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Con il patrocinio di / Sub la aŭspicioj de Universala Esperanto-Asocio en konsultaj rilatoj kun Unesko / in relazioni consultive con l’Unesco

Ecologia linguistica: ha senso parlarne?

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Con il patrocinio di / Sub la aŭspicioj de

Universala Esperanto-Asocioen konsultaj rilatoj kun Unesko / in relazioni consultive con l’Unesco

Multilinguismo e Società2010

Edistudio

Multilinguismo e SocietàAnno 2010Atti della della giornata di studi del 25 novembre 2008 a Firenze dedicata al tema: “2008: Anno Internazionale delle Lingue Diritti Umani e Diritti Linguistici”© 2009, Edistudio, Pisa, EURegistro dei periodici del Tribunale di Pisa n° 17 dell’11 luglio 2008Registro degli Operatori di Comunicazione n° 9545 del 30 gennaio 2004Direttore responsabile: Brunetto CasiniComitato Scientifico:

Davide Astori, Università di ParmaDetlev Blanke, Humboldt-Universität zu Berlin, GermaniaRenato Corsetti, Università di Roma, La SapienzaProbal Das Gupta, Indian Statistical Institute, Calcutta, IndiaSergio Di Sano, Università di Chieti-Pescara, G. d'AnnunzioGiordano Formizzi, Università di VeronaGabriele Iannàccaro, Università di Milano-BicoccaCarlo Minnaja, Università di PadovaFabrizio Angelo Pennacchietti, Dipartimento di Orientalistica, Università di Torino.Humphrey Tonkin, University of Hartford, U.S.A.Paolo Valore, Dipartimento di Filosofia, Università di Milano.

ISSN: 2036-4482Abbonamento annuo: € 15,00. Jara abono € 15,00.

L'abbonamento va pagato a:La jara abono devas esti pagita al:Edistudio di Brunetto Casini, C.P. 213, I-56100 Pisa, Italia / Italujo, EU.sul conto corrente postale / al pĉk: 12230561 "Edistudio, Pisa"o sul conto bancario / aŭ al banka konto: IT58L0838514000006000200049 "Edistudio di Brunetto Casini"BIC SWIFT PCRAIT3FAP0o sul conto UEA / aŭ per la UEA-konto: edst-j

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I diritti linguistici

Atti della della giornata di studi del 25 novembre 2008 a Firenze dedicata al tema:

“2008: Anno Internazionale delle Lingue Diritti Umani e Diritti Linguistici”

a cura di Davide Astori

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Ecologia linguistica: ha senso parlarne?

Gabriele IannàccaroUniversità di Milano-Bicocca

[email protected]

Di questi tempi è difficile rinunciare a una visione “ecologica” delle cose che ci inte-ressano: il dissesto del nostro pianeta e le ardue operazioni di riparazione dei danni ormaiplurisecolari che gli abbiamo apportato rendono davvero improbabile il disinteressarsi aproblemi, in senso lato, di conservazione dell’ambiente. Fra questi, dell’ambiente umanoe culturale: come il cemento e l’asfalto uccidono le foreste, così la globalizzazione e l’ingleseuccidono lingue e culture millennarie, si usa dire con rammarico. Dunque anche la lingui-stica si pone nella prospettiva di tentare un approccio ecologico alle sue istanze di ricerca;e non da adesso: risale agli anni Settanta del Novecento la prima proposta in questo senso(HAUGEN 1972), e da allora molti contributi si sono succeduti, intensificandosi compren-sibilmente dalla seconda metà degli anni Novanta1. E varrebbe in effetti la pena di tracciareun bilancio, una sorta di discussione epistemologica dell’ecologia linguistica; ma – a parteil fatto che questo è in parte stato fatto, al 2002, nei brillanti interventi di Dressler e Cuz-zolin (DRESSLER 2002, CUZZOLIN 2002) – ciò non sarà qui neppure tentato. Ci si limiteràa qualche nota, a suggerimenti che possono forse essere utili per rilanciare, in futuro, il di-battito.

Ecologia linguistica: molto rozzamente, lo studio delle lingue considerate nel loro am-biente fisico e culturale; dunque delle interrelazioni fra lingua da un lato e spazio, tempo,cultura, religione, società, economia della popolazione che la parla dall’altro – benintesodella popolazione a sua volta inserita in un più ampio contesto sociogeografico2; ciò signi-ficherebbe che abbiamo pochi sistemi ecolinguistici in precario equilibrio, ma soprattuttouna quantità di altri a rischio di alterazione e scomparsa, e proprio su questi si appunta ingenere l’attenzione degli studiosi. Interessante è appunto il concetto di sistema ecolingui-stico, diremmo: significa che – così come non c’è nessuna specie naturale che viva isolata– nessuno spazio è monolingue, e che le lingue vanno studiate, e capite, in relazione sì al-l’ambiente nelle quali sono parlate, ma anche in relazione le une alle altre in compresenza,

1. La bibliografia tende in effetti a diventare sterminata; citeremo solo le opere alle quali direttamente ci ri-facciamo, segnalando tuttavia qui il volume che riunisce gli atti del Convegno del 2002 della Società diLinguistica Italiana, appunto dedicato all’Ecologia Linguistica (VALENTINI-MOLINELLI-CUZZOLIN-BERNINI

(acd) 2003) e i saggi ricapitolativi di Dressler e Cuzzolin in quello stesso volume. Si veda anche BANFI 2009.2. L’accennata discussione epistemologica potrebbe proprio prendere le mosse dalla specificità di una “ecologia

linguistica” rispetto alle categorie di analisi ormai classiche di sociolinguistica e etnolinguistica; chi scriveè dubbioso, con DRESSLER 2002, di questa specificità, ma cfr. oltre.

