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Premessa degli editori
Gli egittologi traducono t s'aï n sensen, il titolo del celebrato papiro egiziano, con
Libro del Respiro o talora Libro delle Respirazioni. I sacerdoti dei templi di Saqqara e di
Luxor recitavano i sortilegi e gli esorcismi contenuti nel Libro del Respiro con una fede
profonda nel loro potere magico di restituire il fiato alle ombre dell’oltretomba. Il testo
del papiro ci è pervenuto in caratteri ieratici. Nel dare alle stampe la traduzione del
papiro, la prima ad apparire in lingua italiana da un secolo a questa parte, abbiamo
ritenuto opportuno premettervi il resoconto degli incidenti verificatisi tra il 1998 e il 1999
nel corso del lavoro di traduzione. Dapprincipio il traduttore ha lavorato al manoscritto di
t s'aï n sensen conservato al Museo di Berlino nella cosiddetta Trascrizione Brugsch; più
tardi ha adottato il manoscritto no 3284 conservato al Museo del Louvre di Parigi nel
Catalogo Devéria, che a suo parere è meno interpolato. La nostra gratitudine, congiunta a
quella del traduttore e autore del presente resoconto, va al personale di entrambi i musei.
Paul Heinemann & Heirick Secker
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Il libro del respiro
PRIMA PARTE
Non mostrare a nessuno questo papiro.
È di beneficio soltanto a colui che,
Confinato nella necropoli,
Rinasce infinite volte nel fiato della verità.
t s'aï n sensen, § 1
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Di solito riesco a risalire di sogno in sogno fino al respiro che esalo nell’istante in
cui cado addormentato. Questo respiro arriva preceduto ogni volta da un pensiero
inarticolato, sempre lo stesso; è il mio congedo dalla tirannia dei fatti, delle decisioni,
delle conseguenze logiche. Il diaframma rinuncia a governare i polmoni, il cuore si
arrende al ritmo del sonno, non sono nè vivo nè morto: mi volto le spalle e corro via. Se è
vero, come dicono, che la poesia imita l'andamento naturale del fiato, il Libro del Respiro
andrebbe interamente tradotto nella cadenza sedata del respiro che accompagna quel mio
ultimo pensiero elusivo prima del sonno.
Athu nifu em-bah au xu er t'eru pet: è la traslitterazione dell’esorcismo in
caratteri ieratici che il Libro del Respiro consacra alla trasmissione del fiato
nell'oltretomba. Non avevo mai sospettato, prima di incontrare Dalia, che in questa
formula fosse celata la musica segreta della respirazione perfetta. Proviamo a tradurre:
«Inspiro l'aria salubre alla presenza del Dio glorioso al limite dei cieli» una semplice
proposizione modificata da un complemento di relazione e uno di luogo. Se si fa a meno
della punteggiatura, alla maniera dei geroglifici egiziani, queste parole finiscono tutte
quante infoltite in una frase dal ritmo indeciso; l'effetto recitativo è l'opposto del rito
egizio, che dovrebbe restituire l'armonia della respirazione a chi l'ha perduta. Ma basta
inserire una virgola, una pausa di sospensione, perché si instauri una subordinazione di
clausole del tutto fuori luogo: «Inspiro l'aria salubre alla presenza del Dio glorioso, al
limite dei cieli». In questo modo ci si trova a speculare se il defunto debba arrampicarsi
fin su in cima, «al limite» del paradiso, dove le onde dei cieli si increspano nella vetta
pietrificata che lo riporterà in vita, oppure se sia la benevolenza del Dio, la «presenza»
che risiede in quelle arie rarefatte, a restituirgli il respiro smarrito.
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Ma queste sono quisquilie dettate dalla tirannia della sintassi, quando si cerca di
tradurre il linguaggio delle ombre in quello logico dei viventi, che si articola in fatti,
decisioni, conseguenze. La questione della trasmigrazione delle anime una questione
musicale, in fondo, fatta di arie, armonie e risonanze si cambia, per ragioni di
punteggiatura, in una toponomastica del paradiso. Dov'è stazionato il Dio? Dov'è il perno
dell'universo, rispetto al defunto in caduta libera e all'etere in fuga perenne?
«Il segreto sta nel diaframma», mi raccomandava Dalia, nel letto tra le mie
braccia ignara, lei che aveva polmoni da maratoneta, che il passo a cui inspiravo ed
espiravo, esorcizzando il terrore dell’asma e della respirazione troncata, dipendeva dal
mistero del suo volto. Aspiravo, intanto che inalavo l'aria profumata tra le sue labbra, alla
ininterrotta vicinanza del suo volto, e del lungo collo che lo completava, e del corpo
flessuoso, come di palma, che gli faceva da colonna di sostegno.
Nel Libro del Respiro il simbolo di Dalia è l'airone ad ali spiegate; incapace di
posarsi, persino a notte fonda, leva grida stridenti al funerale del fratello, restituisce il
dono del respiro al suo cadavere prostrato, e non trova pace se non impregandosi del suo
seme... Ma sto parlando col senno di poi. Un paio d'anni prima, al tempo del nostro
incontro a bordo d’un aereo diretto a San Francisco, conoscevo soltanto gli scrupoli di un
mondo dominato da fenomeni tangibili: il mondo in cui la mia respirazione dipendeva
dalla coordinazione involontaria di polmoni e diaframma, e il mio cuore non era che un
muscolo fuori esercizio. Più tardi cercai il senso del mio legame con Dalia nei fatti del
nostro adulterio, nei fatti crudi del sesso con lei; ma non dedicavo a queste riflessioni che
i brevi intimi istanti della quiete che precedeva il sussurro d'un suo invito o d'una mia
provocazione, oppure le implorazioni vicendevoli con cui imponevamo alle nostre
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membra l’arrendevolezza della creta. E rimanevo cieco all'evidenza dei nostri volti,
perché in essa era negata la barriera di cause ed effetti che ci separa dall'oltretomba.
Mi assopivo sempre dopo il sesso con Dalia per quanto brevemente, per quanto
avessimo appena le mattinate da spartire. «Dimmi a cosa pensi» chiedeva, toccandomi
ancora. «A niente» mormoravo sul filo del respiro, mentre un caleidoscopio inarticolato
di immagini, combinandosi e scombinandosi dietro la mia retina, sedava la mia coscienza
d'un umore che mi era familiare come lo strascico d'un residuo sospeso a mezzo tra
reminiscenza e oblio. Un istante di torpore, e mi riprendevo bruscamente, affannato,
sforzandomi di aggregare i rimasugli sparpagliati di tanti pensieri sfuggenti; ma non
potevo discernere la coesione di quei frammenti, né forzarli a rivelare la loro speciale
rilevanza nella storia delle nostre due vite. Se tornavo a chiudere gli occhi scorgevo,
sepolta in qualche piega segreta della mia memoria, la scena d'un bambino in calzoncini
corti e col mio volto che correva nelle braccia d'una donna sconosciuta.
Non ho mai detto nulla a Dalia di questo ricordo incompleto. Il rosario di parole
destinato a rovesciare questo ricordo nella trama della nostra storia d'amore, l’ho incubato
molto a lungo fino ad oggi, per l’esattezza.
Quel pomeriggio a Parigi, all'aeroporto Charles de Gaulle, ero l'unico dei
passeggeri internazionali che indossasse una mascherina antifumo. Mi preoccupava di
venire scambiato per un ambientalista. Ero solo con me stesso. Tenevo spiegata tra le
mani una copia della Stampa, acquistata il mattino a Torino, che non riuscivo a leggere
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nel trambusto di comunicati e contro-comunicati. A causa della mascherina, ero sbirciato
con sospetto dal personale dell'aeroporto e dalla massa dei fumatori assembrati alle porte
d'imbarco. Guardavo i miei futuri compagni di viaggio sciamare di boutique in boutique,
come impegnati in una elaborata cerimonia di separazione dai beni terreni. Dopo 96 ore
insonni m'aleggiava nella mente un'apprensione, piuttosto che una premonizione, di
estinzione corporea; era un sentimento ridicolo nel carnevale di quel grande aeroporto,
ma la foschia delle sigarette, resa spettrale dalla luce delle vetrate, impediva a questo mio
stato mentale di dissolversi. Le voci elettroniche dei comunicati di servizio echeggiavano
nella mia testa come una litania funebre, priva d'ogni vestigia d'intonazione umana.
Tossicchiavo pure, discretamente, malgrado la protezione della mascherina. La
tosse, un colpo dopo l'altro, era la prova che respiravo con i miei soliti bronchi
ipersensibili prova sufficiente, questo tremore cocciuto della cassa toracica, che ero
vivo, niente affatto estinto o in via di estinzione. Vivo... né più né meno di quanto lo ero
stato nei 35 anni che avevo trascorso fin’allora sul nostro pianeta. Ma nelle ultime 96 ore
non avevo smesso per un attimo di pensare alla morte.
Prima di quel viaggio non avevo concepito la morte che come una faccenda
d'ordine professionale. Due decadi di scavi archeologici in Egitto, Siria, e Palestina mi
avevano familiarizzato colla mortalità di tanti estranei: cadaveri di ardua esumazione
faraoni, dignitari, principesse sepolti in cripte irraggiungibili. Ma quattro giorni prima
tutti gli orologi si erano fermati e tutti gli aeroplani avevano preso a mormorare lo stesso
lamento soffocato. Il mattino della morte di mia madre avevo fatto carte false pur di
presenziare al funerale in Italia; avevo rinviato le mie lezioni alla facoltà di archeologia di
Stanford e acquistato, a un prezzo da strozzino, un volo San Francisco-Torino via Parigi.
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Poi, la sera, il mio aereo era rimasto sulla pista di decollo per cinque ore di fila con tutti i
passeggeri a bordo, dopodiché ci avevano sbarcati a causa di un guasto al motore. Avevo
trascorso gran parte della nottata in coda al check-in dell’Air France per ottenere un'altra
prenotazione per l'Italia. Al momento di reimbarcarmi, era risultato che mi era stato
assegnato un biglietto di classe turistica su un volo diretto a Milano anziché a Torino. Il
giorno dopo ero sbarcato anchilosato all'aeroporto della Malpensa, da dove un taxi mi
aveva trasportato fin sulla porta di casa alla Crocetta depositandomici nel preciso
momento in cui mio padre e mia sorella rientravano in macchina dal cimitero.
Tre giorni di conversazioni desolate… Mi sembrava di essere un uccello di
passaggio, intrappolato nel mezzo del tragitto e segregato nella voliera sbagliata. Tre
giorni di desolazione, intervallati da due notti insonni e il baratro d'un silenzio
insostenibile, nero e denso come catrame. Per la prima volta in tanti anni avevo mancato
la visita di rito al direttore del Museo Egizio in Piazza Carignano. Oggi ero sulla via del
ritorno a Palo Alto in tempo per tenere la lezione sulla Troia di Omero e la Troia di
Schliemann che avevo fatto rimandare all'indomani. Sapevo di essere vivo ma a tratti, a
lampi, nel crepuscolo fumoso dell'ala riservata alle partenze internazionali del Charles De
Gaulle, avevo come l'impressione che la mia scorta di linfe vitali si andasse rapidamente
essiccando. Alla Malpensa, poche ore prima, avevo brigato inutilmente per ottenere un
upgrade alla prima classe. Avrei tanto voluto dormire.
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La mia relazione con Dalia è cominciata su quell'aereo diretto negli Stati Uniti. Si
è annunciata in un baleno, stordendomi dalla sorpresa, tal quale un atto del destino o il
proverbiale colpo di fulmine gratuito e irrevocabile, ma non meno gratuito, o
irrevocabile, della coincidenza che aveva assegnato un passaggio in classe turistica ad
una passeggera in lista d'attesa, in transito dal Cairo e diretta a San Francisco via Milano,
proprio mentre io negoziavo senza successo, a Milano, l'acquisto di un biglietto in prima
classe. Una coincidenza? È quel che ho ritenuto a lungo, nel riflettere sul senso del mio
legame con Dalia. Così come mi sono illuso a lungo che il cuore non c'entrasse in questa
nostra vicenda, se non in quanto muscolo, docile attrezzo anatomico. Ma intanto, a mia
insaputa, due mani furtive rimuovevano effettivamente il cuore dal mio petto e ci
pompavano dentro tutto l'ossigeno del creato... Ma ecco che sono tornato a parlare col
senno di poi.
Chi può dire quando comincia l'avventura di due amanti? Qual'è la scintilla, il
neurotrasmettitore che innesca l'esplosione? Anche prima di cominciare con Dalia, le
domande di questo tipo mi erano parse curiosità oziose, considerazioni compiaciute,
adatte a riempire tutt’al più un momento di pausa complice tra due adùlteri. Fu due anni
dopo quel volo, nel momento in cui, inspiegabilmente, la nostra relazione raggiunse un
punto di stallo, che cominciai invece a cercare il conforto di queste spiegazioni. Se mi
limitassi ad affermare che d'un tratto Dalia mi si rifiutò, sarebbe non proprio una
menzogna ma un eufemismo. Nell’atto del rifiuto si manifesta inevitabilmente una
predisposizione a giustificare la propria decisione, a spiegarsi; per di più, il rifiuto rivolto
ad un amante è una dichiarazione di guerra, riconosciuta come tale dal momento in cui
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viene proclamata apertamente. Invece, nel nostro caso, non ci fu offensiva di sorta ma
piuttosto un ritrarsi graduale, scaglionato nel tempo.
Non mi riusciva di capire. Un po’ come gli scribi di Teta e Mer-en-ra, costretti a
trascrivere combinazioni di geroglifici di cui non comprendevano il significato, non
riuscivo a decifrare i motivi di Dalia. Per indovinare, dietro la barriera di silenzio che ci
separava da diverse settimane, il futuro che si prospettava alla nostra relazione, non
potevo che ricorrere alle ragioni del passato. Quello, il nostro passato comune, mi era ben
noto: due anni di adulterio metodico, la misteriosa scintilla che li aveva innescati, il
segreto dell'attrazione che ci aveva reso spietati ed egoisti a spese degli altri.
E mi trovai gradatamente a comprendere che il nostro incontro in aereo era stato
preceduto non solo preceduto ma persino predisposto, direi dall’altro passato che ci
accomunava, un passato più autentico di quello che mi era noto. Avevo trentasette anni,
Dalia trentadue. Erano passati due anni dalla morte di mia madre. Furono i fatti (la uso a
bella posta questa parola disarmante, fatti, capace come nessun’altra di esorcizzare la
verità) furono i fatti, nudi e crudi, anziché le mie cogitazioni, a convincermi che il
nostro legame era cominciato 30 anni prima di quel volo diretto a San Francisco, e
precisamente il giorno in cui Dalia, neonata, aveva posato gli occhi sul fratello maggiore,
Rami Michel.
Abitavo in un edificio nel cuore di Palo Alto, in un appartamento attiguo a quello
dove vivevano Dalia, suo marito Seto, ed il loro bambino, Ayako. Non me la sentivo di
traslocare per il momento. Ma se fosse risultato che era del tutto finita tra me e Dalia,
sarei stato svelto a sgombrare: per niente al mondo avrei tollerato di leggere ancora i miei
libri, tradurre il Libro del Respiro, o preparare le mie lezioni con gli occhi sulle lenzuola
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del letto che avevamo diviso tante volte, accanto alla finestra che dava sulla cucina
dell'appartamento di Dalia. Sprecavo interminabili ore solitarie in quella camera, la
nostra camera, seduto allo scrittoio tra il letto e la finestra. La carta rosa da parati si
accartocciava sui bordi tra il muro e il battiscopa, sfaldando sotto i miei occhi la risma
degli strati di carta da parati cui era stata sbrigativamente sovrapposta dai locatari che mi
avevano preceduto. Fissavo a lungo la superficie ineguale della parete, incantato; a tratti
vi vedevo trasparire, qua e là, come in filigrana, come il rilievo evanescente d’un timbro a
freddo, l’ombra dei nostri due spettri avvinghiati.
Dalia così come la vidi quel primo giorno in aereo e come continuai a vederla
per tutta la durata di questa storia, non mi è possibile raccontarla. Se mi limitassi a
descriverla dalle fotografie, risulterebbe una donna attraente piuttosto alta, snella e con
caviglie quasi perfette, i capelli d'un rosso non troppo acceso, e un naso importante e
affilato, ereditato dalla madre egiziana. Una combinazione di dettagli, avevo sovente
speculato nel riserbo della nostra intimità, destinata ad eclissare chiunque si fosse trovato
a scortarla in pubblico, in un bar, mettiamo, un hotel, o al ristorante. (A parte Seto ed
Ayako, nessuno ci aveva mai visti insieme.)
Questo sarebbe comunque un resoconto a due dimensioni, limitato alla mimesi
ingannevole di una riproduzione fotografica. La mia esperienza di Dalia era tutt'altra
cosa: non mi riusciva di vedere il suo viso in tre dimensioni… Non m'era mai riuscito. Il
corpo sì, quello lo distinguevo bene: i seni, le natiche, le gambe, l'osso pubico, o la nuca
quando le baciavo il collo sotto i capelli. Quante volte, mattinata dopo mattinata, avevo
contemplato la costellazione di efelidi, un dono genetico del padre belga, distribuita
lungo il suo ventre; quante volte avevo palpato le escrescenze impercettibili di quelle
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efelidi, da che ero divenuto locatario in quel nostro mausoleo rosa… L'edificio, una bassa
costruzione in Cowper Street, era di proprietà del marito. Come molti divi dell'elettronica
in Silicon Valley alla fine degli Anni Novanta, Seto era ricco sfondato; prima di sposare
Dalia le aveva imposto un contratto prematrimoniale. Il giorno in cui lei, a letto, mi aveva
rivelato: «Quel ch'è suo è suo, e quel ch'è mio è mio», le avevo chiesto: «Che cos'hai di
tuo, per l'esattezza?» Con le dita di entrambe le mani aveva dischiuso sotto i miei occhi la
parte più segreta del suo corpo, nella maniera indecente ch'è tollerabile soltanto agli
amanti. Ho un'immagine perfettamente vivida di questo ricordo il lucido della fessura,
il rosso cupo del pelo. Eppure il suo volto non potevo dire di averlo visto veramente mai,
se non in fotografia; e ora so, col senno di poi, che le fattezze ritratte in quelle foto
mentivano.
Come sono cambiate le cose da allora, com'è cambiato il suo volto! Ogni giorno,
il mio smarrimento di fronte a Dalia viene smorzato dalla sua vicinanza. Pago però un
prezzo esorbitante per questo privilegio. Ho imparato a camminare fianco a fianco con gli
spettri d’oltretomba, anche in pieno giorno; mi scortano, mi incrociano, mi attraversano
in rapide gelide folate all’altezza del cuore e sono spietati ed egoisti, giusti soltanto
verso i propri cari. Non posso sapere se il volto di Dalia tornerà mai ad apparirmi nei
lineamenti inscrutabili con cui mi si mostrava al tempo di cui parlo. Ma quando, prima di
dormire, credo di intravvedere nuovamente quel profilo noto e terrificante, rievocato da
una eco nella voce con cui mi augura la buonanotte, avverto di essere a un passo dalla
follia. Quando, punto da quell'eco, indugio un istante di troppo nella zona d’ombra che
separa l’incoscienza dalla veglia, sento Delia parlarmi dell’amore più spaventoso che ci
sia.
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Tutto ciò che è visibile ha il carattere della comunicabilità, persino il volto
enigmatico con cui Dalia mi si presentò quel giorno in aereo. La scorsi di spalle
dapprima. Dalle occhiate involontarie che mi lanciava l'assistente di volo, compresi o
credetti di comprendere che quella sconosciuta dai capelli rossi stava litigando perché
non voleva sedere nella poltrona assegnatale, accanto alla mia. E la mia reazione,
immotivata, fu di correre in bagno a lavarmi i denti. Nella confusione dell’imbarco,
nessuno ci fece caso. Non appena tornai a sedere, cominciò il capogiro. Non fu tanto a
disturbarmi il fatto che venni accolto con un sorriso d'una spontaneità sconcertante, né
che la mia vicina di posto, dando per scontato che parlavo la sua lingua, mi rivelò subito
il proprio nome («Je m'appelle Dalia Nadeau») senza stare a informarsi del mio; e mi
confidò senza indugio che era di ritorno dal funerale del fratello Rami. (Due anni più
tardi, non le avevo ancora rivelato il motivo, egualmente luttuoso, di quel mio viaggio in
Italia.) L’autentica sorpresa non venne neppure quando, durante le operazioni di decollo,
Dalia sollevò il bracciolo che ci separava, poggiò macchinalmente il capo sulle mie
ginocchia, e si addormentò. C'era di che provare disagio; oppure risentimento,
considerando che pochi minuti prima non pareva disposta, o almeno così m’era parso, a
sedermisi vicino; o anche il franco timore d'avere a che fare con una squilibrata. Invece,
ero sconvolto dal suo volto! Non era mai lo stesso: mutava ininterrottamente sotto i miei
occhi con la la rapidità d’una reazione nucleare, distraendomi da tutto il resto.
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Mentre Dalia dormiva in quella posizione incongrua, cercavo di persuadermi che
il suo era un volto come un altro, tutt’al più con un che di particolarmente attraente. Ma
non c'era verso di fissarlo in una fisionomia precisa. Avevo a mia disposizione un volo di
dodici ore per farlo, ragionai, ma al nostro arrivo a San Francisco, dopo aver alternato
qualche fugace sonnellino alle lunghe chiacchierate inconcludenti che finimmo per
scambiare, non c'ero ancora riuscito; né ebbi maggior fortuna nei due anni che seguirono.
Conoscevo bene la sua città d’origine dai giorni che videro nascere la mia
passione per i papiri ieratici e demotici. Quand'ero ancora studente di dottorato, mi erano
stati assegnati i rilievi di un minuscolo sito archeologico a sud di Saqqara. «Il problema
del Cairo è che l'aria è irrespirabile a causa dell'inquinamento» le dissi. «Troppi taxi di
modello antiquato, e il governo non si preoccupa di limitare il fumo che sputano dai tubi
di scappamento».
«Ma non le è capitato di respirare cogli occhi quando passeggiava per quelle
strade pullulanti di gente? Non respirava colla mente quando gli amici la trattenevano
fino all'alba a discutere in un bar del centro? Palo Alto è una morgue, al confronto».
«Lei fuma, allora?»
«Solo al Cairo. In America non c'è gusto».
«Io non potrei fumare anche se volessi. E dai bar fumosi del Cairo ho imparato a
stare alla larga. Sono stato sul punto di perdere un pezzo di polmone nella sua graziosa
città, sa?»
Ma né queste chiacchierate né i pasti gomito a gomito nel nostro minuscolo
abitacolo mi erano d’aiuto nel fissare la sua fisionomia in un’immagine mentale definita.
Vedevo il suo viso mentre mangiava, mentre sonnecchiava, mentre chiacchierava da
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una molteplicità di angoli diversi; un viso naturalmente predisposto al sorriso. Ne
coglievo tanti scorci parziali, e ciascuno scorcio sembrava scaturire da un fenomeno
ottico diverso. Poi smettevo di guardarla, e mi riscoprivo incapace di assemblarne
un'immagine mentale coerente. Quando schiacciavo un pisolino, avevo l'impressione di
una rivelazione imminente ma sempre rinviata: mi pareva che, dietro le mie palpebre
chiuse, il viso autentico di Dalia si stesse man mano distillando nella goccia della propria
essenza, alla maniera d’una parola sospesa sulla punta della lingua, sul punto di svelarsi.
Distinguevo mille volti diversi nel viso di Dalia, e non c'era nessuno di questi volti
infiniti, nessuna di queste facce sensazionali, che non…
Ma vedo che è arrivato il momento di fare una precisazione importante. Il luogo
comune vuole che un volto strepitoso lasci l'osservatore senza fiato; mille volti strepitosi
sovrapposti dovrebbero provocare, pertanto, un effetto di soffocamento. Ma la verità è
l'opposto, per chi ha trascorso la vita a rincorrere il respiro come un fantasma, a baciare
l'aria inalata come faccio tutt’oggi come la più cara delle benefattrici: per quelli come
me il colpo di fulmine non arriva accompagnato dall'affanno, dal batticuore, o dalla
morsa dell'asma. Fu dalla mia respirazione stranamente regolare, indifferente alle
esalazioni di odori e profumi ed ossigeno riciclato che trasformavano gradatamente il
guscio metallico dell’aeroplano in un difettoso polmone d’acciaio, che compresi d'essere
di fronte al miracolo.
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Seto, il marito di Dalia, venne inaspettatamente a trovarmi una sera che pioveva a
dirotto. Ero suo inquilino da quasi due anni e Dalia non si faceva vedere ormai da più
d'un mese. Stavo esaminando gli scritti di Vivant Denon, l'egittologo al seguito
dell'armata napoleonica, quando un presentimento oscuro mi fece interrompere la lettura
e scendere nel vestibolo dell'appartamento. Spalancai la porta che dava sul cortiletto
interno e mi trovai Seto di fronte, lì impalato sul mio stuoino, esposto alla pioggia
battente. Con un lembo della giacca, faceva schermo ad un volume di dimensioni
ingombranti. Non appena mi vide, da perfetto idiota, fece un inchino alla giapponese.
«Ma Mr. Sasanuma, cosa fa lì sotto la pioggia? Venga dentro, forza, venga
dentro».
Entrò scrollandosi come un cane fradicio. Nel vedermelo inaspettatamente di
fronte, m'era baluginato il sospetto di aver scordato di pagargli l'affitto quel primo del
mese. Il mese scorso m'ero limitato a consegnare l'assegno a Dalia, mentr'era qui da me;
lei, nascosta sotto le lenzuola, s'era divertita a fare innocenti allusioni alla professione
della meretrice.
«Professor, ho bisogno del suo aiuto» Seto disse senza mezzi termini. Mi si
rivolgeva sempre con quell'epiteto, "Professor", pronunciato con un accento che si voleva
alla tedesca. Avevo l'impressione che ci fosse dietro un tocco di umorismo giapponese,
ma non gliene avevo mai domandato conferma.
Lo condussi in cucina e gli offrii un whiskey per prendere tempo. Sapeva
qualcosa di me e Dalia? Che Dalia avesse completamente perso la testa e confessato
tutto? Avanzando verso di lui con un bicchiere in mano, notai che gli s'era formata una
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pozza d'acqua piovana sotto i piedi. Seto colse la direzione del mio sguardo e fece per
scusarsi.
«È soltanto acqua, amico mio, non stia a preoccuparsi» lo anticipai, nel tono
paternalistico che assumevo sovente con lui, quasi mio malgrado. «Ecco qua. Prosit». Gli
diedi il bicchiere e sedemmo l'uno di fronte all'altro al tavolo della cucina.
«Lei non mi tiene compagnia, Professor?» disse.
«Magari mi bevo quell'acqua, più tardi» risposi, puntando l'indice alla volta della
pozza sul pavimento. Invece di ridere, estrasse il grosso volume da sotto la giacca e lo
posò sul tavolo con fare cauto, come se contenesse fogli di dinamite.
Non potevo più temporeggiare: «Mi dica cosa la preoccupa, Mr. Sasanuma». Per
due anni m'ero voluto convincere che Seto fosse uno di quei mariti accomodanti che
chiudono un occhio sulle promiscuità della moglie. Cominciavo a non esserne più troppo
certo.
«Guardi qui» disse, indicando vagamente il grosso volume sul tavolo.
Prima che potesse spiegarsi, allungai impazientemente una mano ed aprii il
volume a caso. «E questo cosa diavolo è!» esclamai, senza reprimere un tono infastidito.
Si trattava di un album di fotografie; le foto, disposte a due a due, mi ricordavano troppo
gli anni prima del divorzio, quando la mia intera vita pareva destinata a snodarsi in un
rosario di diapositive compleanni e onomastici, natali e capodanni, e le immancabili
visite agli suoceri.
Seto aveva preso la mia domanda alla lettera. «È l'album di famiglia di Dalia»
rispose, asciugandosi la faccia con una mano, come se stesse piangendo.
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Si era illuso di intenerirmi con questo dispiego di immagini domestiche? Adesso
mi avrebbe mostrato magari anche le diapositive della loro luna di miele alle Bahamas,
con tanto di resoconto documentario? Sapevo per certo che Dalia aveva voluto arrivare
illibata alla prima notte di matrimonio. Più indietro di tanto non andavano, le mie nozioni
dei loro trascorsi; non mi interessavano. La perfezione dell'adulterio, avrei voluto
spiegargli, è che non si regge sulle consolazioni della memoria. Dammi ancora un po’ del
tuo tempo, Didone manda a dire a Enea: nessuna messe di ricordi compensa un nuovo
abbraccio, un'occasione per tornare ad instillare il veleno della passione.
Imbarazzato dalla mia irritazione, Seto sfogliava malinconicamente le pagine
dell'album di fotografie, intanto che si faceva ruotare il bicchiere nel palmo della mano.
Io avevo distolto risolutamente lo sguardo, ma dopo poche pagine la mia attenzione s'era
risvegliata: quelle foto non erano quel che m'ero aspettato... Riconoscevo voglio dire,
avevo l’assurda impressione di riconoscere le immagini di istantanee che non avevo mai
visto prima! Ero talmente spaesato dalla sorpresa che dapprima le parole di Seto mi
lasciarono indifferente: «Dalia ha un amante, Professor, ne sono certo».
Quando mi resi finalmente conto del senso della sua dichiarazione, non so quale
impulso sadico mi indusse a posargli una mano solidale sulla spalla. La lana della giacca
era più fradicia di quanto avessi pensato.
«Cosa le fa pensare che Dalia abbia un amante?»
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«Le tengo qui nascoste, vede?» rispose incongruamente. Spalancò il volume
all'ultima di copertina e ne estrasse una larga busta gialla. Dentro la busta c'erano le foto
in grande formato di Dalia in compagnia d'un uomo baffuto sui quarant'anni. «Si chiama
J. J. Bernhard, è un neurofisiologo, viene da Roma».
«J. J. Bernhard?» ripetei con un risolino, riconoscendone la fisionomia.
Quell'inverno il famigerato J. J. Bernhard era ospite della facoltà di studi religiosi a
Stanford. Lo avevo incontrato in un paio di occasioni semi-ufficiali. «Ma non è un
teologo?» Non ero sicuro dove cominciava lo scherzo. «A me risulta che J. J. Bernhard
sia un teologo».
«J. J. Bernhard» confermò lui senza umorismo. «È un neurofisiologo romano.
Dalia segue un suo seminario sull'endofasia non mi chieda di cosa si tratta, non ci
capisco niente… Viene da Roma».
Gli strappai le foto di mano e le dispersi sul tavolo, col panico d'un intruso
incappato per errore nel set di una telenovela. «Si è servito di una agenzia di
investigazioni?» era la domanda da copione. Gliela feci, serio.
Umettandosi le labbra contro il bordo del bicchiere, Seto fece un cenno di
assenso, seguito da una contrazione delle spalle, come per giustificarsi. Poi aggiunse: «Il
detective m’ha consegnato queste foto oggi pomeriggio, a casa, proprio mentre Dalia e
Ayako rientravano dall’asilo infantile. Le ho subito cacciate dentro questo album».
Le foto, una dozzina, erano state scattate in due o tre occasioni separate: Dalia in
compagnia d'un uomo bruno con baffi neri imponenti; lei e lui seduti al tavolino d'un bar;
i due sottobraccio in un vialetto di Palo Alto. Attaccai a mescolare le foto come se
fossero carte da gioco in formato gigante. Scuotendo il capo senza rassegnazione, mi
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dicevo, atterrito, che Seto e i suoi detective erano caduti in errore non potevano aver
ragione! E un istante più tardi avevo compreso di non essere tanto atterrito dalla
prospettiva del tradimento di Dalia quanto dall’impressione, invece, che se lei mi tradiva
davvero, non poteva essere con quel teologo romano. Era questa impressione a
spaventarmi a causa della sua arbitrarietà. Riaprii l'album di fotografie con lo scrupolo
dello studioso, in cerca di conferme.
«J. J. Bernhard, eh?» mormorai con un'alzata di sopracciglia.
«L'amante di Dalia…»
«Ma perché lei viene a raccontarmi queste cose!» urlai, sorprendendo me stesso.
Seto buttò giù un sorso di whiskey. «Lei è l'amico di Dalia» cercò di giustificarsi
con un sorriso di autodeprecazione. «Non immagina quanto Dalia sia cambiata,
Professor, da quando lei è venuto ad abitare qui da noi. A volte mi sembra di non
riconoscerla».
«Come sarebbe a dire, cambiata? Di cosa mi sta accusando, Mr. Sasanuma?»
Agitò il bicchiere con enfasi. «No, per favore, Professor, non mi fraintenda.
Cambiata in meglio, intendo dire. Non soffre più di quei suoi sbalzi d'umore. Non va più
in cerca di mansioni precarie nelle librerie o nelle gallerie d'arte di Palo Alto. Non passa
più il tempo a firmare petizioni che dovrebbero cambiare il mondo». Fece una pausa per
prendere fiato: «… fino a un mese fa ha fatto la mamma a pieno tempo, come dovrebbe».
In un’occasione diversa sarei scoppiato a ridergli in faccia, ascoltando il marito
fare le lodi dei miei effetti benefici sulla donna con cui facevo l’amore da due anni. Ma
non avevo l’energia per il mio solito sarcasmo. Mi interessava soltanto esaminare l'album
delle fotografie. Posai la punta dell'indice sull'istantanea di un ragazzo sconosciuto. «Chi
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è?» gli chiesi. Il mio pomo d'Adamo aveva preso a palpitare con un violento senso di
anticipazione, come se da un momento all'altro il cuore, per sfuggire l'ansia che mi
premeva il torace, dovesse balzarmi in gola.
