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Il feedback insight cognitivo/insight affettivo Alberto Peruzzi Inquietudini della modernità 2013 Università di Firenze

Il feedback insight cognitivo/insight affettivo

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Il feedbackinsight cognitivo/insight affettivo

Alberto Peruzzi

Inquietudini della modernità 2013

Università di Firenze

0. ProlectaIl tema scelto per l’edizione 2013 di “Inquietudini della modernità”, ovvero l’insight affettivo, è sicuramente più congeniale a filosofi di altro lignaggio. Di quella cosa straordinaria che è l’interiorità umana so poco e non mi riesce far convivere vaghezza e profondità affascinando chi mi ascolta con una serie di allusioni suggestive.

In giro ci sono ancora due antichissimi virus dell’intelligenza.

Uno è quello che induce a dire quel che si presume sarà apprezzato e ad apprezzare chi ci dice le cose che già apprezziamo; l’altro è quello che fa associare la profondità di pensiero all’oscurità dell’eloquio e induce a nascondere la propria ignoranza dietro a discorsi contorti.

Spero che questo sia un luogo che brilla per l’assenza di entrambi i virus e che dopo il mio intervento non si attribuisca a me la colpa di avere introdotto uno dei due virus o tutti e due.

Sono stato invitato a portare la voce della filosofia in questo consesso, con l’unica raccomandazione di tener presente che mi sarei rivolto a un pubblico composto anche da non-esperti, ragion per cui era sconsigliabile ogni tipo di gergo.

Benché la filosofia abbia visto male l’invito rivoltomi, l’ho accettato egoisticamente: perché mi forniva l’occasione di riflettere su temi diversi da quelli sui quali abitualmente faccio ricerca.

Alla luce di simili premesse, è chiaro che non avrei mai potuto fornirvi un quadro soddisfacente dell’argomento che ho scelto di trattare. Lasciando ad altri il piacere di una visione dall’alto su tutto, esporrò alcune semplici riflessioni che hanno un unico scopo: distinguere i vari aspetti dell’insight e chiarirne i rapporti.

Anche se in passato mi è capitato di affrontare questioni riguardanti i processi cognitivi legati al linguaggio, non mi è mai capitato di trattare questioni relative alla sfera dei sentimenti. È vero, ho composto un certo numero di poesie, ma non le ho mai intese come “studi” su questa sfera – bensì come sue manifestazioni.

In questa occasione intendo intendo valorizzare alcuni legami che connettono sfera affettiva e sfera cognitiva, suggerendo che ci può anche essere un modo di trattare unitariamente aspetti che discipline diverse affrontano separatamente.

Ringrazio gli organizzatori per l’invito ricevuto.

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Innanzitutto, non credo che ci sia una prospettiva filosofica sull’insight. Può sembrare strano, lo so, perché sulla conoscenza intuitiva (in senso lato) i filosofi si sono premurati di dire la loro da più di duemila anni, anche se hanno detto cose molto diverse l’uno dall’altro. Se si fosse trattato solo della molteplicità di tesi al riguardo, anche limitatamente al contrasto fra Ragione e Sensibilità, avrei potuto fare bella figura discutendo le opposte tesi e poi impegnandomi a svilupparne una, oppure trovando un comune denominatore fra le varie tesi che potesse servire nel dibattito attuale i, o infine sostenendo che un qualche misconosciuto pensatore, nella notte dei tempi, aveva già capito tutto.

Un compito del genere, in ciascuna delle sue varianti, oltre che indubbiamente arduo sarebbe stato pregevole (ammesso che, da parte mia, potesse esser svolto bene). Purtroppo, tale compito, in qualunque sua variante, non ha esercitato alcuna attrazione su chi vi parla: tanto una collazione, seppure critica, di opinioni, quanto un tentativo di selezione non mi avrebbero fatto capire qualcosa di più di quel che già capivo (se è poco, tanto peggio).

Penso che l’unico buon esercizio filosofico in materia sia quello che prepara il terreno di un quadro teorico che permetta di capire come l’insight funziona, quali ne sono i caratteri, cosa lo rende possibile e cosa lo inibisce.

Per elaborare un simile quadro non credo che possa bastare un’indagine psicologica. Né credo che serva a colmare le lacune un raffinato ‘collage’ di psicologia cognitiva, psicoanalisi, neuroscienze, filosofia e quel che altro vorreste che ci fosse.

A questo punto, se fossi in voi, penserei che mi toccherà sorbirmi una certosina analisi del concetto di insight. Non sarà così, anche se il concetto tanto limpido non è: non ho intenzione di tenervi qui ad ascoltare una disquisizione preliminare sui molteplici sensi del termine e sulle difficoltà di farli convivere, lasciandovi alla fine senza la minima idea di come andare avanti.

Perciò, se qualcuno di voi si aspettava che l’intervento di un filosofo avrebbe fatto emergere dimensioni dell’insight trascurate da chi studia la psiche o, dall’alto della torre eburnea, avrebbero fatto risuonare un verdetto, ovviamente aperto a molteplici interpretazioni, circa i difetti di questa o quella impostazione scientifica, resterà deluso. Sempre per chiarezza, non sottoscrivo né il credo degli antiscientisti né il credo degli scientisti. Anzi, ho il sospetto che a far professione di fede in un senso o nell’altro si metta semplicemente il carro davanti ai buoi. Può anche darsi che, implicitamente, nel discorso che farò siano presenti osservazioni critiche circa l’uno o l’altro approccio all’insight, ma l’intento primario è costruttivo, con qualche spunto di natura etica. Quel che dirò non ha altra pretesa se non quella di fornire alcuni mattoncini da costruzione.

[PS: Colleghi e studenti interessati all’argomento che non hanno potuto essere presenti mi hanno chiesto le slides della presentazione. Come ho già verificato più volte in relazione a richieste analoghe, la visione delle diapositive, così come sono abituato a prepararle, fornisce soltanto frammenti d’idea, non permettendo di risalire al ragionamento che c’è dietro e che, in una presentazione, è fatto solo a voce. Senza il discorso che le collega l’una all’altra, il loro carattere ellittico può risultare fuorviante. Ho deciso quindi di mettere per esteso almeno una parte di quel che ho detto nell’intervento e di quel che intendevo dire. Nel corso della presentazione ho usato molte immagini che qui invece mancano perché non sono sicuro di quali siano coperte da copyright e quali no. Ne ho conservato solo pochissime, sperando che i loro “proprietari” capiscano la finalità non lucrativa delle pagine che seguono. Il risultato è un ibrido fra una presentazione e un articolo.]