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come si studia il rapporto fra leone e gazzella3. Facciamo un esempio, in cui la nostra savana, per così dire, è costituita dalla Lettonia

orientale, un territorio intrinsecamente plurilingue che vede affiancati lettone, russo, lat-galo, bielorusso, polacco (con tracce di tedesco, ucraino, lituano, yiddish). Già solo l’elencodelle varietà parlate è notevole, ma la realtà linguistica è ancora più complessa, propriocome un vero ecosistema4. Intanto il latgalo: è una varietà orientale, appunto, di baltico,attestata dalla metà del ‘700 ma mai giunta al ruolo di lingua ufficiale; anzi, è tuttora con-troverso il suo status di “lingua”: molti, anche nell’amministrazione pubblica, la conside-rano un dialetto del lettone – e sul numero e la definizione di lingue nel mondo dovremotornare con maggiore specificità. Di fatto la distinzione fra lettone e latgalo è, oltre che forselinguistica, soprattutto religiosa: ite mes rujonam katūļu volūdu ‘qui parliamo la lingua cat-tolica’, in latgalo, è una frase che si sente rispondere spesso alla domanda “che lingua par-late”? I lettoni sono protestanti, i latgali cattolici; ma anche fra i russi si devono distingueredue gruppi: quelli che abitano il territorio da molti secoli, veterocredenti di religione eportatori di una varietà di russo tutto sommato accettata anche dalla componente balticadella società, e coloro che si sono trasferiti (non necessariamente di loro volontà) ai tempidell’Unione Sovietica, ortodossi e parlanti un russo “che va un po’ meno bene”. A Rēzekne,capoluogo della Latgalia, la piazza centrale della città vede tre chiese l’una di fronte all’altra:protestante, cattolica e ortodossa – mentre la piccola basilica veterocredente è un po’ spo-stata verso sud-est.

Anche le etichette di polacco e bielorusso, le altre lingue importanti dell’area, sonolontane dall’essere pacifiche: “polacchi” si autodefiniscono gli slavi occidentali cattolici,anche se non necessariamente parlano polacco (ma mandano alla scuola polacca i lorofigli, che talora non capiscono nulla perché nella loro famiglia si parla in realtà bielorusso),mentre “bielorussi” sono in gran parte gli slavi (un po’ più) occidentali (dei russi) che siprofessano ortodossi: e talora parlano polacco. Così fattori linguistici, politici, religiosi esociali si intersecano in modo inestricabile nel panorama linguistico della Latgalia; e questoecosistema va, ovviamente, inquadrato nel più ampio contesto della Lettonia indipendentee in via di rapida de-sovietizzazione, dove il solo lettone è lingua ufficiale e il russo è linguariconosciuta, talora mal tollerata ma parlata da quasi metà della popolazione, talora linguadell’alta cultura e talora lingua solo degli anziani – i giovani non lo sanno più, viene rapi-damente sostituto dall’inglese5.

3. Cfr. DAL NEGRO-IANNÀCCARO 2002. Fra i temi più recenti di indagine ecolinguistica ci pare particolar-mente promettente quello suggerito da Florian Coulmas in un’incontro a Bergamo nel dicembre del 2009:la considerazione dell’età media di una comunità linguistica. I parlanti giapponese hanno un’età media dipiù di 44 anni, quelli poniamo dell’Uganda di circa 15.

4. Sull’area è stata condotta dal Centre d’Études Linguistiques pour l’Europe (CELE), insieme alla RēzeknesAugstskola, una vasta inchiesta sociolinguistica che ha coinvolto circa 80 pagasti (municipalità) della Latgaliaper un totale di circa 10000 intervistati, conclusa nel 2008; per i primi risultati e una presentazione me-todologica si cfr. ŠUPLINSKA-LAZDIŅA 2008, DELL’AQUILA-IANNÀCCARO 2008, LAZDIŅA-ŠUPLINSKA 2009,DELL’AQUILA-IANNÀCCARO 2009, DELL’AQUILA-IANNÀCCARO in stampa; per una più approfondita discus-sione su metodi di inchiesta e analisi ci si può rifare a DELL’AQUILA-IANNÀCCARO (2006, 2008).

5. Con una perdita secca di competenza; la generazione dei quarantenni (e oltre) ha di fatto una competenzadel russo da nativo, quale che sia la lingua madre, mentre i ventenni sono portatori solo di uno spesso pes-

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Secondo esempio: come interpretare la fig. 1.?

Fig. 1. Lettera di una ragazza jukaghira all'ex-fidanzato (1910 circa)6

Le figure a forma di pino rappresentano persone: chi scrive (riconoscibile come donnadalla “treccia” che appare sulla destra, è la seconda figura da destra, il destinatario la terza.Il messaggio dice più o meno: “Mi hai lasciato per accompagnarti a una donna russa (iden-tificata come tale per mezzo dei segmenti laterali a pois, che riproducono le tipiche gonnerusse): lei ha spezzato l’unione che c’era fra noi (dalla testa della russa parte una linea cheinterrompe le due linee fra mittente e destinatario). Abitate insieme (sopra le due figurecentrali c’è una struttura con un tetto), ma so che i vostri rapporti non sono pacifici (lineespezzate che li congiungono); d’altronde io sono sola in casa e sono triste (le linee a crocedietro la scrivente). Ti penso ancora (linea superiore a ricciolo che parte dal mittente versoil destinatario), ma ho adesso un pretendente (figura a destra, con linea a ricciolo verso ilmittente): se vuoi tornare da me va bene, ma fallo prima di avere figli (le due piccole figurea sinistra, in procinto di entrare nella “casa”)”. Si tralasciano numerosi particolari minori.È evidente che, mentre possiamo paradossalmente “leggere” la lettera senza sapere una pa-rola di jukaghir grazie alla natura semasiografica della sua scrittura7, la sua interpretazioneculturale (la sua decrittazione, se si vuole) è del tutto impossibile senza tener conto delcontesto ecologico di riferimento: le foreste della taiga siberiana, la presenza di donne russe

simo inglese. Tuttavia sono pochi i genitori baltici che decidono di tramandare il russo ai propri figli.I molto anziani, a Rīga, parlano in genere anche un ottimo tedesco, con lessico e accento prussiano.

6. Da IANNÀCCARO 2008: 189.7. Cfr. IANNÀCCARO in stampa.

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dalle gonne a pois, la relativa libertà e emancipazione delle ragazze jukaghire, e così via.

Ma rimaniamo in ambiente paleosiberiano per riprendere qualche considerazione suinomi e sul numero delle lingue. Il kerek, per esempio, è una varietà čukotko-kamčadalatradizionalmente parlata sullo stretto di Bering, che conta 15 parlanti al censimento del2002, ma solo due o tre secondo la fonte più pessimista (VOLODIN 1991): ebbene, questisarebbero divisi in due dialetti, mejnjpilgyno ‘superiore’ (uno o due parlanti), e khatyrka‘inferiore’, con un solo parlante. Il kerek, che fra l’altro non ha varietà scritta né accede ailivelli dell’istruzione neppure elementare, è una lingua? e che cosa fa del mejnjpilgyno edel khatyrka dei dialetti? e l’unico parlante di khatyrka con chi lo parla? Oppure si consideriil nivx, che con i suoi 400 parlanti circa (GRUZDEVA 1997) è forse una lingua (divisa indialetti, beninteso!), ma forse addirittura una minuscola famiglia linguistica, che si estendesulle coste dell’Amur e nella parte nord dell’Isola di Sakhalin8. I parlanti del continente noncapiscono quelli dell’isola, anche se, si dice, parlano la stessa lingua – o forse parlano sem-plicemente due lingue imparentate.

