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Conservazione e innovazione nella morfologia derivazionale dell’italiano: analisi sincronica e diacronica del suffisso -aio Elisabetta Magni Università di Bologna Abstract Questo lavoro ha per oggetto l’analisi dei processi di formazione di parola in cui interviene il suffisso italiano -aio, che forma nomi di agente, di luogo e di strumento a partire da basi nominali. Le descrizioni di tipo puramente sincronico incontrano difficoltà per ciò che attiene la semantica delle basi di derivazione e la polifunzionalità del suffisso. Ma la situazione si rivela ancora più complicata quando si considerano i dati diacronici, perché l’antecedente latino -arius ha dato origine ad un vasto insieme di forme, usate come aggettivi e come nomi, ottenute da basi aggettivali, nominali, avverbiali e anche verbali. L’obiettivo della ricerca è ricostruire i percorsi evolutivi del suffisso sia attraverso un riesame delle categorie dell’aggettivo e del nome nelle teorie dei grammatici antichi e dei tipologi, sia attraverso una rilettura dei meccanismi di selezione nella morfologia derivazionale del latino. Le conclusioni mettono in luce il ruolo della diacronia in alcune delle questioni che complicano l’analisi morfologica delle lingue indouropee moderne. 1. Introduzione. L’analisi dei processi di formazione di parola in cui interviene il suffisso italiano -aio presenta problemi interessanti a livello formale e semantico, sia sul piano sincronico che diacronico. Esponente lungamente vitale della variegata e diffusa costellazione di epigoni del latino -a# rius, questo morfema viene di norma classificato tra i suffissi agentivi, ma a questa funzione principale si affiancano, come è noto, anche quella locativa e strumentale. L’impossibilità di determinare in modo univoco la semantica delle basi e le prerogative del suffisso, hanno creato difficoltà descrittive e interpretative agli studiosi che, in passato, hanno cercato di formulare specifiche regole di formazione di parola e di spiegare la polisemia di questi derivati. Il presupposto su cui si fonda la presente ricerca è che, in questo come in altri casi, i fenomeni che complicano lo studio sincronico della morfologia derivazionale possano essere chiariti facendo riferimento alla prospettiva diacronica. La vicenda di -aio presuppone quindi un accurato esame del suo antecedente latino -arius, originariamente deputato alla derivazione di aggettivi e nomi: l’obiettivo è ricavare indizi utili a spiegare quanto e cosa si è conservato della primitiva ricchezza di significati e funzioni, nonché la direzione e le cause del mutamento. Il lavoro è organizzato come segue: la prima parte illustra le prerogative dei derivati in -aio e –aia, e alcune proposte di analisi e i fenomeni di polisemia dei suffissi agentivi (§§ 2.2-3). Si passa quindi ai derivati latini in -arius (§ 3.1), al loro uso come aggettivi e sostantivi (§§ 3.2-3), e ai problemi correlati (§ 3.4). Le riflessioni sulle teorie dei grammatici antichi (§ 4.1), sulle categorie sintattiche (§ 4.2) e sui processi di conversione ed ellissi (§ 4.3), serviranno a formulare un’ipotesi alternativa sulle formazioni latine 4.4). Alla luce di queste considerazioni, valuteremo gli aspetti conservativi e innovativi della derivazione in italiano (§ 5.1-2). 2. Il suffisso -aio/-aia 2.1. La polisemia dei derivati e delle basi Secondo quanto osserva Lo Duca (2004: 195), il suffisso forma nomi di agente a partire da basi che, generalmente, presentano i tratti [+comune], [+concreto], [+numerabile], [–animato] (cf. vinaio, fioraio, etc.). Ma alla studiosa non sfugge la presenza di basi costituite da zoonimi (asinaio, pecoraio, etc.), soprattutto nelle formazioni più antiche. Inoltre, il suffisso può appendersi anche a nomi astratti (usuraio, marinaio, etc.) e non contabili (lattaio, benzinaio, etc.). Prevalentemente i derivati designano mestieri “a partire dalle «entità» (animali, piante, sostanze, alimenti, frutti) sulle quali l’attività di tali agenti si esplica” (Lo Duca, 2004: 196). Ma le rare formazioni da basi composte (peracottaio, buongustaio, guerrafondaio, versiscioltaio, pastasciuttaio) e avverbiali (dirimpettaio), indicano un diverso esito semantico, poiché assegnano all’agente un comportamento abituale, non una funzione 1 . Quando la base è uno zoonimo, è frequente il significato locativo (pollaio, formicaio, etc.), talora anche con una valenza negativa (pulciaio, cimiciaio, etc.). Inoltre, la coesistenza dei significati di agente e luogo, è una “doppia possibilità […] talmente forte e ancora talmente presente alla sensibilità moderna” (Lo Duca, 2004: 235) da determinare occasionali ambiguità interpretative (serpaio, viperaio, cavolaio, ma anche cellaio, rottamaio, etc.). La sottocategoria dei nomi di luogo presenta una semantica piuttosto articolata, che include la designazione di spazi circoscritti in cui si colloca, accumula, raccoglie, alleva, produce, ciò che è indicato dalla base (bagagliaio, letamaio, ghiacciaio, pollaio, bietolaio, etc.). La funzione agentiva e locativa dispongono di un’ampia gamma di procedimenti in cui si configurano ambiti di sovrapposizione e/o specializzazione dei suffissi 2 . Tra questi merita un discorso a parte il tipo -aia, che vede il prevalere della funzione locativa su quella agentiva, ed è in ciò speculare ad -aio, con cui può alternare differenziando i nomi ottenuti dalla medesima base (carbonaio/carbonaia, cocomeraio/cocomeraia, etc.). Ciò accade più spesso con zoonimi e fitonimi 3 , che originano formazioni in -aia “a metà strada tra nomi di luogo e collettivi” (Lo Duca, 2004: 236). 1 Questi derivati di tipo ‘caratterizzante’ sono “probabilmente più labili ed effimeri rispetto ai nomi che designano mestieri e professioni, la cui stabilità nel tempo è garantita dalla stabilità delle attività lavorative coinvolte” (Lo Duca, 2004: 196). 2 Geneticamente imparentato con -aio è il tipo in -ario, ma cf. anche -ile, -eria, -ficio. 3 Per i secondi c’è da segnalare la concorrenza del suffisso -eto (< lat. -etum), che spesso genera doppioni come rosaio/roseto.

