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Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano - 29 - fondati da Gianfranco Folena

Il Fiore e il fiorino

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Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano- 29 -

fondati da Gianfranco Folena

Letteratura e denaroIdeologie metafore rappresentazioni

Atti del XLI Convegno Interuniversitario(Bressanone, 11-14 luglio 2013)

a cura di Alvaro Barbieri e Elisa Gregori

Questo volume è stato stampato con il contributodel Dipartimento di Studi linguistici e letterari

dell’Università degli Studi di Padova

ISBN 88-6058-048-X© 2014 Esedra editrice s.r.l.via Palestro, 8 - 35138 PadovaTel e fax 049/723602e-mail: [email protected]

INDICE

Alvaro Barbieri, Elisa Gregori Premessa IX

Nicolò Pasero Dellecosechecresconoconillorouso,edialtreancora 1

Francesco Mosetti Casaretto Letteraturamediolatinaedenaro 11

Carla Piccone«Vincitamorcensus».Ildenaronellecommedieelegiache 33

Andrea Ghidoni Imagerydellaricchezzanellechansons de geste 47

Marco Infurna Comesisposauneroeepico.OstentazioneesperperodiricchezzanellacanzonedigestadiAymeri de Narbonne 55

Tiziano Pacchiarotti Sull’“impresa”cavallerescaelesueimplicazionimercantili.«Lipremiersvers»dell’ Erec et Enide 65

Lucilla Spetia Ildenaro,iltempo,illavoro,lacarità.Sistemidivalorierealtàmaterialinell’ Yvain diChrétiendeTroyes 81

Sonia Maura Barillari«Dismedonernemevintonchesagré».Latematicasocio-economicanel Jeu d’Adam 95

Mario ManciniRoman de la rose:orooEtàdell’oro? 113

Poalo CanettieriIlFioreeilfiorino 129

Cornelia KlettkeIlvagliodibeniterreniecelesti.Eticaeconomicaed“economiadell’anima”nella Commedia diDante 155

Helmut MeterIldenaroelaFortunanelDecameron.Sualcunenovelledellasecondagiornata 191

Vincenza Tamburri Letteraturaepovertà.IlSacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate 211

Annamaria Annicchiarico Lui/LeieildenaronelMedioevocatalano.FraCurial e GüelfaelaFaula de Neptuno i Diana 221

Veronica Orazi Ildenarocorruttore.Ideologieerappresentazioni.DalLibro del Buen AmorallaCelestina 235

Michael Ryzhik Motivipecuniariineivolgarizzamentigiudeo-italiani 247

Lucia Bertolini IdeologiaesentimentodeldenaronelleoperelatineevolgaridiLeonBattistaAlberti 257

Ivano Paccagnella«Leruberiedellausura».Montidipietà,predicazione,mercatoeletteratura 275

Mauro Canova «Dogcoinsgold».L’impossibiletragediadeldenaroeilTimon of AthensdiWilliamShakespeare 293

Antonio Iurilli «Dichiararelirovesciconliscrittorieliscrittorico’rovesci».Moneteescritturastorica 311

Bruno Capaci Ilquartesedelloscrittore.Scrittoriappagati,scrittoribenremuneratiescrittoripaganti.Autoreehomo oeconomicusnelsecolodeiLumi 321

Roberto De RomanisCanoneecopyright.Unadelletantestoriedidenaro 331

Maria Luisa WandruszkaNathan il saggio(1779).Mercatoeverità 345

Fabio Danelon«Nei Promessi sposi siparlasempredidenaro».Ildenarodel/nelromanzodiAlessandroManzoni 357

Patrizia Zambon Lacommittenza.Scrittori,pubblico,rivistenellatemperierisorgimentale.NotedaNievo 369

Elisa Gregori«Unepluied’or».“Liquidità”deipersonaggibalzachiani 383

Luca Pietromarchi Flaubert:l’educazionecommerciale 393

Pierluigi Pellini Denaroliquidoecapitaleanonimo.ZolaversoilNovecento 401

André Weber Calcoloefollia.IlsottofondomiticodelmondofinanziarioinL’argentdiZola 419

Igor TchehoffLemetaforeconcettualideldenaroinIl paese di cuccagna diMatildeSerao 427

Marialuigia Sipione«Starmaleoggipernonstarpeggiodomani».DenaroedeticaneLa malora diBeppeFenoglio 439

Adone Brandalise«Acherontamovebo».Simbolicoerealenella Filosofia del denaro diGeorgSimmel 449

Tommaso Meozzi IldenarocomevertiginespazialeeimplosioneinLe mosche del capitale diPaoloVolponi 457

Emanuele Zinato «Sesterzoenergetico».ScritturaedenaroinPaoloVolponi 465

Gerhild Fuchs LaPianuraPadanadiGianniCelati«doveiquattrinihannofattointornoasélaterrabruciata» 479

Simona CarrettaIlromanzodinanziall’«epocadelpragmatismo».DaMoneydiMartinAmisaCosmopolisdiDonDeLillo 491

Remo Ceserani Romanzidallecapitalidell’altafinanza.InparticolaresuCapitaldiJohnLanchester 503

Indicedeinomi 511

Paolo Canettieri

IL FIORE E IL FIORINO

1. Isotopie del “fiore”

Già nel primo sonetto del Fiore, il nome comune maschile che dà il titolo all’opera sostituisce il femminile e più specifico “rosa” del Roman de la Rose :

Lo Dio d’Amor con su’ arco mi trasse perch’i’ guardava un fior che m’abellia, lo quale avea piantato Cortesia nel giardin di Piacer…1

La scelta dell’autore del poemetto si può mettere in relazione con quel-la di Brunetto Latini, che nella sua unica canzone d’amore, S’eo son distretto inamoratamente, «fa uso di una astuzia, per così dire grammaticale. La perso-na cui va il suo appello disperato è sempre indicata con attributi maschili: “lo bianco fioreauliso”, il “pome aulente” e l’“Amore”. Per tanto il lettore non avvertito trova del tutto normale che tale persona comporti l’utilizzo di pronomi e di aggettivi al maschile»:2

1 Il testo di riferimento è quello a cura di L. Formisano, Il Fiore e il Detto d’Amore, Roma, Salerno, 2012. Imprescindibile ancora G. Contini, Il Fiore e il Detto d’amore attribuibili a Dante Alighieri, Milano, Mondadori, 1984 e Id., La questione del Fiore, in «Cultura e scuola», 13-14 (1965), pp. 768-773; Id., Fiore, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Ita-liana, 1970, II, pp. 895-901. Per l’attribuzione a Dante Alighieri del poemetto, cfr. già Il Fiore: poème italien du XIIIe siècle en CCXXXII sonnets, imité du “Roman de la Rose”, par Durante, Texte inedit publié avec fac-simile, introduction et notes par F. Castets, Montpellier-Paris, Société pour l’étude des langues romanes - Maisonneuve, 1881. La bibliografia ad oggi è sterminata: fra i titoli più recenti, oltre all’ed. di Formisano, cit., si veda almeno P. Stoppelli, Dante e la paternità del Fiore, Roma, Salerno, 2011; Dante Alighieri, Il Fiore Detto d’Amore, a cura di P. Allegretti, Firenze, Le Lettere, 2011.

2 D’A. S. Avalle, Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, pp. 91-92. Avalle, come noto, interpreta la canzone nella chiave di un discorso amoroso omosessuale rivolto a Bondie Dietaiuti, del quale nel Vat. Lat. 3793 segue la canzone Amor, quando mi membra, che sarebbe la risposta a S’eo son distretto. L’interpretazione di Avalle è stata messa in discussione da P. Armour, The love of two Florentines, «Lectura Dantis [virginiana]», IX, 1991, pp. 11-33, secondo il quale quella di Brunetto è piuttosto una canzo-ne dell’esilio, interpretazione ripresa da L. Rossi, Brunetto, Bondie, Dante e il tema dell’esilio, in «Feconde venner le carte». Studi in onore di O. Besomi, Bellinzona, Casagrande, 1997, pp. 13-34, e nel commento alla canzone in Id., Poeti siculo-toscani, in Poesia italiana, dir. C. Segre e C. Os-

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Dunqua, s’io pene pato lungiamente, non lo mi tegno a danno, anzi mi sforzo ognora di servire lo bianco fioreauliso, pome aulente che nova ciascuno anno la gran bieltade e lo gaio avenire. Così mi fa parere fenice veramente; ch’ello similemente è solo, e poi rinova suo valere.3

Nella sintetica definizione di Brunetto, «lo bianco fioreauliso, pome au-

lente», sono sottolineate le tre componenti caratteristiche del giglio e cioè il colore (bianco), il metaforico frutto (pome), cioè la parte interna, vermiglia del fiore e infine il profumo (aulente). Come noto, il “fiore” nel poemetto simbolizza la verginità della donna (dalla stessa valenza simbolica il verbo “deflorare” ‘cogliere/togliere il fiore’, come già in Sant’Ambrogio De Ja-cob et vita beata 2, 7, 32: «Deflorare pudorem virginitatis»): qui, come nella canzone di Monte Andrea, Oi dolze amore, «il simbolo sfuma continuamente nella metafora, e del dato reale si offre (…) un’interpretazione puramente naturalistica. Una volta svuotato il simbolo dei sovrasensi mistici, quello che rimane è il corpo della persona amata con i suoi attributi caduchi, le sue ve-rità transeunti ed il poeta riesce finalmente ad esercitare la sua passione e la sua fantasia al di là di ogni controllo più propriamente filosofico e morale».4

La constatazione acquisterebbe ulteriore senso laddove volessimo vede-re nella trasposizione Rose > Fiore anche un’allusione, forse neppure troppo velata, alla città dalla quale sia Brunetto Latini sia Dante Alighieri furono esiliati.5 Proprio Brunetto Latini, del resto, aveva raccontato la propria mes-

sola, 3 voll., Torino, Einaudi, 1997, I, Duecento e Trecento, pp. 161-162. Cfr. anche S. Lubello, Ancora sulla canzone «S’eo son distretto inamoratamente» (V 181), in A scuola con ser Brunetto. Inda-gini sulla ricezione di Brunetto Latini dal Medioevo al Rinascimento, a cura di I. Maffia Scariati, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2008, pp. 515-534; Id., S’eo son distretto inamoratamen-te, in I poeti della scuola siciliana, a cura di R. Antonelli, C. Di Girolamo, R. Coluccia, 3 voll., Milano, Mondadori, 2008, III: Poeti siculo-toscani, pp. 305-314.

