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1. FRA SIENA E ROMA: FAMIGLIE, MERCANTI, PONTEFICI FRA CINQUECENTO E SEICENTO IRENE FOSI Città di stranieri, composita, sede della sola corte internazionale in Italia,
Roma è, in età moderna, un agglomerato di nationes che vivono insieme e
separatamente nello stesso tempo: una realtà policroma, unificata, dal Quattrocento,
dalla stabile presenza della corte papale e sostenuta, quindi, dal suo sviluppo politico,
burocratico, artistico. Se Roma condivide con altre città italiane ed europee i problemi
posti dalla presenza di stranieri fra le sue mura, certo questa presenza multiforme si
connota di tratti peculiari per trovarsi inserita in una città con un duplice potere,
capitale di una monarchia con un sovrano al tempo stesso temporale e spirituale. La
presenza senese a Roma non inizia certo con il pontificato di Pio II, sebbene con papa
Piccolomini sia senza dubbio divenuta in poco tempo più numerosa e potente. Il
ritorno dei pontefici da Avignone aveva infatti già stimolato la ripresa di attività
finanziarie e bancarie che la stabile e sempre più articolata struttura della curia a
Roma rendeva più appetibili. La curia e la corte rappresentavano dunque, già dal
Quattrocento, una possibile fonte di affermazione sociale e, quindi, economica, anche
per quel ‘sistema’ di uffici che cominciò a caratterizzare la monarchia pontificia con il
suo apparato di governo spirituale e temporale. A Roma c’era bisogno di uomini:
mercanti, curiali, esperti di diritto canonico e civile, chierici e laici, che portassero
avanti la costruzione della monarchia universale romana, finanziassero le sue guerre,
costruissero la magnificenza della sede del pontefice. Il flusso migratorio costante e in
crescita di stranieri verso la Città Eterna emerge infatti come cifra distintiva del
periodo che non si ferma al Sacco di Roma del 1527. Il Rinascimento a Roma è,
infatti, soprattutto il Rinascimento degli ‘stranieri’ che arrivano, si insediano, vivono
e, spesso, restano per sempre nella città del papa. Dopo il Sacco, l’immigrazione
continua a rappresentare una costante nella società romana ma avrà al suo interno
caratteristiche diverse: molti curiali, artisti, ‘intellettuali’, mercanti fuggirono infatti
dalla città devastata dai lanzichenecchi, molti altri, invece, poco dopo, e soprattutto
dalle città toscane, come Firenze, Siena, arrivarono a Roma per riorganizzare una
ormai difficile difesa delle libertà repubblicane, minacciate in patria dalla vittoria del
potere di Cosimo de’ Medici. Il fuoruscitismo politico trovò così in Roma la patria
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d’adozione, una città che, come affermerà Isidoro Ugurgieri Azzolini nelle sue Pompe
Senesi, “non è mai matrigna d’alcuno”1.
E’ difficile tracciare un quadro della composizione sociale della presenza
senese a Roma come, del resto, delle altre nationes che formavano il policromo
mosaico della popolazione romana. All’inizio del Cinquecento non erano insomma
solo i grandi banchieri come Chigi, Spannocchi, Accarigi, ma anche artigiani –
bandierai, sarti, merciai, falegnami, “tagliatori di tavoli” – che trovarono nella città
del papa le condizioni favorevoli per impiantare attività spesso condotte insieme ad
altri componenti la famiglia, come dimostra la ricca documentazione notarile romana.
I grandi mercatores romanam curiam sequentes, come Ambrogio Spannocchi e i suoi
discendenti, ma soprattutto Agostino Chigi, avevano attorno a sé una vera e propria
corte, immagine di potenza economica, di prestigio sociale, di generoso mecenatismo
capace di gareggiare con la stessa corte papale e, sicuramente, con quella di altri
mercanti e banchieri, soprattutto fiorentini, attivi a Roma. La comune provenienza,
l’appartenenza alla città di origine giocarono in molti casi un ruolo decisivo nel
convogliare intorno ad un personaggio di spicco altri suoi connazionali. Legame
fondante nella società di antico regime, il principio di ‘nazionalità’ permetteva di
intessere nuovi rapporti, di inserirsi nella società ospite proprio attraverso la
mediazione di chi già viveva ed operava in essa. Un momento essenziale di
aggregazione e di socialità era inoltre rappresentato dalla celebrazione di feste, dalla
devozione per i santi il cui culto era parte fondante dell’identità della città di origine.
La festa di Santa Caterina divenne dunque per i Senesi a Roma un momento non solo
di comune devozione verso quella donna che aveva riportato il papa a Roma, ma
anche di socialità, di carità verso chi, giunto da poco, sperava di trovare fra i suoi
conterranei quei legami lasciati nella città di origine, legami che davano sicurezza e
protezione. La fondazione, fra la metà del Quattrocento e i primi decenni del
Cinquecento di molte confraternite e chiese nazionali è sicuramente espressione del
forte bisogno per gli ‘stranieri’ di disporre nel contesto urbano romano di luoghi che
segnassero, anche visivamente, la loro presenza2.
1 I. UGURGIERI AZZOLINI I. FOSI 1997 2 Sulle confraternite romane cfr. M. MARONI LUMBROSO, A. MARTINI 1963; sugli aspetti più specificamente economici: A. SERRA 1983. Un quadro delle problematiche relative alle confraternite romane e un sintetico panorama dei numerosi archivi, rispettivamente in “Rivista per la storia religiosa di Roma”, 5, 1984 e 6, 1985.
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Attorno alla Confraternita di Santa Caterina: artigiani, speziali, notai senesi nella
Roma del Cinquecento
“Non so trovar la causa per la quale la Nation Senese sia tanto indugiata a
costituire in Roma la sua confraternita, essendo che la sua Città è una delle principali
Metropoli della provincia di Toscana, antica, nobile, e catolica...”: scriveva così,
all’inizio del ‘600, Camillo Fanucci nel suo trattato sulle opere pie di Roma, lui che
insieme alla sua famiglia, aveva vissuto con intensa partecipazione le vicende
cinquecentesche del sodalizio nazionale senese3. In effetti la fondazione della
Confraternita di Santa Caterina, nel 1519, giunse molto tardi rispetto a quella delle
due confraternite fiorentine della Pietà di S. Giovanni Battista (1448) e di S. Giovanni
Decollato o della Misericordia (1490)4. La pur sintetica prefazione all’edizione
settecentesca degli statuti riassume la parabola di questa istituzione caritativa e
devozionale, specchio di una più profonda trasformazione della presenza senese a
Roma in età moderna. La fondazione del sodalizio, durante il pontificato di Leone X
(1513-1521), impegnato a difendere il progetto di Renovatio Etruriae, è
tradizionalmente ascritta alla persona di Agostino Chigi. Nella citata prefazione non si
accenna tuttavia al famoso banchiere, ma ad “alcuni pochi Sanesi dimoranti in Roma”
e il carattere di iniziativa personale sembrava aver segnato di precarietà, fin
dall’inizio, questa istituzione collocata, come la Pietà di S. Giovanni dei Fiorentini,
”in Strada Giulia”, nell’arteria che, secondo il progetto di papa Giulio II (1502-1513),
predecessore di Leone X, doveva sintetizzare la potenza di Roma, del suo pontefice e
tradurre visivamente il suo progetto di Renovatio imperii5.
La figura di Agostino Chigi è dunque presente e assente allo stesso tempo.
Non sono ancora ben chiari infatti i rapporti fra il potente banchiere e i suoi
concittadini, a Roma ed anche a Siena. Di lui si conoscono la generosa committenza,
il gusto artistico, le smodate spese e, grazie alla corrispondenza recentemente
pubblicata6, i traffici con altri mercatores e con i membri della sua famiglia. Ma quali
3 C. FANUCCI 1601, p. 344. Notizie, intrecciate con ampie ed erudite digressioni sulla storia di Siena e di S. Caterina, sul sodalizio, la chiesa e le sue vicende a pp. 351-360. 4 Sulle due confraternite fiorentine e, più in generale, sulla presenza dei Fiorentini nella Roma del Cinquecento rinvio a miei studi precedenti: I. FOSI 1989, pp. 50-70; I. FOSI 1991, pp. 119-162; I. FOSI 1992, pp. 169-185; I. FOSI La memoria di Firenze 1994, pp. 179-195; I. FOSI I Fiorentini a Roma nel Cinquecento 1994, pp. 389-414; I. FOSI 1997; I. FOSI 2000, pp. 255-276 5 L. SPEZZAFERRO, L. SALERNO, M. TAFURI 1975 6 I. D. ROWLAND 2001
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furono, se ci furono, i rapporti fra Agostino e il resto della comunità senese a Roma?
Forse la sua prestigiosa figura, le sue straordinarie ricchezze lo avevano separato
totalmente dal resto della sua nazione? In realtà, su Agostino Chigi manca ancora una
biografia che disegni a tutto tondo la sua personalità, al di là degli stereotipi che finora
hanno segnato gli studi – pochi, in verità, e poco originali – su questo personaggio7.
Solo ulteriori indagini approfondite e sistematiche della documentazione nei fondi
chigiani della Biblioteca Vaticana potranno dirci ancora molto non solo su Agostino
ma su un periodo cruciale della storia italiana della prima età moderna.
Torniamo allora alla Confraternita di Santa Caterina: non si conservano gli
statuti originali, scarsa e frammentaria è anche la documentazione per il Cinque e
Seicento, distrutta, come molte altre, dalla furia francese durante la Repubblica
romana alla fine del Settecento. Non è quindi possibile disegnare con precisione e
sistematicamente la composizione sociale dei confratelli, la presenza, fra di loro, di
esponenti della curia papale o di artisti senesi attivi a Roma. Nel 1519 la confraternita
era stata regolata da “alcuni pochi e semplici Statuti, quali e per la loro qualità, e per
la variatione de’tempi, e de’ costumi essendo stati riconosciuti insufficienti a
conservare, e nutrire la Santa armonia, comunque necessaria nelle comunanze
congregate nel Signore, a promuovere il culto di Dio, a confortare, ed animare
vicendevolmente fra di loro i fratelli col mezzo delle Opere di pietà al conseguimento
dell’eterna gloria e finalmente a regolare con prudente consiglio lo stato economico
del luogo Pio, furono perciò nell’anno 1577 corretti, ampliati, riformati, ed all’uso dei
quei tempi proporzionalmente adattati ed in tal forma ridotti furono per ultimo dalla
Santa memoria di Gregorio XIII benignamente approvati e confermati con suo Breve
del dì 10 Maggio 1580”8. La redazione settecentesca disegna un sodalizio ben
regolato nella divisione dei compiti dei diversi “uffiziali”, del governatore,
provveditore, segretario, sagrestani, coristi, segretario testamentario, rettore della
Chiesa, e stabilisce in dettaglio le procedure per la loro elezione. Non sappiamo se
tutte queste figure fossero presenti e le loro funzioni ben definite fin dall’inizio: certo
è che fra i compiti della compagnia, almeno dalla metà del Cinquecento, assoluto
7 Alla biografia di G. CUGNONI 1878, poco aggiunge la ‘voce’ di F. DANTE in Dizionario Biografico degli Italiani, 24, Roma 1980, pp. 735-743. 8 Archivio dell’Arciconfraternita di Santa Caterina da Siena (= AASCS), Statuti della Venerabile Archiconfraternita di S. Caterina della Nazione Sanese a Roma confermati in forma specifica dalla Santità di Nostro Signore Papa Benedetto XIV, l’anno di Nostra Salute MDCCXLIV e Quarto del suo Pontificato, in Jesi, MDCCXLV, presso Giambattista de Giulij.