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A quanto pare, il nostro è un tempo in cui i legami affettivi sono quanto mai fragili. Nella società “liquida” i rapporti tra le persone nascono e muoiono con grande facilità – e qui “grande” significa “molto maggiore che in passato”.

Anche se è così, i presupposti non sono di ieri.

Negli ultimi decenni, i mezzi di trasporto rapido e a costo ridotto hanno consentito di spostarsi fisicamente da un luogo all’altro del pianeta offrendo a un sempre maggior numero di persone la possibilità di conoscere e avere relazioni affettive con persone che dietro di sé avevano un’altra storia culturale, un altro stile di vita, altre regole sociali e altri modi di comunicare i sentimenti.

Recentemente, le nuove tecnologie consentono a milioni di persone di stabilire relazioni con altre persone che vivono nei luoghi più diversi, senza bisogno di spostarsi di un metro e senza sapere se la faccia che si sono date in rete è davvero la loro faccia o no.

La scorsa estate mi è capitato di leggere un libro di divulgazione scientifica il cui titolo, in italiano, suona “Come si sbriciola un biscotto” e qualche giorno fa mi è arrivata la segnalazione di un libro che parla degli affetti nel nostro tempo e s’intitola “Gli amori briciola”.

Ovviamente, i biscotti si sbriciolano per ragioni chimiche e non perché tra loro c’è poco insight. Mettendo da parte la questione se la chimica (cioè, la neurochimica) riuscirà prima o poi a spiegare anche l’insight, è per me altrettanto ovvio che se i processi cerebrali non funzionano “per bene”, la possibilità di un insight si riduce, fino a scomparire del tutto.

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1. Biscotti e amori in briciole

A differenza di quel che succede con un biscotto, credo che un amore, oltre che per altri motivi, si sbriciola per una mancanza di insight affettivo e per la correlata decisione che non ne vale più la pena. E com’è che qualcosa si sbriciola?

Che si tratti di biscotti o di amori, è comunque una questione interessante ... quanto difficile. Altrettanto interessante e difficile è capire come qualcosa NON si sbriciola (o ci mette molto di più a sbriciolarsi).

In questo caso, se riferito alle relazioni tra gli esseri umani, accanto a tanti altri fattori entra in gioco un qualche tipo di insight.

Non è strettamente necessario che sia perfettamente simmetrico tra due persone A e B, però una qualche forma di insight da A a B e da B ad A ci deve essere, altrimenti sarebbe preferibile evitare il termine “amore”.

Fin qui, niente di particolare, giusto? Il punto è che l’insight affettivo richiede una pur minima comprensione e allora entrano in gioco aspetti cognitivi.

A sua volta, la comprensione passa tipicamente per un insight.

L’insight, si potrebbe allora dire, è una configurazione bidimensionale, che presenta aspetti diversi lungo ciascuno dei due assi, cognitivo e affettivo, ma che acquista una rilevanza particolare nella vita di ciascuno di noi quando i due tipi di aspetti interferiscono.

Come ogni interferenza, anche questa può essere costruttiva o distruttiva.

Quindi si tratta di capire com’è che insight cognitivo e insight affettivo si raccordano. A questo scopo, invece di prestare esclusiva attenzione a quel che succede tra esseri umani A e B, può essere utile ampliare il campo dei possibili “soggetti” e dei possibili “oggetti” di insight: A potrebbe essere uno scimpanzé o un computer e B potrebbe essere uno stato di cose o una forma.

Per capire qualcosa, conviene sempre partire dalle situazioni più semplici, specie se queste sono già complesse.

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cognitiva affettiva

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Un nodo piano con due capi. Semplice e intuitiva simmetria. Metafora di un legame fra due prospettive esistenziali, corrispondente a una configurazione che “tiene” (non si scioglie, non si rompe, non si “sbriciola”). Non sarebbe possibile senza il nodo. A proposito di metafore: nodo, legame, vincolo sono termini cui associamo sensazioni e valutazioni opposte. Ci sono quelle negative, riconoscibili per il fatto che le azioni che li eliminano hanno tratti positivi - sciogliere il nodo, slegarsi, svincolarsi - associati solitamente al valore positivo della libertà. Ma i nodi non-metaforici possono avere una funzione positiva e, nella nautica e nell’alpinismo, oltre che positiva, è decisiva. Bisogna vedere quale nodo per quale funzione.

Lo stesso dicasi per i nodi metaforici. Un tema, questo, che meriterebbe di essere sviluppato a parte, perché il tipo di metafore che usiamo per descrivere gli stati emotivi, affettivi e cognitivi influenza il nostro atteggiamento nei loro confronti.

NOTA: l’immagine precedente è da intendersi come animata [ed era animata nel corso della presentazione].

Il cerchio rosso gira in senso inverso a come il cerchio nero (in stile zen) gira su di sé: uno è il cerchio delle emozioni e l’altro è il cerchio dei pensieri. Ai due cerchi corrispondono due tipi di intelligenze.

In realtà, i tipi d’intelligenza sono più di due, quindi ci sarebbero voluti più cerchi; e allora era meglio raffigurarli allacciati tra loro come gli anelli borromei, e ci sarebbero voluti anche più colori. Ma ho preferito non sovraccaricare l’immagine.

Quale dei due colori associare a quale tipo d’intelligenza, con il suo relativo tipo di insight, è lasciato a voi, anche se sono convinto d’indovinare quale associazione farete.

La linea azzurra, che ricorda la forma delle labbra, alludeva allo scopo della presentazione, cioè, argomentare che i due tipi di insight si possono “parlare” e che, quando questo succede, il risultato è positivo per la persona. (A essere onesto, mi sembra la scoperta dell’acqua calda. Sento, comunque, il bisogno di dirlo.)

Quando invece non c’è comunicazione, il risultato è negativo e tale è, a fortiori, se uno dei due cerchi è instabile o difettoso.

