri a quest e critiche, in parti-colare ai ripetuti suggerimenti che provenivano dal Sacro Col-legio dei cardinali di imporre ai gesuiti l’adozione di una delle regole degli ordini mendicanti – ossia di normalizzarli.

Il 10 novembre del 1588 la Sede apostolica affi dò al Sant’Uf-fi zio l’incarico di formare una commissione per l’esame delle Constitutiones, con l’obiett ivo di riscriverle. Era un gest o forte simbolicamente non meno che di fatt o, che segnava un salto di livello nello scontro. Da quel momento si aprì per la Compagnia una fase delicatissima in cui essa, trionfante nella guerra aperta con i protest anti, si trovava sul punto di essere sommersa dall’o-stilità rarefatt a dei palazzi del potere romano.

Fu a quest o punto che Bellarmino rest ò coinvolto in prima persona nelle tensioni tra il suo ordine e il pontefi ce, e per di più nel quadro di una situazione europea che si faceva diffi ci-lissima per lo stallo della guerra civile in Francia e la sempre

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più chiara impossibilità di risolvere con le armi il problema degli ugonott i.

Le guerre di religione incendiavano la Francia da quasi trent’anni. In linea di principio gli avversari erano due, le co-munità di fede calvinista – gli ugonott i, appunto – e l’alleanza tra alcune famiglie aristocratiche e citt à catt oliche. Gli ultimi due re della gloriosa dinastia dei Valois e la loro madre, Cate-rina de’ Medici, erano schierati, con parecchi dubbi, con le se-conde. Ma al confl itt o prendevano parte, con interventi dirett i o aiuti fi nanziari, spagnoli, inglesi, olandesi, tedeschi, svizzeri e italiani, per mire territoriali o perché motivati dalla consa-pevolezza che la Francia era divenuta l’ago della bilancia che poteva decidere del predominio del catt olicesimo o del prote-stantesimo in Europa.

Lo scenario politico, defi nito dalla debolezza intrinseca del-la monarchia e dalla sua incapacità di imporre la pace tra le parti, era diventato l’esempio delle conseguenze drammatiche che un vuoto di potere rovesciava sulla collett ività: il disordine generalizzato, la guerra di tutt i contro tutt i, le violenze contro la popolazione civile e l’uso sistematico dell’assassinio politico come strumento di lott a.

Nell’est ate del 1589 fu assassinato l’ultimo re della dinastia, Enrico III. Era stato un sovrano di pessima reputazione, in

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ragione della sua sfrontata omosessualità, dello stile di vita son-tuoso e della contrarietà alla guerra, che andava a detrimento della corona e a vantaggio dei suoi alleati, Filippo II di Spagna e il duca di Guisa, capo del partito catt olico, che proprio nella guerra trovavano invece un ott imo strumento di egemonia. I gesuiti, nel nome dell’intransigenza contro gli eretici, militava-no senza cedimenti per questi ultimi.

Per quest o Enrico III si era avvicinato agli ugonott i, guidati da Enrico di Navarra, che era stato risparmiato durante la stra-ge della nott e di San Bartolomeo in cambio della conversione al catt olicesimo, poi rinnegato una volta lasciata Parigi. Enrico di Navarra era un capacissimo comandante militare e un ancor più abile politico. Aveva saputo lentamente trarre dalla sua par-te i catt olici moderati (tra i quali i cardinali Vendôme e Lénon-court) presentandosi come uomo di mediazione e rest auratore del principio dell’ordine contro chi non promett eva altro che anarchia e guerra.

Con quest a mossa, però, la monarchia aveva defi nitivamente perso la fi ducia dei catt olici che guardavano a Roma. Le confra-ternite devote che si erano costituite nel paese si erano riunite in un organismo nazionale, la Lega santa, o Lega catt olica, con-sacrato all’obiett ivo della lott a a oltranza contro gli ugonott i. A dirigerla era l’alleanza fra i Guisa e la nobiltà catt olica che diffi -dava del re; ad animarla, avvocati, professionisti e membri delle

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corporazioni artigiane; a fornirle ampi fi nanziamenti la Spagna e la Sede apostolica.

Ora, il problema della sopravvivenza stessa della monarchia si era posto per il fatt o che Enrico III non poteva avere fi gli, e pertanto si era aperta la corsa a mett ere le mani sulla successio-ne: la quale, in linea di diritt o, sp ett ava nientemeno che a Na-varra. L’eventualità che un protest ante diventasse re di Francia, cioè della nazione che si fregiava del titolo di “primogenita del-la Chiesa”, era fuori discussione per la grande maggioranza dei sudditi catt olici, per Filippo II e, ovviamente, per Roma.

La Lega si era mobilitata immediatamente e i Guisa avevano individuato il loro candidato nella persona del cardinale Carlo di Borbone. Prima dei sistemi costituzionali liberali, il princi-pio dinastico valeva come garanzia di legitt imità e di continui-tà del potere; Enrico III, ultimo rappresentante dei Valois, era il monarca di una dinastia che si sarebbe estinta con lui. Negli ultimi anni di regno fu la fi gura tragica di un re senza legitt imi-tà, escluso dalla partita decisiva che si stava giocando fra altri contendenti.

Costrett o sulla difensiva, Enrico III aveva reagito secondo i dett ami che anni di guerra e di spietata lott a politica gli ave-vano insegnato. Il 23 dicembre 1588 aveva convocato a Blois il duca di Guisa e l’aveva fatt o uccidere. La reazione non si era

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fatt a att endere: il collegio dei teologi della Sorbona, la massi-ma autorità teologica del paese, aveva sciolto i sudditi dal vin-colo di obbedienza al re, che risultava così formalmente depo-sto. Nell’est ate del 1589, mentre era impegnato in un’operazione congiunta con le forze di Enrico di Navarra, Enrico III fi nì ferito a morte dal frate domenicano Jacques Clément, devoto ligueur (così erano chiamati gli affi liati alla Lega).

A quel punto la Francia aveva due re – Navarra, di cui nes-suno si att endeva la conversione, re per legge salica in quanto discendente da Luigi il Santo ma eretico e dunque privo di quel diritt o per legge fondamentale del regno, e Carlo di Borbone, che tutt avia era suo prigioniero.

La posizione del papa al riguardo, in realtà, non era più così scontata. Di certo l’ultima cosa che Sisto V avrebbe desiderato era assistere alla vitt oria degli ugonott i: ma gli att eggiamenti di Madrid e dei suoi ambasciatori a Roma, che pretendevano di dett are i tempi e i modi della diplomazia pontifi cia, erano tutt ’al-tro che ben accett i a un papato che era all’apogeo della propria autorità. Per diversi anni l’att eggiamento della Sede apostolica nella questione francese oscillò fra questi due timori.

Nel sett embre del 1585 Sisto V aveva promulgato la bolla Ab immensa aeterni regis, che escludeva Navarra dalla succes-sione al trono. Il problema stava nel convincere a obbedire al

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provvedimento i molti catt olici che si erano ormai schierati apertamente con lui. Un esempio da manuale di esercizio della potest as indirecta, esatt amente coevo alle Disputationes.

Con il precipitare della situazione in seguito alla morte di Enrico III, il papa si decise per l’invio in Francia di una missio-ne diplomatica in grande stile.

Fu scelto Enrico Caetani, cardinale trentanovenne che aveva ricevuto il cappello rosso proprio da Sisto V e in lui riponeva le sp eranze di risollevare i destini fi nanziari della famiglia. Come consigliere teologico gli fu assegnato Bellarmino. La ragione ci è ignota. Certo a lui Sisto V aveva affi dato, nel 1586, la risposta al libello di propaganda con cui Enrico di Navarra aveva rivendi-cato la candidatura alla corona: ma perché privarsi di un teolo-go di fama europea per consegnarlo a una situazione rischiosa, e nella quale probabilmente c’era assai più bisogno di abilità di-plomatiche che non di ingegno sp eculativo? Un’altra ragione, in realtà, seppure non suff ragata da prove dirett e, sarebbe emersa alcuni mesi dopo. Ma conviene andare con ordine.

Le istruzioni consegnate dal papa al suo legato erano diffi -cilmente realizzabili. Quelle trasmesse a voce appena prima della partenza, irrealistiche: introdurre in Francia l’Inquisi-zione e abolire le libertà gallicane, cioè la tradizionale autono-mia amministrativa del clero francese. A quest o scopo furono

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assegnati al cardinale Caetani 100mila scudi, con la disponi-bilità di ulteriori somme per comprare l’accordo, e un segui-to principesco di duecento persone. La legazione si mosse il 2 ott obre. Già tre giorni dopo fu raggiunta da nuove istruzioni, quest a volta assai più ragionevoli, che rispondevano alla neces-sità di evitare di consegnare il paese all’assoggett amento a Ma-drid. Era chiaro che nei palazzi vaticani regnava il caos, ossia la condizione peggiore per il successo della missione.

Al vertice della legazione i sentimenti verso Sisto V non do-vevano essere dei migliori. “Lungo la strada – ricorda Bellar-mino nelle memorie – l’illustrissimo legato chiese a N. quan-to a lungo ritenesse che il pontefi ce sarebbe vissuto. Quello gli rispose che sarebbe morto entro l’anno, e glielo confermò più volte a Parigi, quando il cardinale aff ermava che senza dubbio, invece, sarebbe vissuto più a lungo”61. Ragionare sulla durata della vita del pontefi ce in carica, in eff ett i, non sembra il più in-nocente dei pensieri. Ma quello che più ci interessa è il riemer-gere di quest o singolarissimo asp ett o della psicologia bellarmi-niana: la precognizione degli eventi, non tanto quanto ai modi, ma quanto ai tempi del loro accadere. Uno stile cronologico di profezia, verrebbe da dire.

61 Autobiografi a, op. cit., p. 456.

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Nel fratt empo il 9 gennaio era arrivato a Roma il duca di Pi-ney, agente dei catt olici schierati con Enrico di Navarra; il 20 Sisto V lo ricevett e in udienza privata contro il parere dell’am-basciatore spagnolo, lo tratt ò con aff abilità, gli concedett e per-sino di sedersi al suo cosp ett o. Piney portava un messaggio cla-moroso: Navarra era disposto a ritornare nel seno della Chiesa e chiedeva di essere debitamente istruito nella religione catt o-lica. Addiritt ura aff ermava di credere nella presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata, che per un calvinista era la regina di tutt e le best emmie.

La procedura canonica, in teoria, non avrebbe consentito alcuna riconciliazione, visto che il perdono era negato a chi ri-cadeva una seconda volta nell’eresia. Ma l’eccezionalità della situazione poteva prefi gurare una soluzione accomodante, e in fondo il pontefi ce, in quanto supremo giudice nelle cause di fede, aveva il potere di decidere dello stato d’eccezione.

La coincidenza dei tempi non sarebbe potuta essere peggiore. Lo stesso giorno in cui Sisto V riceveva il duca di Piney, la lega-zione di Caetani entrava a Parigi tra due ali di folla. Parigi era la roccaforte della Lega e la nemica irriducibile degli ugonott i; Caetani stesso, assai vicino al partito spagnolo, era su posizio-ni intransigenti: ribadì che nemmeno con l’assoluzione papale Enrico avrebbe potuto ricevere la corona, e per sott olineare la

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cosa versò dirett amente metà della somma ricevuta nelle casse dell’esercito di Mayenne, che stava preparandosi per il duello fi nale con Navarra.

In Vaticano l’ambasciatore di Filippo II, il conte di Olivares, agiva nella stessa direzione, fi no ad arrivare allo scontro verba-le con il papa e ad agitare la minaccia dell’uscita della Spagna dall’obbedienza romana nel nome della difesa della fede catt o-lica. Uno scenario drammatico, al quale si aggiunse, sul fronte opposto, la convocazione a Tours di un’assemblea dei vescovi francesi moderati guidati da Vendôme e Lénoncourt. Quell’as-semblea sarebbe stata qualcosa di molto simile a un concilio nazionale, il primo passo verso la proclamazione della Chiesa gallicana a Chiesa autocefala, cioè scismatica. “Se Dio prest o non ci aiuta – scriveva Bellarmino al rett ore dell’Anglicum il 19 febbraio –, dubito grandemente che Francia non vienghi al termine, a che hora si trova l’Inghilterra”62. A lui Caetani affi dò la stesura della lett era indirizzata a tutt i i vescovi e abati fran-cesi con l’interdizione della partecipazione all’assemblea, sott o pena di peccato grave.

Fu praticamente l’unico servizio svolto da Bellarmino in qualità di teologo della legazione. Di estrema importanza, ma

62 Bellarmino a J. Cresswell, 19.II.1590, in Le Bachelet, Bell armin avant son cardinalat, op. cit., p. 258.

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l’unico: a Parigi “N. non fece praticamente nulla, se non scrive-re a nome del cardinal legato una lett era in latino ai vescovi di Francia per dissuaderli dallo scisma”63.

Da fi ne aprile Sisto V fu preso dalle febbri, la prima sett imana di maggio le sue condizioni erano preoccupanti. Migliorò ver-so la metà del mese solo per scoprire che tra i cardinali si erano già aperte le tratt ative sul nome del successore. In citt à i gesuiti predicavano apertamente la rott ura delle relazioni con l’eretico Enrico di Navarra, dipingendo Caetani come un martire. Sisto V ordinò l’arrest o di due padri e vietò di tratt are questioni po-litiche dal pulpito.

A marzo, a Ivry, Navarra aveva schiacciato l’esercito catt oli-co di Mayenne. A quel punto non gli rest ava che impadronirsi di Parigi, mett ere a tacere i capi della Lega e i teologi estremisti della Sorbona e insediarsi nella capitale consacrata dei sovra-ni francesi. Decise di farlo con prudenza, evitando il bagno di sangue dell’assalto alle fortifi cazioni e chiudendo la citt à da ogni lato per catt urarla per fame.

Dentro le mura erano asserragliate 220mila persone con cibo suffi ciente per un mese. Fra loro, con la missione diplomatica, an-che Bellarmino: “Rest ammo a Parigi dal 20 gennaio fi no all’inizio

63 Autobiografi a, op. cit., p. 456.

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di sett embre, e durante quel periodo non facemmo quasi nulla ma dovemmo patire parecchio. Infatt i, dopo che il 12 marzo il duca di Mayenne e il re di Navarra avevano combatt uto e il re aveva ott enuto la vitt oria, timore e tremore caddero su di noi. Ma il re, volendo evitare di distruggere la citt à e di lasciarla al saccheggio, preferì prenderla per assedio che entrarvi con la forza. Così la cinse d’assedio, e noi tutt i, privi di vett ovaglie, ne subimmo le peggiori conseguenze. Una scodella di brodo fatt o con la carne dei cani si vendeva cara. L’ambasciatore del re di Spagna, volendo farci un gran regalo, ci donò una parte del suo cavallo, che aveva ucciso per nutrirsi”64.

Cosa sappiamo dell’att eggiamento di Bellarmino verso le parti in lott a? Poco, per quel periodo. Salvo quello che ci dice un’in-teressante traccia documentaria. Nei suoi Mémoires, un diario delle guerre di religione e del regno di Enrico IV, il magistrato Pierre de L’Estoile ricordava che nell’agosto del 1590 Bellarmi-no aveva convinto gli altri teologi della legazione ad abbraccia-re un’att itudine conciliatoria, acconsentendo a negoziati fra i rappresentanti del clero e Navarra per indurlo alla conversio-ne o tratt are la resa di Parigi, contro l’opinione dei Sorbonnistes che invece avevano vietato ogni contatt o sott o taccia di pecca-to mortale.