3 Ed. Lubello, cit., p. 309.4 Avalle, Ai luoghi di delizia pieni, cit., pp. 119-120.5 La prospettiva che individua motivi civili e politici nella prima poesia fiorentina, me-

diante il ricorso a stilemi propri della poesia siciliana è ormai acquisizione consolidata: cfr. al-meno G. Folena, Cultura poetica dei primi Fiorentini, (1970), in Id., Textus testis. Lingua e cultura poetica delle origini, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 159-196; L. Rossi, Brunetto, Bondie, Dante, cit.; Id., Poeti siculo-toscani, cit.; M. Picone, Città e esilio nella lirica toscana, in Lo spazio letterario del medioevo, 2. Il medioevo volgare, vol. 1. 2. La produzione del testo, a cura di P. Boitani, M. Mancini e A. Varvaro, Roma, Salerno, 2001, pp. 695-734 (poi in Id., Percorsi della lirica duecentesca. Dai Siciliani alla «Vita Nova», Firenze, Cadmo, 2003, pp. 69-104; J. Bartuschat, Thèmes moraux et politiques chez quelques poètes florentins pré-stilnovistes: une hypothèse de recherche.La poésie politique dans l’Italie médiévale, a cura di A. Fontes Baratto, M. Marietti, C. Perrus, in

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sa al bando facendo uso del calembour che mette in relazione la città toscana con il fiore che la simboleggia (vv. 113-126):6

Lo Tesoro conenza. Al tempo che Fiorenza froria, e fece frutto, sì ch’ell’era del tutto la donna di Toscana (ancora che lontana ne fosse l’una parte, rimossa in altra parte, quella d’i ghibellini, per guerra d’i vicini), esso Comune saggio mi fece suo messaggio all’alto re di Spagna, ch’or è re de la Magna.

Luciano Rossi ha messo in rilievo l’associazione metaforicamente densa di fiore e Firenze, notando come «i giochi verbali sul fiorire e lo sfiorire (o l’esser deflorata) della fiore erano stati inaugurati da Guittone, che, pro-prio nella canzone per la sconfitta dei Guelfi a Montaperti, Ahi, lasso aveva esplicitamente definito la città del giglio “sfiorata fiore” (v. 16), “alta Fior sempre granata” (v. 5), ma soprattutto “Fiorenza, fior che sempre rinovel-la” (v. 93), espressione che coincide in modo sorprendente con le perifrasi adoperate da Brunetto per indicare il perpetuo rinnovarsi del “suo” bianco fioreauliso».7 Piuttosto interessante per la nostra lettura del Fiore è inoltre il riferimento, a mio avviso ad oggi mal interpretato, al «crudel forte villano», che preconizza lo Schifo del poemetto (PD, I, pp. 206-209):

vedendo l’alta Fior sempre granata e l’onorato antico uso romano ch’a certo pèr crudelfortevillano, s’avaccio ella no è ricoverata.

Il rinnovarsi del fiore, inteso come Firenze, di cui troviamo traccia, oltre che qui, in tanta poesia siculo-toscana è spesso allusivo anche al denaro che alla città aveva dato ricchezza, potere e lustro (non si dimentichi che l’usura era trattata, anche lessicalmente, come una sorta di rinnovamento,

«Arzanà», 11 (2005), pp. 87-103; C. Keen, Boundaries and Belonging: Imagining Urban Identity in Medieval Italy, in Imagining the City, a cura di Ch. Emden, C. Keen, D. Midgley, vol. 2, The Politics of Urban Space, Bern, Peter Lang, 2006, pp. 65-85.

6 Ed. in G. Contini, Poeti del Duecento, 2 voll., Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, II, pp. 179-180.7 Rossi, Poeti siculo-toscani, cit., p. 162.

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ringiovanimento del denaro, non a caso renou in provenzale)8 e va comun-que messo in relazione con il suo successivo “fruttare” (si ricordi Brunetto «Al tempo che Fiorenza froria, e fece frutto»).

Un discorso in parte analogo si potrebbe fare per Ahi dolze e gaia terra fiorentina di Chiaro Davanzati, dove si ritrova insistito il calembour fiorentina - fiore – sfiorire - Fiorenza: «Ahi dolze e gaia terra fiorentina», «fior de l’al-tre, Fiorenza», «Fiorenza non pos’ dir ché se’ sfiorita», «lo re Fiorin ci spese sua potenza»: quest’ultimo termine è certo nome proprio, ma il lettore non poteva non pensare anche alla moneta di Firenze, che aveva peraltro San Giovanni sul dorso: «da san Giovanni avesti sua figura». Del resto, secondo Chiaro, la decadenza morale della città si accompagnava all’avvento di clas-si sociali che si sono arricchite mediante l’usura:

Ché è moltipricato in tua statura asto e ’nvidia, noia e struggimento orgoglioso talento avarizza pigrezza e lossura; e ciascuno che ’n te ha pensamento e’studiasempredivolereusura; di Dio non han paura ma sieguen sempre disiar tormento. Lipicciol’limezzanielimaggiori hanno altro in cor che non mostran di fora.

Non sarà un caso, allora, se il verso a trittico «Li picciol’ li mezzani e li maggiori» verrà ripreso e adattato dall’autore del Fiore nel discorso in cui Amico parla delle donne predatrici di ricchezze (son. 58, v. «Le giovane e le vecchie e le mezzane»), a dimostrazione di come il testo di Chiaro fosse ben noto all’autore del poemetto e di come (e a partire da chi) il sistema isotopico del fiore sia entrato in gioco. Con Monte Andrea (Oi dolze Amore) il fiore, qui certamente un giglio, viene messo in relazione al giardino da cui si diparte l’amante:

Ch’io nel giardino aulenteefino dalo matino istesse dal’un chanto (laov’è quello fiore, fresco e amoroso,

8 P. Canettieri, Il gioco delle forme nella lirica dei trovatori, Roma, Bagatto, 1996, pp. 201-204 e Id., Lo captals, in Interpretazioni dei trovatori. Atti del Convegno (Bologna, 18-19 ottobre 1999), a cura di A. Fassò e L. Formisano, «Quaderni di filologia romanza della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Bologna», 14 (2000), pp. 77-101, con considerazioni nella direzione qui proseguita.

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ch’a tutora per amore a me fa stare gioioso)! […] Sempre sto im pensamento Quando dal giardinomiparto; tant’è lo godimento che dentro v’è disparto. […] Poich’io m’apiglio a tale giglio che maraviglio saria se non m’atasse!

Si ricorderà, al riguardo, come l’Amante del Fiore, avendo teso la mano verso l’oggetto del suo desiderio, sia stato esiliato dal giardino di Piacere per volontà del villano Schifo (son. 6):

Allor mi venni forte ristrignendo verso del fior, che·ssì forte m’ulìo, e per cu’ feci homaggio a questo dio, e dissi: «Chi mi tien, ched i’ no ’l prendo?»; sì ch’i’ verso del fior tesi la mano, credendolo aver colto chitamente; ed i’ vidi venir un gran villano con una mazza, e disse: «Or ti ste’ a mente ch’i’ son lo Schifo, e sì son ortolano d’esto giardin; i’ ti farò dolente».

Lo Schifo, un villano «crudo, fello e oltraggioso», senza peritarsi, «buttò di fora» l’Amante (son. 7), sicché questi si dolse, «in pensando del villano / che ssì vilmente dalfiorm’ha’lungiato». Alla «messa in caccia» dell’Amante da parte di Schifo si allude anche nel sonetto 13, dove Franchezza esorta lo Schifo a ravvedersi:

Lo dio d’Amor ti manda ch’e’ ti piacciache ttu non sie sì strano al su’ sergente,ché gran peccato fa chi lui impaccia;ma sòffera ch’e’ vada arditamenteper lo giardino, e no ’l metter in caccia,e guardi il fior che ssì gli par aolente.