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rilievo fu assunto dalla elargizione delle doti a fanciulle di origine senese residenti a
Roma. Era, questa, una pratica comune a molte altre confraternite romane, modellato
sull’esempio dell’Arciconfraternita dell’Annunziata che, il 25 marzo di ogni anno,
elargiva doti alle fanciulle romane in una solenne e suggestiva processione alla chiesa
della Minerva. La possibilità di ottenere una dote da una confraternita aveva dato vita,
a Roma, ad un vero mercato, rendendo sempre più necessarie regole rigide e autorità
capaci di non cedere alle forti pressioni di famiglie che intuivano in tale possibilità la
risoluzione dei problemi economici posti dal matrimonio di una figlia9. Nella
redazione statutaria del 1745 il capitolo XXXII “A chi s’appartenga la distribuzione
delle Doti” si articola in ben 33 rubriche per definire con precisione i requisiti delle
“zittelle” aspiranti alla dote ed i meccanismi di elargizione del sussidio. Il contenzioso
sollevato dal ‘traffico’ delle doti, la difficoltà di soddisfare le sempre più numerose
richieste per la scarsità dei lasciti per il fondo dotale della confraternita sono i segni di
un evidente impoverimento della ‘nazione’ senese a Roma. I testamenti di artigiani, di
vedove, di qualche più ricco benefattore prevedevano raramente, fra le clausole, il
lascito di somme di denaro, per altro non ingenti, da destinare alle doti. La maggior
parte lasciava alla confraternita “senza oblighi”, o preferiva raccomandare la propria
anima con la celebrazione di messe. Il fondo dotale veniva quindi ricavato, oltre che
da qualche rara, cospicua eredità, come quella denominata De Vecchi, dall’affitto di
case nei rioni Ponte e Regola, dalla vendita di oggetti lasciati alla confraternita da
qualche generoso confratello artigiano, o da consorelle vedove, che, morendo senza
eredi, vedevano nel sodalizio nazionale l’unico degno destinatario di quanto restava
nelle loro case e botteghe. Gli inventari, trascritti con puntiglioso rigore dal notaio
Camillo Fanucci nei pochi volumi rimasti forniscono uno spaccato non solo della vita,
della cultura materiali ma anche della devozione, della religiosità, del vissuto
quotidiano di artigiani, donne sole, spesso vedove ma anche cortigiane.
Erano molte infatti le cortigiane senesi, e non solo quelle immortalate dalla
letteratura del Cinquecento o dalla pittura – basti pensare alla famosa Fillide, amata
modella di Caravaggio10 – ma anche le numerose donne che si ponevano in un
indefinito crinale sociale, e morale, con l’esercizio saltuario della prostituzione. Dalla
metà del Cinquecento anche a Roma si era fatta più rigida anche la politica repressiva
contro un fenomeno alimentato dalla stessa natura della città, la cui popolazione era 9 Su questo tema cfr. M. D’AMELIA 1988, pp. 305-343; EAD. 1990, pp. 195-215. 10 R. BASSANI-F. BELLINI 1994, pp. 47-57.
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composta prevalentemente da uomini e da chierici obbligati al celibato. Nella Roma
tardocinquecentesca la figura della cortigiana celebrata dalla letteratura rinascimentale
ed inscindibile simbolo di una città che aveva vissuto lo splendore precedente al
Sacco sembrava non trovare più spazio. Mezzo di sussistenza per gran parte della
popolazione femminile – filatrici, lavandaie, molte di esse sposate con artigiani,
servitori in case di nobili e di cardinali – non era avvertita come trasgressione da chi
aveva con essa un rapporto occasionale, tale da non condizionare definitivamente
l'identità di chi la praticava. In alcuni casi questa attività, soprattutto se esercitata in
modo onesto, cioè conforme alle regole dettate dalle autorità romane, poteva garantire
un buon livello sociale ed una discreta ricchezza: investimenti, lasciti di beni
puntualmente elencati nei testamenti, inventari sembrano completare le ben note
immagini artistiche e letterarie della cortigiana11. Come si evince dai numerosi
processi criminali o dalle querele in cui le prostitute erano, al contempo, vittime e
protagoniste di violenze verbali, testimoniate dai cartelli infamanti, la prostituzione
era sostenuta e svolta attraverso una fitta rete di solidarietà familiari, di mestiere, di
vicinato, di comune provenienza, pronte tuttavia a sgretolarsi per questioni di onore,
rivalità, vendette. Per le cortigiane oneste, tollerate e riconosciute nel loro status dalla
collettività, non mancavano poi protezioni più elevate, provenienti spesso dalle corti
cardinalizie, garanzie contro immancabili incidenti che troppo spesso portavano la
cortigiana davanti ai tribunali romani: fra queste non era raro incontrare donne senesi
che ‘trasmettevano’ il mestiere di madre in figlia, richiamando spesso anche altre
donne da Siena. Questo commercio poteva interrompersi, a forza o spontaneamente:
disposizioni testamentarie destinavano anche al monastero di S. Maria Maddalena
delle Convertite – rifugio per chi aveva lasciato la prostituzione – qualche somma per
contribuire al mantenimento di donne incamminate sulla via dell’onestà.
La pur limitata documentazione cinque e seicentesca mostra, comunque, che
da parte dei Senesi a Roma la confraternita nazionale non era la sola beneficiaria di
lasciti testamentari per doti o per altre finalità caritative o devozionali12. Comune
rimaneva sempre il fattore identitario dell’origine. Si lasciavano elemosine alla stessa
confraternita dell’Annunziata per ragazze senesi povere e per le monacazioni, si
11 Studi recenti hanno focalizzato l'attenzione soprattutto sul fenomeno della prostituzione soprattutto nel Cinquecento: ad es., E.S. COHEN 1991, pp. 163-196; M. KURZEL-RUNTSCHEINER 1995. Sulla labile identità delle meretrici cfr. A. CAMERANO 1998, pp. 637-675. 12 AASCS, Sussidi dotali, voll. 1-2 (secc. XVI-XVII).
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devolvevano somme per fanciulle, sempre di origine senese, destinate a prendere il
velo nel convento di Santa Caterina a Magnanapoli. Questo, fondato nel 1563 da
Porzia Massimi, non ospiterà più, nel corso del ‘600, fanciulle di modesta condizione,
ma gentildonne romane13.
Dalla pur scarsa documentazione rimasta, insieme ad altre fonti coeve, è
inoltre possibile cogliere i legami del sodalizio nazionale con la corte papale, di
osservare il progressivo impoverirsi di alcune frange della popolazione, di segnalare il
crescente divario fra chi gravitava sulla confraternita nazionale e chi, invece, sulla
corte romana, la curia, le corti cardinalizie. Il microcosmo nazionale dei Senesi a
Roma diventa così un osservatorio, certo incompleto, ma suggestivo, di più profondi
cambiamenti che investirono la società romana e l’Italia nel tournant cinquecentesco.
La revisione statutaria e l’intervento pontificio venivano infatti a sanare una
situazione di difficoltà già da tempo denunciate e sicuramente effetto del deteriorarsi
delle condizioni economiche della popolazione romana, e della comunità senese, sia
dopo le vicende del Sacco del 1527, sia, ancor più, dopo la caduta della Repubblica di
Siena. Il flusso di emigrazione dalla città toscana, se prima aveva subito momenti di
flessione verso gli anni ’30 del Cinquecento, riprese invece con maggiore intensità
dopo il 1550. Le condizioni disastrose di Siena e del suo territorio, devastati dalle
armate imperiali e da tutti i protagonisti della guerra, spinsero artigiani, contadini
affamati, ma anche letterati, notai, professionisti del diritto a cercare rifugio, spesso
insieme alle loro famiglie, nella Roma papale, da sempre considerata patria comune,
rifugio sicuro. A Roma si radunerannno, anche prima della caduta della Repubblica,
esponenti di famiglie destinate ad intraprendere carriere nella curia romana, come i
Borghese, ma anche a proporsi come essenziali riferimenti culturali, nella difesa,
anche dal punto di vista linguistico, dell’identità toscana, come Celso Cittadini14.
Fin dalla sua fondazione, la Confraternita e la chiesa di S. Caterina avevano
goduto di protezione da parte del governo senese. La drammatica situazione politica
della ‘patria’ si intrecciò con il disagio della nazione a Roma e con il progressivo
deteriorarsi della situazione economica dei suoi membri. In questo contesto segnato
da tensioni politiche e da precarietà economica, Claudio Tolomei scrisse l’8 luglio
1544 una lettera alla Balia di Siena nella quale denunciava “il disordine nel qual si
trova la chiesa di Santa Caterina da Siena qui in Roma, la quale per conto de i censi 13 ASR, Congregazioni femminili, Monastero di S. Caterina da Siena a Magnanapoli. 14 G. FORMICHETTI 1982, pp. 71-75.
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passati è stata posta a l’incanto e venduta”. La possibile vendita della chiesa,
sottolineava Tolomei, aveva mosso i Senesi a Roma a cercare un impegno finanziario
comune e soprattutto ad appellarsi alla città e ai suoi governanti. “Non è huomo che
non conosca quanto nel perder di questo luogo si manca al servitio di Dio, e della
debita riverenza verso Santa Caterina, e in oltre quanto macchia l’honore della nazion
senese che è in Roma e di poi di tutta la città vedendosi per picciola cosa lassare ir
male un luogo di tanta devotione come questo. Onde da forestieri son fatte varie
interpretazioni, e tutte poco honorevoli, perché alcuni l’attribuiscono ad ignoranza,
altri a dappocaggine, altri a poca divozione, altri a poca concordia, e non è chi non
creda che per difficultà di pagare il censo si sia incorso in questo disordine”. E’ alla
madrepatria che Claudio Tolomei si rivolgeva “per parte di quei Senesi che sono in
Roma, vi prego che non abbandonate questo luogo, che con un poco di caldo che
venga da voi, risorgerà il servizio di Dio, l’honor della nazione, e la carità verso molti
poveri che de le buone opere verso questa compagnia erano spesso sovvenuti”15. Era
stato incaricato Giulio Fanucci di rappresentare alla Balia senese – in “quanto che voi
sostenete il peso de l’honore e della città vostra”, come ripeteva Tolomei nella lettera
citata – la necessità di un intervento immediato per recuperare il pieno possesso della
chiesa. Fanucci apparteneva ad una famiglia senese che da tempo esercitava a Roma il
notariato e che può ben considerarsi un elemento di continuità nella gestione della
confraternita nazionale. Anche il figlio Camillo, infatti, rappresentò il cardine della
organizzazione confraternale per tutto il periodo successivo, il segmento di
congiunzione fra il pio sodalizio, la città di origine, la corte papale e la società
romana. La sua personalità, il suo “ufficio” di notaio lo rendevano mediatore di
interessi economici, latore sicuro di istanze caritative e devozionali espresse dai
confratelli sempre più caratterizzati socialmente fra le fasce inferiori della
popolazione.
Alla metà del Cinquecento Camillo Fanucci divenne priore della Confraternita
di Santa Caterina e si trovò ad affrontare anche problemi suscitati dalle tensioni
religiose, dai pericoli di deviazioni dall’ortodossia rigidamente difesa da Paolo IV e
dai suoi successori. Frammenti di documentazione ci fanno capire come anche il
sodalizio nazionale senese potesse trovarsi in pericolo, se sospettato di ospitare fra i
suoi membri ecclesiastici e laici macchiatisi – o semplicemente sospetti – di apostasia.