Tutte e tre le forme hanno bisogno di allenamento, e di un allenamento specifico: l’insight non è gratis e non è neppure indipendente dalle condizioni “ambientali”.

Nel Novecento si è diffusa la fissazione ad attribuire alle condizioni ambientali il potere causale di far succedere quel che succede, se non fosse che, a parità di condizioni ambientali, i soggetti coinvolti si comportano in maniera diversa l’uno dall’altro. Per esempio, nel periodo 1308-1320, le condizioni ambientali della società in Italia hanno prodotto un solo autore di divine commedie. Poiché anche i soggetti possono essere inclusi nelle condizioni ambientali, il risultato è una tautologia: il tutto produce ciascuna cosa.

TESIINSIGHT COGNITIVO INSIGHT AFFETTIVO

BASE COMUNE DI PATTERN IMMAGINATIVI

La tesi che intendo argomentare deriva da un’impostazione che da un po’ di anni ho sviluppato all’interno della semantica cognitiva. La tesi afferma che insight cognitivo e insight affettivo hanno una base comune, costituita da una batteria finita, specie-specifica, di pattern immaginativi: sono gli “schemi-base” essenzialmente legati alla struttura del nostro corpo. In essi si radica la nostra comprensione del significato di qualunque frase. (Il radicamento in questa base non impedisce l’uso svincolato degli schemi, una volta che si sono costituiti.)

A questo punto entrerebbe in gioco un bel po’ di filosofia. E non mi riferisco a quella dei secoli precedenti alla nascita di tutti i presenti.

Per i motivi detti all’inizio e per ragioni di tempo non farò riferimento al dibattito filosofico e alle controversie che l’hanno animato nel corso degli ultimi decenni.

Anche se il tema del rapporto fra emozione e cognizione è stato presente in filosofia fino dalle origini greche.

L’analisi di questo rapporto sul piano logico-linguistico ha raggiunto nel Novecento uno sviluppo estremamente raffinato sul piano formale.

capirein due modi

In qualunque insight c’è un “capire”; e questo capire, che può avere sia la forma del capire-qualcosa sia la forma del capire-che, si realizza in due modi fondamentali, a seconda del punto di vista che ci permette di arrivare all’insight. Il punto di vista può essere esterno o interno. Cioè, la comprensione può passare per un vedere le cose dal di fuori (o più da lontano o in maniera più distaccata) o per un vedere le cose dal di dentro (o più da vicino o in maniera più adesiva).

2. Più da vicino o più da lontano

A. Capire esoscopico

separarsi da

allontanarsi da

vedere dal di fuori

vedere da lontano

metaosservazione13

La figura dell’impronta sulla sabbia mostra un semplice esempio di comprensione nel caso del riconoscimento visivo di una forma. Guardando i granelli a distanza molto ravvicinata (diciamo con il naso nel la sabbia) non si vede che una distribuzione pressoché arbitraria di sfumature. Non c’è una figura che emerga dal lo sfondo. Allontanandosi progressivamente, si riconosce la forma del piede.

In questo caso il processo di comprensione avviene mediante allontanamento da una superficie. Dalla massa indistinta di granelli di sabbia emerge progressivamente una configurazione che si differenzia dallo sfondo e che alla fine risulta identificabile con estrema facilità come l’impronta di un piede sulla sabbia.

Il riconoscimento di forme da parte di un computer è ottenuto dotandolo di un programma opportuno o di un algoritmo di correzione degli errori. In entrambi i casi il sistema mima quello che il programmatore sa fare.

B. Capire endoscopico

esaminare più da vicino

entrare in

isolare dal “rumore ambientale”

mettersi nei panni di un altro

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La figura dei fiocchi di neve mostra un esempio opposto di comprensione, anch’esso relativo al riconoscimento visivo di una forma.

In questo caso il processo di comprensione avviene mediante uno zoom progressivo sulla neve che cade. Da una massa di fiocchi si passa alla struttura esagonale di un singolo fiocco e, continuando lo zoom, si arriva al reticolo atomico. Per entrare nei dettagli del fiocco ci vuole ovviamente un microscopio. Se si scende ulteriormente di ordine di grandezza non si vede più la struttura esagonale. Per mettersi nei panni di un altro non occorre – o, se preferite, non basta – un microscopio, ma anche in questo caso non conviene esagerare con i dettagli.

3. Insight e outsight

http://guide.notizie.it/la-storia-della-stretta-di-mano/

I due tipi di comprensione puntano in direzione opposta e non è chiaro come si possano combinare.

A ciascuno di essi è tipicamente associato un significato aggiuntivo, quando quel che si tratta di “capire” riguarda gli stati mentali e le relazioni affettive.

La “distanza” richiesta dalla prospettiva esoscopica sembra sancire un distacco e quindi la scelta non partecipare alle “cose” che si vorrebbero capire.

Alla prospettiva endoscopica sembra essere immediatamente correlato l’intento inverso.

La separazione è valutata negativamente, mentre l’unione è valutata positivamente. Ma ci sono anche casi in cui questa valutazione potrebbe, e dovrebbe, essere rovesciata (vedi l’esempio dell’impronta sulla sabbia). Quindi?

Sembra che siamo a un punto morto. Forse il problema è insolubile e converrà assumere di volta in volta il punto di vista pragmaticamente più efficace? Una pseudo-soluzione così a buon mercato equivale in sostanza a una rinuncia a capire.

L’opposizione tra punto di vista interno – cioè quello, letteralmente, dell’in-sight – e punto di vista esterno – quello dell’out-sight – si può ritrovare già nel dibattito degli ultimi decenni intorno alla questione se sia possibile una scienza della mente completamente in terza persona o se sia necessario (e sufficiente?) integrare le conoscenze così acquisite con quelle in prima persona, corrispondenti a

“sapere che cosa si prova a ...”

assoc ia te a una p rospe t t i va empat i ca d i immedesimazione.

Senza entrare adesso nel merito, mi limito a osservare che all’interno dei due schieramenti nessuno avrebbe preso sul serio una simile pseudo-soluzione pragmatica.