Elisabetta Magni (2008). Conservazione e innovazione nella morfologia derivazionale dell’italiano: analisi sincronica e diacronica del suffisso –aio. In: E. Cresti (ed.) Prospettive

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Conservazione e innovazione nella morfologia derivazionale dell’italiano: analisi

sincronica e diacronica del suffisso -aio

Elisabetta Magni

Università di Bologna

Abstract Questo lavoro ha per oggetto l’analisi dei processi di formazione di parola in cui interviene il suffisso italiano -aio, che forma nomi di agente, di luogo e di strumento a partire da basi nominali. Le descrizioni di tipo puramente sincronico incontrano difficoltà per ciò che attiene la semantica delle basi di derivazione e la polifunzionalità del suffisso. Ma la situazione si rivela ancora più complicata quando si considerano i dati diacronici, perché l’antecedente latino -arius ha dato origine ad un vasto insieme di forme, usate come aggettivi e come nomi, ottenute da basi aggettivali, nominali, avverbiali e anche verbali. L’obiettivo della ricerca è ricostruire i percorsi evolutivi del suffisso sia attraverso un riesame delle categorie dell’aggettivo e del nome nelle teorie dei grammatici antichi e dei tipologi, sia attraverso una rilettura dei meccanismi di selezione nella morfologia derivazionale del latino. Le conclusioni mettono in luce il ruolo della diacronia in alcune delle questioni che complicano l’analisi morfologica delle lingue indouropee moderne.

1. Introduzione.

L’analisi dei processi di formazione di parola in cui interviene il suffisso italiano -aio presenta problemi interessanti a livello formale e semantico, sia sul piano sincronico che diacronico.

Esponente lungamente vitale della variegata e diffusa costellazione di epigoni del latino -a #rius, questo morfema viene di norma classificato tra i suffissi agentivi, ma a questa funzione principale si affiancano, come è noto, anche quella locativa e strumentale. L’impossibilità di determinare in modo univoco la semantica delle basi e le prerogative del suffisso, hanno creato difficoltà descrittive e interpretative agli studiosi che, in passato, hanno cercato di formulare specifiche regole di formazione di parola e di spiegare la polisemia di questi derivati.

Il presupposto su cui si fonda la presente ricerca è che, in questo come in altri casi, i fenomeni che complicano lo studio sincronico della morfologia derivazionale possano essere chiariti facendo riferimento alla prospettiva diacronica. La vicenda di -aio presuppone quindi un accurato esame del suo antecedente latino -arius, originariamente deputato alla derivazione di aggettivi e nomi: l’obiettivo è ricavare indizi utili a spiegare quanto e cosa si è conservato della primitiva ricchezza di significati e funzioni, nonché la direzione e le cause del mutamento.

Il lavoro è organizzato come segue: la prima parte illustra le prerogative dei derivati in -aio e –aia, e alcune proposte di analisi e i fenomeni di polisemia dei suffissi agentivi (§§ 2.2-3). Si passa quindi ai derivati latini in -arius (§ 3.1), al loro uso come aggettivi e sostantivi (§§ 3.2-3), e ai problemi correlati (§ 3.4). Le riflessioni sulle teorie dei grammatici antichi (§ 4.1), sulle categorie sintattiche (§ 4.2) e sui processi di conversione ed ellissi (§ 4.3), serviranno a formulare un’ipotesi alternativa sulle formazioni latine (§ 4.4). Alla luce di queste considerazioni, valuteremo gli aspetti conservativi e innovativi della derivazione in italiano (§ 5.1-2).

2. Il suffisso -aio/-aia

2.1. La polisemia dei derivati e delle basi

Secondo quanto osserva Lo Duca (2004: 195), il suffisso forma nomi di agente a partire da basi che, generalmente, presentano i tratti [+comune], [+concreto], [+numerabile], [–animato] (cf. vinaio, fioraio, etc.). Ma

alla studiosa non sfugge la presenza di basi costituite da zoonimi (asinaio, pecoraio, etc.), soprattutto nelle formazioni più antiche. Inoltre, il suffisso può appendersi anche a nomi astratti (usuraio, marinaio, etc.) e non contabili (lattaio, benzinaio, etc.).

Prevalentemente i derivati designano mestieri “a partire dalle «entità» (animali, piante, sostanze, alimenti, frutti) sulle quali l’attività di tali agenti si esplica” (Lo Duca, 2004: 196). Ma le rare formazioni da basi composte (peracottaio, buongustaio, guerrafondaio, versiscioltaio, pastasciuttaio) e avverbiali (dirimpettaio), indicano un diverso esito semantico, poiché assegnano all’agente un comportamento abituale, non una funzione1.

Quando la base è uno zoonimo, è frequente il significato locativo (pollaio, formicaio, etc.), talora anche con una valenza negativa (pulciaio, cimiciaio, etc.). Inoltre, la coesistenza dei significati di agente e luogo, è una “doppia possibilità […] talmente forte e ancora talmente presente alla sensibilità moderna” (Lo Duca, 2004: 235) da determinare occasionali ambiguità interpretative (serpaio, viperaio, cavolaio, ma anche cellaio, rottamaio, etc.).

La sottocategoria dei nomi di luogo presenta una semantica piuttosto articolata, che include la designazione di spazi circoscritti in cui si colloca, accumula, raccoglie, alleva, produce, ciò che è indicato dalla base (bagagliaio, letamaio, ghiacciaio, pollaio, bietolaio, etc.). La funzione agentiva e locativa dispongono di un’ampia gamma di procedimenti in cui si configurano ambiti di sovrapposizione e/o specializzazione dei suffissi2.

Tra questi merita un discorso a parte il tipo -aia, che vede il prevalere della funzione locativa su quella agentiva, ed è in ciò speculare ad -aio, con cui può alternare differenziando i nomi ottenuti dalla medesima base (carbonaio/carbonaia, cocomeraio/cocomeraia, etc.). Ciò accade più spesso con zoonimi e fitonimi3, che originano formazioni in -aia “a metà strada tra nomi di luogo e collettivi” (Lo Duca, 2004: 236).

1 Questi derivati di tipo ‘caratterizzante’ sono “probabilmente più labili ed effimeri rispetto ai nomi che designano mestieri e professioni, la cui stabilità nel tempo è garantita dalla stabilità delle attività lavorative coinvolte” (Lo Duca, 2004: 196). 2 Geneticamente imparentato con -aio è il tipo in -ario, ma cf. anche -ile, -eria, -ficio. 3 Per i secondi c’è da segnalare la concorrenza del suffisso -eto

(< lat. -etum), che spesso genera doppioni come rosaio/roseto.

Entrambi i suffissi derivano inoltre un manipolo di nomi di strumento, talora ambiguamente vicini ai nomina loci (acquaio, arcolaio calamaio, cucchiaio, mortaio, salvadanaio, caldaia, chiodaia, cilindraia, grondaia, piattaia, rotaia, vomeraia).

2.2. La polisemia del suffisso

La polisemia delle parole derivate è un fatto noto e variamente interpretato dagli studiosi: Scalise e Lo Duca ne discutono gli aspetti specifici riguardo all’affisso -aio.

Poiché la sostanziale imprevedibilità dei derivati non consente di formulare un’unica regola di formazione di parola (RFP), Scalise (1998: 469) discute la possibilità di riconoscere due diversi suffissi4: -aio1 agentivo ‘persona che svolge un’attività connessa con x’, e -aio2 locativo ‘luogo pieno di x’, a cui si aggiunge -aia locativo.

