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1 1 1. FRA SIENA E ROMA: FAMIGLIE, MERCANTI, PONTEFICI FRA CINQUECENTO E SEICENTO IRENE FOSI Città di stranieri, composita, sede della sola corte internazionale in Italia, Roma è, in età moderna, un agglomerato di nationes che vivono insieme e separatamente nello stesso tempo: una realtà policroma, unificata, dal Quattrocento, dalla stabile presenza della corte papale e sostenuta, quindi, dal suo sviluppo politico, burocratico, artistico. Se Roma condivide con altre città italiane ed europee i problemi posti dalla presenza di stranieri fra le sue mura, certo questa presenza multiforme si connota di tratti peculiari per trovarsi inserita in una città con un duplice potere, capitale di una monarchia con un sovrano al tempo stesso temporale e spirituale. La presenza senese a Roma non inizia certo con il pontificato di Pio II, sebbene con papa Piccolomini sia senza dubbio divenuta in poco tempo più numerosa e potente. Il ritorno dei pontefici da Avignone aveva infatti già stimolato la ripresa di attività finanziarie e bancarie che la stabile e sempre più articolata struttura della curia a Roma rendeva più appetibili. La curia e la corte rappresentavano dunque, già dal Quattrocento, una possibile fonte di affermazione sociale e, quindi, economica, anche per quel ‘sistema’ di uffici che cominciò a caratterizzare la monarchia pontificia con il suo apparato di governo spirituale e temporale. A Roma c’era bisogno di uomini: mercanti, curiali, esperti di diritto canonico e civile, chierici e laici, che portassero avanti la costruzione della monarchia universale romana, finanziassero le sue guerre, costruissero la magnificenza della sede del pontefice. Il flusso migratorio costante e in crescita di stranieri verso la Città Eterna emerge infatti come cifra distintiva del periodo che non si ferma al Sacco di Roma del 1527. Il Rinascimento a Roma è, infatti, soprattutto il Rinascimento degli ‘stranieri’ che arrivano, si insediano, vivono e, spesso, restano per sempre nella città del papa. Dopo il Sacco, l’immigrazione continua a rappresentare una costante nella società romana ma avrà al suo interno caratteristiche diverse: molti curiali, artisti, ‘intellettuali’, mercanti fuggirono infatti dalla città devastata dai lanzichenecchi, molti altri, invece, poco dopo, e soprattutto dalle città toscane, come Firenze, Siena, arrivarono a Roma per riorganizzare una ormai difficile difesa delle libertà repubblicane, minacciate in patria dalla vittoria del potere di Cosimo de’ Medici. Il fuoruscitismo politico trovò così in Roma la patria

Fra Siena e Roma: famiglie, mercanti, pontefici fra Cinquecento e Seicento in I giardini Chigi fra Siena e Roma dal Cinquecento agli inizi dell’Ottocento, a cura di C. Benocci, Fondazione

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1. FRA SIENA E ROMA: FAMIGLIE, MERCANTI, PONTEFICI FRA CINQUECENTO E SEICENTO IRENE FOSI Città di stranieri, composita, sede della sola corte internazionale in Italia,

Roma è, in età moderna, un agglomerato di nationes che vivono insieme e

separatamente nello stesso tempo: una realtà policroma, unificata, dal Quattrocento,

dalla stabile presenza della corte papale e sostenuta, quindi, dal suo sviluppo politico,

burocratico, artistico. Se Roma condivide con altre città italiane ed europee i problemi

posti dalla presenza di stranieri fra le sue mura, certo questa presenza multiforme si

connota di tratti peculiari per trovarsi inserita in una città con un duplice potere,

capitale di una monarchia con un sovrano al tempo stesso temporale e spirituale. La

presenza senese a Roma non inizia certo con il pontificato di Pio II, sebbene con papa

Piccolomini sia senza dubbio divenuta in poco tempo più numerosa e potente. Il

ritorno dei pontefici da Avignone aveva infatti già stimolato la ripresa di attività

finanziarie e bancarie che la stabile e sempre più articolata struttura della curia a

Roma rendeva più appetibili. La curia e la corte rappresentavano dunque, già dal

Quattrocento, una possibile fonte di affermazione sociale e, quindi, economica, anche

per quel ‘sistema’ di uffici che cominciò a caratterizzare la monarchia pontificia con il

suo apparato di governo spirituale e temporale. A Roma c’era bisogno di uomini:

mercanti, curiali, esperti di diritto canonico e civile, chierici e laici, che portassero

avanti la costruzione della monarchia universale romana, finanziassero le sue guerre,

costruissero la magnificenza della sede del pontefice. Il flusso migratorio costante e in

crescita di stranieri verso la Città Eterna emerge infatti come cifra distintiva del

periodo che non si ferma al Sacco di Roma del 1527. Il Rinascimento a Roma è,

infatti, soprattutto il Rinascimento degli ‘stranieri’ che arrivano, si insediano, vivono

e, spesso, restano per sempre nella città del papa. Dopo il Sacco, l’immigrazione

continua a rappresentare una costante nella società romana ma avrà al suo interno

caratteristiche diverse: molti curiali, artisti, ‘intellettuali’, mercanti fuggirono infatti

dalla città devastata dai lanzichenecchi, molti altri, invece, poco dopo, e soprattutto

dalle città toscane, come Firenze, Siena, arrivarono a Roma per riorganizzare una

ormai difficile difesa delle libertà repubblicane, minacciate in patria dalla vittoria del

potere di Cosimo de’ Medici. Il fuoruscitismo politico trovò così in Roma la patria

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d’adozione, una città che, come affermerà Isidoro Ugurgieri Azzolini nelle sue Pompe

Senesi, “non è mai matrigna d’alcuno”1.

E’ difficile tracciare un quadro della composizione sociale della presenza

senese a Roma come, del resto, delle altre nationes che formavano il policromo

mosaico della popolazione romana. All’inizio del Cinquecento non erano insomma

solo i grandi banchieri come Chigi, Spannocchi, Accarigi, ma anche artigiani –

bandierai, sarti, merciai, falegnami, “tagliatori di tavoli” – che trovarono nella città

del papa le condizioni favorevoli per impiantare attività spesso condotte insieme ad

altri componenti la famiglia, come dimostra la ricca documentazione notarile romana.

I grandi mercatores romanam curiam sequentes, come Ambrogio Spannocchi e i suoi

discendenti, ma soprattutto Agostino Chigi, avevano attorno a sé una vera e propria

corte, immagine di potenza economica, di prestigio sociale, di generoso mecenatismo

capace di gareggiare con la stessa corte papale e, sicuramente, con quella di altri

mercanti e banchieri, soprattutto fiorentini, attivi a Roma. La comune provenienza,

l’appartenenza alla città di origine giocarono in molti casi un ruolo decisivo nel

convogliare intorno ad un personaggio di spicco altri suoi connazionali. Legame

fondante nella società di antico regime, il principio di ‘nazionalità’ permetteva di

intessere nuovi rapporti, di inserirsi nella società ospite proprio attraverso la

mediazione di chi già viveva ed operava in essa. Un momento essenziale di

aggregazione e di socialità era inoltre rappresentato dalla celebrazione di feste, dalla

devozione per i santi il cui culto era parte fondante dell’identità della città di origine.

La festa di Santa Caterina divenne dunque per i Senesi a Roma un momento non solo

di comune devozione verso quella donna che aveva riportato il papa a Roma, ma

anche di socialità, di carità verso chi, giunto da poco, sperava di trovare fra i suoi

conterranei quei legami lasciati nella città di origine, legami che davano sicurezza e

protezione. La fondazione, fra la metà del Quattrocento e i primi decenni del

Cinquecento di molte confraternite e chiese nazionali è sicuramente espressione del

forte bisogno per gli ‘stranieri’ di disporre nel contesto urbano romano di luoghi che

segnassero, anche visivamente, la loro presenza2.

1 I. UGURGIERI AZZOLINI I. FOSI 1997 2 Sulle confraternite romane cfr. M. MARONI LUMBROSO, A. MARTINI 1963; sugli aspetti più specificamente economici: A. SERRA 1983. Un quadro delle problematiche relative alle confraternite romane e un sintetico panorama dei numerosi archivi, rispettivamente in “Rivista per la storia religiosa di Roma”, 5, 1984 e 6, 1985.

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Attorno alla Confraternita di Santa Caterina: artigiani, speziali, notai senesi nella

Roma del Cinquecento

“Non so trovar la causa per la quale la Nation Senese sia tanto indugiata a

costituire in Roma la sua confraternita, essendo che la sua Città è una delle principali

Metropoli della provincia di Toscana, antica, nobile, e catolica...”: scriveva così,

all’inizio del ‘600, Camillo Fanucci nel suo trattato sulle opere pie di Roma, lui che

insieme alla sua famiglia, aveva vissuto con intensa partecipazione le vicende

cinquecentesche del sodalizio nazionale senese3. In effetti la fondazione della

Confraternita di Santa Caterina, nel 1519, giunse molto tardi rispetto a quella delle

due confraternite fiorentine della Pietà di S. Giovanni Battista (1448) e di S. Giovanni

Decollato o della Misericordia (1490)4. La pur sintetica prefazione all’edizione

settecentesca degli statuti riassume la parabola di questa istituzione caritativa e

devozionale, specchio di una più profonda trasformazione della presenza senese a

Roma in età moderna. La fondazione del sodalizio, durante il pontificato di Leone X

(1513-1521), impegnato a difendere il progetto di Renovatio Etruriae, è

tradizionalmente ascritta alla persona di Agostino Chigi. Nella citata prefazione non si

accenna tuttavia al famoso banchiere, ma ad “alcuni pochi Sanesi dimoranti in Roma”

e il carattere di iniziativa personale sembrava aver segnato di precarietà, fin

dall’inizio, questa istituzione collocata, come la Pietà di S. Giovanni dei Fiorentini,

”in Strada Giulia”, nell’arteria che, secondo il progetto di papa Giulio II (1502-1513),

predecessore di Leone X, doveva sintetizzare la potenza di Roma, del suo pontefice e

tradurre visivamente il suo progetto di Renovatio imperii5.

La figura di Agostino Chigi è dunque presente e assente allo stesso tempo.

Non sono ancora ben chiari infatti i rapporti fra il potente banchiere e i suoi

concittadini, a Roma ed anche a Siena. Di lui si conoscono la generosa committenza,

il gusto artistico, le smodate spese e, grazie alla corrispondenza recentemente

pubblicata6, i traffici con altri mercatores e con i membri della sua famiglia. Ma quali

3 C. FANUCCI 1601, p. 344. Notizie, intrecciate con ampie ed erudite digressioni sulla storia di Siena e di S. Caterina, sul sodalizio, la chiesa e le sue vicende a pp. 351-360. 4 Sulle due confraternite fiorentine e, più in generale, sulla presenza dei Fiorentini nella Roma del Cinquecento rinvio a miei studi precedenti: I. FOSI 1989, pp. 50-70; I. FOSI 1991, pp. 119-162; I. FOSI 1992, pp. 169-185; I. FOSI La memoria di Firenze 1994, pp. 179-195; I. FOSI I Fiorentini a Roma nel Cinquecento 1994, pp. 389-414; I. FOSI 1997; I. FOSI 2000, pp. 255-276 5 L. SPEZZAFERRO, L. SALERNO, M. TAFURI 1975 6 I. D. ROWLAND 2001

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furono, se ci furono, i rapporti fra Agostino e il resto della comunità senese a Roma?

Forse la sua prestigiosa figura, le sue straordinarie ricchezze lo avevano separato

totalmente dal resto della sua nazione? In realtà, su Agostino Chigi manca ancora una

biografia che disegni a tutto tondo la sua personalità, al di là degli stereotipi che finora

hanno segnato gli studi – pochi, in verità, e poco originali – su questo personaggio7.