64 Ibid.

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Le Bachelet ritrovò il relativo parere scritt o all’interno dell’e-dizione di una storia inedita dell’assedio pubblicata nel 1880, e lo riprodusse nella raccolta di documenti di cui ci serviamo ampiamente in quest e pagine: “Se, data la necessità della citt à di Parigi, per la quale sembra opportuno che essa sia restituita, a certe condizioni, a un re eretico, alcuni ecclesiastici si recano presso quel re con l’obiett ivo di convertirlo, o almeno di ott ene-re migliori condizioni per la religione catt olica, incorrono essi nelle censure della bolla di Sua Santità Sisto V?”

La risposta è negativa, dunque il permesso di tratt are è dato. Accanto alle fi rme di Bellarmino e di Francesco Panigarola, ve-scovo di Asti, l’annotazione ita est, “è così”; nulla, invece, accanto a quelle degli altri due membri del collegio teologico, entrambi gesuiti, Felice Viceo e James Tyrie, che forse intesero esprimere così il proprio dissenso65.

Fu in mezzo a simili diffi coltà che Bellarmino dovett e aff ron-tare il più imprevedibile degli eventi, la censura delle Disputa-tiones e il loro inserimento nell’Index, l’Indice dei libri proibiti, con un singolare rovesciamento di ruoli che lo abbandonava alla compagnia della proteiforme legione infernale degli eretici

65 Le Bachelet, Bell armin avant son cardinalat, op. cit., p. 275.

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e dei miscredenti contro i quali fi no ad allora aveva sp eso tutt e le sue energie.

Il 19 febbraio un imbarazzato Acquaviva informava il teologo che Sisto V aveva affi dato alla Congregazione dell’Indice – il di-castero addett o al controllo e alla censura dei libri – l’esame della controversia De Summo pontifi ce per verifi care se in essa vi fossero errori di fede, o quantomeno espressioni poco convenienti: “Ha-verà inteso V.R. per altera strada il romore, che fu fatt o a N[ost]ro Signore per l’opinione, che ella pone nelle sue opere che in tempo-ralibus Papa non sit dominus orbis [“che nelle materie temporali il papa non sia il signore del mondo”]. […] Però S[ua] S[anti]tà ha commesso il negotio alli S.ri cardinali della Congregatione dello Indice, quali per gratia del Signore sono amorevoli della Compa-gnia, et io ne ho parlato con tre […]. V.R. no se ne pigli fastidio, che sp eriamo nella divina bontà si accomodarà il tutt o”66.

L’oggett o dei sosp ett i di Sisto V, dunque, era proprio la dot-trina della potest as indirecta, quella che in tutt a Europa stava identifi cando Bellarmino come il maggior teorico dell’alta au-torità papale sulle questioni politiche. Una premessa di quest a dott rina, infatt i, era la negazione della potest as directa, il potere dirett o del pontefi ce sull’intero mondo in quanto erede della regalità universale di Cristo. E Sisto V, al contrario, si riteneva

66 Acquaviva a Bellarmino, 19.II.1590, ivi, pp. 259-260.

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pienamente dotato di quel potere. Insieme con le Disputationes la censura alla potest as indirecta colpiva anche le Relectiones di Francisco de Vitoria, che fra gli scolastici moderni era l’autori-tà più citata dal gesuita.

Bellarmino, più di altri teologi della sua epoca, aveva insi-stito recisamente sul rifi uto della potest as directa, provando che Cristo non aveva mai posseduto alcun regno di quest o mon-do durante la sua vita terrena, né come Dio né come uomo: solo l’autorità spirituale gli era suffi ciente per la redenzione del genere umano. Lo sostenne di nuovo con un memoran-dum difensivo scritt o nella Parigi assediata, De regno Christi, “sul regno di Cristo”, indirizzato ai cardinali dell’Indice e irro-bustito da una lunga trafi la di testimonianze dei Padri della Chiesa, da Agostino a Giovanni Crisostomo, da Ambrogio a Gregorio Magno.

Ai nostri occhi l’idea di una sovranità dirett a del papa sull’intero orbe terracqueo può apparire, alla fi ne del XVI secolo, un relitt o dell’età della lott a per le investiture, un ri-gurgito del Medioevo più profondo e delle sue astratt e sim-bologie del potere.

In eff ett i quella tesi proveniva proprio dal tempo di Gre-gorio VII, il quale nei Dictatus papae (1075) aveva proclamato fra l’altro che solo al pontefi ce sp ett avano le insegne imperiali,

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rivendicando esplicitamente l’eredità dell’impero romano. Un altro celebre documento fondativo dell’ideologia primazialista, la bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII (1302), aveva ripreso e approfondito il tema att raverso l’antica metafora delle due spa-de, cioè dei due poteri spirituale e temporale, per sostenere che entrambe appartenevano alla Chiesa, la quale usava dirett a-mente la prima e affi dava la seconda ai regni per la difesa della fede: “Ciascuna delle due è nella potest à della Chiesa, la spada spirituale come quella materiale”.

Se il potere temporale non godeva di una propria autonoma legitt imità ma era affi dato dalla Chiesa ai re, che governavano dunque come suoi ministri, si poteva ben credere che il caput della Chiesa e vicario di Cristo fosse il sovrano dirett o del mon-do. Quest e stesse corde aveva suonato la canonistica trecente-sca per mano di autori come Egidio Romano, Giacomo da Vi-terbo, Agostino di Ancona o Agostino Trionfo e Alvaro Pelayo (Pelagius), i grandi giuristi sul cui lascito il papato avrebbe co-struito la propria ripresa dopo la crisi conciliarista. Come ave-va sentenziato Egidio Romano, “non esiste nessun giusto titolo di possessione né per i beni temporali né per le persone laiche […] se non sott o l’autorità della Chiesa e att raverso la Chiesa”.

Fin qui, tesi vecchie di almeno due-trecento anni, all’epoca: come se oggi volessimo difendere la libertà di coscienza con gli argomenti di Ugo Grozio o John Locke. Tutt avia quelle idee,

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ed è quest o che ora ci importa, non erano rimaste relegate alla sfera degli enunciati di diritt o, ma si erano fatt e concreto stru-mento d’azione proprio all’alba della modernità, con la scoperta del Nuovo Mondo. Papa Alessandro VI Borgia aveva provve-duto a dirimere la controversia tra spagnoli e portoghesi sul-la spartizione delle terre di nuova scoperta, come se gli fossero appartenute. E con la famosa bolla Inter coetera del 1493 aveva voluto “donare, concedere, assegnare” ai re catt olici Ferdinan-do e Isabella “di nostra mera liberalità e per conoscenza certa, e in ragione della pienezza del potere apostolico, tutt e e ciascuna delle terre e delle isole […] ancora sconosciute, di quelle fi nora scoperte dai vostri incaricati e di quelle che saranno scoperte in futuro”. Anche i portoghesi, durante il XV secolo, erano ri-corsi più volte al pontefi ce per sollecitare la tutela uffi ciale del-la loro espansione nelle isole atlantiche e lungo le coste dell’A-frica occidentale.

La dott rina ierocratica del Romano pontefi ce come Domi-nus orbis, sia spirituale che temporale, costituiva il fondamento teorico di questi att i di concessione. Pochi decenni dopo essa sarebbe stata radicalmente criticata proprio da Francisco de Vitoria, il quale nel De potest ate Ecclesiae aveva mostrato come l’idea secondo cui il papa era monarcha temporalis in toto orbe non fosse null’altro che un’invenzione dei canonisti medievali, e di nuovo nelle Relectiones de Indis come la Sede apostolica non

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avesse potuto trasmett ere ai re di Spagna la potest à politica su-gli indios, non avendone di suo mai posseduta alcuna. Eppure, ancora alla metà del Seicento era dott rina comune sulle catt e-dre spagnole di diritt o che la legitt imità dei domini americani poggiasse sulle bolle di Alessandro VI67.

Nel fratt empo l’impegno di Acquaviva per evitare lo scan-dalo non conosceva soste. Pochi giorni dopo la prima missiva, il 23 febbraio, assicurò a Bellarmino di avere stabilito un’intesa con i cardinali dell’Indice, “quali tutt i per gratia del Signor sono amorevoli della Compagnia”68. Il 2 luglio presentò loro una sup-plica affi nché volessero “rapresentare alla Santità di Nostro Si-gnore il gravissimo danno che nella Chiesa santa ne seguirebbe di tale prohibitione”69.

La congregazione accolse volentieri l’invito e consegnò a Sisto V un memoriale in favore dei due autori sott o esame, in cui si

67 Su quest o tema mi rifaccio a F. Cantù, Il papato, la Spagna e il Nuovo Mondo, in Papato e politica internazionale nell a prima età moderna, a c. di M.A. Visceglia, Viella, Roma 2013, pp. 479-503.68 Acquaviva a Bellarmino, 23.II.1590, in Le Bachelet, Bell armin avant son cardinalat, op. cit., p. 262.69 Archivio della Congregazione per la dott rina della fede, Index, protocolli, DDD, 423r. Il documento fu poi estrapolato dal registro originale e inserito in una raccolta posteriore di circa un secolo nel corso dell’esame documentale per il processo di canonizzazione di Bellarmino.

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rimarcava che “nella dott rina loro non essendo dalla Sede apo-stolica stato determinato niente in contrario, è conforme a quel che comunemente corre nelle scuole de’ theologi”. Di Bellarmi-no, “nipote della felice memoria di papa Marcello”, si ricordava che, “huomo di molta integrità, et essempio, ha sp eso la vita sua così in Lovanio, come in Roma, in confutar gli heretici, leggen-do in scuola, et scrivendo”70.

L’aff are aveva suscitato sorpresa anche a Madrid, dove Filip-po II era tenuto meticolosamente al corrente di tutt i gli aff ari di curia. E anche qui era chiaro come ormai per Sisto V non ci fossero margini di tratt ativa: “Malgrado le diligenze fatt e […] dai cardinali della congregazione dell’Indice per impedire la proibizione delle opere di Vitoria e Bellarmino – scriveva al re il suo ambasciatore a Roma il 19 agosto –, essi non hanno potu-to ott enere niente presso Sua Santità. […] Così l’Indice è fi nito di stampare, benché non si sia ancora cominciato a mett erlo in vendita. […] Nulla ha potuto impedire a Sua Santità di agire in quest o modo, e così tutt i sono scandalizzati e spaventati”71.

Il nuovo Indice di Sisto V, dunque, era già stampato, in 59 pagine uscite dai torchi di Paolo Blado di Roma, stampatore ca-merale. Quell’evento avrebbe proiett ato a lungo la sua ombra

70 Ivi, 624r-v.71 Enrique de Guzmán a Filippo II, 19.VIII.1590, in J.-B. Couderc, Le vénérable Cardinal Bell armin, Victor Retaux, Paris 1893, I, p. 132.

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sul profi lo dogmatico del papa: all’epoca del concilio Vaticano I i vescovi contrari al dogma dell’infallibilità l’avrebbero ricor-dato per avvertire che nessun pontefi ce poteva dirsi realmente preservato dall’errore. Il punto è che di quella censura si aveva-no soltanto notizie vaghe, e quell’edizione dell’Indice nessuno l’aveva mai vista72.

L’est ate del 1590 fu particolarmente calda e malsana a Roma. Il papa non si era mai veramente rimesso dalle febbri della prima-vera, e in citt à regnava l’odio contro di lui per l’infl essibile rigore con cui amministrava la giustizia penale. L’11 luglio, in seguito a voci incontrollate sulla sua morte, si era sfi orato il saccheggio dei banchi ebraici, uno dei rituali di violenza che normalmente accompagnavano il vuoto di potere che seguiva la scomparsa del pontefi ce. Nell’ultimo concistoro, il 13 agosto, Sisto V biasimò duramente la Compagnia di Gesù. Pochi giorni dopo ebbe un nuovo, sfrenato alterco con l’ambasciatore spagnolo Olivares. Si sussurrava che fosse certo di vivere ancora a lungo, ingannato da uno spirito maligno che infest ava i suoi appartamenti. Morì il 27 agosto dopo avere discusso una ad una, citando Ippocrate e Avicenna, le cure che i medici gli somministravano.

72 All’epoca, l’Indice di Sisto V era stato preso in visione solo dal polemista ex gesuita Francesco Antonio Zaccaria per la sua Storia polemica dell a proibizione de’ libri del 1777.

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Torniamo a Parigi. “Accadde che all’inizio di sett embre – ri-corda Bellarmino – fu recapitata al cardinale [Caetani] una let-tera proveniente da Roma, che miracolosamente era riuscita ad arrivare malgrado la citt à fosse chiusa da ogni parte. Ciascuno diceva la sua su quella lett era prima che il cardinale la aprisse, ma quasi tutt i non vi presentivano nulla di buono, poiché era noto che papa Sisto era ostile al cardinale e al segretario [Loren-zo Bianchett i], nonché allo stesso N. per la proposizione che si trovava nei suoi libri che negava che il papa fosse dirett amen-te signore di tutt o il mondo. Allora N. disse ‘In quest a lett era è contenuta la notizia della morte di Sisto V pontefi ce’. E malgra-do tutt i ne ridessero, poiché non si era saputo alcunché di una malatt ia del papa, tutt avia si rivelò vero quello che N. aveva af-fermato, e tutt i rest arono stupefatt i”73.

Il successore di Sisto V, Urbano VII, si era insediato la sera del 14 sett embre, dopo un conclave di una sola sett imana. Morì il 27, ma nei suoi tredici giorni di regno ebbe il tempo di blocca-re la distribuzione dell’Indice sistino, che non uscì mai dai ma-gazzini dello stampatore.

Esatt amente cinque anni dopo, il 17 sett embre 1595, con un impressionante cerimoniale davanti alla basilica di San Pietro,

73 Autobiografi a, op. cit., p. 457.

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papa Clemente VIII assolse Enrico di Navarra dalla scomunica e lo riaccolse nell’abbraccio della Chiesa romana.

L’uffi cio del pontefi ce come giudice delle controversie di fede e dunque arbitro dell’ordine politico, qual era stato eleva-to a dott rina dalle Disputationes, toccava uno dei suoi apici. Nel 1599, nella riedizione corrett a dell’opera, Bellarmino provvide ad allegare numerose ulteriori autorità teologiche a conferma della potest as indirecta.

Di lì a poco il gesuita incontrò di nuovo Sisto V, seppure sol-tanto nello spirito. Anche quest a volta si tratt ava della que-stione del potere del papa, ma non sui regni, bensì sulla stessa parola di Dio.

Dopo la conclusione del concilio di Trento, la curia romana aveva intrapreso un’imponente opera di sistemazione e revisio-ne delle fonti e dei testi liturgici, con lo scopo di dare conformi-tà al culto ovunque si celebrasse e di aff ermare l’egemonia del-la catt edra di Pietro su tutt o l’orbe catt olico. La revisione della Vulgata, la Bibbia latina di Girolamo, non poteva essere esclu-sa da quest o programma, anche in ragione dei progressi che la fi lologia aveva conseguito in quel secolo.

A quest o fi ne Gregorio XIII aveva istituito una commissio-ne con il mandato di stabilire un test o sicuro e conclusivo della Bibbia. La commissione, presieduta dal cardinale Carafa, aveva

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pazientemente proseguito i lavori sott o Sisto V, usando come test o di riferimento la splendida edizione di Anversa del 1583 – la Bibbia “plantiniana”, uscita con i tipi di Christophe Plantin – e limitandosi a segnalare a margine le emendazioni suggerite dalla collazione con gli antichi testimoni conservati nella Bi-blioteca Vaticana.

Nell’ott obre del 1588 la devota consegna al pontefi ce dei ri-sultati di quella fatica si era però trasformata in una sciagura: Sisto V, che si era visto mett ere in mano le sole indicazioni di correzione, senza chiarimenti sul perché fossero state decise, aveva pubblicamente sconfessato l’operato di Carafa, prenden-do in consegna personalmente la colossale impresa di revisione testuale. A Carafa, che a cose fatt e aveva contest ato al papa l’au-torità di intervenire a suo piacimento sul test o sacro, era stata minacciata la procedura inquisitoriale.