Dunque quante lingue ci sono al mondo? Ossia, l’ecologia delle lingue da quante specieè composta? e di queste, quante sono a rischio di estinzione? e che cosa vuol dire estinzionedi una lingua9? Il problema sembra irresolubile, perché prima dovremmo capire che cosaè una lingua; ma vediamo qualche numero: le lingue del mondo sono circa 4000 (Comrie1990: 2), oppure 5000 (Ruhlen 1987: 1-3) o 6500 (Nettle 1999: 1) o 10000 (Crystal1987: 284), che poi fissa il numero “esatto” a 4522 (Crystal 1987: 288); il database diEthnlogue riporta 7413 nomi primari di lingue, mentre Crystal (1987: 283) ne indica piùdi 22000 (fra cui nomi quali aakwo, bella, coola, blood, bok, deerie, grawadungalung, i, ku-kukukulule, maraawaree, mimica, ngqeq, nupe, ok, ron, santa, tzotzil, u, yangman)10.

Ma restringiamo il nostro sguardo alle lingue romanze, che sono, come è noto, 5: por-toghese, spagnolo, francese, italiano, rumeno. Queste le lingue ufficiali e nazionali; peròin verità le lingue romanze sono 14: portoghese, gallego, spagnolo, catalano, francese, oc-citano, francoprovenzale, italiano, ladino, romancio, friulano, sardo, dalmatico, rumeno:queste le lingue riconosciute all’interno degli Stati. Però in verità le lingue romanze sono27: portoghese, mirandese, gallego, asturiano, aragonese, spagnolo, catalano, valenziano,baleare, francese, piccardo, wallone, occitano, aquitano, francoprovenzale, piemontese,veneto, italiano, ladino, romancio, friulano, sardo, siciliano, dalmatico, istrorumeno, ru-meno, moldavo: lingue che in qualche maniera sono considerate tali, dai parlanti e da al-cune istituzioni. Ma possiamo pensare che sono ∞ (infinito): solo in un angolino dellaprovincia di Varese abbiamo mombellese, lavenese, travaglino, monvallino, sangianotto

8. Per ulteriori notizie su queste e altre lingue paleosiberiane cfr. IANNÀCCARO 2008.9. Oltre al citato BANFI 2009 si occupano specificamente del problema MÜHLHÄUSLER 1996, DIXON 1997,

GRENOBLE- WHALEY 1998, CALVET 1999, CRYSTAL 2000, HAGÈGE 2000, NETTLE-ROMAINE 2001,DALBY 2002, AUSTIN-SIMPSON 2007, MOSELEY 2010; molte liste e indicazioni si trovano poi sul web; peruna rivista BANFI 2009. Sul problema della morte delle lingue ancora CRYSTAL 2000, ma sono fondamen-tali DRESSLER-WODAK 1977, DORIAN (1981, 1989), BRENZINGER 1992; in ambito italiano DAL NEGRO

2004.10. Devo la scelta dei nomi, particolarmente evocativa, a BANFI 2008: 39.

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(o presso i giovani sangianese), besozzino, cittigliese. Nessuno sa dove fermarsi: fra mom-bellese e lavenese, (parlate in frazioni dello stesso comune, distanti tre di minuti di auto-mobile l’una dall’altra), oltre a diversità lessicali, cambiano, per dire e fra le altre cose, gliesiti di -L- latina ([r]/[l]), di -A ([e]/[a], della desinenza di I pers. sing. di una classe verbale(-ai/-u). Più di quanto non cambi fra due lingue ufficiali d’Europa, il rumeno e il moldavo(ancora così chiamato e difeso nella autoproclamata Repubblica di Transnistria).

Così non è chiaro se il latgalo sia una lingua o un dialetto; anche perché, in Lettonia,una lingua minore, riconosciuta, c’è, ed è il livone, varietà ugrofinnica che conta un’ottan-tina di parlanti, più o meno (chi scrive ha una fotografia con tutti i parlanti livone di menodi trent’anni, 17 persone in tutto); non è dunque l’aspetto demografico, quello che contaper costituire lingue diverse. Il linguista di questo prende serenamente atto, ricordando an-cora una volta l’ormai notissima massima, un po’ scherzosa, di Maks Vaynraykh: “Ashprakh iz a diyalekt mit an armey un a flot” (‘una lingua è un dialetto con un esercito euna marina’ WEINREICH 1945: 12). E talora senza esercito e senza marina, come il livone;e talvolta eserciti e marine non hanno lingue dietro di sé, come in molti contesti centroa-fricani. Ora però, se due varietà sono radicalmente diverse e incomprensibili, come po-niamo italiano e nivx, sono ovviamente due lingue (Abstandsprachen ‘lingue perdistanziazione’, secondo la ancora ottima sistematizzazione di KLOSS 1952); ma italianoe francese, lettone e latgalo, sono (ormai) diverse per evoluzione storica, sociale, politica:sono Ausbausprachen ‘lingue per elaborazione’. È facile dirlo per le lingue storiche, europee,conosciute: ma chi potrà informarci sulla natura di Ausbau del maraawaree, per esempio,o anche solo del mombellese, se non veniamo dall’alto varesotto? Al linguista interessa ladiversità linguistica in quanto tale: ma lo studio di una varietà nel suo ambiente, nella suacultura, nella sua percezione presso i suoi stessi parlanti è di grande aiuto per questo pro-blema.