«È Rami, il fratello di Dalia, no?» Seto disse in tono sorpreso. «Pensavo che lei
conoscesse bene la famiglia di Dalia, Professor. Non aveva insegnato al Cairo per
qualche tempo?»
Questa, dunque, era la faccia di Rami Michel, il fratello morto di Dalia? Non che
non avessi avvertito i suoi maneggi, prima di quel giorno, dietro le quinte dei miei sogni,
non che non avessi presagito la sua presenza impalpabile al fianco mio e di Dalia, in certe
occasioni forse di già, persino, a bordo dell'aereo in cui l’avevo incontrata la prima
volta... Eppure, faccia a faccia coll’evidenza d’un volto identico al mio, non mi riusciva
di accettarla. «Perché mai dovrei conoscere la famiglia di Dalia!» replicai bruscamente.
«Mi sembrava che Dalia avesse detto… Ma lei non aveva partecipato al funerale
di Rami?» Vedendomi scuotere di nuovo la testa in senso di diniego, e ignaro di quel che
cercavo di negare, pensò che fosse in risposta alla sua domanda. «Forse ricordo male…»
Sorseggiò il whiskey. «Dalia ed io scherziamo spesso sulla sua somiglianza con Rami»
disse in tono conciliante. «Siete due gocce d’acqua».
Il ragazzo nella foto, sui dodici anni all'incirca, era il mio sosia. Ripresi a sfogliare
il volume con un senso di fatalità. Fu un po' come se mi rivedessi adolescente, ragazzino;
col basco di traverso e gli occhialini tondi sotto il poster di John Lennon; in un gruppo di
gita scolastica, lungo un muretto sullo sfondo della Tour Eiffel; in una polaroid scattata
sotto l'androne del Dakota, inconfondibile meta di pellegrinaggio a New York, dove
Lennon era stato assassinato tanto tempo prima, nel 1980. Poche pagine dopo
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un'adolescente imbronciata e un po' inibita compariva al fianco di Rami, entrambi in posa
di fronte alla cancellata del Museo del Cairo. Da principio stentai a riconoscere Dalia;
quei tratti acerbi lentigginosi non corrispondevano all'immagine nebulosa che m'ero fatto
del suo volto adulto. Posai un dito tentativo sulla foto. «Dalia» dissi.
«Dalia» Seto confermò meccanicamente. Da quella pagina in avanti non c'era foto
in cui il fratello non comparisse al fianco della sorella. «Gli investigatori scovano sempre
Dalia in compagnia di J. J. Bernhard». Seto continuava a confidarsi: «Quando esce da
sola la sera, è per vedere lui. Persino stasera, ne sono sicuro. Le ho detto: “Dalia, con
questa pioggia!” Ma non c'è stato verso di trattenerla. Allora ho messo Ayako a letto e
sono venuto da lei, Professor».
«Ayako è troppo piccolo per rimanere a casa incustodito» dissi.
«Ha già quasi otto anni».
«Appunto, non ha ancora nemmeno otto anni. In California è illegale» commentai
inutilmente.
«Avevo bisogno di parlare» rispose con un gesto affranto.
Inarcai le sopracciglia senza replicare, salvo un mugugno di sufficienza. «Dove si
incontrano per fare sesso?» dissi, girando la pagina dell'album di Dalia. E nel preciso
istante in cui assaporavo la crudeltà deliberata delle mie parole, i miei occhi si posarono
sulla sorpresa più inaspettata, quella d'una mia istantanea! Io, Gian Balsamo, all'età di
vent'anni, i capelli ancora intatti, seduto in una sdraio di tela sulla terrazza
dell'appartamento della Crocetta a Torino, il mio sguardo obliquo rivolto al giardino
attiguo, dove avevo giocato da bambino con la erede d'un impero di gomme
d'automobile. Non si trattava del mio gemello cairota, sebbene nessuno salvo me avrebbe
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colto la differenza; sembrava una foto scattata al Cairo, in Garden City. Invece: ero io.
Dalia m'aveva sottratto questa istantanea a mia insaputa; ricordavo d'avergliela mostrata
molto tempo prima, spiegandole che era l'unica mia immagine da giovane che non
detestassi. Ed ecco dov’era finita, tra le foto del fratello.
«Non c'è verso di scoprirlo» disse Seto.
Mi schiarii la voce. Doveva aver smesso di piovere perché il rumore sibilante che
aveva fatto da sottofondo alla nostra conversazione s'era interrotto di colpo. Andai a
spalancare la finestra della cucina, spinto dal bisogno di debellare l'odore stantio degli
abiti fradici di Seto. Tornai a schiarirmi la voce, sorpreso dall'assenza del rantolo che
accompagnava di solito il lamento dei miei polmoni. Una pace dolce mi penetrò a fondo
mentre inalavo l'aria fresca di fuori; la sentivo invadermi, colmarmi di una fiducia
rinnovata che voleva come dilatare il benessere silenzioso dei miei polmoni. Tossicchiai
ancora una volta, per il piacere di verificare la fermezza della cassa toracica.
Poi smisi di fingere con me stesso e, dando tuttora la schiena a Seto, mi arresi alla
certezza viscerale che Dalia non aveva la forza di farla finita con me. Mi avrebbe
affrontato, in caso contrario, me l'avrebbe detto in faccia. Con il silenzio, invece, cercava
di forzare me a prendere l'iniziativa, a respingerla magari per ritorsione. Cosa c’entrava J.
J. Bernhard in questa faccenda? Dovevo scoprirlo al più presto! Non avrei rinunciato
troppo facilmente ai conforti dei nostri arrangiamenti: il sesso con Dalia in tarda
mattinata, mentre il sole californiano bruciava il negativo del suo corpo abbronzato sullo
sfondo delle lenzuola; il pasto frugale consumato gomito a gomito in questa cucina, in
piedi di fronte alla finestra aperta su un cielo perfettamente blu... Ero più che mai deciso
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a rivendicare quel ch'era mio, quel che di Dalia era mio a costo di scendere all'inferno e
strapparla al fratello.
«Non c'è verso di scoprirlo» stava dicendo Seto.
«Scoprire cosa?» dovetti domandare, colto alla sprovvista. Le lenti degli occhiali
gli facevano due occhi da cernia.
«Il posto dove si incontrano per fare l'amore».
Quella notte non sono più tornato agli scritti di Vivant Denon. Ho camminato a
lungo nella quiete del mio appartamento, attraversando ciascuna stanza con una specie di
cautela in un passo cerimonioso che mi riportava puntualmente alla nostra camera, dove
compivo diverse volte il periplo del letto. Evitavo di toccare checchessia, in modo da non
spostare nessuno degli oggetti che, in un linguaggio impregnato di ricordi, mi
promettevano il ritorno di Dalia. Pedinavo il suo spettro. La sua nudità più bianca, lo
capivo, più lentigginosa e più nuda dell'originale filtrava in forme cremose e lattiscenti
attraverso il rosa della carta da parati. La stringevo tra le braccia mentre la sua scia si
separava dal muro e mi si avvolgeva intorno alle gambe come la coda d'un pitone albino.
Mi venivano alla mente le occasioni in cui Dalia era tornata nel letto accanto a me dopo
un rapido spuntino in cucina, colla bocca ancor piena di cibo; io mi ero gettato sulle sue
labbra come se fossero capezzoli, succhiandone una polpa resa succulenta dalla sua
saliva. Ma adesso, nel mio andirivieni attraverso l’appartamento, concentravo soprattutto
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l’attenzione sulla splendida assenza del mio solito tremore al torace, la sensazione quasi
anestetica che mi aveva pervaso poco prima, in compagnia di Seto, accompagnata da un
profondo respiro regolare ed un inspiegabile senso di invulnerabilità.
«Non puoi pensare di gettarmi via come un Kleenex usato.» L'indomani matttina
avevo sollevato automaticamente la cornetta del telefono e digitato il numero di Dalia.
«Gian, sei tu?… Ascolta, non ho il tempo di parlare adesso».
«È più di un mese che non trovi il tempo per me, Dalia» dissi d'un fiato. «Vuoi
farmi impazzire?» Sentivo un rumore, come di plastica cava, nel ricevitore; stava
aprendosi un varco coi piedi, evidentemente, tra i giocattoli di Ayako, ch'erano sempre
sparsi sul pavimento della cucina.
«Sarà un mese solo domani» replicò sotto voce.
Ammutolii, spiazzato per un momento dalla sua precisazione: si sarebbe detto
ch'ero stato io ad abbandonare lei. «Un mese senza sesso è lungo, Dalia». Ascoltavo il
suo respiro nel ricevitore. Non avrebbe replicato alla mia volgarità. «Niente sesso per me,
almeno» aggiunsi con una inflessione sardonica.
«Non metterla così, Gian. Cosa credi, che io… Ma davvero, devo uscire, non ho
tempo per questa »
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«No, no, no» la interruppi bruscamente, alla maniera cairota che avevo appreso da
lei. «A dar retta a Seto, siete casti pure voi due! A meno che ti sia già trovata un
diversivo».
Non avevo ottenuto l'effetto voluto, malgrado l'enfasi che avevo messo nelle mie
parole. «Seto?» sussurrò in tono allarmato. «Hai parlato con Seto?»
«Non dirmi che adesso ti preoccupi delle reazioni di Seto! È un po' tardi, mi
pare».
Al tempo del nostro primo incontro, andavo a letto con due dottorande di
Stanford, Stella e Clare, l'una all'insaputa dell'altra. Stella, una classicista al secondo
anno, si occupava della tipologia del mito omerico. Non era una ragazza brillante ma
sapeva sfruttare la propria avvenenza per ottenere privilegi in biblioteca e finanziamenti
saltuari per la ricerca. La primavera scorsa si era rifatta viva colla richiesta che le venissi
assegnato come direttore di tesi, strappandomi il consenso col ricatto morale della
maniera in cui avevo troncato la nostra relazione. Clare era una dottoranda in biologia
che si riprometteva di contribuire alle ricerche sull'immortalità cellulare. Di tanto in tanto
assisteva per divertimento a qualche mia lezione nell'istituto di archeologia, ma reputava i
miei eroi dei viaggi d'oltretomba Ulisse, Orfeo, etc. alla stregua di fossili polverosi.
Avevo sempre preferito lei a letto. Un mese dopo il ritorno dall'Italia e l’incontro con
Dalia avevo sbrigativamente chiuso con entrambe.
«Quando hai parlato con Seto?» Dalia tornò a chiedere.
Finsi di non aver sentito. «Ho appena detto: a meno che tu non abbia già un nuovo
diversivo».
«Oh, Gian, lo sai bene che non sei mai stato un diversivo per me».
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Le credevo, infatti. «Non ti credo». Si era spostata dinanzi alla finestra della
cucina, il cellulare all'orecchio. Io ero rimasto seduto, guardandola dallo scrittoio; le luci
delle due finestre si incrociavano attraverso il cortiletto. Continuai: «Come mi definiresti,
allora. Un sostituto di Seto, un surrogato?…» Provavo la solita vertigine di fronte alla
girandola dei tratti del suo volto.
«Quando hai visto Seto? Cosa t'ha detto?»
La sua domanda mi impedì di giocare la carta della mia somiglianza col fratello.
Meglio così: avevo telefonato d'impulso e mi rendevo conto di non avere un piano
d'azione.
«Tuo marito è passato a trovarmi ieri sera. Avresti dovuto vederlo sotto la
pioggia, zuppo come una spugna. Sarà un cervellone ma credimi, non è convincente
come genio. Non ho mai capito cosa ci trovi, tu, in Seto. A proposito di pioggia…»
M'accorgevo di parlare a raffica, per risentimento. «Anche tu non scherzi, pare, con la
pioggia. Ti sarai goduta la passeggiata al bagnato, ieri! Ti limiti ad usare l'ombrello, in
questi casi, o esci direttamente in costume da bagno?» Mi strinsi un labbro con i denti per
smettere di parlare a vanvera. Non volevo esasperarla, o che troncasse la comunicazione.
«Il costume da bagno non farebbe molta differenza quando diluvia. Non è il
momento di scherzare, Gian».
«Perché non vieni da me, Dalia. Sei sola in casa, no? Vieni, ti prego».
Ignorò l'invito: «Perché è passato da te? Cosa voleva?»
«Ti riferisci a Seto?» La buttai sul casuale, meschinamente. «Si sentiva solo.
Voleva fare due chiacchiere. Non gli sei di troppa compagnia, dice, ultimamente. Esci da
sola la sera...»
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«Gian, perché hai chiamato proprio oggi? Cosa mi nascondi?»
«Ma cosa vuoi che ti nasconda, io, Dalia? Per te sono un libro aperto... Seto
voleva solo chiacchierare». Guardavo fissamente la costellazione verde dei suoi occhi
attraverso i vetri della finestra. Poi mi sentii confessare in tono ferito: «M'ha mostrato le
foto di Rami». Ero anche sul punto di menzionare le foto scattate dai detective, ma
desistetti quando la vidi portarsi una mano al cuore, a coppa sul seno, come per
contenerlo. Mi schiarii la voce per smorzare il suo silenzio. «Rami» ripetei in un
sussurro.
Poteva vedere la piega irresoluta assunta dalle mie labbra? Cosa stavo cercando di
ottenere con queste maniere da guastatore? Dalia rimaneva in silenzio in quella posizione
dinanzi alla finestra, come trafissa, la mano sul cuore. Tacevo pure io. Ma quanto sono
morbose, irresistibili, le mosse false in amore … L'ondata di fiele provocata dalle mie
parole m’aveva dato un giramento di testa, seguito da un momento di strana lucidità. Ero
andato a letto con Dalia per due anni di seguito, e soltanto adesso, al telefono con lei, ne
sospettavo la ragione. Mi aveva sfoderato come un guanto, in questi due anni,
resuscitando Rami nel mio rovescio. Per Dalia la dissacrazione di tombe non era un
mestiere, come per me; non si alimentava di documentazioni cartacee ed aumenti di
stipendio. Iside, la dea-uccello, che raccoglie i resti tumefatti del fratello Osiride e lo
restituisce alla vita, impregnandosi del suo seme? ... dopo che avrà percorso il pianeta in
lungo e in largo coi suoi lamenti, dopo che avrà sorvolato il cadavere del Signore della
Necropoli. Ci credevo davvero, a quel che stavo pensando? Avrei veramente osato
crederci? E lei, se glielo avessi detto, ci avrebbe creduto?
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«Ti richiamo fra un paio d'ore, Gian. Ho fretta… devo vedere un tizio». Si ravviò
una ciocca di capelli con l'antennina del cellulare.
«A quest'ora del mattino venivi a trovare me, una volta».
«Ti richiamo».
Non era stato sull'aereo diretto a San Francisco che mi ero innamorato di Dalia,
ma la settimana dopo, quando avevo deciso di fare una visita di cortesia a quella mia
strana compagna di viaggio. Ero curioso di rivedere quei mille volti dalle fattezze
squinternate. Mi aveva offerto un caffé. («Non tocco una tazza di the da più di dieci
anni». «Moi non plus».) Ci eravamo seduti nella cucina ingombra dei giocattoli di Ayako,
che quel giorno era indaffarato a smontare il monitor d'un vecchio laptop. Conversando
con lei, avevo teso agguati ai tratti del suo volto da ogni angolazione, solo per ritrovarmi
ogni volta a un niente di fatto.
Suo figlio mi aveva ricordato tantissimo il mio, Alberto, di cinque anni più
grande, che vive in Italia colla mamma, Elsa. E mi era saltato dritto in grembo, come un
gatto, proprio come faceva Alberto ogniqualvolta Elsa ed io ricevevamo qualche
visitatore gradito.
Avevo spiegato a Dalia di questa coincidenza. Lei aveva replicato con
nonchalance: «Attento agli strali, Gian». Un'osservazione degna della mia amante
classicista, Stella. Ma Stella l'avrebbe corredata d’una citazione latina dei versi
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dall'Eneide dove Ascanio, il figlio di Enea, si fa portatore delle frecce di Cupido, e nel
balzare tra le braccia di Didone, le trafigge il cuore; Dalia, invece, si era limitata a lasciar
cadere l'allusione, così, senza pretese.
«Non mi piacciono le donne che perdono la testa per amore», avevo replicato,
pensando a Elsa, la madre di Alberto, piuttosto che a Didone.
Dalia aveva risposto con un non-sequitur. «Non tema, Dottor Balsamo. (Due
giorni più tardi ci davamo del tu.). Io non ho ancora mai ucciso nessuno per amore».
«Nemmeno Didone ha mai ucciso nessuno per amore».
«Salvo se stessa, salvo se stessa».
«Ho visto un cartello d'affitto nel prato di fronte» avevo detto d'impulso.
L'edificio dove Dalia viveva col marito, nel centro di Palo Alto, era un singolare ferro-di-
cavallo a due piani, rosa-bomboniera, con veneziane color crema alle finestre. Dovevo
esserci passato di fronte parecchie volte senza mai farci caso, prima di quel pomeriggio.
«Seto, mio marito, ha comperato questa palazzina in Cowper Street col primo
anno di stipendio alla Omega.com». Non le era sfuggita la mia smorfia. «Sì, un anno di
stipendio… Seto è uno dei cervelloni dell'elettronica importati dal Giappone il decennio
scorso».
«Quando il Giappone dettava legge».
«Paese che vai… Adesso che l'economia giapponese è in crisi, qui in Silicon
Valley non assumerebbero un tecnico giapponese nemmeno se lavorasse gratis».
«L'avete scampata bella».
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Si era stretta nelle spalle. «Oh, non so, con Seto non si è mai trattato di
scamparla, come dice lei. Credo che Seto ormai possegga una bella fetta della
Omega.com».
«Crede … ?» enfatizzai.
«Qual'era l'attività preferita di suo figlio… ehm… si chiama Alex, vero?»
«Veramente si chiama Alberto» precisai, senza farmi sfuggire quest’altro non-
sequitur. «Non saprei» dissi. «A Natale gli piaceva soprattutto accumulare le scatole dei
regali. Poi ci costruiva fortificazioni, barricate, abitazioni immaginarie…»
«Non è proprio quel che intendevo ma fa comunque al caso nostro. Ai maschietti
piace accumulare di tutto, specialmente cose inutili. Poi diventano adulti, si trasferiscono
in Silicon Valley, e continuano a fare la stessa cosa». Aveva roteato gli occhi per indicare
che l'argomento era chiuso. «Ad ogni modo» continuò, «noi diamo in affitto le due ali e
viviamo nell'appartamento di mezzo».
Io avevo insistito con la meticolosità del professore: «Ma non è che vi servano i
soldi».
«Seto era un computer analyst prima di diventare CEO della Omega.com». Aveva
fatto un gesto con il dito indice, come per avvitarselo dentro la tempia. «I computer
analysts sono fatti così. Prendere o lasciare».
«Lei prende anziché lasciare, mi pare di capire».
La sua espressione mi diede dell'impertinente. Intanto avevo smesso di scrutarle il
volto. Abbassai lo sguardo per sorbire un goccio di caffé, avvertendo gli spilli dei suoi
occhi che mi esaminavano. Quando tornai ad alzare lo sguardo, la sorpresi intenta a
studiare il mio viso, non meno intensamente di quanto avevo fatto col suo.
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Mi ero trasferito l'indomani stesso, e in quel mausoleo rosa avevo trascorso i due
anni più appaganti della mia vita. I problemi respiratori, svaniti come per incanto! Le
ipocondrie, tutte risolte. (Dopo l'arrivo a Torino, in ritardo per il funerale di mia madre,
avevo fatto una doccia e indossato un accappatoio e un paio di vecchie ciabatte. Le suole
delle ciabatte, inutilizzate da tempo, dovevano essersi deformate perché avevo subito
provato una pressione fastidiosa sotto il tallone destro. Non avevo indossato quelle
ciabatte che per pochi minuti, il tempo di bere un caffelatte in cucina, ma il fastidio s'era
tramutato in un dolore sordo e continuo, uno dei miei soliti mali psicosomatici, che mi
tormentava ancora due giorni dopo, al Charles de Gaulle di Parigi fino al momento in
cui, seduto di fianco a Dalia, ne ero inspiegabilmente guarito… )
È a questo modo che J. J. Bernahrd arrivò a colonizzare la mia vita amorosa. Da
principio Dalia s'era iscritta al suo seminario sulle voci interiori di Ildegarda da Bingen.
Poi, a causa della sua reputazione da esorcista, lo aveva consultato sulla voce interiore
che la tormentava da tempo a proposito della quale non s'era mai confidata con me, in
due anni! Della reputazione di J. J. Bernhard, non avevo bisogno di essere messo a parte.
Eclettico come teologo cattolico, residente al Vaticano ed autore di diversi volumetti di
poesia, J. J. Bernhard era sovente trattato da millantatore; ma di recente i suoi versi che
certi critici cattolici bollavano alla stregua di sproloqui farneticanti avevano provocato
un'ondata di fervore tra lettori americani d'ogni età e classe sociale. Non c'era di che
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stupirsi se Seto aveva immaginato che J. J. Bernhard s'occupasse di tutt'altro anziché di
religione. Ma in questo momento, aggrappato al ricevitore del mio telefono come ad una
ciambella di salvataggio, scoprivo che Dalia, del tutto a mia insaputa, era diventata una
discepola devota di J. J. Bernhard. La ascoltavo disquisire sulla tecnica sessuale del
"coito riservato". In mattinata, J. J. Bernahrd aveva dedicato il proprio seminario alla
maniera in cui gli asceti Agori della città di Benares troncano a mezzo il rapporto
sessuale, allo scopo di sospendere il flusso della vita e il passaggio del tempo, e in tal
modo conquistare la morte.
Dalia mi aveva richiamato non appena di ritorno dal suo impegno in città, e
stavolta voleva parlare.
«Abbiamo mai parlato assieme, tu ed io, Gian? Parlato veramente?»
«Non di cose inessenziali» liquidai la domanda, messo sulla difensiva dal tono
della sua voce.
«Ricordi quando t'ho posato il capo in grembo, su quell'aereo?»
Il tono con cui parlava mi riportava alla mente le discussioni logoranti che, dalla
revisione degli errori trascorsi alla stipulazione di comuni aspettative future, avevano
accelerato il mio divorzio da Elsa. Avevo sulla punta della lingua un'altra replica
tagliente, quando il seguito delle parole di Dalia mi lasciò ammutolito: «Avevo vegliato
Rami per tre settimane, notte e giorno. Ero sfinita, ma non al punto da dormire in grembo
a uno sconosciuto. Come t'ho visto, identico, tale e quale a Rami, m'è scappato un
gemito. Mi sono turata la bocca con una mano, l'assistente di volo se n'è accorta e m'ha
chiesto se c'era qualcosa che non andava… Pochi minuti dopo t'ho posato il capo in
grembo, e mentre mi assopivo ho sentito una voce, così chiara e distinta che pensavo
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fosse l'assistente di volo a rivolgermi di nuovo la parola. Ma l'assistente di volo non
m’avrebbe parlato in quel patois che mi era così familiare, mezzo arabo e mezzo
francese. La voce di Rami mi ha riempito di sollievo, e mi sono sentita soverchiata, dopo
tutti quei giorni e quelle notti trascorse a odiarlo al suo capezzale. Mi sono sentita… mi
sono sentita bella. Per la prima volta dal funerale di Rami, avevo la sensazione di fare
una cosa giusta».
Fino a quel giorno m'ero premurato di relegare gli enigmi dello spiritismo alle
tombe dei siti archeologici; ci mettevo un certo scrupolo nel farlo, e anche un certo
orgoglio. «Una voce interiore… Non starai dicendo sul serio». Il suo sbuffo nel ricevitore
mi disse che non era il momento di parlarle con sufficienza. Allora chiesi avvilito se era
venuta a letto con me soltanto perché assomigliavo a Rami, oppure perché gliel'aveva
detto il fantasma del fratello, di farlo. Prima che lei potesse contraddirmi, diedi un altro
giro di vite: «Quando hai cominciato a fare l'amore con tuo fratello?»
«No, no, no, no, Gian!» rispose, assumendo la più aggressiva delle sue inflessioni
cairote. «Perché non ti tappi la bocca e mi dai retta? Hai mai visto qualcuno morirti
lentamente sotto gli occhi? Non t'ho mai parlato dell'agonia di Rami, vero? Eh già, tu sei
un esperto di tombe, ma dei cadaveri che ci risiedono non t’importa un gran che. Aveva
sempre le lacrime agli occhi, Rami, ma se gli domandavo il perché, negava di piangere.
Ti ho mai detto del suo degrado fisico, in quella cameretta d'ospedale? Dipendeva
completamente da me. E aveva imparato a riconoscere l'esasperazione stampata sul mio
volto. Mi insultava come se la sua malattia fosse colpa mia. Gli rispondevo per le rime,
come se fosse tutta colpa sua, invece. Ripugna completamente, sai, lo spettacolo di uno
che ti lascia a quella maniera. Vorresti… Sono due anni che mi sveglio nel cuore della
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notte con l'impulso di correre a pregare sulla sua tomba. Sogno di inginocchiarmi, gli
chiedo perdono».
Cocciutamente, con un sibilo persistente in gola, replicai che tutto questo non
aveva nulla a che fare con noi due, che io ero vivo, vivo... e avevo appena messo lenzuola
fresche nel mio letto. Al che Dalia ritorse con uno dei suoi non-sequiturs: mi ero mai
domandato perché era arrivata vergine al matrimonio? Non mi diede il tempo di
rispondere: «Per i primi trent'anni della mia vita sono stata una donna onesta, Gian. C'è
un girone nell'inferno riservato agli adulteri come noi. Ogni notte prego Rami di aiutarti a
capire. Perché m'ha gettata nelle tue braccia? Perché è tornato da me… nelle tue spoglie?
Ogni notte, a letto, Seto… Prima di dormire Seto mi agguanta come un lottatore.
Mormora tra sé in giapponese, mi chiama la sua geisha frigida. Poi sprofonda subito nel
sonno ed io sono talmente svilita che non trovo neanche la forza di asciugarmi tra le
gambe. Ti aspetteresti davvero che l'indomani mattina io venga da te in cerca di
consolazione? Prego Rami »
«Non capisco perché continui a vivere con Seto »
«Mia madre è cristiana copta e m’ha insegnato che il sacramento del matrimonio
è indissolubile. Non sono stata una buona moglie per »
La interruppi a mia volta: «E così che trascorri le notti, a colare sperma?»
«No. Trascorro le mie notti implorando Rami di mostrarmi la via. Dormo a stento
negli ultimi tempi. Voglio ritrovare il mio amor proprio. Sono certa d'aver frainteso la
voce che mi parlava su quell'aereo, ci ho messo due anni per capirlo…» Una pausa, e poi:
«Devo spiegarti qualcosa dell'uomo che ho appena visto in Palo Alto…»
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Equivocavo più sopra, quando ho detto che J. J. Bernhard colonizzò la mia vita
amorosa. Avrei dovuto dire che, per tramite suo, la brama di immortalità che aveva
infettato Silicon Valley sulla scia del boom dell'Internet finì coll’inquinare il mio amore
per Dalia. Al pari di chiunque altro (salvo probabilmente J. J. Bernhard), non m'ero reso
conto delle implicazioni profonde di quel che stava succedendo in quegli anni dalle parti
di Palo Alto. Da quattro anni a quella parte, Silicon Valley stava generando il più grande
volume di ricchezza mai prodotto nella storia dell'umanità. Era un fenomeno
completamente virtuale, beninteso, basato su meri impulsi digitali danaro per tutti, a
bizzeffe, ma senza traccia di moneta cartacea. Eppure, proprio in quell'assenza di
tangibilità, in tutta quella ricchezza immateriale, un numero crescente di persone
cominciava a vedere la possibilità di concretizzare molti sogni un tempo irrealizzabili,
primo fra tutti, l’immortalità. E nessuno era del tutto indenne da questa fantasia. Seto era
stato tra i primi a concepire una forma d'immortalità individuale, ottenibile, nei suoi
disegni, per mezzo della memoria elettronica. Clare, la mia ex-amante, era ossessionata
dalla ricerca dell'immortalità cellulare. Presumo che J. J. Bernhard fosse l'unica persona,
nell'intera vallata, ad aver previsto questi sviluppi e preso misure adeguate, incluso il
tempismo del suo trasferimento dall'Italia: come ogni nuovo culto, questo della vita
eterna ad appannaggio dei ricchi californiani necessitava d’un suo profeta…
La voce di Dalia nel ricevitore aveva intanto concluso la rassegna dei meriti del
suo guru. Non mi sentivo di biasimarla. Come sapevo da tempo, le credenziali di J. J.
Bernhard, per quanto sospette, erano di carattere eccezionale, ed i risultati dei suoi
esorcismi venivano per lo più considerati inoppugnabili.
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«È piuttosto semplice, capisci?» Dalia continuò. «Gli ascetici Agori hanno ridotto
gli esercizi della respirazione yoga ad una variante del rapporto sessuale. La ritenzione
del piacere nel coito e la ritenzione del respiro nello yoga ottengono lo stesso risultato, la
condizione di Samadi, che consiste nella sospensione del tempo e la soppressione della
morte. Questo, Gian, è l'unico tipo di intimità che tu ed io possiamo ancora condividere.»
«Mi stai domandando di smettere di respirare?» dissi con un opprimente senso di
futilità.
«Lo sai benissimo quel che ti sto domandando».
«No, non penso di saperlo. Dimmi, che cosa?»
«… di restituirmi Rami, riportarmelo tra le braccia… Ti sto proponendo di
practicare il sesso casto degli Agori e sfuggire alla presa del tempo, noi tre insieme, tu, io,
e mio fratello… fuori del tempo, fuori della morte.»
«Non siamo eremiti indiani, Dalia. Casti? Tu ed io? Vuoi farmi ridere?»
Avevo alzato il tono di voce ma lei replicò con un sussurro: «Vuoi che mi metta
in ginocchio? Non posso più fare sesso con te, Gian, sarebbe terribile continuare. È
contro la mia religione, contro i miei principi. Ma se non mi aiuti, come pensi che possa
riuscire a smettere da sola?... smettere di pensare di farlo, smettere di fantasticare che lo
sto per fare, giorno dopo giorno, ogni volta che non sono a letto che lo faccio con te?
Possiamo dividere la mia anima, Gian, e il mio cuore, e anche il corpo tutto, salvo il
sesso».
Non volevo darmi il tempo nemmeno di considerare questa proposta, che, sentivo,
scaturiva direttamente dalle ciarlatanate di J. J. Bernhard. Ero pronto, per tutta risposta, a
sibilare un no deciso, quando la situazione si ribaltò, quasi di propria iniziativa. La mia
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camera s’era come rimpicciolita e adesso si colmava di qualcosa, una specie di
pulviscolo, che non era nell'aria poco prima. Cercavo di respirare a bocca spalancata ma
ogni respiro sollevava un'invisibile tempesta che mi otturava i bronchi. E non appena
arrivavo a riempirmi i polmoni d'ossigeno, mi accorgevo di non poterli più vuotare.
Serrai gli occhi e me li sentii trafitti da mille pupille dure e scure, mille spilli di una luce
verde infinitamente cangiante. Ciononostante, un sentimento di panico mi induceva a
tenere le palpebre serrate, nel timore che altrimenti i miei occhi si sarebbero aperti su una
muraglia d'aria pietrificata. Mi ascoltavo parlare in un ansimare prolungato, dicevo a
Dalia che non potevo respirare senza di lei, che il mio cuore impazziva, che l'avrei amata
persino se… «Non trovo le parole, Dalia». Emisi un paio di rantoli. «Ti darò tutto quel
che mi chiedi, farò tutto quel che vuoi. Ma ti prego, torna qui da me. Adesso, vieni,
subito...»
L'ultimo respiro che esalai quella notte prima di dormire mitigò il disorientamento
del dialogo che avevo scambiato al telefono con Dalia. Questo respiro era arrivato
accompagnato dal solito pensiero evanescente che mi emancipava ogni notte dalla
tirannia dei fatti, delle decisioni, delle conseguenze. Quale fosse esattamente, il contenuto
di questo pensiero sull'orlo dell'inconscio, non avrei saputo dire neanche quella notte; ma
lo riconobbi dall'agglomerato di stati d'animo ed emozioni che, a giorno fatto, avrei
agevolmente ricostruito nella scena della corsa d'un bambino slanciato ad abbracciare una
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donna sconosciuta. Cos'era seguìto a questo respiro e a questo pensiero? Sapevo d'essere
sprofondato oltre la barriera della veglia. Sapevo d'essermi voltato le spalle per correre
via, lasciando cuore e polmoni a ventilarsi, come catalettici, di qua dal mondo dei sogni.
Non sapevo, non potevo ricordare altro.
La vigilia avevo guardato con un misto di avversione ed attrazione il turbine
verde degli occhi di Dalia nella finestra della sua cucina; non mi riusciva di separare la
forza del mio desiderio dall'ambiguità con cui lei lo aveva deflesso, in questi due anni,
nella memoria del fratello. Ma che cosa era successo al mio desiderio quella notte, dopo
la seconda telefonata, dopo il nostro strano patto di castità? Cosa m’era successo mentre
ero addormentato a pochi passi di distanza da lei, separato appena dalla parete sottile che
divideva la mia camera da letto da quella che lei spartiva con Seto? Che mi avesse
seguito nei meandri del sonno, quel corpo che da un mese mi si rifiutava? Che fosse
svanito anch'esso nel disfarsi della coscienza, come il mio, nel correre lontano da sé? Ed
eccomi lanciato, se Dalia era veramente quella donna a braccia spiegate nel mio sogno,
ed io veramente quel bambino eccomi lanciato di corsa verso il nostro abbraccio. E se
fossi stato io, al contrario, a seguire il corpo di cui non sapevo più privarmi,
oltrepassando nel sogno la paratia che ci divideva nel sudario del suo letto coniugale,
nel miraggio d’un coito senza peccato?