Analogamente, nel sonetto 21, si preannuncia il secondo allontanamen-to di Amante dal giardino in cui è rinchiuso il Fiore, con il termine tecnico specifico della messa in esilio: «per ch’i’ fu’ del giardin rimessoinbando». Si ricorderà come Dante in Inf. 15 dica allusivamente a Brunetto Latini:

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«Se fosse tutto pieno il mio dimando», rispuos’io lui, «voi non sareste ancora de l’umana natura postoinbando».

Qui il bando dalla patria e quello dall’umana natura sono messi in evi-dente correlazione allusiva. Lo stesso Brunetto Latini, sempre nel Tesoretto (vv. 180-190), trattando del momento in cui fu messo al bando da Firenze, utilizza parole che richiamano quelle che all’autore del Fiore servono a de-scrivere la cacciata di Amante dal Giardino da parte dello Schifo:

Certo lo cormiparte Di cotanto dolore, pensando il grande onore e la ricca potenza che suole aver Fiorenza quasi nel mondo tutto; e io, in tal corrotto pensando acapochino perdei il gran cammino e tenni a la traversa d’una selva diversa.

Nel sonetto 12 del Fiore l’Amante parla così:

Tutto pien d’umiltà verso ’l giardino torna’ mi, com’ Amico avea parlato, ed i’ guardai, e sì ebbi avisato lo Schifo, con un gran baston di pino, ch’andava riturando ogne camino, che dentro a forza non vi fosse ’ntrato; sì ch’io mi trassi a lui, e salutato umilemente l’ebbi acapochino.

Nella Divina Commedia i luoghi con rime in -ino presentano spesso il rimante cammino ma il rimante chino è presente solo in due luoghi (Inf. 15 e Inf. 27) e la serie cammino - chino si trova solo in Inf. 15. La coincidenza risulta interessante anche per la presenza in entrambi i testi dell’espressio-ne “capo chino”, per segnalare un analogo atteggiamento di riverenza (Inf. 15, vv. 43-48):

Io non osava scender de la strada Per andar par di lui; ma ’l capochino Tenea com’uom che reverente vada. El cominciò: «Qual fortuna o destino Anzi l’ultimo dì qua giù ti mena? E chi è questi che mostra ’l cammino?»

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Il rapporto testuale tra il passo dell’Inferno e il passo del Tesoretto testimo-nia della mimesi di Dante Alighieri nei confronti del personaggio messo in scena, del fatto cioè che qui il poeta intenzionalmente voglia trattare di Brunetto, facendolo parlare con le sue stesse parole, richiamando in ma-niera più o meno esplicita lessico e rime presenti nella sua opera. In questo quadro, la triangolazione, mi pare mai commentata in questa luce, offerta dalla presenza della medesima serie nel Fiore acquista notevole importanza, proprio perché questa è la parte del poemetto in cui si discorre dei tentativi dell’amante di aggirare il bando dal giardino imposto dallo Schifo (e in questo quadro, forse, anche il villano di Inf. 15, 96).

Del resto, proprio considerando che Il Fiore è rielaborazione del Roman de la Rose, abbiamo già più volte sostenuto che la cerchia di intellettuali fiorentini ruotante intorno a Brunetto Latini e di lui discepoli sarà quella entro cui andrà cercato l’autore del poemetto: Brunetto Latini stesso, lo abbiamo già detto, fra i fiorentini ad oggi indicati come possibili autori, è l’unico del quale la conoscenza approfondita della lingua d’oïl sia assicu-rata. Si ricordi, inoltre, che «il sistema Fiore - Detto risulta in un certo senso speculare al sistema Tesoretto-Favolello, anche dal punto di vista della distri-buzione materiale nei manoscritti, laddove, peraltro, Detto e Favolello condi-vidono, unici casi della letteratura italiana di quest’epoca, anche l’utilizzo del settenario a rima baciata».9 Lo stesso Contini, pur restando nel solco tracciato dalla sua ipotesi attributiva, lo aveva notato: «Ciò non toglie che qualche reminiscenza del Tesoretto sopravviva nell’opera di Dante, mentre poi, ove gli toccasse il Detto d’Amore, egli si troverebbe ad aver dettato in un corso stilistico giovanile del tutto brunettiano».10 Contini notava altresì nell’interludio che c’è nel Tesoretto fra il trattato dei vizi e delle virtù e la sezione detta “della Penitenza“ una tematica «nel solco della prima Rose e del favolello sul Dio d’Amore».11 In effetti qui il Dio d’Amore personificato, abbastanza raro nella letteratura dell’epoca, è raffigurato con tratti stilistici del tutto analoghi a quelli che ritroviamo nel Fiore e nel Detto, unitamente ad un sistema allegorico di impressionante affinità. Ugualmente, come è stato giustamente notato, l’insistenza nel Fiore sul tema dell’amicizia e del consiglio è tratto che assimila quest’opera sia al Tesoretto sia, soprattutto, al Favolello, che ci ragguaglia proprio dell’amicizia di Brunetto con Rustico

9 Id., Il Fiore e il Detto d’Amore, in «Critica del Testo», 14/1 (2011), pp. 519-30. Cfr. G. Con-tini, Poeti del Duecento, cit., II, p. 172.

10 Ivi, p. 173.11 Ibidem. Certo interessante come suggestione al riguardo anche che «I Latini di ser Bru-

netto portarono come stemma tre rose d’oro in campo azzurro, sormontate dal lambello rosso con i gigli d’Angiò; ma sulla colonna superstite del monumento funebre di ser Bru-netto, ora disperso in conseguenza dei restauri fatti nel chiostro della chiesa di Santa Maria Maggiore, si vedono scolpite sei rose, disposte in triplice fila, da tre a due a una» (Enciclopedia Dantesca, cit., s.v. Latini).

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Filippi e Palamidesse di Bellindote.12

Si consideri, inoltre, che varie analisi che andiamo conducendo da al-cuni anni sulla base di metodologie di stilometria automatizzata ci hanno condotto ai seguenti risultati, che possiamo ormai ritenere definitivi (alme-no per ciò che è delle risultanze offerte da questo genere di approccio):

1. L’autore del Fiore è il medesimo del Detto e non è nessuno fra quelli fino ad oggi proposti. 2. L’autore del Fiore e del Detto non è lo stesso che ha scritto l’Intelligenza o il Mare amoroso: abbiamo a che fare con tre autori differenti, al momento ignoti (e anche la questione del cosiddetto Amico di Dante va probabilmente inserita in questo sistema di riferimento). 3. Si tratta probabilmente di un autore della cerchia di Brunetto Latini. 4. Si tratta di un autore vicino ai poeti comico-realistici.

L’analisi condotta con metodi automatici ci ha portato quindi a rite-nere altamente fondata la proposta di John Barnes, secondo cui «l’ipotesi più economica è quella secondo cui il poemetto sarebbe attribuibile non a Dante bensì ad un altro scrittore di cui si è persa da tempo ogni traccia» e che comunque: «il cerchio raggiunto dall’influsso brunettiano (che in-cluderebbe anche l’Alighieri) non sembra inverosimile come matrice del Fiore».13 Si ritiene quindi probabile che fra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo un gruppo probabilmente coeso di poeti fiorentini abbia deciso di comporre poemetti di tematica affine, didattico-amorosa e allegorico-amorosa, restando forse intenzionalmente anonimo.14

In questa prospettiva, si consideri che una seconda variatio di rilievo pre-

12 A. Montefusco, “Mostrando allor se ttu sse’ forte e duro”. Amicizia, precettistica erotica e cul-tura podestarile-consiliare nel Fiore, in Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, études réunies et présentées par A. Fontes Baratto, in «Arzanà. Cahiers de littérature médiévale italienne», 13 (2010), pp. 137-170.

13 J. C. Barnes, Uno, nessuno e tanti: il Fiore attribuibile a chi?, in The Fiore in Context: Dante, France, Tuscany, a cura di Z. G. Baranski e P. Boyde, Notre Dame - London, University of Notre Dame Press, 1997, pp. 331-362.

14 Sintetizzo qui i risultati di varie ricerche integrate a comporre ad oggi un quadro uni-tario e, per ciò che ci riguarda, a questo punto definitivo: cfr. P. Canettieri, V. Loreto, M. Rovetta, G. Santini, Philology and Information Theory: towards an integrated approach, in Textual criticism and Genetics, a c. di P. Baret, A. Bozzi, C. Macé, «Linguistica Computazio-nale», 2006, pp. 104-126; Idd., Higher criticism and Information Theory, in «Rivista di Filologia Cognitiva», 3 (2005), on line; Idd., Philology and Information Theory, in «Cognitive Philology», 1 (2008), on line; P. Canettieri, Il Fiore e il Detto d’Amore, cit.; Id., Unified Theory of the Text (UTT) and the Question of Authorship Attribution, in «Memoria di Shakespeare», n.s. 8 (2012), pp. 65-77; Id., Le impronte digitali dell’autore. Un metodo di attribuzione automatizzata per i testi delle letterature romanze, in «Le Forme e la Storia», n.s. 6 (2013), pp. 229-243; Id., Chi non ha scritto il Fiore. Atti della giornata a cura di N. Tonelli, Il Fiore, Firenze, 23 maggio 2014, Società Dantesca Italiana, in c.d.s.