Non è difficile – e in particolare, come si notava, in questa temperie culturale – trovareragioni per propugnare una visione ecologica dei fatti di lingua, qualunque cosa ciò vogliadavvero dire (e si noti che da ‘disciplina dell’ecologia linguistica’ siamo passati a ‘visioneecologica dei fatti di lingua’, con un annacquamento epistemologico notevole; e si notianche che, come si diceva alla nota 2, non è detto che una tale visione non sia agevolmentericompresa nelle sperimentate categorie di analisi sociolinguistica ed etnolinguistica). Èforse più interessante considerare qualche spunto che indurrebbe piuttosto a rivedere insenso limitativo o critico questa attenzione tutelante verso la diversità linguistica e culturale.Per esempio il commento di una madre afroamericana al programma di acculturazioneche la municipalità di New York aveva intrapreso negli anni ottanta a favore della comunitànera, e che prevedeva lezioni di cultura minoritaria:

i genitori di bambini neri non vogliono che i loro figli studino cultura afro-americana o che ricevano un’educazione multiculturale – queste sono coseda bianchi; i bambini neri devono essere bravi in scienze, in storia, in geo-grafia, insomma in tutto ciò che la società ritiene più importante.11

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Ossia: la diversità culturale e linguistica va bene, ma solo dopo che sono stati assicuratiai parlanti altri beni importanti, quali per esempio, per la madre che abbiamo appena sen-tito, la garanzia di uguaglianza nelle opportunità sociali12.

Questo è un punto che deve essere tenuto in seria considerazione: la volontà del par-lante, del gruppo sociale e culturale che è appunto portatore della distanza ecolinguistica.E se fossero loro, a non voler conservare la “biodiversità” linguistica? Un altro esempio dalCanton Grigioni, in Svizzera, dove la quarta lingua ufficiale, il romancio, è in realtà costi-tuito da (almeno) cinque varietà ufficiali, ognuna con i suoi dialetti: e l’assenza di unaqualunque variante che possa assumere le funzioni di koinè crea, come è comprensibile,problemi all’amministrazione soprattutto federale. Questo perché il cantone dei Grigioniha, fino a tempi molto recenti, utilizzato quattro varietà linguistiche per le comunicazioniufficiali con i suoi comuni: in linea di massima, il sursilvano per i comuni della Surselva,il vallader per i comuni della Bassa Engadina, l’italiano per i Grigioni italiani e il tedescoper i comuni germanofoni e quelli di lingua ufficiale sutsilvana, surmirana o puter, comuniquesti che, per non essersi voluti adattare a varietà romance non perfettamente coincidenticon la propria, hanno conosciuto un deciso arretramento degli ambiti d’uso della proprialingua a vantaggio del tedesco amministrativo. Per ovviare in parte a questi problemi, nel1982 è stato dato incarico a Heinrich Schmid di approntare la grammatica di una linguacomune, in seguito chiamata rumantsch grischun, che potesse servire da codice passivo uffi-ciale13. Oltre a problemi di tipo identitario, legati alla difficile accettazione da parte dei par-lanti di una varietà artificiale, vicina sì alle varianti locali, ma pur sempre diversa, ciinteressa qui la preoccupazione espressa da molti genitori sull’eccessivo carico linguisticoper i ragazzi che l’introduzione del rumantsch grischun nelle scuole comporta. Una rea-zione tipica è stata da noi raccolta a Disentis/Muster: l’informatrice lamentava l’alto nu-mero di lingue presenti nel curriculum scolastico dei suoi ragazzi, enumerando il romancio(locale), il tedesco, l’italiano ed eventualmente l’inglese o il francese e dichiarando che l’ag-giunta di un ulteriore codice, appunto il rumantsch grischun, sarebbe stato davvero ecces-siva. Ora, però, il tedesco che i ragazzi studiano a scuola è profondamente diverso dallavarietà alemannica, che costituisce, semmai, la varietà di comunicazione per i rapporti ex-travallivi e necessaria per accedere all’istruzione superiore: i due codici sono tuttavia, nellapercezione dell’informatore, assimilati e non costituiscono lingue diverse; cosa che inveceaccadde per il rumantsch grischun nei confronti della parlata locale, ancorché le differenzetra questi ultimi siano molto inferiori rispetto a quelle tra svizzero tedesco e tedesco stan-dard14.

11. “Black parents don’t want black studies or multicultural education for their children – that is for white chil-dren; black pupils need to be good at science, history, geography – at what society thinks of as things ofworth” (Woolford, in EDWARDS 1985: 131).

12. TO, nelle parole di una lettera giunta a Le monde diplomatique nel settembre 2002: “il sera éthique de pro-téger les écosystèmes quand nous serons capables de protegér chaque être humain de la misère”.

13. Cfr., in italiano, IANNÀCCARO-DELL’AQUILA 1994: 88-90 (da cui il presente passaggio è adattato) e la bi-bliografia ivi contenuta.

14. Situazioni e sentimenti molto simili emergono dall’inchiesta del CELE sulla Ladinia dolomitica; cfr. IAN-

NÀCCARO-DELL’AQUILA (2001, 2006).

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Qui non sono in gioco diritti o opportunità sociali, ma come si vede il risultato èsimile: la diffidenza, se non il rifiuto, da parte del parlante per la conservazione o l’imple-mentazione della propria varietà: è vero che rumantsch grischun è una lingua artificiale,non coincidente con i dialetti territoriali; tuttavia il suo impiego era stato progettato pro-prio per la difesa, tramite un tetto protettivo, delle varietà locali. I due esempi possono pa-rere diversi, ma hanno un robusto fondo comune: qualunque persona sana di mentepreferirebbe, oggi a New York, sapere l’economia o la matematica piuttosto che gli “studiafricani”, se le materie dovessero escludersi a vicenda; o nell’Europa Centrale conoscere iltedesco piuttosto che un romancio comune artificiale. È una questione di prestigio, dimercato, se si vuole; e la cosiddetta globalizzazione, la realizzazione effettiva del “villaggioglobale” di McLuhan, spinge certamente nella direzione di un’uniformazione linguisticamolto avanzata. In un villaggio, si sa, si parla tutti grosso modo lo stesso dialetto (nelnostro villaggio ora è l’inglese).