Il mio desiderio, la mia passione, il mio affetto si schiudono ogni notte, come
quella notte, nel respiro finale con cui sigillo le ore della veglia. Insieme a questo repiro
debutta il solito pensiero inarticolato, i cui tenui legami coi fatti della giornata affondano
nella ripetizione incessante del sogno. Una ripetizione, sì, ma di quale esperienza
esattamente, e schermata dietro quali e quanti strati di inconsapevolezza? In fondo, torno
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spesso a ripetermi, perché dovrei pormi ancora di queste domande, quando Dalia sta
sempre qui al mio fianco, da allora, il giorno e la notte?
Quel mattino mi svegliai di ottimo umore e corsi subito allo scrittoio, a digiuno,
dove il mio esemplare del Libro del Respiro giaceva indisturbato da un mese. Tradussi
indisturbato fin verso le dieci.
Ti sei trasformato nella pietra nera scaturita dal sole,
Ti sei trasformato nella cenere nera scaturita dal sacrificio,
Ti sei trasformato nella gemma nera scaturita dal Dio.
Sei divenuto pietra,
Sei divenuto cenere,
Sei divenuto gemma.
Sei divenuto grande,
Sei divenuto possente,
Sei divenuto maestro degli scritti nella dimora del libro sacro.
Papiro di Anx-v-n-Xonsu (10a Colonna, 3a Invocazione)
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Lavoravo alla traduzione del Libro del Respiro da circa un anno. Il papiro in
caratteri ieratici depositato al Museo di Berlino è stato tradotto in latino da Heinrich Karl
Brugsch intorno al 1855. Di questo papiro possedevo una riproduzione fedele, mentre
non avevo ancora messo le mani sul papiro conservato al Louvre di Parigi, che risale,
come il manoscritto berlinese, all'epoca dei Tolomei. Copie di analoghi papiri sono state
ritrovate nei sarcofaghi di sacerdoti e sacerdotesse del Dio Sole. La prima traduzione
inglese risale al 1875 a opera di P. J. de Horrack, mentre la prima traduzione italiana è del
1904 a opera di Astorre Pellegrini.
Al momento di intraprendere questo progetto di traduzione, nessuno degli
individui coinvolti nella mia relazione con Dalia pareva destinato ad una fine tragica:
Dalia non sembrava aspettarsi altro dai nostri incontri se non i benefici di un desiderio
appagato; Seto conniveva, consapevole o meno, con la nostra tresca; Ayako era
l'amichetto di tutti i giorni con cui trascorrevo più tempo a giocare, nel cortiletto di casa o
nella mia sala da pranzo, che non il padre legittimo. Dal momento dell'incontro con Dalia
avevo scordato, da parte mia, la sensazione dei polmoni squassati dall'asma e, sollevato
della mia solita, opprimente condizione di spossatezza, m'ero imbarcato (con qualche
velleità artistica, lo confesso) nella traduzione del Libro del Respiro. Quando Dalia mi
chiedeva le ragioni di questo mio progetto, continuavo a celarle, non so per quale istinto,
la coincidenza dei due funerali, quello di Rami e quello di mia madre, che ci avevano fatti
incontrare. Ci parlavamo a lungo ed elaboratamente tra le lenzuola quasi ogni mattina,
dopo che Ayako are stato recapitato a scuola ma davvero, non è che ci dicessimo mai
nulla di rilevante.
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A letto confrontavo il ritmo del suo respiro da podista, monotono e regolare
persino nell'imminenza dell'orgasmo, col passo breve e accelerato del mio. Che ansimassi
un po’ troppo affannosamente durante il sesso, Dalia se ne era accorta fin dal principio.
«Inspira più a fondo» diceva. «Il sesso è come una maratona. Devi imparare a fare leva
sul diaframma». Ma mi estasiava che i polmoni, invece di asfissiarmi, si limitassero alla
demenza che precede la breve apnea dell'orgasmo. E che alla prima avvisaglia del mio
piacere, le reni di Dalia si contraessero in perfetta sincronia. A letto con lei era come
essere acrobati da circo. Imitavamo il volo degli uccelli, agganciati ai trapezi e trampolini
immaginari fornitici da lenzuola, guanciali, pareti, materasso, pavimento e testiera. Per
quanto fossimo entrambi smagriti dalla ginnastica del sesso (Dalia leggera come una
piuma, ogni giorno un po’ più evanescente tra le mie braccia), sentivo oscuramente che
restavamo ancorati al suolo, marionette impotenti della forza di gravità. A un anno dal
principio di questa routine, avevo intrapreso il progetto del Libro del Respiro. Ma le ore
spese a tradurre dall’egiziano ieratico mi lasciavano con una traccia di risentimento
irritato dalla pesantezza del nostro amore, dall'impaccio insaziabile che ci impediva di
prendere il volo. Le ombre invocate sui miei fogli dagli esorcismi ieratici, sentivo, si
libravano, noncuranti, ben al di sopra delle nostre fantasie, ben al di là della nostra
portata.
Da principio avevo creduto che i sortilegi del Libro del Respiro, celebrati al fine
di procurare la rinascita celeste d'un caro estinto, si prestassero ad essere tradotti in una
sorta di metrica iterativa, una cadenza analoga al passo del coito. Quale recitativo può
ottenere il dono della resurrezione, mi ero detto, se non un ritmo conforme alle
contorsioni di Dalia nelle mie braccia? Più tardi, costernato dalle mie prime languide
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versioni, compresi di essere su una pista sbagliata. Nella fase di questi primi tentativi,
traducevo scrivendo a mano su una carta a grana grossa, servendomi di una vecchia
penna a cannetta. Le parole della traduzione non mi costavano alcuna fatica; parevano
distillarsi spontaneamente dal calamaio dell'inchiostro in cui intingevo la cannetta. Ma
queste parole sgorgavano esangui dal pennino; il foglio le assorbiva dilatandone i tratti, e
si indurivano in un attimo sulla pagina, inerti come spugne pietrificate.
Se potevo evadere agevolmente la curiosità di Dalia relativa al mio progetto di
traduzione, non potevo celarne le implicazioni a me stesso. Perché avevo intrapreso la
traduzione di un Libro dei Morti, senza alcuna prospettiva di tornaconto personale, senza
neppure disporre, in fondo, di preparazione adeguata, a un anno di distanza dal funerale
mancato di mia madre? Cercavo forse inconsciamente di saldare un debito con la sua
memoria? Non saprei rispondere a questi interrogativi, neppure col senno di poi. Ho
appreso, proprio dalla storia che racconto in queste pagine, che l’efficacia dei sortilegi
contenuti nel Libro del Respiro non dipende tanto dalle parole dei versi quanto dal
legame che vincola colui che li recita all’aldilà. Nessuna parola umana, nessuna
spiegazione circonstanziata arriverà mai a interpretare la maniera in cui il mondo delle
ombre mi ha trascinato sulla strada dell’amore di Dalia.
Quello stesso mattino Dalia arrivò da me poco dopo le dieci. Entrò senza bussare,
servendosi della chiave che le avevo fatto duplicare agli esordi della nostra relazione.
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Indossava un abito in cotone grigio, troppo leggero per la stagione della piogge in
California, ed era a piedi nudi. Mi alzai dallo scrittoio e la seguii a fianco del letto. Si
spogliò del tutto, come se nulla fosse cambiato dal tempo del nostro adulterio, poi ci
abbracciammo. Sentivo il suo respiro sul lobo dell'orecchio, una carezza d'aria tiepida che
andava e veniva insieme al contrarsi del suo petto contro la mia camicia. Mi prese per
mano e, ad occhi bassi, mi spinse a sedere sul letto, indugiando in piedi accanto a me,
come a considerare la prossima mossa. Potevo distinguere, tanti mesi dopo l'estate, il
delta pallido tracciato dal bikini al di sotto del suo ombelico. Si inginocchiò, mi slacciò le
scarpe e sollevò le mie caviglie, facendomi ruotare e distendendomi sul letto.
Adesso mi si snodava addosso in una serie di abbracci ch'erano violenti come
percosse, dall'intensità. Avvertivo il suo respiro farsi insolitamente affannoso, mentre io,
passivo, acquiescente, respiravo a pieni polmoni, con un senso di appagamento.
Intrecciava le gambe alle mie braccia, le braccia alle mie gambe, accennando figure a
mezzo tra la lotta e la danza. Io ero ancora interamente vestito. Succhiavo l’aria e la
saliva dalla sua bocca, e sentivo colmarsi nel mio petto il sortilegio d'un muscolo
antichissimo: gonfio del calore innaturale della nostra astinenza. Ogni traccia, ogni piega,
ogni impronta nelle lenzuola era marchiata come a fuoco dalla fucina incandescente
ch'erano diventati i nostri corpi. Chiusi gli occhi, e scene di coito presero a lampeggiarmi
sullo schermo della memoria, un sovrapporsi di episodi passati i ricordi del nostro
montarci reciprocamente in arcioni per poi disarcionarci a turno, così esclusivo, fanatico,
atletico, solitario. Mi investiva d'uno slancio vitale smisurato il moltiplicarsi d'ogni suo
abbraccio in mille giravolte, d'ogni sua stretta in mille abbracci; mi lasciava turgido della
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premura di penetrarla attraverso i pori della pelle e i minerali delle ossa, fino al midollo
spinale, fino alle fibre nervose, fin giù alle ampolle e i ventricoli del cuore.
«È questo che intendiamo per castità?» le sussurrai all'orecchio, sorpreso
dall'assenza di ironia o di risentimento nella mia voce.
«No, non sta andando come dovrebbe» sussurrò. Si mise a cavalcioni sulle mie
caviglie, mi sbottonò i pantaloni e abbassò la bocca su di me. Ebbi l'impressione d'essere
sospeso, di fluttuare in una soluzione amniotica, e mi si schiuse dinanzi agli occhi la vista
di una laguna rossa inverosimilmente immobile, come se invece che colma d'acqua fosse
coperta da un foglio di sangue rappreso. Strinsi ancor più gli occhi e affondai una mano
tra i suoi capelli. Che la somiglianza con Rami fosse un riflesso più autentico della mia
esistenza, per Dalia, che non la singolarità del volto che fin'allora avevo ritenuto
esclusivamente mio? Ecco un dubbio sul quale in quel momento, sentendomi morire
Cominciai a inondarla della secrezione calda che mi sbatteva in avanti colla forza
di un’ondata. Per fare leva, m’ero appiattito istintivamente sulle natiche, galvanizzato in
un alternarsi di contrazioni involontarie. Sentivo che non avrei potuto contenere quella
bufera, strana, violenta, irreprimibile, se non a condizione di sciogliermi nella schiuma
ribollente, rosso sangue, che, dietro le palpebre serrate, mi avvolgeva da capo a piedi. Fu
la scena intera che si dissolse, invece, e mi smarrii in un chiaroscuro cremoso di forme,
cave e solide, rosso su rosso, tutte egualmente prive di sostanza. Quando mi riebbi,
riconobbi le pareti della stanza e, per gradi successivi, i mobili, il soffitto, e infine il letto,
imbevuto del nostro sudore, su cui Dalia sedeva a gambe incrociate. Guardando il suo
torace gonfiarsi e ritrarsi a ritmo spasmodico, dissi, ancora senza ironia: «Questo non può
essere il sesso che intendevi».
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«Forse l'astinenza è solo per me» rispose, laconica.
Non potevo ancora sapere che il ritorno di Dalia sarebbe coinciso con
un'entusiastica ripresa del mio lavoro di traduzione. Se in origine mi ero illuso di emulare
la lingua dei morti attraverso i ritmi lambenti dell’amplesso, dopo questo episodio mi
sforzai di dare invece corpo ad una voce che ricalcasse la nuova respirazione di Dalia tra
le mie braccia il ritmo da sincope cardiaca cui soggiaceva nel negarsi al più naturale
degli impulsi.
S'era infilata nel suo vestito grigio senza scendere dal letto. Respirava a bocca
aperta, inalando l'aria come dopo una lunga apnea. Si alzò in piedi, attraversò la stanza,
aprì e si richiuse la porta alle spalle, seminandosi dietro una folata d'aria che scompaginò
le carte sparse sul mio scrittoio.
Stavamo passeggiando in University Avenue, nel centro di Palo Alto. J. J.
Bernhard era nel mezzo, Dalia alla sua destra, io camminavo alla sua sinistra, sul lato del
marciapiede accanto al traffico. Una parata di giovani donne esotiche ci incrociava;
avevano tutte seni prominenti e lunghe gambe nude, e ciascuna riconosceva e salutava il
teologo con familiarità. Lui rispondeva con una nonchalance assorta che mi sembrava
troppo ben simulata, anche per un residente del Vaticano. Era Dalia che aveva insistito
per farci incontrare. Le visite mattutine di Dalia alla nostra camera da letto continuavano
da una quindicina di giorni. Dapprima Dalia aveva suggerito che quella domenica mi
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incontrassi con J. J. Bernhard da lei, a casa sua (non c'era weekend in cui Seto non
andasse alla Omega.com per “sbrigare pratiche”, come diceva). Ma quando avevo
appreso che J. J. Bernhard non aveva mai messo piede nel suo appartamento, avevo
deciso senza indugio di tenercelo ancora fuori; avevo proposto che gli dessimo invece
appuntamento a Starbucks, un bar del centro.
Ci eravamo incontrati di fronte al bar. Dalia ed io avevamo concordato di arrivare
separatamente, per ragioni di discrezione; era la prima volta che comparivamo assieme in
pubblico. M'ero trovato sul posto per primo; lei era arrivata con dieci minuti di ritardo,
dopo aver ricalcato, presumo, il mio breve itinerario ad angolo retto da Cowper Street a
University Avenue. Poi c'era toccato aspettare J. J. Bernhard per un altro quarto d'ora. Era
arrivato vestito di nero da capo a piedi; dava da pensare a un lounge lizard di New York
trapiantato tra le casette basse, le agavi, e la gente color pastello di Palo Alto. Cominciò a
sbracciarsi in lontananza non appena riconobbe Dalia sulla porta del locale.
«Ma perché non siete entrati ad occupare un tavolo?» ci aggredì prima di
stringermi la mano. Poi mi si rivolse in italiano: «Balsamo? Tanto piacere».
Restituii la stretta di mano in silenzio, per dargli modo di scusarsi del ritardo. Lui
mi squadrò invece con l'alterigia d'un porporato romano, senza dire niente, come a
significare che avevo mancato il mio turno di pronunciare i consueti convenevoli. Dopo
questa pausa, levò gli occhi sull'insegna del bar. «Starbuck è il nome del secondo di
bordo in Moby Dick» dichiarò in tono brusco.
Mi sorpresi ad annuire meditabondo, come se l'aneddoto mi fosse noto.
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«Andiamo dentro?» propose Dalia. Quel giorno il suo viso era reso luminoso dal
sole. Mi sforzavo inutilmente di metterne a fuoco i tratti, mentre le lentiggini si
scomponevano sotto il mio sguardo in una pioggia di minuscole pepite dorate.
J. J. Bernhard suggerì di posporre le consumazioni al bar e fare prima una
passeggiata in centro.
La sfilata di bellezze esotiche, certune dalla pelle color caffelatte, certaltre dagli
occhi a mandorla, ci incrociava mentre procedevamo a passo lento lungo University
Avenue. Erano tutte ragazzine di Stanford; saltava agli occhi come certune smaniassero
dalla premura di attirare l’attenzione di J. J. Bernhard, e poi lo salutavano adoranti
eclissavano o quasi i tributi espressi al passaggio di Dalia dai flaneur seduti ai tavolini dei
bar. (Era, come ho detto, la prima volta che scortavo Dalia in pubblico, ma gli effetti
della sua bellezza, più riservata e d’un esotismo meno ordinario di quello delle
studentesse per strada, non mi sorprendeva.) Sospettavo che il momento scelto da J. J.
Bernhard per la propria comparsa in University Avenue coincidesse coll'ora del
passeggio più intenso in centro città.
Percorsi pochi isolati, prevalse il bisogno di caffeina, ed entrammo nella
Torrefazione Italiana con l'intenzione di consumare un espresso al banco ed uscire
immediatamente. J. J. Bernhard scolò il contenuto della sua tazzina in un baleno, poi
dedicò un lunghissimo intervallo a scucchiaiare lo zucchero depositato sul fondo. Ordinò
quindi un bicchiere di minerale, estrasse una pillola bianca da una scatoletta metallica e la
inghiottì con un sorso d’acqua. Alla fine schioccò la lingua con soddisfazione, urlò un
salutaccio in italiano al proprietario e, afferratici entrambi sottobraccio, ci trascinò di
nuovo in strada. Appena di fronte al bar, attirò la nostra attenzione sulla vetrina accanto
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alla porta d'ingresso: c'erano due studenti seduti a un tavolo, un ragazzo e una ragazza in
atteggiamento affettuoso. Mi prese le tempie tra le mani, costringendomi a spostare la
testa da destra a sinistra, in un moto pendolare che mi dava il torcicollo. A causa delle
imperfezioni nel cristallo della vetrina, le fattezze dei due imbarazzati studenti al tavolo si
modificavano sensibilmente ad ogni spostamento dei miei occhi. Il naso del ragazzo si
comprimeva come quello di un pugilatore, mentre il mento della ragazza si assottigliava e
sporgeva in avanti come quello di una strega; una guancia si bombava deformandosi,
un'altra guancia si appiattiva come una cartolina. Il mio capo stretto nella morsa delle sue
mani, J. J. Bernhard cominciò a parlarmi all'orecchio in italiano, dandomi del tu:
«Comincia e finisce lì, vedi, Balsamo, il tuo paradigma di realtà».
Un po' per ragioni di dignità personale, un po' perché il dolore al collo assorbiva
tutta la mia attenzione, mi rifiutavo di profferire parola. Il mio silenzio lo decise
finalmente a mollare la presa. Si rivolse a Dalia in inglese: «Se provi a muovere la testa
di qua e di là, così come ho fatto fare a lui» le spiegò gentilmente, «vedrai formarsi delle
pieghe di energia ottica nella vetrina».
Mi stavo massaggiando la nuca. Dalia replicò in tono sedato: «È un difetto del
vetro. Distorce l'immagine. Mi capita la stessa cosa quando guardo fuori dalla finestra
della mia cucina». Nel pronunciare quest'ultima frase mi rivolse un sorriso segreto.
Indifferente al disagio dei due studenti, J. J. Bernhard ci indicò di nuovo la
vetrina: «Volevo semplicemente dimostrarvi l'inconsistenza della realtà che ci circonda.
Noi tre abbiamo la certezza di conoscere le fattezze dei due giovani dietro il vetro perché,
a guardarli, i nostri cervelli organizzano in modo identico le proprie percezioni ottiche.
Se quei due giovani potessero vedersi in uno specchio, saremmo in cinque a provare la
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stessa impressione. Ma voilà, prendiamo un filtro trasparente che sia viziato da lievi
imperfezioni molecolari, inseriamolo tra noi e quei due giovani, ed ecco che la mia
impressione delle loro fattezze diverge dalle vostre. E per sovrammercato, neanche la mia
percezione individuale rimane stabile… si modifica ad ogni spostamento del capo».
«Il che va a significare…?» dissi con indifferenza.
«È la prova che il nostro apparato di percezione è inaffidabile. Il cervello umano
ordina la realtà esterna in un modo condiviso dalla maggioranza di coloro che non sono o
non vogliono essere considerati pazzi. Ma ciò sta semplicemente a dimostrare che la
maggioranza dei cervelli umani dipende da una maniera comune di percezione dei
fenomeni esterni, codificata da milioni di anni di evoluzione delle cellule neuronali…»
«In altre parole…?» tornai a provocarlo.
«In altre parole, il cristallo di questa vetrina dimostra che non esiste una realtà
stabile al di là delle nostre pupille». Mi posò un braccio sulle spalle e mi attirò a sè,
strattonandomi benevolmente. Poi mise l'altro braccio sulla spalla di Dalia. «D'altro
canto, l'esistenza concreta d'una realtà alternativa, ultraterrena diciamo, è tanto probabile
quanto l'esistenza dei due ragazzi seduti a quel tavolo». Arricciò le labbra, poi aggiunse
con un risolino: «... o, perché no, la non esistenza di quei due ragazzi…»
Alla menzione ripetuta delle nostre vittime, che ci guardavano sconsolate di
sottecchi, diedi uno strattone a mia volta, ottenendo di allontanare il nostro terzetto dalla
vetrina metafisica di J. J. Bernhard. Poi, con una mezza piroetta mi spostai al centro del
nostro terzetto, di fianco a Dalia, che camminava vicino al bordo del marciapiede. Lei
però non sembrava irritata quanto me, né consapevole che mi ero deliberatamente
interposto tra loro due. Immaginavo che, di fronte alla vetrina, J. J. Bernhard avesse
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parlato soprattutto per lei, riprendendo una qualche loro conversazione precedente. Dalia
lo stava infatti interpellando in un tono di schietta curiosità, di cui non afferravo
l'urgenza: «Stai suggerendo che i casi di endofasia che abbiamo studiato a Stanford sono
semplici allucinazioni acustiche?» Prima che lui potesse risponderle, aggiunse ancora con
enfasi: «… effetti puramente indotti dal cervello?»
S'era espressa gesticolando con tale enfasi che un piede le scivolò giù dal
marciapiede. Emise uno strillo e, nel tentativo di massaggiarsi la caviglia stortata, mosse
un lungo passo all'interno della carreggiata. Ero balzato di lato con l'assurda prontezza
d'un ranocchio, pure io in mezzo alla strada, e mi trovai a sottrarla di peso, come se ci
muovessimo sott'acqua o al rallentatore, dall'impatto con il cofano scoppiettante di una
minuscola cabriolet rossa. Seguirono grida, proteste ed un agitarsi di braccia sollevate; J.
J. Bernhard aveva raccolto le mani a megafono per urlare improperi in italiano all'autista
innocente; io mi sentivo come tramortito da tutti i sintomi post-traumatici che avevo
evitato a Dalia; lei intanto, claudicante, sola col suo fervore, si ostinava ad interrogare J.
J. Bernhard: «Vuoi dire che Ildegarda non avrebbe sentito nessuna voce? Mica ti esprimi
così negli incontri del seminario!»
Schiaffeggiandosi le mani una sull’altra, come per spolverarle d'un eccesso di
amor proprio, J. J. Bernhard dovette farsi ripetere tre volte la domanda. Poi disse: «Per
sentirle, Ildegarda le voci può benissimo averle sentite, oppure credere di averle sentite
… oppure, magari, le voci c'erano davvero, era Ildegarda ch'era frutto di un'allucinazione
collettiva… ah ah». Sollevò e rivolse i palmi delle mani verso il volto di Dalia in un
gesto conciliatorio. Poi le prese il volto tra le mani, per le guance, come se dovesse
baciarla oppure, pensai, torcere il collo pure a lei. Disse: «Tu ti senti coinvolta in prima
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persona, Dalia, e la butti troppo sul personale! Non mi stavo affatto riferendo alle tue
allucinazioni acustiche. E poi il tuo caso, te l'ho già detto, mica è serio come quello di
Ildegarda. L'endofasia di Ildegarda era provocata da una degenerazione cerebrale. Era un
tumore a farle sentire le voci». Nel pronunciare queste parole, mi guardò con
un'espressione sordida, troppo latina come se volesse suggerire un terreno d'intesa
comune, l’esclusiva di un segreto condiviso, una possibile connivenza, o persino una
complicità tra lui e me.
Dalia doveva avergli detto d'essersi confidata con me di recente a proposito della
sua esperienza con una voce interiore gli aveva anche detto ch'eravamo amanti?
Probabilmente no, ipotizzai, ma nel farlo fui preso da una morsa rabbiosa di gelosia. Cosa
mi assicurava che quella smorfia da latin lover non tradisse l'orgoglio mal celato del
possesso esclusivo? Magari lui stesso si stava domandando se Dalia m'aveva già
confidato del loro “coito riservato”. Erano amanti, i due?
Lanciai uno sguardo alla volta di lei, che mi restituì l'occhiata con mille occhi
verdi, una coda gemmata di pavone. Fu questione di un istante, ed ebbi la certezza che un
proposito recondito accomunasse me e Dalia da tempo immemorabile. Le dissi con gli
occhi che non mi sarei tirato indietro da nessuna follia, purché la commettessimo
insieme. Ero certo che comprendeva quel mio linguaggio muto. E intanto scoprivo,
parlandole con lo sguardo, o mi pareva di scoprire, che nell'universo dei nostri incontri
segreti vigevano leggi di omertà inviolabili, leggi che non si potevano trasgredire.
J.J. Bernhard non aveva ancora smesso di assentire, su e giù, su e giù col capo,
compiaciuto del suono della propria voce, avrei detto, dei propri poteri taumaturgici,
della sua influenza su questa giovane donna (una in più, pensai, guardando le silfidi
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brune che tornavano a sfiorarlo lungo il marciapiede), del riflesso dei propri baffoni neri
nelle vetrine lungo il passeggio, del tacchettio marziale delle sue grosse scarpe di cuoio
nero sul cemento del marciapiede. Gli rivolsi un sorriso amabile, il primo dal momento in
cui ci eravamo incontrati; ignoravo ancora, quel giorno, che la mia falsa cortesia sarebbe
stata strumentale nel preparare la sua fine.
Quella settimana, dopo l'incontro con J. J. Bernhard, ero andato due volte a letto
con Dalia, e nel mutismo adorante dell'astinenza con cui provocava il mio piacere, non
potevo dubitare della perennità del nostro rapporto. Non avevo mai preso sul serio, prima
di allora, il tipo di convinzione che trova la propria conferma nelle ragioni della fede.
Non credevo e non pensavo di poter credere in alcunché di trascendentale: avevo anzi
francamente aborrito, anche nel passato recente, le scelte di certi miei colleghi,
convertitisi alle superstizioni dei popoli estinti di cui violavano le tombe. Ma quella
settimana comprendevo d’aver preso a pensare al mio rapporto con Dalia in maniera
mistica, con reverenza crescente. Sentivo di venerare, letteralmente, la sua presenza nella
mia vita. La vicinanza di Dalia mi aveva trasformato, e stentavo a riconoscermi nel
gracile specialista di faccende sepolcrali che due anni prima, tossicchiando rassegnato,
era volato a Torino, giusto in tempo per mancare il funerale della mamma. Perché non
avrei potuto avere Dalia costantemente al mio fianco? Era la prima volta che la natura del
nostro adulterio mi si poneva in questi termini. Vivevo una vita di doppiezza, in cui tutto
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ciò che non avveniva nell’intimità della mia camera da letto rivestiva per me il carattere
della finzione. La nostra vicinanza, il mattino, non durava che qualche ora. Non appena
rimanevo solo con me stesso, la mia fede nella durevolezza del nostro rapporto vacillava,
e mi sentivo disertato dallo stato di grazia che Dalia mi irradiava intorno. La immaginavo
all'ora di cena, al tavolo in compagnia della sua famiglia, ed ero geloso, oppresso dal
dissiparsi troppo rapido dei doni che mi aveva lasciato. La notte mi stendevo nel letto con
un sentimento di oppressione. Il graduale intorpidimento delle membra mi dava
un'impressione di dissoluzione, perché il sonno incombente minacciava di privarmi del
ricordo di lei. Piegavo le labbra in un rifiuto informulato, ma poi il mio diaframma
allentava la barriera che separa i polmoni dai segreti del cuore, e mi lasciavo alle spalle il
mondo intero, incluso quello che avevo spartito con Dalia. Il resto della nottata lo
trascorrevo nei meandri di sogni indecifrabili. Ma il mattino mi risvegliava la prospettiva
di una visita di Dalia, e mi destavo rincuorato.
Era di giovedì. Attraversavo il campus alla volta del mio seminario all'istituto di
archeologia, trafelato per il solito ritardo, quando incrociai Clare, la mia ex-amante,
diretta all'istituto di biologia molecolare. Non ci vedevamo da un'eternità. Sebbene fosse
appena finita la stagione delle pioggie, era già abbronzata e si era tinta i capelli di rosa.
Concordammo sbrigativamente di pranzare insieme al Café Brioche.
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Nel momento in cui me la vidi venire incontro in California Avenue, poche ore
più tardi, compresi che era passata a casa per cambiarsi d'abito aveva sostituito i jeans
del mattino con un vestito blu cobalto, in un poliestere curiosamente sottile. Non
manifestai sorpresa, ad ogni modo, quando propose che prima di entrare nel ristorante
passassimo a casa sua soltanto per un attimo mi spiaceva? Si era trasferita da poco in
quei paraggi.
Abitava in un tugurio abbastanza sordido, com'era d'uso in quegli anni tra i
dottorandi di Stanford a causa degli affitti astronomici di Silicon Valley. Non appena
fummo entrati nel vestibolo dell'appartamento, mi gettò le braccia al collo e appiccicò le
labbra alle mie, lacerandomi la punta della lingua con un incisivo. Malgrado il dolore,
ricambiai con altrettanta irruenza, sorprendendo me stesso. In un attimo fummo in camera
da letto. Mi spogliavo e la spogliavo con piglio insolitamente deciso, come per impedirmi
di riflettere o di comprendere quel che mi stava per succedere, o evitare di immaginare
che potessi veramente aver scelto di tradire Dalia. Ma era proprio quel che mi accingevo
a fare. Il blu brillante dell’abito di Clare e i suoi capelli rosa mi rendevano brusco e
impaziente. Tutto quel che volevo da lei era un coito rapido e senza complicazioni
entrarle dentro, a fondo … Mi sentivo in bocca il gusto del mio sangue. Ero pronto a
stuprarla, se avesse resistito.
Ma poi non successe niente. Niente di niente. Mi sentivo il basso ventre gonfio di
piombo. La baciavo in maniera accanita, tingendole di sangue le guance e i capelli, le
accarezzavo ruvidamente i seni, e anche lei mi toccava in maniera insolita, ruvida,
piuttosto mascolina, ma continuava a non succedermi niente. Aveva tutto a che vedere
con il momento presente e la mia urgenza insincera di farlo senza riflettere, e con la
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pressione plumbea che mi strozzava gli inguini, troppo densa per penetrare al di fuori di
sé. In pochi istanti spaventosi era come se Dalia avesse smesso di esistere. Tutto quel che
m'importava era concentrato in quel letto, nel corpo sudato di Clare, e nello spazio
ristretto che, ventre a ventre, non ci univa ancora abbastanza.
Una lama di sole era entrata di sbieco dalla finestrina dinanzi allo scrittoio. Tra la
finestra e il muro della casa di fronte, un ramo agitava delle foglie verdi e qualche fiore e
persino, dietro una foglia, un limone giallo. La mia respirazione si faceva problematica.
Clare separò il ventre fradicio dal mio con un rumore di ventosa e mi lasciò solo nel letto.
Recuperai l'inalatore dalla mia cartella sul pavimento, sepolta sotto un mucchio di vestiti,
ed inspirai il gas a fondo. Poi, inebetito, rimasi immobile, una mano tra gli inguini sviliti,
la testa sul cuscino. La luce del sole pareva muovere le gote gialle del limone inquadrato
dalla finestra, espandendole e contraendole come se soffiassero in un invisibile strumento
a fiato. Illanguidito dalla droga, venivo via via assorbito dal carattere come familiare
della stanza. Dalla presa del telefono sotto la finestra sbucavano quattro cavi intrecciati di
diverso colore: uno dei cavi era collegato ad un computer da tavolo, tenuto insieme da
strisce argentee di nastro adesivo rinforzato; un altro cavo era collegato ad un laptop
nero; il terzo cavo era collegato ad una fax machine, pure rappezzata da strisce incrociate
color argento; il quarto cavo entrava in un cubo grigio opaco di cui ignoravo la funzione.
Inserito nella presa della corrente sotto il tavolo c'era un grosso surge protector, da cui si
dipanava un fascio di cavi che alimentavano i due computer, due stampanti separate (una
antiquata, a fogli perforati) e il fax oltre alle lampade distribuite nella stanza (sulle quali
erano appigliati a casaccio diversi capi di abbigliamento), la sveglia elettrica sul
comodino di fianco al letto, il televisore antiquato sistemato sopra una pila di guide
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telefoniche, corredato di VCR e lettore DVD, l'apparecchio stereo contro il muro di
fianco alla porta, sormontato di compact disks, e un giradischi per album in vinile, in
bilico precario sul bordo dello scrittoio. La polvere regnava sovrana su tutto quanto.
Chi era il responsabile della mia iniziativa di questo pomeriggio e chi il
responsabile della disfatta? Nell’accettare le avances di Clare, avevo voluto fare l'amore
con lei, aggredirla e penetrarla come da un po’ non potevo fare con Dalia. Ma se
l’iniziativa mi era imputabile, non ero pure stato io, poco dopo, a voler fallire? Era come
se la mia volontà si fosse spaccata in due, in disaccordo con se stessa; voleva entrambe le
cose, castità e libidine, senza volerne alcuna del tutto. E adesso il pensiero di essere stato
sul punto di tradire Dalia mi portava le lacrime agli occhi, mentre il bruciore del desiderio
frustrato le faceva evaporare ancor prima che mi sfiorassero le guance.
Clare rientrò portandomi un bicchiere di aranciata. Aveva indossato un
accappatoio bianco di spugna. «Devi proprio essere innamorato di quell'altra» disse.
«Dura ancora?»
«Quell'altra, chi?»
«La donna per cui mi hai lasciata due o…» fece una pausa per riflettere, «… due
o tre anni fa, non ricordo».
Bevvi un lungo sorso di aranciata, poi tentai inutilmente di posare il bicchiere sul
comodino traballante. Sedetti di scatto sul bordo del letto, arrangiai più volte la posizione
del comodino finché risultò saldo sui piedi, poi ci assestai sopra il bicchiere con forza e
tornai a sdraiarmi.