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sente nel Fiore nei confronti della sua fonte oitanica è la collocazione stagio-nale dell’innamoramento in inverno, anziché in primavera (son. 3, vv. 1-4):

Del mese di gennaio, e non di maggio, fu quand’i’ presi Amor a signoria, e ch’i’ mi misi al tutto in sua baglìa e saramento gli feci e omaggio.15

Questo dislocamento temporale va a mio avviso messo in relazione con la trasposizione Rosa > Fiore, poiché applica una connessione analogica stringente con la tradizione della topica che fa riferimento all’incipit sta-gionale invernale, contrapposto a quello primaverile, in primis il notissimo Ar resplan la flors enversa di Raimbaut d’Aurenga, dove il «fiore inverso» è la neve, il ghiaccio e la brina, mentre in tutti i luoghi successivi esso viene identificato senza dubbio proprio con il giglio. Così è nell’incipit invernale di Elias Cairel, Abril, dove la flors enversa è certamente il giglio (vv. 1-7):

Abril ni mai non aten de far vers Que Finamors me.n dona.l geing e l’art Sitot lo vens romp e degoll’e part Lo fuoill de ram: jes per so no m’espert Ni.m lais de chan, de joi ni de solatz, anz am aitan la freida neu e.l glatz cum fatz estiu, quan par la flors enversa.16

Soprattutto è così proprio nel Mare amoroso (vv. 120-121): «E ’l color natural bianco e vermiglio / come la fior di gran’a fiore inversa», dove l’incarnato della donna amata è paragonato al fiore del melograno e al fiore inverso, appunto il giglio, giusta l’interpretazione di Paolo Cherchi.17 Mi sembra chiaro che l’autore del Fiore si è riallacciato a questa tradizione topica, ad intendere appunto il fiore che non fiorisce come di consueto, un fiore inverso, che non si comporta come gli altri. L’associazione al giglio, dato anche il sistema di riferimenti di cui si è detto, sarà risultato evidente ai lettori.

Ora dal fiore veniamo ai fiorini: a differenza dei piccioli, le monete d’ar-gento, sottoposte a continui provvedimenti inflattivi, il fiorino d’oro puro sta-bile e mai inflazionato, aveva assunto, in un’economia improntata fortemen-

15 Si tratta di un «rinvio antifrastico» (Formisano) al luogo corrispondente del Roman, vv. 45-49: «Avis m’iere qu’il estoit mais, / […] / qu’en mai estoie, ce sonjoie, / ou tens amoreus, plein de joie, / ou tens ou toute rien s’esgaie».

16 G. Lachin, Il trovatore Elias Cairel, Modena, Mucchi, 2004, pp. 220-223.17 P. Cherchi, Mare amoroso (v. 121) e la «Flors enversa» di Raimbaut d’Aurenga, in Id., Andrea

Cappellano, i trovatori e altri temi romanzi, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 56-63.

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te ai commerci e alla finanza, la funzione di metro per il valore d’ogni cosa. Esso venne ad essere, nel mondo, quasi il simbolo della città che lo coniava.18

Ora, è cosa notissima che prima della battaglia di Montaperti i fiorenti-ni, alla ricerca di alleati contro Manfredi, avevano mandato Brunetto Latini in ambasceria presso Alfonso X di Castiglia per esortarlo a rivendicare la corona imperiale (Villani, 6, 73). Sulla via del ritorno, presso Roncisvalle, Brunetto ebbe notizia della disfatta guelfa e del bando impostogli dai vinci-tori (Tesoretto, v. 142, Villani, 6, 79).19 Brunetto Latini andò in Francia, come racconta dettagliatamente nella Rettorica (ed. Maggini, p. 7):

Rettorica 1, 10. La cagione per che questo libro è fatto si è cotale, che questo Brunetto Latino, per cagione della guerra la quale fue tralle parti di Firenze, fue isbandito della terra quando la sua parte guelfa, la quale si tenea col papa e colla chiesa di Roma, fue cacciata e sbandita della terra. E poi si n’andò in Francia per procurare le sue vicende, e là trovò uno suo amico della sua cittade

18 M. Bernocchi, Corpus Nummorum Florentinorum, Firenze, Oschki, 1975 (69, fig. 1); Id., Le monete della Repubblica fiorentina, III, Firenze, Oschki, 1976, pp. 55-123; C. M. Cipolla, Il fiorino e il quattrino. La politica monetaria a Firenze nel 1300, Bologna, il Mulino, 1982; G. A. Bru-cker, Firenze 1138-1737. L’impero del fiorino, Milano, Mondadori, 1983; G. Mandich, Il fiorino di conto a Firenze nel 1294-1381, in «Archivio Storico Italiano», 146, DXXXV (1988), 1, pp. 23-47; M. Marietti, Simon le magicien: l’église vue du paradis, in «Chroniques Italiennes», 10, XXXVII (1994), pp. 5-30; trad. it. riveduta, in L’umana famiglia, Studi sul “Paradiso”, Roma, Aracne, 2011, pp. 53-74; G. Cherubini, Firenze nell’età di Dante. Coscienza e immagine della città, in Pistoia e la Toscana nel Medioevo: studi per Natale Rauty, Pistoia, Società pistoiese di storia patria, 1997, pp. 167-180, poi in Id., Città comunali di Toscana, Bologna, Clueb, 2003, pp. 11-24; V. E. Ar-dizzone, Un Dante insolito. Sommo poeta, ma anche un po’ economista, in «Pagine della Dante», s. 3ª, 74 (2000), 3, pp. 20-27; U. Carpi, Il fiorino e la nobiltà, in Id., La nobiltà di Dante, Firenze, Edizioni Polistampa, 2004, 2 voll., I, pp. 11-321; Ph. Grierson, Il fiorino d’oro: la grande novità dell’occidente medievale, in «Rivista italiana di numismatica», 107 (2006), pp. 415-420; P. Spuf-ford, The First Century of the Florentine Florin, in «Rivista italiana di numismatica», 107 (2006), pp. 421-36; G. Alonzo, Numismatica dantesca. La “Commedia” tra maledizione e santificazione della moneta, in Id., Stella forte. Studi danteschi, a cura di F. Spera, Napoli, D’Auria, 2010, pp. 81-105; P. Trifone, Dante e l’inesorabile lezione del Medioevo, in «Da riva a riva». Studi di lingua e letteratura italiana per Ornella Castellani Pollidori, Firenze, Cesati, 2010, pp. 369-378. Si legga al riguardo la bella pagina del Villani (7, 53): «Come di prima si feciono in Firenze i fiorini dell’oro. Tornata e riposata l’oste de’ Fiorentini colle vittorie dette dinanzi, la cittade montò molto inn-istato e in ricchezze e signoria, e in gran tranquillo: per la qual cosa i mercatanti di Firenze, per onore del Comune, ordinaro col popolo e comune che·ssi battesse moneta d’oro in Firenze; e egli-no promisono di fornire la moneta d’oro, che in prima battea moneta d’ariento da danari XII l’uno. E allora si cominciò la buona moneta d’oro fine di XXIIII carati, che si chiamano fiorini d’oro, e contavasi l’uno soldi XX; e ciò fu al tempo del detto messere Filippo degli Ugoni di Brescia, del mese di novembre gli anni di Cristo MCCLII. I quali fiorini, gli otto pesavano una oncia, e dall’uno lato era la ’mpronta del giglio, e dall’altro il san Giovanni».

19 Si parla anche di «un’epistola latina del padre Bonaccorso, che annuncia al figlio la sconfitta e il bando: il testo in Donati, pp. 230-232, dal ms. Breslavia, Biblioteca universitaria, Rehd., 342, ora irreperibile; ma vedi Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat., 4957, c. 83»: cfr. G. Ingle-se, voce Brunetto Latini in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, vol. 64, 2005.

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e della sua parte, moltoriccod’avere, ben costumato e pieno de grande senno, che lli fece molto onore e grande utilitade, e perciò l’appellava suo porto, sì come in molte parti di questo libro pare apertamente; et era parlatore molto buono naturalmente, e molto desiderava di sapere ciò che’ savi aveano detto intorno alla rettorica; e per lo suo amore questo Brunetto Latino, lo quale era buono intenditore di lettera et era molto intento allo studio di rettorica, si mise a ffare questa opera, nella quale mette innanzi il testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua scienzia e dell’altrui quello che fa mistieri.

Questo ricchissimo amico fiorentino di Brunetto, del medesimo partito guelfo, è stato identificato con un esponente della famiglia dei Tosinghi, poiché proprio questa famiglia è menzionata più in là nella Rettorica, come esempio di ciò che si intenda per “genere”, opponendo il nome della schiat-ta al nome del capostipite della schiatta stessa, nella fattispecie Davizzo:

Rettorica 17, 1. A questa somiglianza, per dire più in volgare, si puote intendere genere cioè schiatta; che chi dice “i Tosinghi” comprende tutti coloro di quel-la schiatta, ma chi dice “Davizzo” non comprende se non una parte, cioè un uomo di quella schiatta.