Se teniamo conto anche della dimensione affettiva, ci accorgiamo che esistono casi in cui il distacco da ciò cui siamo affettivamente legati può essere una condizione per comprendere meglio qualcosa e, viceversa, casi in cui senza un coinvolgimento affettivo può esserci preclusa comprensione di qualcos’altro. Nessuna di queste due cose può piacere, ma non è scritto da nessuna parte che la realtà debba essere come ci piacerebbe che fosse.

IN-SIGHT OUT-SIGHT

?

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L’insight e l’outsight debbono davvero essere intesi staticamente come l’uno in contraddizione con l’altro? O possono essere visti come termini di una dialettica che li anima? In tal caso, però, occorre che ci sia un piano di mediazione, attraverso il quale si passa dal primo al secondo.

contraddizione

IN-SIGHT OUT-SIGHT

?E occorre pure che ci sia un terreno di mediazione, attraverso il quale si passa dal secondo al primo.

Ecco l’ipotesi che avanzo:

1°) che in entrambi i casi si tratti dello stesso piano di mediazione,

2°) che tale piano sia quello al quale ci rappresentiamo intuitivamente gli archetipi di qualunque processo, e solo essi, piuttosto che una miriade di stati di cose,

3°) che questa rappresentazione intuitiva sia di per sé carica di valenza emotiva.

4. Dalla statica alla dinamica

capire stati-di-cose

capire processiDA A

stati fisici processi fisici

stati mentali processi mentali

DA

A

Gli archetipi di processi, che sono “incorporati” (embodied) sono ciò che ci permette di parlare di (e intendere) stati cognitivi ed emotivi, in linea con l’ipotesi guida della Grammatica Cognitiva.

capire una persona

Fin qui il discorso sembra essere molto, troppo, astratto. All’interno della prospettiva teorica della Grammatica Cognitiva ci sono invece studi che illustrano il senso concreto delle affermazioni che ho appena fatto.

Da tali studi è emersa una prima lista di risorse base dell’insight. Sono stati pubblicati numerosi saggi nei quali si passa in rassegna la varietà di schemi presenti nel piano di mediazione sopra accennato.

Premesso questo, e anche spostando il focus dell’attenzione dalla comprensione di stati di cose alla comprensione di processi, il discorso resta lontano da quel che qui ci interessa:

Si tratta solo di “insight cognitivo” ?

Si tratta solo di “insight affettivo” ?

No, usiamo entrambe

le strategie di comprensione

Nel “capire” una persona

Prima di vedere come questi due tipi di insight si combinano, è opportuno considerarli separatamente per individuarne alcuni caratteri fondamentali.

Comincerò dall’insight cognitivo, per poi passare all’insight affettivo e, da ultimo, provare a farsi almeno un’idea di come si compongono.

“Eureka!” - esclamò Archimede, mentre faceva il bagno nella sua casa a Siracusa. Aveva finalmente capito come risolvere il problema: ogni corpo immerso in un liquido riceve una spinta ... A Siracusa si parlava ancora greco e Archimede era un genio della matematica.

Da allora in poi, quell’esclamazione è rimasta associata alle situazioni in cui si scopre tutto d’un colpo la soluzione di un problema.

Nell’idea comune, il “colpo di genio” non si conquista passin passino. Viene o non viene. È un lampo, un dono, una specie di illuminazione improvvisa, misteriosa, insondabile. È l’insight cognitivo, si potrebbe dire, nel suo fulgore.

Quest’idea è entrata a far parte dell’immagine popolare della scoperta: nella scienza così come in altri campi. E chiunque ha scoperto qualcosa tende comprensibilmente ad avvalorarla. Picasso arrivò a dire: “Io non cerco. Trovo”. In effetti, qualche volta succede di trovare qualcosa che non si è cercato e l’intelligenza sta nell’accorgersi che questo ‘qualcosa’ risolve un problema ancora più importante di quelle che volevamo risolvere.

Se fosse tutto qui il compito dell’educazione scientifica, bisognerebbe reimpostare daccapo la scuola e su questo converrà dire due parole, ma non adesso. Anche se non è tutto qui, non è un’idea malvagia quella di puntare sulla stimolazione dell’insight nei bambini.

Fatto sta che, se la comprensione avanza per salti insondabili, chi proponga un metodo per saltare s’inganna. Viceversa, se vogliamo mettere insieme una scienza della mente, non conviene partire dall’idea che c’è qualcosa di inspiegabile. Può anche essere, chi lo sa, ma prima di ammetterlo bisogna esplorare la possibilità di una spiegazione.

Ci piace così tanto credere al mistero dell’insight che a metterlo in dubbio ci si sente subito in colpa.

Tuttavia, ripeto, lo si può dire solo dopo che ci si è impegnati seriamente a studiare i fenomeni mentali e, in particolare, quel che succede nella mente di chi, tutto a un tratto (almeno così sembra) giunge alla soluzione di un problema e per giunta ci arriva in un modo inaspettato da lui stesso o da lei stessa.

Da tempo, fortunatamente, c’è già un ambito di ricerca in cui si è studiato seriamente l’insight cognitivo, nei suoi molteplici aspetti. È quel che ormai si indica correntemente con un termine: inglese:

5. insight cognitivo

PROBLEM SOLVING

Le ricerche degli psicologi sul problem solving hanno avuto ricadute significative nel campo dell’educazione e dei metodi di apprendimento.

Per un po’ di tempo c’è stata anche una specie di infatuazione collettiva per le tecniche di problem solving, tanto che nelle librerie c’erano scaffali interamente dedicati, con testi che andavano bene un po’ per tutti, testi orientati ai top manager, testi per i bravi politici eccetera. Sono state perfino messe a punto metodologie con il copyright.

Personalmente, ho cominciato a interessarmi di problem solving quando quest’infatuazione era già sul finire e, avendo davanti a me le varie linee teoriche e le loro applicazioni, mi sono servito della riproduzione delle strategie di problem solving all’interno dell’intelligenza artificiale per trarne una lezione da applicare alla filosofia del linguaggio e all’epistemologia. Per vostra fortuna, non ho intenzione di dirvi qual è questa lezione.

Restando a un piano puramente descrittivo, quelli di voi che sono interessati a farsi una prima idea del rapporto tra logica, linguaggio e problem solving possono trovare in rete una mia sintetica esposizione, che s’intitola “Dal problema al programma”.