Clare fece una risatina intimidita. «Non prenderla così, Gian». Era seduta sul
bordo del letto.
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«Si sta male da cani, sai, in questi casi» dissi.
«Fisicamente?»
«No, fisicamente non troppo. Ma è l'umiliazione di aver fallito».
«Fallito? Parli come un liceale, Gian. Mica pensi che lo vada a dire in giro?»
«Va be’, fa lo stesso».
Senza rispondermi, Clare si avvicinò allo scrittoio e toccò le tastiere dei due
computer. Comparvero due vividi diagrammi pulsanti, uno per schermo; il primo era
verde e blu, il secondo rosso, giallo e blu.
«Quelli cosa sono?» mi parve la domanda da copione.
«Quelli sono io, in un certo senso».
«Non sono in vena di conversazioni ermetiche, Clare…»
«Lo schermo di sinistra è collegato col mio laboratorio di Stanford, dove ho
immortalizzato in vitro alcune cellule estratte dalla mia cute».
«Hai immortalizzato cosa?!»
«Questo diagramma segue l'andamento degli impulsi vitali di una parte di me che
potrebbe verosimilmente esistere per i prossimi tre o quattro secoli».
«Non dirmi che sei ancora a caccia della vita eterna. Ma quando ti decidi a
prendere il dottorato e smetterla di giocare alle streghe?»
«Chi non vorrebbe vivere in eterno? Purtroppo non sarà ancora possibile per la
mia generazione».
«Mettiti il cuore in pace. Non sarà mai possibile».
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«E tu come lo sai? Sono io l'esperta. Hai mai sentito parlare dei telomeri? Sono il
cronometro incorporato nelle nostre cellule. Per postorre la senescenza basta insegnare ai
telomeri a riprodurre se stessi »
La interruppi. «Non sarebbe più facile scovare la pietra filosofale?»
«Non sto scherzando, Gian. I telomeri sono piuttosto elastici. Stiamo scoprendo le
nanotecnologie necessarie per istruirli».
«Sarà ma »
«Le mummie delle tue piramidi… non vivevano in eterno pure loro?»
«Quella è un'altra faccenda. Se mai diventeremo immortali in questi corpi di carne
ed ossa, perderà tutto di senso. Perché mangiare, lavorare, insegnare?… perché fare
sesso…?»
«Adesso che ci penso, quel che dici spiega perché J. J. Bernhard ha fatto voto di
castità.»
Così, nella maniera più inaspettata, J. J. Bernhard tornava ad intromettersi nella
mia vita privata. Aveva trovato un'altra seguace in Clare. Lei e Dalia frequentavano
entrambe, senza conoscersi, lo stesso seminario sull'endofasia Clare, come mi stava
spiegando, ardeva dal desiderio di demistificare la plausibilità delle voci interiori, mentre
Dalia, come sapevo, era votata alla causa opposta. Non avevo difficoltà ad afferrare la
connessione, appena abbozzata da Clare, tra la castità e l'immortalità: la conquista della
morte tramite l’interruzione della riproduzione genitale... Ma questa camera da letto non
era il posto adatto per approfondire l'argomento. «Dunque conosci anche tu il famoso J. J.
Bernhard. Si direbbe che per il momento non ti abbia ancora persuasa a fare voto di
castità».
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«Non posso dire che non ci abbia provato… Comunque, dicevo» continuò,
puntando di nuovo un dito verso lo schermo sulla sinistra, «preferisco l'immortalità
concreta delle mie cellule ai tuoi miti della metempsicosi e dell'eterno ritorno».
Resistevo, ma mi costava un grosso sforzo, la tentazione di dirottare la nostra
conversazione sull'argomento del coito riservato. Magari Clare ne sapeva qualcosa?
Magari J. J. Bernhard offriva dimostrazioni pratiche alle sue seguaci? Come se la sbriga?
mi chiedevo. Quanto a lungo gli riesce di contenersi, al fianco di una donna? «Cos'è
quell'altro diagramma?» chiesi invece.
Clare riceveva il secondo diagramma dall'istituto finanziario che amministrava il
fondo di investimento stabilito dal nonno a nome suo. Registrava le modificazioni in
tempo reale del valore del suo pacchetto azionario.
«Non sapevo che fossi ricca pure tu!» sbottai. «Ma siete proprio tutti ricchi in
questa valle?» Provai un moto livido di invidia pura e semplice, livida invidia. Ripensai
al vago paternalismo professoriale che aveva incentivato la mia avventura con lei in
principio, e anche con Stella. Mi sovvenni, per concatenazione, della scena in cui Dalia
mi aveva rivelato la sua povertà, identificando tutti i suoi possedimenti in un singolo
dono lascivo che era riservato a me. Ripresi a parlare: «E se sei così ricca, perché abiti in
questo tugurio? Il soffitto sembra fatto di cartapesta. Dev'essere un forno d'estate!»
Clare liquidò la mia obiezione con una scrollata di spalle.«È una questione di
stile, stupido... D'altronde, quest'estate vado in Francia...»
«In Francia?»
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«A Saint Tropez. È di nuovo di moda». Si ravviò i capelli rosa, impugnò uno
specchietto sul comodino e ci si contemplò un attimo. «Purtroppo il vostro Mediterraneo
è una pozza di brodo caldo. Non ci puoi fare il surf…»
«Desolato» dissi con sarcasmo.
Lei riprese: «Ma dicevo, capisci, non ha più senso parlare di fallimento in una
prestazione puntuale, come se uno… come se tu adesso fossi tutto quanto contenuto in
questa stanza »
«A dire il vero, ti giuro» la interruppi, «mi sembrava di essere proprio tutto qui,
liofilizzato tra le tue braccia. Anzi, era giusto quello il problema: un eccesso di
concentrazione, con tante cose che premono da fuori… Non ho fallito per mancanza di
impegno, se è quel che pensi!»
«Ma no che non penso niente! Voi archeologi siete così lenti! Guarda quei grafici.
Non è più una questione di prestazione puntuale, di impegno individuale, non è mai
questione, come t’ho sentito dire a lezione…» fece una pausa esplicita, guardandomi
diritto negli occhi, «… di autenticità… Prendi me. Ero a letto con te, sono tuttora a letto
con te, per modo di dire, ma intanto c'è un'altra parte di me, a Stanford, quietamente
votata alla propria immortalità siamo individui ramificati, se vuoi saperlo… E c'è anche
quell'altra parte di me» concluse puntando un dito verso il secondo monitor, «che cresce e
decresce assieme ai ritmi finanziari dell'economia globale.»
«Mi piace l'idea di crescere e decrescere insieme al mercato finanziario. Uno si
evita i grattacapi dell'erezione».
«Oh, smettila!» Poi chiese in tono vendicativo: «Su, dimmi cosa pensa il
Professor Balsamo di J. J. Bernhard».
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«È il guru del futuro cibernetico» sparai. «Il prossimo premio Nobel per la
neurobiologia, si dice. E io sono verde d'invidia».
«Un po' d'umiltà non ti farebbe male… J. J. Bernhard ha già tenuto diverse
conferenze nel mio istituto. Mi piacerebbe fartelo incontrare». Decisi di non precisare che
avevo avuto quel dubbio piacere di recente. Lei continuava: «Il suo nome è sulla bocca di
tutti. E secondo me parla l'italiano meglio di te. Se ci sarà mai qualcuno in grado di
fondere la cibernetica e la cultura umanistica, quello è lui. Figurati, è addirittura
consulente del Vaticano per i fenomeni di visioni mistiche e voci interiori».
Poi dovetti sorbirmi una lezione accelerata sui diversi aspetti della filosofia di J. J.
Bernhard per lo più, la stessa zavorra teologica che nei giorni precedenti avevo scovato
negli articoli specialistici dedicati al nuovo eroe locale di Silicon Valley. Né Clare né
questi articoli facevano alcuna allusione al coito riservato, però; cominciavo a sospettare
che l'introduzione a questa pratica richiedesse uno speciale processo di iniziazione. Clare
poteva a stento contenersi mentre, ruotando gli occhi verso destra e il collo nella
direzione opposta, mi diceva che aveva da qualche parte nella stanza tre libri di poesia di
J. J. Bernhard. «Autografati con dedica!» Dovetti dissuaderla dall'intraprenderne la
ricerca. Stando a J. J. Bernhard, i fenomeni mistici erano la miglior dimostrazione della
instabilità dell'io individuale. Le voci interiori di Ildegarda da Bingen, ad esempio, non
erano altro che strascichi di memoria impersonale, la conseguenza di combinazioni
accidentali delle cellule cerebrali. Da un punto di vista statistico erano un fenomeno
irrilevante, una coincidenza, che poteva venire scambiata per un miracolo a causa del suo
carattere fulmineo. Per assurdo, volle spiergarmi Clare, Ildegarda avrebbe anche potuto
provare uno qualsiasi dei miei stati mentali più segreti; sarebbe bastato che un fascio dei
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suoi neuroni avesse accidentalmente riprodotto il reticolato in cui si disponevano i miei in
certe occasioni, e a quel punto la distinzione tra il suo ego ed il mio si sarebbe dissolta.
«Vedi» concluse, «le teorie di di J. J. Bernhard sono di vitale importanza per quello che
stiamo facendo qui in Silicon Valley».
Mi inalberai. «Cosa staremo facendo mai, in Silicon Valley! Non crederai mica
anche tu nella favola della cospirazione cibernetica che cambierà il mondo?»
«No, cospirazione no, ma il mondo lo stiamo cambiando per davvero. La
rivoluzione cibernetica è l'equivalente della rivoluzione industriale… la nascita
dell'individuo postumano».
«Intanto, non vedo la rilevanza delle teorie di J. J. Bernhard in rapporto ai tuoi
studi sull'immortalità cellulare. Lui si occupa di neurobiologia e di teologia, mi pare. Tu
invece studi le cellule dell'organismo. In secondo luogo, la rivoluzione cibernetica si fa
coi computer chips».
«È davvero semplice, sai. Il cervello umano è un computer molto complesso. A
lungo andare saremo in grado di pilotare le combinazioni e le aggregazioni delle nostre
cellule neuronali. Sto parlando di ingegneria genetica, naturalmente. Predetermineremo i
meccanismi mentali dei feti nell'utero materno. Elaboreremo individui dai pensieri filtrati
e dalle emozioni purificate. Sarà la fine dell'era degli psicofarmaci, tra l'altro. Potremo
determinare i nostri processi mentali, scegliere le nostre emozioni. Il presupposto su cui
si basano le ricerche sull'immortalità è che dobbiamo disfarci del culto dell'io
individuale. Un corpo equipaggiato di nanoprotesi adeguate può anche durare in eterno, a
condizione di non essere soggetto ai capricci della personalità. Sono indispensabili
maniere di comportamento stabili e standardizzate, soprattutto l'eliminazione
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dell'angoscia esistenziale, degli stati di apprensione. La personalità individuale è un
inconveniente, troppo autodistruttiva».
Cercai di contraddirla. «Ma no… ma no… Stai parlando d'un oltretomba genetico,
della fine della procreazione». Non riuscivo a trovare le parole giuste per obiettare, ma
sentivo un bisogno imperioso di farlo. La defaillance a letto con lei, che io stesso, mi
pareva, avevo al contempo voluto e non voluto, era costata più cara alla mia fiducia
nell'integrità dell'io soggettivo che non tutte le sue teorie. Dovevo interrompere questa
conversazione prima che mi deprimesse del tutto. Finsi di aver perso interesse e attaccai a
raccogliere i miei vestiti dal pavimento, mettendomi a parlare d'altro. Poi persi interesse
sul serio e mi distrassi, forse ancora sotto l'effetto stupefacente dell'inalatore, a guardare
la scorza d'oro del limone nel vano assolato della finestra. Squillava ancora in silenzio
nell’anfratto tra i due edifici.
Era quasi il tramonto quando rincasai. Preparai una cena affrettata che attaccai a
consumare senza appetito, ascoltando la radio, sconcertato dall'episodio del pomeriggio.
Sulla via del ritorno, mi ero ripromesso di riflettere più a fondo sulla doppia
contraddizione che mi aveva indotto a lanciarmi, con una specie di ferocia, in un rapporto
sessuale che non volevo veramente, e poco dopo ad impormi una mortificazione che
trovavo intollerabile. Non riuscivo a concentrarmi appieno, però. Mi rodeva un bisogno
forsennato di sapere, invece, se Clare era andata a letto con J. J. Bernhard, e se lui
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iniziava tutte le sue seguaci al coito riservato. Dopo pochi bocconi smisi di mangiare,
trangugiai un bicchiere intero di Coppola rosso, recuperai dalla tasca il foglietto sul quale
Clare aveva scribacchiato il suo nuovo numero, e agguantai il telefono. Quando lei
rispose, le chiesi bruscamente se J. J. Bernhard era più bravo di me a letto, anche senza
orgasmo. Clare troncò la comunicazione, non prima d'aver sibilato con cattiveria: «Senza
orgasmo per lui, vuoi dire». Le sue parole mi spinsero il vino e il cibo che avevo appena
inghiottito su e giù per lo stomaco, lasciandomi nauseato e senza fiato. Che J. J. Bernhard
adottasse l'astinenza degli ascetici Agori a mo' di afrodisiaco per le sue compagne di
letto? Che Dalia adottasse la stessa tecnica, a letto con me? Non me la sentivo di
rimuginare tutta la notte sulla moltitudine di implicazioni suggerite dalla frecciata di
Clare; colla precipitazione del naufrago che si aggrappa al timone che affonda, afferrai il
telefono e digitai il numero di Dalia. Intendevo veramente insinuare che aveva rapporti
clandestini con J. J. Bernhard? O che parodiava con me il sesso che faceva con lui? O
volevo confessarle invece il mio abortito tradimento e chiederle perdono? Rispose Seto
per fortuna, salvandomi dalla catastrofe. Gli domandai, improvvisando, di aggiornarmi
sui progressi della sua agenzia di investigazioni. C'erano nuovi sviluppi nella relazione di
Dalia con J. J. Bernhard? Sebbene sapessi d'essermi appena inventato questa scusa, avevo
come la sensazione di recitare un copione che avevo memorizzato da tempo.
Non avevo più incontrato Seto dopo la sua visita inaspettata al mio appartamento,
meno di un mese prima, quando mi aveva mostrato le foto di Dalia in compagnia di J. J.
Bernhard. «Dove si incontrano per fare l'amore?» avevo chiesto malvagiamente, mentre
lui sorbiva lentamente un bicchiere di whiskey nella mia cucina. Seto mi aveva spiegato
che l'agenzia di investigazioni non riusciva a scoprire dove o quando Dalia andasse a
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letto con J. J. Bernhard; certamente non era a casa di lui né nella nostra palazzina in
Cowper Street, risultava, perché avevano fatto la posta ad entrambe le abitazioni. Ma io
avevo perso interesse nella mia domanda non appena l'avevo formulata, perché in quel
momento, nel rumore di pioggia battente, avevo riconosciuto la mia fotografia infilata tra
quelle del fratello di Dalia. E in un attimo la mia memoria era schizzata in alto nello
spazio e indietro nel tempo, infilandosi nella cabina dell'aeroplano in volo da Parigi dove
Dalia dormiva tenendo il capo posato sul mio grembo. Attraverso il finestrino potevo
vedere il Canale della Manica e il Passo di Calais più a est la Francia e l'Inghilterra
faccia faccia, come in attesa di uno dei loro storici scontri. Paesaggi immensi sotto i miei
occhi, uno spazio d'ampiezza fantastica, eppure quella notte piovosa nella mia cucina,
seduto di fronte a Seto, mi scoprivo a considerarli, nel ricordo, meno aperti e più
deperibili del nuovo ego, della nuova identità di cui Dalia mi aveva fatto dono. La mia
perplessa esaltazione a bordo di quell'aereo, ricordavo, era completata da una tenerezza
infinita verso la strana donna che mi aveva affidato, apparentemente senza ragione, la
custodia del suo sonno.
Sentii Seto spiegarmi nel ricevitore che i suoi detectives non avevano nulla di
nuovo da riportare. Parlava sottovoce, come per paura che qualcun altro potesse sentire
quel che diceva. Poi aggiunse in tono lamentoso che dovevo aiutarlo, che se Dalia aveva
davvero una relazione extraconiugale, lui avrebbe perso la faccia di fronte ai suoi soci e
ai suoi dipendenti.
«Se anche Dalia facesse davvero sesso con quel tipo dai grossi baffi, J. J.
Bernhard» mi sentii esclamare, «la cosa sarebbe insignificante!» Queste parole m'erano
uscite di bocca prima che potessi trattenermi o riflettere sul loro significato. Non ero stato
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spinto a digitare il numero di Dalia proprio dalla gelosia suscitata dall'impressione
opposta?
«Cosa intende per ‘insignificante’, Professor?»
Cosa avevo inteso dire, in effetti? La mia fresca rivalità con J. J. Bernhard mi
rovesciava tizzoni ardenti nell'addome, rendendomi pateticamente insicuro, mentre la
rivalità stantia con Seto mi pompava nelle vene una volontà ferrea di prevalere. Avrei
dovuto spiegare al marito della mia amante che era lui l'adultero, lui l'uomo di troppo? E
lo era stato anche prima che J. J. Bernhard si intromettesse nelle nostre vite? «J. J.
Bernhard è l'ultimo dei nostri problemi, Signor Sasanuma» dissi invece. «Conosco la sua
Dalia abbastanza bene per rassicurarla »
Seto urlò sottovoce nel ricevitore, interrompendomi: «Dalia mi tradisce, mi
tradisce! Cosa crede, Professor, che basti l'opinione infondata d'un estraneo per
rassicurarmi! Ci dormo assieme tutte le notti, io! Se il mio matrimonio con Dalia dovesse
mai fallire, la mia famiglia a Tokyo »
«Un estraneo?» gli feci eco con un ringhìo, interrompendolo a mia volta. La sua
scelta di espressione mi aveva inviperito. Poi mi toccò ascoltare le sue orride parole di
scusa: «… ho sposato Dalia per orgoglio, sfidando l'opinione dei miei parenti a Tokyo…
un matrimonio con un’araba, Dalia è praticamente araba malgrado i capelli rossi, non
potrei essermi sbagliato?… ho sempre trovato ripugnanti i matrimoni misti in America,
tra uomini negri e donne bianche… il mio matrimonio è degenerato in una faccenda di
relazioni pubbliche aziendali, non posso perdere la faccia di fronte ai miei amministratori
delegati… ci sono enormi interessi in gioco, il fattore della credibilità personale del
CEO…»
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«Io sono dalla sua parte, Mr. Sasanuma» gli mentii.
Seto emise un mugolio sommesso di gratitudine nel ricevitore. Doveva aver
pensato, in una deformazione nipponica dei costumi occidentali, che dividevamo un
momento di solidarietà maschile, di male bonding: il marito e l'amico fedele, accomunati
nell'affetto per la stessa donna... Io meditavo invece, furioso, sul suo accordo
prematrimoniale con Dalia. L’aveva voluta tutta per sé, a patto che lei non reclamasse
nulla della sua fantastica ricchezza la geisha sottomessa, il ricettacolo malleabile dei
suoi sfoghi notturni… Meditavo sul sorriso segreto, quelle labbra liquide che Dalia mi
aveva mostrato tanto tempo prima; io stavo in piedi di fronte al mio letto mentre le dita di
Dalia mi rivelavano le perle traslucide che la nostra passione, appena spenta, vi aveva
posato...
«Posso dimostrarle che Dalia non la tradisce con J. J. Bernhard, Mr. Sasanuma»
aggiunsi stolidamente.
«Dice davvero? Cos'ha scoperto, Professor?» disse.
Risposi che non volevo parlarne al telefono. Intanto, il percorso accidentato che
avrebbe portato alla rovina di Seto si delineava a grandi linee nella mia immaginazione,
inspiegabilmente, colla chiarezza cifrata di una mappa del tesoro. Era importante che ci
vedessimo di persona al più presto, aggiunsi. Seto mi pregò di fargli visita alla
Omega.com l'indomani in tarda mattinata. Consentii d'impulso, sopraffatto
dall'impazienza di fare una prima sortita sul campo di battaglia. Un attimo dopo essermi
congedato da Seto, però, ero già pentito d'aver accettato l'invito. Come avrei preferito
riservare la mattinata dell’indomani a Dalia, perché mi aiutasse a rinsavire da questa
follia montante!
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Non avrei potuto riprendere a mangiare. Sparecchiai sommariamente il tavolo,
trangugiai un altro paio di bicchieri di vino, e uscii in strada con l'intenzione di fare una
passeggiata lontano dal centro, al buio. Mi ritrovai a camminare invece sotto una luna
ch'era troppo chiara e troppo brillante ma nient'affatto serena. Perché avevo fatto
quell'assurda promessa a Seto, di dissipare, l’indomani, tutte le sue paure? E perché mai,
nel pomeriggio, ero andato a letto con Clare? Come avevo potuto immaginare di tradire
Dalia? Cercavo di concentrarmi su questi pensieri, ma l'aroma acre della vagina di Clare,
tuttora sulle mie dita, più fragrante del sapone con cui credevo d’averlo rimosso, sfaldava
la mia memoria di Dalia e mi spaesava. Pensavo veramente che Dalia avesse un rapporto
clandestino con J. J. Bernhard? Non avrei mai potuto insultarla, comunque, rivelandole
questo mio sospetto. Vagolando sotto lo sguardo di quella luna che, avevo deciso, mi
spiava risentita, presi rapidamente a vagliare una matassa di divagazioni inconcludenti
sullo scarto che separa la dedizione sincera dai più fermi propositi di fedeltà sessuale.
Nello sdipanarsi, queste considerazioni mi sembravano gemme ineguagliabili di
perspicacia; e deploravo tra me la carenza di acume con cui avevo sondato fino allora le
incognite della mia vita, quando mi trovavo, finalmente, a un passo dalla loro completa
soluzione! A un certo punto, immerse in un chiaroscuro lattiginoso, vidi le vette delle
colline fiancheggiare la valle come una spaziosa muraglia protettiva, e mi sembrarono
impregnate d'un'oscena bellezza superflua, grandiosa, smisurata. Scoppiai a singhiozzare,
vomitando sul bordo del marciapiedi. Ero ubriaco.
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Ero andato a letto tardi, scoraggiato, affamato ma troppo disgustato per trovare
conforto nel cibo, con la rassegnazione di chi si prepara ad una nottata insonne. Cosa
avrei detto a Seto l'indomani? Quale oscuro impulso a dominare il fato aveva prevalso sul
mio buon senso, nel corso della nostra recente conversazione telefonica? Avevo di fronte
molte ore d'insonnia per ponderare tutti gli aspetti della questione. Terrificato dalla
prospettiva, inghiottii due pillole di sonnifero. E sprofondai istantaneamente in un
pesante torpore, una specie di rifiuto insonne a riconoscere la mia stessa coscienza,
raggrumata intanto in un calderone di macchinazioni vertiginose.
Riaffiorai a mattino avanzato con un dolore sordo alle tempie, svegliato
dall'ingresso surreale di Dalia e Ayako nella mia camera da letto. Era una visita piuttosto
inusitata, considerai, allarmato, nella mia posizione supina, la mente non del tutto
districata dal vortice delle mie congiure notturne. Ayako doveva essere indisposto,
altrimenti sarebbe stato a scuola a quell'ora. Dalia sarebbe normalmente arrivata da sola.
Ayako non poteva essere troppo indisposto, però, perché in quel caso… Famelicamente
all'erta, di colpo, dopo l’attacco di vomito della vigilia, scrutai con cupidigia il panino
morsicchiato che Ayako stringeva in mano. No, Ayako non avrebbe mangiato prosciutto
e formaggio per colazione se fosse stato seriamente ammalato. Vidi che passava il panino
alla mamma e poi, un libro sottobraccio, usciva dalla camera abbozzando un inchino
nipponico alla maniera di suo padre rivolto a lei? a me? Sarebbe certamente andato
nella sala da pranzo, che gli serviva da sala giochi ogni qualvolta Dalia, a corto di baby
sitter, me lo affidava per qualche ora.
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La presenza di Dalia mi rincuorava, e non provavo nessun senso di colpa nei suoi
confronti. Saltai giù dal letto e corsi in bagno, reprimendo lo stupido impulso di
strapparle di mano il panino di Ayako, che lei aveva cominciato a sbocconcellare.
Quando tornai in camera, rinfrescato e con indosso una vestaglia, Dalia mi si avvicinò
masticando giudiziosamente, e mi strinse subito in un forte abbraccio silenzioso col fare
della congiurata o della complice, quasi che fosse pure lei reduce dalla spirale dei crimini
immaginari che avevo commesso nel corso della notte. Premette le labbra contro le mie e,
stringendomi la nuca con la mano, fece pressione con la mandibola finché non ebbi
spalancato completamente la bocca. Avvertii una forma fusiforme scorrermi lungo il
palato. Pensai un istante che fosse la sua lingua, ma dovetti ricredermi quando continuò a
penetrare in avanti, sinuosa come un rettile, esacerbando la liquefazione delle mie papille
gustative. Avvertivo con un languido senso di vergogna, mentre inghiottivo, lo scorrere
incontrollato della mia saliva sul mento, sul collo e lungo il torace. Dal piacere e dalla
paura che provavo, tenevo gli occhi strettamente serrati, ed era come se le orecchie mi si
fossero completamente otturate. L'istinto, più che non il senso del gusto, mi diceva che il
fuso che mi stava penetrando, flessibile ma compatto, era il boccone di cibo che Dalia
aveva appena masticato. E, nel buio e nel silenzio del nostro abbraccio, avevo
l'impressione rassicurante di esistere da sempre in questa condizione, sorda e cieca, di
completa dipendenza da lei.
Quando ci separammo, Dalia ruotò sui tacchi e uscì di scena con un sorriso
blando sulle labbra, troppo incomprensibile per essere interpretato con certezza.
Attraversava la stanza senza rumore, come se il pavimento fosse reso liquido dal
movimento dei suoi piedi scalzi. Dopo un intervallo di immobilità, durante il quale ebbi
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l’impressione che il rivolo spesso che avevo ingerito dalla sua bocca defluisse attraverso
l'arco intero della mia spina dorsale, mi sentii libero, solido sulle gambe e rinfrancato,
come assolto, dai disastri del giorno prima.
Evidentemente madre e figlio si erano consultati prima di arrivare, ed era stato
concordato che Ayako avrebbe trascorso la mattinata in mia compagnia. Dovevo aver
visto giusto, allora; Ayako non era poi troppo malato. Decisi che lo avrei portato con me
all'appuntamente con Seto, purché se la sentisse di fare quel viaggetto in automobile.
«Sai cosa c'è di buono a San Valentino, quest'anno?» mi chiese di punto in
bianco. Era quasi il quattordici di Febbraio.
«Non saprei. Qualcosa di speciale? Dimmelo tu».
«C’è che nessuno mi vuole bene.»
Lo vidi accucciato nella sua statura minuscola, un animaletto vulnerabile, privo di
difese, logorato dallo squallore del mondo che gli preparavano gli adulti. Pensai a mio
figlio Alberto, esposto pure lui a chissà quali angoscie giovanili, impossibilitato a
consultarsi a distanza col padre. Mi piaceva credere al pensiero conveniente che fosse
stata l’ignavia della mamma a privare nostro figlio della mia vicinanza. La verità è che
non ero preparato, al tempo, all'ammorbidimento cui la maternità piegò il carattere tutto
pepe di Elsa, sebbene fossi stato io a insistere perché avessimo un figlio al più presto.
L'affetto incondizionato che mia madre aveva riversato sulla mia infanzia era stato
decisivo nel predispormi alla paternità come ad una tappa obbligata. Ma ignoravo quanto
l'affetto di una madre sia perfetto, privo di remore, esclusivo di tutto quel che non gravita
nella propria sfera simbiotica. Da piccolo, in prossimità di mia madre, non mi riusciva di
immaginare un futuro che non fosse identico alla fiduciosa certezza con cui anelavo ai
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nostri abbracci imminenti. Tanto con Alberto quanto con Elsa, molti anni più tardi, il mio
affetto non potè più che sgranarsi invece in una serie di contatti disgiunti, frammentari ed
instabili, appena intiepiditi dal calore passeggero di una carezza, o d'un coito con lei. Il
loro reciproco affetto precipitava intanto nel punto di fuga incorporeo che coagula la
prospettiva dell'eternità. M’ero privato della mia amante, in Elsa: ne avevo fatto una
madre! Al tempo del divorzio ero quasi sul punto di perdere l'uso dei polmoni, tanta era
l'ansia, la tosse cronica, tant'era la desolazione della mia solitudine.
«Nessuno ti vuole bene… ! Che idea assurda» risposi ad Ayako. «Come ti viene
in mente?… Ci sono qua io che ti voglio bene. E ci sono i tuoi genitori… Pensa alla pena
che daresti a Dalia, se ti sentisse...»
Mi spiegò con aria di sufficienza che intendeva tutt'altra cosa. I suoi compagni di
classe lo consideravano troppo intelligente (anche a causa delle sue domande sulla storia
antica, che trovavano la maestra impreparata a rispondere), dunque nessuna delle
bambine gli avrebbe scritto un bigliettino di San Valentino.
«È soltanto per gelosia, sai. Anch'io da piccolo…» Mi interruppi in tempo. «E
poi, chi ti dice che andrà proprio così! Magari invece, a tua insaputa, c'è qualche bambina
già un po' innamorata di te».
Troncò il mio ragionamento con un deciso «ma fammi il piacere!» Poi prese a
sfogliare il suo libro. Mi accucciai al suo fianco. I Romani. I Greci. I Fenici. Con
parecchie risposte sbrigative e qualche spiegazione deliberatamente orientata all'indietro
nel tempo, lo manovrai, di pagina in pagina, alla volta della riproduzione di un papiro
funerario egiziano. Il commento a fianco dell'immagine attribuiva il documento al lungo
regno di Ramsete IXo, nella fase tarda della XXma Dinastia.
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«Quello al centro con la testa di sciacallo è Anubi» stavo dicendo. «Alla sua
sinistra si vede il defunto per il quale è stato scritto questo papiro».
«Chi lo ha scritto…?» mi fece eco Ayako.
«Lo stesso scriba che ha vergato i geroglifici. Una bottega di scrittori lavorava al
servizio del faraone. Vedi, non c'è differenza tra i grandi disegni di questa tavola, come il
ritratto di Anubi, e i piccoli caratteri incolonnati di sopra e di fianco. Sono tutta una
scritta».
«Tutt'una scritta?… Ma i disegni mica sono fumetti, mica si possono leggere».
«Gli egiziani leggevano i disegni come se fossero parole».
Vidi Ayako in difficoltà di fronte alla mia risposta. Cominciò a intrecciare le dita
di una mano con quelle dell'altra, come un programmatore in crisi di astinenza da tastiera;
imitava sicuramente i manierismi del padre. Decisi di spostarmi su un terreno meno
insidioso: «Vedi quella cordicella nella mano di Anubi? Regge il piatto di una bilancia.
Sul piatto c'è una piuma d'uccello. Il peso della piuma andrà confrontato col peso del
cuore del defunto».
«Perché? Chi ha messo la penna sul piatto?»
«Ce l'ha messa Anubi».
«Ma chi l'ha disegnata?»
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«Il nostro solito scriba. Lo so quel che stai per chiedere, Ayako. Vorresti sapere se
la piuma è soltanto un disegno o se gli egiziani la leggevano come se fosse una parola».
Annuì vigorosamente, torcendosi di nuovo le dita l'una con l'altra, e tentando allo
stesso tempo di fregarsi il naso con la punta dell'indice.
«Proviamo ad andare avanti» proposi. «Quello con la testa di ibis, alla destra di
Anubi, si chiama Thoth, è il dio della scrittura e l'autore di questo papiro».
«Autore...?» mi fece eco, aggrottando la fronte.
«Lo ha fatto lui, questo papiro».
«Ma se hai appena detto che è stato uno scriba a scriverlo» obiettò, lanciandomi
uno sguardo veemente.
La scrittura geroglifica annulla la barriera che separa lo scriba dalla sua
ispirazione divina. C'è verso di far comprendere questo principio a un bambino di otto
anni? «Vedi, Ayako, gli antichi egizi chiamavano la scrittura medu netcher… Significa:
le parole degli dei. Pensavano che la loro maniera di scrivere fosse identica alla maniera
di parlare degli dei».
Concentràti sulle mie labbra come due laser, gli occhi di Ayako sembravano
determinati ad estrarne il succo della verità. Disse: «Ma per parlare ci vogliono le parole!
Questi disegni sono solo figure!»
«Appunto. Gli antichi egizi pensavano che gli dei parlassero con le figure. Per
questo leggevano le figure come se fossero parole vere e proprie. Se guardi bene, vedrai
che tutte queste figure sono immagini di cose reali. Vedi?» Presi a indicargli geroglifici a
caso. «Questo è uno sparviero, questa un'ape… qui c'è una piuma di struzzo, un serpente
»
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«Come si fa a parlare con le figure?» mi interruppe.
«… lì c'è una colonna di fumo e quella è una testa di leone… Quest'uccello
dev'essere un altro sparviero. Se fai uno sforzo, Ayako… cerca di metterti al posto di un
bambino egiziano. Guardi il cielo, ci vedi passare uno sparviero e ti domandi: perché il
dio mi sta mostrando proprio uno sparviero, e non piuttosto un passero o una nuvola?
Cosa intende dirmi?»
Potevo riconoscere il dubbio dell'incomprensione farsi strada inesorabilmente nei
suoi occhi, tuttora puntati su di me come due laser. Aveva districato le dita, e stava
palpando insistentemente a turno le sue matite colorate, sparse intorno a noi sul
pavimento. Il principio mistico insito nella rappresentazione geroglifica del mondo
d'oltretomba non si afferra con la duttilità dell'acume infantile. È richiesta una perdita
essenziale di innocenza; sono richiesti i grandi giri di sonda della mente adulta, adusa ai
negoziati con l'incognito, ai compromessi con quel mondo oscuro di cui ci sappiamo
residenti predestinati. «Andiamo avanti» provai a dire. «Vedi quella specie di mostro alle
spalle di Thoth?»