L’operato di anni di confronto testuale fu butt ato a mare. Nel giro di pochi mesi, fra l’inverno e la primavera del 1589, Sisto V portò a termine un’edizione costellata di interpolazio-ni e interventi lessicali decisi in assoluta autonomia risp ett o alle lezioni correnti: alla fi ne, circa seimila variazioni di for-ma e un centinaio di contenuto. I torchi della nuova Tipogra-fi a Vaticana dirett a da Aldo Manuzio, nipote e omonimo del grande stampatore umanista, furono subito messi alacremen-te al lavoro per la stampa della nuova edizione sistina, che fu

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ultimata ai primi di maggio del 1590 e inviata con solennità ai principi catt olici.

La bolla di approvazione Aeternus ill e portava la data del pri-mo marzo ed era stata affi ssa nei luoghi consueti (San Pietro, San Giovanni in Laterano, la Cancelleria apostolica, Campo de’ Fiori): imponeva che la nuova Vulgata fosse d’allora in poi l’u-nica Bibbia a uso dei catt olici, che per dieci anni potesse essere stampata solo in Vaticano, e che passato tale termine tutt e le al-tre edizioni dovessero coincidere con essa fi no all’ultima lett era.

Alla fi ne del 1591, oltre un anno dopo la morte del papa, i de-positi della Tipografi a Vaticana erano colmi di copie della Bib-bia, bloccate, come il suo Indice dei libri proibiti, non appena intervenuto il decesso.

“Nel 1591, allorquando Gregorio XIV stava rifl ett endo su cosa fare in merito alla Bibbia curata da Sisto V, nella quale parecchie cose erano state erroneamente mutate, non mancavano auto-revoli pareri che ritenevano che l’opera dovesse essere pubbli-camente proibita. Ma N. al cosp ett o del papa dimostrò che non era il caso di proibire la Bibbia, bensì che occorresse correggerla affi nché uscisse alle stampe così emendata e l’onore di papa Sisto fosse salvo. La cosa era possibile a patt o di cancellare in frett a tut-to quanto era stato erroneamente mutato e di ristampare la Bib-bia con il nome di Sisto stesso, aggiungendo una prefazione che

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indicasse come nella prima edizione sistina fossero occorsi per la frett a alcuni errori, da imputare ai tipografi o ad altri. Fu così che N. rese a Sisto del bene per il male che ne aveva ricevuto”74.

Ingenuità o vanità, e comunque buona fede: Bellarmino ci sta mett endo al corrente di una clamorosa menzogna arrangia-ta per salvare la faccia di un papa defunto. Att itudine eminen-temente politica: la Scritt ura era sacra fi no all’ultima virgola, e per la sua difesa si erigevano roghi. La sua edizione, invece, era aff are umano, e in quanto tale soggett o all’alea delle imprecisio-ni e delle dimenticanze.

Le copie in circolazione furono ritirate e distrutt e. Le resi-denze d’oltralpe della Compagnia di Gesù furono mobilitate per intercett are i volumi a qualsiasi prezzo; probabilmente ne recuperarono poco più di una decina. Ai nunzi l’incarico di ri-sarcirne le sp ese. Il test o emendato che porta il nome di Bibbia sisto-clementina fu licenziato nel 1592 con una prefazione stesa di suo pugno da Bellarmino in cui si accenna obliquamente a “vizi di stampa” che avrebbero costrett o Sisto V a frenare l’edizione.

Nel 1592 Bellarmino era già una tra le voci più ascoltate all’in-terno della curia romana. La sua crescente consuetudine con i pontefi ci poneva tutt avia il problema del suo rango ecclesiastico,

74 Ivi, p. 458.

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visto che il governo centrale della Chiesa, att raverso il sistema delle congregazioni, era imperniato sul ruolo dei cardinali.

Gregorio XIV morì nell’ott obre del 1591 dopo dieci di mesi di pontifi cato. Gli succedett e Innocenzo IX, di cui sappiamo per certo che concepì la promozione cardinalizia di Bellarmi-no: questi però venne a mancare dopo soli due mesi dall’ele-zione. Nel giro di quindici mesi erano stati elevati e sepolti tre pontefi ci. Sembrava che una maledizione volesse impedire alla Chiesa di avere il suo capo.

Solo quando venne incoronato Clemente VIII Bellarmino ebbe di nuovo un presagio: “Quanto a papa Clemente, accad-de qualcosa di miracoloso. Durante il primo anno di pontifi ca-to molti si att endevano che il papa sarebbe morto prest o, come era accaduto ai suoi tre predecessori; ma N. disse a Silvio An-toniano: ‘Clemente VIII vivrà dodici anni e dodici mesi’, e più volte, successivamente, ripeté quest a cosa, fi nché nell’ultimo anno disse ai suoi servitori che il papa sarebbe morto quell’an-no. Egli tutt avia non era un astrologo né un profeta, ma diceva quest e cose a caso”75.

Bellarmino fu per Clemente VIII un preziosissimo consulen-te teologico. Ne ricavò la ricompensa, il berrett o rosso, nel mar-zo del 1599: “Nel 1599, nel quarto giorno delle quatt o tempora

75 Autobiografi a, op. cit., p. 459.

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della Quaresima [3 marzo] [il papa] nominò N. cardinale, così inasp ett atamente che nessuno avrebbe potuto indovinare che sarebbe accaduto. Ma poiché molti sosp ett avano che sarebbe accaduto, due mesi prima il padre generale chiese al pontefi ce […] il permesso di nominare N. rett ore della Penitenzieria, il che avvenne con l’assenso del pontefi ce. Ma il papa acconsentì a quest o per coprire l’aff are; infatt i mezzo anno prima, quan-do un servitore disse al papa che N. era degno del cardinalato, quello rispose ‘Non c’è dubbio che sia degno, ma è gesuita’, fa-cendo capire che non l’avrebbe promosso”76.

Per Bellarmino fu lo scioglimento di un aff are durato sin troppo a lungo. Possiamo ricostruire quest a vicenda di sp eranze risvegliate e subito congedate dalla corrispondenza fra il gesuita e suo fratello Tommaso, di due anni più anziano.

Nel giugno del ‘94 “la cosa pare che vada in longo”77. Di lì a poco, alla fi ne di novembre, il suo trasferimento a Napoli con il grado di provinciale della Compagnia, malgrado la contra-rietà di due cardinali infl uenti come Santori e Pierbenedett i. È all’interno del suo ordine, infatt i, che sembrano coagularsi osti-lità sott erranee che è impossibile dipanare con chiarezza. “Que-sti padri gli hanno levato il cappello dal capo” confi da due anni

76 Ivi, pp. 459-460.77 Bellarmino a T. Bellarmini, 10.VI.1594, in Le Bachelet, Bell armin avant son cardinalat, op. cit., p. 343.

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dopo Pierbenedett i a Baronio78. La morte del primo cardinale gesuita, Francisco de Toledo, nel sett embre del ’96 sembra co-munque eliminare il maggiore ostacolo: “Quanto poi a quel ne-gotio, se ne parla hora assai, et alcuni tengono la cosa per molto probabile, essendo morto quello che solo l’impediva”79.

Dal gennaio del ’97 Bellarmino è di nuovo a Roma, uffi cial-mente con l’unica mansione di consultore del Sant’Uffi zio, in realtà a completa disposizione di Clemente VIII. A cinquan-tacinque anni sta per entrare nel suo ott avo climaterico, l’anno conclusivo di un ciclo sett ennale che, per la medicina antica, porta con sé gravi pericoli per la salute dell’uomo.

Nel conferirgli la dignità cardinalizia, durante il concistoro pubblico in cui il papa rivelava i nomi dei cardinali in pectore, Clemente VIII citò esplicitamente Marcello II, la cui ombra tornò allora ad apparire, fugace, nelle sale del Vaticano.

78 Francesco de Sangro ad Acquaviva, 6.VII.1596, ivi, p. 373.79 Bellarmino a Tommaso Bellarmini, 26.XI.1596, ivi, p. 383.

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Dopo la nomina cardinalizia, Bellarmino visse gli anni più intensi della sua carriera. Diventò per tutt i “il cardinale

Bellarmino”: oracolo teologico della curia romana, sommo tutore dei diritt i della Sede apostolica nelle tante contese pub-bliche dell’Europa d’inizio Seicento, il più autorevole membro del Sant’Uffi zio.

La storiografi a moderna lo ha incrociato sopratt utt o negli eventi di quest o periodo, e ne ha studiato il pensiero da tante e diverse angolature quante sono le questioni su cui ebbe a pro-nunciarsi: per gli storici della teologia egli fu uno dei protagoni-sti della controversia molinista, per quelli del pensiero politico l’oppositore dell’ideologia assolutista di Giacomo I Stuart, per

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gli storici dell’Italia moderna il simbolo della ferrea egemonia della Chiesa romana sugli Stati della penisola, per gli storici del-la scienza l’inquisitore che presiedett e al primo, infelice incon-tro fra il catt olicesimo e la scienza sp erimentale. Di rado questi punti di vista si sono intersecati, con il risultato che l’unicità e la complessità della fi gura di Bellarmino sono fi nite disp erse in tante immagini rifratt e e separate l’una dall’altra, come se non fossero appartenute alla medesima biografi a e al medesimo uni-verso mentale.

Per quest o percorreremo la seconda parte della vita di Bel-larmino più rapidamente di quanto non abbiamo fatt o per la prima: le batt aglie della sua piena maturità furono condott e con le armi che si era forgiato tra Lovanio, il Collegio Romano e la stesura delle Disputationes; e così pure i suoi contributi più noti alla causa della Chiesa furono essenzialmente la traduzione di quell’esp erienza di oltre un ventennio di sforzi indefessi negli inospitali territori della teologia.

“Una volta creato cardinale – ricorda nell’autobiografi a – decise: primo, di non mutare il modo di vivere quanto alla par-simonia del vitt o, alla preghiera, alla meditazione, alla messa quotidiana e alle altre regole e consuetudini della Compagnia; secondo, di non accumulare denaro né di arricchire i parenti ma di dare alle chiese e ai poveri tutt o quanto gli risultasse di

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sovrappiù; terzo, di non chiedere al pontefi ce alcun aumento del reddito e di non accett are i donativi dei principi. Tutt o que-sto riuscì a risp ett arlo”80.

Malgrado suonino oggett ivamente autocelebrative, quest e righe corrispondono a quella che fu la realtà dei fatt i. Le testi-monianze raccolte dai promotori del processo di beatifi cazio-ne negli anni successivi alla sua morte confermano quest o qua-dro, che, seppure già orientato verso un fi ne agiografi co, non fu smentito dagli infl essibili oppositori della causa del gesuita. Bellarmino fu un cardinale “povero”, per quanto l’aggett ivo si att agli assai poco alla condizione di un cardinale, sopratt utt o nell’età magnifi ca del papato barocco. Un cardinale che visse dell’appannaggio garantito dalla Sede apostolica e non di altri benefi ci ecclesiastici: del rest o non proveniva, come invece tanti altri membri del Sacro Collegio, dai ranghi dell’alta aristocrazia, né fungeva da agente di un sovrano, condizione che richiedeva sfarzo e ostentazione.

In compenso, quest e parole rivelano con assoluta chiarez-za quali furono le due dirett rici fondamentali della sua vita al vertice della gerarchia ecclesiastica: la fedeltà allo stile auste-ro e intransigente che era stato proprio di Marcello Cervini, e

80 Autobiografi a, op. cit., p. 460.

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quella alla spiritualità, e più in generale a quello che si chiamava il “modo di procedere” della Compagnia di Gesù.

Quanto potesse essere preziosa per la Compagnia – che egli amava defi nire la sua seconda madre – la presenza di Bellarmino nel collegio cardinalizio fu reso esplicito da subito in quel delicato misurarsi di equilibri di potere interni alla Chiesa che fu la cosiddett a “controversia molinista”, o più precisamente la controversia De divinae gratiae auxiliis, “sugli ausili della grazia divina”.

Fu, quest a, una disputa aspra e rancorosa, nella quale per quindici anni, dal 1593 al 1607, i gesuiti e i domenicani, gli uni contro gli altri, profusero le loro migliori menti sp eculative per l’aff ermazione dei risp ett ivi modelli di antropologia teologica, la teologia che indaga la modalità con cui Dio crea l’uomo e ne governa le azioni e le passioni.

L’obiett ivo, irrealistico a occhi profani e rett o su evanescenti astrazioni metafi siche, era di tradurre nelle categorie del cono-scibile la relazione tra l’onnipotenza di Dio e la libertà e la fi ni-tezza dell’essere umano. La posta in gioco, l’egemonia teologi-ca nel mondo catt olico, contesa fra i due grandi ordini religiosi intellett uali, l’uno antico e autorevolissimo, l’altro recente ma già capace di riscuotere enorme consenso.

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Dopo il concilio di Trento, il libero arbitrio era, per i catt o-lici, un dogma, una delle maggiori linee di demarcazione che li separavano dai protest anti, per i quali, invece, nella sua on-nipotenza Dio muoveva l’uomo fi no all’ultimo dei suoi gesti. Dunque l’oggett o di quest a disputa che si consumò sott o gli oc-chi dei crocefi ssi e dei santi che ornavano le pareti delle stanze vaticane non era l’esistenza della libertà di scegliere fra il bene e il male, ma cosa si dovesse intendere per quella libertà. Era sul signifi cato soprannaturale della libertà umana che gesuiti e domenicani divergevano, e i primi arrivarono assai vicini a es-sere uffi cialmente condannati dalla Santa Sede. Per la teologia cristiana il fatt o che la grazia divina sia necessaria per salvarsi – cioè per vivere la vita infi nita dell’anima dopo la morte nella beatitudine anziché nella condanna – è praticamente una tau-tologia. Senza l’opera della grazia il cristianesimo, come sistema teologico, è svuotato di signifi cato, perché è nella grazia, dono gratuito della salvezza, che si realizza il rapporto sp eciale fra Dio e l’uomo, la più perfett a delle sue creature.

Il sistema cristiano della grazia lo si deve alla potenza sp ecu-lativa del maggiore fra i Padri della Chiesa occidentale, Agostino d’Ippona, che per esso si meritò il titolo di Doctor gratiae, “dott o-re della grazia”. L’occasione fu la lunga batt aglia da lui condott a contro il monaco Pelagio e i suoi seguaci, che tra la fi ne del IV e l’inizio del V secolo erano diventati un punto di riferimento

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per le classi dirigenti cristiane, in Italia e in Nordafrica, predi-cando che l’uomo, grazie alle facoltà naturali ricevute dalla na-scita, è in grado di anelare autonomamente al bene e di rifi uta-re il peccato, guadagnandosi presso Dio il merito e dunque la grazia che soltanto Dio può disp ensare.

Sott o l’etichett a di pelagianismo, o di semipelagianismo, fu-rono classifi cate da allora in poi tutt e le posizioni teologiche che esaltavano, in grado diff erente, la natura umana risp ett o all’as-soluta potenza divina. Si parla, al proposito, di ott imismo antro-pologico, cioè di fi ducia nelle facoltà intrinseche all’uomo, ma sarebbe fuorviante vedere in quest a inclinazione un’att itudine eudemonistica o epicurea: al contrario, Pelagio era un rigoroso asceta, poiché se l’uomo aveva la possibilità di ott enere merito da Dio con i propri mezzi naturali aveva anche il dovere di far-lo, non risparmiandosi una vita di austerità e affl izione.