Solo ulteriori indagini approfondite e sistematiche della documentazione nei fondi

chigiani della Biblioteca Vaticana potranno dirci ancora molto non solo su Agostino

ma su un periodo cruciale della storia italiana della prima età moderna.

Torniamo allora alla Confraternita di Santa Caterina: non si conservano gli

statuti originali, scarsa e frammentaria è anche la documentazione per il Cinque e

Seicento, distrutta, come molte altre, dalla furia francese durante la Repubblica

romana alla fine del Settecento. Non è quindi possibile disegnare con precisione e

sistematicamente la composizione sociale dei confratelli, la presenza, fra di loro, di

esponenti della curia papale o di artisti senesi attivi a Roma. Nel 1519 la confraternita

era stata regolata da “alcuni pochi e semplici Statuti, quali e per la loro qualità, e per

la variatione de’tempi, e de’ costumi essendo stati riconosciuti insufficienti a

conservare, e nutrire la Santa armonia, comunque necessaria nelle comunanze

congregate nel Signore, a promuovere il culto di Dio, a confortare, ed animare

vicendevolmente fra di loro i fratelli col mezzo delle Opere di pietà al conseguimento

dell’eterna gloria e finalmente a regolare con prudente consiglio lo stato economico

del luogo Pio, furono perciò nell’anno 1577 corretti, ampliati, riformati, ed all’uso dei

quei tempi proporzionalmente adattati ed in tal forma ridotti furono per ultimo dalla

Santa memoria di Gregorio XIII benignamente approvati e confermati con suo Breve

del dì 10 Maggio 1580”8. La redazione settecentesca disegna un sodalizio ben

regolato nella divisione dei compiti dei diversi “uffiziali”, del governatore,

provveditore, segretario, sagrestani, coristi, segretario testamentario, rettore della

Chiesa, e stabilisce in dettaglio le procedure per la loro elezione. Non sappiamo se

tutte queste figure fossero presenti e le loro funzioni ben definite fin dall’inizio: certo

è che fra i compiti della compagnia, almeno dalla metà del Cinquecento, assoluto

7 Alla biografia di G. CUGNONI 1878, poco aggiunge la ‘voce’ di F. DANTE in Dizionario Biografico degli Italiani, 24, Roma 1980, pp. 735-743. 8 Archivio dell’Arciconfraternita di Santa Caterina da Siena (= AASCS), Statuti della Venerabile Archiconfraternita di S. Caterina della Nazione Sanese a Roma confermati in forma specifica dalla Santità di Nostro Signore Papa Benedetto XIV, l’anno di Nostra Salute MDCCXLIV e Quarto del suo Pontificato, in Jesi, MDCCXLV, presso Giambattista de Giulij.

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rilievo fu assunto dalla elargizione delle doti a fanciulle di origine senese residenti a

Roma. Era, questa, una pratica comune a molte altre confraternite romane, modellato

sull’esempio dell’Arciconfraternita dell’Annunziata che, il 25 marzo di ogni anno,

elargiva doti alle fanciulle romane in una solenne e suggestiva processione alla chiesa

della Minerva. La possibilità di ottenere una dote da una confraternita aveva dato vita,

a Roma, ad un vero mercato, rendendo sempre più necessarie regole rigide e autorità

capaci di non cedere alle forti pressioni di famiglie che intuivano in tale possibilità la

risoluzione dei problemi economici posti dal matrimonio di una figlia9. Nella

redazione statutaria del 1745 il capitolo XXXII “A chi s’appartenga la distribuzione

delle Doti” si articola in ben 33 rubriche per definire con precisione i requisiti delle

“zittelle” aspiranti alla dote ed i meccanismi di elargizione del sussidio. Il contenzioso

sollevato dal ‘traffico’ delle doti, la difficoltà di soddisfare le sempre più numerose

richieste per la scarsità dei lasciti per il fondo dotale della confraternita sono i segni di

un evidente impoverimento della ‘nazione’ senese a Roma. I testamenti di artigiani, di

vedove, di qualche più ricco benefattore prevedevano raramente, fra le clausole, il

lascito di somme di denaro, per altro non ingenti, da destinare alle doti. La maggior

parte lasciava alla confraternita “senza oblighi”, o preferiva raccomandare la propria

anima con la celebrazione di messe. Il fondo dotale veniva quindi ricavato, oltre che

da qualche rara, cospicua eredità, come quella denominata De Vecchi, dall’affitto di

case nei rioni Ponte e Regola, dalla vendita di oggetti lasciati alla confraternita da

qualche generoso confratello artigiano, o da consorelle vedove, che, morendo senza

eredi, vedevano nel sodalizio nazionale l’unico degno destinatario di quanto restava

nelle loro case e botteghe. Gli inventari, trascritti con puntiglioso rigore dal notaio

Camillo Fanucci nei pochi volumi rimasti forniscono uno spaccato non solo della vita,

della cultura materiali ma anche della devozione, della religiosità, del vissuto

quotidiano di artigiani, donne sole, spesso vedove ma anche cortigiane.

Erano molte infatti le cortigiane senesi, e non solo quelle immortalate dalla

letteratura del Cinquecento o dalla pittura – basti pensare alla famosa Fillide, amata

modella di Caravaggio10 – ma anche le numerose donne che si ponevano in un

indefinito crinale sociale, e morale, con l’esercizio saltuario della prostituzione. Dalla

metà del Cinquecento anche a Roma si era fatta più rigida anche la politica repressiva

contro un fenomeno alimentato dalla stessa natura della città, la cui popolazione era 9 Su questo tema cfr. M. D’AMELIA 1988, pp. 305-343; EAD. 1990, pp. 195-215. 10 R. BASSANI-F. BELLINI 1994, pp. 47-57.

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composta prevalentemente da uomini e da chierici obbligati al celibato. Nella Roma

tardocinquecentesca la figura della cortigiana celebrata dalla letteratura rinascimentale

ed inscindibile simbolo di una città che aveva vissuto lo splendore precedente al

Sacco sembrava non trovare più spazio. Mezzo di sussistenza per gran parte della

popolazione femminile – filatrici, lavandaie, molte di esse sposate con artigiani,

servitori in case di nobili e di cardinali – non era avvertita come trasgressione da chi

aveva con essa un rapporto occasionale, tale da non condizionare definitivamente

l'identità di chi la praticava. In alcuni casi questa attività, soprattutto se esercitata in

modo onesto, cioè conforme alle regole dettate dalle autorità romane, poteva garantire

un buon livello sociale ed una discreta ricchezza: investimenti, lasciti di beni

puntualmente elencati nei testamenti, inventari sembrano completare le ben note

immagini artistiche e letterarie della cortigiana11. Come si evince dai numerosi

processi criminali o dalle querele in cui le prostitute erano, al contempo, vittime e

protagoniste di violenze verbali, testimoniate dai cartelli infamanti, la prostituzione

era sostenuta e svolta attraverso una fitta rete di solidarietà familiari, di mestiere, di

vicinato, di comune provenienza, pronte tuttavia a sgretolarsi per questioni di onore,

rivalità, vendette. Per le cortigiane oneste, tollerate e riconosciute nel loro status dalla

collettività, non mancavano poi protezioni più elevate, provenienti spesso dalle corti

cardinalizie, garanzie contro immancabili incidenti che troppo spesso portavano la

cortigiana davanti ai tribunali romani: fra queste non era raro incontrare donne senesi

che ‘trasmettevano’ il mestiere di madre in figlia, richiamando spesso anche altre

donne da Siena. Questo commercio poteva interrompersi, a forza o spontaneamente:

disposizioni testamentarie destinavano anche al monastero di S. Maria Maddalena

delle Convertite – rifugio per chi aveva lasciato la prostituzione – qualche somma per

contribuire al mantenimento di donne incamminate sulla via dell’onestà.

La pur limitata documentazione cinque e seicentesca mostra, comunque, che

da parte dei Senesi a Roma la confraternita nazionale non era la sola beneficiaria di

lasciti testamentari per doti o per altre finalità caritative o devozionali12. Comune

rimaneva sempre il fattore identitario dell’origine. Si lasciavano elemosine alla stessa

confraternita dell’Annunziata per ragazze senesi povere e per le monacazioni, si

11 Studi recenti hanno focalizzato l'attenzione soprattutto sul fenomeno della prostituzione soprattutto nel Cinquecento: ad es., E.S. COHEN 1991, pp. 163-196; M. KURZEL-RUNTSCHEINER 1995. Sulla labile identità delle meretrici cfr. A. CAMERANO 1998, pp. 637-675. 12 AASCS, Sussidi dotali, voll. 1-2 (secc. XVI-XVII).

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devolvevano somme per fanciulle, sempre di origine senese, destinate a prendere il

velo nel convento di Santa Caterina a Magnanapoli. Questo, fondato nel 1563 da

Porzia Massimi, non ospiterà più, nel corso del ‘600, fanciulle di modesta condizione,

ma gentildonne romane13.

Dalla pur scarsa documentazione rimasta, insieme ad altre fonti coeve, è

inoltre possibile cogliere i legami del sodalizio nazionale con la corte papale, di

osservare il progressivo impoverirsi di alcune frange della popolazione, di segnalare il

crescente divario fra chi gravitava sulla confraternita nazionale e chi, invece, sulla

corte romana, la curia, le corti cardinalizie. Il microcosmo nazionale dei Senesi a

Roma diventa così un osservatorio, certo incompleto, ma suggestivo, di più profondi

cambiamenti che investirono la società romana e l’Italia nel tournant cinquecentesco.

La revisione statutaria e l’intervento pontificio venivano infatti a sanare una

situazione di difficoltà già da tempo denunciate e sicuramente effetto del deteriorarsi

delle condizioni economiche della popolazione romana, e della comunità senese, sia

dopo le vicende del Sacco del 1527, sia, ancor più, dopo la caduta della Repubblica di

Siena. Il flusso di emigrazione dalla città toscana, se prima aveva subito momenti di

flessione verso gli anni ’30 del Cinquecento, riprese invece con maggiore intensità

dopo il 1550. Le condizioni disastrose di Siena e del suo territorio, devastati dalle

armate imperiali e da tutti i protagonisti della guerra, spinsero artigiani, contadini

affamati, ma anche letterati, notai, professionisti del diritto a cercare rifugio, spesso

insieme alle loro famiglie, nella Roma papale, da sempre considerata patria comune,

rifugio sicuro. A Roma si radunerannno, anche prima della caduta della Repubblica,

esponenti di famiglie destinate ad intraprendere carriere nella curia romana, come i

Borghese, ma anche a proporsi come essenziali riferimenti culturali, nella difesa,

anche dal punto di vista linguistico, dell’identità toscana, come Celso Cittadini14.

Fin dalla sua fondazione, la Confraternita e la chiesa di S. Caterina avevano

goduto di protezione da parte del governo senese. La drammatica situazione politica

della ‘patria’ si intrecciò con il disagio della nazione a Roma e con il progressivo

deteriorarsi della situazione economica dei suoi membri. In questo contesto segnato

da tensioni politiche e da precarietà economica, Claudio Tolomei scrisse l’8 luglio

1544 una lettera alla Balia di Siena nella quale denunciava “il disordine nel qual si

trova la chiesa di Santa Caterina da Siena qui in Roma, la quale per conto de i censi 13 ASR, Congregazioni femminili, Monastero di S. Caterina da Siena a Magnanapoli. 14 G. FORMICHETTI 1982, pp. 71-75.