«Il mostro con la testa da coccodrillo…»
«… e il torace da giaguaro e le zampe posteriori da ippopotamo. Lo chiamavano il
Divoratore dei Morti. Riceveva il responso di Anubi e poi »
«Cos'è un responso?»
«Guarda la bilancia: Anubi sta confrontando il peso del cuore del defunto con il
peso d'una piuma di uccello, ricordi?»
«Sì, e allora?»
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«Se il cuore è troppo pesante, questo è il responso di Anubi… è la sua decisione:
questo cuore appartiene ad una persona indegna, vile o cattiva. Sarà dato in pasto al
Divoratore dei Morti».
«E se il cuore è più leggero della piuma?»
«In questo caso supera la prova della bilancia, viene accolto nel regno dei morti e
diviene uno scrittore al servizio di Thoth».
«Ma va’!… Allora sono tutti scrittori nel regno dei morti?»
«Sì, in un certo senso. È una cosa che ha a che fare con la scrittura. Quando un
antico egizio leggeva i geroglifici, i suoi occhi davano vita ad una figura alla volta. Dopo
di che, questa figura tornava ad essere un disegno senza vita, ma il significato rimaneva
sospeso nella memoria dell’egizio che l’aveva letta. Un po' come fai tu mentre ascolti
quello che ti dico, parola per parola, Ayako. Per comprendermi, devi allineare tutte le
parole che senti, in fila, una dietro all'altra nella tua memoria. E alla fine, dai loro un
significato, che è il significato di quel che ti ho detto. Questa facoltà di rianimare le figure
contenute nella memoria è il dono che i morti fanno agli essere viventi »
«Perché?»
«Perché i corpi dei morti sono inanimati come i geroglifici, e come i geroglifici,
ritrovano la vita nella nostra memoria».
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Scendemmo in strada e cominciammo a camminare in su e in giù, tenendoci per
mano. Cercavo di ricordare dove avevo parcheggiato il mio Volkswagen-Ghia. Diversi
anni prima, al mio arrivo in Silicon Valley, ero stato brevemente contagiato dalla mania
locale per automobili tedesche d'epoca; ora ne facevo le spese con un modello celestino
della Karmann, carrozzato di cromature rutilanti da Ghia nel 1969. Non lo utilizzavo da
un paio di mesi; in campus ci andavo a piedi, o tutt'al più prendevo la navetta di Stanford
nei giorni di pioggia.
Fu Ayako ad additarmi il Volkswagen parcheggiato, finalmente. Non l'avevo
riconosciuto: la carrozzeria celeste era coperta d'uno strato di polline giallo, spesso ed
incredibilmente uniforme. Trovai parecchie multe inevitabili sotto il tergicristallo, e
anche un monito municipale, che annunciava la rimozione imminente del veicolo per
occupazione indebita di suolo pubblico, seguita eventualmente da vendita d’ufficio in
asta pubblica. Stando alla data, la mia preziosa automobile l'aveva scampata per il rotto
della cuffia. Riflettei senza convinzione, colpevolizzandomi, che avrei potuto lasciare che
il polline di alberi e cespugli circostanti seppellisse definitivamente il mio status symbol,
come la sabbia del deserto aveva fatto, tanti secoli prima, con le piramidi egiziane.
Stracca come idea stavo cercando, nel corso di questi pensieri, di sommare l'ammontare
di tutte quante le multe da pagare. Un po' ci assomigliava persino, il mio Volkswagen-
Ghia, ad un sarcofago.
La batteria era scarica, naturalmente. Digitai sul telefonino il numero che avevo
dovuto memorizzare in tante circostanze simili, e riconobbi subito, con un senso di
fatalità, la voce acuta del cubano di mezz'età che gestiva un servizio di pronto soccorso
automobilistico. Stavolta sembrava trattarsi soltanto della batteria, gli spiegai senza
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troppa verve. Lo istruii sulla posizione del veicolo. Tentai anche di descrivergli il
Volkswagen ma mi interruppe con una breve risata, in bilico tra il gioviale e il sarcastico,
obiettando che la mia auto se la ricordava fin troppo bene. Mi presi una rivincita
dicendogli che però adesso era diventata gialla. Lasciai il Volkswagen aperto colle chiavi
nel cruscotto e proposi ad Ayako di fare la prima colazione, anzi la seconda per lui, da
Starbucks; parlando col cubano, avevo provato la brama d'una dose urgente di caffeina.
Di ritorno dal bar, riconobbi parcheggiato accanto al mio Volkswagen un lucido
camioncino inconfondibile, le sospensioni idrauliche drammaticamente rialzate e la
carrozzeria colorata in modo da evocare una cometa in fiamme. Il mio soccorritore stava
già chiudendo i cofani dei due veicoli, mentre la voce quasi virile di una cantante
ispanica, spillata dai potenti altoparlanti contenuti nell’abitacolo del suo camioncino,
trasformava l'isolato in un quartiere dell'Avana. Sbuffi di fumo cupo scatarravano dai tubi
di scappamento del mio Volkswagen. Vedendomi arrivare, il meccanico cominciò ad
agitarsi, urlando inutili improperi, soverchiati dalla musica della radio. Non sentivo bene
quel che diceva, ma gli risposi comunque, a naso, una volta che fummo a distanza
ravvicinata: «Non è proprio giallo, ma a me sembra più giallo che celeste, non è
d'accordo?»
«Ma che giallo e giallo!» Una specie di salvagente carnoso gli si era gonfiato
sotto il mento, tremolante come un budino. «Ho girato un quarto d'ora prima di trovare la
sua macchina. Cercavo un Volkswagen giallo! Ci sarò passato di fianco una dozzina di
volte senza vederlo!»
«Un Volkswagen carrozzato Ghia non è troppo difficile da riconoscere» cercai di
rimediare.
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«Ah no!» ribattè prontamente senza celare la malizia. «È la macchina d'epoca più
comune in Silicon Valley!»
«Non mi dica!»
«Sarà la quarta che rimetto in moto stamattina. Son tutte dei ruderi!».
Non riuscivo a capire se era veramente furibondo, come dava a vedere, o faceva
solo finta, perché l'asprezza compiaciuta di quel suo inveire tradiva una sorta di
divertimento. «La quarta di colore celeste o in generale?» provai a scherzare. Ma quando,
per tutta risposta, mi presentò il conto, compresi d'aver fatto la solita figura del fesso.
Dovette issarsi a forza di braccia nell'abitacolo di guida, la scocca così alta e lui
così piccoletto. Mentre metteva in moto, gli dissi che se continuava a praticare certi
prezzi non mi sarei più fatto pizzicare con la batteria a terra. Mi sogguardò attraverso il
finestrino dalla mia prospettiva pigmea, scorgevo a malapena i suoi occhi e le
sopracciglia, arricciate come baffi. Disse: «Ma no, ma no, amigo. Errare humanum est!»
In quel momento qualcosa attrasse la sua attenzione. Sporse la testa fuori del tutto e puntò
un dito sorpreso in direzione di Ayako. Quel gesto mi ricordò che avevo utilizzato il
Volkswagen molto di frequente al tempo delle mie relazioni simultanee con Clare e con
Stella. Entrambe le due giovani erano perdutamente invaghite del mio giocattolo. Il
cubano ci aveva soccorso parecchie volte, anche in piena notte l'automobile in panne e
Clare oppure Stella a bordo in un succinto abito da sera; ma il meccanico, forse per
ragioni di tatto, aveva sempre finto di ignorare la presenza della mia passeggera, persino
nei casi in cui si era trattato di trainare l'auto al garage e procurarci un taxi.
«El niño, quién es?» disse al di sopra della canzone cubana che straripava
prepotente dal finestrino.
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«Mio figlio… mi hijo» risposi.
«Aaah, lindo… su niño es lindo!» Diede una possente accelerata, fece
retromarcia, invertì bruscamente la direzione con una impennata plateale del cofano color
fiamma, e scagliò la sua cometa musicale a caccia della prossima vittima.
Avevamo accumulato un ritardo impressionante sul mio appuntamento con Seto.
Prima di salire a bordo e partire in direzione della Omega.com, dovetti attardarmi a
spiegare ad Ayako il significato del detto latino citato a mezzo dal meccanico. «Errare
humanum est… Insomma, voleva dire che può succedere a tutti di avere la batteria
scarica». Gli aprii la porta sul lato del passeggero e aggirai il cofano per raggiungere il
posto di guida. Mi scorava l'impossibilità di comunicare ad Ayako la mordacia implicita
nelle parole del cubano. «Errare è alla portata di tutti» tradussi fiaccamente, sedendo
nell'auto della mia diabolica perseveranza, accolto con un lamento dalle molle stracche
del sedile.
Il vestibolo nella sede della Omega.com era programmato elettronicamente in
modo da sveltire l'andirivieni pur opponendo un ostacolo insormontabile ai visitatori
indesiderati. Seto mi aveva spiegato al telefono che non appena mi fossi introdotto
nell'edificio, il monitor al centro del vestibolo mi avrebbe automaticamente smistato alla
volta dei suoi uffici. (Mi ero impressionato al sentirgli declinare la parola ufficio al
plurale.) L'edificio era una specie di padiglione con esterni avveniristici in cristallo ed
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acciaio cromato. Gli interni erano rivestiti di grandi lastre in marmo nero, prive della
minima venatura e senza percettibile soluzione di continuità tra le giunture. Non mi ero
aspettato l'arboreto sconfinato che circondava l'impresa a mo' di parco, di cui Ayako
aveva evidentemente memorizzato i molti meandri sinuosi. Bisognava emergere
dall'arboreto prima di intravvedere i riflessi del sole sul metallo e i cristalli del
padiglione. La strada a quattro corsie solcava uno spiegamento di palmizi ed agrumeti
aranci, nespoli e limoni alternati ad eucaliptus blu e punteggiati dall'occasionale agave
gigante o cactus in fiore. Sequoie colossali dai tronchi rossi si ergevano al di sopra di
tutto il resto, come colonne sormontate da fregi verdi embricati. Nello spiazzo di fronte
alla porta a vetri che introduceva al vestibolo era sospesa un’imponente struttura tubolare
in metallo rosso. Infiniti spilli d'acqua fuoriuscivano dal ventre inferiore del tubo e
precipitavano nel bacino sottostante, ricavando una specie di Ω schiumoso nell'acqua blu.
Quando fummo oltre la vetrata, diressi i passi verso il monitor descrittomi da
Seto; era al centro della hall, tutta nera salvo le vetrate d'accesso e la colonnina
neoclassica, in marmo eburneo, che lo reggeva. Provai a toccare una delle icone sullo
schermo. Ayako intanto mi tirava per un lembo della giacca ma non gli davo retta. Lo
schermo si riconfigurò subito in una profusione di icone tutte pressapoco simili. Il mio
appuntamento con Seto dipendeva evidentemente da uno di quegli ideogrammi, ma il
sistema sembrava concepito da una logica incompatibile colla mia immaginazione.
Ayako era tornato a strattonarmi; approfittando della mia perplessità dinanzi al monitor,
mi trascinò verso il fondo del vestibolo. Procedeva ad un passo talmente spedito che per
un momento mi illusi che la parete di marmo nero non fosse che un ologramma
malleabile, predisposto a scorporare la propria struttura molecolare; l’avremmo
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attraversata di slancio, e saremmo emersi al cospetto di Seto in uno sbuffo di vapori,
come il più ordinario dei fantasmi. Un minuscolo interstizio quadrato in vetro nero
interrompeva la superficie di marmo a pochi piedi dal pavimento. Ayako ci posò
brevemente il dito pollice, scrutandomi, intanto, per misurare la qualità della mia
reazione. In tono tentativo, come se imitasse un adulto che aveva stupefatto lui alla stessa
maniera, pronunciò la formula magica: «Apriti Sesamo». La parete nera ci scivolò
dinanzi agli occhi in un silenzio da cripta, come se scorresse su cuscinetti a sfera, e
Ayako mi introdusse con un inchino nel vano d'un ascensore. Premette il pulsante
dell'ultimo piano. Mentre salivamo, mi bombardò di elucidazioni nella terminologia
incomprensibile del software. Siccome continuava a sbandierarmi il pollice sotto il naso,
ne dedussi che Seto aveva programmato il detector di impronte digitali perché
riconoscesse la conformazione del polpastrello che Ayako aveva premuto sul vetro nero.
Ero infastidito dall'eventualità che Ayako, in visita all'azienda di Seto, avesse condiviso
quel momento ludico con il padre.
La assistente di Seto si chiamava Delapasture, eppure parlava con accento
britannico. Aveva la carnagione del viso bianca come neve con due petali rosa sulle gote,
capelli d'un biondo naturale praticamente platino, e portava occhiali sottili in bacalite
nera. Avrà avuto vent'anni tutt'al più. Accolse Ayako con un un cenno negligente del
mento e delle fossette, da coetanea. Per me sfoderò invece un trattamento sconfortante da
matusalemme. Fuori del recinto accademico, mi trovai a rimuginare, la mia aria sciupata
alla Sturm und Drang diventava appannaggio dei capitani d'industria oppure dei
vagabondi senzatetto; non c’era via di mezzo. La giacca che avevo sbadatamente gettato
sulle spalle quel mattino mi qualificava piuttosto, dei due ranghi, in quello inferiore.
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Delapasture mi prese da parte intanto che Ayako, evidentement un habitué del
vasto ufficio della ragazza, attaccava a rovistare tra l'hardware sulla scrivania. Entrammo
in un ampio vestibolo dal soffitto insolitamente alto, attraverso le cui pareti a vetrata
filtrava un sole infernale. Per un attimo mi vidi riflesso nello sfolgorio degli occhiali di
Delapasture. Il silenzio claustrale nel vestibolo smorzava il filo di voce con cui lei aveva
preso a recitarmi il resoconto dei risultati illustri conseguiti tra quelle pareti. Ci
avviammo alla volta di un divano ed un paio di poltrone sormontati da un dipinto di
Clemente; il maestro italiano vi aveva raffigurato, su uno sfondo verde pastello, il naso
d'un volto umano, attorniato di montagnole e qualche vulcano lillipuziano.
«Very italiano», disse Delapasture, indicandomi il quadro.
Fui tentato di chiedere se era autentico. Delapasture mi anticipò puntando
negligentemente il mento e le fossette verso la poltrona in cui m'ero lasciato cadere.
«Quella è un Dakota Jackson». Finsi di volermi alzare per spolverare le tracce del mio
sacrilegio. Lei emise una risatina acuta da liceale. Di tanto in tanto uno stormo di
gabbiani balenava radente lungo la vetrata, facendo rimbalzare chiazze d'ombra sui muri
e sul pavimento. Delapasture teneva le narici inarcate al di sopra del suo sorriso. Aveva
un naso insolitamente affilato, notai in quel momento, del tipo in cui risorse
cromosomiche e cosmesi plastica hanno raggiunto un’invidiabile coesistenza pacifica.
«Lo vede quel grande ulivo nel parco, Doctor Balsamo?» Si era accovacciata sul
divano accanto alla mia poltrona, flettendo i polpacci nudi sotto le ginocchia. «L'hanno
piantato i missionari spagnoli di Santa Clara nel 1790».
«Cosa ne fate delle olive?»
«Non saprei… Che diavolo ci si fa colle olive, ad ogni modo?»
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«Olio?»
Mi sogguardò soppesando l'informazione, come per sincerarsi che non la stessi
prendendo in giro. Poi continuò: «Non potrebbe fare qualcosa per me, Doctor Balsamo?
Devo chiederle un favore personale».
«Io? Fare qualcosa per lei?» le feci eco. «Ma sicuro, se mi è possibile».
«A lei, Seto Sasanuma darebbe retta» continuò sottovoce, non senza aver lanciato
un'occhiata di sguincio alla volta del corridoio. «Mr. Sasanuma mi parla sovente di lei. La
ammira tanto, sa? Quando ho confidato ai miei colleghi che Doctor Balsamo sarebbe
passato quaggiù da noi stamani, non le dico l'eccitazione che ho provocato. Sono tutti
elettrizzati. Si aspettano grandi cose da lei».
«Io veramente »
Non mi fece continuare. «Vede, mi ci provo da una settimana ma evidentemente
non ce la faccio da sola. Il problema è che l'azienda intera pretende che sia io a risolvere
la situazione. In un certo senso, sono stata assunta con questa mansione specifica».
«Di quale mansione sta parlando per l'esattezza, signorina?»
«Mi chiami pure Delapasture. Tutti mi chiamano Delapasture, qui in ditta».
«Di quale mansione sta parlando, Delapasture?»
«Sono incaricata di facilitare le funzioni di Mr. Sasanuma in qualsiasi circostanza.
Sarei la sua assistente personale, diciamo. Ma questa emergenza è al di sopra delle mie
risorse.» Sfilò una microscopica scatola metallica da una tasca invisibile della gonna, ne
estrasse una pilloletta e la inghiottì con disinvoltura. «Vede? Sto anche diventando
assuefatta al Prozac».
«Seto ha delle difficoltà? È vittima di una situazione di emergenza?»
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«Be' sì, ma non sappiamo di cosa si tratti esattamente. Il fatto è che da una
settimana non accende più i suoi computer. Wall Street è paralizzato, per così dire.
Quando Mr. Sasanuma parla…» Si era spinta in su gli occhiali con un dito,
abbagliandomi per un istante. «Faccio per dire. Mr. Sasanuma non parla mai con
nessuno. Si limita ad annunziare le sue innovazioni. Sette anni fa fece scalpore con
l'introduzione delle finestre a chiocciola, ricorda? Wall Street rimase in spirale per nove
settimane. Poi, tre anni fa, escogitò l'invaginazione di finestre ogivali per ordini opzionali
di priorità. Persino la concorrenza riconosce che le invenzioni di Mr. Sasanuma hanno
l'eleganza di opere d'arte. L'Art Institute di Chicago sta proprio allestendo una mostra
dedicata ai programmi informatici che Mr. Sasanuma scrisse in Giappone da ragazzo. Le
nuove generazioni di programmatori li fanno inquadrare per appenderli alle pareti».
«Ma quale sarebbe il problema, esattamente?»
«Da una settimana in qua Mr. Sasanuma ha chiuso i contatti. Ha tagliato i ponti
con il resto del mondo. E io non ce la faccio a convincerlo. Non c'è verso. Mercoledì
scorso ho preso un'iniziativa disperata e gli ho fatto trovare tutti i suoi computer accesi!
Fino alla settimana prima non li spegneva mai... Non le dico la sfuriata che mi ha fatto!»
«Ma io »
«Solo lei può aiutarci, Doctor Balsamo» disse, alzandosi ed invitandomi a
seguirla con lo stesso cenno negligente del mento e delle fossette che aveva rivolto prima
ad Ayako e poco dopo alla poltrona di Dakota Jackson. «Mr. Sasanuma mi parla sempre
di lei. Non la chiama mai per nome, sa. Si limita a dire: the Professor. The Professor di
qua, the Professor di là… Nutre una grande fede in lei, mi creda. Mi ha anche detto…
veramente avevo giurato di non farne parola… mi ha parlato della sua nuova scoperta...»
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«La mia nuova scoperta?» domandai, mentre procedevamo verso un portale in
legno massiccio a due battenti. «Quale?»
«Il nuovo Libro dei Morti che lei ha scoperto in una piramide egiziana. Si chiama
Libro del Respiro. Lo so, lo so» aggiunse in tono apologetico, «non bisogna parlarne, è
ancora un segreto». Si era portata le mani alle gote per racchiudervi i due petali rosa, che
s'erano accesi visibilmente nel corso della conversazione.
Mentre assorbivo queste lusinghe, prima fra tutte quel cenno da coetanea che
m’aveva appena rivolto, lo stormo dei gabbiani tornò a sferzare la luce delle vetrate con
furia rinnovata.
«Insomma, Delapasture, il Libro del Respiro… non parlerei di »
Ma la ragazza aveva già cambiato argomento: «Noi qui dipendiamo da lei, Doctor
Balsamo. Le azioni della Omega.com hanno perso troppi punti percentuali a Wall Street.
Ci rimettiamo tutti, sa. Anch'io ho la mia piccola quota di azioni preferenziali. Persino i
miei genitori… Capirà, Mr. Sasanuma è il mio eroe, fin dal tempo delle medie superiori.
Da quando lavoro qui, anche i miei genitori si sono messi a investire nella Omega.com».
Si diede una frullatina corrucciata ai capelli. «Se solo sapessero, se solo sapessero…»
Delapasture mi introdusse in una specie di piazza d'armi luminosissima. Parecchie
grate disseminate sul pavimento soffiavano all'insù un'aria profumata di lavanda.
All'estremo opposto della porta riconobbi Seto, seduto dietro una scrivania in acciaio
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inossidabile. Indossava vistosi occhialoni neri alla Ray Charles. Sfilando impulsivamente
i miei occhiali da sole dal taschino della giacca, gettai gli occhi al soffitto e riconobbi una
replica della Cappella Sistina. Distribuiti lungo le pareti a vetro c'erano parecchi cubicoli
chiusi su tre lati. Ciascun cubicolo conteneva congegni che non mi erano per niente
familiari; ma in ognuno erano riconoscibili una tastiera ed uno schermo a cristalli liquidi.
Delapasture mi lanciò un cenno impercettibile del mento e delle fossette del tutto
superfluo, perché saltava agli occhi che nessuno degli schermi dava segno di vita.
La scrivania di Seto era ingombra di minuscoli origami in tinte pastello, distribuiti
intorno ad una spada ricurva da Samurai. Delapasture mi invitò a sedere in una seggiola
metallica, elegante ma scomoda, piazzata ad una certa distanza dalla scrivania. Lei
sfoderò un Palm Pilot e andò meccanicamente a piazzarsi dietro la spalla destra di Seto.
Lui non aveva ancora alzato gli occhi per darmi il benvenuto, e si astenne dal farlo
fintanto che non ebbe ultimato la piegatura d'un ranocchio in cartoncino rosso e verde.
Fece saltellare quest'origami un paio di volte premendolo col dito indice, poi piazzò i
gomiti sopra la scrivania, posò il mento tra le mani, e mi guardò da dietro le lenti scure:
«Professor» disse senza sorridere.
«Seto» replicai con verve eccessiva, «non mi dica che usa quella sciabola come
tagliacarte!»
Delapasture piegò il collo e lasciò cadere le spalle, delusa dalla mia stecca
d'esordio. Seto strinse blandamente l'impugnatura dell'arma senza sollevarne
completamente la lama.
«Seppuku» mi parve di sentirgli mormorare.
«Seppuku?» gli feci eco in tono inquisitivo.
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«Questa spada è stata usata un paio di volte per eseguire il seppuku o suicidio
rituale, quel che il popolino chiama harakiri» ripose in tono laconico. «Una grande
tradizione del mio paese». Poi aggiunse: «Lei può andare, Delapasture».
«Ayako è nel mio uffico» lei gli sussurrò compunta.
«Non è andato a scuola?»
Fissarono entrambi lo sguardo su di me. «No, non stava troppo bene» spiegai.
«Ma adesso è okay, ha fatto colazione con me da Starbucks».
«Good» disse Seto. «Vada a occuparsi di lui, Delapasture. Non lo porti nel parco.
Andate nella sala di proiezione o in cafeteria … no!» Guardò me di sfuggita: «Ha già
mangiato… andate nella biblioteca magari, o gli mostri la nuova palestra… e la
piscina…»
Delapasture aveva raggiunto la porta quando Seto le gridò: «E NON FACCIA LA
FURBA! IL PARCO È OFF LIMIT ANCHE PER VOI DUE! MI HA CAPITO?»
Delapasture si chiuse la porta alle spalle senza replicare. Come rimanemmo soli,
Seto poggiò il mento nel palmo d'una mano e fece un ampio gesto dell’altro braccio per
indicarmi i cubicoli. «Alcuni dei computer in quei work stations sono programmati per
continuare a sfornare nuovi programmi anche dopo la mia morte. I copyrights andranno
alla Fondazione Sasanuma. Ho lavorato tutti questi anni al fine di neutralizzare la
mortalità. Ormai è evidente a tutti che il corpo d'un individuo è intercambiabile con
quello d'un altro. Quando il mio cuore o il mio fegato sono logori, me ne posso
comperare degli altri. Ma prima o poi il corpo viene sopraffatto dal tempo e finisce in una
tomba. La mente invece non è rimpiazzabile. Non è neanche deperibile. Siamo spiriti
virtuali disincarnati. La cultura del mio paese parla spesso di demoni. In Asia abbiamo un
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oltretomba affollato delle creature più disgustose, diavoli unghiuti e folletti pelosi delle
dimensioni di questi origami…» Puntò un mignolo verso la scrivania senza staccare la
mano dal mento. «Si dice che passino il tempo a mutilarsi a vicenda. Si strappano ciglia,
narici, unghie e testicoli l'uno con l'altro. Ma chi li ha mai visti, Professor? Mi dica, lei ci
crede? Io no »
«Effettivamente» lo interruppi, «taluni tra i miei colleghi pensano che i tratti
bestiali delle apparizioni d'oltretomba siano all'origine della divinizzazione dei morti. I
popoli antichi veneravano i defunti ma ne temevano la ferocia, dunque li immaginavano
trasformati in creature sinistre, con ali di falco, volti di sfinge, lingue biforcute…»
«Sarà così. Ma io sono certo che una cosa sola succeda nell'oltretomba, si chiama
decomposizione. Questi demoni sono pura fantasia. È la putrefazione dei cadaveri che
ricicla il processo naturale della vita sul pianeta… Lasci che le spieghi qualcosa del mio
lavoro di ricerca, Professor. La mia ricerca è orientata da molti anni verso la riduzione
della materia cerebrale a hardware mnemonico virtuale. Il giorno in cui il mio servizio
personale di posta elettronica sarà in grado di rispondere ai messaggi senza bisogno di
consultarmi, quel giorno io sarò virtualmente morto, non crede? Avrò realizzato l'antico
sogno della trasmigrazione delle anime. Ma senza troppi demoni tra i piedi, senza troppe
anime in pena! Sarò diventato immortale, continuamente presente agli altri. E alla fine, la
tomba che mi ospita sarà ridotta ad un cenotaffio, un sepolcro vuoto. Dentro ci starà
appena il mio cadavere».
Accostai la seggiola alla scrivania. «Seto» dissi in tono premuroso, «sento che
qualcosa la turba. Perché mi parla di morte, di tombe? Non sarà a causa di Dalia, spero».
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Si mise a scuotere la testa e fece di nuovo saltellare il ranocchio rosso e verde.
«Professor… Professor…»
«Perché se è la faccenda di Dalia a preoccuparla» mi sorpresi a dire, «oggi sono
venuto qui da lei apposta per rassicurarla». Smisi di parlare perché non comprendevo
quale strano impulso mi spingesse a dire queste cose piuttosto che altre. Mi guardai
d'istinto alle spalle, nel complicato timore che Delapasture spiasse la nostra
conversazione.
«Dalia…» Seto bisbigliò. Sollevò la spada tenendola per la lama, ma senza
staccare l'impugnatura dalla scrivania. Mi sporsi in avanti per guardare l'arma da vicino.
L’immagine di un airone con una piuma nel becco era cesellata sul fianco della lama,
vicino all’impugnatura. «Dalia?» disse ancora, in tono interrogativo stavolta. Poi abbassò
l'altra mano e fece scorrere con forza l'unghia dell'indice contro il pollice, sbattendo il
ranocchio rosso e verde sul pavimento. Attaccò a parlare in un lungo monologo,
fissandomi nel vuoto delle sue lenti scure.
«Quasi tutti i miei dipendenti praticano il jogging, persino i cinesi e i coreani, per
non parlare degli indiani. La piscina e la palestra le ho fatte costruire per rappresentanza.
Non so perché ai programmatori piaccia tanto correre. Ho fatto apprestare il parco… ho
acquistato appezzamento dopo appezzamento a suon di milioni… Lo chiamiamo il
Giardino dei Sentieri Biforcati, ma il piano complessivo è a scacchiera: 65 appezzamenti,
in ciascuno dei quali confluisce e si diparte un sentiero. Virtualmente, un mio dipendente
potrebbe percorrere una combinazione di sentieri diversi ogni giorno della sua carriera, e
arrivare al giorno del pensionamento senza avere coperto che una piccola frazione delle
possibili combinazioni. Al centro del parco ho fatto erigere il Padiglione del Tan Tien.
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Tan Tien significa: Campo dell'Elisir. È una formula mistica che indica il centro virtuale
dell'esistenza, né cuore né cervello, dove si raccoglie il fluido vitale liberato dal Tai Chi.
Ma ben presto ho dovuto vietare l'uso del padiglione del Tan Tien ai jogger… non si può
fare Tai Chi nel mezzo di una folla ansimante… Ho riservato il padiglione per il mio uso
personale. Il Tai Chi è praticato sovente a mani nude, ma il tipo che pratico io, il Tai Chi
Chuan, è a carattere marziale, prevede l'utilizzo d'una spada, o almeno di un'asta o un
bastone. Io mi esercito nel Tai Chi ogni mattina presto, dagli anni dell'università
praticamente, e sempre con questa spada medievale. Permise a due celebri Samurai di
lavare la macchia del disonore dal proprio nome. Il suono della lama…»
Fece una pausa in cerca della parola giusta. Io cercai di interloquire: «Il Tai Chi
però è una disciplina cinese »
«Voi occidentali» mi interruppe con dispetto, «badate troppo a certe sottigliezze!»
Poi riprese, carezzando il filo della lama colla punta del dito indice: «Questa lama
risponde ad ogni sfumatura di movimento, persino alla brezza tra gli alberi, con un suono
che mi ricorda i miei antenati giapponesi. Siamo stati una grande civiltà. Alcuni di noi
praticano ancora le virtù imperiali. Per questo motivo ogni maschio adulto giapponese
dovrebbe possedere un'arma simile. L'onore personale va anteposto alla propria
convenienza immediata, non crede?... È piú d'una settimana che non faccio Tai Chi. I
fluidi vitali del mio Tan Tien sono quasi prosciugati. Non ho più idee, non ho energia, ho
perso la mia curiosità… Non deve pensare che stia divagando, Professor. È andata così.
Un giorno il mese scorso mi sono trovato a concludere l'esercizio del Tai Chi Chuan in
un umore nero. Ed è stato lo stesso il giorno seguente e il giorno dopo ancora. Nel corso
della giornata mi sentivo inappetente, ed ero inconcludente al lavoro. Mi son detto che
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stavo magari prendendomi l'influenza, tuttavia non ho voluto sospendere l'esercizio. Non
ho mancato una singola sessione di Tai Chi Chaun in quindici anni, perché fare
un'eccezione proprio adesso? Giorno dopo giorno, raggiungevo il Padiglione del Tan
Tien, la spada alla mano, in uno spirito di completa rassegnazione. Poi mi sono accorto
che c'era qualcosa di sistematico nella situazione. È stato il giorno in cui mi sono trovato
ad esercitarmi sul bordo esterno del padiglione, invece che al centro. Un attimo di
riflessione mi ha fatto comprendere che mi allontanavo dal centro del padiglione in
maniera progressiva, ogni giorno pochi pollici in più, seguendo una specie di linea retta.
Se guardavo con attenzione, potevo riconoscere il solco leggero lasciato dai miei piedi
sull'erba calpestata nei giorni precedenti. Ho posato la spada nell'erba e mosso qualche
passo verso il centro del padiglione. Le mie narici si sono contratte di scatto. Ho capito
che il motivo del mio umore nero era un odore inusuale, leggero ma repellente.
Raggiunto il centro del padiglione, ho proceduto in linea retta verso il bordo opposto
della circonferenza. Ero come spinto da una sete di trasgressione. Ho raggiunto il bordo
del padiglione e ho attraversato il prato circostante con disgusto crescente. Quando ho
superato il cespuglio di bacche che separa il prato da uno dei sentieri, ero piegato in due
dalla nausea. Gli occhi mi lacrimavano dolorosamente. Ma non potevo più tirarmi
indietro. Nascosto dietro il cespuglio ho scovato un furgone malandato: era un vecchio
camper Westfalia, di quelli prediletti dagli hippies californiani. Sudavo a profusione. Mi
ero coperto naso e bocca con il fazzoletto. Avrei detto che respiravo un gas fatto di
liquame. Il puzzo faceva l'aria nera tutt'intorno».
Ascoltando questo lungo monologo, m'ero trovato a chiedermi se le grate che
soffiavano aria profumata di lavanda fossero un'innovazione recente.
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«In quel preciso momento, tra conati di vomito, ho compreso quello con cui
avevo a che fare. Sarei tornato sui miei passi, decisi, avrei raggiunto il mio cellulare nella
sacca accanto alla spada, e avrei segnalato l'accaduto al personale di sorveglianza. Che se
la vedessero loro. Ma nel mezzo di quei pensieri, ho ceduto all'impulso di posare la mano
sulla maniglia della portiera posteriore del camper e ho fatto leva con uno sforzo
contrario ad ogni istinto di sopravvivenza. Mi sono messo a vomitare con la forza di un
idrante… ancor prima che uno stormo di pesanti insetti biancastri sciamasse fuori dal
furgone cascandomi addosso. Mi colpivano la fronte e le guance come piselli mollicci.