Contro la scuola pelagiana Agostino disegnò il paradigma dell’antropologia teologica che si impose senza rivali nel cristia-nesimo antico e medievale. La corruzione della volontà e del-le sue forze naturali per eff ett o del peccato originale, trasmes-sa da Adamo ed Eva a tutt i i loro discendenti, ne costituiva la premessa; l’impossibilità per l’uomo di volere intimamente il bene senza la forza att ratt iva di Dio, lo sviluppo; l’esclusiva ef-fi cacia soprannaturale della grazia nel processo di salvezza, la conseguenza. Era l’esito coerente del principio monoteistico

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dell’onnipotenza divina: all’att o della creazione Dio aveva scel-to i predestinati e i presciti, cioè coloro che sarebbero stati sal-vati e quelli che invece sarebbero caduti. Le ragioni della scelta, il mistero più oscuro della religione.

Nel corso del Medioevo la scolastica, e in particolare Tom-maso, aveva articolato quest o paradigma nelle precise catego-rie del metodo dialett ico: poiché Dio era la causa prima di ogni azione, la determinazione degli att i umani proveniva infallibil-mente dalla sua esclusiva volontà. Egli concedeva a ciascuno la “grazia suffi ciente” (gratia suffi ciens), con cui l’essere umano ave-va la possibilità di agire verso il bene trasformandola in “grazia effi cace” (gratia effi cax), la grazia che lo rendeva degno della sal-vezza. Ma la trasformazione della possibilità in att o, e quindi della grazia da suffi ciente a effi cace, era comunque sott oposta alla determinazione divina, che rispondeva alla sola volontà del Creatore. Al libero arbitrio umano competeva di non opporsi all’azione della grazia: la libertà dell’uomo, in altri termini, era compresa entro la superiore libertà di Dio.

Il principio protest ante dell’illusorietà del libero arbitrio umano – Lutero aveva paragonato l’uomo a una bestia da soma, condott a ora qui ora là da Dio e dal demonio – aveva provoca-to, per reazione, una peculiare insistenza della teologia e della pastorale catt olica sulla libertà dell’uomo di dirigere le proprie

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azioni verso la ricerca della salvezza. Rest ava il fatt o che il con-cilio di Trento, che aveva provveduto a canonizzare il libero ar-bitrio, nel decreto sulla giustifi cazione della sessione VI aveva stabilito che solo l’infl usso soprannaturale della grazia divina reintegrava la volontà umana dirigendola al bene. Persisteva così un ampio margine di incertezza su cosa si dovesse inten-dere per libera volontà dell’uomo.

Nel 1588 dest ò impressione la pubblicazione di un grosso vo-lume che promett eva nientemeno che di concordare la libertà dell’arbitrio umano con la predestinazione e l’opera sopranna-turale della grazia. Si intitolava appunto Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis, e l’autore era il padre gesuita Luis de Molina, titolare della catt edra di teologia morale a Évora, in Portogallo.

Molina non negava né la predestinazione alla salvezza e alla condanna, né il ruolo irrinunciabile e infallibile della grazia nel-la scelta del bene, ma sott olineava la volontà di Dio di condurre alla salvezza gli uomini risp ett andone la libertà. Dio, sosteneva, dona la grazia effi cace a tutt i coloro di cui sa, già dall’att o della creazione, che faranno buon uso della grazia suffi ciente. La que-stione slitt ava dall’onnipotenza all’onniscienza di Dio: il concet-to di base della sua proposta era infatt i quello di scientia media, “media conoscenza”, che indica la conoscenza che Dio possiede di tutt i i possibili usi che potranno essere fatt i della sua grazia, e quindi di tutt e le possibili conseguenze in termini di premio e

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punizione. Sta alla libertà naturale dell’arbitrio umano tramuta-re quei tanti “futuribili” in att o, raggiungendo o rifi utando, con le proprie forze, la grazia effi cace che vi è connessa.

Se ci riescono estranee simili sott igliezze dobbiamo provare a dimenticare di essere fi gli di una società secolarizzata e pensare alla predestinazione, alla beatitudine eterna e alle pene infernali come a realtà di fatt o, né più né meno degli elementi costituti-vi dell’economia e della società: forse risulterà più chiaro che la loro interpretazione sp ett ava a una scienza che si pretendeva, ed era, fondamentale ed egemonica.

Va dett o che Molina non aveva fatt o altro che dare sp essore teorico a inclinazioni e sensibilità già ampiamente presenti nel-la Compagnia, testimoniate ad esempio da altri grandi teologi dell’ordine come Leonard Lessius, Francisco de Toledo e Ga-briel Vázquez. Sott o la superfi cie della terminologia scolastica pulsava evidentemente la non lunghissima, ma di certo densis-sima esp erienza storica dei gesuiti, un ordine che più degli al-tri si stava misurando con la fi gura dell’“altro” e con l’obiett ivo della sua conversione.

Che si tratt asse delle moltitudini europee passate alla Ri-forma, o delle masse rurali ancora calate nell’ignoranza qua-si completa dei fondamenti della fede, o ancora delle popola-zioni asiatiche e americane per le quali i missionari delle Indie

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orientali e occidentali si stavano avviando a comporre un’ine-dita grammatica del cristianesimo, i gesuiti delle prime genera-zioni erano più di ogni altro a contatt o con la smisurata varietà della psicologia umana e dei modi in cui il singolo rispondeva alla chiamata di Dio.

Dare un senso provvidenziale alla diff erenza non eliminabile fra le culture – volgere tutt o “a maggior gloria di Dio” – impo-neva ai gesuiti uno sforzo di comprensione della molteplicità delle manifest azioni del religioso tale da richiedere una sott o-stante teoria morale della libertà, della personalità umana e della sp ecifi cità del cammino individuale verso la conversione.

In quest a prosp ett iva appare chiaro come il successo di Mo-lina, con le sue tesi sulla predestinazione universale alla gloria e sulla prescienza divina delle infi nite possibilità dell’agire mo-rale, fosse il frutt o della traslitt erazione nell’alfabeto della teo-logia delle esp erienze pastorali e umane dei suoi confratelli che operavano alle più diverse latitudini del pianeta.

In quest o senso i nemici della teologia molinista, cioè i dome-nicani – che al proposito si defi nivano “tomisti” per sott olineare la loro cristallina fedeltà al regime della salvezza disegnato da Tommaso d’Aquino sulla base dell’insegnamento di Agostino – esprimevano probabilmente la posizione più autentica della tradizione cristiana circa la grazia e la predestinazione; una posi-zione che era però ancora legata al mondo chiuso del Medioevo,

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a un’antropologia plagiata sulla rigorosa dicotomia fra virtù e vizio, e dunque fra quanto era soprannaturale e volto al bene e quanto era naturale e perciò incline inevitabilmente al peccato.

Nel 1593, infatt i, la Concordia fu oggett o di una durissima denuncia da parte dei domenicani spagnoli, in particolare del famoso Domingo Bañez, titolare dell’insegnamento di teologia scolastica nelle università di Alcalá e Salamanca.

L’accusa era quella di pelagianesimo, un’accusa che riportava alla ribalta il grande nemico di Agostino; Molina fu chiamato sul banco degli imputati come novator, “innovatore”, un’imputa-zione riservata ai fautori di opinioni prive di un sostegno chiaro nelle fonti della fede, un gradino appena sopra l’eresia.

Bañez, per rendere più esplicita la posizione tomista, si era riferito al concett o di “premozione fi sica” (praemotio physica), a indicare il fatt o che il liberi att i morali dell’uomo si risolveva-no tutt i nella volontà di Dio di muoverlo “fi sicamente” verso il bene, di obbligarlo al bene. La vera libertà stava nell’essere liberi dai lacci del peccato, e quest o era reso possibile soltanto dalla forza soprannaturale della grazia.

Nel 1594 la causa, per la sua gravità, passò dalla Spagna a Roma, dove si trascinò per tre anni nell’irresolutezza. Nell’e-state del 1597 Clemente VIII, che era giurista di formazione e maneggiava con imbarazzo le fi nezze della scolastica, si affi dò a

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Bellarmino per un memoriale sullo stato della questione. Vale la pena di consultarlo brevemente per la chiarezza della sintesi – una dote che all’autore abbiamo già ampiamente riconosciuto.

“Nessun catt olico nega espressamente l’esistenza della grazia effi cace […]: ma il problema sta nel modo di intenderla; e su quest o si fronteggiano tre diverse opinioni, due estreme e una media. La prima opinione è quella di alcuni dott ori scolastici, che Molina nella sua Concordia sembra seguire. Essa insegna che l’effi cacia della grazia dipende dalla volontà umana: infatt i, se l’uomo vuole cooperare con la grazia suffi ciente quest a viene resa effi cace; se non vuole, ineffi cace”81.

Sappiamo che Bellarmino era legato a un’antropologia forte-mente intrisa di agostinismo, in contrasto, da quest o punto di vista, con l’inclinazione prevalente nella Compagnia. Dalle sue lezioni sulla Prima e la Prima secundae si evince che considera-va assai vicina al pelagianesimo l’idea che il buon uso del libero arbitrio prima della grazia effi cace, o in concomitanza con essa, fosse una causa di merito presso Dio. La predestinazione alla salvezza non dipendeva in alcun modo dalle azioni dell’uomo; la grazia suffi ciente era data a ciascuno, con diff erenza di tem-pi e di modi, in modo da suscitare il desiderio di contrizione e

81 De novis controversiis inter patres quosdam O[rdinis] P[raedicatorum], et p. Ludovicum Molinam SJ, in Auctarium Bell arminianum, op. cit., pp. 101-102.

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di salvezza, ma non mai da trasformarlo in att o. Per quest o dif-fi dava del metodo sp eculativo dei molinisti, che pretendevano di volgere nelle categorie imperfett e della ragione il mistero in-sondabile della volontà divina.

Quest a sua posizione emerge con chiarezza nel giudizio tra-smesso al papa: “Quest a opinione [di Molina] mi pare sia falsa, e sia giustamente ripresa dalla censura dei predicatori [scil. i do-menicani]. Infatt i la grazia sarebbe inutilmente defi nita effi cace se l’effi cacia non stesse in essa ma nel libero arbitrio. […] Tale opinione inoltre non è conforme a sant’Agostino”82.

Tutt avia Bellarmino, il principe dei controversisti, possedeva anche un’att itudine a percepire il più sott ile alito di anomalia in un costrutt o teologico. Era una capacità sviluppata durante i de-cenni trascorsi nella densa forest a delle dott rine protest anti, e a nessuno, a Roma, era riconosciuta in grado maggiore che a lui.

“La seconda opinione appartiene ad altri, che insegnano che la grazia effi cace non solo non dipende dal libero arbitrio, ma anche che quest o è indott o fi sicamente, cioè att ivamente e in-teriormente, da essa”. Era la tesi della premozione fi sica, che egli contrapponeva alla premozione morale, a essere percepita come la nota stonata nella sinfonia teologica dei tomisti. “Determinare

82 Ivi, p. 102.

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fi sicamente signifi ca infl uire interiormente sulla volontà umana e indurla a volere, e determinare moralmente signifi ca indurre a volere non agendo interiormente su di essa, ma convincendo, esortando, minacciando, spaventando, consigliando, e così via. […] Se qualcuno induce un altro a scrivere, esortandolo, o spa-ventandolo, lo determina moralmente, ossia lo spinge a compie-re l’att o dello scrivere; ma se uno aff erra la penna e la infi la tra le dita dell’altro, poi gli prende la mano e gliela muove, e scrive con essa, allora si può dire che egli spinge, o determina fi sica-mente l’altro alla scritt ura”83.

Indiscutibile destrezza retorica di chi in gioventù si è forma-to sul pulpito e sulla catt edra. Poi il posto è ceduto al maestro di controversie: “[La premozione fi sica] mi sembra non meno falsa e pericolosa della precedente: essa, infatt i, in primo luogo elimina la grazia suffi ciente, così come la tesi precedente eli-minava quella effi cace […]. In secondo luogo essa sembra con-traddire il Tridentino […] dove il concilio insegna che l’uomo può acconsentire o dissentire liberamente dalla grazia di Dio, e liberamente accett arla o respingerla. […] In terzo luogo que-sta opinione non sembra in grado di salvare il libero arbitrio, né di potersi distinguere dal modo di parlare degli eretici mo-derni, i quali proprio a motivo di ciò sono ritenuti negatori del

83 Ibid.

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libero arbitrio negli att i soprannaturali, perché sostengono che noi siamo piegati dalla grazia senza possibilità di resistere”84.

La via media, quella che Bellarmino indicava come realmen-te ortodossa e fedele all’insegnamento di Agostino e Tommaso, trovava nella premozione morale sopra descritt a il superamen-to della dicotomia insolubile tra l’autosuffi cienza pelagiana del libero arbitrio e la sua negazione.

Quest’ultima apertura alla possibilità di una composizione catt olica degli opposti dell’onnipotenza divina e del libero arbi-trio umano era un preziosissimo suggerimento in vista di una soluzione condivisa della questione. Ma il punto che doveva col-pire il papa era un altro, e cioè l’accostamento della tesi tomista alle posizioni dei protest anti. Gli eresiarchi Lutero e Calvino erano evocati nel centro della catt olicità, in un procedimento che, fi no ad allora, si era svolto all’ombra dei decreti del concilio di Trento; e, quel che è peggio, erano apparentati ai rappresen-tanti dell’ordine domenicano, l’ordine dei tutori dell’ortodos-sia, quello che forniva il personale ai tribunali dell’Inquisizione.

Nel marzo del 1598 la commissione d’inchiest a presieduta dal cardinale Madruzzo formulò una richiest a di condanna non solo

84 Ivi, pp. 102-103.

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della Concordia, ma di tutt e le opere di Molina. Si diff usero voci che davano per spacciata in blocco l’intera teologia dei gesuiti.

L’aff are, in realtà, andò per le lunghe. Il 29 marzo del 1599, poco più di tre sett imane dopo la porpora, Bellarmino fu tra-sformato da consultore in arbitro con la nomina a giudice a la-tere della commissione.

Presentò subito alle parti una serie di quesiti dett agliati de-stinati a chiarire le risp ett ive posizioni risp ett o all’azione della grazia sulla volontà: nella pratica era una messa in stato d’accu-sa della predeterminazione fi sica. Quello che fi no ad allora era stato un processo a carico di una tesi ben precisa e circostanzia-ta, quella della scientia media e della libera cooperazione dell’ar-bitrio umano con la grazia, si trasformava in una controversia di religione vera e propria, senza esiti facilmente prevedibili, su una questione di una complessità non inferiore a quelle per le quali in passato era stato riunito il concilio.

A profi larsi era uno scontro tra due modi diff erenti di inten-dere l’eredità tomista, quello coerente e fi lologico dei domenica-ni e quello versatile dei gesuiti, disposto ad adatt are le premesse di metodo della scolastica alle esigenze imposte dagli orizzonti religiosi e culturali della modernità. Se, come già dett o, ponia-mo mente al fatt o che la teologia scolastica era la scienza fon-damentale del sistema tridentino dei saperi, abbiamo un’idea della posta in gioco.

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Il 20 aprile del 1600 morì il cardinale Madruzzo. Il proces-so istituito dalla commissione da lui presieduta si era risolto in un nulla di fatt o.

Un altro processo, di recente, si era invece chiuso nel modo peggiore per l’imputato. Due mesi prima era stato arso sul rogo, in Campo de’ Fiori, Giordano Bruno. Da sett e anni marciva nel carcere romano del Sant’Uffi zio, dopo essere stato estradato da Venezia all’inizio del 1593. La corte inquisitoriale incaricata di esaminarlo, composta in buona parte da domenicani, non era riuscita per lungo tempo a produrre capi d’accusa stringenti contro di lui. Non ci sono rimasti, come noto, i verbali del pro-cesso: sappiamo che nel 1596 era stato completato un elenco di censure estrapolate da alcuni dei suoi scritt i, che probabilmente toccavano i temi dell’anima individuale, dell’anima del mondo e della sua eternità, dell’infi nità dell’universo.