15 Delle Lettere di M. Claudio Tolomei libri sette..., Vinegia, Giolito de’ Ferrari, MDLIIII, pp. 262-263.
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Da Venezia, dove si era rifugiato, il 21 dicembre 1560 scriveva ai priori della
confraternita di Santa Caterina Girolamo Caffaro, salernitano, “cappellano e
servitore”, ricordando come in passato, quando aveva officiato come cappellano
l’omonima chiesa senese in via Giulia, avesse sborsato di tasca propria molto denaro
– più di 200 scudi – per “bonificare il loco”, riattare stanze per gli infermi. Costretto
“a fuggir dalli sbirri, scampare dall’iniqua persecutione”, richiedeva ora di essere
reintegrato nelle sue funzioni, poter nuovamente usufruire dell’abitazione prima
concessagli dalla compagnia stessa16. Sottolineava come da Pio IV fosse stato
“provvisto alla giustitia” e prometteva di inviare a Roma copia della “mia espeditione
o assolutione o conferma come dir la vogliate, che mai io fu Apostata, essendo stata
tal professione per vim et metum come possete vedere”. Sperava nella carità senese di
essere mantenuto come “vostro perpetuo Cappellano”, come contratto in precedenza e
pensava che “la grave rovina di Siena vi havesse fatto più compassionevoli alla
calamità degl’altri et il giogo della servitù più devoti verso Iddio con carità del
prossimo verso le sue miserie et persecutioni”. Ma rimaneva deluso dal silenzio dei
priori della confraternita attenti, a suo dire, solo a “far mercantia”. In realtà la
prudenza mostrata dai priori di S. Caterina che non vollero riprendersi Caffaro come
cappellano era dettata dal mutato clima religioso che anche a Roma avrebbe sempre
più da vicino controllato le confraternite, il loro operato, i loro componenti. Era
inoltre opportuno allontanare ogni possibile, sebbene infondato, sospetto sulla
comunità senese a Roma e sui suoi possibili legami con l’eterodossia, dopo che eretici
famosi, da Bernardino Ochino ai Sozzini, potevano aver lasciato pericolose eredità
protette anche dalla comunità senese a Roma. Come è stato dimostrato, l’eterodossia
si nutriva, anche a Roma, di un milieu costituito da artigiani, bottegai, orafi, incisori,
artisti più o meno famosi17.
La figura di Camillo Fanucci può dirsi esemplare del clima segnato dalla carità
controriformistica, dal risveglio controllato della devozione, dalla pietà verso poveri e
malati che segna la vita delle confraternite romane, nazionali, di mestiere e
devozionali dalla seconda metà del Cinquecento. Camillo Fanucci non è solo
promotore attivo della vita del sodalizio dei Senesi a Roma, ma anche attento notaio
di tutte le registrazioni per l’elargizioni di doti, lasciti testamentari alla confraternita.
16 AASCS, Corrispondenza sec. XVI, cc. nn. 17 M. FIRPO 2004.
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Autore di diversi scritti che rispecchiano fedelmente il nuovo clima creatosi attorno
alla figura di Filippo Neri, proiettato verso il risveglio di pratiche religiose, Fanucci
scrisse infatti una guida per compiere la pia pratica della visita alle Sette Chiese18 e,
più tardi, pubblicò il famoso Trattato di tutte l’opere pie dell’Alma Città di Roma19,
sintesi completa di quel rinnovato panorama caritativo e devozionale che segnava la
Roma postridentina.
Attivo, non solo come notaio nella confraternita senese, Camillo Fanucci
promosse e guidò, nel 1595, il viaggio a Siena compiuto dalla confraternita per
venerare l’immagine della Madonna di Provenzano, lasciando una puntuale
descrizione della preparazione, delle tappe e della visita solenne a Provenzano20. La
decisione di compiere il viaggio non era stata facile: le riunioni dei confratelli, come
accenna velatamente Fanucci, allora segretario della confraternita, non avevano dato
unanime parere, ma al contrario avevano evidenziato i consueti dissensi che, da molti
indizi, sembrano essere stati assai frequenti fra i Senesi a Roma ed indicati come una
caratteristica della faziosa litigiosità della ‘nazione’ stessa. “Considerando che fra li
descritti vi erano molti tanto poveri che era necessario fossero aiutati, stavano
ambigui in deliberare”, alla fine, la “deliberatione” fu presa da un persona autorevole
indicata nell’abate Giulio Petrucci che, con i Priori, affrontò le ingenti spese per
rivestire i partecipanti con “il damascho venuto da Napoli et altri paramenti”. Il
viaggio rimase nella memoria storica della compagnia e un secolo dopo, nel 1695, a
Siena si suggeriva di ripetere tale esperienza.
I tempi erano mutati: la documentazione confraternale mostra come, nel corso
del Seicento, i legami con la madrepatria consistessero soprattutto nell’ospitalità
concessa a Roma, in occasione dei Giubilei del 1625 e del 1675, ai pellegrini senesi,
alle loro confraternite21. Sempre più frequenti diventarono le richieste, inoltrate anche
dalle autorità senesi, di ottenere sussidi per fanciulle povere, soprattutto nobili. Nel
1649, ad esempio, in una seduta confraternale si comunicava la richiesta di ulteriore
sussidio per Caterina di Rodolfo Forteguerri e Luisa Piccolomini per entrare nel
monastero delle vergini “del Rifugio, dove non vi si veste altro che poverissime 18 C. FANUCCI 1559. 19 Roma, L. Facij & Paolini, 1601. 20 AASCS, sez. III, filza 12, fasc. 89: Narrativa del viaggio fatto da Roma a Siena dalla Venerabile Confraternita di S.ta Caterina da Siena della Natione Sanese in Roma per andare a visitare la nuova Chiesa e miracolosa immagine della Madonna di Provenzano in detta Città di Siena l’anno della salute 1595 descritta da Camillo Fanucci segretario di detta Natione Sanese. 21 AASCS, Corrispondenza sec. XVII.
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fanciulle nobili”. La questione delle doti attraversa tutto il Seicento e non sembra
ricevere particolari, positive soluzioni quando divenne papa Alessandro VII (1655-
1667). La vita della confraternita senese a Roma mostra insomma come, dalla metà
del Cinquecento, si fosse sempre più determinata una dicotomia all’interno della
nazione senese presente nella città Eterna: i ceti più umili continuarono a gravitare
intorno al pio sodalizio, logorato al suo interno da una precaria organizzazione,
assillato dalla necessità di trovare nuove risorse per far fronte alle crescenti bisogni
finanziari dei connazionali. Dall’altra parte, proprio dalla metà del Cinquecento, era
diventato evidente, soprattutto per i protagonisti della più recente immigrazione, che
la fortuna economica, l’ascesa sociale si giocavano sempre nelle carriere curiali
compiute nel mare tempestoso della corte romana. In questo quadro socialmente
mosso ed articolato, non mancarono le eccezioni di chi si propose come trait-d’union
fra la confraternita, la società che rappresentava e la corte pontificia.
Attorno alla corte pontificia: speziali, medici, avvocati senesi a Roma
La mancata elezione, dopo Marcello II (1555), di papi senesi, le condizioni
politiche dell’agonizzante Repubblica e i rapporti altalenanti fra i Medici ed i diversi
pontefici che regnarono nel Cinquecento, determinarono una visibile assenza di
personalità di spicco originarie della città toscana, anche nel collegio cardinalizio.
Venivano a mancare così le immediate protezioni per sostenere con successo carriere
curiali, più esile si faceva la committenza senese da parte di chierici, minori, infine, le
opportunità per chi voleva entrare a servizio di una corte cardinalizia. Non per questo
Roma perse le sue attrattive per quanti decidevano di intraprendere una nuova attività
o, semplicemente, di tentare la fortuna. Molti, anche fra i Senesi, ebbero indubbio
successo. Personaggio di spicco, protagonista di primo piano della vita romana del
tardo Cinquecento lo speziale senese Marcantonio Ciappi era un punto di riferimento
non solo per la confraternita nazionale, ma anche per la corte romana. Scrisse una vita
di Gregorio XIII (1572-1585), suo protettore,22 e quando nel 1576 Roma, come altre
città italiane, fu devastata dalla peste, Ciappi dette alle stampe un’opera in versi nella
quale si fornivano indicazioni e rimedi per salvaguardare la propria salute di fronte
all’epidemia. Il successo dell’opera è testimoniato dalle successive ristampe quando,
come nel 1630, la peste che decimò la popolazione a Milano e nel resto dell’Italia 22 M. CIAPPI…G. MARTINELLI 1591.
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settentrionale, si affacciò ai confini settentrionali dello Stato Pontificio e minacciò
anche Roma23.
Sicuramente facoltoso con la sua rinomata spezeria all’insegna del Drago, in
Banchi, (forse il nome fu dato alla spezeria in onore di Gregorio XIII, Boncompagni,
che aveva appunto un dragone nello stemma familiare) nel cuore delle attività e
finanziarie, artigiane della Roma cinquecentesca, Ciappi seppe rendere visibile la sua
prestigiosa posizione sociale anche nell’allestire fastosi archi di trionfo per le
cerimonie del possesso – la processione che conduceva il neoeletto pontefice dal
Vaticano alla basilica di S. Giovanni in Laterano – che manifestava nella sua
articolazione gerarchica rigidamente costruita i segni della potenza papale e del suo
prestigio familiare e nazionale24. Esemplare, a questo proposito, fu l’arco di trionfo
innalzato a sue spese il 6 novembre 1605, quando Camillo Borghese (1605-1621),
eletto nella primavera precedente, prese possesso della basilica lateranense25.
Lo speziale non era nuovo a queste imprese ed anche in occasione
dell’elezione di precedenti pontefici aveva eretto archi di trionfo. Voleva, con queste
potenti e costose dimostrazioni del suo prestigio personale e di ‘disponibilità’ verso il
neoeletto e la sua famiglia “honorare li suoi Prencipi, e dar gusto honesto à tutti nella
comun allegrezza senza perdonar’ a spesa, o disagio, ha cercato e cerca sempre cose
nuove, et ingegnose inventioni, rappresentar cose, non meno nell’occhio corporale,
che a quello dell’animo dilettevoli, come fece negl’anni addietro, con haver descritto
in compendio la vita, e le gloriose attioni di Gregorio XIII suo benefattore e con haver
fatto successivamente nobil spettacoli nell’assuntione al sommo pontificato di
Gregorio XIIII e del sopradetto Leone XI creatura di quello, con apparato veramente
bello che fu stimato a paragone de gl’altri publichi honorato, e riguardevole. Hora
parimente nell’occasione del nuovo Pontificato di N. S. Paolo V mosso dal suo solito
generoso istinto, s’è voluto mostrare a Sua Santità non meno che a gl’altri Principi
antecessori devoto, et affettionato, et ciò con buon fondamento, sì per haver tolto
felice presagio dall’insegna gentilitia della Santità Sua del Dragone, insegna
parimente della sua bottega in memoria del sopradetto Gregorio XIII sì anco per la
23 Regola da preservarsi in sanità in tempi di sospetto di peste. Non solo utile et necessaria ma facilissima da farsi da qualsivoglia persona...composta per M.A. Ciappi, In Perugia, Pietriacomo Petrucci, 1577. Una seconda edizione fu stampata a Bracciano, per Stefano Aspri, nel 1630. 24 Sul significato simbolico e politico di questa cerimonia cfr. I. FOSI 2002, pp. 31-52.