I Tosinghi erano, fra i fuoriusciti guelfi da Firenze dopo Montaperti, fra i più vicini a Brunetto Latini, poiché tutti abitavano nel medesimo “sesto” (Villani, 7, 79): «Queste furono le principali case guelfe ch’uscirono di Fi-renze: (…) Di porte del Duomo: i Tosinghi, Arrigucci, Agli, Sizii, Marignol-li, e ser Brunetto Latini e’ suoi, e più altri». Sempre Villani ci informa del fatto che i fiorentini in esilio in Francia seppero tirare vantaggio dalla loro condizione e tornarono in Firenze molto più ricchi di come se ne erano partiti (7, 85):

Ben si dice per molti antichi che l’uscita de’ Guelfi di Firenze di Lucca fu cagione di loro ricchezza, perciò che molti Fiorentini usciti n’andarono oltremonti in Francia a guadagnare, che prima non erano mai usati, onde poi molte ricchezze ne reddiro in Firenze; e cadeci il proverbio che dice: “Bisogno fa prod’uomo”.

Brunetto in Francia ha a che fare sempre con ricchi mercanti fiorentini, per i quali, in qualità di notaio, roga atti in cui viene ratificato il loro giura-mento di fedeltà al papa e il loro contestuale ripudio di Manfredi (Arras, 15 settembre 1263 e Parigi, 26 settembre del medesimo anno) oppure ratifica accordi stipulati per la cessione di società (Bar-sur-Aube, 17 apr. 1264).20 Nel primo di questi atti era presente anche un importantissimo esponen-te dei Tosinghi, Arrigo, certamente quindi anche lui in esilio, certamente della sua parte e certamente molto ricco. Mi sembra quindi che l’identifi-

20 R. Cella, Gli atti rogati da Brunetto Latini in Francia (tra politica e mercatura, con qualche implicazione letteraria), in «Nuova Rivista di Leteratura Italiana», 6 (2003), pp. 367-408.

PAOLO CANETTIERI140

cazione dell’amico di Brunetto con Arrigo Tosinghi sia in assoluto la più plausibile. Si consideri inoltre che

I due soli documenti rogati da Brunetto in Francia testimoniano, in modo cer-tamente parziale ma altrettanto certamente non casuale, che i suoi rapporti durante l’esilio furono con mercanti e banchieri fiorentini appartenenti a «fa-miglie medio-alte» […], per lo più di estrazione popolare ma in rapida assimi-lazione con la classe magnatizia (e che come tali saranno esclusi dalle cariche politiche cittadine con gli Ordinamenti di Giustizia), arricchitesi con l’attività commerciale e bancaria tanto da divenire indispensabili al papa come fonti di finanziamento della campagna antimperiale di Carlo d’Angiò.21

Fra coloro che troviamo direttamente legati a quest’ambiente, anche i poeti Carnino Ghiberti e Palamidesse di Bellindote, entrambi in rapporti anche letterari con Brunetto e con gli altri poeti del municipalismo fioren-tino prestilnovistico.22 Del resto, la menzione dell’amico cui è dedicata la Rettorica come «mio porto» rientra nella prassi comune del senhal trobado-rico, affine ad esso anche nella sintassi agg. poss. di 1a persona + sostantivo: moltissimi presso i trovatori i Mon Conort, Mon Cortes, Mon Desir, Mon Diaman, Mon Estui, ecc.,23 e sul piano letterario, non sarà indifferente la presenza di Brunetto in terra occitanica, a Montpellier (Tesoretto, v. 2541), dove, chissà se solo per casuale movimento ondulatorio, è conservato il ma-noscritto del Fiore. In questo quadro di relazioni extraterritoriali, peraltro, oltre ai mercanti fiorentini e all’amico di Brunetto in Francia è da aggiun-gere anche lo scolaro proveniente da Bologna, incontrato a cavallo di un

21 Ivi, p. 400.22 Cfr. al riguardo R. Antonelli, Canzoniere Vaticano latino 3793, in Letteratura italiana,

diretta da A. Asor Rosa, Le Opere. I. Dalle Origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp. 27-44; Id., Struttura materiale e disegno storiografico del canzoniere Vaticano, in I canzonieri della lirica italiana delle origini, IV, Studi critici, a cura di L. Leonardi, Firenze, SISMEL Edizioni del Galluzzo, 2001, pp. 3-23; Id., La tradizione manoscritta e la formazione del canone, in Dai Siciliani ai Siculo-toscani. Lingua, metro e stile per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di R. Coluccia, R. Gualdo, Galatina, Congedo, 1999, pp. 7-28, in part. 13-17; Id., Avere e non avere: dai trovatori a Petrarca, in «Vaghe stelle dell’Orsa», L’«io» e il «tu» nella lirica italiana, a cura di F. Bruni, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 41-75; I. Maffia Scariati, rec. a R. Cella, Gli atti rogati da Brunetto Latini, cit., con una nota sul fasc. ix del Vat. lat. 3793 e su Inf. XV, in «Studi e problemi di critica testuale», 71 (2005), pp. 245-251; J. Steinberg, Accounting for Dante: Urban Readers and Writers in late Medieval Italy, Notre Dame, Notre Dame University Press, 2007, in part. cap. 1, Dante’s First Editors. The Memoriali bolognesi and the Politics of Verna-cular Transcription, pp. 17-60 e cap. 4, Merchant Bookkeeping and Lyric Anthologizing. Codicological Aspects of Vaticano 3793, pp. 125-144; R. Zanni, Dalla lontananza all’esilio nella lirica italiana del XIII secolo, in Écritures de l’exil dans l’Italie du Moyen Âge, a cura di A. Fontes-Baratto et M. Gagliano, in «Arzanà», 16-17 (2013), pp. 325-363.

23 Cfr. F. M. Chambers, Proper Names in the Lyrics of the Troubadours, Chapel Hill, The Uni-versity of North Carolina Press, 1971, pp. 188-192.

IL FIORE E IL FIORINO 141

muletto nella piana di Roncisvalle,24 probabile allegoria dell’insegnamento primario.

Negli anni francesi si situa la composizione di due opere brunettiane, la Rettorica e il Tresor, mentre una collocazione del Tesoretto qualche anno dopo il rientro a Firenze è più che probabile:25 in ogni caso Brunetto sarà stato in quegli anni l’intellettuale di riferimento di questo gruppo di fiorentini guelfi dediti a commerci con la Francia e legati alla corona angioina.

Il quadro delle relazioni di Brunetto in Francia si compone quindi di uomini ricchi d’avere, anche per aver tirato profitto dall’esilio forzato, di parte guelfa, aspiranti allo status magnatizio: fossero mercanti, poeti, retori o intellettuali o tutte queste cose insieme, fossero anche solo scolari inte-ressati a conoscere «come l’uom s’etterna» o ricevere erudizioni di altra na-tura, essi avevano molto da imparare da Brunetto Latini. In questa cerchia, a mio avviso, va ricercato anche l’autore del Fiore (e forse anche degli altri poemetti fiorentini anonimi sull’amore, a cominciare dal Mare amoroso, ma questo è un discorso su cui mi ripropongo di tornare in altra sede).

2. L’oro fino, il fiorino e il Tesoro della conoscenza

Nel Fiore l’Amante sostiene di non aver mai ricercato l’amicizia di Ric-chezza e, proprio per questa ragione, lei al momento opportuno si rifiuta di indicargli il cammino di Troppo Donare che lo avrebbe portato al Fio-re (sonetti 74 e 75). L’Amante, tuttavia, è disposto a fare ammenda del comportamento fin qui tenuto nei confronti di Ricchezza e quindi torna a chiederle di concedergli il passo per il castello (son. 76), ma non gli vale nessuna preghiera, poiché quella continua ad esercitare ogni crudeltà nei suoi confronti (son. 77). Ricchezza resta dunque ostile ad Amante, tanto che, approvata la distribuzione delle truppe per invadere il castello dove è rinchiusa Bellaccoglienza, il Dio d’Amore si lancia in una reprimenda contro di lei, minacciando di rendere poveri i ricchi che dovessero cadere in suo potere (son. 86).

24 «E io presi campagna / e andai in Ispagna / e feci l’ambasciata / che mi fue ordinata; / e poi sanza soggiorno / ripresi mio ritorno, / tanto che nel paese / di terra navarrese, / venendo per la calle / del pian di Runcisvalle, / incontrai uno scolaio / su ’n un muletto vaio, / che venia da Bologna, / e sanza dir menzogna / molt’ era savio e prode: / ma lascio star le lode, / che sarebbono assai. / Io lo pur dimandai / novelle di Toscana / in dolce lingua e piana; / ed e’ cortesemente / mi disse immantenente / che guelfi di Firenza / per mala pro-vedenza / e per forza di guerra / eran fuor de la terra, / e ’l dannaggio era forte / di pregioni e di morte». Non escluderei che il muletto vada qui inteso nella significazione che gli è stata data dai poeti galego-portoghesi in numerosissime cantigas d’escarnho e certo interessante è anche il fatto che Scolaio sia nome ricorrente (anche) della famiglia Tosinghi.

25 Cfr. P. Beltrami, Tre schede sul “Tresor”, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 3a s., 23/1 (1993), pp. 115-190: 134-138.