Il 18 gennaio del 1599, su iniziativa di Bellarmino, la corte era fi nalmente riuscita a stilare un elenco di ott o proposizioni, che pure non conosciamo, ma che doveva essere tale da potersi fi nalmente confi gurare in termini teologici dal momento che quello che gli fu richiest o era di riconoscerle “per eretiche et es-sere pronto per detest arle et abiurarle”. Fu sulla mancata abiu-ra di tali proposizioni che si giocò la sorte del fi losofo che aveva sp eso la vita nel sogno di abbatt ere quelle che gli sembravano le follie metafi siche della scolastica.

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Morto Madruzzo, Clemente VIII ordinò il ripristino della procedura precedente, basata sull’analisi dei passi sosp ett i della Concordia. I gesuiti si trovavano di nuovo sul banco degli impu-tati, davanti a una commissione che adesso era presieduta di-rett amente dal papa, che riceveva dirett amente nelle sue mani i pareri dei consultori. Per i gesuiti era una pessima notizia, vi-sta la conclamata freddezza di Clemente VIII verso l’ordine.

Da una prosp ett iva dott rinale l’avocazione dell’intero pro-cedimento giudiziario da parte del papa era un evento senza precedenti quanto a possibili ricadute sulla teoria dell’infalli-bilità: la fi gura istituzionale del pontefi ce quale giudice supre-mo delle controversie coincideva esatt amente con la persona che la incarnava, senza la mediazione dei consueti organi di curia deputati al suo consiglio, come le commissioni sp eciali e la Congregazione del Sant’Uffi zio. Per di più, essa si materia-lizzava att orno a un caso che, da qualsiasi parte lo si guardasse, appariva inestricabile.

Alcune cose, per la verità, sembravano ripetersi. Clemente VIII, come già Sisto V, era un papa isolato in curia e poco ama-to in citt à. La catastrofi ca inondazione del Tevere del dicembre del 1598 era stata interpretata come una punizione divina per la rapacità della sua famiglia, gli Aldobrandini. In quegli stes-si giorni si era aperto il processo per parricidio contro Beatrice Cenci, che si sarebbe chiuso nel sett embre successivo con tre

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condanne a morte. Fu un caso giudiziario destinato a rest are impresso a lungo nella memoria collett iva: secondo le voci più ascoltate il processo era stato manovrato dal papa per impos-sessarsi delle cospicue rendite della famiglia. Per tutt o il 1599 gli astrologi predissero un imminente mutamento di pontefi -ce. Bellarmino, invece, ci ha già informati che il suo parere al riguardo era diverso.

Att orno al sett embre-ott obre del 1600 Bellarmino consegnò a papa Clemente VIII un memoriale destinato a una rapida dif-fusione manoscritt a negli ambienti curiali. Il titolo segnalava già l’altezza dell’obiett ivo dello scritt o: De offi cio primario Sum-mi pontifi cis, “il compito principale del pontefi ce”. Si tratt ava di un duro att o d’accusa alla gestione del sistema di potere della Chiesa romana, un documento di notevole sp essore religioso ed emotivo e un segno dell’indipendenza intellett uale e della con-fi denza di cui il cardinale godeva presso il papa.

Il compito “primo, unico, massimo” del pontefi ce è “la cura di tutt e le Chiese”, poiché è nella Chiesa che si realizza l’univer-salità del suo potere spirituale. Quest o signifi ca che la vigilanza sul corpo episcopale è il suo dovere fondamentale, da assolve-re assegnando “buoni vescovi” a ciascuna diocesi, controllando il loro operato e, nel caso, intervenendo con mezzi coercitivi. Non una delle anime dei fedeli deve essere lasciata cadere per

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negligenza, e di quest o il papa, vescovo universale, è il primo re-sponsabile: “Se lo stesso supremo pastore assegna vescovi medio-cri alle Chiese particolari o non si impegna abbastanza perché essi svolgano il proprio dovere, allora senza dubbio il sangue di quelle anime sarà domandato dalle sue mani”85.

Le piaghe da incidere sul corpo della Chiesa sono sedi epi-scopali vacanti troppo a lungo, prelati poco motivati o di scarsa competenza, gli annosi problemi dell’assenza degli ordinari dal-le sedi e del cumulo di benefi ci, insomma quel viluppo di que-stioni legate all’accaparramento e alla spartizione dei patrimoni ecclesiastici che quasi quarant’anni prima il concilio di Trento si era illuso di risolvere.

Nel tono sdegnato di Bellarmino si odono echi che sembrano venire dalla stagione militante della Riforma catt olica, quella di Carlo Borromeo e Marcello Cervini: “Vedo nelle Chiese d’Ita-lia una tale desolazione quale forse non si è mai avuta da molti anni, tanto che l’obbligo di residenza [dei vescovi nelle diocesi] non sembra ormai di diritt o né divino, né umano”86.

Possediamo anche le risposte al memoriale da parte di Cle-mente VIII. Stringate e confuse, sembrano quelle di un uomo impaurito: “Ammett iamo di avere peccato, e di peccare, ma

85 De offi cio primario Summi pontifi cis, in Auctarium Bell arminianum, op. cit., pp. 513-514.86 Ivi, p. 515.

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generalmente la ragione sta nella diffi coltà di trovare persone idonee”; “Non sapremmo che modo adott are per sapere chi sia più degno”87. Di lì a poco, nell’informare della vicenda il nipo-te, il cardinale Pietro Aldobrandini, il tono del papa è più irato: “Pochi giorni dopo la vostra dipartita il cardinale Bellarmino ci dett e una lunga scritt ura, nella quale ci rappresentò il pericolo nel qual stavamo di dannarci per causa delle provisioni dei ve-scovadi. […] Vedete che sindicatura è quest a et sott o minaccie del inferno”88.

Il 5 dicembre del 1601 fu consegnato nelle mani del papa l’e-norme incartamento processuale prodott o dalla commissione De auxiliis, insieme con il voto di condanna della Concordia emesso dai giudici dopo quatt ro mesi di camera di consiglio. Adesso la ratifi ca defi nitiva della sentenza sp e ttava solo a Clemente VIII, che però non era evidentemente nelle condizioni di esamina-re di persona tutt a la documentazione. Il rischio di uno scacco dell’infallibilità si faceva concreto.

87 Ivi, pp. 514-515.88 Cit. in K. Jaitner, De offi cio primari Summi pontifi cis. Eine Denkschrift Kardinal Bell armins für Papst Clemens VIII (Sept./Okt. 1600), in Römische Kurie. Kirchliche Finanzen. Vatikanisches Archiv. Studien zu Ehren von Hermann Hoberg, a cura di E. Gatz, Università Gregoriana Editrice, Roma 1979, I, pp. 377-403, 393-394.

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Tra il dicembre del 1601 e il gennaio del 1602 Bellarmino ri-mise al papa un nuovo memorandum sulla controversia.

In poche, dense pagine, era una breve lezione di teologia della grazia impartita al papa. Bellarmino motivava di nuovo il suo rigett o dell’idea molinista della possibilità di una mozione na-turale dell’uomo verso il bene come pure di quella tomista della premozione fi sica. Poi, improvvisamente, passava a un registro diverso, prefi gurando il vicolo cieco nel quale l’intenzione del papa di sciogliere la questione affi dandosi solo al proprio giudi-zio individuale rischiava di trascinare l’autorità della catt edra di Pietro: “La via che ha presa riesce molto lunga, e molto laborio-sa a Vostra Beatitudine. I santi predecessori suoi non messero il principale loro fondamento nel penetrare per forza d’ingegno e di studio la profondità de’ dogmi, ma in cercare il sentimento commune della Chiesa, e massime de’ vescovi e dott ori: e per quest o per ordinario li Sommi pontifi ci […] si sono serviti de’ concilii per determinare la verità della fede”89.

Della funzione papale, in altri termini, Bellarmino rimarca la funzione di accentramento e armonizzazione delle diverse anime teologiche della Chiesa, la sola capace di rendere la pre-rogativa dell’infallibilità un dispositivo vincolante di disciplina-mento dott rinale e non una velleitaria epifania di potere.

89 Il test o in Auctarium Bell arminianum, op. cit., p. 145.

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Come già era successo dieci anni prima, con la vicenda delle correzioni di Sisto V alla Vulgata, di nuovo egli sembra dover toccare con mano come il limpido costrutt o dell’infallibilità per-sonale del papa in quanto iudex controversiarum, che egli stesso aveva formulato nei termini più rigorosi, risulti fragile di fronte alle imperfezioni dell’uomo che rivest e quell’uffi cio. Se abbia vis-suto quest o come una sconfi tt a personale, non ci è dato sapere.

Di certo egli aff ondava il coltello nelle incertezze e nelle ten-denze personalistiche che agitavano Clemente VIII. E lo face-va affi dandosi a una parola che storicamente, a Roma, suonava come una provocazione: concilio. È probabile che la sua fos-se soltanto una velata intimidazione; ma il fatt o, chiaro a en-trambi, che sullo sfondo si profi lasse l’ombra della Compagnia di Gesù con le sue formidabili reti di consenso la rendeva co-munque temibile.

“La Santità Vostra dice che ha in mano una materia di fede. Se è materia di fede, tocca a tutt i […] e si dee mett ere in pubbli-ca consulta, et non tratt arsi con pochi e secretamente, perché se bene tutt i sono obligati a credere et obbedire quando la Santità Vostra faccia decreto, ancorché lo faccia senza consulta publi-ca, nondimeno quest o non saria senza molta mormoratione e lamenti delle Chiese et accademie”90. Contenere l’autocrazia del

90 Ivi, p. 146.

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papa per tutelarne l’autorità: era il sorprendente, ma coeren-te esito della mise en histoire di una delicata costruzione teorica costrett a a ritrarsi davanti alla dimensione umana del potere di papi sempre più orientati allo stile dell’assolutismo monarchico.

La soluzione off erta era tutt a politica: che il pontefi ce si aste-nesse dall’esercitare la sua prerogativa di giudice; che preferisse il silenzio al pericolo di errare; che evitasse il giudizio per rest are indiscusso giudice delle controversie. In caso contrario, l’unica alternativa al prevedibile cul de sac teologico rest ava l’apertura uffi ciale della crisi, il concilio: “Né vi sono altri due modi. Uno saria il soff rire e tollerare con mett ere silentio alle parti […] L’altro modo è di convocare un sinodo episcopale, o se quest o non piace chiamare a Roma alcuni elett i da tutt e le università catt oliche”91. A nostra conoscenza, non giunse dal papa alcu-na replica.

Il 20 gennaio del 1602 i rapporti tra Bellarmino e Clemente VIII raggiunsero alla fi ne un punto di rott ura. Fu lo scioglimen-to di una tensione che bruciava sott o la superfi cie da almeno due anni, alimentata dall’ambiguo rapporto, fatt o di fi ducia ma anche di ostilità, che si era creato fra i due. Un violento alterco

91 Ivi, p. 147.

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verbale, del quale abbiamo testimonianza da fonti diverse, come echi riverberati dai corridoi dei palazzi vaticani.

A undici anni di distanza, Bellarmino nelle sue memorie mostra di ricordare bene l’episodio: “N. ammonì sp esso il pon-tefi ce di guardarsi dagli inganni, e di non credere di essere in grado, con la sua sola applicazione, di arrivare a comprendere una questione tanto oscura, non essendo nemmeno teologo. Gli predisse apertamente che tale questione non sarebbe mai stata defi nita, e quando egli replicò che l’avrebbe defi nita, N. gli ri-spose: ‘Vostra Santità non la defi nirà’”92.

Francisco Peña, il nemico di Bellarmino in curia, acceso fau-tore dei domenicani, ci restituisce il punto di vista di Clemente VIII: “[Il papa] volle dichiararmi un segreto, e mi disse che […] aveva mandato a chiamare il cardinale Bellarmino, e gli aveva dato una gran lavata di capo su quest a faccenda. Che Bellar-mino gli aveva risposto che egli non sosteneva che Sua Santità non potesse defi nire in assenza di un concilio, ma solo che era più conveniente farlo. A quest o Sua Santità replicò con collera: ‘Dunque si è più conveniente non sarà conveniente dichiarar noi. Videte chello che dite’”93.

92 Autobiografi a, op. cit., p. 465.93 Transumptum de originali manuscripto D. Francisci Peñae Rotae Romanae decani, in Archivio della Congregazione per la dott rina della fede, S.O., St. st. O5 i, 151v.

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Il cardinale Francesco Maria del Monte, consultato dai pro-motori della causa di beatifi cazione pochi anni dopo la morte di Bellarmino, ci fornisce una terza versione, anche quest a, come la precedente, non mediata dal fi ltro della memoria autobiogra-fi ca: “Trovandosi il signor cardinale Del Monte un giorno alla capella di San Marcello nel tempo che viveva papa Clemente ot-tavo disse al cardinale Bellarmino qualmente Sua Santità voleva defi nire la questione De auxiliis, che allora si controverteva tra padri domenicani e i padri della Compagnia; rispose il cardinale Bellarmino che papa Clemente non l’haveria defi nita. Replicò il cardinale Del Monte: ‘Nostro Signore la può, e la vuole defi ni-re, come dice Vostra Signoria illustrissima che non la defi nirà?’ Il cardinale Bellarmino tornò a ripetere, che se ben Sua Santi-tà voleva e poteva defi nirla, nondimeno non l’haveria defi nita, e soggiunse ‘Se ciò vorrà tentare io dico che prima morirà’”94.

Bellarmino fu consacrato arcivescovo di Capua dalle mani di Clemente VIII il 21 aprile del 1602. Si tratt enne al Collegio Romano per quatt ro giorni di ritiro e di preghiera, poi mosse verso la sua nuova sede diocesana, dove arrivò il primo mag-gio. Per l’epoca, il suo fu uno dei rari casi di rimozione di un cardinale da Roma per una Chiesa di provincia. A Capua, del

94 G. Fuligatt i, Vita del cardinale Roberto Bell armino, op. cit., pp. 159-160.

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rest o, Bellarmino avrebbe avuto l’occasione di mett ere in pratica quell’obbligo di residenza di cui aveva sott olineato l’importan-za nello scritt o sul dovere primario del pontefi ce che abbiamo in parte lett o prima.

Non fu un esilio molto lungo: “Appena arrivato [a Capua] pre-disse che per soli tre anni sarebbe stato a capo di quella Chiesa. Con grande diligenza […] fece scrivere una lista con i nomi di tutt i i suoi predecessori, e di quello che l’aveva appena precedu-to fece scrivere ‘Cesare Costa, sedett e trent’anni’, e poi aggiun-se ‘N. siederà tre anni’. E così esatt amente accadde. Infatt i dopo tre anni morì Clemente VIII e il suo successore Paolo V non volle permett ere che N. tornasse a Capua, per cui fu costrett o a rinunciare a quella Chiesa”95.

Non c’è spazio per soff ermarsi sulla residenza capuana del cardinale Bellarmino. Contentiamoci di sapere, dai suoi biografi seicenteschi, che essa fu vissuta come una reviviscenza dei fasti vescovili di Carlo Borromeo a Milano: regolari riunioni dei si-nodi diocesani, severa att enzione per la moralità e la preparazio-ne del clero, visite parrocchiali, costante contatt o con il popolo. In quei tre anni Bellarmino cominciò a costruirsi una propria inedita immagine di pastore di anime dalla quale i promotori della sua causa di beatifi cazione trassero non poco materiale.

95 Autobiografi a, op. cit., p. 462.

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Clemente VIII morì il 3 marzo 1605. Fra i nomi dei papabi-li cominciò a circolare anche quello di Bellarmino, e con esso i pareri compilati dagli agenti delle monarchie, che tenevano il conclave sott o strett o controllo. Il duca di Sessa informò Ma-drid che era un “buon uomo, erudito in teologia, ma di poca sostanza in agibilibus”, “nelle cose pratiche”.