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passati è stata posta a l’incanto e venduta”. La possibile vendita della chiesa,

sottolineava Tolomei, aveva mosso i Senesi a Roma a cercare un impegno finanziario

comune e soprattutto ad appellarsi alla città e ai suoi governanti. “Non è huomo che

non conosca quanto nel perder di questo luogo si manca al servitio di Dio, e della

debita riverenza verso Santa Caterina, e in oltre quanto macchia l’honore della nazion

senese che è in Roma e di poi di tutta la città vedendosi per picciola cosa lassare ir

male un luogo di tanta devotione come questo. Onde da forestieri son fatte varie

interpretazioni, e tutte poco honorevoli, perché alcuni l’attribuiscono ad ignoranza,

altri a dappocaggine, altri a poca divozione, altri a poca concordia, e non è chi non

creda che per difficultà di pagare il censo si sia incorso in questo disordine”. E’ alla

madrepatria che Claudio Tolomei si rivolgeva “per parte di quei Senesi che sono in

Roma, vi prego che non abbandonate questo luogo, che con un poco di caldo che

venga da voi, risorgerà il servizio di Dio, l’honor della nazione, e la carità verso molti

poveri che de le buone opere verso questa compagnia erano spesso sovvenuti”15. Era

stato incaricato Giulio Fanucci di rappresentare alla Balia senese – in “quanto che voi

sostenete il peso de l’honore e della città vostra”, come ripeteva Tolomei nella lettera

citata – la necessità di un intervento immediato per recuperare il pieno possesso della

chiesa. Fanucci apparteneva ad una famiglia senese che da tempo esercitava a Roma il

notariato e che può ben considerarsi un elemento di continuità nella gestione della

confraternita nazionale. Anche il figlio Camillo, infatti, rappresentò il cardine della

organizzazione confraternale per tutto il periodo successivo, il segmento di

congiunzione fra il pio sodalizio, la città di origine, la corte papale e la società

romana. La sua personalità, il suo “ufficio” di notaio lo rendevano mediatore di

interessi economici, latore sicuro di istanze caritative e devozionali espresse dai

confratelli sempre più caratterizzati socialmente fra le fasce inferiori della

popolazione.

Alla metà del Cinquecento Camillo Fanucci divenne priore della Confraternita

di Santa Caterina e si trovò ad affrontare anche problemi suscitati dalle tensioni

religiose, dai pericoli di deviazioni dall’ortodossia rigidamente difesa da Paolo IV e

dai suoi successori. Frammenti di documentazione ci fanno capire come anche il

sodalizio nazionale senese potesse trovarsi in pericolo, se sospettato di ospitare fra i

suoi membri ecclesiastici e laici macchiatisi – o semplicemente sospetti – di apostasia.

15 Delle Lettere di M. Claudio Tolomei libri sette..., Vinegia, Giolito de’ Ferrari, MDLIIII, pp. 262-263.

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Da Venezia, dove si era rifugiato, il 21 dicembre 1560 scriveva ai priori della

confraternita di Santa Caterina Girolamo Caffaro, salernitano, “cappellano e

servitore”, ricordando come in passato, quando aveva officiato come cappellano

l’omonima chiesa senese in via Giulia, avesse sborsato di tasca propria molto denaro

– più di 200 scudi – per “bonificare il loco”, riattare stanze per gli infermi. Costretto

“a fuggir dalli sbirri, scampare dall’iniqua persecutione”, richiedeva ora di essere

reintegrato nelle sue funzioni, poter nuovamente usufruire dell’abitazione prima

concessagli dalla compagnia stessa16. Sottolineava come da Pio IV fosse stato

“provvisto alla giustitia” e prometteva di inviare a Roma copia della “mia espeditione

o assolutione o conferma come dir la vogliate, che mai io fu Apostata, essendo stata

tal professione per vim et metum come possete vedere”. Sperava nella carità senese di

essere mantenuto come “vostro perpetuo Cappellano”, come contratto in precedenza e

pensava che “la grave rovina di Siena vi havesse fatto più compassionevoli alla

calamità degl’altri et il giogo della servitù più devoti verso Iddio con carità del

prossimo verso le sue miserie et persecutioni”. Ma rimaneva deluso dal silenzio dei

priori della confraternita attenti, a suo dire, solo a “far mercantia”. In realtà la

prudenza mostrata dai priori di S. Caterina che non vollero riprendersi Caffaro come

cappellano era dettata dal mutato clima religioso che anche a Roma avrebbe sempre

più da vicino controllato le confraternite, il loro operato, i loro componenti. Era

inoltre opportuno allontanare ogni possibile, sebbene infondato, sospetto sulla

comunità senese a Roma e sui suoi possibili legami con l’eterodossia, dopo che eretici

famosi, da Bernardino Ochino ai Sozzini, potevano aver lasciato pericolose eredità

protette anche dalla comunità senese a Roma. Come è stato dimostrato, l’eterodossia

si nutriva, anche a Roma, di un milieu costituito da artigiani, bottegai, orafi, incisori,

artisti più o meno famosi17.

La figura di Camillo Fanucci può dirsi esemplare del clima segnato dalla carità

controriformistica, dal risveglio controllato della devozione, dalla pietà verso poveri e

malati che segna la vita delle confraternite romane, nazionali, di mestiere e

devozionali dalla seconda metà del Cinquecento. Camillo Fanucci non è solo

promotore attivo della vita del sodalizio dei Senesi a Roma, ma anche attento notaio

di tutte le registrazioni per l’elargizioni di doti, lasciti testamentari alla confraternita.

16 AASCS, Corrispondenza sec. XVI, cc. nn. 17 M. FIRPO 2004.

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Autore di diversi scritti che rispecchiano fedelmente il nuovo clima creatosi attorno

alla figura di Filippo Neri, proiettato verso il risveglio di pratiche religiose, Fanucci

scrisse infatti una guida per compiere la pia pratica della visita alle Sette Chiese18 e,

più tardi, pubblicò il famoso Trattato di tutte l’opere pie dell’Alma Città di Roma19,

sintesi completa di quel rinnovato panorama caritativo e devozionale che segnava la

Roma postridentina.

Attivo, non solo come notaio nella confraternita senese, Camillo Fanucci

promosse e guidò, nel 1595, il viaggio a Siena compiuto dalla confraternita per

venerare l’immagine della Madonna di Provenzano, lasciando una puntuale

descrizione della preparazione, delle tappe e della visita solenne a Provenzano20. La

decisione di compiere il viaggio non era stata facile: le riunioni dei confratelli, come

accenna velatamente Fanucci, allora segretario della confraternita, non avevano dato

unanime parere, ma al contrario avevano evidenziato i consueti dissensi che, da molti

indizi, sembrano essere stati assai frequenti fra i Senesi a Roma ed indicati come una

caratteristica della faziosa litigiosità della ‘nazione’ stessa. “Considerando che fra li

descritti vi erano molti tanto poveri che era necessario fossero aiutati, stavano

ambigui in deliberare”, alla fine, la “deliberatione” fu presa da un persona autorevole

indicata nell’abate Giulio Petrucci che, con i Priori, affrontò le ingenti spese per

rivestire i partecipanti con “il damascho venuto da Napoli et altri paramenti”. Il

viaggio rimase nella memoria storica della compagnia e un secolo dopo, nel 1695, a

Siena si suggeriva di ripetere tale esperienza.

I tempi erano mutati: la documentazione confraternale mostra come, nel corso

del Seicento, i legami con la madrepatria consistessero soprattutto nell’ospitalità

concessa a Roma, in occasione dei Giubilei del 1625 e del 1675, ai pellegrini senesi,

alle loro confraternite21. Sempre più frequenti diventarono le richieste, inoltrate anche

dalle autorità senesi, di ottenere sussidi per fanciulle povere, soprattutto nobili. Nel

1649, ad esempio, in una seduta confraternale si comunicava la richiesta di ulteriore

sussidio per Caterina di Rodolfo Forteguerri e Luisa Piccolomini per entrare nel

monastero delle vergini “del Rifugio, dove non vi si veste altro che poverissime 18 C. FANUCCI 1559. 19 Roma, L. Facij & Paolini, 1601. 20 AASCS, sez. III, filza 12, fasc. 89: Narrativa del viaggio fatto da Roma a Siena dalla Venerabile Confraternita di S.ta Caterina da Siena della Natione Sanese in Roma per andare a visitare la nuova Chiesa e miracolosa immagine della Madonna di Provenzano in detta Città di Siena l’anno della salute 1595 descritta da Camillo Fanucci segretario di detta Natione Sanese. 21 AASCS, Corrispondenza sec. XVII.

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fanciulle nobili”. La questione delle doti attraversa tutto il Seicento e non sembra

ricevere particolari, positive soluzioni quando divenne papa Alessandro VII (1655-

1667). La vita della confraternita senese a Roma mostra insomma come, dalla metà

del Cinquecento, si fosse sempre più determinata una dicotomia all’interno della

nazione senese presente nella città Eterna: i ceti più umili continuarono a gravitare

intorno al pio sodalizio, logorato al suo interno da una precaria organizzazione,

assillato dalla necessità di trovare nuove risorse per far fronte alle crescenti bisogni

finanziari dei connazionali. Dall’altra parte, proprio dalla metà del Cinquecento, era

diventato evidente, soprattutto per i protagonisti della più recente immigrazione, che

la fortuna economica, l’ascesa sociale si giocavano sempre nelle carriere curiali

compiute nel mare tempestoso della corte romana. In questo quadro socialmente

mosso ed articolato, non mancarono le eccezioni di chi si propose come trait-d’union

fra la confraternita, la società che rappresentava e la corte pontificia.

Attorno alla corte pontificia: speziali, medici, avvocati senesi a Roma

La mancata elezione, dopo Marcello II (1555), di papi senesi, le condizioni

politiche dell’agonizzante Repubblica e i rapporti altalenanti fra i Medici ed i diversi

pontefici che regnarono nel Cinquecento, determinarono una visibile assenza di

personalità di spicco originarie della città toscana, anche nel collegio cardinalizio.

Venivano a mancare così le immediate protezioni per sostenere con successo carriere

curiali, più esile si faceva la committenza senese da parte di chierici, minori, infine, le

opportunità per chi voleva entrare a servizio di una corte cardinalizia. Non per questo

Roma perse le sue attrattive per quanti decidevano di intraprendere una nuova attività

o, semplicemente, di tentare la fortuna. Molti, anche fra i Senesi, ebbero indubbio

successo. Personaggio di spicco, protagonista di primo piano della vita romana del

tardo Cinquecento lo speziale senese Marcantonio Ciappi era un punto di riferimento

non solo per la confraternita nazionale, ma anche per la corte romana. Scrisse una vita

di Gregorio XIII (1572-1585), suo protettore,22 e quando nel 1576 Roma, come altre

città italiane, fu devastata dalla peste, Ciappi dette alle stampe un’opera in versi nella

quale si fornivano indicazioni e rimedi per salvaguardare la propria salute di fronte

all’epidemia. Il successo dell’opera è testimoniato dalle successive ristampe quando,

come nel 1630, la peste che decimò la popolazione a Milano e nel resto dell’Italia 22 M. CIAPPI…G. MARTINELLI 1591.

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settentrionale, si affacciò ai confini settentrionali dello Stato Pontificio e minacciò

anche Roma23.

Sicuramente facoltoso con la sua rinomata spezeria all’insegna del Drago, in

Banchi, (forse il nome fu dato alla spezeria in onore di Gregorio XIII, Boncompagni,

che aveva appunto un dragone nello stemma familiare) nel cuore delle attività e

finanziarie, artigiane della Roma cinquecentesca, Ciappi seppe rendere visibile la sua

prestigiosa posizione sociale anche nell’allestire fastosi archi di trionfo per le

cerimonie del possesso – la processione che conduceva il neoeletto pontefice dal

Vaticano alla basilica di S. Giovanni in Laterano – che manifestava nella sua

articolazione gerarchica rigidamente costruita i segni della potenza papale e del suo

prestigio familiare e nazionale24. Esemplare, a questo proposito, fu l’arco di trionfo

innalzato a sue spese il 6 novembre 1605, quando Camillo Borghese (1605-1621),

eletto nella primavera precedente, prese possesso della basilica lateranense25.