Lo studioso sottolinea il tratto ‘negativo’ che distinguerebbe i nomi locativi ottenuti con -aio2 da quelli in -aia, ma osserva anche che, riguardo ad -aio1 e -aio2, “non sembra possibile definire una ‘base unica’ chiaramente differenziata tra i due ‘suffissi’” (Scalise, 1998: 473). Quindi, si tratta di un suffisso ‘unico’, caratterizzato dai fenomeni di polifunzionalità tipici dei suffissi agentivi (cf. § 2.3), e da una generalità di significato che si precisa mediante “fatti di ‘conoscenza del mondo’” (Scalise, 1998: 475).

Anche i più recenti modelli lessicalisti di rappresentazione delle parole complesse, postulano un tipo di analisi a doppio livello in cui uno ‘scheletro’ di informazioni sintattico-concettuali si completa con un ‘corpo’ conoscenze enciclopediche. Per ciò che concerne la derivazione, tuttavia, la necessità di riconoscere relazioni isomorfiche fra le caratteristiche formali e semantiche degli affissi, implica la frammentazione di quelli polisemici in una serie di associazioni multiple.

In altre parole, la ‘generalità di significato’ resta un problema, e le corrispondenze asimmetriche tra forma e significato si risolvono nuovamente con una moltiplicazione degli affissi. Infatti, in una recente rianalisi del suffisso, Scalise dichiara di limitare la discussione al solo -aio1, escludendo -aio2 (Scalise, Bisetto, Guevara, 2004: 137, nota 12)5.

Del resto, neanche la delimitazione dell’esito agentivo è esente da difficoltà, poiché l’insieme dei tratti enciclopedici che individua il ruolo dell’agente è intuitivamente molto vario. Condizione costante delle formazioni denominali agentive è proprio “una certa indeterminatezza del loro significato complessivo”: mentre la semantica di quelle deverbali è univocamente determinata dal significato del verbo di base, lo specifico tipo di ‘azione’ messo in atto dagli agenti denominali è invece “di volta in volta determinato dalla, e adattato alla, semantica dei nomi di base” (Lo Duca, 2004: 193).

Pur riconoscendo queste differenze, la studiosa concorda però con Scalise (1994: 473-474) nel leggere la polisemia di -aio alla luce della gerarchia semantica elaborata da Dressler (1986). Ma le ipotesi e le

4 Precedentemente Scalise (1994: 185 n. 5) aveva distinto tra un suffisso -aio (lat. -arius) e “un altro suffisso -aio (lat. -arium)”. Rispetto alle precedenti, questa descrizione reinterpreta i

meccanismi di selezione in termini di interazione tra l’affisso e le proprietà della base: “the pattern of selection operated by -aio

is based on information contained in the skeleton and in the body of its base” (Scalise, Bisetto, Guevara, 2004: 137).

generalizzazioni che presuppongono il trattamento unificato dei suffissi deverbali e denominali non sembrano direttamente applicabili al nostro caso.

2.3. La polisemia dei suffissi agentivi

Secondo Dressler, che propone riflessioni tipologiche basate anche su dati diacronici, la polisemia dei suffissi agentivi deverbali e denominali costituisce un insieme di significati gerarchicamente strutturato del tipo:

AGENTE > STRUMENTO > LUOGO/ORIGINE Il fondamento cognitivo di questa gerarchia6

risiederebbe nelle modalità di interpretazione degli eventi: “[m]ost central events of human life prototypically have a human agent; next come animal agents […]; then plants which produce fruit […]; then impersonal agents […]; then instruments; and finally local conditions of events or states, be it locative relations […] or relations of origin/source” (Dressler, 1986: 527). A sostegno dell’ipotesi, lo studioso menziona la frequenza relativa dei significati, il primato della nozione agentiva nel processo di acquisizione e il percorso unidirezionale di estensione diacronica dei significati.

Di fatto, però, alcuni di questi argomenti non si adattano ad -aio, che deriva moltissimi agentivi, rari nomi di strumento e molti nomi di luogo, e soprattutto non reca traccia dello sviluppo semantico teorizzato, dato che le tre funzioni coesistono sin dall’origine nel latino -arius.

Dressler propone anche un assunto tipologico secondo cui, se le tre valenze sono espresse da affissi diversi ma correlati, quelli con valore agentivo sono i meno marcati mentre quelli locativi lo sono di più. Ma, tralasciando -aro

7, è vero invece che -aio e -ario tuttora concorrono nella funzione locativa, mentre in quella agentiva coesistono -aio, -iere, e persino -ai(u)olo/-arolo. Parimenti inapplicabile è il corollario per cui i suffissi strumentali o locativi tenderebbero a coincidere con il femminile dell’agentivo, più lungo del maschile (Dressler, 1986: 526): evidentemente -aia non lo è, e comunque la spiegazione del fenomeno va cercata altrove (§ 5.2).

In generale, i limiti del trattamento unificato dei derivati agentivi deverbali e denominali risiedono nel fatto che “what looks similar from a purely synchronic perspective often corresponds to entirely different phenomena when viewed from a diachronic one” (Rainer, 2004: 27). I casi in cui il processo di estensione non si è innescato (cf. -ista), o in cui la polisemia è dovuta a meccanismi quali l’ellissi (cf. fr. -eur), l’omonimizzazione o il prestito, suggeriscono infatti doverose cautele riguardo alle speculazioni di tipo cognitivo fondate prevalentemente su dati sincronici. Al contempo, questi controesempi invitano a studiare l’evoluzione dei singoli suffissi con un solido metodo diacronico, ancorando il quadro tipologico sulla polisemia a “well-established paths of change” (Rainer, 2004: 28-29). Vediamo quindi le indicazioni ricavabili dalla peculiare e complessa vicenda del suffisso latino -arius.

6 Che potrebbe essere ampliata aggiungendo la nozione di ‘agente inanimato’, cioè lo strumento o mezzo provvisto di movimento automatico (Booji, 1986: 509). 7 Che, a parte la connotazione regionale, “ha accentuato nel tempo la sua scarsa disponibilità a formare nomi di luogo e, a differenza di -aio, non è più oggi un suffisso polisemico” (Lo Duca, 2004: 199).

5

3. Il suffisso -arius, -a, -um

3.1. I vari tipi di derivati e di basi

Lungamente produttivo per tutta la vicenda del latino, il suffisso -arius, -a, -um forma circa 1250 derivati8, tra aggettivi e nomi di agente, strumento e luogo, peraltro appendendosi a basi di ogni tipo9: • nominali: liber � librarius ‘scrivano, libraio’; • aggettivali: falsus � falsarius ‘falsario’, brevis �

breviarium ‘compendio’; • avverbiali: contra � contrarius ‘contrario, opposto’,

temere � temerarius ‘temerario’; • verbali: sedens (part. di sedeo) � sedentarius

‘sedentario, stanziale’, intercalo � intercalarius ‘(mese) intercalare’10. Gli studiosi concordano sul fatto che il suffisso indica

il concetto generico di ‘relazione’: secondo Nichols (1929: 41), l’unico modo per ricondurre ad un significato unitario il caleidoscopio di valenze delle forme in -arius

11 “is by means of a blanket term such as ‘pertaining to’, which, as it may be appropriately applied to any termination whatever, is of no scientific value at all”. Più propositivamente, Serbat (1989: 407) ritiene che il sema ‘relation’ sia sotteso a tutti i tipi di derivazione, e che qui esso sia “au contraire le point de départ, le socle sur lequel ont pu prendre appui les sous-groupes dans lesquels -�rio-semble autoriser una paraphrase mieux définie”.