Sono caduto in ginocchio riparandomi con le mani, senza smettere di vomitare. Appena
ho ripreso il controllo delle gambe mi sono trascinato via, ho raggiunto il padiglione,
agguantato il cellulare e dato l'allarme. Il cadavere nel furgone era in stato di avanzata
putrefazione. Si trattava di un dipendente della nostra cafeteria, un ispanico. Assente
ingiustificato da diverso tempo. Ho vietato ai dipendenti l'accesso al parco, ma non c'è
verso di farli nuotare o convincerli ad usare la palestra. Il Giardino dei Sentieri Biforcati è
violato per sempre, non tornerà mai ad essere quel ch'era prima. È come se il morto fosse
ancora da qualche parte e rifiutasse di sloggiare.»
Quando Seto interruppe il suo racconto, feci del mio meglio per consolarlo. «Ho
sentito di moltissimi casi del genere in Silicon Valley» gli dissi. «Gli immigranti
messicani senza permesso di soggiorno sono attirati dagli alti salari, ma poi scoprono che
non possono permettersi di pagare un affitto regolare, neanche per un bugigattolo
qualsiasi. In Palo Alto, c'è gente che paga l'affitto di un armadio in una casa privata solo
per tenerci i propri vestiti. Questi immigranti vivono e dormono nei veicoli sgangherati
con cui hanno raggiunto la California del nord».
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Seto assentiva debolmente.
Mi spinsi più accosto alla scrivana e ripresi: «I più avveduti guidano ogni sera in
zone isolate prima di dormire. Il che gli evita le retate della polizia, che li rispedirebbe a
casa. A volte trascurano di parcheggiare il camioncino al riparo dal sole. Basta un malore
notturno, magari un po' troppa tequila la sera prima, e finiscono disidradati dalla calura
mattutina prima di essersi ripresi e aver cercato assistenza. Ho sentito di gruppi di
volontari che battono la valle per evitare di queste tragedie».
«Ma il tipo che abbiamo trovato nel camper era un mio dipendente. Lavorava in
cafeteria. Era pagato un dollaro e cinquanta l'ora al di sopra del minimo salariale».
«Un dollaro e mezzo non fa molta differenza in Silicon Valley, ho paura.» Ero
tentato di ricordargli che lui riceveva da me tremila dollari di affitto ad ogni primo del
mese.
Seto sfilò gli occhiali da sole e mi guardò fisso, rivelando due borse livide sotto
gli occhi. «Quel tipo era un elemento della mia azienda, Professor. Sostituibile, certo,
licenziabile, certo, ma assumendolo » Diede un pugno sul tavolo, torse il collo e sbottò,
parlando al di sopra della spalla destra: «Ma chi diavolo si occupa delle assunzioni del
personale di fatica!» Torno a guardarmi e chiese in tono secco: «Dov'è finita
Delapasture?»
«L'ha mandata ad occuparsi di Ayako, ricorda?»
Un'espressione incredula gli si dipinse in volto. «Ayako?» mormorò. Riprese a
parlare in tono fiacco: «Dicevo, Professor… qualcuno, vorrei sapere chi, ne ha fatto parte
integrale della mia azienda, di quel messicano, assumendolo. La sua morte non era…
Ogni mattino torno al mio padiglione, ripercorro quel dannato tratto diagonale attraverso
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il prato. Le ho detto che ho reso il parco off-limit ai dipendenti? Be', ci crederebbe? Ogni
giorno qualche insubordinato lascia un mazzo di fiori freschi sul sito del decesso. Hanno
anche conficcato una piccola croce nera nella terra, adornata di rosari. Tutto questo non
rientra nello schema» concluse con un po' più di energia. Poi si animò, quasi imprecando:
«Tutto questo non rientra nel mio schema, PROPRIO PER NIENTE! Mi dica, avrei
lavorato tutti questi anni per una simile ridicola sconfitta? La débâcle di Seto Sasanuma!
Adesso cominceranno a dire che la mia cibernetica non offre una risposta adeguata al
problema della mortalità!»
Nel corso del suo monologo, un piano d'azione mi s'era formato in mente, tanto
incomprensibile quanto diabolicamente dettagliato un salto in avanti, realizzavo,
rispetto a quello che mi s’era delineato nell’immaginazione la sera prima, al telefono con
Seto. Dissi: «Sono stati contattati i parenti?»
«I parenti di chi?»
«Del defunto?»
«La polizia sta cercando di rintracciarli in Messico. Pare che avesse passaporto e
permesso di soggiorno falsi».
«Seto, oggi sono venuto proprio per parlarle di tombe e cenotaffi». Mi guardò
senza capire. Ripresi: «La Omega.com deve mandare una impresa edile nel villaggio di
quel povero sciagurato grazie agli accordi NAFTA può servirsi di una impresa
americana, sono più fidabili e costruirgli un mausoleo principesco».
«Non penserà che ci vogliamo assumere certe responsabilità. Equivarrebbe a
dichiararci colpevoli dell'incidente».
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«Non importa. Con centomila dollari gli costruite una tomba degna del sindaco di
Mexico City. Il punto è che me lo ha rivelato lei stesso poco fa, Seto… Il punto è che il
suo schema per neutralizzare la mortalità contempla l'utilizzo di cenotaffi: tombe virtuali,
tombe vuote! Dopo aver reso la mente umana immortale, bisogna, a maggior ragione,
occuparsi del corpo mortale che l'ha ospitata». Parlavo senza un proposito o un'intenzione
consapevole, spinto da una confusa impressione di inevitabilità.
«Non ne vedo il motivo, francamente» replicò Seto. «Il corpo umano non è che un
ammasso di cellule deperibili».
«Mi darà atto, Seto, che io sono un esperto in materia. Anche i mostri
dell'oltretomba egiziano passano il tempo a divorarsi a vicenda, come fanno quelli del
suo paese. E sono pienamente d'accordo con lei, questi mostri non sono che pura fantasia.
Ma è di queste fantasie che si nutre lo spirito del nostro lutto. Il punto è… Mi permetta,
Seto, il semplice segreto dell'oltretomba è che un adeguato monumento funerario serve a
rassicurare i sopravvissuti, li convince di aver pacificato questi spiriti tormentati. Ci
appaiono inconsolabili, altrimenti, con grande pena e danno per noi che li sopravviviamo.
Senza menzionare che il monumento al lavoratore messicano sarebbe anche una
rassicurazione per gli insubordinati clandestini della sua azienda. L'ha detto lei stesso,
Seto: è come se il cadavere fosse ancora da qualche parte, risentito del vostro rifiuto di
portargli il lutto. Lei m'insegna, Seto, che un tantino di propaganda non fa mai male. I
vivi devono preoccuparsi dei vivi, prima di tutto…» Vedendolo guardarmi con un certo
interesse, mi apprestai all'affondo finale; intanto il mio orecchio interiore aveva rianimato
le parole con cui la voce di Dalia, crepitante come carta stagnola nel ricevitore del mio
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telefono, mi aveva confidato un giorno il suo bisogno ricorrente di pregare sulla tomba
del fratello. «Dalia» dissi.
Al nome della moglie, Seto assunse l’espressione subordinata che gli avevo
sempre letto in viso nei nostri incontri di Palo Alto. Abbozzò un inchino nipponico con il
capo. «Ma lei è venuto a parlarmi di Dalia, Professor. Non stiamo a perdere tempo con le
mie gabole aziendali» disse con un po' di brio.
«Niente affatto» replicai. «Lei mi facilita il compito. Il fatto è che Dalia non l'ha
mai tradita, Seto. Le sue paure erano mal riposte».
«L'agenzia di investigazioni nutre qualche dubbio al proposito».
«È che a loro conviene, non crede? Ne fanno un business, loro, dei tradimenti
coniugali». Posai entrambe le palme sulla scrivania, e mi piegai in avanti per dare
maggior risalto alle parole che mi dilagavano in capo con il crescendo automatico di un
contagio virale. «Dalia soffre, soffre tanto. È tutto cominciato con la morte del fratello,
Rami. Erano inseparabili. È stato il vostro matrimonio a separarli, Seto. La morte di Rami
è stata il colpo di grazia. Ci troviamo a trattare con due inconsolabili, Seto: una viva ed
un morto. Il suo compito è di erigere il mausoleo che restituisca la pace ad entrambi. Un
cenotaffio californiano, dove Dalia possa invocare la memoria di Rami».
Non avrei potuto esprimere la mia idea in maniera più persuasiva. Ricevuto
l'inevitabile assenso di Seto al mio progetto, gli spiegai che non intendevo erigere un vero
e proprio mausoleo; avrebbe richiesto troppo tempo, e il tempo, mi trovai a sostenere con
una veemenza che trovavo, dopo tutto, inspiegabile, era prezioso. «Ogni minuto perso
può essere quello decisivo» mi venne da affermare, chissà perché. «L'edilizia residenziale
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della California settentrionale è la più funeraria del mondo» aggiunsi, «specie lungo la
costa. Mi occuperò io di procurare l'edificio adatto».
Come avevo previsto nel partorire quest'incomprensibile piano d'azione, Seto mi
istruì speditamente sulla maniera per far pervenire i conti delle mie spese direttamente a
Delapasture, senza passare per la sua burocrazia aziendale. Mentre lo ascoltavo, sentii di
colpo che era arrivato il momento di defilarmi. Mi alzai, gli strinsi la mano senza
spiegazioni e mi precipitai verso la porta. Mi tremavano le ginocchia ed ero terrificato dal
risultato del nostro incontro, di cui non afferravo né il movente né i risultati. Era
imperativo che smettessi di respirare quest'aria velenosa alla lavanda. Giunto sulla soglia,
mi voltai indietro e, pensando a Delapasture, bisbigliai con l'ultimo filo di voce che mi
rimaneva: «Adesso si torna al lavoro, vero?»
«Sul fronte della lotta alla mortalità!» esclamò Seto, afferrando ed agitando la sua
spada in un gesto esageratamente infantile. «Delapasture!» attaccò a strillare in un
conference phone. «Delapasture! Delapasture!»
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«Bisogna essere dei folli per costruirsi una casa del genere, sprovvista di luce
elettrica».
«Non sto a precisare che per cucinare ci vuole la bombola del gas».
«Non ci avevo ancora pensato. Chi la consegna, questa bombola del gas?»
«Nessuno, che mi risulti. Il sentiero che risale a Carmel è troppo scosceso. Ci
vorrebbe un mulo ma i negozianti di Carmel mica… Il primo proprietario della casa…
l'avevano fatta costruire lui e la moglie negli anni sessanta… trasportava le bombole in
spalla... una alla volta, beninteso».
«Soltanto un folle vorrebbe abitare in una casa simile. Su questo promontorio tra
gli squali e…» Avevo puntato l'indice alla volta di quattro o cinque inerti fusi oblunghi,
sdraiati mollemente su una roccia e spruzzati dalle onde. «Quelle sono foche!» dichiarai
in un tono incongruo di gioia infastidita.
«Spero le foche non le diano fastidio. Sono residenti abituali del suo
promontorio».
«Non è ancora il mio promontorio, andiamoci piano! Dobbiamo discutere il
prezzo. Non mi dica che si sono fatti avanti altri acquirenti».
«Lei è il primo, a parte una vecchia coppia di hippy senza un soldo».
Neppure questa ammissione aveva smorzato il sorriso dalle labbra dell'agente
immobiliare. Era un ragazzo praticamente, ma mi teneva in pugno dal momento in cui
avevo messo piede nella casa sull'oceano. Feci un altro assaggio:
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«Come ci si procura i beni di prima necessità? O soccorso medico in casi di
emergenza? C'è acqua corrente, almeno? E servizi igienici? Ma chi era la coppia che s'è
fatta costruire questa assurdità d'una casa?»
«Due vecchietti, marito e moglie. Un giorno sono salpati colla barca a vela da
Carmel e non se n'è più saputo nulla. Un naufragio, magari. Io rappresento gli eredi, che
non vogliono mantenere la proprietà. Vendono la casa arredata, così com'è, prendere o
lasciare». Mi rivolse un altro sorriso sfrontato. «Quanto alla spesa alimentare, le
consiglierei un bello zaino robusto. Non ne troverebbe di adatti a Carmel, le toccherà
andare a Monterey, dove si riforniscono i campeggiatori locali. Non sto a precisare che i
negozi alimentari di Carmel praticano prezzi impossibili, anche fuori stagione. Per il
soccorso medico, a parte che bisogna installare un telefono »
«Non vedo la ragione di avere un telefono in una casa simile…»
«Be', c'è sempre il cellulare »
«O avere un cellulare…»
Mi guardò strano. «Questi sarebbero comunque fatti suoi» disse meditabondo.
Riprese: «Ad ogni modo, è consigliabile che nella casa non risiedano mai meno di due
adulti abili. Quando qualcuno sta male, bisogna correre a cercare il dottore a Carmel. È
meglio equipaggiarsi di torce elettriche, caso mai si debba risalire il sentiero di notte.
L'illuminazione nella casa andrebbe alimentata a generatore, d'altronde, ma quello in
cantina è antidiluviano, non so se…» Tornò a gettarmi l'occhiata stranita di prima. «…
Sempre che lei non preferisca stare al buio tutta la notte. Acqua corrente ce n'è a bizzeffe.
Proviene da una falda artesiana nella roccia e non è potabile. Bisogna trasportare l'acqua
potabile da Carmel con le taniche. Ma potrà lavarsi quanto le pare, purché non le prema
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l'acqua calda. In questo caso, la si scalda sul gas. La casa dispone d'uno splendido pozzo
settico che abbiamo fatto vuotare il mese scorso. Per dire la verità, gran parte dei costi di
manutenzione si riducono alla pulitura del pozzo settico. È per questo soprattutto che gli
eredi vogliono disfarsi della casa. Il mese scorso sono venuti degli specialisti con un
battello appositamente attrezzato. Hanno dovuto rinviare la spedizione fino al primo
giorno di bonaccia, per potersi attraccare vicino alle rocce e assorbire il liquame con le
pompe. Il prezzo della prestazione è documentato in questa cartellina».
Lessi la cifra in fondo alla fattura. «Lei sta scherzando, vero?»
«Confesso di non darle torto. Questa casa è una disgrazia».
«E lei perché continua a sorridere, allora?» chiesi.
«Se devo essere sincero, Signor Balsamo, gliel'ho subito letto in faccia che questa
è proprio la casa che lei sta cercando».
Aveva ragione. In meno di un mese avevo trovato il cenotaffio per il fratello di
Dalia. M'ero messo a perlustrare la costa fin dal principio, perché trovavo che il
cenotaffio di Rami andasse collocato vicino all'acqua dapprima avevo vagheggiato un
fiume grandioso e sonnolento, un po' alla maniera del Gange o del Nilo, ma dal momento
che la zona non ne offriva l'opportunità, m'ero adattato al compromesso dell’oceano.
La conversazione precedente era avvenuta in aprile, nel corso della mia prima
visita al cenotaffio. Adesso era la metà di giugno e da diversi giorni mi ero installato nel
cenotaffio in compagnia di Ayako. Era mia intenzione ultimare la traduzione del Libro
del Respiro entro la fine dell'estate, ma intendevo soprattutto escogitare una maniera di
allestimento funebre per il cenotaffio.
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Dietro sua richiesta esplicita, e avendo lui effettuato forme svariate di pressione
sui genitori, Ayako m'era stato affidato da Dalia perché gli facessi fare un po' di
villeggiatura al mare. Lei era all'oscuro della natura del mio progetto. Non avevo osato
rivelargliene i motivi, e Seto aveva consentito a tenere la bocca chiusa. Mi domandavo
quale sarebbe stata la reazione di Dalia all'approntamento di una tomba commemorativa
in onore di Rami; avrebbe espresso approvazione incondizionata, come avevo dato per
scontato, magari con troppo ottimismo, all'inizio dell'impresa? Ero assillato da dubbi e
remore continue, e procrastinavo di giorno in giorno ogni presa d'iniziativa.
Mi opprimeva che Dalia fosse rimasta a Palo Alto in giugno, con Seto per casa e
J. J. Bernhard nei paraggi con i suoi maneggi. L'inverno precedente avevo sofferto le
pene d'inferno durante la separazione che aveva preceduto l'inizio del resoconto che
redigo in queste pagine. Per un mese mi ero creduto abbandonato da Dalia; avevo creduto
di avere cessato di esistere per lei. Comprendevo solo ora che il suo silenzio era equivalso
ad una sentenza di morte per me: quanto più intensamente pensavo a Dalia, scrutinando
la collezione di reminiscenze che saturava le pareti della mia camera da letto a Palo Alto,
e quanto più ribaltavo la sua memoria nella costante angoscia interiore d'un abbandono,
tanto più rapidamente mi pareva che dovesse decomporsi il ricordo che lei serbava di me.
Non mi sfuggiva come pure Ayako soffrisse della lontananza di Dalia, sebbene
inscenassimo entrambi reiterate dimostrazioni vicendevoli di stoicismo. La traduzione
dall’egiziano ieratico mi distraeva, aiutandomi a reprimere la nostalgia. Però mi scoprivo
sovente intento a tradurre brani estranei al mio progetto. Proprio quel mattino, all'alba,
avevo rifinito una invocazione tratta dal papiro di Anx-v-n-Xonsu, che Théodule Devéria
cataloga come Inventario n. 3148 del Museo Egiziano del Louvre di Parigi. Non era la
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prima volta che mi misuravo con questo testo arcano, e subito dopo il risveglio ci avevo
lavorato con fervore, fantasticando di discuterlo più tardi con Ayako. Poi, a cose fatte,
avevo dovuto riconoscere che gli stessi versi che consolavano me dell'assenza di Dalia
avrebbero potuto sortire l'effetto opposto sul figlio.
Tua madre posa le braccia sulle tue spalle
ogni giorno per proteggerti.
Ti allevia le pene della tomba,
Ti aiuta a prosperare sotto il tumulo,
Ti pervade le membra di possanza divina.
Tua madre trasmette tutti i benefici della tua vita,
tutte le prosperità della tua forza.
All'inizio di maggio, Delapasture aveva fatto digerire il costo immenzionabile del
cenotaffio a Seto e ottenuto il suo consenso all'acquisto. Per complessi motivi pertinenti
alle tasse arretrate che Seto rifiutava di sborsare al governo federale, Delapasture aveva
istruito l'agenzia immobiliare perché la proprietà della casa sull'oceano fosse registrata a
nome mio. Da parte mia, m'ero affrettato ad assoldare una frotta di ragazzi e manovali
locali per sistemare e rendere l'edificio abitabile alla meglio (non era abitato da tre anni),
procurare provviste solide essenziali (olio, zucchero, farina, fagioli, pasta, tonno e pelati
in scatola, cibi liofilzzati, detergenti, detersivi, etc.), e trasportare quante più bombole di
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gas e taniche d'acqua potabile mi fu possibile stipare nella dispensa. Avevo deciso di fare
a meno del generatore elettrico per l'estate, dopo aver appurato che quello sepolto in
cantina era un rudere potenzialmente esplosivo.
Malgrado la tipica architettura californiana a un piano, saltava all'occhio che
l'edificio era stata concepito per togliere il fiato o magari inorridire l'osservatore casuale.
Stava appollaiato su un piatto promotorio al livello dell'oceano; un margine sottile di
dislivello era procurato dalla fondazione in cemento armato, che sollevava il pavimento
di pochi piedi al di sopra della roccia. La distesa d'acqua di fronte all'edificio era un
compromesso tra una baia naturale e l'oceano aperto. La costa si arcuava per alcune
miglia sui due fianchi della casa, ma non tanto drasticamente da garantire la bonaccia dei
golfi evitati dai surfers californiani, che sono amanti dei cavalloni. Proprio in questo
momento, infatti, m'ero accovacciato sul tetto della casa per seguire le evoluzioni d'un
ragazzo in muta rosa, sulla cresta d'un'ondata che, protraendosi in maniera innaturale,
sembrava determinata a disarcionarlo contro le rocce ai miei piedi. Come in protesta
anticipata, si potevano udire i lamenti queruli delle foche stese al sole un suono con un
suo spessore voluminoso, benché tutt'altro che rumoroso.
L'unica spiaggetta praticabile era a una ventina di metri sulla destra; il resto della
costa era composto di speroni aguzzi, che la bassa marea festonava di lunghe alghe a
staffile, disseminate di ripugnanti pule bianche ovoidali. Erano rari i momenti di alta
marea in cui la schiuma delle onde non scorresse sulla terrazza principale e schizzasse
magari contro una delle vetrate.
La sezione frontale dell'edificio era composta d'una struttura centrale larga e
piatta, la sala principale del cenotaffio, fiancheggiata da due baywindows molto
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squadrate sui lati, un tantino più arretrate. Ognuna di queste tre parti era fronteggiata da
una terrazza. La terrazza principale, più avanzata, protendeva verso l'oceano una specie di
prua ad angolo ottuso; era quella più esposta alle onde. Nei giorni di bufera, la vetrata
centrale, contro cui si infrangeva fino a un piede di acqua in moto perpetuo, dava un
senso di immersione. Le terrazze andavano praticate con cautela, a causa dell'effetto
sdrucciolevole ottenuto dall'acqua salmastra che sbandava sul marmo giallo. Ogni pochi
metri, un piolo metallico era conficcato nel marmo, e questi pioli erano collegati l'un
l'altro tramite un filo d'accaio, a mo' di parapetto o scorrimano. Sul lato destro della
terrazza principale, un'asta metallica alta quanto il tetto era pure conficcata nel marmo,
corredata di un cavo metallico, in modo che fungesse da pennone alzabandiera nelle
giornate di festa nazionale; faceva pensare all'albero di maestra d'un galeone.
La struttura centrale della casa era sormontata da un tetto simmetrico ricurvo che
si prolungava sospeso sulle due sale laterali, dando un po' l'idea di due ali di gabbiano
oppure d'una vecchia stazione di rifornimento autostradale. Mi piaceva sedere su quel
tetto per allargare l'arco dell'orizzonte, specialmente al tramonto. Il ragazzo in muta rosa
la cui cuffia, notai, era d'un bel verde smeraldo era sbarcato sulla spiaggia con una serie
di eleganti contorsioni e, il surfboard sottobraccio e uno zaino in spalla, stava
laboriosamente negoziando il percorso sulle rocce che conduceva al cenotaffio. Era quasi
l'ora di cena. L'oceano rosseggiava come uno specchio ustorio sotto il sole radente. Per
raggiungere Carmel, il ragazzo avrebbe dovuto risalire il dirupo alle mie spalle, lungo lo
stesso sentierino scosceso che scalavo a giorni alterni in compagnia di Ayako per fare
qualche spesa. Le rocce alle spalle del cenotaffio erano arabescate d'una corta
vegetazione oceanica mista, quasi esclusivamente composta di succulente gialle, verdi,
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rosa e rosse: spazzole sparute ma tenaci di ice plant, fragrant tree, wild flower, qua e là
una macchia d'agavi nane e poi cactus naturalmente, cactus dappertutto, un giardino di
cactus.
Il retro della casa era zona-notte; c'erano cinque minuscole camere da letto, vere e
proprie nicchie di colombario illuminate da una finestrella orizzontale parallela al
soffitto. Mi ero sistemato nella camera principale, dopo aver sfrondato con una scopa le
ragnatele che oscuravano gli angoli del soffitto. Tenevo i vestiti appesi in un vecchio
armadio in legno di sequoia, libri e quaderni sparsi sul pavimento. Ayako aveva scelto la
stanzetta a fianco della mia; libri per l'infanzia e giocattoli elettronici erano sparsi a iosa
dappertuto, mentre i suoi vestiti erano rimasti per il momento nella valigia, aperta sul
pavimento. Dormivamo entrambi sulle severe brandine traballanti che completavano
l'arredamento d'ogni camera. Non m'ero ancora del tutto adattato al mugghiare e ringhiare
persistente dell'oceano, la notte.
Trovavo ogni mattino il coraggio di fare una doccia fredda. Ayako si lavava di
rado ma non mi importava. Facevamo diverse nuotatine tutti i giorni, malgrado la voce
della presenza frequente di squali in quelle acque; anche questo non mi importava, per
qualche imponderabile motivo. Non era inconsueto che le foche si tuffassero mentre
eravamo in acqua, per emergerci a fianco di sorpresa con quei loro musi baffuti e quegli
apologetici occhietti da cane bastonato.
Presto avremmo dovuto deciderci a fare il nostro primo bucato.
Mi accingevo a rientrare di sotto per preparare la cena quando sentii chiamare il
mio nome da una voce familiare. Mi portai sull'orlo del tetto e guardai in basso. Di rosa il
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ragazzo non aveva soltanto la muta ma anche i capelli, che erano rimasti sotto la cuffia
verde smeraldo fino a qualche attimo prima. E non era un ragazzo.
In principio, l'arrivo di Clare aveva provveduto un diversivo alle ore solitarie che
privavano Ayako della mia compagnia. Ma anche con Clare per casa, la semplice
regolarità delle nostre prime giornate nel cenotaffio non s'era alterata: doccia fredda al
mattino per me; colazione a base di uova strapazzate, pancetta e pane tostato nel forno a
gas per Ayako; cereali e latte a lunga conservazione per me; Clare aveva introdotto l'uso
di certe pappette liofilizzate da alta montagna; una nuotata collettiva a mattino avanzato,
che nel mio caso rendevo sovente strenua. Poi mi ritiravo a tradurre fino al primo
pomeriggio, quando consumavamo insieme il pasto principale della giornata. Se non
c'erano commissioni urgenti a Carmel, distribuivo le rimanenti ore di luce tra rapide
immersioni nell'oceano, bagni di sole e ritocchi alla traduzione del mattino.
Erano quasi due settimane che Clare si era aggregata alla nostra piccola comunità
estiva. Al suo arrivo, le avevo disattivato il cellulare, appropriandomi della batteria. S'era
anche portata un piccolo laptop che ricaricava periodicamente in un internet café di
Carmel, ai cui tavolini poteva sbrigare la sua corrispondenza elettronica. M'ero fatto
giurare che non avrebbe ricevuto e-mail via satellite quand'era giù con noi al cenotaffio.
Lo scandirsi rituale delle nostre giornate mi riempiva d'un benessere misurato e
costante. Ero più snello, le nuotate mi invigorivano, il sole mi cuoceva la pelle, l'aria
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salmastra mi lustrava i polmoni; mi sarei voluto asciutto come un geroglifico, scabro ed
essenziale come quelle rocce tutt’intorno e quella vegetazione e quell'oceano impaziente.
Le pianticelle intorno al cenotaffio catturavano e mescolavano la luce come se fosse
acquerello multicolore. Studiavo il modo di trasferire alle mie traduzioni lo spirito che mi
ardeva dentro dal giorno dell'arrivo, quieto e perenne come una lampada votiva.
In qualche bugigattolo occulto, Clare aveva scovato delle sdraio antiquate in
legno e tela sbiadita. Stava sovente distesa nuda al sole sul terrazzo frontale, levigata
come un osso, i piedi massaggiati dall'andirivieni della schiuma delle onde. Un giorno le
chiesi di spiegarmi perché fosse venuta a Carmel invece di andare a Saint Tropez, come
si era ripromessa di fare qualche mese prima. Quell'estate non voleva saperne di Saint
Tropez, rispose, e tantomeno di quel catino di brodaglia tiepida che è il Mediterraneo.
Avevo replicato, con un'occhiata d'intesa rivolta a Ayako, che se si fosse presentata a
Saint Tropez in quel suo costume rosa da surfista oceanica, l'avrebbero espatriata di
forza: «A Saint Tropez ci si va per esibire l'anellino all'ombelico o il tatuaggio sulla
natica».
Era balzata in piedi, gonfiando e sporgendo il ventre e l’addome nudi sotto i nostri
occhi. «Parli come se l'anellino o il tatuaggio io non ce li avessi!»
Ayako le si era avvicinato per scrutare l'ombelico, strizzando gli occhi a un dito
dal cerchietto d'oro conficcato nella sua pelle, poi l'aveva aggirata per guardarle il
tatuaggio sulla natica sinistra; dal giorno della mia défaillance nel suo letto, sapevo che
quel tatuaggio rappresentava un surfboard verde impennato sulla cresta di un cavallone
rosa. Ayako le posò un dito sul gluteo. «È un po' in rilievo» disse. «Non sarà per caso un
adesivo?»
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«No, Ayako» rispose lei brusca, «non è un adesivo! È vero!»
Lui sfoggiò uno dei non-sequitur che aveva appreso dalla mamma. «Sul
Mediterraneo fanno tutti wind-surf, invece».
«Il wind-surf è per molliccioni» disse lei.
Ma la mia domanda non era innocente come avevo simulato. Perché era venuta a
Carmel invece di andare a Saint Tropez? Come aveva saputo della casa sull'oceano?
L'acquisto del cenotaffio era stato condotto con riserbo estremo. Nessuno doveva saperne
niente, salvo Seto e Delapasture.
Ottenni una risposta a pochi giorni di distanza, il mattino in cui Clare, stendendo
la muta ad asciugare sulle rocce, mi domandò con fare noncurante per quando prevedevo
l'arrivo di J. J. Bernhard.
«J. J. Bernhard?!» replicai in tono involontariamente ferito. «Perché mai dovrei
ospitare J. J. Bernhard?»
«Ma questa casa non è mica tua, no?» Era stupita nel vedermi sorpreso. «Me l'ha
detto J. J. Bernhard che mi invitavi. Io ero pronta a partire per la Francia… È un amico
tuo o no che ve l'ha messa a disposizione per l'estate?»
«Non proprio, non proprio» mi limitai a rispondere. «La casa tecnicamente è
mia…» Clare si era distratta a guardare l'ombra di un gabbiano che ondulava, le ali
spiegate, di fianco alla chiazza rosa della sua muta. Mi grattai il capo con rabbia
involontaria e l'uccello si dileguò, lanciando un grido da neonato. Clare chiese: «Ma
Ayako è il figlio di questo tizio, no?»
«Non per molto» risposi senza sagacia, spinto da un impulso immotivato ad
ipotecare il futuro. «Ho deciso di adottarlo».
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Lei fece una faccia stralunata, ruotò gli occhi verso il cielo e mi posò il palmo di
una mano sulla fronte. «Mi sa che hai preso troppo sole, Gian… E poi mi devi ancora
spiegare perché, quel giorno a casa mia, non m’avevi detto d'essere amico di J. J.
Bernhard».
«Non siamo amici, infatti» replicai. «Non posso farci niente se lui t'ha detto il
contrario».
J. J. Bernhard sapeva della casa, dunque. Sapeva che ci trascorrevo l'estate con
Ayako, e sapeva che i fondi per l'acquisto erano stati sborsati da Seto. Che sapesse anche
del mio progetto di cenotaffio? Per quali vie avrebbe ottenuto queste informazioni?
Avevo il benché minimo motivo di sperare, se sapeva, che non spifferasse tutto a Dalia?
Carmel ospita una colonia di artisti mediocri, ma Ayako ed io ci divertivamo lo
stesso a visitare le loro gallerie. A partire dalle ultime frange della Gilded Age, il
realismo nord-americano rappresenta soggetti umani in uno stadio iniziale di
decomposizione; si tratta di un risultato inintenzionale per lo più, provocato da una certa
maniera martoriata di duplicare la luce naturale proprio il contrario della piatta
luminescenza dell'arte funeraria egiziana. Spiegavo ad Ayako che gli affreschi all'interno
delle mastaba egiziane abbondano in vitalitità anziché in putrefazione. Gli dicevo del
motivo ricorrente delle vivande impilate, simulacro dei cibi succulenti destinati a
sostenere le ombre impegnate nell'attraversamento del Regno della Notte. Gli dicevo che
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ogni forma d'arte, dalla pittura alla scultura alla scrittura, è stata arte funeraria in origine;
soltanto più tardi ce ne siamo appropriati, piegando la perizia di artigiani e scribi a fini
frivoli e contingenti.
Le nostre soste più prolungate non avvenivano nelle gallerie ma piuttosto di fronte
alla macelleria nel centro del villaggio, un negozietto rivestito interamente di un granito
chiaro opalescente. Richard Wentworth, Carni Scelte, diceva l'insegna accanto alla porta.
Alto e magro, il macellaio aveva una costituzione da anemico la pelle bianca,
trasparente come carta velina. Teneva di fronte alla vetrina un enorme tagliere in legno
massiccio, logoro e come intarsiato dai tagli dei coltelli, reso quasi bruno dall'uso
prolungato; mi ricordava certi altarini africani, i boli. La vigilia dei giorni di mercato ci
capitava sovente di osservare la scena Mr. Wentworth preparava in anticipo il grosso
della sua mercanzia, attaccando a separare, intagliare, sfibrare, scorticare, affettare, talora
segare enormi quarti di bue che, a mano a mano, riduceva alle dimensioni di tagli
commestibili. Ayako ed io non ci siamo mai confrontati sul fascino che ci avvinceva
entrambi dinanzi a quello spettacolo. La lama del coltellaccio penetrava con la tenerezza
di una carezza nella polpa e nei grassi della bestia, scivolando molle di strato in strato, di
fascia in fascia, di muscolo in muscolo, comunicando un lieve sbalzo al polso del
macellaio quando era frenata da un tendine coriaceo, un'articolazione resistente, o un osso
da spezzare. Mr. Wentworth fingeva di non vedere i nostri visi premuti contro la vetrina,
oppure, assorbito dal mestiere, non ci notava effettivamente. Il sangue colava a rivoli
densi lungo le scalanature accidentali del tagliere, seguiva percorsi imprevedibili,
assecondando le pendenze e le smussature provocate nel legno dai macelli anteriori,
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raggiungeva scorrendo i fianchi del blocco di legno e li avviluppava d'una melassa spessa
e scura, gocciolando sinuose chiazze d'un rosso cupo sul granito del pavimento.