Lo speziale non era nuovo a queste imprese ed anche in occasione

dell’elezione di precedenti pontefici aveva eretto archi di trionfo. Voleva, con queste

potenti e costose dimostrazioni del suo prestigio personale e di ‘disponibilità’ verso il

neoeletto e la sua famiglia “honorare li suoi Prencipi, e dar gusto honesto à tutti nella

comun allegrezza senza perdonar’ a spesa, o disagio, ha cercato e cerca sempre cose

nuove, et ingegnose inventioni, rappresentar cose, non meno nell’occhio corporale,

che a quello dell’animo dilettevoli, come fece negl’anni addietro, con haver descritto

in compendio la vita, e le gloriose attioni di Gregorio XIII suo benefattore e con haver

fatto successivamente nobil spettacoli nell’assuntione al sommo pontificato di

Gregorio XIIII e del sopradetto Leone XI creatura di quello, con apparato veramente

bello che fu stimato a paragone de gl’altri publichi honorato, e riguardevole. Hora

parimente nell’occasione del nuovo Pontificato di N. S. Paolo V mosso dal suo solito

generoso istinto, s’è voluto mostrare a Sua Santità non meno che a gl’altri Principi

antecessori devoto, et affettionato, et ciò con buon fondamento, sì per haver tolto

felice presagio dall’insegna gentilitia della Santità Sua del Dragone, insegna

parimente della sua bottega in memoria del sopradetto Gregorio XIII sì anco per la

23 Regola da preservarsi in sanità in tempi di sospetto di peste. Non solo utile et necessaria ma facilissima da farsi da qualsivoglia persona...composta per M.A. Ciappi, In Perugia, Pietriacomo Petrucci, 1577. Una seconda edizione fu stampata a Bracciano, per Stefano Aspri, nel 1630. 24 Sul significato simbolico e politico di questa cerimonia cfr. I. FOSI 2002, pp. 31-52.

25 Relatione del vago et nobile apparato fatto alla spetieria del Drago del magnifico Marco Antonio Ciappi..., Roma, Facciotto, 1605. Si veda, inoltre, F. CANCELLIERI 1802, pp. 178-188; M. FAGIOLO DELL’ARCO 1977, I, p. 16.

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particolare divotione, che sempre ha portato a questo Principe, per traere origine da

Siena sua patria”26.

Paolo V, un pontefice finalmente di origine senese, aveva infatti suscitato

immediatamente nei suoi connazionali residenti a Roma e nella città di origine,

speranze che si potesse ricreare il clima favorevole per i Senesi, grazie ad una più

intensa protezione pontificia. La consacrazione di Camillo Borghesi, suo cugino,

arcivescovo di Siena il 29 gennaio 1607, sembrava incoraggiare queste speranze.

Marcantonio Ciappi non si limitò a far eseguire interventi effimeri ma intervenne con

una mirata committenza sulla stessa chiesa nazionale. I suoi interessi, che andavano

ben oltre quelli legati al suo mestiere di “aromatarius”, mostrano un collezionismo

non limitato a prodotti artistici di soggetto religioso27. I rapporti fra la colonia senese a

Roma, le sue istituzioni come la confraternita e la chiesa nazionale e il papa Borghese

furono certo resi più stretti non solo da personalità eccentriche come l’aromatario

della spezeria del Drago. “Per benefico rescritto” Paolo V concesse alla confraternita

facoltà godute anche da altri sodalizi romani come quella di poter liberare un bandito

capitale nel giorno della festa di Santa Caterina: nel corso del Seicento saranno molte,

e non solo di senesi, le suppliche inoltrate ai Priori per ottenere la grazia per qualche

condannato28.

Se, comunque, la figura di Marcantonio Ciappi si propone come esemplare

segmento di congiunzione fra la corte, la curia e la ‘nazione’ senese nella società

romana, carriere curiali avevano visto dal Quattrocento protagonisti esponenti di

famiglie senesi che, in seguito, si stabilirono definitivamente a Roma proprio grazie

alle chances offerte dalle carriere ecclesiastiche. Se infatti seguiamo le vicende di

alcuni personaggi nella Roma del ‘500, è facile osservare come proprio alla metà del

XVI secolo avvenga, anche per chi prima si era affermato nell’esercizio della banca e

della mercatura, un decisivo spostamento di interesse verso carriere ecclesiastiche o,

comunque, capaci di fornire attraverso la preparazione giuridica, vie privilegiate, ma

non sempre scontate e facili, per accedere ai più importanti e redditizi uffici curiali,

come, ad esempio, quello di avvocati concistoriali.

26 M. FAGIOLO DELL’ARCO 1997, pp. 207-208. 27 Si veda il saggio di S. ROLFI 1997, pp. 185-207. 28 ASR, Camerale III, Confraternita di S. Caterina da Siena, b.1.

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Esemplare, in questa direzione, l’affermazione ‘romana’ della famiglia

Patrizi29. Già nel Quattrocento due esponenti della famiglia senese si erano affermati a

Roma, sotto la protezione di Pio II Francesco Patrizi aveva scritto i suoi trattati30 e

Agostino Patrizi era stato maestro di cerimonie di Sisto IV31. Un filo tenue di

continuità aveva mantenuto la famiglia con la corte romana e nel 1522 Arcangelo

Patrizi si affermò come avvocato concistoriale e fu in stretto rapporto con gli eredi di

Agostino Chigi, mentre suo fratello, più tardi, proprio alla metà del Cinquecento, dette

vita al ramo romano che avrebbe segnato la successiva storia familiare. Proprio in

quegli anni cominciò ad affermarsi, in Roma, la 'nuova' religiosità di Filippo Neri,

destinata ad imprimere un marchio indelebile al rinnovamento, non solo in termini

religiosi e devozionali, ma anche artistici alla Roma barocca: intorno alla figura di

Filippo e, successivamente, del cardinale Cesare Baronio, si radunano esponenti di

famiglie toscane, senesi e fiorentine, come dimostrano, ad esempio, i verbali del

processo per la beatificazione di Filippo Neri32. Fu proprio attraverso l’ambiente

oratoriano che, fra tardo Cinquecento e inizio Seicento, si strinsero più forti legami fra

alcune famiglie senesi e Roma, Figura decisiva fu Matteo Guerra (1538-1601), devoto

a Filippo Neri e fondatore della Confraternita del Chiodo che tante volte sarà ospitata

a Roma dal sodalizio nazionale senese33. Anche il "far parentado" rappresentò una via

privilegiata per l'affermazione nella corte papale. Le mosse per costruire una parentela

nella città nella quale si era deciso di impiantare la propria casa e le attività dovevano

fare i conti, innanzi tutto, con la corte pontificia, sempre più unica fonte di prestigio

sociale e generosa dispensatrice di protezione per affermarsi34. Le vicende della

famiglia Patrizi mostrano come inizialmente le scelte matrimoniali fossero state

orientate verso famiglie senesi come Piccolomini, Nini, Placidi, Accarigi35.

Successivamente, invece, il matrimonio di Patrizio, che già godeva di indiscusso

prestigio sociale e di cospicue risorse economiche, fu contratto con una donna di una

29 Si veda, a questo proposito, lo studio di A. M. PEDROCCHI 2000, pp. 12-38. 30 F. PATRIZI, De regno et regis institutionem libri 9..., Parisiis, Galliot, 1531;De institutione Reipublicae libri novem...,Parisiis , Gourbin, 1575. 31 Agostino Patrizi Piccolomini è, com’è noto, l’autore del primo cerimoniale pontificio ufficiale (1478): M. DYKMANS 1980-1982. 32 G. INCISA DELLA ROCCHETTA, N. VIAN, IV, 1963, ad indicem. 33 Sugli Oratoriani a Siena, che sebbene fino al 1606 fosse arcivescovo della città Francesco Maria Tarugi, particolarmente legato a Filippo Neri, si stabilirono a Siena solo un secolo più tardi, cfr. R. ARGENZIANO 1996, pp. 305-313. 34 I. FOSI, M.A.VISCEGLIA 1998, pp. 197-224. 35 A.M. PEDROCCHI 2000, p. 14.

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nobile famiglia romana, i Crescenzi, legati alla figura di Filippo Neri, all’ambiente

dell’Oratorio e, attraverso il cardinale di famiglia, al pontefice Clemente VIII

Aldobrandini (1592-1605). Anche per questa famiglia di origine senese sarà decisivo

il pontificato Borghese durante il quale Costanzo Patrizi ottenne il cappello

cardinalizio. Alla fine del Cinquecento l’affermazione familiare era testimoniata

anche da una generosa committenza nelle cappelle delle maggiori chiese romane ed

esponenti di spicco come Patrizio Patrizi si propongono come punti di riferimento,

ormai ben inseriti nella società romana, nella corte papale e nelle istituzioni

capitoline, per i Senesi che arrivano a Roma. Patrizi, infatti, che era stato incaricato da

Clemente VIII di rimettere in sesto l’amministrazione dell’Ospedale di S.Spirito in

Sassia, accolse il medico Giulio Mancini al suo arrivo nella città Eterna per

introdurlo nella corte papale.

Le tappe che portarono all’ascesa sociale della famiglia Patrizi nella Roma del

tardo Cinquecento e del Seicento si possono considerare cetualmente esemplari di altri

percorsi che segnarono la storia di personaggi senesi che si affermarono, prima nella

mercatura e nella gestione di uffici finanziari della curia romana, per poi ripiegare, se

così si può dire, piuttosto sulle carriere giuridiche ed ecclesiastiche. E’ il caso di

Angelo Brizi, socio in affari, all’inizio del Cinquecento, con Stefano Ghinucci,

appaltatore delle saline nella Marca sotto Leone X. Successivamente, “portatosi alla

corte di Roma, seppe così bene adoperarsi con Papa Leone X che lo dichiarò

Protonotario Apostolico de’ Partecipanti, e suo Cameriero parimente de’ì

Partecipanti”, scelta non tanto determinata “da cura tanto interessata”36, come sostiene

Ugurgieri Azzolini, ma da oculata decisione di chi intravedeva più sicure possibilità di

affermazione negli uffici curiali e nella vicinanza al pontefice e alla sua liberalità.

Giureconsulti come Niccolò Piccolomini o Rinaldo Petrucci, Celio Bichi o Filippo

Sergardi sono i più noti esponenti di quei non pochi uomini di legge che, nella prima

metà del Cinquecento, lasciarono Siena per cercare di intraprendere una più sicura e

gloriosa carriera a Roma, soprattutto come giudici nel supremo tribunale della Rota e

come avvocati concistoriali.

Furono certamente le tristi condizioni della Repubblica, la guerra, la precarietà

economica nella quale si trovarono anche molte casate nobili e patrizie senesi a

spingere questi uomini e le loro famiglie verso Roma e la corte pontificia. Non

36 I. UGURGERI AZZOLINI I, 1649, p. 221.

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sappiamo se questi e altri personaggi che compaiono nei diversi uffici della curia

romana o ascritti fra i familiares dei pontefici abbiano – e in che misura – nutrito

sentimenti antimedicei, se insomma la loro presenza a Roma possa ascriversi al

fuoruscitismo politico, dichiaratamente antimediceo e repubblicano. La fortuna dei

Borghese, ad esempio, è notoriamente legata alla oculata scelta di Marcantonio,

avvocato concistoriale, di non legarsi al furiuscitismo, alla sua disperata difesa di

un’ormai illusoria libertà repubblicana, ma di guardare con occhio accorto ai poteri

pontifici e imperiali e proporsi come mediatore37. Certo è che soprattutto nella seconda

metà del Cinquecento, quando la Toscana appare ormai pacificata (almeno in

apparenza) e Roma ricomincia a giocare il suo ruolo di patria comune sono

difficilmente etichettabili in senso politico i personaggi toscani, senesi ed anche

fiorentini, che troveranno a Roma il loro successo o la loro sfortuna.