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Per risolvere un problema ci possono essere molte strategie. Tra quelle che funzionano, alcune saranno più efficienti e altre meno. Ma quest’ordinamento pragmatico è secondario, perché, ovviamente, del grado di efficienza si parla sempre dopo che si è trovato una soluzione. Prima, infatti, ha poco senso dire quale è e quale non è (più) efficiente.

Le strategie di ricerca di una soluzione (o della soluz ione) a un problema, s i chiamano “euristiche”.

L’analisi delle euristiche pone problemi di varia natura: logica, algoritmica e cognitiva.

Con lo studio sistematico delle euristiche si è venuta configurando una nuova area di ricerca. L’obiettivo è quello di elaborare una teoria che, indipendentemente dal contenuto specifico di un dato problema e dunque soltanto in funzione della sua tipologia, permetta di decidere se il problema è risolubile e, in caso positivo, comparare le varie euristiche.

Non c’è bisogno di entrare nei dettagli per mettere in risalto un punto: che il modo standard in cui ci rappresentiamo un problema corrisponde a trovare un percorso in uno “spazio” opportuno, fatto di informazioni rilevanti al problema.

Muovendosi in questo spazio, si cerca un percorso che parta dai dati iniziali (start) e consenta di arrivare allo stato (end) che chiamiamo “soluzione”.

Lo schema cognitivo soggiacente è quello che si indica come “schema del cammino”.

Questo schema sta alla base di innumerevoli metafore, come “Sei arrivata dritta al mio cuore”, “Mi sento alla deriva”, “Siamo finalmente usciti dalla recessione”.

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EURISTICHE

?

stato start = dati

stato end = soluzione

spazio del problema

Come tutti gli schemi, anche lo schema mentale del cammino (o percorso o sentiero) ci permette di fare una proiezione di significato dal concreto all’astratto. Nel caso specifico la proiezione rivela il modo in cui intendiamo il procedimento di soluzione di un problema.

Risolvere un problema è trovare un cammino che porti dal nostro stato attuale (di interrogazione e di ignoranza) allo stato in cui la soluzione è “raggiunta”. Il sentiero corrisponde alla procedura da seguire.

Se il sentiero è già segnato, cioè, se qualcuno ha già tracciato un percorso di soluzione, non ci resta che seguirlo, a meno che ci piaccia trovarne un altro.

Se il percorso per risolvere un problema non è ancora segnato, occorre scoprirlo. Questo, ovviamente, se la domanda ci interessa. Ma anche se ce ne interessa un’altra, il discorso non cambia. Applichiamo ugualmente lo schema del cammino.

Un tratto che contraddistingue la mente umana consiste nell’appassionarsi alla soluzione di problemi che non hanno alcuna utilità pratica. E la cosa straordinaria è che l’impegno messo, e il gusto provato, a risolvere problemi del genere ha avuto ricadute pratiche impressionanti.

un cammino composto di più “passi”

La capacità di trovare soluzione a problemi può avere caratteristiche che non dipendono dal tipo specifico di problema, ma può anche avere caratteristiche che ne dipendono. Si tratta di capire quali sono le une e le altre.

La questione è stata affrontata studiando non solo gli esseri umani, in funzione dello sviluppo delle loro capacità cognitive nel corso della vita, ma anche i primati e ... i computer! In questi ultimi non ci sarà da aspettarsi un’emozione di gioia, la cui manifestazione è facilmente riconoscibile, nel momento in cui il “soggetto” si accorge di aver risolto il problema.

Köhler 1917

Sultan in azione: ha capito come arrivare all’oggetto desiderato impilando delle casse e poi usando un lungo bastone. L’altro scimpanzé che si vede sulla destra non sembra molto interessato alla scoperta di Sultan.

Nel 1917, il grande psicologo Wolfgang Köhler pubblicò i risultati dei suoi esperimenti sulla capacità di soluzione dei problemi negli scimpanzé. Tra gli scimpanzé che Köhler studiò allestendo scenari di problem solving, ce n’era uno, “Sultan”, particolarmente brillante.

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Un esempio simile è quello che incontriamo nel famoso “problema della candela” di Duncker, il testo che contiene il problema fu pubblicato postumo nel 1945. Duncker era stato assistente di Köhler.

Come strumento per svolgere il compito richiesto si fornisce una scatola di puntine, ma per risolverlo il soggetto deve fare uso della scatola e delle puntine come due entità separate.

Scissione dei dati e loro ricomposizione in modo nuovo: questo tipo d’operazione cognitiva è ricorrente nell’insight che porta a una scoperta scientifica.

La flessibilità nelle risposte al variare degli stimoli e la loro diversità al ripetersi di uno stesso stimolo è tradizionalmente inteso come un indizio di creatività.

Cartesio affermava che gli animali sono delle macchine (nel senso di automi) perché i loro schemi comportamentali sono rigidamente fissati e per questo motivo non sono in grado di usare il linguaggio (indipendentemente dalle limitazioni del loro sistema fonico).

Un pappagallo che ripete sempre le poche parole che è capace di ripetere non si può dire che sappia “parlare”. Per lui, quelle non sono “parole”, esattamente come, per un computer, i simboli che manipola non sono “simboli”

All’estremo opposto, la lampadina di Archimede pitagorico è l’emblema della creatività nel risolvere i problemi. Archimede è visibilmente contento della lampadina.

Le lampade fanno luce, il buio fa paura, i lumi della ragione ci indicano la via del progresso, chi non sa è “all’oscuro”, chi sa “vede” chiaramente.

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l’Archimede pitagorico di Walt Disney

“A-ha Erlebnis”Di fronte a un problema che ci sembra difficile, capita di provare una via e poi un’altra senza riuscire ad andare avanti. A un certo può succedere che ci imbattiamo nel modo “giusto” di affrontarlo: è la “mossa” che ci fa capire come risolverlo.

Oppure ci può capitare di trovare la soluzione pensando ad altro, ma anche in questo caso dobbiamo essere bravi a cogliere quel che sembrava non entrarci per niente (è la capacità che si chiama “serendipity”).

È una comune esperienza, direte, quella di star lì a pensare tanto e poi cogliere al volo l’idea buona. Sì, ma che cosa succede in noi quando facciamo quest’esperienza?