Proprio in termini di mercato linguistico, come voleva Bourdieu15 vale la pena di ten-tare qualche considerazione “ecologica”: perché appunto in un sistema sociale basato sullagratificazione (come quello nel quale in questo momento ci troviamo a vivere) la linguadiviene uno strumento di ascesa sociale, un mezzo di partecipazione allo scambio sociale,un elemento del mercato mondiale (BOURDIEU 1997); e di converso la società odierna haassistito a un ampliamento spropositato del mercato, inteso in senso geografico grazie al-l’annullamento sostanziale delle distanze geografiche, ma anche per così dire ontologica-mente, poiché tutto è assurto a grado di merce da scambiare. Anche le lingue sono soggettepertanto alle leggi dell’economia, e non da oggi: il mercato non è disposto a investiretempo e denaro al fine di garantire democraticamente a ogni fruitore l’uso della proprialingua; così le diverse varianti entrano in competizione, e ognuna di esse viene scelta in baseai mezzi che offre la diffusione geografica, l’essere veicolo di comunicazione da parte di chidetiene mezzi economici e la padronanza di sufficienti ambiti d’uso, che determina le con-dizioni del prestigio. Ora, questo non avviene in maniera forzata: dopo essere stata intro-dotta nella vita pubblica, la lingua non costituisce soltanto un mezzo per raggiungere benisociali, ma è trasformata in un bene essa stessa; cosicché l’autorità di certi codici viene gra-datamente stabilita e rafforzata attraverso pratiche ordinarie, quotidiane, di istituzioniquali la scuola, il mercato del lavoro, la burocrazia, la pubblicità. Si creano così le condi-zioni per cui i codici linguistici, trasformati in beni economici, sono considerati prestigiosianche da coloro che non li controllano, in virtù delle possibilità che offrono e della disu-guaglianza con cui la loro padronanza è accessibile.

La lingua diviene perciò un membro effettivo del mercato, e la competenza può fun-zionare come capitale linguistico, producendo, in occasione di ogni scambio sociale, unprofitto oggettivo, perché l’offerta (linguistica) è inferiore alla domanda, determinandosbilanciate condizioni di accesso al bene (BOURDIEU 2001: 84-85, adattato). Il bene “te-desco” ha più valore del bene “rumantsch grischun”: perciò per la sua acquisizione si passasopra a disagi e spese che invece sono considerate gravose per il secondo; e i parlanti sono

15. La riflessione di Pierre Bourdieu, a nostro parere assai rilevante per la ricerca dei fondamenti dell’ecologialinguistica, è stata stranamente trascurata, proprio in quest’ottica, dalla letteratura (beninteso, fatta salval’ignoranza di chi scrive). Si veda almeno BOURDIEU (1977, 1994, 2001).

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sempre più adoratori del “dio prestigio”, tanto da convincersi di desiderare condizioni chein verità non vorrebbero. Il segreto, come già aveva intuito Ascoli all’epoca della querellecon Manzoni sulla lingua italiana (che, purtroppo per noi parlanti, perse) è nel mettere iparlanti nelle condizioni di avere, poniamo, matematica e studi africani, e non solo per ineri. Facciamo studiare african studies anche ai wasp, e rumantsch grischun ai banchieri diZurigo, e vedremo se davvero la gente non li vuole. E ciò proprio a livello economico.Anche l’ecologia fisica, per così dire, si scontra con l’economia: salvaguardare le bio- ed eco-diversità costa, si è sempre detto; ma proprio in questi anni si sta rivelando l’insostenibilitàappunto economica di uno sviluppo predatorio rispetto all’ambiente; e parimenti vedremofra poco un esempio di vantaggi economici derivati del mantenimento di lingue e culturetradizionali.

La soluzione parrebbe quella di allargare, e non restringere: è la raccomandazione peresempio dell’Unione Europea, continuamente confrontata, nel suo stesso funzionamento,col problema del multilinguismo: e in questo senso va l’idea di una competenza linguisticamultipla dei suoi cittadini: la lingua locale, la lingua nazionale, e due lingue di altri Paesi;oltre, se possibile, a una lingua personale di adozione16 – non uguale per tutti, e non eco-nomica. Ecologica, diremmo. Però questo non significa nascondersi che spontaneamentei meccanismi del mercato linguistico sono quelli citati, e che costa fatica invertirli (e nonsempre ci si riesce): la lotta fra realtà e desideri è, banalmente, molto ardua, e i buoni pro-positi – belli, e politicamente correttissimi, oltre che scientificamente assai up-to-date –sono talora solo buoni propositi.

Altre tre obiezioni, rilevanti, che riprendiamo, adattandole e talora ampliandole daJohn Edwards17:

• anzitutto, è un’ingenuità desiderare che le entità sociali (categoria della quale fannoparte le lingue) debbano perpetuarsi per sempre: è un’idea da storici imperiali, che nonconcepiscono cambiamenti nell’assetto politico e sociale. In verità assistiamo invece auna decisa inevitabilità e diremmo “bontà ecologica” del cambiamento: le specie sievolvono, e anche le foreste, usa dire, bruciano e si distruggono per perpetuarsi mi-gliori. Fra l’altro, senza lo strapotere del latino nella tarda antichità non avremmo néitaliano né francese né mombellese – ma su questo ritorneremo.

• Di conseguenza, la difesa incondizionata della variabilità linguistica è un’ingenuità.Le lingue sono fatte per comunicare, per far sì che gli uomini comunichino, e la sfre-nata variabilità è un ostacolo alla comunicazione. Pensiamo a quanto siamo contentiora, per esempio, di uno standard di videoscrittura accettato, bello o brutto che sia –e probabilmente brutto, ma tant’è. Chi ricorda le evoluzioni degli anni Ottanta e No-vanta, quando spesso passare da un calcolatore all’altro significava riscriversi a manotutti i documenti, ha chiaro quello che intendiamo dire (Oh, beninteso, ogni formatoe programma di scrittura era “ecologicamente” unico e irripetibile, con caratteristiche

16. Secondo l’espressione di Amin Maalouf, nella relazione finale dei lavori legati all’Anno europeo del dialogointerculturale 2008.

17. EDWARDS 1992 e soprattutto il breve ma fondamentale EDWARDS 2001.

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peculiari e talora non condivise da alcun altro; proprio come le lingue naturali).• È poi un’illusione la perpetuabilità di un bilinguismo egualitario stabile come garante

della sopravvivenza di una lingua minacciata: le lingue si dispongono sempre secondogerarchie di prestigio e funzioni, e come ogni manuale avverte, il bilinguismo – intesocome situazione in cui più codici si dividono lo spazio comunicativo senza essere diffe-renziati funzionalmente – è una condizione assolutamente teorica. Meno che meno èattuabile, ormai, un monolinguismo adulto nella lingua minacciata: nessuno vorrebbeinfliggere una tale punizione a chi vuole “proteggere”.