Un altro punto di generale accordo riguarda la maggiore antichità e recessività della funzione aggettivale: questa, che talora “performs the genitive function” (Nichols, 1929: 45), conosce infatti un progressivo declino, mentre aumentano le forme impiegate esclusivamente come nomi12. Al riguardo, la spiegazione unanimemente condivisa è che la sostantivazione proceda mediante ellissi del nome testa in SN con aggettivo (di relazione) del tipo: (taberna) libraria ‘libreria’ (Arias Abellán, 1996).

Ad un esame più approfondito, tuttavia, sia il concetto di aggettivo relazionale, sia il procedimento di ellissi, presentano alcuni aspetti problematici.

8 In realtà il numero fluttua notevolmente in relazione ai dubbi di attestatione su talune forme. Paucker (1963) elenca 1170 derivati, mentre Serbat (1989: 402) parla di 1500, il nostro calcolo si fonda sulla verifica dei dati in Gradenwitz, 1904. 9 È sicuramente riduttiva e fuorviante la sintesi di Leumann (1977: 297): “[m]it -arius werden gebildete denominative Adjectiva nur von Sachbezeichnungen […]. Substantivierungen sind sehr zahlreich”, vista la serie di ‘Formale Besonderheiten’ che seguono: “une bonne page - p. 299 - en petits caractères” di “faits qui contredisent la règle” (Serbat, 1989: 404). 10 Su queste forme si veda Nichols (1929: 57-58) e Serbat (1989: 404) che, soffermandosi sui derivati da basi participiali come immissarium ‘serbatoio’, auctarium ‘aggiunta’, etc., si chiede: “est-il légitime de rassurer sa conscience en disant qu’aprés tout le PP est un adjectif, et que la règle n’est pas vraiment violée?” 11 Che egli ordina in ben 21 classi, stabilite sulla semantica della forma di base, ma cf. le critiche di Serbat, che vede piuttosto “una masse rebelle à toute paraphrase exploitable” (1989: 406). 12 In base alle statistiche fornite da Paucker (1963), il 75% delle 499 forme più antiche sono usate come aggettivi, mentre il 60% delle 671 più recenti sono solo sostantivi. Cooper (1975: 148­149) considera come arcaismi o rusticismi gli impieghi aggettivali nel periodo classico, spesso limitati alle iscrizioni, al lessico giuridico o mercantile, oppure al sermo castrensis.

3.2. Gli aggettivi

Partiamo innanzitutto dal comportamento delle forme aggettivali e dalla loro posizione nel SN. Esse possono occorrere in posizione prenominale, che è quella non marcata dell’aggettivo ‘descrittivo’ (sanguinaria iuventus ‘giovani sanguinari’), o postnominale, che è quella tipica dell’aggettivo ‘distintivo’, del genitivo e dell’apposizione (herba sanguinaria ‘erba sanguinella’). Nel primo caso l’aggettivo ‘qualifica’ il nome da cui dipende, identificandone una proprietà, nel secondo lo ‘classifica’ in rapporto a determinate caratteristiche13.

Tuttavia la funzione relazionale non sembra limitata ad un preciso ordine del SN: infatti in Livio, Cesare e Cicerone si trovano spesso oneraria navis, navis oneraria e anche esempi del tipo naues aliquot Phoenicum onerarias (Liv. 33, 48, 3) o naves magnas onerarias (Caes. civ. 1, 26, 1), oltre al semplice sostantivo oneraria.

Gli esempi di questo tipo abbondano (cf. anche Salaria via e via Salaria, frumentaria lex e lex frumentaria), ma il dato ha fin qui ricevuto scarsa attenzione, stante la generale flessibilità con cui si tende a considerare l’ordine dei costituenti in latino. La posizione libera e la separabilità dalla testa del SN, tuttavia, riflettono comportamenti atipici rispetto alle note restrizioni che caratterizzano l’aggettivo relazionale (Wandruszka, 2004: 382-386), e forse la questione merita un riesame.

3.3. I sostantivi

La sostantivazione, che privilegia i nomi di agente, sembra presupporre procedimenti ellittici vari, e talora imprevedibili: frumentarius ‘mercante di grano’. In ogni caso, se questo meccanismo spiega anche la creazione di nomi di strumento e di luogo, è evidente che le dinamiche di estensione semantica e funzionale del suffisso, primariamente aggettivale, non fanno perno sui processi di tipo cognitivo e sulla gerarchia postulata da Dressler.

D’altro canto, la prospettiva che riduce l’uso sostantivale dei derivati a fenomeni di ellissi non è esente da problemi. A tal proposito, Arias Abellán riconosce l’esistenza di due meccanismi: il primo fa perno “en algo interno al adjetivo”, ad es. quando è il genere che marca un contrasto semantico tra ‘persona’ (boni) e ‘non persona’ (bonum); il secondo prevede l’omissione di un nucleo nominale semanticamente solidale con l’aggettivo, che ne eredita quindi genere e numero, ad es. (libri) annales (Arias Abellán, 1996: 232). Quindi, nei nomi d’agente sono le uscite -arius, -aria che ‘attualizzano’ direttamente il sema ‘persona’, mentre per gli altri casi si deve pensare a procedimenti di ellissi.

Ma questo “tipo tradizionalmente poco chiaro di cambio semantico” (Blank, 2004: 25) offre pochi modelli per lo sviluppo di serie analogiche e regole produttive autonome (Thornton, 2004: 501). Inoltre, una dettagliata ricerca sui testi14, ha rivelato che i numerosi sintagmi pieni postulati dalle grammatiche, o sono raramente usati, o non sono affatto attestati, mentre abbondano gli a{pax legovmena e le creazioni occasionali, che solo la fissità del

13 Kircher-Durand (1994: 223-224) distingue tra aggettivi qualificativi e determinativi (che includono i relazionali). 14 Effettuata in CLCLT-6 (Library of Latin Texts), un corpus on

line che annovera più di 6 milioni di vocaboli e consente la ricerca per autori (ca. 900), testi (quasi 3000) e differenti periodi.

contesto chiarisce. I paragrafi che seguono offrono qualche dato più preciso al riguardo.

3.3.1. I maschili Tra i sostantivi maschili, Leumann (1977: 298) e

Cooper (1975: 70-74) elencano solo nomi di agente, ma Arias Abellán (1996: 237) ricorda anche quelli di mesi, monete e libri. Tra i primi, Februarius e Ianuarius, mostrano un uso autonomo solo nei rari passi dei grammatici che ne spiegano l’etimologia (ad es. Varr. LL 6, 4), ma di norma funzionano come aggettivi (Leumann, 1977: 297), precisando indicazioni calendariali come mensis o, al femminile, kalendae. Tra i secondi, assarius è in un passo di Varrone (LL 8, 38, 9) che puntualizza sulla corretta flessione di questa forma arcaica15, e l’aggettivo ‘del valore di un asse’ è raro. Dupondiarius si incontra una sola volta (in sestertiis dupondiariisque, Plin. nat. hist. 34, 4).