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L’opposizione, di ascendenza trobadorica, tra ricchezza e amore cortese è qui mediata da Jean de Meung, la cui ideologia antiborghese, propria dell’ambiente universitario, si accorda con lo spirito tutto sommato favore-vole al sistema ideologico magnatizio del poemetto italiano.

Ancora, là dove la Rose si riferisce alle angherie esercitate dagli usurai, dai commercianti a termine e dai burocrati contro il popolo minuto, di cui Jean de Meung, «chierico e buon borghese arricchito» (Mazzoni), prende le par-ti, il Fiore innova vistosamente in senso politico (e fiorentino), denunciando i soprusi della nuova borghesia comunale, arricchitasi con i commerci e con la finanza, a danno dei nobili (son. 118, in bocca a Falsembiante):

Vedete che danari hanno usorieri, siniscalchi e provosti e maggiori, che tutti quanti son gran piatitori e sì son argogliosi molto e fieri. Ancor borghesisopraicavalieri son oggi tutti quanti venditori di lor derrate e aterminatori, sì ch’ogne gentil uon farà panieri. E’ conviene ch’e’ vendancasaoterra infinché i borghesi siar pagati, che giorno e notte gli tegnono inserra. Ma io, che porto panni devisati, fo creder lor che ciascheun sì erra, e ’nganno ingannatori e ingannati.

Ai vv. 5-11 di questo sonetto abbiamo «l’accenno ai borghesi che, per saldare gli altrimenti inesigibili loro crediti di forniture commerciali, co-stringono gli aristocratici a disfarsi della loro proprietà immobiliare»:26 ac-cenno che si spiega certamente con la riforma dell’estimo del 1285, ciò che porterebbe ad una datazione del poemetto entro il penultimo decennio del secolo XIII. In ogni caso, l’animosità antiborghese che traspare dal so-netto trova la sua giustificazione nella politica antimagnatizia, propria il regime del priorato (dal 1282) e avente il suo culmine negli Ordinamenti di Giustizia (principio del 1293).27

All’interno del Fiore le prese di posizione in favore di un’ideologia bor-ghese e “monetaria”, del resto, provengono tutte dai personaggi terzi, in particolare, Amico, Falsembiante e la Vecchia.

Amico consiglia sistematicamente all’Amante di ingannare l’Amata, an-che con promesse di danari da non mantenere (son. 53 e son. 55):

26 Ed. Contini, cit., p. 16.27 Ibidem.

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che ciascuna farai gran baronessa, tanto darai lor fiorini e bisanti: E se lla donna prende tu’ presente, buon incomincio avra’ di far mercato; ma sse d’un bascio l’avessi inarrato, saresti poi certan del rimanente”.

Questo perché, a suo avviso, la natura stessa del genere femminile è portata al mercimonio e anche quando si trova una donna che offre doni ad un uomo, di fatto, ella lo fa pensando al proprio tornaconto (son. 58):

Le giovane e le vecchie e le mezzane son tutte quante a prender sì ’ncarnate che nessun puote aver de lor derrate per cortesia, tanto son villane, ché quelle che si mostran più umane e non prendenti, danno le ghignate: natur’è quella che lle v’ha ’fetate sì com’ ell’ha ’fetato a caccia il cane. Ver’ è ch’alcuna si mette a donare, ma ella s’è ben prima proveduta ch’ella ’l darà in luogo d’adoppiare. I·llor gioei non son di gran valuta, ma e’ son esca per ucce’ pigliare. Guardisi ben chi ha corta veduta!

Falsembiante e la Vecchia sono certamente i personaggi in cui lo stile “comico” trova la sua sublimazione: nelle loro parole il denaro trova con-creta espressione, anche sul piano lessicale: danaio, moneta, fiorini, bisanti, usurai sono lemmi che si trovano con maggior frequenza nei loro discorsi che altrove. Falsembiante se la prende con gli squallidi mendicanti, che tre-mano di freddo e di fame sopra mucchi di letame, privi di averi e di denaro (son. 107):

anzi lor dico: «Al diavol v’acomando Con tutti que’ che non han de’ bisanti».

Disposto ad ogni nefandezza, a questi miserabili egli preferisce i ricchi usurai che spennerà in punto di morte delle ricchezze accumulate con ava-rizia (son. 108):

Ma quand’ i’ truovo un ben riccousuraio infermo, vo’l sovente a vicitare, chéd i’ ne credo danari aportare non con giomelle, anzi a colmo staio.

PAOLO CANETTIERI144

E quando posso, e’ non riman danaio a·ssua famiglia onde possa ingrassare.

Alla fine del suo lungo monologo Falsembiante minaccia di accusare di eresia tutti coloro che non vorranno regalargli vini pregiati o denaro contante (son. 126):

«Que’ che non pensa d’aver l’armadure ch’i’ v’ho contate, o ver preziosi vini, o ver di be’ sacchetti di fiorini, le mie sentenze lor fìer troppo dure.

La Vecchia è il personaggio che ragiona di più sulla potenza del denaro, soprattutto quello che avrebbe potuto estorcere ai tanti uomini che ha fatto innamorare o con cui più semplicemente è andata a letto (son. 149):

Molti buoni uomini i’ ho già ’ngannati, quand’i’ gli tenni ne’ mie’ lacci presi, ma prima fu’ ’ngannata tanti mesi che più de’ mie’ sollazzi eran passati. Centomila cotanti barattati N’avrei, s’i’ a buon’or gli avesse tesi, e conti e cavalieri e gran borgesi, che molti fiorin’d’oro m’avrian dati. Ma quand’i’ me n’avidi, egli era tardi, chéd i’ era già fuor di giovanezza

I consigli che ella dà alla giovane vanno tutti in questa direzione e sono, per certi aspetti, assolutamente speculari a quelli che Amico dà all’Amante. Bisogna frequentare gli uomini ricchi per poterli pelare per benino, però senza innamorarsi mai di loro e richiedendo pagamento anticipato, magari giurando di amarli tutti alla follia (son. 159 e son 160):

Buon acontar fa uon ch’abbia danari, ma’ ched e’ sia chi ben pelar li saccia: con quel cotal fa buon intrar in caccia, ma’ ched e’ no·gli tenga troppo cari. L’acontanza a color che sson avari sì par ch’a Dio e al mondo dispiaccia: non dar mangiar a que’ cotali in taccia, ché’ pagamenti lor son troppo amari. Ma fa pur ch’e’ ti paghiinanzimano:

E quando sol’ a sol con lui sarai, sì fa che ttu gli facci saramenti che ttu per suo danar non ti consenti,

IL FIORE E IL FIORINO 145

ma sol per grande amor che ttu in lui hai. S’e’ fosser mille, a ciascun lo dirai, e sì ’l te crederanno, que’ dolenti.

Solo per denaro la fanciulla dovrà acconsentire alle profferte amorose dei tanti pretendenti e a tutte le loro richieste in materia (son. 173):

A cciò ch’e’ vorrà fare, istarà’ cheta, ma guarda che non fosse aconsentente a nessun, se non se per la moneta.

Il principio economico esposto con grande lucidità dalla Vecchia è quel-lo secondo cui sarà più amata colei che costa di più, mentre ciò che non costa nulla per nulla è apprezzato. Per questa ragione non bisogna mai smettere di pelare l’amico, fino a spennarlo del tutto e far sì che non se ne possa volar via (son. 174):

ché, quanto ch’ella costa più di grosso, più fia tenuta cara, dirlo posso, e più la vorrà que’ tuttor amare. Ché ttu non pregi nulla cosa mai se nonn-è quel che ttu n’avrà’ pagato: Sepococosta,pocoilpregerai; e quel che tti sarà assai costato, a l’avenante caro il ti terrai, con tutto n’aggie tu ben mal mercato.

L’amante potrebbe, però, accorgersi dell’inganno e pentirsi dei doni; al-lora la donna gli chiederà un prestito che non restituirà mai, anzi dovrà far credere ad un altro amante di avere impegnato tutti i suoi vestiti, in modo che quello le darà denaro per disimpegnarli. Se invece lui dubitasse della sua buona fede e fosse restio al prestito, lei dovrà inviargli in dono uno dei suoi vestiti, dicendogli che è per ricordo del denaro speso per lei e solo poi dovrà tornare alla carica (son. 177 e son 178):

e dica che·lla roba sua sia ’npegno: «Molto mi duol ch’uon crede ch’i’ si’agiata». e que’ procaccieràdanari o pegno, sì che la roba sua fie dispegnata.

E se ’l diavol l’avesse fatto saggio, e che lla donna veggia ch’ha dottanza di non volerle far questa prestanza, imantenente sì gli mandi un gaggio: la roba ch’ell’ avrà più d’avantaggio; e dica che lla tenga in rimembranza

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de’ suo’ danari, e non faccia mostranza ched e’ le paia noia né oltraggio.

L’amante però potrebbe essere uno squattrinato, che promette senza aver la possibilità di mantenere: in questo caso la donna dovrà diffidare e farsi pagare subito, perchè questo genere di uomo, una volta avuto il suo piacere, si dà alla fuga (son. 179):

E s’alcun altro nonn-ha che donare, ma vorràssi passar per saramenta, e dirà che lla ’ndoman più di trenta o livre o soldi le dovrà recare, le saramenta lor non dé pregiare, chéd e’ non è nessun che non ti menta; e dice l’un a l’altro: «La giomenta che ttu ti sai, mi credette ingannare; ingannar mi credette, i’ l’ho ’ngannata». Per che già femina non dee servire insin ch’ella non è prima pagata: ché, quando ha fatto, e’ si pensa fuggire, ed ella si riman ivi scornata: per molte volte fui a quel martire.