Le obiezioni paiono sensate, anche se non è difficile contrapporre loro qualche argo-mento contrario; però ci sembra più rilevante qui accennare al perché dovremmo, proprionoi ora, trovare argomenti contrari. Perché adesso, in questo momento storico? In fondo,lo si accennava poco sopra, non è la prima volta che assistiamo all’avanzata trascinante diuna lingua a scapito delle altre: il latino, ad esempio, contro le altre lingue del mondo an-tico mediterraneo, celtico e germanico. E in effetti il gallico, per dire, è morto18, e l’illirico,e il falisco; però abbiamo le varietà romanze, e la lingua franca, e gli altri pidgin e creoli abase romanza, e la cosiddetta Romània nova in Sudamerica, e i prestiti romanzi nelle linguedel mondo, e così via. Ora, l’espansione del latino è paradigmatica di una conquista lin-guistica per conquista culturale e politica (o meglio, militare), che non ha imposto diret-tamente alcun linguaggio, ma lo ha fatto penetrare con la forza della supremazia culturalee commerciale, fino alla completa sostituzione rispetto alla lingue precedenti – anche selenta: in più di un luogo dell’Italia settentrionale si è smesso di parlare celtico probabil-mente all’inizio del VI secolo19.

Diverso è il caso di un’altra invasione linguistica e culturale, o “ondata di internazio-nalizzazione”, come potremmo chiamarla, quella legata al sanscrito a cavallo dell’era vol-gare20; intanto va notato che non c’è mai stata alcuna conquista militare a supporto dellalingua, e che dunque questa si è espansa solo per propri meriti intrinseci, per così dire, tra-sportata dal prestigio della civiltà indiana e dalla volontà, da parte di altri popoli sudasiatici,di acquisire e imitare una certa idea di regalità, di potere politico e di arte come espressionedel potere. Di potere più ancora che di religione: l’espansione del sanscrito si deve in granparte al buddismo, ma come si sa questo è praticamente scomparso dell’India all’iniziodel 1200, dopo una lunga decadenza. Di fatto iscrizioni regali e amministrazione in san-scrito se ne trovano dappertutto, anche in Paesi che non hanno mai avuto il sanscrito comelingua effettiva, neppure ai livelli più alti dell’amministrazione o della liturgia; e questo pa-lesa un’altra differenza fondamentale rispetto al latino: a parte alcuni contesti strettamenteindiani, in cui l’influenza della lingua sacra è stata particolarmente profonda, l’espansione

18. È una lettura non recente, ma sempre appassionante e di un interesse estremo, anche pedagogico, il cennoche Terracini fa alle condizioni effettive del passaggio dalla lingue celtiche al latino, così diverso da comece lo insegnano nella vulgata (TERRACINI 1938). Per lo studio del contatto fra latino e lingue contempo-ranee cfr. l’ottimo ADAMS 2003.

19. Su questo, oltre TERRACINI 1938, il riferimento obbligato è HUBSCHMIED 1938; particolarmente interes-sante e centrata la discussione di BORGHI 2008, e lo schema di p. 79.

20. Per la quale cfr. POLLOCK (1996, 2006).

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del sanscrito non è praticamente mai avvenuta al spese delle lingue locali, ma si è aggiunta,sovrapposta a questa, favorendo spesso anzi la standardizzazione. È quello che Pollockchiama il “millennio vernacolare”: il lungo periodo in cui, proprio sulla spinta del sanscrito,le varianti locali, basse, acquistano le funzioni sociolinguistiche che gli erano proprie, di-ventando lingue dell’amministrazione e della cultura. In questo caso dunque la colonizza-zione linguistica ha sortito effetti commendevoli, secondo la nostra concezionedell’ecologia.

Dunque non è la prima volta che si diffondono lingue sovranazionali, e a questi esempise ne potrebbero affiancare facilmente molti altri, almeno a livello macroregionale. Checosa cambia allora, perché oggi siamo così sollecitati su questo problema? Le condizionidell’informazione, anzitutto: il sovrano del Laos nel 1400, il favoloso “Paese del milionedi elefanti”, che scriveva in sanscrito, difficilmente aveva chiaro che cosa succedesse in In-donesia, poniamo, in quel momento; noi oggi sappiamo tutto di tutto, e questo ci dà, ve-rosimilmente, una diversa consapevolezza. Inoltre le condizioni ecologiche vere, fisicheintendiamo, sono effettivamente diverse: mai come ora rischiamo severe alterazioni del-l’ambiente nel quale viviamo, e, come già si notava sopra, ciò ci rende particolarmentesensibili a questi temi; i numeri, poi, sono alti anche dal punto di vista oggettivo: specieanimali e vegetali spariscono con una velocità mai sperimentata prima, temperature mediesi alzano, e lingue e culture vengono assimilate ad un ritmo inusuale – come è noto, il96% delle lingue esistenti è usato dal 4% della popolazione mondiale21. Poi; latino e san-scrito (e altre lingue) competono più o meno nello stesso periodo, in luoghi diversi delmondo: adesso, e in particolare dopo il 1989, assistiamo al prevalere di una lingua su tuttele altre: l’inglese. Ora, la colonizzazione dell’inglese, contro la quale gli ecolinguisti si le-vano, ha caratteristiche diremmo intermedie fra latino e sanscrito: se è vero che in alcuneregioni del mondo la conquista dell’inglese è (stata) appunto una conquista in stile latino,per la maggior parte dei Paesi si tratta di una colonizzazione culturale di tipo “indiano”,in cui l’inglese è lingua di prestigio (anche a livelli molto bassi: nessuna pubblicità neppureinfima rinuncia alla performance, o al business22) o specializzata in alcune funzioni – peresempio, ma ci torneremo fra poco, nella comunicazione scientifica, dove è spesso l’unicascelta ormai possibile23.

Facciamo bene a preoccuparci? dopo aver visto ragioni critiche nei confronti dell’eco-linguistica, avviciniamone qualcuna esplicitamene a favore. Vedremo, fra i possibili, treargomenti che possiamo considerare, di ineguale importanza. Intanto, da linguisti, ecolin-guisti e sociolinguisti – ma forse da uomini in generale – la variabilità linguistica ci piace:tante lingue sono tante possibilità di espressione diverse, tante diverse soluzioni per unmedesimo problema, quello di comunicare da un emittente a un ricevente, tante sistema-

21. Cfr. la bibliografia citata alla nota 9.22. Nota da pedante purista, nella quale non ci riconosciamo (del tutto): l’italo-inglese ha spesso una conce-

zione curiosa dell’accento, che viene sempre ritratto: così la traduzione italiana di performance[pə�f��məns] è ormai performance [�pεrformans], e non sono più ammessi lessemi romanzi per il semema.