Così anche i nomi di libri eclogarius16 e liturarius

(eclogarii, Cic. Att. 16, 2, e liturarios, Aus. Cento nupt., epist. ad Paulum, 18), mentre ostentarius, due volte all’ablativo (Macr. Sat. 3, 7, 2 e 3, 20, 3), è di solito indicato come neutro.

Per questi esempi, come per il nome di recipiente pultarius (8x, di cui 4 in Apicio, che è l’ultimo ad impiegare il termine), mancano del tutto i sintagmi pieni all’origine dell’eventuale ellissi.

3.3.2. I femminili I 16 nomi in -aria elencati da Cooper (1975: 74) sono

tutti di agente, mentre Leumann (1977: 298-299) segnala i titoli di commedie e le varie artes. Se i primi si spiegano come serie analogica con omissione di fabula, le seconde (di uso comunque raro) si disambiguano rispetto agli agentivi mediante il contesto: unguentaria ‘profumiera’, ma faciat unguentariam (Pl. Poen. 702); e così topiariam facere ‘fare giardinaggio’, (Cic. ad Quintum fratrem 3, 1, 5); l’aggettivo poi accompagna herba o opera, mai ars. Anche herbaria compare come sostantivo solo in un elenco di artes e relativi scopritori (Plin. nat. hist. 7, 196).

Tra i “nombres de locales de venta”, Arias Abellán elenca libraria, purpuraria e lanaria. Ma per il primo il sintagma pieno ricorre solo una volta (in scalas tabernae librariae, Cic. Phil. 2, 21), mentre l’uso come sostantivo è circoscritto ad un solo testo (2x: in libraria, Gell. noct. Att. 5, 4, 1 e 13, 31, 1). Inoltre il femminile ha anche il significato agentivo di ‘copista, segretaria’ (1x: Mart. Cap. nupt. 1, 65), mentre il neutro vale ‘cassa di libri’. Pure il sintagma pieno con purpuraria è attestato una sola volta (in purpurariis officinis Plin. nat. hist. 35, 46), inoltre i grammatici affermano che il sostantivo è un nome di agente, non di luogo17. Come lanaria, che si accompagna sempre a herba (3x) o radix (2x), mai a officina o taberna, ed è sostantivato solo al maschile, come agentivo.

15 Cf. Beda Venerabilis orthogr. A, 98: assarius ab antiquis

dicebatur; nunc as dicitur, non assis. 16 Che Nichols, visto il significato di ‘passi scelti di un libro’, include fra i derivati da basi verbali: “though really formed upon the Greek noun, seems to have verbal force, and to offer a good parallel to datarius” (Nichols, 1929: 57). 17

Purpurariam dicit purpurae uenditricem, Beda Venerabilis Retractatio in Actus apostolorum, 16, 20.

Tra i nomi di piante, parietaria si incontra una volta: come aggettivo accanto a herba

18. Il sintagma non risulta invece per vesicaria, usato come nome in un caso (Plin. nat. hist. 21, 177). Sanguinaria compare in unione con herba due volte (Col. RR 7, 5, Isid. etym. 17, 9, 79), e il secondo esempio glossa più esplicitamente la traduzione dell’equivalente greco fornita nelle uniche due attestazioni del sostantivo (Plin. nat. hist. 1, 1 e 27, 113).

Per i “nombres de minas o lugares de extracción” Arias Abellán cita ferraria, auraria, calcaria, etc., ma come aggettivi le forme si uniscono molto spesso al neutro metallum (di solito al pl. metalla). Né vale l’ellissi del raro fodina (Leumann 1977: 298), che nell’immenso corpus esaminato figura tre volte (Plin. nat. hist. 33, 98, 22, Amm. r. gest. 22, 15, 30 e 24, 4, 21), ma mai con aggettivi in -arius.

Infine il nome cella, spesso unito agli aggettivi vinaria e olearia, non è oggetto di ellissi, mentre lo è il neutro vas, che motiva i nomi dei recipienti vinarium e olearium.

3.3.3. I neutri Per le forme in -arium indicanti vasi e contenitori,

l’uso sostantivale è generalmente spiegato con “sc. vas, scrinium sim.” (Leumann 1977: 298). L’omissione di vas è certamente responsabile di una piccola serie analogica che, oltre ai due esempi visti sopra, include anche defrutarium ‘recipiente per il vino cotto’ (2x: Col. r. rust. 12, 20, cf. anche in vasa defrutaria, r. rust. 12, 19).

Ma su 236 attestazioni, scrinium non si trova mai con un aggettivo in -arius: difficile quindi motivare con l’ellissi i nomi, peraltro assai rari, ossuarium e cinerarium (nelle iscrizioni), panarium (1x: Varr. LL 5, 22) e librarium (2x: Cic. Mil. 12, 33 e Amm. r. gest. 29, 2, 4).

I neutri designano anche locali e recinti per animali, ma a prima vista non è chiaro quale sintagma spieghi palearium ‘pagliaio’ (1x: palearia, Col. r. rust. 1, 6), farrarium (1x: farraria, Vitr. arch. 6, 6, 5 ) e gallinarium (2x: gallinaria, Col. r. rust. 8, 5, su cui Plin. nat. hist. 17, 51): gli scarsi usi aggettivali non danno alcuna indicazione pertinente, e l’omissione di un generico locus (maschile!) fa difficoltà. Tuttavia, un’osservazione più attenta delle attestazioni rivela la netta prevalenza forme plurali: non a caso Cooper (1975: 75-76) indica farraria, -orum, e granaria, -orum

19, e anche columbarium ricorre 13 volte, di cui solo 3 al singolare. Che la categoria sottintenda la designazione di loca è poi confermato dalla riflessione degli antichi: ‘Vivaria’, quae nunc dicuntur saepta quaedam loca, in quibus ferae vivae pascuntur (Gell. noct. Att. 2, 20, 1), e ‘Apiaria’ quoque vulgus dicit loca, in quibus siti sunt alvei apum (Gell. noct. Att. 2, 20, 8).

Anche i nomi di registri e libri come breviarium, calendarium, itinerarium, summarium, palmarium ‘capolavoro’, praticamente prescindono dall’uso aggettivale. E quelli di strumento come igniaria ‘esca per il fuoco’ (3x, al pl.), horarium ‘orologio, clessidra’, etc., al pari di cibaria ‘viveri’, “no parecen contener en su significado la referencia a un substantivo objeto de una posibile elipsis, sino que representan más bien la suma del

18 Aurelius Victor (pseudo) Epitome de Caesaribus, 41, 13. 19 L’esempio è interessante da leggere in diacronia: 24 delle 48 attestazioni appartengono infatti al periodo classico e argenteo e, tra queste, l’uso del singolare è limitato a 7 casi, ma le 24 forme del latino medievale mostrano un rapporto invertito, con soli 8 casi di plurale e il certo indizio della fortuna di granaio.

contenido léxico del adjectivo origen de la substantivación y la actualización por parte del neutro del sema ‘cosa’” (Arias Abellán (1996: 238, n. 10).