Qui le neuroscienze hanno molto da dire. Il punto che mi preme mettere in rilievo è che nell’esatto momento in cui ci rendiamo conto di aver trovato la soluzione di un problema, non ci limitiamo a prenderne atto e memorizzare la procedura: “proviamo” qualcosa, cioè, la nostra risposta è anche emotiva.

È un’esperienza che allo stupore della scoperta unisce un’emozione positiva, di soddisfazione, autocompiacimento e, talvolta, perfino di esaltazione. Insomma, l’insight cognitivo provoca un piacere. E questo piacere è veicolo di autostima.

L’esperienza subitanea che abbiamo quando ci accorgiamo di aver trovato la soluzione è indicata in tedesco dall’espressione: “A-ha Erlebnis”, cioè, l’esperienza vissuta dell’A-ha.

6. Imagery

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Kant disse che la differenza tra la realtà e il sogno sta nella coerenza: presente nella realtà, assente nei sogni. Se penso al mondo della politica italiana, sarei tentato dalla corrispondenza inversa. Ma probabilmente sto sognando.

Comunque sia, tanto la nostra vita reale quanto gli scenari in cui ci ritroviamo nel corso dei sogni presuppongono la capacità di immaginare.

Il linguaggio verbale, nelle forme togate del lessico scientifico non meno che nella più sbrigliata letteratura fantastica, nella poesia più alta così come nelle barzellette in dialetto, ha la potenza espressiva che ha grazie alla capacità di evocare situazioni che vediamo solo con gli occhi dell’immaginazione.

Altrimenti, dovremmo poter parlare soltanto delle cose che abbiamo davanti a noi e in tal caso sarebbe arduo riuscire a cogliere la minima coerenza tra un fotogramma e l’altro del mondo.

Lo studio della capacità di formare immagini mentali e delle relative modalità operative è indicato in psicologia cognitiva come studio della “imagery”.

rotazioni mentali

Roger Shepard

Jacqueline Metzler

1971

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Un’indagine delle immagini mentali che da un lato ha aperto un nuovo orizzonte di ricerca e dall’altro ha sollevato polemiche a non finire è stata quella condotta per via sperimentale da Shepard e Metzler, focalizzando l’attenzione sulla capacità di valutare se, attraverso una rotazione, una figura è congruente con un’altra o no.

Ai soggetti si mostravano varie coppie di solidi chiedendo loro se una coppia corrispondeva o no a uno stesso solido visto da angolazioni diverse. Qui sono rappresentate soltanto tre coppie: A, B e C. Mentre nel caso di A e B la risposta è positiva, nel caso C la risposta è negativa. Com’è che ci arriviamo? Immaginando appunto le possibili rotazioni della figura a sinistra e valutando se la figura a destra può essere così ottenuta. Shepard e Metzler osservarono che c’era una corrispondenza tra i tempi di risposta e l’angolo di

rotazione compiuto dalla figura a sinistra e ne inferirono che la mente non funziona come un calcolatore, che manipola informazioni “discrète”, o le approssima mediante passi discrèti, ma gestisce le immagini in formato “continuo”. Senza entrare nel merito delle obiezioni cui quest’ipotesi è andata incontro, è comunque straordinaria la nostra capacità di effettuare rapidamente la sequenza di passi richiesti per rispondere alla domanda.

Nell’arte

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L’insight cognitivo si esprime in forma artistica in un’ampia gamma di modi. Possiamo perfino immaginare di raffigurare il movimento in un’immagine, che è qualcosa di statico,. Oppure possiamo immaginare di cambiare le dimensioni di un oggetto e

costruirlo, così da provocare una sensazione di stupore divertito che libera l’immaginazione dalla funzione stereotipica dell’oggetto.

Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912 Rottapharm Madaus, Lo scrittore, Monza 2005

Nella scienza

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L’ ins ight cogn i t i vo s i espr ime anche nell’immaginazione scientifica.

Esempio 1. Galileo: studiare la caduta dei gravi mediante un piano inclinato, con campanellini, disposti a intervalli regolari, che suonano al passaggio della sfera che rotola.

Esempio 2. Einstein: provare a descrivere quale sarebbe l’immagine che del mondo avrebbe un osservatore a cavallo di un raggio di luce.

L’insight presuppone lunga esplorazione dello spazio del problema.

Lo sguardo di chi lo sta esplorando non è molto diverso da quello di un gorilla quando appoggia il mento sul palmo di una mano.

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Ogni problema ha il suo spazio. Il sogno che ci sia uno spazio in cui affrontare ogni problema si ripresenta ciclicamente, per essere ciclicamente messo in discussione dalla scoperta di problemi che per essere risolti hanno bisogno di “muoversi” in uno spazio diverso da quello previsto.

Le diverse teorie scientifiche corrispondono all’individuazione di uno spazio uniforme per un’intera classe di problemi. L’addestramento dei giovani in ciascun ambito è fatto di esercizi “motori” in uno spazio che non solo è stato esplorato ma che reca tracciati i percorsi da seguire: sono quelli già fissati, una volta per tutte. Non resta che applicare il metodo corrispondente di “navigazione” nello spazio del problema. Il progresso, allora, si dovrebbe misurare con il semplice incremento del numero dei problemi risolti seguendo le date istruzioni.

Ma nel corso della storia del pensiero scientifico ci sono anche stati momenti in cui un progresso decisivo è stato conseguito violando i confini dell’euristica consolidata dalla tradizione. Anzi, si è verificato un vero e proprio cambiamento nel modo di impostare e risolvere i problemi.

rivoluzioni scientifiche“Gestalt switch”

L’anatra-lepre: si può vedere in due modi ma o la si vede come anatra o la si vede come lepre.

Nel 1962 Thomas Kuhn ha sostenuto che le rivoluzioni scientifiche non sono cumulative con il sapere che le precede, ma che richiedono appunto un gestalt switch.

Se il gestalt switch corrisponde a un insight immaginativo che si stacca dalla consuetudine e l’insight non è un ragionamento ma un atto improvviso d’illuminazione, Kuhn va d’accordo con Popper almeno su questo punto.