25 Relatione del vago et nobile apparato fatto alla spetieria del Drago del magnifico Marco Antonio Ciappi..., Roma, Facciotto, 1605. Si veda, inoltre, F. CANCELLIERI 1802, pp. 178-188; M. FAGIOLO DELL’ARCO 1977, I, p. 16.
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particolare divotione, che sempre ha portato a questo Principe, per traere origine da
Siena sua patria”26.
Paolo V, un pontefice finalmente di origine senese, aveva infatti suscitato
immediatamente nei suoi connazionali residenti a Roma e nella città di origine,
speranze che si potesse ricreare il clima favorevole per i Senesi, grazie ad una più
intensa protezione pontificia. La consacrazione di Camillo Borghesi, suo cugino,
arcivescovo di Siena il 29 gennaio 1607, sembrava incoraggiare queste speranze.
Marcantonio Ciappi non si limitò a far eseguire interventi effimeri ma intervenne con
una mirata committenza sulla stessa chiesa nazionale. I suoi interessi, che andavano
ben oltre quelli legati al suo mestiere di “aromatarius”, mostrano un collezionismo
non limitato a prodotti artistici di soggetto religioso27. I rapporti fra la colonia senese a
Roma, le sue istituzioni come la confraternita e la chiesa nazionale e il papa Borghese
furono certo resi più stretti non solo da personalità eccentriche come l’aromatario
della spezeria del Drago. “Per benefico rescritto” Paolo V concesse alla confraternita
facoltà godute anche da altri sodalizi romani come quella di poter liberare un bandito
capitale nel giorno della festa di Santa Caterina: nel corso del Seicento saranno molte,
e non solo di senesi, le suppliche inoltrate ai Priori per ottenere la grazia per qualche
condannato28.
Se, comunque, la figura di Marcantonio Ciappi si propone come esemplare
segmento di congiunzione fra la corte, la curia e la ‘nazione’ senese nella società
romana, carriere curiali avevano visto dal Quattrocento protagonisti esponenti di
famiglie senesi che, in seguito, si stabilirono definitivamente a Roma proprio grazie
alle chances offerte dalle carriere ecclesiastiche. Se infatti seguiamo le vicende di
alcuni personaggi nella Roma del ‘500, è facile osservare come proprio alla metà del
XVI secolo avvenga, anche per chi prima si era affermato nell’esercizio della banca e
della mercatura, un decisivo spostamento di interesse verso carriere ecclesiastiche o,
comunque, capaci di fornire attraverso la preparazione giuridica, vie privilegiate, ma
non sempre scontate e facili, per accedere ai più importanti e redditizi uffici curiali,
come, ad esempio, quello di avvocati concistoriali.
26 M. FAGIOLO DELL’ARCO 1997, pp. 207-208. 27 Si veda il saggio di S. ROLFI 1997, pp. 185-207. 28 ASR, Camerale III, Confraternita di S. Caterina da Siena, b.1.
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Esemplare, in questa direzione, l’affermazione ‘romana’ della famiglia
Patrizi29. Già nel Quattrocento due esponenti della famiglia senese si erano affermati a
Roma, sotto la protezione di Pio II Francesco Patrizi aveva scritto i suoi trattati30 e
Agostino Patrizi era stato maestro di cerimonie di Sisto IV31. Un filo tenue di
continuità aveva mantenuto la famiglia con la corte romana e nel 1522 Arcangelo
Patrizi si affermò come avvocato concistoriale e fu in stretto rapporto con gli eredi di
Agostino Chigi, mentre suo fratello, più tardi, proprio alla metà del Cinquecento, dette
vita al ramo romano che avrebbe segnato la successiva storia familiare. Proprio in
quegli anni cominciò ad affermarsi, in Roma, la 'nuova' religiosità di Filippo Neri,
destinata ad imprimere un marchio indelebile al rinnovamento, non solo in termini
religiosi e devozionali, ma anche artistici alla Roma barocca: intorno alla figura di
Filippo e, successivamente, del cardinale Cesare Baronio, si radunano esponenti di
famiglie toscane, senesi e fiorentine, come dimostrano, ad esempio, i verbali del
processo per la beatificazione di Filippo Neri32. Fu proprio attraverso l’ambiente
oratoriano che, fra tardo Cinquecento e inizio Seicento, si strinsero più forti legami fra
alcune famiglie senesi e Roma, Figura decisiva fu Matteo Guerra (1538-1601), devoto
a Filippo Neri e fondatore della Confraternita del Chiodo che tante volte sarà ospitata
a Roma dal sodalizio nazionale senese33. Anche il "far parentado" rappresentò una via
privilegiata per l'affermazione nella corte papale. Le mosse per costruire una parentela
nella città nella quale si era deciso di impiantare la propria casa e le attività dovevano
fare i conti, innanzi tutto, con la corte pontificia, sempre più unica fonte di prestigio
sociale e generosa dispensatrice di protezione per affermarsi34. Le vicende della
famiglia Patrizi mostrano come inizialmente le scelte matrimoniali fossero state
orientate verso famiglie senesi come Piccolomini, Nini, Placidi, Accarigi35.
Successivamente, invece, il matrimonio di Patrizio, che già godeva di indiscusso
prestigio sociale e di cospicue risorse economiche, fu contratto con una donna di una
29 Si veda, a questo proposito, lo studio di A. M. PEDROCCHI 2000, pp. 12-38. 30 F. PATRIZI, De regno et regis institutionem libri 9..., Parisiis, Galliot, 1531;De institutione Reipublicae libri novem...,Parisiis , Gourbin, 1575. 31 Agostino Patrizi Piccolomini è, com’è noto, l’autore del primo cerimoniale pontificio ufficiale (1478): M. DYKMANS 1980-1982. 32 G. INCISA DELLA ROCCHETTA, N. VIAN, IV, 1963, ad indicem. 33 Sugli Oratoriani a Siena, che sebbene fino al 1606 fosse arcivescovo della città Francesco Maria Tarugi, particolarmente legato a Filippo Neri, si stabilirono a Siena solo un secolo più tardi, cfr. R. ARGENZIANO 1996, pp. 305-313. 34 I. FOSI, M.A.VISCEGLIA 1998, pp. 197-224. 35 A.M. PEDROCCHI 2000, p. 14.
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nobile famiglia romana, i Crescenzi, legati alla figura di Filippo Neri, all’ambiente
dell’Oratorio e, attraverso il cardinale di famiglia, al pontefice Clemente VIII
Aldobrandini (1592-1605). Anche per questa famiglia di origine senese sarà decisivo
il pontificato Borghese durante il quale Costanzo Patrizi ottenne il cappello
cardinalizio. Alla fine del Cinquecento l’affermazione familiare era testimoniata
anche da una generosa committenza nelle cappelle delle maggiori chiese romane ed
esponenti di spicco come Patrizio Patrizi si propongono come punti di riferimento,
ormai ben inseriti nella società romana, nella corte papale e nelle istituzioni
capitoline, per i Senesi che arrivano a Roma. Patrizi, infatti, che era stato incaricato da
Clemente VIII di rimettere in sesto l’amministrazione dell’Ospedale di S.Spirito in
Sassia, accolse il medico Giulio Mancini al suo arrivo nella città Eterna per
introdurlo nella corte papale.
Le tappe che portarono all’ascesa sociale della famiglia Patrizi nella Roma del
tardo Cinquecento e del Seicento si possono considerare cetualmente esemplari di altri
percorsi che segnarono la storia di personaggi senesi che si affermarono, prima nella
mercatura e nella gestione di uffici finanziari della curia romana, per poi ripiegare, se
così si può dire, piuttosto sulle carriere giuridiche ed ecclesiastiche. E’ il caso di
Angelo Brizi, socio in affari, all’inizio del Cinquecento, con Stefano Ghinucci,
appaltatore delle saline nella Marca sotto Leone X. Successivamente, “portatosi alla
corte di Roma, seppe così bene adoperarsi con Papa Leone X che lo dichiarò
Protonotario Apostolico de’ Partecipanti, e suo Cameriero parimente de’ì
Partecipanti”, scelta non tanto determinata “da cura tanto interessata”36, come sostiene
Ugurgieri Azzolini, ma da oculata decisione di chi intravedeva più sicure possibilità di
affermazione negli uffici curiali e nella vicinanza al pontefice e alla sua liberalità.
Giureconsulti come Niccolò Piccolomini o Rinaldo Petrucci, Celio Bichi o Filippo
Sergardi sono i più noti esponenti di quei non pochi uomini di legge che, nella prima
metà del Cinquecento, lasciarono Siena per cercare di intraprendere una più sicura e
gloriosa carriera a Roma, soprattutto come giudici nel supremo tribunale della Rota e
come avvocati concistoriali.
Furono certamente le tristi condizioni della Repubblica, la guerra, la precarietà
economica nella quale si trovarono anche molte casate nobili e patrizie senesi a
spingere questi uomini e le loro famiglie verso Roma e la corte pontificia. Non
36 I. UGURGERI AZZOLINI I, 1649, p. 221.
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sappiamo se questi e altri personaggi che compaiono nei diversi uffici della curia
romana o ascritti fra i familiares dei pontefici abbiano – e in che misura – nutrito
sentimenti antimedicei, se insomma la loro presenza a Roma possa ascriversi al
fuoruscitismo politico, dichiaratamente antimediceo e repubblicano. La fortuna dei
Borghese, ad esempio, è notoriamente legata alla oculata scelta di Marcantonio,
avvocato concistoriale, di non legarsi al furiuscitismo, alla sua disperata difesa di
un’ormai illusoria libertà repubblicana, ma di guardare con occhio accorto ai poteri
pontifici e imperiali e proporsi come mediatore37. Certo è che soprattutto nella seconda
metà del Cinquecento, quando la Toscana appare ormai pacificata (almeno in
apparenza) e Roma ricomincia a giocare il suo ruolo di patria comune sono
difficilmente etichettabili in senso politico i personaggi toscani, senesi ed anche
fiorentini, che troveranno a Roma il loro successo o la loro sfortuna.
Perché, effettivamente, il successo a Roma non era affatto scontato: troppi
erano gli elementi che potevano favorire o distruggere una carriera, una famiglia e
molto dipendeva dal favore del papa, del cardinal nipote, arbitro, sempre più nel corso
del Seicento, delle relazioni di clientela e di patronage. Era già accaduto in passato e
non mancano gli esempi di caduta in disgrazia di senesi alla corte di Leone X, come
Antonio Buoninsegni e altri che, probabilmente, subirono le conseguenze della
congiura messa in atto dal cardinale Petrucci contro papa Medici. Ma capitò anche
molti decenni dopo, sotto Paolo V a Giulio Pannocchieschi d’Elci, frustrato nelle sue
aspirazioni a ricevere la berretta cardinalizia per l’invidia del cardinal nipote Scipione
Borghese e, per questo, costretto a tornare a Siena. Se le sue speranze sembrarono
riaccendersi con l’elezione di Gregorio XV Ludovisi (1621-1623), questa voltà
l’insuccesso fu dovuto ai maneggi della cognata del papa, Lavinia Albergati Ludovisi,
dalla quale dovette subire “molti disgusti”. Ma così incerta era la corte, e la corte di
Roma in specie, dove la sovranità non si trasmetteva per eredità e le “inimicizie” sorte
sotto un papa potevano placarsi del tutto con l’elezione del successore.