3.4. La categoria delle basi e dei derivati

Gli esempi discussi nei §§ precedenti sono facilmente moltiplicabili e dimostrano come, alla verifica dei fatti, il ruolo dell’ellissi vada sostanzialmente ridimensionato, e meglio precisato in rapporto a quello della conversione. Ma prima di affrontare il problema, sarà utile soffermarsi sulle categorie del nome e dell’aggettivo.

L’idea di un suffisso capricciosamente versatile, che può derivare direttamente aggettivi e sostantivi, appendendosi a basi di ogni tipo, pone evidenti difficoltà ai modelli descrittivi che includono informazioni di tipo sintattico nell’analisi dei processi morfologici20.

Al riguardo, ci limiteremo ad osservare che lo studio dei processi derivazionali del latino, qui come altrove (Magni, 2001), sembra confermare l’inadeguatezza dei modelli formali di tipo ‘input-oriented’, e la necessità di un approccio semantico, ‘output oriented’. Infatti “derivational morphology (at least in some languages) does not necessarily make reference to syntactic category information in the input. […] with at least some productive affix, the syntactic category of potential base words is only a by-product of the semantics of the process” (Plag, 2004: 194).

Coloro che hanno dimestichezza con la morfologia delle lingue classiche non sono nuovi a questo tipo di osservazioni: infatti Serbat suggerisce di guardare esclusivamente al valore nozionale delle basi, evitando così l’ostacolo insormontabile a cui vanno incontro “ceux qui professent que la classe syntaxique [sottolineato nel testo] de B[ase, integrazione mia] est la pierre angulaire de toute construction suffixale” (Serbat, 1989: 405).

Ma ciò che rende attuale la riflessione sulle lingue antiche, non è tanto la familiarità con la nozione di ‘tema’, quanto piuttosto la differente percezione delle categorie sintattiche21 e della morfologia derivazionale che si sostanzia nelle teorie dei grammatici.

4. Aggettivo e nome, tra teoria e tipologia

4.1. Le teorie dei grammatici

Bhat (1994) arricchisce il quadro tipologico sulla relazione fra aggettivo e nome con alcune osservazioni sui modelli dei grammatici antichi che paiono decisamente pertinenti al nostro problema.

Nel sistema descritto da P��ini22, nomi e aggettivi costituiscono una categoria unitaria di entità ‘con uscite nominali’ (subanta), distinta da quelle ‘con uscite verbali’ (ti�anta). L’opzione, che il sanscrito condivide con lingue

20 Anche se la cosiddetta ‘ipotesi modificata della base unica’ (Scalise, 1994: 212), unendo nomi e aggettivi in un’unica classe accomunata dal tratto [+N], ammette RFP operanti su entrambi.

Sull’attuale crescente tendenza a considerare le categorie sintattiche come ‘non universali’, cf. Croft, 2001. 22 L’A���dhy�y, un’esposizione sintetica ma sorprendentemente accurata della fonetica, morfologia e morfosintassi del sanscrito, contiene circa 4000 regole (stras, lett. ‘fili’), applicate alle circa 2000 radici verbali elencate nel Dh�tup��ha, e agli elementi lessicali organizzati nelle 261 classi del Ga�ap��ha. Cf. Robins, 1981; Kiparsky, 2002.

moderne come il turco, ha dei riflessi evidenti nei processi derivazionali, poiché “[l]anguages in which adjectives and nouns form a single category are found to use roughly the same set of derivational affixes for obtaining adjectival and nominal stems from root elements” (Bhat, 1994: 178­179). Analogamente, la sottocategoria di affissi (pratyaya) che interviene nella derivazione ‘secondaria’ (taddhita) ottiene sia nomi che aggettivi denominali e deaggettivali da una forma di base non flessa (pr�tipadika, lett. ‘espresso, esplicito’). Pertanto non sorprende che, ad esempio, il suffisso sanscrito -á mostri un comportamento parzialmente affine a quello del latino -arius

23. D’altro canto, l’assenza di una distinzione netta fra

nome e aggettivo si rileva anche nella vaghezza delle indicazioni sui meccanismi di accordo. Semplicemente definiti come sam�n�dhikara�a cioè ‘coreferenziali’, qualificatore (vi�e�a�a) e qualificato (vi�e�ya), intrattengono un rapporto che è indipendente dall’ordine dei costituenti, ed elasticamente interpretabile in base a fattori contestuali, tanto che Patañjali24 afferma che in sanscrito i sostantivi possono essere trasformati in aggettivi e viceversa (Bhat, 1994: 170-171).

Una situazione simile caratterizza anche l’arabo, in cui gli aggettivi formano una sottocategoria del nome, e la modificazione aggettivale implica di norma strutture “which are appositive in nature, juxtaposing items from the same category” (Bhat, 1994: 171).

Se da un lato i dati tipologici confermano la presenza di lingue che accordano scarso rilievo alla distinzione tra nome e aggettivo, dall’altro i fattori genealogici motivano ampiamente il confronto con il latino. Il fatto che anche in questo caso la riflessione dei grammatici25 non accordi autonomia categoriale all’aggettivo, è indice di una prossimità con il nome di cui è opportuno definire meglio i confini e le dinamiche generali.

4.2. Decategorizzazione dell’aggettivo

La definizione degli aggettivi come property-words e dei nomi come thing-words, implica differenze che lingue del mondo manifestano in modo vario (Bhat, 1994: 23­41). Tipicamente i primi fungono da modificatori denotando una singola proprietà, mentre i secondi identificano un referente suggerendo un fascio di caratteristiche pertinenti. Da ciò consegue che, di norma, solo gli aggettivi accettano gradazione o comparazione, che focalizzano appunto una singola e specifica qualità26. Al ruolo di modificatore si correla infine lo statuto di dipendenza dell’aggettivo, che è funzionalmente unificato al nome, posizionalmente vincolato, escluso da focalizzazione e topicalizzazione e cliticizzazione.

Pertanto esso può prescindere dalle marche flessionali solitamente associate al nome: anzi, la presenza di meccanismi di ‘accordo’ è il segnale di un legame più debole, proprio di SN in cui vige un rapporto di

23 I derivati così ottenuti sono prevalentemente aggettivi relazionali con il tipico significato generale ‘pertaining (relating) to/connected with what is denoted by the base noun’. Ma lo stesso suffisso genera anche aggettivi qualitativi denominali, patronimici (e matronimici), nomi che indicano la provenienza, collettivi, astratti, nonché nomi di agente, cf. Deo, 2007. 24 Autore del Mah�bh��ya, vasto commento all’opera di P��ini. 25 Cf. Kircher-Durand, 1994; Robins, 1981. 26 Nel nucleo degli aggettivi di qualità è riconoscibile un numero circoscritto di tipi semantici (Devine e Stephens, 2006: 403).