Ero rimasta a Coptos nell'Alto Egitto sulla riva orientale del Nilo. Non
bevevo, non mangiavo, non respiravo, non facevo niente del tutto. Ero
nella condizione di chi risiede nella Necropoli. Mi rivolsi a mio fratello
Ptah-nefer-ka: «Sposo adorato, è assolutamente necessario che io prenda
visione del libro sacro. È a causa del libro sacro che soffriremo le pene di
cui avremo sofferto». Ptah-nefer-ka depose il libro sacro nelle le mie
mani. Ne recitai una pagina. Le mie parole si fecero incantatrici. Incantai
il cielo, la terra, gli abissi, le montagne, i mari. Appresi tutto ciò che
concerne gli uccelli dell'aria, i pesci dell'acqua e i quadrupedi terrestri. Il
libro ne rivelava i segreti. Recitai un'altra pagina. Vidi il sole sorgere nel
cielo e vidi il ciclo delle sue nove divinità. Vidi la luna sorgere nel cielo
con tutti i suoi astri in tutte le loro costellazioni. Vidi i pesci dell'acqua. Il
potere delle mie parole li fece salire in superficie. «Come possiamo
preservare i segreti della memoria di queste Scritture» chiesi al mio sposo
Ptah-nefer-ka, il mio fratello maggiore, che era uno scriba eccellente e
uomo di grande erudizione. Egli si procurò dei fogli vergini di papiro e vi
trascrisse ogni parola contenuta nel libro sacro. Poi li fece sciogliere nel
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liquido racchiuso in un piccolo catino. Quando furono completamente
disciolti, ne bevve la soluzione. Così assimilò la memoria del libro sacro.
Thoth, dio della Scrittura, riportò l'accaduto al Sole: «Sappi che la mia
legge e la mia scienza sono ora contenute in Ptah-nefer-ka, figlio del re
Mer-ne-ptah. Egli è penetrato nella mia dimora e ha sottratto il libro
sacro, uccidendo il guardiano che lo custodiva». Il Sole rispose: «La sorte
di Ptah-nefer-ka viene posta pertanto in balìa del tuo arbitrio, insieme a
quella di tutte le genti che gli appartengono». È a causa del furto del libro
sacro che saranno state predisposte le sofferenze contro le quali avremo
cercato di premunirci con il furto del libro sacro. Quando il battello
regale raggiunse l'anfratto del Nilo dove era annegato nostro figlio
Merhu, mi inoltrai all'ombra della barca e caddi in acqua. Lanciai
un'invocazione al Sole ed implorai la folla di ombre assembrate sulla riva
di salvarmi, ma inutilmente. La notizia del mio annegamento fu riferita a
Ptah-nefer-ka, il quale si inoltrò all'ombra della barca regale, lesse le
Scritte del libro sacro, e mi fece risalire in superficie. Il potere del libro
sacro mi fece riemergere dalle acque che mi hanno uccisa. Mio fratello, il
mio sposo, mi chiese di riferirgli per filo e per segno tutto quello che mi
era successo, e quali fossero state le parole pronunciate da Thoth al
cospetto del Sole nel riferire il furto del libro sacro. Poi Ptah-nefer-ka
ritornò a Coptos insieme a me e fece calare il mio corpo nella Necropoli.
Celebrò i riti sacri in mio favore. Mi fece imbalsamare secondo le
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procedure solenni riservate alle persone illustri. Mi fece seppellire nella
tomba insieme a nostro figlio Merhu.
Traducevo ogni giorno con accanimento, ma mi sembrava di girare a vuoto. Più o
meno adattatomi al lamento notturno dell'oceano, era il giubilare ciarliero degli uccelli
che mi svegliava adesso prima dell'alba. Nelle ore antelucane non mi riusciva di lavorare
nella mia cella buia. Spostavo i libri e la torcia elettrica di fronte alla vetrata principale,
sul lungo tavolo che, lontano dai pasti, era completamente sgombro, salvo un vaso di
rame contenente una felce secca. Gli uccelli marittimi si sguinzagliavano di fronte alla
vetrata in invasate coreografie circolari, come manipoli di cherubini disorientati. Li
contemplavano le silhouette di due o tre aironi blu, pietrificati su sottili trampoli nodosi, a
pochi passi dalle forme flaccide delle foche addormentate.
Ma queste ore addizionali di lavoro si risolvevano per lo più in intervalli
prolungati di frustrazione. Intorno all'alba cedevo sempre all'impulso di cimentarmi con
brani solo marginalmente correlati al Libro del Respiro. Non che fosse fatica sprecata,
cercavo di rassicurarmi, né si può veramente dire che lavorassi a vanvera, considerata
l'importanza dei passaggi che traducevo. Soffrivo dell'impressione assillante che il mio
progetto di traduzione languisse e fosse destinato ad arenarsi; una specie di
presentimento, originatosi alla notizia che J. J. Bernhard era al corrente del cenotaffio e
intendeva visitarlo nel corso dell'estate, mi diceva che bisognava accelerare i tempi, che
la scadenza che mi ero assegnato avrebbe subito una contrazione prima della fine delle
vacanze. Guardavo il vorticare delle rondini e delle pulcinelle di mare dietro la vetrata,
guardavo le forme immobili degli aironi, impassibili come giudici o assassini in agguato,
ascoltavo il rumore del mare, che pareva schiaffeggiare l'aria con la fosforescenza
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spettrale che aveva sottratto nottetempo alle stelle, e mi sentivo agghiacciare allo
spettacolo di quest'indifferenza sovrana ai miei crucci e alle mie paure.
In questa particolare mattinata avevo rispolverato la copia di un manoscritto in
caratteri demotici trascritto di mio pugno dall'originale carte che, all'inizio della
carriera, mi erano costate molte ore di lavoro in compagnia di uno sciame di insetti
particolarmente repellenti, nonché la mancia sconsiderata che mi era valsa l'accesso al più
prezioso dei papiri custoditi nel Museo Viceregale di Boulaq al Cairo. (Questo museo è
virtualmente inaccessibile, più difficile a scovarsi del semovente mercato dei cammelli
del Cairo, e variamente caratterizzato alla stregua di “leggendario” o “inesistente” nelle
guide turistiche. In effetti, siamo in pochi occidentali ad averci mai messo piede.) Questo
documento consiste di un racconto vero e proprio, per quanto mancante delle due pagine
introduttive. Viene comunemente designato col titolo di Favola di Setnau. Si riferisce a
personaggi vissuti durante la XIXma Dinastia: il figlio, la figlia e il nipote di Mer-ne-ptah,
successore di Ramsete IIo al trono d'Egitto. La narratrice è Ahura, figlia e nuora di Mer-
ne-ptah. La vicenda viene narrata a Setnau, che ne è plausibilmente il trascrittore ma
anche, nella seconda metà del racconto, lo sventurato protagonista, avido di possedere il
Libro Sacro dei Morti. (Non ho mai tradotto la seconda parte del racconto, ma è
disponibile nella versione francese di Heinrich Brugsch del 1867 e in quella inglese di Le
Page Renouf del 1875, oltre a parecchie versioni più recenti e filologicamente più
attendibili.) Nella prima parte, Ahura racconta a Setnau le vicende che hanno condotto
alla propria morte.
Il racconto di Ahura si snoda secondo criteri temporali virtualmente
inintelliggibili, il che ha provocato colossali fraintendimenti da parte degli egittologi. È a
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Coptos, nella sua tomba, che Ahura prende finalmente visione del libro sacro; lo fa al fine
di premunirsi dalla sorte che l'ha condotta alla tomba. Ma è proprio a causa della sua
lettura del libro sacro che si saranno innescati gli eventi luttuosi che provocano la sua
morte. La maggior parte degli egittologi attribuiscono all'ombra di Ahura un linguaggio
onirico, fatto di spaesamenti, condensamenti, dislocazioni e dislocuzioni, e poi traducono
questo linguaggio in metafore e allegorie. Ma io sono convinto, alla luce non tanto delle
mie competenze disciplinari quanto della mia avventura nel cenotaffio di Rami, che
Ahura si esprima nel linguaggio rigoroso dei morti, un linguaggio, immune alla
cronologia e alla topologia, che può essere soltanto parlato nell'aldilà.
All'inizio della serie di eventi che condurrà al suo annegamento, Ahura si dichiara
di già residente dell'oltretomba. Le cause del suo annegamento e dunque della sua discesa
agli inferi ne sono anche gli effetti. Il problema di Ahura è sempre lo stesso: come
preservare la memoria passata delle Sacre Scritture in cui risiede la chiave del futuro?
Sono le parole con cui interroga il fratello Ptah-nefer-ka, che è uno scriba ed un erudito,
col quale divide il letto coniugale. La risposta di Ptah-nefer-ka è lapidaria: bisogna farsi
portatori letterali della memoria preservata nelle Scritture, assorbendola come una
medicina o un veleno. La risposta dei preti mummificatori di Coptos non sarà troppo
differente, quando avvilupperanno il cadavere imbalsamato di Ahura nelle bende
ricamate con gli esorcismi tratti dal Libro dei Morti. Anche lei diverrà un veicolo fisico
delle Scritture.
Il furto del libro sacro compiuto da Ahura si sviluppa all'indietro nel tempo, in
una regressione, però, che combacia col progresso cronologico della memoria. La sua
espiazione presente coincide con il futuro anteriore della sua colpa. È a causa del libro
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sacro di Thoth che soffriremo le pene di cui avremo sofferto, dice a Ptah-nefer-ka.
Oppure: È a causa del furto del libro sacro che saranno state predisposte le sofferenze
contro le quali avremo cercato di premunirci con il furto del libro sacro. Il linguaggio
dei morti procede secondo una logica periodica che si rifiuta al susseguirsi convenzionale
delle cause e degli effetti. La narrazione di Ahura non è che la memoria profetica di un
futuro ch'è già avvenuto.
Un giorno Clare scoprì che l’internet café dove sbrigava la posta elettronica
disponeva di una doccia per il personale, nel retro. Alla nostra bronzea vamp dai capelli
rosa bastò una preghiera e l’operatore di turno le concesse d'acchito l'uso dell'attrezzatura.
Dopo aver fatto questa prima doccia calda e sbrigato la solita posta elettronica, Clare s'era
decisa a navigare l'internet, per la prima volta dall'inizio delle sue ferie nel cenotaffio.
Dal website dell'agenzia finanziaria che amministrava il suo pacchetto azionario era
risultato che la crisi del settore informatico si era inaspettatamente estesa dai pesci piccoli
alla Omega.com: la distrazione le era costata quasi quattrocentomila dollari in stocks.
Ma questo io lo appresi soltanto quarantotto ore più tardi.
A causa dell'altura che incombeva alle nostre spalle, l'oceano di fronte al
cenotaffio era raggiunto dai raggi solari parecchio in ritardo rispetto all'alba vera e
propria. Prima della colazione in compagnia di Ayako e Clare, mi limitavo a qualche
sorso di the freddo. Per un paio d'ore almeno il cenotaffio non si sarebbe animato delle
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loro voci. Questo particolare mattino, il giorno seguente alla doccia di Clare all’internet
café, avevo dapprima lavorato in soggiorno alla luce della torcia elettrica, e più tardi nella
penombra riflessa dal cielo sopra l'oceano; cielo e oceano rispecchiavano in modo
uniforme la luce dell'aurora, che ancora stentava a raggiungere direttamente l'anfratto del
cenotaffio. Quando alzavo gli occhi dal foglio della traduzione, mi pareva di partecipare
alla coreografia irreale di fronte alla vetrata, di fianco alle forme statuarie degli aironi che
osservavano imperterriti le danze indemoniate di quaglie e pulcinelle di mare. Nelle
settimane scorse avevo trascorso parecchie ore solitarie in compagnia di questi volatili,
ore di raccoglimento spese ad esplorare il mondo perennemente cangiante dei morti
egiziani; il ripetersi puntuale ma sempre diverso della sarabanda di fronte alla vetrata mi
aiutava a riflettere sulle profonde trasformazioni interiori cui mi esponevo con questo
lavoro di traduzione. Fu una scintilla scaturita da riflessioni di questo tipo che mi si
accese in mente quando, pensando di aver sentito un rumore di piedi nudi sul pavimento,
posai la penna, mi girai, e vidi che sulla porta della camera di Clare si stagliava una
creatura di proporzioni mostruose. La luce crepuscolare della vetrata si posava sui
contorni netti delle sue caviglie, ricalcava il profilo dei suoi lunghi quadricipiti, si
sbriciolava nel ciuffo del suo osso pelvico, disegnava le pieghe d'una maglietta
striminzita in cotone su cui potevo leggere la scritta Stanford University; poi si
ramificava al livello del capo in un labirinto di riflessi inumani che dava da pensare ad
una testa enorme, come di toro.
Ci osservammo in silenzio per un lungo istante. Poi la strana creatura avanzò di
qualche passo verso di me ed io mi alzai irruentemente in piedi, capovolgendo la sedia
sul pavimento. Si arrestò immediatamente, come titubante, ed un attimo dopo rovesciò la
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testa all'indietro. Aveva fessure sottilissime al posto degli occhi. Tenne la testa rovesciata
a quel modo per un lungo intervallo, durante il quale compresi che poteva vedermi
soltanto da quella posizione. Feci un passo in avanti. Riconobbi i capelli rosa di Clare in
cima a quel cranio enorme che adesso mi faceva pensare a un minotauro.
Adesso lui anzi, lei (neppure l'osso pelvico mentiva) prese a distendere le
enormi guance, da cui la bocca emergeva in un foro minuto. La luce era troppo scarsa,
ma avevo l'impressione che lo sforzo si riflettesse in due chiazze di pallore cadaverico
intorno alle labbra. Aprì e richiuse il foro della bocca diverse volte, finché emise un
suono: «… ercia evenosa…»
Coll'istinto del professore mi sporsi istintivamente in avanti, una mano piegata a
conchiglia intorno all'orecchio.
«… erciaevenosa…» disse nuovamente.
«“Evenosa?” provai a farle eco. Clare?» tornai a mormorare. «Clare, sei tu? Cosa
ti succede?»
Rovesciò ancora la testa all'indietro per guardarmi. Riprese a flettere le due
enormi guance con fatica evidente. Questa volta le riuscì di pronunciare distintamente, in
un sussurro: «… quercia velenosa».
Non avevo mai visto prima di allora gli effetti della quercia velenosa, l’arbusto
della cui pericolosità ero stato messo naturalmente al corrente, come qualsiasi residente
della California. Clare allargò e lasciò ricadere le braccia pesantemente lungo i fianchi:
«Unamale… unamale… una maledetta quercia velenosa!» disse alla fine, sforzandosi di
iniettare un po' di veemenza nella voce.
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Ero esterrefatto. Provavo una specie di paura nei suoi confronti, per il semplice
motivo che non sapevo come fare ad aiutarla. Avrei dovuto trovare innanzitutto la
maniera di rassicurarla, invece fremevo dall'impazienza di afferrare la torcia elettrica e
scappare verso Carmel in cerca di soccorso. Molte congetture inconcludenti mi si
snodavano nella mente con la speditezza di un'allucinazione, corredate della visione d'una
cascata di ostacoli imprevisti al mio lavoro di traduzione. Intanto, una singola parte
beffarda del mio corpo aveva cominciato ad esibire la reazione deplorevole di cui solo
più tardi, arrazzato dalle protuberanze dei piccoli seni di Clare sotto la maglietta e del suo
pube nudo, dovevo rendermi conto appieno.
Fu la voce di Ayako a risolvere la situazione. Si era avvicinato senza rumore e, il
mento nel palmo d'una mano, prese a considerare la condizione di Clare.
«Quercia velenosa» sentenziò. «Non devi toccare Clare a mani nude, Gian, e non
devi toccare niente di quel che lei ha toccato» mi disse. Poi precisò di essere immune al
contagio, e ci raccontò che si era preso cura dell'assistente del padre, Delapasture,
quand’era incappata nello stesso arbusto, qualche tempo prima. «Appena arrivata dalla
Cornovaglia non ne sapeva niente della quercia velenosa e c'è cascata in pieno» spiegò.
Parlava con un’autorità che faceva scordare la sua età.
Mi rividi dinanzi agli occhi la carnagione luminosa di Delapasture. «Vuoi dire che
se ne va tutto senza lasciare traccia?» chiesi, incredulo.
Rispose di sì, intanto che Clare, evidentemente informata pure lei, annuiva
ciondolando l'enorme capo.
Ayako prese in mano la situazione, non prima di aver sollevato un lembo della
maglietta di Clare, scoprendole completamente il torace. Eravamo di fronte, diagnosticò,
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ad una contaminazione limitata al viso e alla parte superiore del collo. Ma bisognava
contenere l'espandersi degli oli velenosi. Mi assegnò il compito di fornirmi di guanti di
gomma e lavare la maglietta di Clare, le lenzuola del suo letto, e gli abiti che aveva
indossato il giorno prima. Non immaginavo che lo stesso compito, con severe, ripetute
ammonizioni a non operare mai a mani nude, mi sarebbe stato riassegnato per diversi
giorni di seguito. Scovai un paio di vecchi guanti di gomma sotto il lavabo in cucina; nei
giorni seguenti comprai una scatola di guanti in latex alla farmacia di Carmel.
Attaccai a sfaccendare, servendomi di una vasca in cemento adibita a lavanderia
dai proprietari precedenti; c'era fortunatamente un ampio stendi-biancheria sul fianco
meridionale dell'edificio. Ayako scortò Clare a Carmel per consultare il dottore. Lei
aveva insistito, con la muta eloquenza di un mimo, che poteva camminare agevolmente.
Indossò un paio di shorts ed una maglietta pulita, e si disse pronta alla spedizione.
Tornarono dopo un paio d'ore con una provvista di pillole agli steoroidi e pomate al
cortisone. Giorno dopo giorno, per tutta la settimana seguente, Ayako si occupò di
spalmare d'unguenti lenitivi il volto e il collo di Clare. Il dottore aveva confermato che il
viso era completamente contaminato, mentre il residuo del corpo era rimasto indenne. Si
era raccomandato che acquistassero lenzuola di ricambio prima di tornare a casa.
Mi occupai di vegliare Clare la prima e la seconda notte. Avevo spostato la mia
branda accanto alla sua. Dormiva nuda, su lenzuola fresche di bucato che io sarei tornato
a lavare il mattino dopo. Entrambe le notti trascorsero senza crisi o incidenti, eccetto che
mascheravo a stento l'attrazione intensa che provavo adesso, dopo tanta indifferenza, per
il suo corpo nudo, intatto sotto quella testa di minotauro. Fermamente intenzionato a non
assecondare la mia bramosia, che mi impediva di prender sonno, ero reso perplesso dalla
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sua tempestiva manifestazione. Se ne avessimo discusso, Clare l'avrebbe magari intesa
come una conferma della superfluità dell'io individuale: sebbene fosse resa
irriconoscibile dall'infezione, io ne concupivo il corpo perfetto ed impersonale. Io ero
tentato di pensare, al contrario, che fossero proprio le fattezze di quella testa deforme a
tentarmi. Le sentivo come familiari; mi trasmettevano un'impressione oscura di
consuetudine, di memoria innata. Ma quale fenomeno ignoto avrebbe disposto negli
anfratti della mia memoria il ricordo dei tratti deturpati di Clare? Ero incerto se si trattava
di un ricordo genuino oppure di qualche altra forma meno immediata di riconoscimento.
Non era dopotutto, quell'ammasso informe di carni, muscoli, mucose e fessure contratte
che definiva adesso il volto di Clare, la verità costantemente celata dietro l'apparenza
attraente delle sue guance piene, degli zigomi pronunciati, delle labbra da Cupido e il
profilo netto della mascella?
Non credo che Clare avesse compreso la mia irrequietudine sessuale; la distraeva,
oltre all'irritazione della pelle, il problema della sua débâcle finanziaria, di cui ero ancora
all'oscuro. Me ne parlò la seconda notte, prima di addormentarsi. Il giorno dell'incidente
della quercia velenosa aveva fatto la doccia nell’internet café di Carmel. Poi,
imbaldanzita da quella soluzione insperata ai suoi problemi di igiene personale, aveva
ceduto alla tentazione di interrompere l'isolamento vacanziero e riprendere contatto con
la vita ordinaria di Palo Alto. Dopo che ebbe sbrigato qualche e-mail, decise di navigare
l'internet.
«Ti imitavo un po', sai, nei giorni scorsi» disse. «Ma come fai, così senza
telefono, senza fax, senza e-mail, senza segretaria…?»
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Mi spiegò le disastrose conseguenze della sua distrazione. Si era voluta
considerare in villeggiatura, ma intanto Wall Street era entrato in recessione, e persino la
Omega.com era stata scossa in misura significativa. Il website dell'agenzia che si
occupava dei suoi interessi le aveva permesso di conteggiare le perdite fino al centesimo.
Comprendevo, ascoltandola parlare, che anche il mio fondo di pensionamento,
pesantemente investito sul mercato informatico, doveva essersi contratto seriamente. Ma
la cosa, stranamente, non mi dava alcuna emozione.
Clare aveva sùbito preso misure preventive ma la perdita di valore delle sue
azioni, quasi quattrocentomila dollari, era difficilmente reversibile. Tornando da Carmel,
fresca e profumata ma di pessimo umore, aveva cercato di convincersi che non era un
problema, dopotutto; alla prossima impennata del mercato si sarebbe rifatta, e presto,
dopo il dottorato, avrebbe guadagnato una barca di soldi come consulente di
laboratorio… Doveva essersi distratta. Aveva deviato senza intenzione fuori dal sentiero
lungo il dirupo ed era incappata, a propria insaputa, in un ramo di quercia velenosa.
Dopo pochi giorni, la testa minimamente sgonfiata, Clare decise di tornare a
cavalcare il suo surfboard. Il problema di evitare che la muta entrasse in contatto col
collo, irritandolo, o la cuffia con le orecchie, la parte più infiammata del viso, lo risolse
facendo a meno di entrambi. Dopotutto, si giustificava prima di entrare in acqua, l'oceano
non era poi troppo freddo se io e Ayako ci nuotavamo nei nostri normali costumi da
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bagno. Io obiettai che l'oceano è sempre freddo comunque, e lei, indebolita dagli steroidi,
si sarebbe presa una polmonite. Ayako obiettò che, nel caso dei surfers, la muta protegge
da eventuali prolungate derive. Lei ignorò me del tutto, e liquidò l'osservazione di Ayako
con un'alzata di spalle:
«Quelli che vanno alla deriva dovrebbero starsene a casa».
«Ma allora perché hai usato la muta fino all'altro giorno?» le chiese Ayako, con la
sua cruda logica infantile.
La risposta, per quanto disarmante, non mi sorprese: «Mi piace il colore».
Suggerii che avrebbe almeno potuto indossare un bikini; Ayako ed io non
nuotavamo nudi, e per di più, noi nuotavamo sommersi nell'acqua, non ci esibivamo su
un mobile piedestallo in cima alle onde.
«A voi non do fastidio di certo, mi vedete nuda tutti i giorni.»
Stavo per fare un'altra obiezione ma lei la lesse tra le rughe della mia fronte
corrucciata: «E non venirmi a dire, Gian, che sei preoccupato dei pensionati di Carmel, o
che mi veda qualche turista o qualche pittore en-plein-air…»
«Finisce che sarai immortalata en déshabillé nei dipinti delle gallerie locali» le
gridai dietro mentre correva via col surfboard sottobraccio.
Se chiudo gli occhi, rivedo il mostro dal corpo neoclassico e la fisionomia di
minotauro sgorgare grondante dal ricordo distinto che serbo di quel mattino. Era il primo
giorno di luglio. Me n'ero rimasto accovacciato sul tetto a vigilare sulle evoluzioni di
Clare, preoccupato che le prendesse un malore. L'acqua della baia rifletteva il sole in
svelti passi di danza. Posavo di tanto in tanto gli occhi sulla mia ombra, che ruotava come
una meridiana, accorciandosi coll'avanzare del sole alle mie spalle. Mentre Clare si
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apprestava ad uscire dall'acqua, io mi apprestavo mentalmente al lavaggio di lenzuola e
asciugamani che mi attendeva al varco della mezza mattinata. E soltanto allora mi accorsi
della presenza d'una seconda ombra sul tetto, ritta in piedi accanto alla mia accovacciata.
«La Venere ideale per un Botticelli cubista» sentenziò Delapasture non appena mi
fui girato, senza darsi la pena di salutare.
«Delapasture!» esclamai.
«Quercia velenosa?» suggerì lei, puntando il mento e le fossette alla volta
dell'oceano. «Ne so qualcosa io, Doctor Balsamo… Se non fosse stato per Ayako che mi
ha aiutato »
«Delapasture!» tornai ad esclamare, tentando di modulare una nota di benvenuto
nella mia voce. Diedi un colpo di tosse. «Delapasture» dissi una terza volta in tono
involontariamente dolente. Mi alzai e le strinsi le mani tra le mie.
«Grazie infinite dell'invito per la Festa dell'Indipendenza» disse caldamente. «Me
l'ha trasmesso J. J. Bernhard. Non so cosa avrei fatto altrimenti, tutta sola il 4 luglio a
Palo Alto».
Premonito da Delapasture, che mi parlò con entusiasmo della recente conferenza
tenuta da J. J. Bernhard all'Omega.com sul tema dell'umanità cibernetica, fu con un senso
di fatalità che l'indomani vidi una goletta caracollare alla volta della nostra spiaggetta.
Aveva le vele issate ai pennoni ed era spinta in una malferma rotta a zig-zag dal motore
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ausiliario. Riconobbi sulla fiancata il logo della Omega.com. Andò a incagliarsi con un
frastuono atroce nella ghiaia dell'ultimo fondale prima della spiaggetta, e poi si reclinò
mollemente sul fianco. Individuai J. J. Bernhard dietro al timone; capelli neri, baffi neri,
maglia a girocollo nera, pantaloni neri, il contrasto che faceva coi colori pastello locali
era inconfondibile.
Lui individuò me. Ero seduto al mio solito posto di osservazione sopra il tetto in
compagnia di Delapasture, ridotto ad una larva spirituale dagli elogi che l'assistente di
Seto esprimeva da ventiquattr'ore filate a proposito di J. J. Bernhard. Era Delapasture,
dunque, la fonte delle informazioni del teologo. Me li immaginavo insieme da Starbucks:
lei gli comunicava che voleva prendere un frappuccino con una delle sue sbrigative
estensioni di mento e fossette, lui piegava la testa di lato con la solerzia di un boyfriend
accomodante. Accanto a Delapasture, avevo smesso di vedermi snello e prestante. Lei
indossava un costume nero a un pezzo che esasperava il pallore della carnagione e il
platino dei capelli. Portava i suoi consueti occhiali in bacalite nera anziché occhiali da
sole, come facevamo tutti al cenotaffio. Ascoltandola cantare le lodi di J. J. Bernhard, mi
sentivo passé, come un vino troppo stagionato.
Malgrado l'attracco disastroso della goletta, J. J. Bernhard si sbracciava intanto in
saluti festosi. Se la goletta apparteneva alla società di Seto, come suggeriva il logo sulla
fiancata, qualcuno in sede avrebbe presto dovuto giustificare una spesa ragguardevole in
riparazioni.
Come se il risentimento accumulato nelle ultime ventiquattro ore non bastasse,
adesso sulla tolda era sbucata, al fianco del teologo, l’altra mia ex-amante, Stella. Li vidi
entrambi saltare in acqua dalla prua e raggiungere la riva camminando, sostenendosi a
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vicenda, divertiti dalle onde troppo alte, ridendo a squarciagola, continuando a sbracciarsi
nella nostra direzione. Delapasture era in piedi sul bordo del tetto e li ricambiava con
ampie sbandierate delle braccia. Sulla terrazza di sotto era sbucata Clare, pure lei
ammiratrice di J. J. Bernhard, come avevo appreso a mie spese qualche mese prima.
Potevo scorgerla, sporgendomi un tantino, che saltellava e squittiva di gioia, nuda come
un osso naturalmente.
Mi alzai in piedi e comunicai sbrigativamente a Delapasture che mi sarei ritirato
in camera mia per tradurre e non volevo essere disturbato per nessun motivo. In quella mi
sovvenni della scena di Seto che le dava ordini perentori. «PER NESSUN MOTIVO!» le
gridai. «MI HA SENTITO?» Poi rimasi ad agonizzare di amarezza per parecchie ore nel
cubicolo della mia stanza, senza riuscire a sollevare la penna naturalmente, camminando
in su e in giù come una pantera in gabbia.
Quando finalmente mi decisi ad uscire, trovai tutti assembrati nel soggiorno di
fronte alla vetrata principale del cenotaffio: Ayako, Clare, Delapasture, Stella, e J. J.
Bernhard L'eccitazione provocata dall'arrivo dei due sventati marinai non s'era attenuata,
mentre il mio ingresso non fece impressione a nessuno, nemmeno a Stella che, sebbene io
fossi il suo direttore di dissertazione, non mi vedeva da mesi. Ognuno indossava un
cappello identico a barchetta, ottenuto da un foglio di carta di giornale. Ognuno stringeva
un pennello in mano. Avevano ai piedi numerosi barattoli di vernice e fotocopie a colori
di affreschi funerari egiziani. Le tre pareti della sala si stavano riempiendo di simili
affreschi. J. J. Bernhard interrompeva continuamente il proprio dipinto per dare istruzioni
agli altri e spronarli a lavorare più in fretta. Sembrava che a ciascuno fosse stato
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assegnato un soggetto diverso, da una immaginetta o fotografia fissata al muro con delle
puntine.
Stella, sotto le cui ciglia s'era poi accesa, dopo il mio ingresso, una rapida
occhiata impertinente, doveva dipingere una specie di ippopotamo eretto sulle zampe
posteriori, sormontato da un paio di corna nere tra le quali era posato un disco dorato. A
Ayako era stato affidato il compito relativamente semplice di dipingere un lungo serpente
arricciato e sorretto da un paio di gambe umane. Delapasture era all'opera su una lunga
canoa sottile, al di sopra della quale si librava un disco dorato più grande di quello
dell’ippopotamo di Stella, che lei rendeva scintillante di raggi, come un sole. Clare aveva
appena abbozzato la figura di un leone disteso all'ombra di una pianta scarna, simile a
quelle nei paraggi del cenotaffio, tra i cui rami era attorcigliato un cobra. J. J. Bernhard si
era riservato lo spazio centrale, dove lavorava, a giudicare dall’immagine fissata sul muro
al suo fianco, ad una rappresentazione imponente: un catafalco sosteneva una mummia
distesa, il cui viso era coperto da una maschera dorata che terminava in un lungo pizzo di
barba nera; quattro ceri accesi erano disposti al capo e ai piedi del catafalco; al di sopra
della mummia si librava una creatura alata con petto e fattezze femminili; un fallo eretto
si protrudeva dal ventre della mummia, puntato verso la creatura alata, che era
evidentemente la dea Iside.
Rimasi qualche minuto al centro della sala ad osservare il cantiere improvvisato,
inebetito dal vociare euforico ed ininterrotto che violava la pace del mio cenotaffio. Poi,
sentendomi di troppo, andai a fare una nuotata. Stavo diventando pazzo?
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Nel tardo pomeriggio J. J. Bernhard, impossessatosi del mio zaino, si mise a capo
di una spedizione diretta a Carmel. Ero seduto sul tetto e guardavo Stella, Delapasture,
Clare e Ayako allontanarsi in fila indiana. Rimasto solo, immaginando che avrebbero
cenato in qualche ristorante di Carmel, mi ritirai nella mia stanza e riuscii
miracolosamente a tradurre per qualche ora. Mi apprestavo a fare un ultimo tuffo prima
di cena quando li vidi tornare. S'erano trasformati in una carovana di sherpa, ognuno
carico di parecchie borse di plastica, evidentemente colme di prodotti alimentari. J. J.
Bernhard si era invece procurato una scatola di cartone che reggeva in bilico sul capo,
all’africana oltre al mio zaino sulla schiena, che pareva stipato oltre misura. Erano
seguiti da alcuni ragazzini locali, trotterellanti come somarelli sotto il peso di
innumerevoli pacchi, borse e scatole.
Il cenotaffio tornò a riempirsi di grida, urla, sospiri, conversazioni incrociate. J. J.
Bernhard era determinato a non cedere nemmeno per un istante le redini della situazione.
Intanto che lui dava istruzioni sulla disposizione delle mercanzie, accingendosi
simultaneamente a marinare un paio di polli per la cena, Stella mi si accostò con fare
furbesco.
«Hai proprio una buona reputazione a Carmel» mi disse, simulando un tono
sorpreso. «Complimenti!»
«Cosa intendi dire?» le chiesi.
«Quasi nessuno ti conosce per nome» rispose. «Ma nei negozi bastava
menzionare la casa sull'oceano perché tutti ti identificassero immediatamente. E ci hanno
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fatto tutti credito, sai, dicendo che non c'era fretta. Potrai pagare con comodo quando
passi di là».
La montagna di vettovaglie sparse sul pavimento mi apparve di colpo in una luce
nuova. Lei apriva e socchiudeva gli occhi con invitanti battiti di ciglia.
«Ero tentata di dissuaderli» sussurrò in un pungente sottovoce.
«Dissuadere chi? Da cosa?» bisbigliai a mia volta con un filo di fiato, come se
stessimo entrambi cospirando alle mie spalle.
«Ma quei poveri negozianti, no? Come possono fidarsi di uno come te… ?» Batté
un paio di volte le ciglie con fare seducente. «A proposito, J. J. Bernhard ha affittato una
BMW in città... la goletta è fottuta, sembra. Volevo convincerlo a prendere pure la
macchina a credito, a nome tuo, perché no?»
«Ci sei riuscita?»
«No. È troppo onesto. L’abbiamo parcheggiata di fianco alla tua stupida
Volkswagen, per il giorno in cui non ne potremo più della vostra compagnia.»
Dovevo contrattaccare per difendermi. «E il tuo lavoro di dissertazione, come
procede?» le domandai.