Leone XI, elett o il primo aprile, morì già il 27 di quel mese. All’apertura del nuovo conclave, l’8 maggio, 14 voti si raccolsero intorno al nome di Bellarmino. I cardinali Sfondrati, Farnese e Acquaviva avevano deciso di sostenerlo, e per una nott e sembrò che il potente cardinale Aldobrandini potesse far convergere su di lui i voti dei porporati della sua fazione.

Gli agiografi si sono dilungati a celebrare come segno di umil-tà la repulsione verso l’eventualità dell’elevazione al papato che avrebbe scosso Bellarmino in quelle sett imane della primavera del 1605. Accett iamo quest a versione, in assenza di prove con-trarie. Sappiamo comunque che troppi ostacoli si opponevano alla sua elezione: il primo, probabilmente insormontabile, era la sua appartenenza alla Compagnia di Gesù. Un papa gesuita sarebbe stato, all’epoca, e per le ragioni che abbiamo già visto, la concretizzazione di un incubo per troppi, fuori e dentro la com-pagine ecclesiastica. Il cardinale d’Avila, tra i plenipotenziari di Filippo III di Spagna in conclave, escluse senza mezzi termini una simile eventualità.

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Il 16 maggio 1605 fu elett o Paolo V, al secolo Camillo Borghe-se. Con quel conclave si chiude sostanzialmente anche l’auto-biografi a di Bellarmino, che pure fu scritt a ott o anni dopo. Per gli avvenimenti ulteriori dunque dovremo fare a meno della sua guida.

Fino ad ora abbiamo visto il cardinale Bellarmino impegna-to in duelli sott erranei, coperti dall’apparente quiete curiale, oppure in est enuanti lott e contro legioni di avversari di carta, gli autori della imponente biblioteca ereticale che costituisce il sostrato delle Disputationes.

In realtà egli ebbe almeno un grande avversario pubblico in carne e ossa, Giacomo I Stuart, re d’Inghilterra e Scozia, una fi gura di re assolutista e teologo il cui nome è ancora oggi lega-to alla versione uffi ciale della Bibbia per i protest anti di lingua inglese, la King James Bible, la “Bibbia di re Giacomo”.

Giacomo I, re di Scozia già dall’infanzia, nel 1603 era suc-ceduto alla regina Elisabett a d’Inghilterra, ultima rappresen-tante della dinastia Tudor e arcinemica del papato – Pio V l’aveva scomunicata nel 1570. Malgrado fosse stato allevato nell’ambiente del calvinismo radicale della Chiesa presbite-riana scozzese, la sua incoronazione aveva suscitato a Roma la sp eranza di riguadagnare l’Inghilterra al catt olicesimo. Sua

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madre, infatt i, altri non era che Maria Stuarda, la regina cat-tolica di Scozia morta sul patibolo come martire per ordine di Elisabett a.

Nel 1582 il padre Robert Persons, l’esp erto di aff ari inglesi della Compagnia di Gesù, aveva disegnato le linee della strate-gia di riconquista religiosa dell’isola facendole convergere sulla prevedibile successione di Giacomo al trono inglese. L’obiett ivo era di convertirlo al catt olicesimo inviando a corte un precet-tore gesuita, possibilmente italiano per l’istruzione in lingua e lett eratura latina. Al proposito era stato fatt o anche il nome di Bellarmino.

In seguito Persons si era orientato in favore di Isabela Clara Eugenia, governatrice dei Paesi Bassi spagnoli. Clemente VIII, invece, aveva continuato a puntare su Giacomo in ragione della nuova politica di aff rancamento dalla Spagna negli aff ari inter-nazionali che il papato stava perseguendo in quegli anni, auspi-ce il perdono concesso a Enrico di Navarra.

Lo stesso Stuart, agli esordi del regno, aveva favorito una di-stensione dei rapporti con Roma, fondamentalmente in funzio-ne degli equilibri interni al complesso scenario religioso ingle-se, nel quale era in piena ascesa politica la minoranza puritana, fedele al calvinismo e alla guerra a oltranza all’Anticristo spa-gnolo e papale.

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Il sovrano, in quanto capo supremo della Chiesa anglicana e fautore di un modello monarchico assolutista, aveva infatt i in odio i puritani per la loro aperta opzione in favore del regime parlamentare. Sul fronte opposto i suoi nemici erano i gesuiti e i sudditi catt olici di obbedienza gesuitica, e per quest o la sua politica religiosa fu dominata dalla fatica di stabilire un equi-librio fra quest e due ali estreme che si fondasse sulla lealtà dei catt olici moderati sott o il predominio della Chiesa anglicana uffi ciale, la High Church.

Nel 1599 Giacomo – forse l’unico monarca dell’epoca a di-lett arsi con la scritt ura – pubblicò una breve apologia dell’as-solutismo, la Trew Law of Free Monarchies (“la vera legge delle monarchie libere”), in cui sosteneva fra l’altro la completa indi-pendenza del potere politico da ogni altra autorità. Nello stesso anno vide le stampe anche un suo lavoro precedente che fi no ad allora aveva conosciuto una certa circolazione manoscritt a in Scozia, il Basilikón Doron, altisonante titolo greco che stava per “il dono del re”.

Tale dono era stato concepito per suo fi glio, il principe Enri-co, come un manuale di arte del governo. La traduzione latina di quest o volume uscì a Londra nel 1604: una copia fu intercett ata dal nunzio apostolico a Parigi, inviata a Roma e da qui inoltrata a Capua perché Bellarmino stilasse una risposta; nacque così lo Hieratikón Doron, “il dono del sacerdote”, uno strano scritt o

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sosp eso fra l’esigenza diplomatica di non urtare la suscett ibilità del nuovo sovrano e la confutazione paziente delle sue aff erma-zioni in materia di religione.

Nell’opera Bellarmino si asteneva da qualsiasi considerazio-ne di dirett o contenuto politico e si limitava ad aff rontare temi squisitamente teologici, come la salvezza per sola fede e la pos-sibilità di risp ett are i dieci comandamenti. Solo in un paio di pagine, il midollo avvelenato di quel “dono del sacerdote”, af-frontava il tema del monopolio sull’interpretazione della Scrit-tura, che come abbiamo visto era il nucleo duro del paradigma del potere spirituale del papa come giudice delle controversie.

Giacomo I aveva respinto l’autorità dei pontefi ci, dei concili e dei Padri della Chiesa esaltando il valore del giudizio indivi-duale che si alimentava alla lett ura dirett a della Bibbia. Bellar-mino ebbe gioco facile a individuare in quel principio la fonte di tutt i gli errori: “Di qui si sprigionano interminabili controversie di fede, essendo tanti i giudici quanti i litiganti”96.

Lo Hieratikón Doron non conobbe mai le stampe. Rest ò ma-noscritt o fi no alla pubblicazione curata dal padre Le Bachelet nella raccolta di inediti bellarminiani del 1913. Le condizioni

96 Hieratikón Doron, sive modest a et fi delis admonitio […] ad Jacobum Magnae Britanniae serenissimum ac potentissimum regem, in Auctarium Bell arminianum, op. cit., pp. 209-256, 215.

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della politica inglese, nel fratt empo, erano infatt i radicalmen-te cambiate.

Il 5 novembre del 1605 era stata sventata la Congiura delle polveri (Gunpowder Plot), un att entato in grande stile concepi-to da un gruppo ristrett o di catt olici inglesi che avrebbe dovuto fare esplodere il Parlamento in occasione della visita del sovra-no. In base alle indagini risultarono coinvolti alcuni padri ge-suiti att ivi clandestinamente nel paese.

Ne seguì una campagna anticatt olica che prevedeva l’obbligo per tutt i i sudditi di partecipare al rito protest ante della Cena del Signore e invitava apertamente alla delazione dei sosp ett i. Fu l’att o d’avvio di una vera psicosi collett iva giocata sulla paura del tradimento da parte dei nemici interni, i catt olici che prepa-ravano in segreto l’invasione spagnola; a dirigere la campagna, i consiglieri della corona che intendevano ridurre al minimo l’infl uenza politica del dissenso religioso.

Nel giugno del 1606 il Parlamento approvò una legge repres-siva che contemplava, fra l’altro, l’obbligo di un Oath of All egiance per i catt olici inglesi, un “giuramento di fedeltà” che era conce-pito come uno strumento di controllo politico.

Il giuramento, in realtà, era una misura assai moderata, nulla a che vedere con le professioni di fede comuni nei paesi catt olici e luterani che imponevano di credere al sistema dott rinale delle Chiese dominanti. Quello che si chiedeva ai catt olici non era di

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abiurare la fede nell’autorità spirituale del papa, ma semplice-mente di riconoscere la pienezza del potere del re nel suo regno e di rifi utare il principio per cui la scomunica papale scioglieva i sudditi dall’obbligo di obbedienza. L’obiett ivo era di tracciare un discrimine fra coloro che, nonostante “l’inclinazione verso il papa” mantenevano nel cuore “l’impronta del loro naturale vincolo verso il sovrano” e quanti invece nascondevano sott o la maschera della religione il tradimento e la ribellione al re.

Paolo V, con un breve emesso nel sett embre del 1606, proibì ai catt olici la pronuncia del giuramento. Bellarmino fu incaricato di spiegare le ragioni della decisione, nella forma di una lett era indirizzata all’arciprete catt olico d’Inghilterra, George Blackwell, insignito della primazia sul clero romano del paese e come tale costrett o alla scelta drammatica fra l’obbedienza alla Sede apo-stolica e l’invito al sacrifi cio di massa dei propri correligionari.

Bellarmino scelse un tono infl essibile. Il giuramento, nelle sue parole, era un simulacro dell’eterno riproporsi dell’ingan-no di Satana contro il primato della Santa Sede. La formula del giuramento voleva trasferire l’autorità di capo della Chiesa dal successore di Pietro a tutt i i successori dinastici di Enrico VIII, il re che aveva rinnegato l’obbedienza romana. Negare al papa l’autorità di giudicare i sovrani, ed eventualmente deporli, equi-valeva a recidere il capo dal corpo mistico di Cristo.

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Nell’ott ica del cardinale, che esprimeva il punto di vista uf-fi ciale di Roma, senza autorità politica del pontefi ce, seppur mediata, seppure indirett a, non si dava alcuna sovranità spiri-tuale. Il suo appello a Blackwell era nientemeno che l’invito al sacrifi cio, come nell’antichità avevano fatt o i martiri sui patiboli degli imperatori pagani.

Negli anni seguenti seguì un duro scambio di scritt ure fra Giacomo I e Bellarmino: a confrontarsi furono una nozione di legitt imità politica, quella di parte papale, fondata sull’apparte-nenza religiosa e che poneva in subordine ogni altro principio di obbedienza, e un’idea di sovranità che invece si reggeva sul vincolo “naturale” di obbedienza che legava i sudditi al proprio principe. Sappiamo che Giacomo I, per alcuni anni, ne ebbe una vera ossessione: Isaac Casaubon, il grande fi lologo calvinista che si trasferì a Londra nel 1610, testimonia delle att ente lett ure e delle confutazioni di Bellarmino che si tenevano alla corte del sovrano durante i ricevimenti uffi ciali.

In verità, in quel XVII secolo nascente, non tutt i parlava-no la lingua del confl itt o. Di lì a poco ci sarebbe stata la guerra, la disastrosa Guerra dei Trent’anni, ma naturalmente nessuno poteva prevederlo. Esisteva un partito, seppur minoritario, che voleva la pace e il superamento delle diff erenze confessionali e delle sott ili distinzioni teologiche che avevano prodott o ormai

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più di mezzo secolo di odi. Quel partito, seppure per pochi anni, ebbe a Venezia un proprio quartier generale.

Nel tardo Cinquecento, quando ormai il predominio com-merciale si giocava negli oceani e non più negli spazi ristrett i del Mediterraneo, Venezia era una potenza di secondo piano, una potenza regionale, si direbbe oggi. Dopo aver perduto buona parte delle colonie del Levante, si volgeva sempre più ai propri interessi sulla terraferma, e qui si sentiva accerchiata dai due rami degli Asburgo: quello spagnolo a ovest, nel ducato di Mi-lano, e quello austriaco a est. La sua catena di fortezze difensi-ve, da Crema fi no alla Dalmazia, rendeva concretamente l’idea di quest a sindrome da assedio.

In quest o quadro, un problema particolarmente scott ante era quello dei rapporti con la Sede apostolica. Gli att ivissimi amba-sciatori veneti a Roma scrivevano dispacci allarmati sulla rinno-vata forza dei papi, sulla solidità amministrativa dello Stato della Chiesa, sul capillare controllo del dissenso esercitato dalla rete dei vicari del Sant’Uffi zio in tutt a l’Italia centro-sett entrionale.

Le relazioni con Roma segnavano, da decenni, un andamento altalenante, ora all’insegna dello scontro ora della ricomposizione. I principali punti d’att rito riguardavano l’Indice dei libri proibi-ti, che colpiva il fi orentissimo mercato editoriale di Venezia (la maggiore piazza italiana per la stampa e la vendita di libri), e lo sp eciale status giuridico di cui godevano gli ecclesiastici, esenti

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dalle competenze del foro secolare ma sui quali la Serenissima pretendeva invece di esercitare piena giurisdizione entro i pro-pri confi ni, quantomeno per i reati comuni.

Secondo Paolo Sarpi, il principale teorico della sovranità dello Stato veneziano, il clero, “la centesima parte” della popolazio-ne, possedeva più della metà dei beni nel Bergamasco, oltre un terzo nel Padovano e almeno un quarto nel rest o del Dominio, ricchezze immense sott ratt e alla tassazione e all’ordinario cir-cuito economico della compravendita in virtù del cosiddett o di-ritt o di manomorta, che permett eva alla Chiesa di conservare integro il proprio patrimonio. Tra il 1604 e il 1605, per ovviare al peso della manomorta alimentato dalle donazioni dei fede-li, il Senato veneto aveva imposto su quest e ultime l’obbligo del nullaosta statale.

Infi ne, nell’Italia dell’ordine tridentino Venezia costituiva un vistoso unicum. Tra le maggiori metropoli europee con i suoi 150mila abitanti, ospitava nei suoi fondaci, gli uni accanto agli altri, armeni e greci di rito orientale, tedeschi e svizzeri prote-stanti, gli ebrei della vivacissima comunità locale e addiritt ura un gran numero di turchi ai quali, segretamente e con tutt e le precauzioni del caso, era consentito il culto islamico.

Sullo scorcio del secolo, il ceto di governo della Repubblica stava abbandonando progressivamente la tradizionale politica

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di negoziato con Roma in favore di una più intransigente di-fesa delle prerogative statali dall’ingerenza ecclesiastica. La di-rezione verso cui guardare, adesso, era quella delle interessanti esp erienze di contenimento del potere religioso che si stavano realizzando nelle Province Unite olandesi, in Inghilterra e nella Francia di Enrico IV. Si era andati molto vicini alla rott ura al-lorché, nell’est ate del 1600, papa Clemente VIII aveva umiliato il Senato imponendo al candidato al patriarcato di Venezia, in-dicato per consuetudine dal governo veneto, di recarsi a Roma per sostenere un esame di ortodossia catt olica.

L’occasione per regolare defi nitivamente la questione della giurisdizione ecclesiastica nel territorio della Repubblica si pre-sentò al nuovo pontefi ce Paolo V poco dopo l’elezione, nel 1605, quando il Consiglio dei Dieci – l’organo deputato, tra l’altro, agli aff ari del clero – ordinò l’arrest o di un canonico di Vicenza ac-cusato di molestie verso la nipote e poi dell’abate di Nervesa, imputato di omicidio. La Sede apostolica pretese subito la con-segna dei due chierici al competente tribunale ecclesiastico e, di lì a poco, anche la revoca delle leggi del Senato sulla mano-morta. Per renderle più effi caci, accompagnò le richiest e con la minaccia dell’emanazione dell’interdett o, la punizione canoni-ca che sosp endeva le celebrazioni liturgiche sull’intero territo-rio di uno Stato, mett endo ovviamente a repentaglio la salute dell’anima dei suoi abitanti.