Neanche la Vecchia è stata esente da un amore, diciamo così, romanti-co: un ruffiano a cui ha dato tutti i suoi averi, che la chiamava puttana e la picchiava, ma la “scuffiava” dolcemente e per questa ragione ella lo preferi-va a tutti gli altri (son. 192):

Al ben guardar falli’, lassa dolente, che cciò ch’all’un togliea, a l’altro donava: come ’l danaio venia, così n’andava; non facea forza d’aver rimanente. I’ era di ciascun molto prendente, e tutto quanto a un ribaldo il dava, che puttana comune mi chiamava e mi battea la schiena ben sovente. Questi era que’ che più mi piacea, e gli altri ‘amici dolci’ i’ apellava, ma solamente a costui ben volea, che mol<to> tosto s’apacificava comeco, sì battuta no·m’avea, ché troppo dolzemente mi scuffiava.

Uno scontro crudo e realistico fra i due sessi, quello messo in scena con le parole prima dell’Amico e poi della Vecchia, in cui l’inganno ha la parte maggiore: l’uomo dovrà attuarlo per ottenere sesso senza dover pagare,

IL FIORE E IL FIORINO 147

la donna per pelare più uomini possibile e assicurarsi un futuro. Non è quindi il Dio d’Amore quello che entra in gioco e i consigli, non per nulla, dell’uno e dell’altra verranno disattesi dai due fini amanti, Bellaccoglienza e Amante/Durante.

È significativo al riguardo che l’utilizzo di uno specifico lessico econo-mico in senso proprio ovvero metaforico sia tipico della poesia comica. Se limitiamo l’indagine alla sola parola fiorino (ma una ricerca su altri termini economici non darebbe luogo a risultati molto differenti) vediamo che essa ha una frequenza decisamente superiore nella poesia di Rustico Filippi, Folgore da San Gimignano, Forese Donati in tenzone con Dante,28 anche se indubbiamente il supremo cantore della moneta di Firenze è Cecco An-giolieri, con una decina di occorrenze e il supremo panegirico:

Quanto un granel de panìco è minore del maggior monte che abbia veduto; e quanto è ‘l bon fiorindel’òr migliore de qualunca dinaro più menuto; e quanto m’è più pessimo el dolore ad averlo, e l’ho, ch’a averlo perduto: cotant’è maggior la pena d’amore, ched io non averei mai creduto. Ed or la credo però ch’io la provo En tal guisa, che, per l’anima mia, de questo amor vorria ancor esser novo. Ed ho en disamar quella bailia, ch’ha ’l polcinello ch’è dentro da l’ovo, d’escir ’nanzi ched el su’ tempo sia.29

28 Rustico Filippi, Volete udir vendetta smisurata, «per un fiorin voglio esser cavigliuolo» e Le mie fanciulle gridan pur vivanda, «daria per men di due fiorin lo staio» (qui e poi, per i comici, il testo è ripreso da Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di M. Marti, Milano, Rizzoli, 1956); Folgore da San Gimignano, Ottobre, «e questo è ver come ’l fiorino giallo»; Forese Donati, L’altra notte, «Udite la fortuna ove m’addosse: / ch’i’ credetti trovar perle in un bosso / e be’ fiorin’ coniati d’oro rosso; / ed i’ trovai Alaghier tra le fosse, / legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome».

29 Sempre di Cecco Angiolieri: «Sed i’ avess’un sacco di fiorini» (in incipit); Ogn’altra carne «E Die sa come ’l cor forte mi dole, / perch’i’ non ho de’ fiorin a ribocca»; Or odite «Quand’èi denar’, non me solea venire, / poi ch’avea en borsa la gran degnitate, / ciò è ’l fiorin, che fammi risbaldire / ed a mia donna mi tol la viltate, / quando non dice che me vol servire» (con discorso affine a quello della Vecchia); Lassar vo’ lo trovare «ch’e’ par fiorin d’òr, ed è de recalco»; Se l’omo avesse «se non avesse di quel fornimento / che si bisogna a quei che vol amare: / ch’è di molti fiorini abbondamento / e ricche gioie, per poter donare / a quella donna ch’elli ha en piacimento»; Quando Ner Picciolin «Quando Ner Picciolin tornò di Francia / era sì caldo de’ molti fiorini / che li uomin li pareano topolini / e di ciascun si facea beff’e ciancia / […] / Ond’io mettere’ ’l cuor per un fiorino»; Li buon parenti «Li buon parenti, e dica chi dir vòle, / a chi ne pò aver, sono i fiorini».

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Abbiamo qui la dimostrazione di come si debba vedere nei discorsi pa-ralleli e intersecantisi di Amico, di Falsembiante e della Vecchia una ricerca prospettica, coniugata con una impicita riflessione sullo stile comico. Ami-co, Vecchia e Falsembiante non esprimono certo il punto di vista dell’auto-re-parafraste, ma rappresentano piuttosto qualcosa di molto simile a degli “esercizi di stile”. Poi, infatti, ancora una volta, Bellaccoglienza riconduce il discorso alla prospettiva cortese e, in definitiva, antiborghese, cui risponde anche colui che ama e (per)dura, Amante-Durante (son. 195):

Bellacoglienza la parola prese e sì rispuose, come ben parlante: «Gentil madonna, i’ vi fo grazie mante che di vostr’ arte mi siete cortese; ma ’l fatto de l’amor no·m’ è palese, se non se in parole trapassante. Ched i’ sia di danar ben procacciante? i’ n’ho assai per farne bellespese. D’avere in me maniera bella e gente, a cciò vogl’ i’ ben metter mia balia, in tal maniera che ssia sofficiente.

Del resto, lo stesso Dio d’Amore, nel Detto richiede totale gratuità al suo fedele. Se l’amante metterà in borsa una qualsiasi ricchezza da custodire per chiunque che non sia Amore e quindi se non farà società con lui («di lui non faccia co»), questi lo escluderà dai dividendi. I doni che Amore vuo-le avere sono il corpo e l’anima dell’amante e l’unico tesoro da rinchiudere nel forziere del cuore, quindi, dovrà essere lui (vv. 369-390):

E dice, s’i’ balestro se non col su’ balestro, o s’i’ credo a Ragione di nulla sua ragione ch’ella mi dica o punga, o sed i’ metto in punga ricchezza per guardare, o s’i’ miro in guardare, a lui se non, ciò c’ho, di lui non facciaco; ma mi getta di taglia, e dice che ’n sua taglia i’ non prenda ma’ soldo, per livra né per soldo ched i’ già ma’ gli doni. Amor vuol questi doni: corpo e avere e anima, e con colui s’inanima,

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chi gliel’ dà certamente (e chi altro accerta, mente), e sol lui per tesoro vuol ch’uon metta ’n tesoro.

In maniera sorprendentemente parallela, per Brunetto Latini il Tesoro è quello della conoscenza, secondo una metafora di cui si trova un prece-dente in ambito romanzo presso il chierico-trovatore Peire de Corbian (vv. 10-27):30

Maistre Peire ai nom e fon mos naissemens DeCorbian, on ai mos frairs e mos parens. Mas rendas son ben pauchas, mas cortezi’e sens Me fai entrels plus pros viure honoradamens, E cals que sia paubre ni li an malamens, Ieu com rics gualhartz m’estau seguramens, Qu’eu m’ai unrictesaurammassat mal traens, Quez es plus precios, plus cars e plus valens Que peiraspreciosas ni fisaurs ni argens. […] Cest thesaur es sciensa de maiz essenhamens.

Conoscenza per il chierico Peire, l’amore per il trovatore Arnaut Daniel che ammassa l’aura, l’aria, anziché l’aur, e fa usura, renou, dei suoi vers.31 Conoscenza e Amore per Brunetto Latini e, quindi, anche amore per la co-noscenza, filosofia. Si noti «auro fino» in rima con il cognome dell’autore, poco prima dell’invio del ricco Tesoro all’«amico caro» (vv. 63- 126):

E posso dire ’n somma, Che ’n voi, Signor, s’assomma, E compie ogne bontade; E ’n voi solo assembiate Son sì compitamente, Che non falla neente, Se non com’aurofino. Io Brunetto Latino,

30 Ed. A. Jeanroy, G. Bertoni, Le “Thezaur” de Peire de Corbian, in «Annales du Midi», 23 (1911), pp. 289-308 e pp. 451-471. Cfr. anche C. Léglu, Memory, Teaching and Performance: The Two Versions of Peire de Corbian’s «Thesaur», in Etudes de Langue et de Littérature Médiévales offerts à Peter Rickets, Turnhout, 2005, pp. 281-292. Una relazione diretta fra i due testi in discussione è supposta da F. Brugnolo (in coll. con R. Benedetti), La dedica tra Medioevo e primo Rina-scimento: testo e immagine, in I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Basilea, 21-23 novembre 2002), a cura di M. A. Terzoli, Roma-Padova, Antenore, 2004, pp. 13-54: 21.