La ormai sfumata connotazione politica fra i Senesi – ed anche fra i Fiorentini
– presenti a Roma, tutti sudditi del “sovrano naturale”, cioè il granduca, e fedeli
servitori del “padre comune”, cioè del papa, non sminuì il valore che la comune
provenienza poteva ancora giocare nel favorire integrazione e successo nella società
romana e nella curia pontificia. Come sotto Paolo V, anche con il pontificato di
37 G. DE CARO 1970, pp. 598-600.
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Urbano VIII Barberini (1623-1644), per molte famiglie toscane si aprirono nuove
possibilità. La città del papa si proponeva agli occhi di tutti come un ambiente
favorevole per la finanza, per la vivacità culturale e artistica, per la crescita degli
apparati burocratici resi necessari dal governo dello Stato Pontificio e della
diplomazia, proprio mentre in Europa stavano divampando le fiamme della Guerra dei
Trent’anni e il pontefice cercava di presentarsi come neutrale “padre comune” fra
Francia e Spagna. E’, dunque, in questo clima che alcune famiglie che avevano visto
declinare le proprie fortune a Roma nella seconda metà del Cinquecento, riannodarono
con la Città Eterna i fili di un rapporto che non si era mai interrotto.
I Chigi fra Siena e Roma fra Cinque e Seicento
La fortuna economica e il prestigio sociale di Agostio Chigi il Magnifico
avevano, com’è noto, lasciato tracce indelebili non solo nel tessuto urbanistico della
Roma rinascimentale, ma si proponevano come un modello con il quale provarono a
confrontarsi molte famiglie senesi, e soprattutto, anche a distanza di un secolo, gli
stessi eredi del banchiere di Giulio II. Le vicende che portarono non certo al rapido e
completo dissolversi ma, quanto meno, alla forte contrazione del patrimonio di
Agostino non sono state ancora completamente analizzate. Attribuite, talvolta,
all’inettitudine del figlio, talaltra anche alla congiuntura economica negativa
determinatasi a Roma dopo il 1527, non chiariscono né le dimensioni del mutamento
economico né i suoi motivi38. L’analisi della documentazione economica può dirci
molto sulle cause che in breve tempo portarono all’alienazione di gran parte dei beni
romani, alla liquidazione delle attività finanziarie nel 1542. Spese eccessive, anche per
far fronte ad impellenti necessità, come il pagamento del riscatto per un figlio di
Sigismondo fatto prigioniero durante il Sacco, troppe doti da pagare per ‘dignitosi’
matrimoni delle figlie, forse una conduzione degli affari, e soprattutto del Banco,
disinvolta e di tipo ormai antiquato, che escludeva la partecipazione di altri
mercatores: tutte queste ipotesi possono diventare valide spiegazioni solo se si tiene
conto della congiuntura politica e della tragedia rappresentata dal Sacco di Roma, da
un lato, e dalle vicende senesi dall’altro. Certo i Commentarii39, scritti da Fabio Chigi
38 Alcuni accenni al problema in M. TEODORI 2001, pp. 17-21. 39 BAV, Manoscritto Chigiano, a. I. 1, Chigiae Familiae Commentarii.
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nell’intento di riannodare i fili con il passato romano della sua famiglia sono troppo
generici, segnati da una certa autocensura nel ripercorrere vicende e personaggi ai
quali si poteva imputare la fine dello splendore familiare creato da Agostino. tuttavia,
ci sono evidenti spie che i Chigi, a Roma, nonostante le difficoltà economiche,
continuarono ad investire in proprietà immobiliari strategicamente collocate nel
quadro urbanistico, quasi per dare una dimostrazione di continuità e di permanenza di
un prestigio familiare non del tutto offuscato40. E per una strana coincidenza, quando,
nel 1599, fu venduta la Farnesina, ultimo simbolo di una posizione familiare
prestigiosa, nasceva a Siena Fabio Chigi che avrebbe ridato vita al passato glorioso
nella nuova dimensione del papato e della corte. Inoltre la continuità familiare che
proprio il futuro pontefice, dal suo arrivo a Roma nel 1626, si proporrà di
materializzare, non solo nel raccogliere notizie, non poteva nascere dal nulla. Anche in
questo caso, dunque, molte sono ancora le tessere necessarie per ricomporre l’intera
vicenda familiare, a Roma e a Siena.
Per Roma, infatti, l’interesse dei Chigi si era mantenuto vivo e costante per
tutto il Cinquecento, anche quando la perdita di gran parte del patrimonio spinse gli
eredi di Agostino il Magnifico a rivolgere piuttosto alla città di origine i propri
interessi economici e politici. La corrispondenza intessuta regolarmente fra famiglie
senesi a Roma, come appunto i Patrizi, i Borghese, e i Chigi testimonia il loro costante
legame con la città in cui si mantenevano beni, interessi finanziari, contatti personali
che alimentavano un rapporto destinato col tempo a costruire un milieu pronto ad
accogliere chi avesse deciso di ritornare a Roma, questa volta per intraprendere la
carriera ecclesiastica. Il rapporto con i Borghese fu tuttavia controverso e certamente
condizionato dagli avvenimenti politici che coinvolsero le due città negli anni ’30 del
Cinquecento. Marcantonio Borghese, infatti, avvocato concistoriale trasferitosi
stabilmente a Roma e ben presto avviato ad un rapporto sempre più stretto con la corte
papale e le maggiori casate romane, prestò per molti anni la propria perizia giuridica
per risolvere i problemi sollevati dalla gestione del patrimonio lasciato da Agostino il
Magnifico. Legato anche da vincoli di parentela con i Chigi – Agnese Bulgarini, figlia
di sua sorella Camilla, sposò infatti Mario Chigi, nonno del futuro Alessandro VII –
dovette allontanarsi dal “patrocinio” chigiano proprio per una scelta di campo:
numerose e troppo rischiose per lui che aveva scelto ormai di stabilirsi a Roma erano
40 Si veda, a questo proposito, il contributo di C. BENOCCI sul Casaletto di Pio V in questo volume.
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le “liti gravissime” che i Chigi avevano con le maggiori casate romane41. Come
Marcantonio Borghese, anche Arcangelo Patrizi, avvocato concistoriale a Roma,
aveva lavorato in diverse cause a favore dei Chigi42.
La corrispondenza fra questi ormai celebri uomini di legge e Sulpizia Petrucci,
figlia di Pandolfo e moglie di Sigismondo Chigi, figlio del Magnifico, indica con
chiarezza che, dopo la sua morte, questa figura femminile divenne il vero e sicuro
punto di riferimento per tutta la famiglia, non solo per la gestione del patrimonio43. Sul
pizia, che aveva sposato Sigismondo nel 1507, rimase vedova nel 1525: da allora fu
“donna e madonna” e assunse su di sé tutte le funzioni di pater familias. Le sue lettere
ai figli, scritte in gran parte di proprio pugno, fra il 1521 ed il 1544, da Roma e da
Siena, ci propongono l’immagine di una donna che lotta con tutte le proprie forze per
difendere le sostanze patrimoniali, i beni di Siena, soprattutto le proprietà terriere
minacciate dalla “avaritia” dei contadini e di fattori. Con una grafia “a zampa di
gallina” tipica di una cultura scrittoria dell’epoca, soprattutto femminile, Sulpizia
scrive alle figlie Ortensia Ghinuci, Cassandra44 e Agnese, intrecciando ordini per una
severa regia del ménage familiare a notizie su fatti o persone di comune conoscenza.
Anche ai figli Alessandro e Augusto scrive invece lunghissime lettere con ordini
precisi per condurre in modo deciso le diverse liti con famiglie romane, come i
Massimo, ma sollecita di viglilare anche sulla politica di Paolo III. Le liti accese per
questioni finanziarie non erano limitate solo a Roma. Il 13 gennaio 1543 Sulpizia si
raccomanda al figlio Augusto di tenere d’occhio il pericoloso temporeggiare della
parte avversaria e scrive che “circa la causa ho inteso quanto tu dici che li ufficiali
perlongorno la causa a beneplacito et hora loro vogliono dar la sententia et che dubbito
che non la diano contro il che sarà una grand iniquità”45. Si preoccupa dunque per
un’altra sentenza contraria alla famiglia che avrebbe deteriorato ancor più le sostanze e
leso anche l’onore. Le sembra “el mondo andar a rovescio”, ma si mostra “resoluta”,
promettendo al figlio “che me voglio appelar et mostrar tutti li pagamenti de Massimi,
de li quali può mostrar messer Matheo nostro, oltra quello che io farò opra di mandar
et farei con lui per veder quello conviene di fare et tanto farei che volendo hora tirar
41 BAV, Manoscritto Chigiano R V 11, c. 433r. 42 BAV, Manoscritto Chigiano R V 12. 43 BAV, Manoscritto Chigiano R III 70, cc. 109r-464v. 44 Le lettere di Cassandra e Sulpizia sono state analizzate da M.P. FANTINI 1999, pp. 111-150 45 BAV, Manoscritto Chigiano R III 70, c. 254rv
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detta causa sopra di noi...”46. In questa, come in altre missive, si vede come Sulpizia
coinvolga, affidando compiti precisi con ordini perentori, tutta la sua numerosa
famiglia in un disperato salvataggio delle fortune. Con tono deciso e accorato, Sulpizia
impartisce istruzioni anche a Pietro Aginolfi da Parma, “fattore”, amministratore fra il
1539 e il 1542, delle ancora molte proprietà fondiarie nel Senese47. Si informa delle liti
pendenti con famiglie senesi, come Bandinelli e Accarigi, raccomanda di aiutare i suoi
figli, di dare loro corrette indicazioni: “vi preghiamo che lo [Augusto] aiutiate et vi
raccomandiamo tutte le cose nostre che le custodiate con tutta quella diligentia et fede
che in voi habbiamo et perché portaranno il grano vi si mandaranno li libri et tutto
quello che farà di bisogno, altro non ci accade”, scriveva infatti in una delle sue lunghe
lettere. Ma erano anni difficili, non solo per gli eredi di Agostino il Magnifico e se
queste frequenti liti sono un non raro esempio delle cause che portarono in rovina
molti patrimoni nobiliari nell’età moderna, certamente si intrecciarono con la
complessa e sempre più disperata situazione politica di Siena e nei complessi rapporti
con il Papato, mentre si combattevano gli ultimi, decisivi momenti delle guerre
d’Italia. Del resto, scrivendo al figlio Alessandro, l’8 settembre 1544, la stessa
Sulpizia lamentava di aver ricevuto a Roma un “ambasciatore” della Repubblica che
aveva riferito che “il Consiglio non è contento che si spedisca a questa Signoria”, ma
al figlio ribadiva risoluta, di fronte al probabile diniego da parte dei governanti senesi
di intervenire per salvare gli affari della sua famiglia “e però non ci si fa su mente e
non vi lamentino poi se haranno delle cose che li dispiaciaranno da ogni verso che
questa non è la via”48. Se a Roma, dove Sulpizia in questi anni continuava a risiedere,
gli affari andavano piuttosto male, consumati anche dalle liti, nonostante i suoi sforzi,
a Siena, già negli anni immediatamente precedenti la fine della Repubblica furono
compiuti investimenti in acquisto di terre, considerate un più sicuro rifugio. Nel luglio
1534 i figli di Sulpizia acquistarono la tenuta della Castellaccia49 e altri beni furono
entrarono a far parte del patrimonio fra il 1556 ed il 1563. soprattutto nelle vicinanze
di Siena: due poderi vicino alla chiesa dell’Osservanza furono venduti ai Chigi da
Matteo Biringucci nel 1556; “un podere con casa diruta” fu acquistato nel settembre
1563 per 650 fiorini e nel 1570 Niccolò Spinelli vendeva ad Augusto Chigi, col 46 Ivi, c. 254r. 47 Le lettere di Aginolfi a Sulpizia in BAV, Archivio Chigi, 341, 70. 48 BAV, Manoscritto Chigiano R.III.70, c. nn. Si tratta di un’aggiunta autografa alla lettera scritta da altra mano, probabilmente da un segretario. 49 BAV, Archivio Chigi, n.17286.