21

apposizione più che di modificazione. E il fenomeno, caratteristico di lingue prive di una netta separazione categoriale, ci riporta al latino, dove le forme in -arius manifestano una versatilità leggibile in termini di ‘decategorizzazione’ dell’aggettivo (Bhat, 1994: 91).

Questo, percorrendo un gradiente di progressiva perdita dei caratteri di modificatore, si presta ad assumere le funzioni pertinenti alla categoria del nome. La gradualità con cui si articola la ‘ricategorizzazione’ da property-word a thing-word emerge tra l’altro in riferimento al distinguo fra aggettivo usato in funzione di nome (previa ellissi) e aggettivo usato come nome (previa conversione). Nel primo si configura solo un’estensione funzionale, mentre il secondo presuppone l’assunzione autonoma del ruolo di testa del SN, e un vincolo più stabile alle prerogative del nome (Bhat, 1994: 95-96).

4.3. Conversione ed ellissi

Il distinguo tra ellissi e conversione non riguarda solo la dimostrabile omissione di un nucleo nominale, ma anche la decodifica della funzione referenziale, la cui efficacia dipende da due fattori: la capacità combinatoria e le prerogative formali dell’aggettivo.

Gli aggettivi che descrivono qualità prototipiche, sono modificatori versatili che possono mutuare sostanza referenziale da uno spettro virtualmente ampio di nomi: in funzione sostantivale identificano entità generiche o classi (come ‘persona’ o ‘cosa’), con una decategorizzazione parziale che a volte consente ancora gradazione e comparazione (docti ‘gli eruditi’, doctiores ‘i più eruditi’). Invece quelli che indicano la relazione con una base, suggeriscono proprietà che si precisano nel nesso logico con un referente più definito (un arcilessema come ‘agente’, ‘strumento’, ‘luogo’, o uno specifico lessema).

La ristretta capacità combinatoria e l’impiego settoriale delle forme, rendono questo nesso prevedibile e stabile, favorendo la tendenza alla sostantivazione. Inoltre, in presenza di adeguate strategie formali, l’aggettivo materializza i contorni del referente nei connotati di genere e numero, sostanziando in modo autonomo e simultaneo le proprietà e il loro possessore.

Quindi, la conversione è un cortocircuito referenziale pilotato da implicazioni prevedibili e indicazioni formali trasparenti, mentre l’ellissi è un processo in due fasi che esplicita un rapporto di solidarietà meno immediato e perspicuo tra una qualità e un referente. Quando gli indizi contestuali, culturali o formali sfuggono, per la scarsa familiarità con l’ambito materiale ed enciclopedico27, o per la ridotta flessibilità dell’aggettivo28, il ricorso all’ellissi diventa una reale esigenza ‘esegetica’.

4.4. L’unità dei derivati in -arius Il che è quanto accade nel valutare gli usi sostantivali

dei derivati in -arius: si è visto infatti che Arias Abellan

27 “Il procedimento ellittico è proprio dei linguaggi settoriali, la cui matrice è nel principio del minimo sforzo e dove il tecnicismo rende possibile la comprensione di espressioni decurtate, che peraltro coesistono accanto alle complete” (De Meo, 1986: 107).

Non è un caso che Arias Abellán (1994: 231) interpreti annales (libri) come ellissi, ma bonus ‘uomo probo’ come conversione, e che Bhat (1994: 96) scelga invece the strong ‘il forte’ come esempio di ellissi e white come conversione.

postula due meccanismi di sostantivazione, ma alla verifica dei dati il riferimento all’ellissi è spesso immotivato. O meglio, dovuto al mancato riconoscimento dei fattori contestuali, semantici e formali che autorizzano e stabilizzano la funzione referenziale ‘autonoma’ connaturata a queste formazioni, che sono modificatori atipici, scarsamente combinabili ma pienamente flessibili, con una tendenza alla conversione più spiccata rispetto agli aggettivi qualificativi (anche se a tre uscite, come altus -a, -um), e più agevolata rispetto agli altri relazionali (se a due uscite, come annalis, -e).

Coerentemente con quanto osservato sopra, si può quindi proporre una descrizione dei derivati in -arius in termini di categoria unitaria. Questo complesso di forme presenta infatti una funzionalità estesa come aggettivo e/o nome, che nello specifico condividono: gli stessi affissi flessionali e derivazionali, l’assenza di gradazione, una relativa indipendenza e libertà di posizione, l’indicazione di proprietà che classificano/individuano un referente.

Il loro suffisso segnala una duplice relazione di appartenenza che si estrinseca prima nel rapporto con la base (‘è in relazione con x’), e si precisa poi all’interno del SN, in cui uno stesso derivato (in funzione di modificatore o di testa) può presupporre le seguenti operazioni logiche (Desclés 1996): • attribuzione: se vale ‘è simile/associato a x’ (metafora)

sanguinaria iuventus ‘giovani sanguinari’ coc(h)learium, -i (‘cucchiaio’ < coc(h)lea ‘chiocciola’)

• inclusione: se significa ‘è contiguo a x’ (metonimia) Salaria via ‘via del sale’ argentarius, -i ‘banchiere’

• ingredienza: se indica ‘contiene x’ (sineddoche) centenarius grex ‘gregge di cento capi’ farraria, -orum ‘granaio’.

Molte forme, disambiguate dal genere e/o dal numero, si iscrivono direttamente nelle categorie più generali del nome perché, soprattutto nei lessici tecnici (Cooper 1975), i derivati esplicitano relazioni metonimiche prevedibili e stabili, che di solito correlano: • prodotto/produttore (venditore) � agente (m./f.):

vinarius ‘vinaio’, coronaria ‘fioraia’ • entità/funzione � agente o strumento (n. sg.):

aquarius ‘aquaiolo’, muscarium ‘ventaglio’, solarium ‘meridiana’

• contenuto/contenitore � strumento o luogo (spesso al n. pl): aquarium ‘serbatoio’, columbaria ‘colombaia’. La libertà di posizione osservata per l’uso aggettivale

(§ 3.2), si lascia ora interpretare alla luce di rapporti elastici fra entità coreferenziali all’interno del SN (§ 4.1): probabilmente la posizione prenominale indica un vincolo più stretto, quello tipico tra modificatore e modificato, che spesso formano “a precompiled phrase denoting a single concept” (Devine e Stephens, 2006: 414). Ma pensare ad una ‘risalita’ dell’aggettivo perché il nome è “deemphasized”, contrasta con l’osservazione che “nouns with impoverished semantics tend to prefer postmodifiers”: infatti è proprio in casi come res frumentaria che “the nucleus of information is on the adjective” (Devine e Stephens, 2006: 414 e 416). Ed è appunto la posposizione che segnala la maggiore autonomia del derivato in strutture sintattiche ‘aperte’, di tipo genitivale (taberna libraria ‘negozio di libri’) o 28

apposizionale (via Salaria29), che ne favoriscono

l’impiego come sostantivo.

5. Conclusioni

5.1. L’evoluzione della categoria

Evidentemente, l’idea di un sistema di partenza in cui la derivazione operava in assenza di un netto distinguo fra le categorie del nome e dell’aggettivo, pone in una luce diversa molte delle questioni che complicano l’analisi morfologica delle lingue indouropee moderne30.