Perché, effettivamente, il successo a Roma non era affatto scontato: troppi

erano gli elementi che potevano favorire o distruggere una carriera, una famiglia e

molto dipendeva dal favore del papa, del cardinal nipote, arbitro, sempre più nel corso

del Seicento, delle relazioni di clientela e di patronage. Era già accaduto in passato e

non mancano gli esempi di caduta in disgrazia di senesi alla corte di Leone X, come

Antonio Buoninsegni e altri che, probabilmente, subirono le conseguenze della

congiura messa in atto dal cardinale Petrucci contro papa Medici. Ma capitò anche

molti decenni dopo, sotto Paolo V a Giulio Pannocchieschi d’Elci, frustrato nelle sue

aspirazioni a ricevere la berretta cardinalizia per l’invidia del cardinal nipote Scipione

Borghese e, per questo, costretto a tornare a Siena. Se le sue speranze sembrarono

riaccendersi con l’elezione di Gregorio XV Ludovisi (1621-1623), questa voltà

l’insuccesso fu dovuto ai maneggi della cognata del papa, Lavinia Albergati Ludovisi,

dalla quale dovette subire “molti disgusti”. Ma così incerta era la corte, e la corte di

Roma in specie, dove la sovranità non si trasmetteva per eredità e le “inimicizie” sorte

sotto un papa potevano placarsi del tutto con l’elezione del successore.

La ormai sfumata connotazione politica fra i Senesi – ed anche fra i Fiorentini

– presenti a Roma, tutti sudditi del “sovrano naturale”, cioè il granduca, e fedeli

servitori del “padre comune”, cioè del papa, non sminuì il valore che la comune

provenienza poteva ancora giocare nel favorire integrazione e successo nella società

romana e nella curia pontificia. Come sotto Paolo V, anche con il pontificato di

37 G. DE CARO 1970, pp. 598-600.

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Urbano VIII Barberini (1623-1644), per molte famiglie toscane si aprirono nuove

possibilità. La città del papa si proponeva agli occhi di tutti come un ambiente

favorevole per la finanza, per la vivacità culturale e artistica, per la crescita degli

apparati burocratici resi necessari dal governo dello Stato Pontificio e della

diplomazia, proprio mentre in Europa stavano divampando le fiamme della Guerra dei

Trent’anni e il pontefice cercava di presentarsi come neutrale “padre comune” fra

Francia e Spagna. E’, dunque, in questo clima che alcune famiglie che avevano visto

declinare le proprie fortune a Roma nella seconda metà del Cinquecento, riannodarono

con la Città Eterna i fili di un rapporto che non si era mai interrotto.

I Chigi fra Siena e Roma fra Cinque e Seicento

La fortuna economica e il prestigio sociale di Agostio Chigi il Magnifico

avevano, com’è noto, lasciato tracce indelebili non solo nel tessuto urbanistico della

Roma rinascimentale, ma si proponevano come un modello con il quale provarono a

confrontarsi molte famiglie senesi, e soprattutto, anche a distanza di un secolo, gli

stessi eredi del banchiere di Giulio II. Le vicende che portarono non certo al rapido e

completo dissolversi ma, quanto meno, alla forte contrazione del patrimonio di

Agostino non sono state ancora completamente analizzate. Attribuite, talvolta,

all’inettitudine del figlio, talaltra anche alla congiuntura economica negativa

determinatasi a Roma dopo il 1527, non chiariscono né le dimensioni del mutamento

economico né i suoi motivi38. L’analisi della documentazione economica può dirci

molto sulle cause che in breve tempo portarono all’alienazione di gran parte dei beni

romani, alla liquidazione delle attività finanziarie nel 1542. Spese eccessive, anche per

far fronte ad impellenti necessità, come il pagamento del riscatto per un figlio di

Sigismondo fatto prigioniero durante il Sacco, troppe doti da pagare per ‘dignitosi’

matrimoni delle figlie, forse una conduzione degli affari, e soprattutto del Banco,

disinvolta e di tipo ormai antiquato, che escludeva la partecipazione di altri

mercatores: tutte queste ipotesi possono diventare valide spiegazioni solo se si tiene

conto della congiuntura politica e della tragedia rappresentata dal Sacco di Roma, da

un lato, e dalle vicende senesi dall’altro. Certo i Commentarii39, scritti da Fabio Chigi

38 Alcuni accenni al problema in M. TEODORI 2001, pp. 17-21. 39 BAV, Manoscritto Chigiano, a. I. 1, Chigiae Familiae Commentarii.

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nell’intento di riannodare i fili con il passato romano della sua famiglia sono troppo

generici, segnati da una certa autocensura nel ripercorrere vicende e personaggi ai

quali si poteva imputare la fine dello splendore familiare creato da Agostino. tuttavia,

ci sono evidenti spie che i Chigi, a Roma, nonostante le difficoltà economiche,

continuarono ad investire in proprietà immobiliari strategicamente collocate nel

quadro urbanistico, quasi per dare una dimostrazione di continuità e di permanenza di

un prestigio familiare non del tutto offuscato40. E per una strana coincidenza, quando,

nel 1599, fu venduta la Farnesina, ultimo simbolo di una posizione familiare

prestigiosa, nasceva a Siena Fabio Chigi che avrebbe ridato vita al passato glorioso

nella nuova dimensione del papato e della corte. Inoltre la continuità familiare che

proprio il futuro pontefice, dal suo arrivo a Roma nel 1626, si proporrà di

materializzare, non solo nel raccogliere notizie, non poteva nascere dal nulla. Anche in

questo caso, dunque, molte sono ancora le tessere necessarie per ricomporre l’intera

vicenda familiare, a Roma e a Siena.

Per Roma, infatti, l’interesse dei Chigi si era mantenuto vivo e costante per

tutto il Cinquecento, anche quando la perdita di gran parte del patrimonio spinse gli

eredi di Agostino il Magnifico a rivolgere piuttosto alla città di origine i propri

interessi economici e politici. La corrispondenza intessuta regolarmente fra famiglie

senesi a Roma, come appunto i Patrizi, i Borghese, e i Chigi testimonia il loro costante

legame con la città in cui si mantenevano beni, interessi finanziari, contatti personali

che alimentavano un rapporto destinato col tempo a costruire un milieu pronto ad

accogliere chi avesse deciso di ritornare a Roma, questa volta per intraprendere la

carriera ecclesiastica. Il rapporto con i Borghese fu tuttavia controverso e certamente

condizionato dagli avvenimenti politici che coinvolsero le due città negli anni ’30 del

Cinquecento. Marcantonio Borghese, infatti, avvocato concistoriale trasferitosi

stabilmente a Roma e ben presto avviato ad un rapporto sempre più stretto con la corte

papale e le maggiori casate romane, prestò per molti anni la propria perizia giuridica

per risolvere i problemi sollevati dalla gestione del patrimonio lasciato da Agostino il

Magnifico. Legato anche da vincoli di parentela con i Chigi – Agnese Bulgarini, figlia

di sua sorella Camilla, sposò infatti Mario Chigi, nonno del futuro Alessandro VII –

dovette allontanarsi dal “patrocinio” chigiano proprio per una scelta di campo:

numerose e troppo rischiose per lui che aveva scelto ormai di stabilirsi a Roma erano

40 Si veda, a questo proposito, il contributo di C. BENOCCI sul Casaletto di Pio V in questo volume.

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le “liti gravissime” che i Chigi avevano con le maggiori casate romane41. Come

Marcantonio Borghese, anche Arcangelo Patrizi, avvocato concistoriale a Roma,

aveva lavorato in diverse cause a favore dei Chigi42.

La corrispondenza fra questi ormai celebri uomini di legge e Sulpizia Petrucci,

figlia di Pandolfo e moglie di Sigismondo Chigi, figlio del Magnifico, indica con

chiarezza che, dopo la sua morte, questa figura femminile divenne il vero e sicuro

punto di riferimento per tutta la famiglia, non solo per la gestione del patrimonio43. Sul

pizia, che aveva sposato Sigismondo nel 1507, rimase vedova nel 1525: da allora fu

“donna e madonna” e assunse su di sé tutte le funzioni di pater familias. Le sue lettere

ai figli, scritte in gran parte di proprio pugno, fra il 1521 ed il 1544, da Roma e da

Siena, ci propongono l’immagine di una donna che lotta con tutte le proprie forze per

difendere le sostanze patrimoniali, i beni di Siena, soprattutto le proprietà terriere

minacciate dalla “avaritia” dei contadini e di fattori. Con una grafia “a zampa di

gallina” tipica di una cultura scrittoria dell’epoca, soprattutto femminile, Sulpizia

scrive alle figlie Ortensia Ghinuci, Cassandra44 e Agnese, intrecciando ordini per una

severa regia del ménage familiare a notizie su fatti o persone di comune conoscenza.

Anche ai figli Alessandro e Augusto scrive invece lunghissime lettere con ordini

precisi per condurre in modo deciso le diverse liti con famiglie romane, come i

Massimo, ma sollecita di viglilare anche sulla politica di Paolo III. Le liti accese per

questioni finanziarie non erano limitate solo a Roma. Il 13 gennaio 1543 Sulpizia si

raccomanda al figlio Augusto di tenere d’occhio il pericoloso temporeggiare della

parte avversaria e scrive che “circa la causa ho inteso quanto tu dici che li ufficiali

perlongorno la causa a beneplacito et hora loro vogliono dar la sententia et che dubbito

che non la diano contro il che sarà una grand iniquità”45. Si preoccupa dunque per

un’altra sentenza contraria alla famiglia che avrebbe deteriorato ancor più le sostanze e

leso anche l’onore. Le sembra “el mondo andar a rovescio”, ma si mostra “resoluta”,

promettendo al figlio “che me voglio appelar et mostrar tutti li pagamenti de Massimi,

de li quali può mostrar messer Matheo nostro, oltra quello che io farò opra di mandar

et farei con lui per veder quello conviene di fare et tanto farei che volendo hora tirar

41 BAV, Manoscritto Chigiano R V 11, c. 433r. 42 BAV, Manoscritto Chigiano R V 12. 43 BAV, Manoscritto Chigiano R III 70, cc. 109r-464v. 44 Le lettere di Cassandra e Sulpizia sono state analizzate da M.P. FANTINI 1999, pp. 111-150 45 BAV, Manoscritto Chigiano R III 70, c. 254rv

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detta causa sopra di noi...”46. In questa, come in altre missive, si vede come Sulpizia

coinvolga, affidando compiti precisi con ordini perentori, tutta la sua numerosa

famiglia in un disperato salvataggio delle fortune. Con tono deciso e accorato, Sulpizia

impartisce istruzioni anche a Pietro Aginolfi da Parma, “fattore”, amministratore fra il

1539 e il 1542, delle ancora molte proprietà fondiarie nel Senese47. Si informa delle liti

pendenti con famiglie senesi, come Bandinelli e Accarigi, raccomanda di aiutare i suoi

figli, di dare loro corrette indicazioni: “vi preghiamo che lo [Augusto] aiutiate et vi

raccomandiamo tutte le cose nostre che le custodiate con tutta quella diligentia et fede

che in voi habbiamo et perché portaranno il grano vi si mandaranno li libri et tutto

quello che farà di bisogno, altro non ci accade”, scriveva infatti in una delle sue lunghe

lettere. Ma erano anni difficili, non solo per gli eredi di Agostino il Magnifico e se

queste frequenti liti sono un non raro esempio delle cause che portarono in rovina

molti patrimoni nobiliari nell’età moderna, certamente si intrecciarono con la

complessa e sempre più disperata situazione politica di Siena e nei complessi rapporti

con il Papato, mentre si combattevano gli ultimi, decisivi momenti delle guerre

d’Italia. Del resto, scrivendo al figlio Alessandro, l’8 settembre 1544, la stessa

Sulpizia lamentava di aver ricevuto a Roma un “ambasciatore” della Repubblica che

aveva riferito che “il Consiglio non è contento che si spedisca a questa Signoria”, ma

al figlio ribadiva risoluta, di fronte al probabile diniego da parte dei governanti senesi

di intervenire per salvare gli affari della sua famiglia “e però non ci si fa su mente e

non vi lamentino poi se haranno delle cose che li dispiaciaranno da ogni verso che

questa non è la via”48. Se a Roma, dove Sulpizia in questi anni continuava a risiedere,

gli affari andavano piuttosto male, consumati anche dalle liti, nonostante i suoi sforzi,

a Siena, già negli anni immediatamente precedenti la fine della Repubblica furono

compiuti investimenti in acquisto di terre, considerate un più sicuro rifugio. Nel luglio

1534 i figli di Sulpizia acquistarono la tenuta della Castellaccia49 e altri beni furono

entrarono a far parte del patrimonio fra il 1556 ed il 1563. soprattutto nelle vicinanze

di Siena: due poderi vicino alla chiesa dell’Osservanza furono venduti ai Chigi da

Matteo Biringucci nel 1556; “un podere con casa diruta” fu acquistato nel settembre

1563 per 650 fiorini e nel 1570 Niccolò Spinelli vendeva ad Augusto Chigi, col 46 Ivi, c. 254r. 47 Le lettere di Aginolfi a Sulpizia in BAV, Archivio Chigi, 341, 70. 48 BAV, Manoscritto Chigiano R.III.70, c. nn. Si tratta di un’aggiunta autografa alla lettera scritta da altra mano, probabilmente da un segretario. 49 BAV, Archivio Chigi, n.17286.