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consenso dell’Ospedale di S. Maria della Scala il podere di Casanova ad Ancaiano,
dove, com’è noto, si costituirà una considerevole proprietà incentrata attorno alla villa
di Cetinale50. Alla fine del Cinquecento assistiamo inoltre a significativi passaggi di
proprietà fra i rami della famiglia, ormai segnati da un diverso destino economico,
come dimostrano gli atti per la vendita della Villa delle Volte, con i suoi poderi,
ceduta nel 1603 da Francesco ed Alessandro Chigi, oppressi ormai da troppi debiti, ad
Agostino Chigi, rettore dell’Ospedale di S. Maria della Scala ed artefice, proprio in
quel tournant tardocinquecentesco non solo della ripresa economica, ma di tutta la
politica familiare51.
Si deve innanzi tutto osservare che la rinnovata fortuna chigiana, a Siena e
successivamente anche a Roma, fu dovuta anche a scelte politiche che posero fin
dall’inizio i Chigi in stretta relazione e sintonia con il potere mediceo. Questa
strategica e fortunata opzione permise a diversi esponenti della famiglia di ricoprire
incarichi nel governo dello Stato Nuovo, ma anche di mantenere fruttuosi contatti
direttamente con la corte fiorentina e, di conseguenza, con Roma attraverso personaggi
di spicco della gerarchia ecclesiastica come il cardinale Ferdinando de’ Medici,
divenuto poi granduca. A Siena la figura di sicuro rilievo della famiglia è certamente
Agostino, rettore dell’Ospedale dal 1597. Era nato a Siena nel 1563, da Eleonora
Piccolomini Mandoli e da Augusto. Sposò Olimpia, del ramo Piccolomini Carli che gli
dette una figlia, Virginia Maria, morta ancora bambina. Questa mancanza di una sua
discendenza fu sicuramente determinante perché Agostino divenisse il tutore, la guida,
il sicuro riferimento per Fabio Chigi, rimasto anch’egli presto orfano52. Abitavano
sotto lo stesso tetto, secondo un modello familiare assai diffuso in Toscana53, nel
palazzo del Casato, “ammodernato” proprio per ospitare con rinnovato decoro tutta la
famiglia. Laura Marsili, la madre di Fabio, futuro Alessandro VII, parla di lui nelle
lettere al figlio come di “Missere”, con riverenza e gratitudine per quanto stava
facendo per il figlio inviato a Roma per intraprendere la carriera ecclesiastica54. La
carica di Rettore della prestigiosa istituzione ospedaliera e i suoi buoni rapporti con la
50 BAV, Archivio Chigi, nn° 17289-17290; 17296. 51 BAV, Archivio Chigi, n° 17311. 52 Sulla figura di Agostino Chigi, Rettore dell’Ospedale, rinvio alle notizie biografiche, economiche e artistiche contenute nei contributi degli Autori e Curatori del catalogo Alessandro VII Chigi (1599-1667). Il papa senese della Roma moderna, Catalogo della mostra, a cura di A. ANGELINI, M. BUTZEK, B. SANI, Siena 2000. 53 M. BARBAGLI 1996. 54 I. FOSI 2004, pp. 207-229.
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corte fiorentina ne fecero il portavoce, in diverse occasioni, del disagio senese. Nel
1612 fu inviato infatti a Firenze con Lelio Tolomei per “andar a neghotiare con S.A.S.
alcuni capi intorno a’ bisogni della città e dello Stato”55. Mediatore per la città e guida
sicura per tutta la famiglia, istituì nel suo testamento il fedecommesso che avrebbe
orientato l’asse patrimoniale secondo la primogenitura. Intanto aveva colto
perfettamente le “moderne” opportunità di carriera offerte dalla corte romana inviando
il nipote Fabio a Roma nel 1526 e garantendogli un “assegnamento menstruo” di 1000
scudi, nella speranza di un’affermazione che, con tempi lunghi e dagli esiti non sempre
scontati, avrebbe potuto cambiare le sorti della famiglia.
Donne di casa Chigi fra Siena e Roma
Nel Seicento, la corrispondenza di Fabio con i diversi membri della sua famiglia, con gli amici e protettori senesi si propone come una fonte di assoluto rilievo per cogliere legami vecchi e nuovi fra Siena e Roma, fra esponenti del patriziato cittadino e la corte pontificia, nella quale il Chigi iniziava la sua carriera. Le lettere, suggestive nella loro diversa formulazione, permettono anche di indagare sentimenti e passioni, sconfitte e successi, oltre alla quotidianità della vita domestica senese, quale appare soprattutto dalle lettere della madre a Fabio Chigi.
Da quando era rimasta vedova per la seconda volta, nel 1611, Laura Marsili Chigi aveva retto “prudentemente” il governo della casa56. Da Siena non si era mai allontanata: viveva nel palazzo di città, nel Casato, ma frequenti erano i suoi soggiorni nella villa di Cetinale, già in questi anni centro di una consistente attività produttiva scandita dai lavori dei campi, dai rapporti con contadini, fattori, lavoranti, e destinata a diventare, nel tardo Seicento, uno dei simboli più eclatanti, nel Senese, delle glorie della famiglia del papa.57 Una vita in villa allietata anche dalle frequenti visite di parenti, dalle “conversazioni” con i “cavaglieri”, che portavano esperienze e notizie da fuori, dalle corti di Firenze e di Roma, dove molti di loro avevano già trovato una posizione di prestigio che rafforzava quello goduto dai Chigi a Siena. Le sue lettere gettano luce anche sull’ambiente del patriziato senese, legato agli onori del governo cittadino e sostenuto, economicamente, dal possesso fondiario – insomma contento “delle loro entrate e de frutti della villa”, come lo descriveva Giovanni Botero nelle Relazioni universali – ma che traeva in questo periodo un vigore nuovo anche dai 55 BAV, Archivio Chigi, n° 17314. 56 Laura Marsili, figlia di Alessandro ed Ersilia Passionei, aveva sposato in prime nozze Antonio Mignanelli, dal quale aveva avuto due figli: Onorata, andata in sposa a Rutilio Bichi, e Antonio era divenuto cavaliere di Malta. Le sue lettere a Fabio in BAV, Archivio Chigi, Carteggi 77. 57 Sulla villa di Cetinale cfr. G. ROMAGNOLI, La villa di Cetinale ad Ancaiano 2002, pp. 454-458.
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legami esterni, con la corte medicea e con la corte romana58. A Roma infatti erano stati gli amici senesi e fiorentini ad introdurre Fabio alla
corte dei Barberini, mentre altri rampolli di famiglie nobili trovavano una degna collocazione negli ordini cavallereschi, come l’ordine di S. Stefano. Anche Gismondo era spesso lontano da casa: avviato alla mercatura, aveva gestito i suoi traffici soprattutto a Messina. Augusto, invece, era stato destinato a perpetuare la discendenza e ad accrescere il prestigio familiare ricoprendo cariche nel governo cittadino. Erano, comunque, carriere che si svolgevano fuori della città natale, lontano dalle mura e dagli affetti domestici e, se certamente potevano offrire maggiori possibilità di successo, da chi restava a casa erano percepite con dolorosa inquietudine. Laura Marsili Chigi continuava ad occuparsi della gestione patrimoniale, sovrintendendo inoltre ai lavori che, in quegli anni, la famiglia stava apprestando sia nel palazzo del Casato che nella villa di Cetinale59. Non sono rare infatti le lettere nelle quali comunica a Fabio l’andamento dei raccolti, l’avvenuta riscossione di crediti, ma anche parentadi che, si sperava, avrebbero portato nuove ricchezze in casa. intercalando notizie di nascite, di morti, di malanni stagionali, dei debiti di gioco di Mario, di bizzarrie dei piccoli che le crescevano intorno, soffermandosi a descrivere con tratti incisivi il nipote Flavio, futuro cardinale60. Laura fornisce al figlio anche un quadro della situazione economica familiare: “noi siamo in gran carestia di denari”, scriveva nel gennaio 1631, ricordando di aver gli inviato 10 piastre “a la mano del vostro Camariere e me ne fece ricevuta”. La mancanza di denaro contante sembra mettere in pericolo tutta l’ordinata gestione domestica e, dopo aver trascorso insieme alle sorelle, ai figli le feste di Natale, era venuto il momento di fare i conti in famiglia, di saldare debiti, di onorare quanto disposto da lasciti testamentari. Acrobazie che Laura riferisce a Fabio: “il primo di dellano si parti da noi Camilla e Caterina che gli ebbi da dare centocinquantatre piastre che ne o auti acattare centovinti e per non ci
58 Sulla nobiltà senese in età medicea rinvio al mio saggio Una nobile decadenza 1996, pp. 53-68 e al contributo di O. DI SIMPLICIO, Nobili e sudditi, in M. ASCHERI 1996, pp. 71-129. 59 In particolare, una risistemazione delle stanze del palazzo del Casato, dove abitava sia “Messere” Agostino, da poco vedovo, sia Laura è ampiamente descritta nella lettera del 28 ottobre 1635:” non restavo di sollecitare lassettare le camare per Gismondo ma ora per una sua intendo che non ci e piu tanta fretta che dicie fra umese vuole venir costa da voi e starci um pezo e anco mi dicie che oltre alli assetti che aviamo fatti arebbe voluto si facesse una arringhiera alla inferriata della seconda camera e dici che e di vostro gusto quando si comincio a murare ci venne il signore Messere e dette lordine che si acresciesse la fenestra grande di sala si facesse la porta riscontro alla finestra di mezo della camara si levassi laqquaio e le pietre del camino e delle pietre dellaquai se ne fatta la porta alla seconda camera che da assai lume e della aringhiera se ne fecie beffe per riuscir sopra a tetti e bassa che sarebbe stata pericolosa da ladri si che Austo la lascio stare”: BAV, Archivio Chigi, Carteggi 77, c. 167r. Sul palazzo del Casato cfr. M. QUAST 2002, pp. 435-439. 60 “Flavio di suo tempo e grande in formato e a un faccione fattezze tutte grandi ochio nero e quando e in buona e fa tante careze e in particolare a me e a sua madre e bianco e rogio ma a per anco pochi capelli e quelli bianchi ma quando a collora no par quello che he e allora somiglia il cogniato Fortunio quando aveva collora...poche parole ma quelle che dicie le dicie bene he a proposito e a il pasto e dorme da me”: BAV, Archivio Chigi, Carteggi 77, c. 152.
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esser Mario tocco a cercar me e dio sa quando gli rendero, pur io so padrona di casa e fo come prima mi capita denari sempre attendo a darli a chi a davere e ogni tre mesi do una piastra per una a le nostre monache per il lassito del cognato”61. Non sono ancora evidenti, a Siena, i benefici della carriera ecclesiastica intrapresa da Chigi, anzi, le spese per poter dignitosamente vivere il suo ruolo di vicelegato, come gli altri incarichi ai quali fu destinato successivamente, gravavano ancora sul patrimonio familiare e tormentavano la sensibilità di Fabio che, fin dall’inizio della sua carriera curiale, si guadagnò fama di persona assai morigerata, per non dire avara. Ma, come vedremo, Fabio non parlava molto di questi problemi nelle lettere alla madre, ma piuttosto con lo zio Agostino e con i fratelli.