In questo quadro, la polisemia e la polifunzionalità delle forme in -arius non sono il frutto di un’estensione diacronica, ma il riflesso di potenzialità che si esplicano efficacemente in sincronia, finché la ridefinizione e il riassetto delle categorie lessicali e flessionali non toglie produttività e trasparenza ai processi.

In epoca tardolatina, il continuum in cui originariamente si articolava l’ampia categoria dei nomina adiectiva e substantiva, si irrigidisce nella bipartizione intuita dai grammatici medievali. Ciò determina una ridefinizione delle possibilità combinatorie dei suffissi e una serie di riallineamenti non privi di incoerenze. Se è vero che la netta separazione fra i processi di derivazione nominale e aggettivale “reflects the importance that the language places upon that categorial distinction” (Bhat, 1994: 178), allora l’evoluzione di -arius diventa un frammento essenziale per comprendere lo svolgersi di una ristrutturazione complessa e globale della morfologia.

Come è noto, il suffisso ridistribuisce la ricchezza originaria nella costellazione di epigoni e concorrenti che, nel tempo e nello spazio, si spartiscono la formazione di aggettivi e nomi (Staaff 1896; Aebischer 1941). Nella prima si impone la derivazione in -alis/-aris, da sempre parallela a quella in -arius

31, ma con prerogative formali e sintattiche più proprie dell’aggettivo (flessione ridotta nel genere, cf. § 4.4, maggiore stabilità nel SN), e ridotto potenziale di ricategorizzazione autonoma32.

La seconda diventa invece la funzione prevalente di -arius e dei suoi continuatori, attraverso un processo evolutivo che, probabilmente, muove dalla categoria di entrate lessicali che il suffisso accomuna, poiché “more inclusive linguemes as replicators33 often specify the structure of less inclusives linguemes that they contain” (Croft, 2000: 37). In altre parole, la rianalisi di entità frequenti come type e come token quali vinarius, librarius, etc. in termini di [N -arius]N, ridefinisce le prerogative dell’affisso decretandone la produttività come denominale agentivo. Quindi, in questo caso, la categoria sintattica

29 Salaria via è normale fino al V sec. (eccetto che in Varrone),

ma in seguito la posposizione del derivato è sistematica. 30 Si pensi anche “all’intrinseca bivalenza sostantivale­aggettivale di -ianus” di cui parla Rainer (1998). 31 Cf. le 480 coppie in Paucker (1963) che, alla luce di doppioni come feles virginalis (Pl. Rud 748) e feles virginarius (Pl. Persa

751) ‘rapitore di fanciulle’, postula una “wesentliche Identität” dei due suffissi. Contra Leumann (1977: 299) e Staaff (1896: 6). 32 Che Arias Abellán (1994: 236, n. 5) imputa a “una naturaleza más cualificadora o propiamente adjetiva”, contrapposta a quella “inanimada y concreta” delle basi a cui si appende -arius: che però, a parte pochi nomi di persona e astratti, sono “las mismas”! 33 Nella riflessione ‘evoluzionista’ di Croft il ‘linguema’ è l’equivalente linguistico di un gene (Croft, 2000: § 2.4.1).

della base è un epifenomeno della (rinnovata) semantica del processo di derivazione (cf. Plag, 2004 cit. al § 3.4).

5.2. Da -arius, -a, -um ad -aio/-aia

Il mutamento connesso alla rianalisi forma-funzione dei derivati, innesca anche la ricerca di nuove linee di coerenza che incanalino l’ampiezza semantica e la versatilità del suffisso nei vincoli di un sistema che, contestualmente, ha ridotto anche le distinzioni di genere.

La tabella seguente sintetizza le varie combinazioni di tratti e i diversi tipi di derivati: agentivi (A), locativi (L) e strumentali (S). Il concetto di ‘individuazione’ si intreccia con quello di animatezza e sussume il tratto binario [± numerabile]34, a cui è parso preferibile perché la sua intrinseca scalarità determina la concettualizzazione del referente descritto dalla base, come pluralità (+) e/o insieme (±), o massa (–).

TRATTI DELLA BASE ESEMPI TIPO

comu. concr. indiv. anim.

+ – – – marinaio, usuraio, -aia A

+ + – – benzinaio, lattaio, -aia A

+ + + – libraio, fioraio, -aia A

+ + + + asinaio, bambinaia A

+ + ± +/– serpaio, rottamaio A/L

+ + ± + formicaio, colombaia L

+ + – – nevaio, legnaia, risaia L

+ + – – calamaio, caldaia S

Tabella 1: I suffissi -aio/-aia

Nello specifico, la derivazione in -aio incrementa la funzione agentiva dei maschili e femminili, focalizzando soprattutto basi con referente più individuato e concettualizzabile come una pluralità su cui si estrinseca ripetutamente l’azione, ma deve la sua complessità attuale all’eredità del neutro, che lascia pochi nomina instrumenti e molti nomina loci. La funzione strumentale rimane relittuale, mentre quella locativa, che privilegia basi con referente meno individuato e concettualizzabile come un insieme o una massa, viene riorganizzata come segue.

Il tipo in -aio designa spesso un locus circoscritto (bagagliaio, pollaio) e/o in cui si ammassano sostanze (letamaio, granaio, semenzaio, nevaio, ghiacciaio), o si raccolgono piccoli animali e piante (formicaio, pulciaio, vivaio, erbaio, rapaio). La probabilità dell’esito locativo rispetto a quello agentivo di default dipende dunque non dalla dimensione (Scalise, 1998: 473), o dalla numerabilità (Lo Duca, 2004: 195), ma dal minore livello di individuazione del referente che, anche se animato, può essere concepito come insieme. Ed è probabilmente la scalarità del tratto che motiva la valenza sia agentiva che locativa in casi come serpaio, viperaio, gallinaio, etc..

I nomi di loca estesi, piantagioni, allevamenti, grandi locali (abetaia, risaia, fagianaia, legnaia), confluiscono invece nel tipo in -aia, che inizialmente si espande anche

34 L’individuazione è “il risultato dell’interazione di più fattori, quali l’animatezza in senso stretto, la definitezza, la singolarità, la concretezza, la possibilità di assegnare un nome proprio” (Comrie, 1983: 271).

per rianalisi dei collettivi in -aria (come colombaia, cf. §§ 3.3.3 e 4.4). Esempi come burraia, carbonaia, tartufaia, fragolaia segnalano inoltre il ruolo disambiguante del suffisso, in presenza di un corrispondente agentivo in -aio.

Se questa ricostruzione è corretta, si dovrà dunque concludere che, per questo affisso e per i suoi paralleli romanzi, “it would be misleading to use just the synchronic data for speculations about the semantic or ‘cognitive’ foundation of […] ‘polisemy’” (Rainer, 2004: 29). E si dovrà anche constatare che la ricostruzione dei percorsi diacronici può aprire differenti e promettenti prospettive di indagine nello studio degli affissi ereditati dall’indoeuropeo.

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