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All’inizio del 1606 salì al dogato Leonardo Donà, già ambascia-tore a Costantinopoli e Roma, capo della fazione più propensa alla difesa coerente della piena sovranità della Repubblica. Il suo primo att o fu l’istituzione dell’uffi cio di consultore del governo in materia di teologia e diritt o, una carica che sembrava pensa-ta apposta per Paolo Sarpi, frate dell’ordine dei Servi di Maria.

Sarpi fu una tra le fi gure più straordinarie del panorama cul-turale europeo dell’epoca: cultore di matematica, fi sica e medi-cina (è att ribuita a lui la scoperta della dilatazione della pupilla sott o l’eff ett o della luce), amico di Galileo, scritt ore di rara po-tenza espressiva, corrispondente dei maggiori intellett uali pro-test anti e gallicani, convinto teorico di un cristianesimo mite, essenziale, privo di ritualità e dogmi, assai vicino alla spiritua-lità del calvinismo moderato.

La sua opera più celebre fu l’Istoria del concilio tridentino, un capolavoro della polemica antiromana stampato a Londra nel 1619 e fi nito subito all’Indice. Sarpi vi lavorò praticamente per tutt a la vita, tenendo colloqui con alcuni fra gli ultimi protago-nisti viventi di quell’evento e mett endo le mani su documenti contenuti negli archivi di Venezia di cui oggi non possediamo più copia. Già dal 1608 presero a circolare anche a Roma voci inquietanti circa una misteriosa opera sul concilio che si stava approntando sulla laguna.

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Nella sua Istoria Sarpi raccontava come le aule conciliari fos-sero state lo scenario dell’alacre intervento, anziché dello spiri-to santo, della diplomazia pontifi cia, che aveva saputo trasfor-mare quello che era nato come sinodo di ricomposizione con i protest anti in una brillante operazione di centralizzazione del potere del papato sulla Chiesa: “Racconterò le cause e li maneg-gi d’una convocazione ecclesiastica […] che ha sortito forma e compimento tutt o contrario al dissegno di chi l’ha procurata et al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata […] Imperò che quest o concilio, desiderato e procurato dagl’uomini pii per riu-nire la Chiesa, che principiava a dividersi, per contrario ha così stabilito lo scisma et ordinate le parti, che ha fatt o le discordie irreconciliabili”97. Il matrimonio fra perizia storiografi ca, capa-cità narrativa e passione polemica trovò in quest’opera – scrit-ta in un secolo di mascheramenti e dissimulazione – uno fra i suoi vertici.

Dal 1608, e per una manciata d’anni, Venezia fu la colonna mediterranea di quell’internazionale calvinista che compren-deva l’Inghilterra, l’Olanda, il Palatinato e gli ugonott i francesi, e che mirava a contrastare l’egemonia politica e militare degli

97 Istoria del concilio tridentino, I, qui in Sarpi, Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Ricciardi, Milano – Napoli 1969, pp. 742-743.

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Asburgo d’Austria e di Spagna, il mostro papale-asburgico che dominava gli incubi dei protest anti di tutt o il continente. Sarpi e il suo allievo e collaboratore Fulgenzio Micanzio frequentava-no gli ambasciatori inglesi presso la Serenissima, Henry Wott on e Dudley Carleton, presso la cui residenza si celebrava la cena calvinista: e in eff ett i da più parti si dava per imminente il pas-saggio uffi ciale della Serenissima al protest antesimo.

In realtà la religiosità sarpiana era di per sé contraria agli ir-rigidimenti dogmatici che in quegli anni caratt erizzavano tutt e le confessioni, i catt olici come i luterani e i calvinisti, e favorevo-le invece a un programma di pacifi cazione condiviso con intel-lett uali come Isaac Casaubon, Ugo Grozio e Francesco Bacone.

Il sogno durò poco. Nel 1615 la Repubblica scese in guerra contro l’arciducato d’Austria, che sosteneva le incursioni dei pi-rati slavi, gli uscocchi, che minacciavano i possedimenti vene-ziani nell’Adriatico. Malgrado la vitt oria militare, la conclusio-ne della pace, nel 1618, lasciò il ceto dirigente veneziano nella chiara consapevolezza che la Repubblica non aveva più i mezzi per giocare un ruolo di potenza di primo piano.

L’interdett o, dopo il rifi uto del Senato di accondiscende-re alle richiest e della Santa Sede, divenne operativo l’11 mag-gio del 1606. Per la verità non ebbe grandi conseguenze sulla vita religiosa della Repubblica: nelle chiese, in massima parte,

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si continuò a celebrare la messa e a impartire i sacramenti, con l’esclusione di quelle dei gesuiti, dei teatini e dei cappuccini che per quest o fi nirono espulsi. Si aprì invece, con esso, un confl it-to fulmineo, la cosiddett a “guerra dell’interdett o”, una guerra combatt uta a colpi di stampa e di argomentazioni giuridiche e teologiche sulle prerogative giurisdizionali dell’autorità eccle-siastica e di quella civile.

Bellarmino, forse più per dovere d’uffi cio che per intima con-vinzione, scese in campo con l’abnegazione che già conosciamo. Le sue tesi in materia di esenzione del clero le aveva esposte nel-la controversia sulla Chiesa militante, in cui aveva tratt eggiato la natura ancipite degli ecclesiastici, che rifl ett eva il complesso intreccio di competenze fra il potere spirituale e il potere tem-porale: in quanto membri della comunità politica essi sono sog-gett i alle leggi del principe, ma in quanto membri del corpo mi-stico della Chiesa, che comprende la comunità politica ma le è superiore, essi non possono essere giudicati dai tribunali civili.

L’argomento faceva leva sulla duplice natura di Cristo: egli era stato esente dal potere dell’autorità secolare romana non in quanto uomo ma in quanto Dio, e quest a sua esenzione si era trasmessa alla Chiesa. Per quest o, sosteneva Bellarmino, il foro riservato ai chierici non era di diritt o divino, bensì umano. Nell’edizione del 1599 delle Disputationes, in realtà, modifi cò la tesi, considerando l’esenzione di diritt o divino e umano insieme:

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una correzione che rispondeva alla sempre più pressante neces-sità della Chiesa di tutelarsi dalle crescenti ingerenze delle au-torità statali nel controllo del clero.

Nel giro di pochi mesi il cardinale diede alla luce ben cinque pamphlet dirett i contro Sarpi e il collegio dei suoi collaboratori, i cosiddett i “sett e teologi di Venezia”. Il secondo di questi pam-phlet fu ristampato nel solo 1606 a Roma in quatt ro tirature, poi a Ferrara, Milano, Bologna, Viterbo e Firenze, e fu tradott o in latino e in francese. La guerra di carta dell’interdett o, infat-ti, stava sollevando l’interesse dell’opinione pubblica europea.

La strategia di Sarpi era quella di costringere Roma, per così dire, a inseguirlo. Da subito riuscì ad alzare il livello dello scon-tro dai tecnicismi giuridici della controversia giurisdizionalista alla discussione sui risp ett ivi limiti della Chiesa e dello Stato. Per quest o ebbe la genialità di far tradurre in italiano e gett are nel confronto due tratt ati di Jean Gerson contro la validità del-le punizioni ecclesiastiche. Gerson, cancelliere della Sorbona, nella prima metà del Quatt rocento era stato il massimo teori-co del conciliarismo, cioè della superiorità del concilio al papa; con quest o Venezia si chiamava idealmente a fi anco della Chiesa gallicana francese, che discendeva proprio da quella tradizione.

Le tesi opposte della potest as directa e della potest as indirecta tornavano, con quest o, a essere materia di discussione. Sarpi,

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che aveva conosciuto Bellarmino a Roma ai tempi di Sisto V ed era evidentemente sensibile alla questione, citò più volte il cardinale nei suoi libelli e nei consulti per il Senato, utilizzan-dolo paradossalmente a favore della Repubblica contro i fau-tori della plenitudo potest atis e costringendolo a muoversi sem-pre sulla difensiva.

L’analisi delle bozze manoscritt e della Risposta all e oppositioni di fra Paolo servita contra la sua scritt ura (Roma, 1606), compiu-ta da Stefania Tutino, mett e bene in evidenza la fatica di Bel-larmino nel rifare il punto delle proprie stesse aff ermazioni, le continue aggiunte e cancellature, il rifarsi alla sola edizione del 1599 delle Disputationes mett endo in ombra le divergenze di quest a risp ett o all’edizione originale. Non proprio la scritt u-ra militante che ci si att endeva a Roma: niente di paragonabi-le alla Paraenesis ad rempublicam Venetam del cardinal Baronio, l’“esortazione” che accusava senza mezzi termini il governo del-la Serenissima di att ingere ad argomenti ereticali confondendo temporale e spirituale98.

La contesa si concluse nell’aprile del 1607 grazie alla mediazio-ne di Enrico IV. L’interdett o fu ritirato e i due chierici consegnati

98 S. Tutino, Empire of Souls, op. cit., pp. 81 ss.

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al tribunale ecclesiastico: apparentemente si tornava alla situa-zione precedente, senza vincitori né vinti.

In realtà la Sede apostolica ne uscì tutt ’altro che bene, visto che le leggi del Senato sulla proprietà ecclesiastica furono con-fermate e, durante tutt o quell’anno, il clero veneto aveva tran-quillamente continuato a celebrare le funzioni. Anche la forza della potest as indirecta, fondata sul presupposto del risp ett o da parte dei fedeli delle misure canoniche emanate dal Vicario di Cristo, come la scomunica e, appunto, l’interdett o, ne usciva fortemente ridimensionata.

Era passato poco più di un decennio da quando Enrico di Na-varra, vincitore in guerra della Lega e degli spagnoli, era stato costrett o a implorare da Clemente VIII l’assoluzione dalla sco-munica, tutt avia sembrava un’altra èra. Forse il confl itt o ende-mico aveva alimentato lo scett icismo dei ceti dirigenti, o forse il potere temporale, anche nell’Europa catt olica, aveva affi nato rapidamente le armi.

Nel 1615 il cardinale Bellarmino, a sett antatré anni, pensava ormai soltanto all’aldilà. Le sue lett ure e i suoi scritt i erano pre-valentemente di genere mistico e contemplativo.

L’ultima sua apparizione sulla scena europea risaliva al 1610, e bisogna ammett ere che si era tratt ato di un addio da prota-gonista. In quell’anno era uscito alle stampe il suo maggiore

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compendio sul potere indirett o del papa, il De potest ate Summi pontifi cis in rebus temporalibus, scritt o come risposta all’opera postuma di un giurista catt olico scozzese residente in Francia, William Barclay, il De potest ate papae, fatt o pubblicare a Lon-dra da suo fi glio l’anno precedente.

Il libro di Bellarmino aveva suscitato in Francia fuoco e fi am-me. In maggio Enrico IV era stato assassinato da François Ra-vaillac, un giovane maestro di provincia allevato nell’odio verso gli ugonott i. L’ondata di paura e di sdegno era stata generale e il partito gallicano, dominante nei Parlamenti, ne aveva appro-fi tt ato per mett ere i gesuiti sul banco degli imputati come mas-simi teorici della dott rina del regicidio.

Sulla scia del timore di un ritorno alle guerre di religione era uscito di lì a poco un libello anonimo ma probabilmente da at-tribuire a Jean Dubois, un predicatore vicino alle posizioni dei politiques, i catt olici moderati che avevano determinato il suc-cesso politico di Navarra. Si intitolava Tocsin contre le livre de la puissance temporell e du pape, una “campana a martello” rivolta “al re [Luigi XIII], alla regina reggente, madre del re, ai prin-cipi di sangue, a tutt i i parlamenti, i magistrati, gli uffi ciali e i buoni e leali sudditi della corona di Francia”, insomma a tutt a la nazione affi nché stesse in guardia contro i veleni di Bellarmi-no: “Quest o bel cardinale nel suo libro ci rappresenta i ponte-fi ci come tanti Ciro, ardenti per il desiderio di tutt o possedere

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e ovunque comandare”; “La lett ura di quest o libro è pericolosa come la bava di un cane arrabbiato”99.

In novembre, davanti al Parlamento di Parigi riunito in se-duta plenaria, l’advocat-general Louis Servin aveva lett o interi brani del De potest ate Summi pontifi cis chiedendone l’incrimi-nazione. Il Parlamento aveva accolto favorevolmente la richie-sta vietando la stampa, la vendita e la lett ura del libro sott o minaccia di processo per lesa maest à, e aveva disposto di con-segnarlo al boia per il rogo pubblico davanti a Notre-Dame. Solo l’intervento della regina madre Maria de’ Medici, vedo-va di Enrico IV, aveva evitato l’onta imponendo la sosp ensio-ne della procedura.

Il 1615, dunque. Nell’aprile di quell’anno Bellarmino scrisse un breve test o, una lett era indirizzata a un carmelitano calabrese, il padre Paolo Antonio Foscarini, che aveva appena pubblicato a Napoli un librett o in cui avanzava un’interpretazione di al-cuni passi della Bibbia tale da concordarli con il nuovo sistema del mondo dett o “copernicano”, e cioè eliocentrico, dove era il sole a occupare il centro dell’universo mentre la terra orbitava

99 Tocsin au roi, à la reine régente, mère du roi, aux princes du sang, à tous les parlements, magistrats, offi ciers, et bons et loyaux sujets de la couronne de France, contre le livre de la puissance temporell e du pape, mis naguère en lumière par le cardinal Bell armin, jésuite, qui in Couderc, Le vénérable Cardinal Bell armin, op. cit., II, pp. 120 ss.

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intorno ad esso e compiva al tempo stesso una rotazione quo-tidiana sul proprio asse. Si intitolava Lett era sopra l’opinione de’ pitt agorici, e del Copernico.

Il cardinale, come abbiamo visto, aveva scritt o durante la sua lunga vita migliaia di pagine a difesa dell’autorità della Chie-sa romana. Il suo test o più citato e riprodott o è però probabil-mente quella lett era di tre capoversi, che rimase sconosciuta a tutt i fi nché non fu pubblicata dallo storico e fi losofo Domeni-co Berti nel 1876 nella sua raccolta su Copernico e il sistema co-pernicano in Italia.

I punti centrali della lett era erano sostanzialmente quatt ro. Primo, che era lecito sostenere per ipotesi, ma non come realtà l’eliocentrismo di Copernico, perché se quest o fosse vero allora sarebbe falsa la Scritt ura che in più punti scrive del moto del sole. Secondo, che un’esegesi della Scritt ura concordata con l’astro-nomia copernicana era contraria alla tradizione recepita nella Chiesa, dunque inammissibile a rigore dei decreti del concilio di Trento. Terzo, che non si poteva sostenere che l’astronomia non rientrasse tra le materie di fede, perché ogni singola parola del test o biblico è materia di fede. Quarto, che era assai dubbio che si potesse mai raggiungere alcuna dimostrazione fi sica della stabilità del sole e del moto della terra, e nei casi dubbi occor-reva sempre seguire l’autorità della tradizione.

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Al momento di stendere la lett era Bellarmino aveva sul tavo-lo due testi: l’operett a di Foscarini, fresca di stampa, e una copia della lett era indirizzata al monaco Benedett o Castelli dal nuo-vo scienziato uffi ciale del granduca di Toscana, Galileo Galilei, l’uomo che proprio nel 1610 – allorché il cardinale era impegnato nell’ultima batt aglia politica – aveva meravigliato l’Europa con il suo Sidereus nuncius, l’“annuncio” degli incredibili fenomeni cele-sti che aveva potuto osservare con il cannocchiale.