La penuria di liquidità, caratteristica costante e comune dell’economia nobiliare, non solo italiana, non significava, tuttavia, per la famiglia del futuro pontefice un diminuito prestigio in ambito cittadino. Al contrario, proprio in questi anni, molti sono i segni che compaiono nelle lettere di una riacquisita preminenza che si esprime negli onori manifestati, in diverse occasioni, ad esponenti della famiglia: dalla visita del granduca a Siena, ospitato anche a Cetinale, dalla visita, nel 1637, del cardinal Alessandro Bichi a Siena, accolto anche nel convento di Camollia “che lo ebbero a desinar da loro [...] con tanta loro allegrezza e consolatione”, come negli onori tributati ad Augusto e consorte ricevuti sontuosamente nell’Ospedale di Santa Maria della Scala dal rettore Agostino Chigi e da sua moglie. Laura morirà nell’aprile 1639: non rivide più Fabio che continuava ad intrattenere rapporti epistolari con i fratelli, le sorelle monache e con lo zio tutore. Poco dopo, il 16 giugno 1639 moriva anche lo zio Agostino. In una delle ultime lettere, Fabio scriveva comunicandogli sia le speranze di ulteriori progressi di carriera, ma dispensava anche consigli per la salute malferma – “la delicatezza della sua complessione e l’età non richiedono altro da V.S. se non l’appartarsi da negotii più gravi et il godersi il riposo e l’aria della villa”. Pensando alla sua fine non lontana, lo ringraziava di quanto aveva fatto per lui e per tutta la famiglia “come a padre Padrone e protettore di tutti con l’auttorità, con l’aiuto, col consiglio”62 e lo assicurava che a Roma avrebbe provveduto alle cappelle familiari immagini allora un po’appannate di una storia familiare che, dopo alcuni anni, avrebbe lasciato un’impronta indelebile non solo sulla città del papa. Sarà la cognata, Berenice della Ciaia, a riprendere i fili di un discorso epistolare interrotto dalla morte di Laura Marsili e, poco dopo, dello zio tutore Agostino, mentre da Roma Fabio Chigi si preparava ad affrontare il difficile compito di “mediator pacis” a Münster.
La mutevole natura della corte che aveva ispirato tanti autori cimentatisi con questo tema assumeva nella corte papale un carattere naturale e in qualche modo più 61 Ibidem. 62 BAV, Manoscritto Chigiano A I 32
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facile da contrastare o da sfruttare al meglio: legami fazionari, alleanze matrimoniali, cerchi di patronage dovevano essere accortamente studiati per garantire quella continuità che avrebbe permesso di mantenere posizioni precedentemente acquisite.
Era quindi essenziale informarsi: capire, prima di altri, i movimenti in atto alla corte, nella famiglia e in città, gli arrivi di nuove figure che potevano presto assumere il determinante ruolo di protettore o di intermediario alla corte stessa. Decisiva risultava la posizione delle donne all'interno della famiglia papale, grazie alla loro posizione di confine fra il formale e l'informale e, quindi, facilmente utilizzabili nell'una o nell'altra direzione. Esemplare, ma certo non unica e neppure originale, se confrontata con altri carteggi, può essere la corrispondenza indirizzata a Berenice della Ciaia, moglie di Mario Chigi, fratello di Alessandro VII63. Nel maggio 1656 il papa, com'è noto, dopo un lungo dibattito in seno al collegio cardinalizio conclusosi poi con pareri favorevoli, acconsentì a far venire i suoi parenti da Siena a Roma. Abbandonare la città natale con tutte le sue relazioni familiari, le scansioni domestiche segnate dalla vigile attenzione sulla proprietà e dai rapporti quasi quotidiani con le numerose parenti chiuse nei conventi cittadini non sembrava entusiasmare Berenice, come appare da alcune sue lettere64. Ma la sua venuta a Roma veniva celebrata da chi, da Siena, si era subito affrettato a garantirsi una posizione di prestigio alla corte romana, offrendosi di servire come “Mastro de' Paggi di vostra Eccellenza o in altro impiego di sua soddisfatione e gusto”65. Le lettere non arrivavano solo da Siena o dalle diverse parti della Toscana: da tutto lo Stato Pontificio, dalle corti italiane e da altri stati cattolici si avviava un intenso movimento epistolare diretto a guadagnare la benevola protezione della nuova arrivata. Anche senza arrivare ai recenti e nefasti eccessi di Donna Olimpia, le donne della famiglia pontificia avevano sempre rappresentato ineludibili punti di riferimento. Così era stato per Lavinia Albergati Ludovisi, cognata di Gregorio XV, per Costanza Magalotti Barberini, cognata di Urbano VIII, per Anna Colonna, moglie di Taddeo Barberini, nipote del papa. Elementi di raccordo fra la famiglia, la corte ed il mondo esterno, le donne della famiglia papale – le cognate del papa, soprattutto – diventavano ingranaggi indispensabili (o almeno così si credeva!) per dare concretezza ad aspirazioni di crescita formulate nelle numerose suppliche, nelle lettere di raccomandazione, nelle generiche richieste di protezione per un matrimonio da contrarsi in provincia e per il quale si richiedeva il benedicente assenso papale o per un madrinaggio che avrebbe assicurato alla famiglia di una nobiltà di 63 BAV, Manoscritto Chigiano F III 43-46. 64 BAV, Archivio Chigi 3734. 65 BAV, Manoscritto Chigiano F III 43, c. 106r: lettera di Pietro Gagliardi, Siena, 1 maggio 1657. Seguono altre missive di dame senesi che ringraziano per esser state condotte a Roma a servizio della cognata del papa: saranno anch'esse autrici di lettere di raccomandazione per parenti e conoscenti senesi ambiziosi di fare carriera a Roma.
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provincia un lustro maggiore66. Scrivere alla cognata del papa significava mettersi sotto il manto ampio e sicuro di una materna protettrice: l'immagine mariana sembrava materializzarsi anche nella corte papale, consesso maschile, nel quale le donne tessevano solide trame, ricamandovi favori e protezioni per consolidare l'immagine della famiglia, la sua politica, e raccogliere consenso. Una pratica positiva, anzi necessaria, se svolta con prudenza, senza eccessi, se soprattutto, si muoveva nella direzione indicata dal pontefice: mai, dunque, costruirsi una corte (nel senso di luogo di potere) propria e antagonista. Anche per la famiglia pontificia si ripropone con forza quell'immagine di “gioco di squadra” felicemente coniata per descrivere il lavorio femminile teso ad accrescere la fortuna ed il prestigio nobiliari67. Lettere di raccomandazione si intrecciano in questi volumi di corrispondenza con biglietti di auguri, con missive apparentemente ripetitive ed insignificanti nelle quali personaggi diversi da luoghi lontani si presentano, narrano di sé e della propria famiglia, del lavoro e della fedeltà per rappresentarsi in una luce positiva che possa, fin dall'inizio, aiutare a stabilire un solido rapporto di protezione ed a garantire un'intermediazione sicura con più potenti patroni. Scrive il Gran Maestro dell'Ordine di Malta all'inizio di gennaio 1658; scrivono vescovi che si apprestano a recarsi a Roma per la visita ad limina, ma anche per intessere personalmente proficui legami con la famiglia papale: scrive, in attesa di questo viaggio, Ulisse Orsini, vescovo di Ripa, pregando Berenice di non lasciarlo “totalmente suo inutile et otioso servitore sopra la cognition del mio povero talento et attitudine”68, e Carlo Mandruzzo, vescovo di Trento, con gli auguri di Natale, annuncia la sua prossima visita a Roma69. Anche l'arrivo, nel maggio 1657, dell'ambasciatore ordinario della Repubblica di Venezia Angelo Corner era stato preceduto da lettere del doge Domenico Contarini indirizzate a Berenice nelle quali si raccomandava di accoglierlo “con la solita cortesia”, mentre la venuta a Roma dell'ambasciatore straordinario Nicolò Sagredo, nel novembre 1658, dava occasione allo stesso doge di annunciarne la visita, per congratularsi della raggiunta pace in Europa70.
Le lettere di donne costituivano la maggioranza di questa ricca corrispondenza: annunci di matrimoni, richieste di protezione per stipulare un buon parentado in provincia si intrecciavano con raccomandazioni per figli e, soprattutto,
66 Laura Carpegna, ad esempio, scriveva da Bologna a Berenice della Ciaia il 30 gennaio 1658: “prendo ardire di supplicarla con ogni humiltà a volersi degnare di far levare al sacro fonte la creatura che piacerà a Dio crescermi in breve”: BAV, Manoscritto Chigiano F. III. 43, c. 7r. Pochi mesi dopo annunciava la nascita della figlia (c. 14r). 67 R. AGO 1992, pp. 256-264. 68 BAV, Manoscritto Chigiano F III 43, cc. 2r; 54r. 69 Ibidem, c. 175r. 70 “Prende motivo la Repubblica nostra dal bene della Pace tra le Corone e dalla congiontura propitia d'unire rinforzi e di sollevarsi dall'oppressione degl' Ottomani”: BAV, Manoscritto Chigiano F III 45, c. 1r.
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per mariti ambiziosi di ‘crescere’ non solo alla corte di Roma, ma anche nei governi provinciali. Particolarmente numerose erano le richieste di raccomandazione inoltrate da gentildonne toscane, specialmente senesi e fiorentine, per ottenere favori per i propri consorti presso la corte medicea: Minerva Del Monte Ottieri chiedeva infatti “il potentissimo suo favore presso il Ser(enissi)mo Principe Mattias o di qualche ministro in raccomandatione degl'interessi del mio Signor Consorte”71. Anello di congiunzione fra la corte di Roma e quella di Firenze appare, in questa corrispondenza, il principe Mattia, governatore di Siena proprio in quegli anni. Era per altro lo stesso Mattia, nel 1660, in una lettera autografa a Berenice vergata in una stentata scrittura a raccomandare Leonora Ballerini “moglie d'un mio cerusico”, sottolineando, che “io so molto bene il genio grande, ch'ha V. E. con le persone virtuose”72.