23. Vedi, proprio in senso e contesto ecologico, CARLI-CALARESU 2002.

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tizzazioni culturali differenti e affascinanti. Non è cosa da poco: che il nivx, per esempio,possieda – forse sola lingua fra quelle studiate – un caso “causato”, ossia che si utilizza peresprimere chi o che cosa è attivato in una frase causativa, ci dice molto sull’organizzazionedella mente umana in generale24; così come le diverse tassonomie dei termini di parenteladelle lingue del mondo, che classificano in modi così radicalmente difformi le stesse realtàantropiche. Ma perdite di codifica dell’informazione e di nessi culturali sarebbero tuttosommato accettabili, ancorché con dispiacere; la questione è che nei casi di svantaggio lin-guistico – o di scomparsa di sistemi linguistici – il peso maggiore lo portano una quantitàdi parlanti “deboli” (tipicamente anziani e persone poco istruite) che si trovano in serie dif-ficoltà; e sono in gioco anche apprendimenti compromessi, libertà personali in pericolo,questioni di accesso all’informazione e alla giustizia.

Non merita, dal punto di vista umano e scientifico, insistere ulteriormente su questopunto, che è chiaro a tutti e di cui tutti riconosciamo l’importanza. Ammettiamo peròpure che, nella società mercificata nella quale ci troviamo, questo non sia sufficiente, e cer-chiamo altre ragioni per cui dovremmo fare attenzione alla diversità ecolinguistica. La que-stione della lingua della scienza è proprio una di queste25. La colonizzazione “indiana”dell’inglese rispetto alle altre lingue di cultura ha un’eccezione di tipo “latino”; come si ac-cennava: nella comunicazione scientifica l’inglese è spesso ormai l’unica lingua possibile,anche in Paesi e contesti non anglosassoni, dove fioriscono riviste scientifiche scritte soloin inglese. Fino alla fine della guerra fredda il problema si vedeva meno: il “secondomondo” usava compattamente il russo, e francese, tedesco, spagnolo (in certa misura ancheitaliano) erano decisamente più diffusi come lingue della scienza. Basta comparare unaqualunque bibliografia specialistica degli anni Settanta o Ottanta con una di oggi (anchequesta in appendice, nonostante gli sforzi che si sono fatti per assicurare il pluralismo dellefonti linguistiche) per constatare il deciso decremento di lingue presenti.

Ora, la comunità scientifica deve potersi confrontare da un capo all’altro dell’orbe co-nosciuto, ed è per questo che lingue comuni della scienza ce ne sono sempre state: l’Europamedievale e moderna sceglie il latino, fino a tempi recenti26, il mondo musulmano l’arabo,di grandissima tradizione matematica, geografica, astronomica, l’India il sanscrito (e qual-che altra “strana” lingua come il pāli), il mondo est asiatico il mandarino (scritto) e cosìvia. Così tramite il latino studiosi ibernici e magiari avevano accesso alle stesse fonti del sa-pere e al confronto reciproco; solo che l’ibernico parlava irlandese (e forse inglese, e forsefrancese), e il magiaro ungherese (e forse tedesco, rumeno, yiddish, turco, ruteno), e si ca-pivano tramite una lingua terza, artificiale per tutti. Ora è diverso, e l’accesso ai codici èsbilanciato: c’è chi nasce possedendo la lingua della scienza, e può dedicare il suo temposolo allo studio della propria materia, e chi no, e deve sottrarre tempo allo studio per im-

24. IANNÀCCARO 2008: 192.25. Oltre al citato CARLI-CALARESU 2002 su questo è fondamentale AMMON 2001; si vedano anche i recenti

PHILLIPSON (2007, 2008).26. Solo per un esempio, la fisica moderna si basa ancora in gran parte sull’opera di Newton, scritta in latino

(Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, 1687); fino alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, eforse anche dopo, in molti Atenei per statuto le tesi universitarie potevano essere redatte in italiano o inlatino.

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padronirsi della lingua dominante. E c’è chi, da nativo, ha una sensibilità linguistica piùfine (e tramite questa trasmette in modo più efficace le proprie idee, magari non semprebrillantissime ma spesso accattivanti da leggere) e c’è chi affoga le proprie importanti in-tuizioni in una prosa stentata e illeggibile, che fa torto alla sua intelligenza. Questo non èeconomico: meglio sarebbe una lingua neutra, non agganciata a una reale comunità lin-guistica: il latino sine flexione di Peano, per esempio, o, meglio ancora l’esperanto.

Ma soprattutto c’è chi viene letto, e chi no, e questo è un problema serio, di limitazionedella conoscenza. Chi scrive può parlare solo della propria materia, beninteso, ma gli capitaspesso di trovare, nelle bibliografie internazionali, studi nuovissimi presentati come rivo-luzionari, e che contengono, in inglese, idee già avanzate o comparse trent’anni prima inlibri o articoli tedeschi, o italiani, o russi. Perché un’informazione sia considerata a livellointernazionale, deve comparire in inglese ed essere leggibile a chi legge solo l’inglese: tuttoil resto non conta. Col risultato che un sacco di ricerca viene sprecata, e i poveri studiosimonolingui anglofoni devono riscoprirsi tutto da soli, ogni volta. Quanto si risparmie-rebbe, in fatica e acume intellettuale, se la comunità internazionale potesse tener conto diquello che è acquisito da altre tradizioni.

Con queste considerazioni arriviamo ad un punto fondamentale: l’economia. La limi-tazione della conoscenza costa, e forse nel nostro mondo attuale le uniche idee che riesconoa far presa sono quelle legate a istanze economiche. Normalmente si usa dire che il pluri-linguismo è un costo (ma nel caso della comunicazione scientifica abbaiamo visto che forseun costo è il monolinguismo), e che l’attenzione alla diversità linguistica e alle lingue mi-nori è un peso che solo le società ricche possono sopportare. E però ci sono esempi di ri-duzione della diversità ecolinguistica che hanno portato a decadenza economica; fra i moltiillustrati nella letteratura specifica ne scegliamo solo uno, il sistema di irrigazione dei ter-razzamenti nell’isola di Bali conosciuto come Tika27. È sostanzialmente un sistema inge-gneristico, estremamente complesso e raffinato, che governa l’irrigazione e la cura deiterrazzamenti isolani destinati alla coltivazione del riso. Questi devono di necessità essereregolati da una gestione comunitaria – e dunque tramite la lingua –, perché parassiti e in-festanti in genere non si spostino da un campo all’altro, con conseguenze anche gravi, eperché ciascuno, con le limitate risorse d’acqua di cui l’isola dispone, possa avere la sua giu-sta parte di irrigazione al momento adeguato28. Così NETTLE-ROMAINE (2001: 210):