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consenso dell’Ospedale di S. Maria della Scala il podere di Casanova ad Ancaiano,

dove, com’è noto, si costituirà una considerevole proprietà incentrata attorno alla villa

di Cetinale50. Alla fine del Cinquecento assistiamo inoltre a significativi passaggi di

proprietà fra i rami della famiglia, ormai segnati da un diverso destino economico,

come dimostrano gli atti per la vendita della Villa delle Volte, con i suoi poderi,

ceduta nel 1603 da Francesco ed Alessandro Chigi, oppressi ormai da troppi debiti, ad

Agostino Chigi, rettore dell’Ospedale di S. Maria della Scala ed artefice, proprio in

quel tournant tardocinquecentesco non solo della ripresa economica, ma di tutta la

politica familiare51.

Si deve innanzi tutto osservare che la rinnovata fortuna chigiana, a Siena e

successivamente anche a Roma, fu dovuta anche a scelte politiche che posero fin

dall’inizio i Chigi in stretta relazione e sintonia con il potere mediceo. Questa

strategica e fortunata opzione permise a diversi esponenti della famiglia di ricoprire

incarichi nel governo dello Stato Nuovo, ma anche di mantenere fruttuosi contatti

direttamente con la corte fiorentina e, di conseguenza, con Roma attraverso personaggi

di spicco della gerarchia ecclesiastica come il cardinale Ferdinando de’ Medici,

divenuto poi granduca. A Siena la figura di sicuro rilievo della famiglia è certamente

Agostino, rettore dell’Ospedale dal 1597. Era nato a Siena nel 1563, da Eleonora

Piccolomini Mandoli e da Augusto. Sposò Olimpia, del ramo Piccolomini Carli che gli

dette una figlia, Virginia Maria, morta ancora bambina. Questa mancanza di una sua

discendenza fu sicuramente determinante perché Agostino divenisse il tutore, la guida,

il sicuro riferimento per Fabio Chigi, rimasto anch’egli presto orfano52. Abitavano

sotto lo stesso tetto, secondo un modello familiare assai diffuso in Toscana53, nel

palazzo del Casato, “ammodernato” proprio per ospitare con rinnovato decoro tutta la

famiglia. Laura Marsili, la madre di Fabio, futuro Alessandro VII, parla di lui nelle

lettere al figlio come di “Missere”, con riverenza e gratitudine per quanto stava

facendo per il figlio inviato a Roma per intraprendere la carriera ecclesiastica54. La

carica di Rettore della prestigiosa istituzione ospedaliera e i suoi buoni rapporti con la

50 BAV, Archivio Chigi, nn° 17289-17290; 17296. 51 BAV, Archivio Chigi, n° 17311. 52 Sulla figura di Agostino Chigi, Rettore dell’Ospedale, rinvio alle notizie biografiche, economiche e artistiche contenute nei contributi degli Autori e Curatori del catalogo Alessandro VII Chigi (1599-1667). Il papa senese della Roma moderna, Catalogo della mostra, a cura di A. ANGELINI, M. BUTZEK, B. SANI, Siena 2000. 53 M. BARBAGLI 1996. 54 I. FOSI 2004, pp. 207-229.

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corte fiorentina ne fecero il portavoce, in diverse occasioni, del disagio senese. Nel

1612 fu inviato infatti a Firenze con Lelio Tolomei per “andar a neghotiare con S.A.S.

alcuni capi intorno a’ bisogni della città e dello Stato”55. Mediatore per la città e guida

sicura per tutta la famiglia, istituì nel suo testamento il fedecommesso che avrebbe

orientato l’asse patrimoniale secondo la primogenitura. Intanto aveva colto

perfettamente le “moderne” opportunità di carriera offerte dalla corte romana inviando

il nipote Fabio a Roma nel 1526 e garantendogli un “assegnamento menstruo” di 1000

scudi, nella speranza di un’affermazione che, con tempi lunghi e dagli esiti non sempre

scontati, avrebbe potuto cambiare le sorti della famiglia.

Donne di casa Chigi fra Siena e Roma

Nel Seicento, la corrispondenza di Fabio con i diversi membri della sua famiglia, con gli amici e protettori senesi si propone come una fonte di assoluto rilievo per cogliere legami vecchi e nuovi fra Siena e Roma, fra esponenti del patriziato cittadino e la corte pontificia, nella quale il Chigi iniziava la sua carriera. Le lettere, suggestive nella loro diversa formulazione, permettono anche di indagare sentimenti e passioni, sconfitte e successi, oltre alla quotidianità della vita domestica senese, quale appare soprattutto dalle lettere della madre a Fabio Chigi.

Da quando era rimasta vedova per la seconda volta, nel 1611, Laura Marsili Chigi aveva retto “prudentemente” il governo della casa56. Da Siena non si era mai allontanata: viveva nel palazzo di città, nel Casato, ma frequenti erano i suoi soggiorni nella villa di Cetinale, già in questi anni centro di una consistente attività produttiva scandita dai lavori dei campi, dai rapporti con contadini, fattori, lavoranti, e destinata a diventare, nel tardo Seicento, uno dei simboli più eclatanti, nel Senese, delle glorie della famiglia del papa.57 Una vita in villa allietata anche dalle frequenti visite di parenti, dalle “conversazioni” con i “cavaglieri”, che portavano esperienze e notizie da fuori, dalle corti di Firenze e di Roma, dove molti di loro avevano già trovato una posizione di prestigio che rafforzava quello goduto dai Chigi a Siena. Le sue lettere gettano luce anche sull’ambiente del patriziato senese, legato agli onori del governo cittadino e sostenuto, economicamente, dal possesso fondiario – insomma contento “delle loro entrate e de frutti della villa”, come lo descriveva Giovanni Botero nelle Relazioni universali – ma che traeva in questo periodo un vigore nuovo anche dai 55 BAV, Archivio Chigi, n° 17314. 56 Laura Marsili, figlia di Alessandro ed Ersilia Passionei, aveva sposato in prime nozze Antonio Mignanelli, dal quale aveva avuto due figli: Onorata, andata in sposa a Rutilio Bichi, e Antonio era divenuto cavaliere di Malta. Le sue lettere a Fabio in BAV, Archivio Chigi, Carteggi 77. 57 Sulla villa di Cetinale cfr. G. ROMAGNOLI, La villa di Cetinale ad Ancaiano 2002, pp. 454-458.

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legami esterni, con la corte medicea e con la corte romana58. A Roma infatti erano stati gli amici senesi e fiorentini ad introdurre Fabio alla

corte dei Barberini, mentre altri rampolli di famiglie nobili trovavano una degna collocazione negli ordini cavallereschi, come l’ordine di S. Stefano. Anche Gismondo era spesso lontano da casa: avviato alla mercatura, aveva gestito i suoi traffici soprattutto a Messina. Augusto, invece, era stato destinato a perpetuare la discendenza e ad accrescere il prestigio familiare ricoprendo cariche nel governo cittadino. Erano, comunque, carriere che si svolgevano fuori della città natale, lontano dalle mura e dagli affetti domestici e, se certamente potevano offrire maggiori possibilità di successo, da chi restava a casa erano percepite con dolorosa inquietudine. Laura Marsili Chigi continuava ad occuparsi della gestione patrimoniale, sovrintendendo inoltre ai lavori che, in quegli anni, la famiglia stava apprestando sia nel palazzo del Casato che nella villa di Cetinale59. Non sono rare infatti le lettere nelle quali comunica a Fabio l’andamento dei raccolti, l’avvenuta riscossione di crediti, ma anche parentadi che, si sperava, avrebbero portato nuove ricchezze in casa. intercalando notizie di nascite, di morti, di malanni stagionali, dei debiti di gioco di Mario, di bizzarrie dei piccoli che le crescevano intorno, soffermandosi a descrivere con tratti incisivi il nipote Flavio, futuro cardinale60. Laura fornisce al figlio anche un quadro della situazione economica familiare: “noi siamo in gran carestia di denari”, scriveva nel gennaio 1631, ricordando di aver gli inviato 10 piastre “a la mano del vostro Camariere e me ne fece ricevuta”. La mancanza di denaro contante sembra mettere in pericolo tutta l’ordinata gestione domestica e, dopo aver trascorso insieme alle sorelle, ai figli le feste di Natale, era venuto il momento di fare i conti in famiglia, di saldare debiti, di onorare quanto disposto da lasciti testamentari. Acrobazie che Laura riferisce a Fabio: “il primo di dellano si parti da noi Camilla e Caterina che gli ebbi da dare centocinquantatre piastre che ne o auti acattare centovinti e per non ci

58 Sulla nobiltà senese in età medicea rinvio al mio saggio Una nobile decadenza 1996, pp. 53-68 e al contributo di O. DI SIMPLICIO, Nobili e sudditi, in M. ASCHERI 1996, pp. 71-129. 59 In particolare, una risistemazione delle stanze del palazzo del Casato, dove abitava sia “Messere” Agostino, da poco vedovo, sia Laura è ampiamente descritta nella lettera del 28 ottobre 1635:” non restavo di sollecitare lassettare le camare per Gismondo ma ora per una sua intendo che non ci e piu tanta fretta che dicie fra umese vuole venir costa da voi e starci um pezo e anco mi dicie che oltre alli assetti che aviamo fatti arebbe voluto si facesse una arringhiera alla inferriata della seconda camera e dici che e di vostro gusto quando si comincio a murare ci venne il signore Messere e dette lordine che si acresciesse la fenestra grande di sala si facesse la porta riscontro alla finestra di mezo della camara si levassi laqquaio e le pietre del camino e delle pietre dellaquai se ne fatta la porta alla seconda camera che da assai lume e della aringhiera se ne fecie beffe per riuscir sopra a tetti e bassa che sarebbe stata pericolosa da ladri si che Austo la lascio stare”: BAV, Archivio Chigi, Carteggi 77, c. 167r. Sul palazzo del Casato cfr. M. QUAST 2002, pp. 435-439. 60 “Flavio di suo tempo e grande in formato e a un faccione fattezze tutte grandi ochio nero e quando e in buona e fa tante careze e in particolare a me e a sua madre e bianco e rogio ma a per anco pochi capelli e quelli bianchi ma quando a collora no par quello che he e allora somiglia il cogniato Fortunio quando aveva collora...poche parole ma quelle che dicie le dicie bene he a proposito e a il pasto e dorme da me”: BAV, Archivio Chigi, Carteggi 77, c. 152.