31 Canettieri, Lo captals, cit.

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Che vostro in ogne guisa Mi son sanza divisa, A voi mi raccomando. Poi vi presento, e mando Questo riccoTesoro, Che vale argento, et oro: […] Ad ogne altro lo nego, Et a voi faccio prego, Che lo tegniate caro, E che ne siate avaro. Ch’i’ ho visto sovente Vil tenere a la gente Molte valenti cose: E pietreprezïose Son già cadute ’n loco, Che son gradite poco. […] Ma io ho già trovato In prosa, et in rimato Cose di grand’effeto, Che poi per gran segreto L’ho date a caroamico.

Questo passo è certamente da mettere in relazione con quello con cui ini-zia, sempre nel Tesoretto, la cosiddetta Penetenza, dove troviamo anche una pre-cisa confutazione dell’economia dell’accumulazione dei beni (vv. 2427-2518):

Al finoamicocaro, a cui molto contraro d’alegrezza e d’afanno pare venuto ogn’anno: io Burnetto Latino, che nessun giorno fino d’aver gioia e pena (come Ventura mena la rot’a falsa parte), ti mando ’n queste carte salute e ’ntero amore: […] Amico, or movi guerra e va’ per ogne terra e va’ ventando il mare, dona robe e mangiare, guadagnaargentoedoro, amassagrantesoro: tutto questo che monta?

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Ira, fatica ed onta hai messo a l’aquistare, poi non sai tanto fare che non perde in un motto te e l’aquisto tutto.

Sempre nel Tesoretto i consigli che dà Larghezza al cavaliere rientrano nel quadro di una moderata generosità: è giusto che il gentiluomo spenda alle-gramente, ma dovrà altresì «salvar l’agostaro», attenendosi al freno posto dal-la stessa Larghezza. Inoltre, chi dona deve farlo senza indugi; è meglio dona-re poco prontamente che molto standoci troppo a pensar su (vv. 1398-1426)

Che quelli è largo, e saggio, Che spende lo danaro Per salvar l’agostaro. Però in ogne lato Rimembri di tuo stato, E spendi allegramente: […] E se cos’addivenga, Che spender ti convenga, Guarda, che sia ’ntento, Sì, che non paje lento: Che dare tostamente È donar doppiamente; E dar come sforzato, Perde lo dono e ’l grato. Che molto più risplende Lo poco, chi lo spende Tosto, e con larga mano, Che quel, che di lontano Dispende gran ricchezza E tardi, con durezza.

In ogni caso, Larghezza vieta categoricamente al cavaliere di ottenere denaro mediante l’usura:

Ancor abbi paura D’improntare a usura; ma se ti pur convene aver per spender bene, prego che rende ivaccio, ché non è bel procacio né piacevol convento didiecerendercento: già d’usura che dài nulla grazia non hai.

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La condanna dell’usura e di chi presta “a unzino” è ribadita nella Pene-tenza (vv. 2775-2795):

E un altro per impiezza a la zara s’avezza e giuoca con inganno e per far l’altrui danno sovente pigna ’l dado e non vi guarda guado; e ben prestaaunzino emettemalfiorino; e se perdesse un poco, ben udiresti loco biastemiare Dio e’ santi e que’ che son davanti. E un altr’è, che non cura di Dio e di Natura sì doventa usoriere e in molte maniere ravolge suo’ danari che li son molto cari; non guarda dìe né festa, né per pasqua non resta, e non par che li ‘ncresca, pur che moneta cresca.

Nondimeno, «anche Brunetto si attiene qui […] alla teoria “borghese” della nobiltà (gentilezza) morale piuttosto che ereditaria (tesi scolastico stil-novistica, ma in realtà più antica, per esempio data come ovvia in Andrea Cappellano)»;32 ci sono persone tacciate di essere mercenarie che invece mostrano nei fatti molta più generosità dei cosiddetti “gentili” (1704-1714):

E ben ci son persone D’altra condizïone, Che si chiaman gentili; Tutti altri tengon vili Per cotal gentilezza; Et a questa baldezza Tal chiama mercenajo, Che più tosto uno stajo Spenderia di fiorini, Ch’esso de’ picciolini. Benchè li lor podere Fossero d’un valere.

32 Contini, Poeti del Duecento, cit. II, p. 235.

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Lontanissima, questa prospettiva da quella, ad esempio di un Monte An-drea, che in Tanto m’abonda, cercando convergenze fra lessico economico e stile della poesia, sosteneva l’importanza del possesso concreto del Tesoro, che è «corona» e «dritta mostra» dell’uomo.33 Eppure

Sono, non già pochi, ma, dico, molti ch’ànno boce di proseder richezza, e sono avari pien’ di cupidezza; mìsiri, pigri e nel tuto scharsi! Quelli cotali da li ben’ son tolti! (Lor cose parno lor nel tuto streme!). Nom pote frutto bono aver lor seme, né l’animo ditalifiorpagarsi! E sono e’ richi? No! Ché nonn-è loro (ma ssottopost’ i son), ch’amassarooro! é sonne serbatori e guardïani!

Neppure Brunetto Latini, sia chiaro, condanna l’economia monetaria, anzi secondo lui il denaro è giustizia senz’anima, un modo cioè per compa-rare misure e merci di valore differente (Tresor, II, 29, 2):

Et por ce fu denier trové premierement, que il igalassent les choses qui desigals estoient. Et denier est ausi come justise sens arme, por ce qu’il est un mi par quoi les choses desigals tornent a igalité. Et puet l’en baillier et prendre les granz choses et les petites par deniers: et il est .i. ensturment par cui le juge puet faire justise, car denier est loi sens arme, mes li juges est loi qui a arme et Dieu glorious est loi universel de toutes choses.34

Ma la posizione di Brunetto è intermedia, portavoce appunto di un gruppo di uomini ben preciso, che aspirava ad una crescita intellettuale oltre che sociale e pecuniaria. Non dissimile, del resto, era la posizione di Dante, che nell’invettiva contro i chierici avari di Paradiso 9, vv. 127-142 parla di Firenze, nata dal seme di Lucifero, che produce e ovunque sparge il «maladetto fiore», ossia il fiorino, la moneta che suscitando l’ingordigia di ricchezza ha trasformato i pastori (gli ecclesiastici) in lupi. Inoltre, come ha convincentemente messo in rilievo Maffia Scariati:

La presenza nei due atti [rogati da Brunetto Latini] di non poche personalità menzionate nell’Inferno, con una concentrazione nei canti dei suicidi e de-gli scialacquatori e dei peccatori contro natura (XIII-XVI), oltre a confermare

33 Cfr. G. Santini, Rime care e lessico economico in Monte Andrea, in Lessico, parole-chiave, strut-ture letterarie del Medioevo romanzo. Atti del Convegno internazionale di Studi (Università degli Studi della Calabria, 24-25 novembre 2000), Roma, Il Bagatto, 2005, pp. 375-397.

34 Brunetto Latini, Tresor, a cura di P. Beltrami, P. Squillacioti, P. Torri e S. Vatte-roni, Torino, Einaudi, 2007, p. 384.

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il carattere fortemente fiorentino e municipale dei canti del settimo cerchio, evidenzia una possibile componente sociale dei sodomiti, peccatori contro na-tura, per Dante molto vicini agli usurai, violenti, gli ultimi, contro Natura e contro Arte, con sede d’elezione in Francia («Soddoma e Caorsa», Inf. XI 50). I due atti esaminati confermano pienamente la comunanza sociale e una certa promiscuità tra letterati-chierici-prelati d’alto bordo e mercanti-banchieri.35

Possiamo insomma concludere che, anche se dare un nome all’autore del Fiore sembra ad oggi impossible, si può invece di certo offrire un quadro che ne individui, almeno culturalmente e sociologicamente, le qualità. Certo estremamente competente nel maneggiare gli strumenti essenziali della po-esia comica, non è autore borghese in senso proprio. Chi alla fine trionfa nel poemeto, infatti, è Amante-Durante e il suo (per)durare: perché, a norma ovidiana e, conseguentemente, a norma cortese, «Vincit qui patitur»: chi la dura, la vince e chi la dura, prima o poi trova il guiderdone del Dio d’Amore, scaccia il villano che lo ha bandito dal giardino del piacere, rientra in forze, armato, nel giardino e (ri)conquista il «fiore aulente» che è dato dalla città e dalla ricchezza che essa confida ai suoi. Esiliato, di parte guelfa e vicino alla status aristocratico dei magnati, o comunque ad esso aspirante, forse della piccola nobiltà, l’autore del Fiore conosce bene l’importanza dell’economia monetaria e del denaro, conosce e certamente parla molto bene il francese, ha vissuto, probabilmente da esiliato, in Francia ed è tornato in un’amatissi-ma patria, anche mediante le ricchezze procurate dal fiorino. Infine, forse, la presenza dell’unico codice latore a Montpellier potrebbe essere indizio del fatto che gli interessi, economici e culturali, dell’autore per il mondo d’oltralpe possano non essersi esauriti con il suo rientro a Firenze.

35 Maffia Scariati, rec. a R. Cella, cit., p. 250.

Il fiorino d’oro.