Il periodo del tika è di 210 giorni. All’interno di questo periodo ci sonodieci diversi insiemi di settimane, che variano in lunghezza da uno a diecigiorni, [e] che scorrono tutti insieme. Per esempio oggi potrebbe essere ilterzo giorno della seconda settimana di sette giorni, che è […] landep, e ilsecondo giorno della settimana di tre giorni (beteng), e l’ultimo giorno dellasettimana di dieci giorni (raksasa), tutti allo stesso tempo. […] Le piante

27. O tikka. LANSING 1991; un’ottima presentazione in NETTLE-ROMAINE 2001: 208-213 (dell’ed. italiana).28. Un po’ come succede(va) sulle nostre Alpi, dove regolamenti comunali, patriziali e vicinali imponevano a

tutti, se possibile, lo sfalcio dei prati nello stesso periodo, per evitare concentrazioni di cavallette e altri in-setti infestanti nei prati non ancora falciati.

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possono aver bisogno d’acqua un giorno sui cinque per 105 giorni; il pro-blema è facilmente risolto mediante un’irrigazione che ha luogo ogni voltache è klivon, l’ultimo giorno della settimana di cinque giorni. […] Così ilterzo giorno della settimana di cinque giorni cade il primo giorno della set-timana di sette giorni ogni trentacinque giorni. Qualsiasi […] ciclo può es-sere mantenuto mediante la stipulazione che una certa chiusa venga apertaogni volta che il giorno è sua duka sia kajeng [e così via].

Dagli anni settanta il sistema entra in crisi, per i progetti di modernizzazione dellaBanca per lo Sviluppo asiatico, che, introducendo nuove varietà di riso e fertilizzanti chi-mici, di fatto soppresse il coordinamento fra gli agricoltori; questo portò a una rapida di-minuzione delle rese e, proseguendo con le parole di NETTLE-ROMAINE (2001: 211).

si moltiplicarono le malattie e gli assalti degli animali […]. Si fece ricorsoa […] pesticidi chimici, che nel giro di pochi anni avevano completamenteinquinato il suolo dell’isola e le risorse idriche senza peraltro risolvere il pro-blema. Alla fine degli anni ottanta le autorità di Bali si convinsero a eserci-tare pressioni perché gli agricoltori potessero tornare ad applicare i loro ciclitradizionali [e si è verificato che questo] ottimizza la rete globale delle risaie,raggiungendo risultati migliori di [ogni altro sistema].

Dunque, in sostanza, dimenticando lingue e culture si perdono dei soldi; e questa èprobabilmente la considerazione più sorprendente che pare di dover fare, fra studiosi abi-tuati a ragionare in termini di beni immateriali e di opportunità culturali.

Ma ciò allora può forse darci qualche indicazione sul perché ci interessiamo tanto,oggi, a problemi di ecologia linguistica; non però a chiarirci l’incerto della sottodisciplina,così difficilmente isolabile dalle altre contigue interessate a lingua e ambiente in senso lato,sociolinguistica e etnolinguistica, come già si diceva sopra (oltre a sociologia delle lingue,linguistica antropologica e così via). E anzi, CUZZOLIN (2002: 111-112) nota una sortadi discrepanza epistemologica fra linguistica e ecologia: mentre infatti i sistemi ecologicisono di tipo cibernetico, ossia trovano il proprio stato di equilibrio autoregolandosi auto-nomamente, i sistemi linguistici non lo sono, e la prova proprio ne è l’attenzione all’eco-linguistica. I sistemi linguistici sono, se lasciati soli, soggetti a deriva (drift, secondo ladefinizione di Sapir), in cui le lingue forti fagocitano quelle deboli, tanto da aver bisognodi una disciplina specifica, la pianificazione linguistica, per regolare dal di fuori lo statusquo29.

Come detto in apertura, non ci addentriamo in questo pur interessante terreno. Tut-tavia è innegabile che la linguistica della variazione sta assumendo sempre più una prospet-tiva ecologica (ossia olistica, più che cibernetica); e l’ecologia, in linguistica e nellalinguistica, può essere vista come una (benvenuta) metafora: come un modo di pensare ai

29. Fra i compiti della pianificazione linguistica; altri in IANNÀCCARO-DELL’AQUILA 2004______________

fatti di lingua, più che un modello o una teoria stringente. Ma di più questo modo di pen-sare può pervadere sviluppi futuri e applicazioni attuali della disciplina, portandoci all’at-tenzione per la tutela e la considerazione di tutti i codici e tutte le scelte coinvolte in unacomunità linguistica, e soprattutto indicandoci che va rispettata la possibilità di scelta cheil parlante può voler fare fra codici differenti, più che i codici astrattamente intesi.

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Indice

Davide AstoriIntroduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Indirizzi di saluto

Renato Corsetti, presidenteFederazione Esperantista Italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11

Nicoletta Maraschio, presidenteAccademia della Crusca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

Ruth Theus Baldassarre, Responsabile cultura, scienza e mediaAmbasciata svizzera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13

Mariella de’ Nicolò, Commissione nazionale italianaUnesco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14

Francesco Sabatini, Accademia della Crusca“Il patrimonio linguistico comune dei popoli d’Europa. Inaugurando la ‘Piazza delle lingue d’Europa’” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

Gabriele Iannàccaro, Università di Milano Bicocca“Ecologia linguistica: ha senso parlarne?” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23

Giuseppe G. Castorina, Università di Roma “La Sapienza” e Associazione Eurolinguistica-sud“L’italiano come risorsa di competenze eurolinguistiche” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

Davide Astori, Università di Parma“Multilinguismo e traduzioni nel Mediterraneo antico” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51

Michele Gazzola, Università di Ginevra“L’internazionalizzazione delle università: sfide e politiche linguistiche” . . . . . . . . . . 59

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Paolo Valore, Università di Milano“Cosa c'è che non va nell’idea di una lingua cosmica– Il caso del LINCOS di Freudenthal” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67

Remigio Ratti, Università di Friburgo e della Svizzera Italiana, “Coscienza Svizzera”“Le relazioni tra sviluppo economico e lingue” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77

Federico Gobbo, Università degli Studi dell’Insubria“La Akademio de Esperanto tra tradizione e rinnovamento: prospettive nell’ambito delle politiche linguistiche europee” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85

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