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esser Mario tocco a cercar me e dio sa quando gli rendero, pur io so padrona di casa e fo come prima mi capita denari sempre attendo a darli a chi a davere e ogni tre mesi do una piastra per una a le nostre monache per il lassito del cognato”61. Non sono ancora evidenti, a Siena, i benefici della carriera ecclesiastica intrapresa da Chigi, anzi, le spese per poter dignitosamente vivere il suo ruolo di vicelegato, come gli altri incarichi ai quali fu destinato successivamente, gravavano ancora sul patrimonio familiare e tormentavano la sensibilità di Fabio che, fin dall’inizio della sua carriera curiale, si guadagnò fama di persona assai morigerata, per non dire avara. Ma, come vedremo, Fabio non parlava molto di questi problemi nelle lettere alla madre, ma piuttosto con lo zio Agostino e con i fratelli.

La penuria di liquidità, caratteristica costante e comune dell’economia nobiliare, non solo italiana, non significava, tuttavia, per la famiglia del futuro pontefice un diminuito prestigio in ambito cittadino. Al contrario, proprio in questi anni, molti sono i segni che compaiono nelle lettere di una riacquisita preminenza che si esprime negli onori manifestati, in diverse occasioni, ad esponenti della famiglia: dalla visita del granduca a Siena, ospitato anche a Cetinale, dalla visita, nel 1637, del cardinal Alessandro Bichi a Siena, accolto anche nel convento di Camollia “che lo ebbero a desinar da loro [...] con tanta loro allegrezza e consolatione”, come negli onori tributati ad Augusto e consorte ricevuti sontuosamente nell’Ospedale di Santa Maria della Scala dal rettore Agostino Chigi e da sua moglie. Laura morirà nell’aprile 1639: non rivide più Fabio che continuava ad intrattenere rapporti epistolari con i fratelli, le sorelle monache e con lo zio tutore. Poco dopo, il 16 giugno 1639 moriva anche lo zio Agostino. In una delle ultime lettere, Fabio scriveva comunicandogli sia le speranze di ulteriori progressi di carriera, ma dispensava anche consigli per la salute malferma – “la delicatezza della sua complessione e l’età non richiedono altro da V.S. se non l’appartarsi da negotii più gravi et il godersi il riposo e l’aria della villa”. Pensando alla sua fine non lontana, lo ringraziava di quanto aveva fatto per lui e per tutta la famiglia “come a padre Padrone e protettore di tutti con l’auttorità, con l’aiuto, col consiglio”62 e lo assicurava che a Roma avrebbe provveduto alle cappelle familiari immagini allora un po’appannate di una storia familiare che, dopo alcuni anni, avrebbe lasciato un’impronta indelebile non solo sulla città del papa. Sarà la cognata, Berenice della Ciaia, a riprendere i fili di un discorso epistolare interrotto dalla morte di Laura Marsili e, poco dopo, dello zio tutore Agostino, mentre da Roma Fabio Chigi si preparava ad affrontare il difficile compito di “mediator pacis” a Münster.

La mutevole natura della corte che aveva ispirato tanti autori cimentatisi con questo tema assumeva nella corte papale un carattere naturale e in qualche modo più 61 Ibidem. 62 BAV, Manoscritto Chigiano A I 32

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facile da contrastare o da sfruttare al meglio: legami fazionari, alleanze matrimoniali, cerchi di patronage dovevano essere accortamente studiati per garantire quella continuità che avrebbe permesso di mantenere posizioni precedentemente acquisite.

Era quindi essenziale informarsi: capire, prima di altri, i movimenti in atto alla corte, nella famiglia e in città, gli arrivi di nuove figure che potevano presto assumere il determinante ruolo di protettore o di intermediario alla corte stessa. Decisiva risultava la posizione delle donne all'interno della famiglia papale, grazie alla loro posizione di confine fra il formale e l'informale e, quindi, facilmente utilizzabili nell'una o nell'altra direzione. Esemplare, ma certo non unica e neppure originale, se confrontata con altri carteggi, può essere la corrispondenza indirizzata a Berenice della Ciaia, moglie di Mario Chigi, fratello di Alessandro VII63. Nel maggio 1656 il papa, com'è noto, dopo un lungo dibattito in seno al collegio cardinalizio conclusosi poi con pareri favorevoli, acconsentì a far venire i suoi parenti da Siena a Roma. Abbandonare la città natale con tutte le sue relazioni familiari, le scansioni domestiche segnate dalla vigile attenzione sulla proprietà e dai rapporti quasi quotidiani con le numerose parenti chiuse nei conventi cittadini non sembrava entusiasmare Berenice, come appare da alcune sue lettere64. Ma la sua venuta a Roma veniva celebrata da chi, da Siena, si era subito affrettato a garantirsi una posizione di prestigio alla corte romana, offrendosi di servire come “Mastro de' Paggi di vostra Eccellenza o in altro impiego di sua soddisfatione e gusto”65. Le lettere non arrivavano solo da Siena o dalle diverse parti della Toscana: da tutto lo Stato Pontificio, dalle corti italiane e da altri stati cattolici si avviava un intenso movimento epistolare diretto a guadagnare la benevola protezione della nuova arrivata. Anche senza arrivare ai recenti e nefasti eccessi di Donna Olimpia, le donne della famiglia pontificia avevano sempre rappresentato ineludibili punti di riferimento. Così era stato per Lavinia Albergati Ludovisi, cognata di Gregorio XV, per Costanza Magalotti Barberini, cognata di Urbano VIII, per Anna Colonna, moglie di Taddeo Barberini, nipote del papa. Elementi di raccordo fra la famiglia, la corte ed il mondo esterno, le donne della famiglia papale – le cognate del papa, soprattutto – diventavano ingranaggi indispensabili (o almeno così si credeva!) per dare concretezza ad aspirazioni di crescita formulate nelle numerose suppliche, nelle lettere di raccomandazione, nelle generiche richieste di protezione per un matrimonio da contrarsi in provincia e per il quale si richiedeva il benedicente assenso papale o per un madrinaggio che avrebbe assicurato alla famiglia di una nobiltà di 63 BAV, Manoscritto Chigiano F III 43-46. 64 BAV, Archivio Chigi 3734. 65 BAV, Manoscritto Chigiano F III 43, c. 106r: lettera di Pietro Gagliardi, Siena, 1 maggio 1657. Seguono altre missive di dame senesi che ringraziano per esser state condotte a Roma a servizio della cognata del papa: saranno anch'esse autrici di lettere di raccomandazione per parenti e conoscenti senesi ambiziosi di fare carriera a Roma.

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provincia un lustro maggiore66. Scrivere alla cognata del papa significava mettersi sotto il manto ampio e sicuro di una materna protettrice: l'immagine mariana sembrava materializzarsi anche nella corte papale, consesso maschile, nel quale le donne tessevano solide trame, ricamandovi favori e protezioni per consolidare l'immagine della famiglia, la sua politica, e raccogliere consenso. Una pratica positiva, anzi necessaria, se svolta con prudenza, senza eccessi, se soprattutto, si muoveva nella direzione indicata dal pontefice: mai, dunque, costruirsi una corte (nel senso di luogo di potere) propria e antagonista. Anche per la famiglia pontificia si ripropone con forza quell'immagine di “gioco di squadra” felicemente coniata per descrivere il lavorio femminile teso ad accrescere la fortuna ed il prestigio nobiliari67. Lettere di raccomandazione si intrecciano in questi volumi di corrispondenza con biglietti di auguri, con missive apparentemente ripetitive ed insignificanti nelle quali personaggi diversi da luoghi lontani si presentano, narrano di sé e della propria famiglia, del lavoro e della fedeltà per rappresentarsi in una luce positiva che possa, fin dall'inizio, aiutare a stabilire un solido rapporto di protezione ed a garantire un'intermediazione sicura con più potenti patroni. Scrive il Gran Maestro dell'Ordine di Malta all'inizio di gennaio 1658; scrivono vescovi che si apprestano a recarsi a Roma per la visita ad limina, ma anche per intessere personalmente proficui legami con la famiglia papale: scrive, in attesa di questo viaggio, Ulisse Orsini, vescovo di Ripa, pregando Berenice di non lasciarlo “totalmente suo inutile et otioso servitore sopra la cognition del mio povero talento et attitudine”68, e Carlo Mandruzzo, vescovo di Trento, con gli auguri di Natale, annuncia la sua prossima visita a Roma69. Anche l'arrivo, nel maggio 1657, dell'ambasciatore ordinario della Repubblica di Venezia Angelo Corner era stato preceduto da lettere del doge Domenico Contarini indirizzate a Berenice nelle quali si raccomandava di accoglierlo “con la solita cortesia”, mentre la venuta a Roma dell'ambasciatore straordinario Nicolò Sagredo, nel novembre 1658, dava occasione allo stesso doge di annunciarne la visita, per congratularsi della raggiunta pace in Europa70.

Le lettere di donne costituivano la maggioranza di questa ricca corrispondenza: annunci di matrimoni, richieste di protezione per stipulare un buon parentado in provincia si intrecciavano con raccomandazioni per figli e, soprattutto,

66 Laura Carpegna, ad esempio, scriveva da Bologna a Berenice della Ciaia il 30 gennaio 1658: “prendo ardire di supplicarla con ogni humiltà a volersi degnare di far levare al sacro fonte la creatura che piacerà a Dio crescermi in breve”: BAV, Manoscritto Chigiano F. III. 43, c. 7r. Pochi mesi dopo annunciava la nascita della figlia (c. 14r). 67 R. AGO 1992, pp. 256-264. 68 BAV, Manoscritto Chigiano F III 43, cc. 2r; 54r. 69 Ibidem, c. 175r. 70 “Prende motivo la Repubblica nostra dal bene della Pace tra le Corone e dalla congiontura propitia d'unire rinforzi e di sollevarsi dall'oppressione degl' Ottomani”: BAV, Manoscritto Chigiano F III 45, c. 1r.

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per mariti ambiziosi di ‘crescere’ non solo alla corte di Roma, ma anche nei governi provinciali. Particolarmente numerose erano le richieste di raccomandazione inoltrate da gentildonne toscane, specialmente senesi e fiorentine, per ottenere favori per i propri consorti presso la corte medicea: Minerva Del Monte Ottieri chiedeva infatti “il potentissimo suo favore presso il Ser(enissi)mo Principe Mattias o di qualche ministro in raccomandatione degl'interessi del mio Signor Consorte”71. Anello di congiunzione fra la corte di Roma e quella di Firenze appare, in questa corrispondenza, il principe Mattia, governatore di Siena proprio in quegli anni. Era per altro lo stesso Mattia, nel 1660, in una lettera autografa a Berenice vergata in una stentata scrittura a raccomandare Leonora Ballerini “moglie d'un mio cerusico”, sottolineando, che “io so molto bene il genio grande, ch'ha V. E. con le persone virtuose”72.