7. Modificare lo spazio del problema

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comporta che si adotti una prospettiva esterna, invece che una interna. S i passa per un atteggiamento metateorico per arrivare a una nuova teoria.

Per fare un esempio concreto, consideriamo i classici problemi che consistono nel chiedere come si devono disporre un certo numero di bastoncini per formare una data figura. Siamo portati a pensare che la soluzione va cercata disponendo i bastoncini sul tavolo, cioè, su un piano.

Ma dobbiamo rivedere quest’assunzione se vogliamo risolvere il problema seguente:

Formare quattro triangoli

con sei bastoncini

Dall’insight in matematica

...

all’information processing model della mente (in termini di programmi)

Quanto alle strategie di soluzione dei problemi, si possono individuare alcune significative differenze tra l’intelligenza naturale e quella artificiale. Precisare queste differenze non è facile, però.

La vox populi in materia, ovvero l’idea secondo cui la mente umana è creativa in quanto può violare ogni regola e le macchine, in quanto schiave di regole rigide (istruzioni, programmi), non possono esserlo, mi sembra una superficiale sciocchezza. Una differenza che invece può sembrare banale, ma non lo è, risiede nella reazione emotiva alla soluzione di un problema.

Non che una macchina si arrabbi o s’intristisca, se lo risolve. Piuttosto, è priva di qualunque risposta emotiva.

Ma perché siamo contenti quando riusciamo a capire “come si fa”?

È una domanda che ci avvicina all’essenza della mente umana (se mai ha un’essenza) più di tanti discorsi viziati di antropocentrismo.

8. Gli ambienti educativi

habitat fisico

famiglia

scuola

habitat virtuale

educazione formale

atrofizzazione dell’insight cognitivo

Spostiamo l’attenzione a quello che succede nel campo della trasmissione del sapere nel luogo canonicamente deputato allo scopo: la scuola.

Risultato consueto

STUDENTI

Riduzione della durata dell’attenzione

Incremento del rumore comunicativo

Mancanza di training

DOCENTI

Demotivazione

Incremento della quantità di compiti didattici

Mancanza di training

Allenare all’insight cognitivo …

Ma come?

Consapevolezza delle proprie euristiche

METACOGNIZIONE

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Verifica della loro efficienza –––> apertura a euristiche alternative –––> confronto di strategie –––> modifica del proprio metodo –––> modifica del proprio atteggiamento verso il problema. Questo significa anche “cura sui”. In piccolo, ma gli effetti, sommati l’uno dopo l’altro, sono grandi.

9. Il primo feedback

INSIGHT AFFETTIVO

AUTOSTIMA

INSIGHT COGNITIVO

SELF-OUT-SIGHT

“AUTOESOSCOPIA”

INSIGHT EMPATICO “SO”

COGNITIVO E AFFETTIVO

CONCETTO DUALE?

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Per simmetria, è naturale mettersi a cercare qualcosa che rappresenti l’immagine speculare dell’autoesoscopia.

Ma c’è davvero un

C’è.

HETERO-IN-SIGHT

“ETEROENDOSCOPIA”

INSIGHT EMPATICO “HI”

COGNITIVO E AFFETTIVO

Theory-of-Mind

attribuire stati mentali agli altri

capire che hanno credenze diverse da noi

capire le loro intenzioni

Entrambe le prospettive, HI e SO, meriterebbero di essere precisate e articolate. L’idea di fondo si inserisce all’interno del quadro della

p!

Difficoltà di comunicazione? Affermazione del proprio punto di vista che si scontra

con l’affermazione del punto di vista altrui?

10. insight affettivo

Soggetto A Soggetto B

non-p!

quando l’uno non si cura della prospettiva dell’altro

cosa sta pensando B?

Rappresentazione interiore del punto di vista altrui: Che cosa sta pensando? Che cosa vuole?

Passo 1.

cosa sta pensando A?

A B

cosa sta pensando B di me?

Passo 2a.

cosa sta pensando A di me?

A B

Passo 2b.

cosa sto pensando di ciò che pensa B?

cosa sto pensando di ciò che pensa A?

A B

Basta la

mediazione linguistica?

NEURONI SPECCHIO

BUILT-IN INSIGHT: attività propria — attività altrui

BAMBINI AUTISTICI

Lungo la via della comunicazione si può frapporre un macigno: non si riesce a compiere il passo 1 (e a maggior ragione i passi 2a e 2b).

comunicazione NON linguistica

comunicazione SOLO linguistica

Nota: per “non linguistica” intendo “non verbale”. Il corpo ha un suo l i n g u a g g i o e a n c h e s e l a traduzione del linguaggio del corpo di una specie vicina alla nostra può essere difficile, di sicuro i due scimpanzé non stanno esprimendo odio reciproco.

primati: etologia? sì

computer: etologia? no

OGGI

11. Reticolarità e instabilità

11.1 Carattere reticolare delle relazioni umane

Frammentazione del coinvolgimento

11.2 Liquidità sociale e neofuturismo tecnologico

Nelle interazioni di ogni tipo con gli altri si chiede

sempre maggiore rapidità

La liquiditàconsaputa

contribuiscea preservare

la potenzialità di una scelta eternamente dilazionata

Scelte plurime in spazi diversi non si compongono in

un’unità della persona in uno stesso spazio

la rapidità nella comunicazione è alleata della superficialità

la superficialità è alleata dell’estraneità

l’estraneità impedisce

insight cognitivo

e

insight affettivo

M UMutual Ununderstanding

Il risultato è MU. E qui MU non sta per l’espressione che negli apologhi zen indica l’impossibilità di rispondere a una domanda giudicata priva di senso. MU sta per:

difficoltà non solo linguistiche

aggressività da impotenza comunicativa

frustrazione

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L’incomprensione fa male

Un insight cognitivo non implica un insight affettivo, ma lo prepara, lo favorisce e lo accompagna.

Un insight affettivo non implica un insight cognitivo, ma lo prepara, lo favorisce e lo accompagna.

Tornando indietro al primo feedback

no affective insight

no cognitive insight

Tra persone, se manca il minimo insight affettivo, non c’è spazio perché si abbia un insight cognitivo.

La comprensione che si genera è fredda e soltanto dall’esterno.

Il fatto che sia fredda e soltanto dall’esterno non significa che sia più razionale, ma piuttosto che si affida a una razionalità difettosa.