L'ingresso di un congiunto nel servizio dava spazio ad attese di veder la liberale protezione allargarsi ad altri esponenti della famiglia per consolidarne così la posizione sociale sia nella città di origine che, eventualmente, nella grande patria comune, Roma. Ortensia Borghese Giordani scriveva da Pesaro una lunga lettera a Berenice per ringraziare, attraverso lei, il papa che aveva nominato “il Signor Girolamo mio marito Cameriero d'honore...che veggend'io per tali testimonianze et effetti d'un ottima volontà de' Padroni verso noi qualificarsi tanto la conditione di detto mio marito e di me per sodisfare al mio gran debito con quelle forme che possano provenire dal riverentissimo mio ossequio...mi fo lecito di essere a rendere di tutto humilmente gratie a V.S. col mezzo di questa lettera che le sarà presentata da un nipote di mio marito che si trattiene da più anni in qua a fare il corso de studii nel Seminario romano con inclinatione di seguitare codesta corte nella professione di prete. Onde già che io mi trovo priva di figli maschi che possino godere della Protettione dell'Ecc.ma Casa Chigi, sono humilmente a supplicar V.E. che nell'impetrar e dall'Ecc.mo Suo foglio qualche prerogativa che inanimisca codesto giovane (che si nomina il Signor Domenico Olivieri) alla vita clericale...”73: la lettera di ringraziamento diveniva così lettera di raccomandazione a testimoniare, ancora una volta, l'intreccio indissolubile di forme scrittorie che sostanziano forme comunicative. Le missive erano spesso unite a doni, come “alcuni pesci in qualità di miglioranti affumati, frutti di queste valli” inviati da Pietro Paolo Carli canonico di Comacchio all'avvicinarsi della quaresima74, mentre Giulio Spinola, vescovo di Laodicea, da Napoli annunciava una sua imminente visita a Roma, facendosi precedere da “sei scatole di diverse cose di zuccaro e frutti di questa città”75. Lettere di donne si 71 BAV, Manoscritto Chigiano F III 43, c. 62r. 72 Ibidem, c. 39r. 73 Ibidem, c. 70. 74 BAV, Manoscritto Chigiano F III 45, c. 4r. 75 Ibidem, c. 13r. Ma anche il vescovo di Genova offriva “una cassetta di conserve di Genova lavorate da una mia sorella monaca”: c. 16r; Cornelia Malvezzi Bonfioli, dopo il suo “accasamento” a Bologna
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accompagnavano a quelle scritte da uomini in attesa di una protezione per vedersi confermati in una posizione di prestigio, ma che lamentavano la lontananza dalla corte per “servizio”, chiedendo così a Berenice, neppure troppo implicitamente, un concreto aiuto per avvicinarsi a Roma. Altri uomini comunicavano orgogliosi un “accasamento” di cui erano stati artefici e che ora attendeva la protezione della famiglia papale: così, ad esempio, Francesco Coppoli da Firenze scriveva, nel settembre 1659, di “voler dar conto di ogni senzale evento della mia casa” ed annunciava il matrimonio della figlia Claudia con il “Sig. Marchese Giovanni Giugni, nobile e facultoso fra i migliori di questa città”76. Se, dunque la cognata del papa era divenuta un punto di riferimento essenziale nella corte di Roma, le visite di parenti del papa a Siena si trasformarono sempre più in uno straordinario motivo di “allegrezze”, non solo per la città e per i suoi abitanti. Siena, terreno di caccia e di “allegrezze” E’ noto come il cardinale Flavio Chigi amasse recarsi con la sua corte a Siena,
dove tangibile era la trasformazione di ville, giardini esprimeva il gusto raffinato ed
eccentrico del nipote di Alessandro VII. Questi “affetti”, già notati dai
contemporanei77, si concretizzarono in lunghi soggiorni nella città natale, dopo la
morte del papa. Nel settembre 1664 Flavio decise di portarsi a Siena per un periodo di
“caccie”: erano con lui l’abate Guglioni, Giovanni Filippo Appolloni, il cavaliere
Lelio Tolomei “paggio dell’Eccellentissima Duchessa di Farnese che andò al Paese a
riveder la madre”; Ambrogio Theodoli e Sebasiano Baldini, autore del sintetico, ma
assai efficace diario del viaggio e del soggiorno senese78. Non era certo lo stile
puntuale e devoto del notaio Camillo Fanucci che, quasi un secolo prima, aveva
guidato il viaggio per onorare la Madonna di Provenzano. Qui le tappe del percorso –
le stesse, da Roma a Siena, passando per Viterbo, secondo l’itinerario della
Francigena, sono scandite non dalle visite a oratori e luoghi di devozione, ma a
locande, case di “amici di casa Chigi” più o meno ospitali, accompagnate da una
puntuale osservazione dei cibi e bevande offerti e gustati. Così. la prima tappa, con Agesilao Bonfioli, chiedendo la protezione chigiana sulla sua nuova vita coniugale, pregava Berenice “a non isdegnare queste due cagnoline come prerogativa di questo Paese”: BAV, Chigiano F. III. 43, c. 56. 76 BAV, Manoscritto Chigiano F III 45, c. 109r. 77 Biblioteca Comunale, Siena (=BCS), ms E. III, 9, CURZIO SERGARDI, Siena ricercata et esaminata conforme si ritrova al presente con la notitia dell’Huomini illustri, e delle case nobili che presentemente vivono, con principio della loro nobiltà, c. 65 78 BAV, Manoscritto Chigiano E I 13: “Diario di un viaggio di tre carrozze fatto da Roma a Siena”. Il testo è ricordato da A. ANGELINI 1998, pp. 129-130.
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giovedi 20 settembre, a Monterosi “a rinfrescarsi”, e la stessa sera a Ronciglione dove
il capitano Poggiani “come servitore della casa Chigi”, voleva far alloggiare la
comitiva in casa propria. Dopo molti “negotiati e preghiere ci mandò tutta la cena
all’hosteria molte bocce di vini bianche e rossi pretiosi, pesci grossi in più maniere,
frutti di tutte le sorti, gelati e confetti e dopo volle darci da dormire in letti
spiumecciati”79. A Viterbo, il giorno successivo, annota nel diario che “ci
rinfrescammo malamente non essendovi di buono altro che il pane passato di Viterbo.
La sera quasi ad un hora si arrivò in Acquapendente e si hebbe una pessima cena con
vino buonissimo ma con olio infame, i lucci buoni, ma i letti indegni e quasi fetenti”.
Finalmente, domenica 23 settembre viene organizzata la prima caccia “con molti
bracchi mandati dal granduca per seguir il signor cardinale e molti cacciatori del sig.
Spinelli a Radicofani”. Il percorso verso Siena è così scandito da cacce quotidiane e
Sebastiano Baldini annota puntualmente, ogni volta, quanti tipi animali erano stati
uccisi: starne, lepri, fagiani. In Val d’Orcia, per l’illustre ospite fu imbandita una cena
con “un banchetto nobilissimo e vini bianchi di Montepulciano dolce e asciutto e
rosso asciutto e pretioso, ma fu poco fresco, frutti d’ogni sorte”. Il divertimento era
assicurato non solo dalla caccia e dai cibi, ma da “conversazioni” in cui si gustavano
aneddoti e facezie, prevalentemente sui contadini del luogo. Grande meraviglia infatti
aveva destato un “mezzaiuolo” dell’ospedale di Montalcino “vecchio di 64 anni, il
quale haveva 11 figli, 6 maschi e 5 femine, havendone fatti 20, con uno in fasce
generato 3 mesi fa”80. La campagna, la natura sono, in queste pagine, come in un
quadro, la cornice entro la quale si svolge un gioco ininterrotto e il mondo contadino,
lontano, è osservato con curioso distacco, fonte di sollazzo per una corte romana in
vacanza.
La caccia continuava a dare buoni frutti e il cardinale decide così di
organizzare una staffetta per inviare a Firenze al granduca, in uno scatolone, “71
starne e 9 lepri” catturate quel giorno. L’invio di doni, che, come abbiamo visto,
accompagna sempre espressioni di devozione e gratitudine, si connota, in questo caso,
anche di significato politico come omaggio di fedeltà al sovrano naturale. Nel diario
non sono molti i luoghi che sottolineano i momenti di preghiera nelle giornate del
cardinale Flavio, liquidati con poche parole come “fattasi il cardinale la barba e detto
79 Ibidem, c. 1r. 80 Ibidem, c. 10r.
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l’officio”, per poi dare spazio alle occasioni di sociabilità, sempre più numerose
mentre si avvicinano a Siena. Giovedi 27 settembre, a Buonconvento vengono
incontro alla comitiva il cardinale Sigismondo “ con la sua carrozza” e poco dopo “la
carrozza della sig. donna Agnese e le 2 sorelle del principe Agostino e altre donne”.
Al suo arrivo a Siena, Flavio va a “visitare le monache parenti” rinchiuse nei
conventi senesi, in S. Girolamo in Campansi e in S. Margherita in Castelvecchio,
secondo una ritualità che da sempre aveva unito i conventi senesi con la famiglia a
Siena e con la corte romana, fin da quando Fabio Chigi scriveva alle sorelle monache,
ricevendo doni, notizie, raccomandazioni81. La visita del cardinale diventa così un
momento di sociabilità anche per il monasteri che guadagnano, agli occhi della città
tutta, ulteriore prestigio dalla sua temporanea presenza. Siena appare, in queste scarne
pagine del diario, come un piacevole luogo di incontro fra la corte cardinalizia e
quella granducale, aperta ad accogliere fastosamente ospiti illustri come il conestabile
Francesco Onofrio Colonna “la Duchessa Mazzarini sua moglie”, Maria Mancini,
l’affascinante nipote del cardinale Mazzarino amata da Luigi XIV che, insieme ad
altre dame e alla “bella duchessa”, la sorella Ortensia Macini, arrivano a Siena da
Porta Camollia venerdi 29 settembre82. Viene concesso loro un “appartamento
addobbato”, dove le signore si ritirano “per indispositione”, ma nei giorni successivi
Siena ammirerà il “passeggio delle dame verso Porta Camollia” poi gli ospiti sono
ricevuti dai Gori per un “festino del Gioco, Madonna vi fu e giocò per mezz’ora e poi
andò a casa a trovar la Duchessa che non venne”83. Lunedì 8 ottobre “sua Eminenza
udì la messa in casa e madonna Colonna con la Duchessa andarono al Monastero del
Refugio a vedere le due bellissime nipoti di Don Agostino et gli altri monasteri dove
sono li Parenti de’ Chigi”: ancora una volta sono i conventi senesi una tappa obbligata
di visite per ammirare un prestigio familiare che attraversa le mura dei conventi, in
uno scambio continuo con la casa e la città. In quei giorni si unisce alla comitiva il
duca di Nimey, arrivato da Venezia che con il connestabile, Filippo Acciaioli e il
Bandini “andarono alla pallacorda a palleggiare et al pallaccino”84. Continuano le
feste nelle case della nobiltà e “la 2 sera vi fu Flacchino vestito da zannì con la
chitarra che cantò molte canzoni...si cenò discorendo di Francia...chi lodava Parigi”. 81 Archivio di Stato di Siena (=ASS), Conventi, 1872-1873, 2299 82 Ricordi di questo soggiorno senese nelle memorie di Maria Mancini in D. GALATERIA 1987, pp. 55-56. 83 ASS, 2299, c.14r. 84 Ibidem, c. 15v.
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Ma sono le ville Chigi ad ospitare con fasto che unisce, in una felice sintesi, le delizie
della campagna allo splendore delle feste romane: giovedi 4 ottobre tutti gli ospiti si
recano a Vico, “villa lontano un miglio da Siena, in un colle vestito di alberi e vignato
con 2 habitationi bellissime. et il conestabile con tutta la comitiva si portò colà. Si
desinò nella sala molti riposarono e fu lì 20 e mezzo si fece un ballo di contadini e
nell’istesso tempo la Duchessa Mazzarini montò a cavallo e io co i bracchi andò a
caccia, mentre sio seguitava a ballare comparvero carrozze con segge volanti di
Cavaglieri senesi i quali subentraronoin ballo e fu portato un fregio di confetti
castagnoli più belli”85. Venerdi 5 ottobre il connestabile e la moglie sono “risoluti
partir per Roma”. mentre tutti gli altri restano a Siena fino all’inizio di novembre.
La festa descritta con brevi e incisivi tratti da Sebastiano Baldini si propone
come il momento più alto che manifestava, a Siena, la potenza della corte romana, le
fantasie e il gusto del cardinale Flavio, il prestigio dei suoi ospiti, e, soprattutto, in una
sintesi trionfante, esaltava la famiglia del pontefice che aveva recuperato e superato la
memoria del suo antenato Agostino il Magnifico.
85 Ibidem, c. 16v.