L'ingresso di un congiunto nel servizio dava spazio ad attese di veder la liberale protezione allargarsi ad altri esponenti della famiglia per consolidarne così la posizione sociale sia nella città di origine che, eventualmente, nella grande patria comune, Roma. Ortensia Borghese Giordani scriveva da Pesaro una lunga lettera a Berenice per ringraziare, attraverso lei, il papa che aveva nominato “il Signor Girolamo mio marito Cameriero d'honore...che veggend'io per tali testimonianze et effetti d'un ottima volontà de' Padroni verso noi qualificarsi tanto la conditione di detto mio marito e di me per sodisfare al mio gran debito con quelle forme che possano provenire dal riverentissimo mio ossequio...mi fo lecito di essere a rendere di tutto humilmente gratie a V.S. col mezzo di questa lettera che le sarà presentata da un nipote di mio marito che si trattiene da più anni in qua a fare il corso de studii nel Seminario romano con inclinatione di seguitare codesta corte nella professione di prete. Onde già che io mi trovo priva di figli maschi che possino godere della Protettione dell'Ecc.ma Casa Chigi, sono humilmente a supplicar V.E. che nell'impetrar e dall'Ecc.mo Suo foglio qualche prerogativa che inanimisca codesto giovane (che si nomina il Signor Domenico Olivieri) alla vita clericale...”73: la lettera di ringraziamento diveniva così lettera di raccomandazione a testimoniare, ancora una volta, l'intreccio indissolubile di forme scrittorie che sostanziano forme comunicative. Le missive erano spesso unite a doni, come “alcuni pesci in qualità di miglioranti affumati, frutti di queste valli” inviati da Pietro Paolo Carli canonico di Comacchio all'avvicinarsi della quaresima74, mentre Giulio Spinola, vescovo di Laodicea, da Napoli annunciava una sua imminente visita a Roma, facendosi precedere da “sei scatole di diverse cose di zuccaro e frutti di questa città”75. Lettere di donne si 71 BAV, Manoscritto Chigiano F III 43, c. 62r. 72 Ibidem, c. 39r. 73 Ibidem, c. 70. 74 BAV, Manoscritto Chigiano F III 45, c. 4r. 75 Ibidem, c. 13r. Ma anche il vescovo di Genova offriva “una cassetta di conserve di Genova lavorate da una mia sorella monaca”: c. 16r; Cornelia Malvezzi Bonfioli, dopo il suo “accasamento” a Bologna

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accompagnavano a quelle scritte da uomini in attesa di una protezione per vedersi confermati in una posizione di prestigio, ma che lamentavano la lontananza dalla corte per “servizio”, chiedendo così a Berenice, neppure troppo implicitamente, un concreto aiuto per avvicinarsi a Roma. Altri uomini comunicavano orgogliosi un “accasamento” di cui erano stati artefici e che ora attendeva la protezione della famiglia papale: così, ad esempio, Francesco Coppoli da Firenze scriveva, nel settembre 1659, di “voler dar conto di ogni senzale evento della mia casa” ed annunciava il matrimonio della figlia Claudia con il “Sig. Marchese Giovanni Giugni, nobile e facultoso fra i migliori di questa città”76. Se, dunque la cognata del papa era divenuta un punto di riferimento essenziale nella corte di Roma, le visite di parenti del papa a Siena si trasformarono sempre più in uno straordinario motivo di “allegrezze”, non solo per la città e per i suoi abitanti. Siena, terreno di caccia e di “allegrezze” E’ noto come il cardinale Flavio Chigi amasse recarsi con la sua corte a Siena,

dove tangibile era la trasformazione di ville, giardini esprimeva il gusto raffinato ed

eccentrico del nipote di Alessandro VII. Questi “affetti”, già notati dai

contemporanei77, si concretizzarono in lunghi soggiorni nella città natale, dopo la

morte del papa. Nel settembre 1664 Flavio decise di portarsi a Siena per un periodo di

“caccie”: erano con lui l’abate Guglioni, Giovanni Filippo Appolloni, il cavaliere

Lelio Tolomei “paggio dell’Eccellentissima Duchessa di Farnese che andò al Paese a

riveder la madre”; Ambrogio Theodoli e Sebasiano Baldini, autore del sintetico, ma

assai efficace diario del viaggio e del soggiorno senese78. Non era certo lo stile

puntuale e devoto del notaio Camillo Fanucci che, quasi un secolo prima, aveva

guidato il viaggio per onorare la Madonna di Provenzano. Qui le tappe del percorso –

le stesse, da Roma a Siena, passando per Viterbo, secondo l’itinerario della

Francigena, sono scandite non dalle visite a oratori e luoghi di devozione, ma a

locande, case di “amici di casa Chigi” più o meno ospitali, accompagnate da una

puntuale osservazione dei cibi e bevande offerti e gustati. Così. la prima tappa, con Agesilao Bonfioli, chiedendo la protezione chigiana sulla sua nuova vita coniugale, pregava Berenice “a non isdegnare queste due cagnoline come prerogativa di questo Paese”: BAV, Chigiano F. III. 43, c. 56. 76 BAV, Manoscritto Chigiano F III 45, c. 109r. 77 Biblioteca Comunale, Siena (=BCS), ms E. III, 9, CURZIO SERGARDI, Siena ricercata et esaminata conforme si ritrova al presente con la notitia dell’Huomini illustri, e delle case nobili che presentemente vivono, con principio della loro nobiltà, c. 65 78 BAV, Manoscritto Chigiano E I 13: “Diario di un viaggio di tre carrozze fatto da Roma a Siena”. Il testo è ricordato da A. ANGELINI 1998, pp. 129-130.

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giovedi 20 settembre, a Monterosi “a rinfrescarsi”, e la stessa sera a Ronciglione dove

il capitano Poggiani “come servitore della casa Chigi”, voleva far alloggiare la

comitiva in casa propria. Dopo molti “negotiati e preghiere ci mandò tutta la cena

all’hosteria molte bocce di vini bianche e rossi pretiosi, pesci grossi in più maniere,

frutti di tutte le sorti, gelati e confetti e dopo volle darci da dormire in letti

spiumecciati”79. A Viterbo, il giorno successivo, annota nel diario che “ci

rinfrescammo malamente non essendovi di buono altro che il pane passato di Viterbo.

La sera quasi ad un hora si arrivò in Acquapendente e si hebbe una pessima cena con

vino buonissimo ma con olio infame, i lucci buoni, ma i letti indegni e quasi fetenti”.

Finalmente, domenica 23 settembre viene organizzata la prima caccia “con molti

bracchi mandati dal granduca per seguir il signor cardinale e molti cacciatori del sig.

Spinelli a Radicofani”. Il percorso verso Siena è così scandito da cacce quotidiane e

Sebastiano Baldini annota puntualmente, ogni volta, quanti tipi animali erano stati

uccisi: starne, lepri, fagiani. In Val d’Orcia, per l’illustre ospite fu imbandita una cena

con “un banchetto nobilissimo e vini bianchi di Montepulciano dolce e asciutto e

rosso asciutto e pretioso, ma fu poco fresco, frutti d’ogni sorte”. Il divertimento era

assicurato non solo dalla caccia e dai cibi, ma da “conversazioni” in cui si gustavano

aneddoti e facezie, prevalentemente sui contadini del luogo. Grande meraviglia infatti

aveva destato un “mezzaiuolo” dell’ospedale di Montalcino “vecchio di 64 anni, il

quale haveva 11 figli, 6 maschi e 5 femine, havendone fatti 20, con uno in fasce

generato 3 mesi fa”80. La campagna, la natura sono, in queste pagine, come in un

quadro, la cornice entro la quale si svolge un gioco ininterrotto e il mondo contadino,

lontano, è osservato con curioso distacco, fonte di sollazzo per una corte romana in

vacanza.

La caccia continuava a dare buoni frutti e il cardinale decide così di

organizzare una staffetta per inviare a Firenze al granduca, in uno scatolone, “71

starne e 9 lepri” catturate quel giorno. L’invio di doni, che, come abbiamo visto,

accompagna sempre espressioni di devozione e gratitudine, si connota, in questo caso,

anche di significato politico come omaggio di fedeltà al sovrano naturale. Nel diario

non sono molti i luoghi che sottolineano i momenti di preghiera nelle giornate del

cardinale Flavio, liquidati con poche parole come “fattasi il cardinale la barba e detto

79 Ibidem, c. 1r. 80 Ibidem, c. 10r.

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l’officio”, per poi dare spazio alle occasioni di sociabilità, sempre più numerose

mentre si avvicinano a Siena. Giovedi 27 settembre, a Buonconvento vengono

incontro alla comitiva il cardinale Sigismondo “ con la sua carrozza” e poco dopo “la

carrozza della sig. donna Agnese e le 2 sorelle del principe Agostino e altre donne”.

Al suo arrivo a Siena, Flavio va a “visitare le monache parenti” rinchiuse nei

conventi senesi, in S. Girolamo in Campansi e in S. Margherita in Castelvecchio,

secondo una ritualità che da sempre aveva unito i conventi senesi con la famiglia a

Siena e con la corte romana, fin da quando Fabio Chigi scriveva alle sorelle monache,

ricevendo doni, notizie, raccomandazioni81. La visita del cardinale diventa così un

momento di sociabilità anche per il monasteri che guadagnano, agli occhi della città

tutta, ulteriore prestigio dalla sua temporanea presenza. Siena appare, in queste scarne

pagine del diario, come un piacevole luogo di incontro fra la corte cardinalizia e

quella granducale, aperta ad accogliere fastosamente ospiti illustri come il conestabile

Francesco Onofrio Colonna “la Duchessa Mazzarini sua moglie”, Maria Mancini,

l’affascinante nipote del cardinale Mazzarino amata da Luigi XIV che, insieme ad

altre dame e alla “bella duchessa”, la sorella Ortensia Macini, arrivano a Siena da

Porta Camollia venerdi 29 settembre82. Viene concesso loro un “appartamento

addobbato”, dove le signore si ritirano “per indispositione”, ma nei giorni successivi

Siena ammirerà il “passeggio delle dame verso Porta Camollia” poi gli ospiti sono

ricevuti dai Gori per un “festino del Gioco, Madonna vi fu e giocò per mezz’ora e poi

andò a casa a trovar la Duchessa che non venne”83. Lunedì 8 ottobre “sua Eminenza

udì la messa in casa e madonna Colonna con la Duchessa andarono al Monastero del

Refugio a vedere le due bellissime nipoti di Don Agostino et gli altri monasteri dove

sono li Parenti de’ Chigi”: ancora una volta sono i conventi senesi una tappa obbligata

di visite per ammirare un prestigio familiare che attraversa le mura dei conventi, in

uno scambio continuo con la casa e la città. In quei giorni si unisce alla comitiva il

duca di Nimey, arrivato da Venezia che con il connestabile, Filippo Acciaioli e il

Bandini “andarono alla pallacorda a palleggiare et al pallaccino”84. Continuano le

feste nelle case della nobiltà e “la 2 sera vi fu Flacchino vestito da zannì con la

chitarra che cantò molte canzoni...si cenò discorendo di Francia...chi lodava Parigi”. 81 Archivio di Stato di Siena (=ASS), Conventi, 1872-1873, 2299 82 Ricordi di questo soggiorno senese nelle memorie di Maria Mancini in D. GALATERIA 1987, pp. 55-56. 83 ASS, 2299, c.14r. 84 Ibidem, c. 15v.

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Ma sono le ville Chigi ad ospitare con fasto che unisce, in una felice sintesi, le delizie

della campagna allo splendore delle feste romane: giovedi 4 ottobre tutti gli ospiti si

recano a Vico, “villa lontano un miglio da Siena, in un colle vestito di alberi e vignato

con 2 habitationi bellissime. et il conestabile con tutta la comitiva si portò colà. Si

desinò nella sala molti riposarono e fu lì 20 e mezzo si fece un ballo di contadini e

nell’istesso tempo la Duchessa Mazzarini montò a cavallo e io co i bracchi andò a

caccia, mentre sio seguitava a ballare comparvero carrozze con segge volanti di

Cavaglieri senesi i quali subentraronoin ballo e fu portato un fregio di confetti

castagnoli più belli”85. Venerdi 5 ottobre il connestabile e la moglie sono “risoluti

partir per Roma”. mentre tutti gli altri restano a Siena fino all’inizio di novembre.

La festa descritta con brevi e incisivi tratti da Sebastiano Baldini si propone

come il momento più alto che manifestava, a Siena, la potenza della corte romana, le

fantasie e il gusto del cardinale Flavio, il prestigio dei suoi ospiti, e, soprattutto, in una

sintesi trionfante, esaltava la famiglia del pontefice che aveva recuperato e superato la

memoria del suo antenato Agostino il Magnifico.

85 Ibidem, c. 16v.