La lett era a Castelli risaliva alla fi ne del 1613 ed era stata conse-gnata al Sant’Uffi zio dai domenicani di Firenze, che vi subodorava-no proposizioni sosp ett e. Galilei stava lavorando per modifi carla, e nel 1615 l’avrebbe indirizzata quest a volta a un corrisponden-te di maggior rango, la granduchessa madre, Cristina di Lorena.

Come è noto, la Lett era a Cristina di Lorena costituisce la prima aperta rivendicazione dell’autonomia della scienza sp erimentale dalla fede: Galileo chiedeva apertamente alla Chiesa di lasciare che fossero gli scienziati, e non i teologi, ad avere l’ultima paro-la sui fenomeni della natura, e quindi di astenersi dal giudica-re l’astronomia con il metro delle discipline sacre. La lett era a Castelli, che praticamente costituiva l’archetipo della lett era a Cristina, era implicitamente indirizzata in primis a Bellarmino, il più autorevole dei cardinali del Sant’Uffi zio; Bellarmino lo sa-peva benissimo, e nella sua risposta menzionò esplicitamente il nome di Galilei accanto a quello di Foscarini.

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La lett era di Bellarmino a Foscarini conobbe tarda fama grazie alla grande opera di Pierre Duhem Sózein tà fainòmena, “salvare le apparenze”, una storia delle teorie fi siche da Plato-ne a Galilei, del 1908. In essa, Duhem analizzava lucidamente tutt e le ambiguità dello scienziato toscano nella sua lott a per il copernicanismo.

Galilei, infatt i, tra il 1615 e il 1616 aveva affi dato la propria strategia alla convinzione che la dimostrazione della falsità del sistema tolemaico geocentrico fosse suffi ciente a provare al di là di ogni dubbio quello copernicano, mentre all’epoca esisteva almeno una terza soluzione, quella dell’astronomo danese Ty-cho Brahe, che consentiva di “salvare” le apparenze del moto dei corpi celesti ponendo la terra al centro e gli altri pianeti a or-bitare att orno al sole, il quale a sua volta orbitava att orno alla terra. A sostegno di quest a critica, Duhem portava proprio l’au-torevole parere del cardinale.

Il test o di Bellarmino, con la sua distinzione fra ipotesi e veri-tà scientifi ca, introduceva un’importante variazione nel discorso positivista sulla nascita della scienza: la tradizionale immagine di uno scontro frontale fra tradizione e modernità andava ridiscus-sa, e non era più lecito parlare semplicemente di chiusura pregiu-diziale dell’ortodossia romana verso la nuova scienza.

Bellarmino, insomma, era riuscito ancora una volta, a tre se-coli di distanza, a difendere la Chiesa. Le tesi di Duhem furono

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riprese dal padre Gemelli nel 1942 e infi ne canonizzate da Gio-vanni Paolo II nel 1992, in occasione della chiusura dei lavori della Commissione vaticana di studi sulla questione galileiana.

Sappiamo che il cardinale era tutt ’altro che digiuno di astro-nomia. Già nelle sue lezioni di Lovanio si era espresso in favo-re della teoria dei cieli fl uidi (contro il modello tolemaico che prevedeva che i cieli, cioè le sfere sulle quali ruotavano i singoli pianeti, fossero fatt i della materia rigida e cristallina dett a “ete-re”), e nell’aprile del 1611 aveva scritt o ai matematici del Colle-gio Romano per avere il loro parere sulle scoperte enunciate nel Sidereus nuncius.

Le lett ere di Foscarini e Galilei, però, parlavano sopratt ut-to di altro. Non tanto dei fenomeni astronomici, quanto della teoria della verità che le nuove scoperte sott endevano. Quel-lo che chiedevano a Bellarmino era di convalidare la verità del copernicanismo con la massima nota di approvazione che po-tesse essere richiest a a un teologo, la dichiarazione di confor-mità alle fonti della fede. L’idea da cui partiva Galilei era quel-la di una verità della natura att ingibile dalla ragione att raverso il metodo sp erimentale, quello che in termini epistemologici è defi nito realismo.

Il punto è che il cardinale Bellarmino era un esp erto di veri-tà, anzi il massimo esp erto di verità a disposizione della Chiesa

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romana. E il suo punto di vista era profondamente diverso da quello galileiano. Nelle Lectiones lovanienses aveva aff ermato esplicitamente che “il vero senso della Scritt ura non è in con-trasto con nessun’altra verità, sia essa fi losofi ca o astronomica”. Nel caso del sistema copernicano, però, le due verità, quella scientifi ca e quella biblica, confl iggevano, sostenevano princìpi contradditt ori: e dalla sua prosp ett iva non poteva esserci alcun dubbio sul fatt o che, quando la Scritt ura e la tradizione erano in gioco, era la verità del teologo ad avere la parola conclusiva su quella dello scienziato.

L’esito della procedura contro Copernico, con la proibizio-ne delle due tesi della centralità del sole e del moto della terra, risp ecchiò limpidamente quest a posizione. Il copernicanismo non fu condannato in quanto teoria astronomica, ma in quanto verità, e il libro di Copernico De revolutionibus orbium coelestium (“le rivoluzioni delle sfere celesti”) posto all’Indice fi nché non fossero stati corrett i i passi nei quali si spiegava la teoria elio-centrica non come una semplice ipotesi, ma come una realtà.

Ai catt olici, insomma, si chiedeva non di voler conoscere la verità per come realmente era, ma semplicemente di crederla, di crederla secondo il dett ato della dott rina, con un att o che implica-va la ragione ma anche, prima di tutt o la volontà. Decisamente il cardinale Bellarmino era ben lontano dal voler impartire a Gali-lei una lezione di metodo scientifi co: davanti a un diverso regime

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di verità come quello della scienza sp erimentale il suo richiamo fu comunque a una ragione superiore, la ragione dell’autorità.

Il cardinale Bellarmino morì il 17 sett embre 1621. Le ultime sett imane di vita furono una sp ecie di teatro della santità all’e-stremo della vita: agonizzante, circondato dai più fedeli disce-poli del Collegio Romano, ricevett e anche la visita commossa di papa Gregorio XV.

Da quel giorno si aprì un’altra storia, quella del suo processo di canonizzazione fortemente voluto dai gesuiti e ripetutamente arrest ato dai giochi di potere e di rivalità interni alla curia ro-mana, o dalle ostilità che sempre circondarono la Compagnia di Gesù. È una storia ancora tutt a da scrivere in cui si risp ecchia un frammento della storia della Chiesa moderna.

Il processo fu aperto a Roma e Montepulciano nel 1622, e a Capua l’anno successivo. Urbano VIII fi rmò l’introduzio-ne della causa nel dicembre del ’26, ma appena dopo emise il decreto di riforma del processo canonico che fi ssava a cin-quant’anni il termine minimo per l’introduzione delle cause dei confessori (i candidati alla santità celebri per la fede an-ziché per il martirio).

La Congregazione dei riti riaprì la causa nel 1675 e si arrivò vicini alla dichiarazione delle virtù in grado eroico, il primo pas-so per la beatifi cazione. Fu in quest o momento che il promotore

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della fede Prosp ero Bott ini recuperò l’autobiografi a di Bellarmi-no e la fece distribuire a stampa fra i cardinali. Quello scritt o, per le espressioni irriverenti verso i pontefi ci, per la rivelazione di segreti come quello della Vulgata sistina, per la scarsissima aria di umiltà che spirava dalle sue pagine, divenne da allora la pietra dello scandalo della santità bellarminiana. Nel 1677 e di nuovo nel 1752 l’opposizione dei grandi cardinali giansenisti come Casanate, Azzolini o Cavalchini fece aff ondare il processo.

La causa fu riassunta con un rescritt o di Leone XII alla Con-gregazione dei riti nel 1827. Due anni dopo il papa morì ed essa si fermò di nuovo. Infi ne, tutt o giunse rapidamente a buon fi ne nel volgere di pochi anni in un clima completamente nuovo: la causa fu riaperta nel 1919, la beatifi cazione seguì nel 1923 e la canoniz-zazione nel 1930, un anno dopo la fi rma dei Patt i Lateranensi.

Bellarmino era fi nalmente il santo protett ore della nuova al-leanza fra trono e altare conclusa contro il socialismo, il comuni-smo, l’ateismo e le altre ideologie della modernità. Quanto quest o sia stato il frutt o di una coerente ricezione del suo pensiero oppure di un distorsione storica, naturalmente, dipende dai punti di vista.

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Di Roberto Bellarmino non esistono vere e proprie biografi e recenti. Le opere di riferimento in materia, concepite tutt a-via con un intento agiografi co, sono: J.-B. Couderc, Le Vénérable Cardinal Bell armin, Victor Retaux et fi ls, Paris 1893; J. Bro-drick, The Life and Works of Robert Francis Cardinal Bell armine, SJ, 1542-1621, Burns Oates and Washbourne, London 1928.

Ricche di contributi le due raccolte di saggi Bell armino e la Controriforma, a cu-ra di R. De Maio et al., Centro di studi sorani “Vincenzo Patriarca”, Sora 1990, e Roberto Bell armino Arcivescovo di Capua, teologo e past ore dell a Riforma catt olica,

a cura di G. Galeota, Archidiocesi di Capua-Istituto superiore di scienze re-ligiose, Capua 1990.

Sulla produzione teologica di Bellarmino in generale, cfr. J. de la Servière, La théo-logie de Bell armin, Gabriel Beauchesne, Paris 1909; X.-M. Le Bachelet, Bell armin et les Exercices spirituels de Saint Ignace, Bibliothèque des Exercices-P. Lethiel-leux, Enghien-Paris 1912; H. van Laak, De operibus s. Roberti Bell armini, Pontifi -cia Università Gregoriana, Roma 1930; E.A. Ryan, Th e Historical Scholarship of Saint Bell armine, Bureaux de la Revue-Bibliothèque de l’Université, Louvain

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1936. Sulla sua ecclesiologia e, più in ge-nerale, sulla teoria dell’infallibilità papale: U. Horst, Papst-Konzil-Unfehlbarkeit. Die Ekklesiologie der Summenkommentäre von Cajetan bis Bill uart, Matt hias-Grünew-ald-Verlag, Mainz 1978; T. Dietrich, Die Th eologie der Kirche bei Robert Bell armin (1542-1621). Systematische Voraussetzun-gen des Kontroverstheologen, Bonifatius Druck-Buch-Verlag, Paderborn 1999.

Sul suo periodo lovaniense cfr. G. Ga-leota, Bell armino contro Baio a Lovanio. Studio e test o di un inedito bell arminiano, Herder, Roma 1966; M. Biersack, Initia bellarminiana. Die Prädestinationslehre bei Robert Bell armin SJ bis zu seinen löwener Vorlesungen 1570-1576, Franz Steiner Ver-lag, Stutt gart 1989; L. Ceyssens, Bell armin et Louvain (1569-1576), in L’augustinisme à l’ancienne faculté de théologie de Louvain, a cura di M. Lamberigts, Uitgeverij Pe-eters-Leuven University Press, Leuven-Louvain 1994, pp. 179-205.

Sulla sua att ività presso le congrega-zioni dell’Indice e del Sant’Uffi zio, cfr. P. Godman, Th e Saint as Censor. Robert Bell armine between Inquisition and Index, Brill, Leiden-Boston-Köln 2000.

Sulle vicende della messa all’indice delle Disputationes e della Vulgata sistina cfr.

X.-M. Le Bachelet, Bell armin à l’Index. Documents nouveaux, in “Études”, 44, 1907, pp. 227-246; id., Bell armin et la Bi-ble Sixto-Clémentine. Étude et documents inédits, Gabriel Beauchesne et c.ie, Paris 1911. Sul De offi cio primario Summi pon-tifi cis, cfr. K. Jaitner, De offi cio primario Summi pontifi cis. Eine Denkschrift Kardinal Bell armins für Papst Clemens VIII (Sept./Okt. 1600), in Römische Kurie. Kirchliche Finanzen. Vatikanisches Archiv. Studien zu Ehren von Hermann Hoberg, a cura di E. Gatz, Università Gregoriana Editrice, Roma 1979, I , pp. 377-403.

Il pensiero politico di Bellarmino è senza dubbio il più indagato: fra gli altri titoli, cfr. F.X. Arnold, Die Staatslehre des Kar-dinals Bell armin. Ein Beitrag zur Rechts- und Staatsphilosophie des konfessionell en Zeitalters, Max Hueber, München 1934; S. Roberto Bell armino. Scritt i politici, a cura di C. Giacon, Zanichelli, Bologna 1950; R. Darricau, Princes et peuples dans leur réciproque fi délité chez les docteurs catholi-ques de Bell armin à Muratori, in Hommage à Roland Mousnier. Clientèles et fi délités en Europe à l’Epoque moderne, a cura di Y. Durand, Presses universitaires de France, Paris 1981, pp. 25-55; V. Frajese, Una teoria dell a censura: Bell armino e il potere indiret-to dei papi, in “Studi storici” 25/1, 1984, pp. 139-152; J.-R. Armogathe, Bell armin,

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Sarpi et Hobbes: L’interprétation politique des Écritures, in L’interpretazione nei secoli XVI e XVII, a cura di G. Canziani e Y. Ch. Zarka, FrancoAngeli, Milano 1993, pp. 537-547; G. Nardone, La controversia sul giudice dell e controversie. Il cardinale Bell armino e Th omas Hobbes, in Roberto Bell armino Arcivescovo di Capua… cit., pp. 543-626; F. Mott a, Bell armino. Una teolo-gia politica dell a Controriforma, Morcel-liana, Brescia 2005; S. Tutino, Empire of Souls. Robert Bell armine and the Christian Commonwealth, Oxford University Press, Oxford 2010.

Infi ne, sull’autobiografi a, cfr. G. Bu-schbell, Selbstbezeugungen des Kardinals Bell armin. Beiträge zur Bell arminforschung, Franz Aker, Krumbach 1924; una tra-duzione recente (ma la traduzione uti-lizzata per il presente volume è di chi scrive) è Autobiografi a (1613), a cura di G. Galeota, Morcelliana, Brescia 1999.

Sulle dinamiche religiose e politiche della Riforma catt olica e della Contro-riforma, fra i tanti titoli, cfr. G. Alberigo, Carlo Borr omeo come modell o di vescovo nell a Chiesa post-tridentina, in “Rivista storica italiana” 79/4, 1967, pp. 1031-1054; M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Gio-vanni Morone e il suo processo d’eresia, il

Mulino, Bologna 1992; L. Châtellier, La religion des pauvres. Les missions rurales en Europe et la formation du catholicisme moderne XVIe-XIXe siècle, Aubier, Paris 1993; M. Terni, La pianta dell a sovrani-tà. Teologia e politica fra Medioevo ed età moderna, Laterza, Bari 1995; A. Prosp e-ri, Tribunali dell a coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996; G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiast ica e i volgarizzamenti dell a Scritt ura (1471-1605), il Mulino, Bologna 1997; C. Quaranta, Marcell o II Cervini (1501-1555). Riforma dell a Chiesa, concilio, Inquisizione, il Mulino, Bologna 2010; Papato e politica internazionale nell a prima età moderna, a cura di M.A. Visce-glia, Viella, Roma 2013; Firpo, La presa di potere dell ’Inquisizione romana 1550-1553, Laterza, Roma-Bari 2014.

Sull’arte oratoria della Riforma catt olica, cfr. M. Fumaroli, Cicero pontifex roma-nus. La tradition rhétorique du Coll ège Romain et les principes inspirateurs du mécénat des Barberini, in “Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Age-Temps modernes”, 90/2, 1978, pp. 797-835; C. Delcorno, Dal “sermo modernus” all a retorica “borr omea”, in “Lett ere italiane”, 39/4, 1987, pp. 465-83; S. Giombi, Processi di disciplinamento linguistico nell a prima età moderna: teorie sull a retorica sacra fra

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