LA RETE GLOBALE

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Costi e benefici: nell’era della comunicazione globale non possiamo fare a meno di chiederci se i nuovi stili comunicativi favoriscano l’insight cognitivo e l’insight affettivo.

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divergenza

e potenziale conflitto

fra

spazio di comunicazione verbale

e

prossemica

Senza negare l’evidenza dei vantaggi comunicativi che le nuove tecnologie hanno reso possibili, bisogna renderci conto che si sta producendo anche qualcosa che è difficile considerare vantaggioso:

Le 4 distanze di Edward Hall. Il disagio in ascensore. No affective insight a distanze che invece gli sono associate.

Real communication?

Nei luoghi pubblici, così come in quelli privati, è ormai consueto osservare persone fisicamente vicine che non comunicano fra loro, ma comunicano con qualcuno che è altrove. Il problema è che quando questa distanza da chi adesso non c’è si annulla, la spinta a comunicare con chi non c’è si ripete.

12. VIRTUALIZERS

Le nuove tecnologie offrono nuovi “spazi” di comunicazione virtuali: ambienti alternativi alle situazioni fisiche in cui ci troviamo con il nostro corpo e in cui comunichiamo non solo a parole ma anche con il linguaggio del corpo.

Non è certo la prima volta che lo spazio fisico subisce una “virtualizzazione”. Gli esseri umani hanno sempre cercato “spazi” alternativi, sia sul piano fisico sia sul piano mentale.

La letteratura, il teatro, il cinema e perfino la modellizzazione scientifica hanno offerto ambienti fantastici di cui servirsi per calarsi, in cui esprimere emozioni, pensieri, dubbi e speranze, e da questi spazi alternativi c’è stato un potente feed-back sulla comunicazione nel mondo reale. Tutte le modalità comunicative che rendono possibile il trasporto immaginativo di sentimenti e riflessioni dal mondo fisico a un altro e il trasporto inverso, si possono chiamare “virtualizzatori”:

A. I.

simulazioni del comportamento

(verbale)

L’intelligenza, il linguaggio e il pensiero sono sempre stati studiati prestando attenzione soprattutto, se non esclusivamente, alle capacità umane. Psicologi, linguisti, filosofi hanno raccolto una grande quantità di osservazioni circa la mente umana e hanno elaborato tante teorie al riguardo.

Ma l’intelligenza umana non è il prodotto del suo studio. Ci ha pensato Madre Natura a darcela e sta a noi farla fiorire o deperire. Le cose si capiscono meglio quando proviamo a rifarle daccapo. E anche se non possiamo rifare tutto, per via sperimentale si capiscono più cose. E questo è successo anche con l’intelligenza artificiale (A.I.).

TESTFILOSOFIA DELLA MENTE (USA)

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In parallelo con l’I.A. e con le scienze cognit ive guidate dal model lo del computer per quanto riguarda la gestione delle informazioni, si è sviluppata anche la filosofia della mente. Si è discusso molto facendo il confronto tra l’intelligenza naturale e quella artificiale. Un tema che ha richiamato l’attenzione dei filosofi: il ruolo delle emozioni e delle conoscenze in prima persona.

A questo proposito, l’esperimento di pensiero più controverso, che in America è diventato un topos fra i filosofi, è consistito nell’immaginare qualcuno che si comporti esattamente come un normale essere umano ma non provi nulla a comportarsi così. Un simile essere è stato denominato “zombie”.

Vi prego di non associare al termine l’immagine che degli zombie è diventata consueta attravero i film horror. Conviene piuttosto pensarlo come un “replicante”: qualcuno che ha lo stesso nostro aspetto e si comporta in tutto e per tutto come noi ma non ha una mente come invece abbiamo noi. È solo un macchina.

Il problema è se noi possiamo davvero essere sicuri di non essere delle macchine. Molti anni prima, Alan Turing aveva avanzato un test (il “test di Turing”) per valutare se è possibile distinguere, mediante il comportamento verbale, un essere umano da una intel l igenza “meccanica”.

Dagli horror zombieai bei replicanti

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“GEDANKEN EXPERIMENT”

Il TEST DI TURING nella scena di Blade Runner in cui il detective Deckard cerca di scoprire se la giovane donna (?) che ha davanti a sé è un replicante.

13. SCHEMI COGNITIVI-AFFETTIVI

l’accoppiamento corpo - cervello

La questione è stata impostata in modo tale che sotto il profilo cognitivo ci potrebbe anche essere indistinguibilità tra esseri umani e replicanti, ma sotto il profilo emotivo c’è per forza una palese distinguibil ità. Questo presuppone che i sentimenti, e più in generale,

quel che si prova in prima persona, sia un “in più” rispetto alla cognizione.Invece, nel modello cinestetico dell’intelligenza che, insieme ad altri, ho proposto, non è possibile fare una simile separazione netta, perché esistono degli

non bastano i neuroni-specchio

è la combinatoria degli schemi

che favorisce o inibisce

un insight affettivo

linguisticamente mediato

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ma i prototipi

tacitamente presupposti

conservano il ruolo di attrattori.

Non cambiano neppure se ci spostiamo dal reale al virtuale

incremento nella complessitàdelle interazioni cognitivo-affettive

Le abilità linguistiche non esauriscono la cognizione. Il linguaggio è però un moltiplicatore di legami concettuali basati sugli schemi, che produce un

mondi possibili ---- simulazioni digitali ---- ambienti virtuali

Dal reale al virtuale

PROCESSO INVERSOdal virtuale al reale

SECOND LIFE ---- SOCIAL NETWORK ---- MMPORG

L’insight affettivotrova un nuovo spazio

empatia

con il proprio avatar

senso di comunità

Ma se il mio “qui” è altrove

io non sono dove è il mio corpo

...

Allenare all’insight affettivo …

in ambienti virtuali?

Perché no?

e con un feedback positivo nel mondo reale?

Ma come?

Qualche idea al riguardo ce l’avrei.

Grazie a un insight cognitivo, mi accorgo che siete stanchi.

Grazie a un insight affettivo, dico: sarà per un’altra volta.

Nel vostro sorriso c’è forse un insight cognitivo e affettivo.