«Oh, sì, a proposito della mia dissertazione… Volevo proprio parlartene. Ho
deciso di cambiare argomento. Voglio fare uno studio sull'arredamento e le pitture murali
delle piramidi egiziane. J. J. Bernhard ha consentito a farmi da direttore. Prende il tuo
posto».
«Grazie d'avermi informato… Cosa ne sa J. J. Bernhard di monumenti funerari?»
obiettai.
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«Oh, ne sa più di te!… Non hai letto i suoi libri?» Stella assottigliò gli occhi in
uno sguardo che parve soppesarmi l'anima, carato su carato. Scosse il capo, come per
esprimere disappunto al risultato finale, e aggiunse: «Ma cosa t'è saltato in mente di
metterti ad arredare un cenotaffio per quella squilibrata della moglie di Sasanuma…?»
Poi girò sui tacchi senza aspettare risposta e si diresse alla volta del suo leader.
J. J. Bernhard ci dava le spalle, immerso in una conversazione con Clare, la quale,
dopo la gita a Carmel, era tornata a denudarsi. Lui le teneva due mani inarcate intorno
alle tempie mastodontiche, nella posizione d'un angelo intento a domare un'aureola
ribelle.
A notte inoltrata, ad un'ora in cui ero solito dormire della grossa, banchettavamo
intorno al lungo tavolo di fronte alla vetrata, consumando in un clima di allegria
esuberante i miei polli, il mio vino, il mio pane, le mie insalate, le mie torte scoprivo di
avere acquisito, nel pomeriggio, nuovi bicchieri da tavola, un set di posate in acciaio
inossidabile, e persino un set di anelli portatovaglioli in plastica, uno di colore diverso per
ciascuno dei membri della nostra comunità improvvisata. A me era toccato l'anello color
rosa. Clare aveva cercato di sottrarmelo ma mi ero rifiutato di cederglielo. Ne era nato un
breve diverbio, durante il quale, ferendola, l'avevo stupidamente invitata a rivestirsi. Per
ritorsione, Clare aveva sfilato una sigaretta nera dal pacchetto di J. J. Bernhard e,
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accesala, m'aveva soffiato un anello di fumo in faccia, costringendomi a tossire
ripetutamente.
Poco dopo la mezzanotte, J. J. Bernhard andò nella stanza che aveva assegnato a
sé e a Stella e ne ritornò con tre larghe cinghie di cuoio. Invitò Stella a seguirlo fuori, ma
naturalmente la curiosità ci risucchiò tutti al suo seguito. Una volta in terrazza, si strinse
contro il pennone dell'alzabandiera ed istruì Stella perché gli legasse le cinghie intorno ai
polpacci, alla vita e al torace. Alla fine dell'operazione era fissato rigidamente all'asta
metallica. Dubitavo che le sue braccia, immobilizzate sotto la cintura che gli serrava il
torace, sarebbero state in grado di liberarlo da quella posizione, nel caso gli mancasse
l'assistenza di Stella o di qualcun altro.
«Ora potete andare. Grazie di tutto. Ci vediamo domani» disse per congedarci.
Seguì naturalmente il coro di proteste che, sospettavo, lui aveva voluto provocare.
Perché s'era fatto legare al pennone? Cosa significava? Quanto a lungo sarebbe rimasto in
quella posizione? Lui dichiarò in un tono grave che intendeva emulare l'esperienza di
Ulisse con le sirene. Avrebbe trascorso la notte legato al pennone per ascoltare il canto
del mare. Ayako chiese delucidazioni, e fu naturalmente Stella, erudita compulsiva, a
narrargli con dovizia di particolari il passaggio della nave di Ulisse di fronte allo scoglio
delle sirene di Omero.
«Allora noialtri dovremmo metterci la cera nelle orecchie!» considerò Ayako.
«Effettivamente…» provai a confermare.
J. J. Bernhard replicò spazientito che per il momento era sufficiente che ci
decidessimo a sgomberare la sua terrazza. Al che tutti salvo me rientrarono docilmente
nel cenotaffio.
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Rimasi ad osservarlo in silenzio. Sul tavolo ingombro dei resti del banchetto
luccicavano ancora le fiamme d'una dozzina di candele, che la vetrata ci filtrava addosso
in una vaga luce oscillante. J. J. Bernhard teneva il viso inclinato di lato, indirizzandomi
un sorriso sardonico sotto i baffi. Aspettava che fossi io a parlare. Io però rimanevo zitto,
assaporando lo strano piacere di contemplarlo nella posizione indifesa in cui si era
volontariamente cacciato. Avrei potuto sferrargli un pugno sul naso, se mi andava.
«Lei mi stupisce» gli dissi alla fine. «È l'ultima persona da cui mi sarei aspettato
una trovata del genere. Mi risultava che la sua specialità professionale consistesse nel
dimostrare che le voci soprannaturali non esistono. Il canto delle sirene non sarebbe la
stessa cosa?»
Contrasse le sopracciglia in maniera espressiva. «Me lo sentivo che ti eri fatto
un'opinione sbagliata su di me, Balsamo. Io sono esattamente il contrario di quel che
credi. Solo una persona che conosca a fondo le voci ultraterrene può sbrigare le mansioni
che mi sono state affidate in Vaticano. La quasi totalità delle voci intese da suore,
monache, e fanatiche di vario tipo è allucinatoria, risultato dell'autosuggestione. Invece il
canto delle sirene è un fenomeno autentico. Ne ho sentita una, a Gibilterra, per puro caso,
e credimi, fu un'esperienza indimenticabile. Quella sirena portoghese mi iniziò alle
meraviglie del coito riservato».
Gli avevo voltato le spalle per guardare il cielo. Perché mi dava del tu? Le stelle
erano talmente numerose, davano l'impressione che la superficie occupata dai loro grani
luminosi fosse più vasta di quella occupata dal buio che le intervallava. Ma questi grani
luminosi tremolavano, come se venissero rispecchiati in qualche fluida superficie
semovente. Pensai incongruamente che si trattasse del riflesso delle candele alle mie
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spalle. Mi voltai per sincerarmene, ma la vetrata del cenotaffio non era puntinata che da
una dozzina di timidi lumicini. Al di sopra del tetto incombeva l'altura del dirupo
retrostante, cupa come il manto di un orco. Dissi: «Non capisco questo suo apparato,
francamente. Se vuole ascoltare la voce d'una sirena, non le basterebbe starsene seduto in
terrazza ad ascoltare?»
J. J. Bernhard diede in una risatina secca. “«Non crederai mica che le sirene si
manifestino spontaneamente? Mi sorprendi, Balsamo, con la tua esperienza di cose
ultraterrene… Gli enti sovrannaturali riconoscono solo situazioni tipiche, scenari che
hanno avuto occasione di osservare in precedenza. Si manifestano solo all'occorrere di
queste situazioni familiari e detestano l'ignoto. Ma non hai studiato gli alchimisti o i
teosofisti? Il Conte di Cagliostro, per esempio, è il mio grande favorito… Credevo che
foste imparentati».
Ignorai l’allusione al mio avo. «Dunque lei si aspetta davvero» replicai, «che,
vedendola in questa posizione ridicola, le sue ipotetiche sirene la scambino per Ulisse?»
«Giusto un tantino di messa in scena, Balsamo, per far comprendere alle sirene
che hanno di fronte l'incarnazione del loro viaggiatore d'oltretomba».
«Mi sono sempre piaciuti i tipi modesti».
«A quel che mi dicono, la modestia non è un difetto che possa venire imputato
neanche a te, Balsamo».
Decisi di provocarlo: «Va be', comunque io sono pronto… aspetto…»
«Aspetti che cosa?»
Era risaputo, dichiarai a bruciapelo, che lui non si privava mai dell'occasione di
indottrinare qualche nuovo adepto sulle pratiche Agori. «Coraggio!» dissi. «Sentiamo di
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questa sirena e del coito riservato». Non appena obiettò che non ero un candidato adatto,
io replicai che mi ero preparato alla sua lezione con una piccola ricerca preparatoria.
«Deve convenire con me, J. J., che l'unica sirena gradita ad un asceta Agori sarebbe d’un
tipo commestibile, bollita o in salmì».
«Non è nemmeno una battuta divertente, Balsamo. Dovresti saperlo che gli Agori
la carne umana la mangiano solo cruda, possibilmente in decomposizione. Cosa credi che
facessero le sirene di Omero ai marinai che capitavano loro a tiro? Tra l'altro, è il gas
della decomposizione che fa galleggiare i cadaveri in acqua »
«Non si faccia pregare, J. J. Mi parli di quella sirena portoghese». Mi disgustava,
quel nostro prenderci per i fondelli a vicenda. E vedendolo titubare, aggiunsi in un tono
di buonafede che non prese soltanto lui alla sprovvista: «Dico davvero, per favore…»
Non si fece più pregare. «Ero un giovane universitario in vacanza e sbrigavo un
lavoretto saltuario da archivista per l'Ordine dei Cavalieri di Malta» attaccò. «Una notte,
in una forma inoffensiva di iniziazione, un gruppo di amici mi ha legato ad un palo sulla
spiaggia. Erano bravi ragazzi. Quando sono spariti lasciandomi solo, mi sono detto che
alla peggio sarebbero tornati a slegarmi l'indomani mattina. Mi preparavo a trascorrere
una lunga nottata noiosa. Verso mezzanotte ho visto una sirena strisciare verso di me. La
sua faccia era straordinariamente pallida. Aveva due mezzelune scure sotto gli occhi,
come se soffrisse d’un qualche malore. Quando mi ha guardato in faccia, ho visto la luce
delle stelle brillare attraverso i suoi occhi. Dopo diverse ore di sesso privo di sfoghi... non
ero più legato al palo… ho realizzato che era una creatura per cui avrei dato la vita.
All'alba ero di nuovo legato al palo e l'ho vista strisciare nell'oceano. Ho protestato con
violenza, urlandole tutto il mio desiderio insoddisfatto. Ma più tardi, mentre le mani dei
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miei amici mi slegavano, ho provato ribrezzo al contatto della loro pelle. Quella notte mi
è stato concesso un tipo speciale di iniziazione, Balsamo. Da allora, non ho mai permesso
al mio piacere di culminare nell'atto sessuale. E mi sono convertito alla setta degli
Agori».
«Dunque, astinenza e cannibalismo vanno di pari passo »
Mi interruppe con un sorriso molto franco ed evidentemente onesto: «Il fatto è
che non ho mai digerito il secondo. Ah ah…»
Mi rendevo conto che non avevo alcun motivo valido né di credere alle sue
dichiarazioni né di dubitarne. Avrei preferito andarmene e lasciarlo lì impalato, in pasto
alle sue improbabili sirene, ma senza parere i nostri sguardi si erano vicendevolmente
catturati in una spirale di simpatia involontaria. Non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi,
malgrado l'insofferenza che mi rodeva. Ero sopraffatto da una specie di attrazione che,
per quanto repellente, prevaleva sulle mie intenzioni bellicose. Le sue pupille si
scioglievano gradatamente nelle mie, due pozze di gelatina trasparente. Che cosa
cercavano di dirmi? Che cosa leggevano nelle mie? Se mi trattenni dall'articolare la
domanda che avevo sulla punta della lingua, fu soltanto perché mi accorsi in tempo che,
nel farlo, mi accingevo a dargli del tu, come ad un vecchio amico. Ma tu cosa sei venuto
a cercare qui da me? volevo chiedergli.
«Per soddisfare la curiosità che ti assilla dal mio arrivo in questa casa » Era
come se le parole di J. J Bernhard avessero fatto irruzione nei miei pensieri: «C'è chi
crede che le voci interiori siano provocate da degenerazione cancerosa dei tessuti
cerebrali e chi pensa che corrispondano ad una ripetizione dei pattern di organizzazione
neuronale. La verità è che queste spiegazioni si arrestano al sintomo, non risalgono alla
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causa. Il cancro, e così pure la ripetizione del pattern neuronale, sono due degli strumenti
adottati dall'ultraterreno per comunicare con i viventi. Di modo che l'ultraterreno si
afferma senza mai manifestarsi apertamente... In questa faccenda della voce che Dalia ha
sentito in aereo, al tuo fianco, tu ci sei ingarbugliato fino al collo. Ed è tutto vero, ne sono
certo, la voce si fa davvero sentire, anche se non l'ho mai ammesso con lei. Questo è il
motivo che mi ha condotto in questa strana casa: voglio vedere come va a finire».
Mentre ancora scuotevo la testa senza rispondere e, inspiegabilmente, senza
provare troppo stupore alle sue strane parole, lui mi sorprese con una richiesta
inaspettata: «Non mi porteresti un sorso d'acqua, Balsamo, per cortesia?»
C'era un caraffa nuova fiammante sul tavolo dinanzi alla vetrata. Tornai in
terrazza reggendola, colma d'acqua. J. J. Bernhard piegò il capo all'indietro e spinse la
lingua in fuori. Gli feci colare l'acqua sulla lingua in un rivolo lungo e sottile, tenendogli
una mano dapprima sulla spalla, poi piatta contro la guancia per stabilizzare la posizione
della bocca. Ascoltavo il gorgoglio che faceva l'acqua scorrendo dietro il suo pomo
d'Adamo.
«Adesso, Balsamo, se non ti spiace…» sussurrò quando ebbe finito di deglutire.
Lo lasciai solo.
Dove si trova la barriera anatomica oltre la quale il sogno evade la sfera delle
fantasie ed invade il corpo del sognatore? Mentre mi stendevo sul letto arrendendomi al
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primo sbadiglio, presi a ragranellare gelosamente i rimanenti istanti di lucidità che mi
separavano dalla corsa nelle braccia della donna dei miei sogni. Ero ancora quasi del tutto
presente a me stesso. Mi sembrava di essere penetrato nei vasi del flusso sanguigno di
quella donna misteriosa. Adesso le strisciavo lungo un'arteria sotterranea. Mi si parava
dinanzi la foresta dei suoi capillari, mi aspettava la risalita graduale attraverso vene
sempre più larghe, presto mi sarei addentrato nei ventricoli del suo cuore. Intanto che
visualizzavo la trama del mio percorso, la mia circolazione cardiaca si confondeva con
questo paesaggio vascolare e il suo scorrimento mi trascinava nell'oblio.
Sebbene fossi andato a letto tardissimo, venni svegliato dal frastuono degli uccelli
alla solita ora antelucana. Sorseggiato un po' di the freddo e infilatomi un paio di
calzoncini da bagno, agguantai la torcia elettrica e qualche libro per andare a lavorare
dinanzi alla vetrata. Il tavolo era tuttora ingombro dei residui del nostro banchetto due
carcasse di pollo, torsoli di pera, raspi d'uva, foglie di lattuga, fette di pomodoro, che nel
corso di quelle poche ore avevano assunto le tinte sordide della decomposizione organica.
Le candele s'erano spente. L'oceano rifletteva la luna in una frusta di luce sottile che
penetrava oltre la vetrata, ondulando lungo il perimetro delle pitture funerarie
incompiute. Pareva di stare in una necropoli, disertata dai defunti dopo l'esaurimento
delle provviste.
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Uscii in terrazza, dove trovai J. J. Bernhard addormentato, tuttora legato al
pennone dell'alzabandiera, le ginocchia piegate leggermente in avanti ma saldamente
sorretto dalle cinghie di cuoio. Sedetti sul bordo della terrazza con i piedi nudi
ciondoloni. Il cemento della terrazza era bagnato e gli schizzi delle onde mi scorrevano
lungo le gambe. Le stelle sembravano essersi ulteriormente moltiplicate nel corso delle
ultime ore; accendevano le creste delle onde d’una profusione di fiammelle
incandescenti. La via lattea pareva spazzata dalla stessa brezza che sbatteva le onde
contro le mie gambe.
Non provai nessuno stupore quando, voltatomi ad un rumore di passi, vidi Seto in
piedi accanto alla sagoma addormentata di J. J. Bernhard. Gli feci cenno di accostarsi.
Avanzò verso di me e sedette pure lui sul bordo della terrazza. «Good morning,
Professor» disse sottovoce, consultando il suo orologio fosforescente. Sarebbe venuto
comunque a visitare il cenotaffio in occasione del 4 Luglio, mi spiegò, ma la gita di
Delapasture e dei miei amici, di cui era al corrente, era stata un incentivo ulteriore. Il tono
in cui mi confidò di aver guidato da solo senza chauffeur suggeriva il compiacimento di
un uomo cui riusciva di rado di sorprendere se stesso. Sfilò gli occhiali per asciugarsi la
fronte. Si accarezzava, parlandomi, le pieghe impeccabili dei pantaloni scuri, che le onde
gli tempestavano di gemme minute, subito assorbite dal tessuto.
«Ecco che fine ha fatto la mia goletta…» mormorò in tono disincantato, indicando
la massa scura dell'imbarcazione incagliata. «J. J. Bernhard l'ha presa in prestito
l'indomani della sua conferenza alla Omega.com e non l'ha più restituita».
«È arrivato ieri mattino».
«Iin quanti la navigavano?»
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«Lui e Stella, una mia dottoranda».
«Dove ha lasciato il mio equipaggio?! È pazzesco... solo in due! Non mi
sorprende che sia andato a incagliarsi!»
Seto si era incontrato per la prima volta con J. J. Bernhard in occasione della
conferenza tenuta dal teologo alla Omega.com. Le teorie di J. J. Bernhard gli parevano
inaccettabili. Lui era convinto, tornò a spiegarmi, che la mente umana fosse immortale.
«Questo organismo» disse, tastandosi il petto, poi un braccio, «è intercambiabile.
Domani stesso potrei far iniziare la coltura dei miei nuovi organi per poi farmeli
innestare. Gambe di ricambio, braccia di ricambio, reni, polmoni… Quante sono le
persone ormai che si fanno plasmare un viso diverso, trapiantare un cuore? Presto faremo
lo stesso con le parti clonate del nostro stesso organismo: il volto bellissimo che le mie
cellule avrebbero potuto foggiare se non me ne avessero foggiato un altro, il cuore
perfetto che mi sarebbe potuto toccare dalla nascita ma non ho ricevuto…»
«La sua Delapasture mi fa sentire decrepito, Seto. Ci sarebbe un rimedio anche
per quello?»
«È l'identità distinta del nostro cervello» ribattè, «quella destinata a perdurare nel
tempo. Il corpo umano lo si può riparare in mille modi, ma alla fine si riduce sempre e
comunque ad un groviglio di rottami. Saremo immortali il giorno in cui riusciremo a
conservare in vita il cervello, separato dal resto dell'organismo. Da un punto di vista
pragmatico, l'immortalità individuale sarà resa possible molto presto dall'intelligenza
artificiale. Le macchine si faranno carico di perpetuare la nostra memoria soggettiva».
Sebbene invogliato dalla sua apologia della memoria, preferii evitare di
rammentargli il cadavere nel Giardino dei Sentieri Biforcati.
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Le opinioni espresse da J. J. Bernhard nel corso della conferenza lo avevano
irritato. L'ipotesi che il nostro intelletto sia vittima costante delle allucinazioni ed illusioni
più abusive, e se ne renda addirittura complice inconsapevole, l'ipotesi che la
riproduzione del genere umano oltre i limiti fisiologici della mortalità darà vita ad un tipo
di individuo perfettamente solipsistico, isolato dagli altri in un universo di pura fantasia
secondo Seto, le teorie di J. J. Bernhard potevano soltanto condurre alla perpetuazione di
forme d'oscurantismo superstizioso.
«Come sta Dalia?» chiesi per interrompergli il soliloquio.
«Dalia conosce J. J. Bernhard meglio di me, naturalmente» rispose. Mi spiegò che
Dalia aveva incontrato J. J. Bernhard a Stanford, dove lui teneva un seminario
sull'endofasia. S'era scordato d'avermi dato questa stessa informazione non molto tempo
prima?
Mi piegai all'indietro simultaneamente a Seto, che aveva smesso di parlare per
contemplare la sagoma addormentata contro il pennone. J. J. Bernhard era talmente
vulnerabile in quella posizione, una controfigura anacronistica di Ulisse. Seduti sul bordo
della terrazza, però, né io né Seto avevamo la cera dei marinai itacensi premuta nelle
orecchie ma il mare non cantava quella notte, si limitava a mugugnare e miagolare,
spruzzandoci. Mi domandavo se, sprofondato in qualche sogno, J. J. Bernhard non stesse
dopotutto realizzando in quel momento il suo desiderio di ascoltare il canto delle sirene.
Che si fosse di già aggregato, nel sonno, al detrito di rottami e cadaveri putrefatti che
fluttua in permanenza di fronte allo scoglio delle sirene di Omero? Cercavo, senza troppa
convinzione, di rammentarmi i dettagli del sogno che aveva inaugurato il mio sonno in
questa notte troppo breve. D'un tratto ebbi la lucida, amara impressione di aver trascorso
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l'intera nottata impegnato nell'attraversamento delle paludi sotterranee che dovevano fare
da cornice all'incontro con la donna del mio sogno. I miei piedi si sollevavano a stento al
di sopra della fanghiglia rossa che mi separava dalla meta, solo per ricadere sempre nella
stessa orma che si erano appena scavati.
La faccia ittica di Seto mi stava guardando fissamente, aspettandosi forse un
commento in risposta alle sue elucubrazioni di poco prima. «J. J. Bernhard è un uomo
pericoloso» gli dissi. «Si circonda di silfidi infatuate come la sua Delapasture… Domani
le farò conoscere le altre due, Clare e Stella. Ma lui non è interessato a nessuna delle tre.
È la sua Dalia che vuole, Seto, ed è deciso a portargliela via!»
Era il 3 luglio, la vigilia della Festa dell'Indipendenza. Tutti gli ospiti del
cenotaffio si erano svegliati molto presto, salvo J. J. Bernhard, che dormiva, tuttora
prostrato contro il pennone dell'alzabandiera, avviluppato nelle sue cinghie di cuoio.
Stella era stata la prima ad avventurarsi nel cubicolo della doccia; ne era sbucata
uggiolando, al che nessun altro degli ospiti aveva scelto di imitarla. Dopo aver
sbrigativamente salutato il padre, Ayako era stazionato a lungo nei pressi del pennone
con un'espressione di cruccio sdegnato in volto. La pompadour nera di J. J. Bernhard si
era scompigliata nel corso della notte; ricadeva in due bande pesanti e un po' unte che gli
si adagiavano sulle tempie. Anche i suoi baffi avevano smarrito un po' della solita
lucentezza spatolosa.
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Approfittai del sonno di J. J. Bernhard per impadronirmi della cucina. Mentre mi
sbizzarrivo a preparare omelette dolci per tutti quanti gli ospiti, suggerii d'impulso a
Delapasture di confezionare un cappello di carta di giornale anche per Seto e reclutarlo
nell'armata degli imbianchini. Non che avessi aderito nottetempo allo squallido
espediente delle pitture murali che ornavano, incomplete, l'interno del cenotaffio;
tutt'altro. Se mi fossi soffermato a riflettere sulla menzogna con cui all'alba avevo
attizzato l'ostilità di Seto verso J. J. Bernhard una menzogna necessaria, m'era parso,
mentre la pronunciavo d'impulso mi si sarebbe affacciato alla mente il presentimento
che un complotto segreto, estraneo alla mia volontà, ci stava cambiando tutti quanti nei
tasselli d’un grande mosaico. Uno di questi tasselli era stato aggiunto dall'impulso,
recondito a me stesso, di quel mio suggerimento a Delapasture… Così come avrei potuto
agevolmente individuare un nuovo tassello nella solerzia con cui offrii la prima omelette
a Clare non appena, più nuda e levigata che mai, mise piede in cucina. Le spiaceva
consumarla accanto alla stufa, mentre io friggevo il resto delle uova? Clare accolse
l'offerta dell'omelette con un'aria vagamente sospettosa, ma consentì comunque a tenermi
compagnia. Dopo qualche titubanza, mi decisi a chiederle scusa delle parole crudeli che
le avevo rivolto la notte scorsa. Fu come se non avesse aspettato che l'occasione propizia,
e replicò con fervore che il torto era tutto suo. Io mi offrii di cederle il portatovaglioli
rosa alla prima occasione. Lei dichiarò che di rosa nella sua vita ce n'era fin troppo.
Allora feci un po' il vitellone, insinuando che i capezzoli erano la parte più rosa del suo
corpo. Con uno sforzo a causa del gonfiore parziale che le deformava tuttora i lineamenti,
lei piegò il mento verso il basso per guardarsi i capezzoli: «Non direi» obiettò,
allungando la lingua fuori della bocca per esibirne il rosa vibrante. Poi mi chiese,
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parlando sottovoce: «Perché non siamo riusciti a fare l'amore quel giorno a casa mia,
Gian?»
Fu la sincerità della mia risposta, più disarmante che oltraggiosa, a rivelarmi che,
dietro la facciata dei miei piani approssimativi, stavo agendo spinto da moventi
imponderabili: «Non riesco a fare l'amore con te, Clare, perché sono innamorato di Dalia,
la madre di Ayako» le dissi. «Seto la considera la sua geisha di origine araba, e non glielo
perdono. J. J. Bernhard la considera una delle sue fanatiche invasate e la vuole
riformare… la vuole aggiungere al suo harem del coito riservato… di cui, spero ti sia resa
conto ormai, stai entrando a far parte pure tu.»
Fece spallucce. «Perché allora eri venuto a letto con me, quel pomeriggio?»
chiese.
Era una conversazione bizzarra, in quella cucina così caotica e disordinata, stipata
dei piatti, padelle, pentole e bicchieri sporchi della notte prima. Ma l'ambiente era anche
stranamente ricettivo. Seto e Delapasture se n'erano andati a dipingere nel salone. Ayako,
chissà, poteva essere ancora occupato a studiare le fattezze addormentate di J. J. Bernhard
in terrazza. Mi chiesi per un attimo che fine avesse fatto Stella; dopo la doccia non aveva
più dato segni di vita. Dissi a Clare che mi ero sentito scriteriato quel pomeriggio mentre
cercavo di fare sesso con lei; ero scontento, a disagio, spaventato all'idea di poter
escludere Dalia dai miei pensieri anche solo per un istante...
Clare aveva spinto da parte l'omelette. Le feci un cenno interrogativo e lei
aggrottò le sopracciglia: «Non è né dolce né salata» considerò, gli occhi sprofondati nel
piatto. Poi riprese tono: «Ma come mai Dalia non s'è ancora fatta viva quaggiù?»
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«La nostra storia è stata provocata dalla morte di Rami, suo fratello. Ma adesso la
memoria di Rami sta diventando una presenza ingombrante, un'intrusione che ci rende
impacciati l'uno coll'altra. Ho deciso di esorcizzare la memoria di Rami con l'allestimento
di un cenotaffio, una tomba vuota. Questa casa sull'acqua sarebbe »
Mi interruppe: «Ma chi le paga le spese? È poi vero che la casa appartiene a
Seto?»
«In un certo senso è vero, ma presto ad ogni modo…» Mi trattenni a stento dal
confidarle che presto Seto sarebbe stato fuori gioco. Quale impulso oscuro mi istigava ad
ipotecare il futuro ogniqualvolta mi confidavo con lei? C'ero cascato qualche giorno
prima, quando le avevo detto a bruciapelo che intendevo adottare Ayako, farne mio
figlio. «Sì» dissi. «Seto ha acquistato questa casa per Dalia la primavera scorsa».
Clare non aveva colto la mia riluttanza a parlare. «Quel pomeriggio, a casa mia,
avevo avvertito la tua irritazione» disse. «Anzi, ricordo che l'avevo esasperata a bella
posta, insistendo sull'argomento della immortalità dell'organismo e l'abolizione della
personalità individuale. Tu ed io parliamo linguaggi troppo differenti».
«Non se sarei troppo sicuro» replicai in tono tentativo, colpito da un'ispirazione.
Un altro tassello del nostro mosaico cadeva nella scanalatura prestabilita: «Comincio a
credere anch'io che l'io soggettivo sia destinato a dissolversi, alla lunga. Ma non può che
dissolversi nella dimensione della devozione. È qui che hai torto, Clare. Tu pensi che i
nostri stati di apprensione non siano che capricci del temperamento individuale e vadano
neutralizzati. Ma ci hai mai pensato bene? Gli essere umani sono veramente vivi soltanto
in stati di devozione affettiva. La devozione è apprendimento, comprensione, amore
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autentico. Nella devozione ci troviamo immersi in una sollecitudine incondizionata, un
altruismo completo… ci dissolviamo nell'esistenza di un individuo separato da noi».
«Ma io non voglio amare in uno stato di apprensione, Gian. Voglio appagare i
miei sensi».
«Non si tratta di amore apprensivo. Si tratta di servitudine volontaria! Si tratta di
imparare a riconoscersi nei desideri altrui piuttosto che nel soddisfacimento dei propri. È
una desiderio del desiderio altrui».
Aggrottando le sopracciglia, Clare rovesciò l'omelette nel bidone della spazzatura
e gettò piatto e forchetta nel lavabo, strofinandosi le mani e la bocca con un asciugamani
da cucina piuttosto fradicio. «Se tu e la madre di Ayako siete avviati su questa china, e se
il padre di Ayako è un pervertito nipponico» disse in tono liquidatorio, «ho l'impressione
che mi toccherà occuparmi personalmente di questo povero bambino. Ayako ha bisogno
d'una sorella maggiore. Credo che per cominciare gli insegnerò a fare il surf. Cosa ne
pensi?»
Mi grattai truculentemente la punta del naso. Avevo sentore che ormai i tasselli
mancanti convergessero rapidamente sul nostro mosaico senza alcun bisogno del mio
contributo. Clare nelle vesti di sorella maggiore di Ayako? Sì, ce la vedevo in quel ruolo.
Ma cosa le faceva prevedere che gli arrangiamenti domestici di Ayako fossero in via di
estinzione? E che potesse eventualmente toccarle il ruolo di sorella maggiore?
«Vado in acqua» disse congedandosi.
Tredici anni prima ero stato presente al parto di mio figlio Alberto. Dopo averlo
lavato sommariamente, l'ostetrica me lo aveva deposto tra le braccia ancor prima di
posarlo sul petto di Elsa. Era avviluppato in una copertina gialla e azzurra. Assorbito
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dalla fisionomia misteriosamente familiare di quel fagottino prugnoso, m'ero sentito
invaso da uno stato di grazia speciale, indimenticabile. Quella è stata la prima delle tre
occasioni in cui mi sia mai accaduto di riconoscere qualcuno senza averlo incontrato
prima: la seconda ha coinciso col mio incontro con Dalia, e la terza s’è verificata quando
ho visto le fotografie di Rami.
Quando J. J. Bernhard si fu finalmente svegliato, i capelli scriminati in due falde
pesanti ai lati del viso, gli sentii annunciare con indifferenza di non aver visto né sentito
alcuna sirena nel corso della notte. Lo raggiunsi in terrazza e gli porsi il piatto con la sua
omelette. Attaccò a mangiare con voracia senza nemmeno ringraziarmi o prendere atto
della mia presenza, tenendo il capo chino sul piatto, quasi che fosse imbarazzato o pentito
delle confidenze che mi aveva fatto la vigilia.
Seto e Delapasture erano tuttora nel salone dietro la vetrata. Smesso il suo abito
scuro da dirigente d'azienda, Seto esibiva un costumino da bagno azzurro sormontato da
una canottiera bianca. Fasciata nel solito costume nero a un pezzo, piena di sollecitudine,
Delapasture lo iniziava all'arte della pittura. Era appoggiata a ridosso della sua schiena e
gli guidava la mano con cui lui reggeva il pennello. Ritoccavano la figura di un bilancino
dorato. Mi appressai e, con l'impressione che non si fossero nemmeno accorti di me,
deposi il piatto contenente le loro omelette sul pavimento di fianco.
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Con la scusa della omelette accostai Stella, infine, che se ne stava appartata,
chiaramente scontenta, su una delle terrazze laterali. M'aveva visto arrivare con la coda
dell'occhio: nell'avvicinarmi, avvertii uno smussarsi progressivo degli spunzoni mentali
con cui mi aveva tenuto a distanza il giorno prima. Rimanemmo per un po' in silenzio
fianco a fianco. Guardavamo il mare come due innamorati.
«Un nuovo argomento di dissertazione sarebbe un suicidio a questo punto della
tua carriera accademica, Stella» sussurrai senza staccare gli occhi dal mare. «Se mi porti
uno straccio di manoscritto in un paio di settimane, ti faccio difendere la dissertazione al
più tardi entro l'inizio di ottobre. In autunno sarai dottore in archeologia e potrai trovarti
un posto in qualche università».
«Parli come se trovare un impiego accademico fosse una quisquilia. Non è mica
così facile, per una donna» rispose senza guardarmi. «Voi uomini fate tutto così semplice.
È facile, per voi!» Attaccai ad annuire energicamente con il capo, sporgendomi in avanti
perché non mancasse di cogliere la mia espressione di solidarietà. Adesso bisognava che
soppesassi le parole: se l'oggetto del negoziato era la sua rinuncia alla dissertazione
diretta da J. J. Bernhard, non ci rimaneva che perfezionare le postille finali.
«Come se non lo sapessi!» esclamai con foga simulata. «Siete discriminate, voi
donne accademiche. Specie nel campo delle materie umanistiche. E quelle belle come te,
più delle altre. Non dimenticare però che io dirigo il comitato per i finanziamenti alla
ricerca di Stanford… La scorsa primavera la Hewlett-Packard ci ha caricati di soldi, un
finanziamento in memoria del vecchio Mr. Hewlett…»
«È una promessa?» chiese.
«Non ti fidi?»
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«Guarda che con te a letto non ci vengo più».
«Per chi mi prendi, Stella? Non lo faccio per quello, e nemmeno per i nostri
trascorsi. Dovresti averlo capito ormai che ammiro il rigore del tuo lavoro, l'intransigenza
che hai mostrato in questi anni di ricerca…»
Ruotò sui fianchi per lanciarmi uno sguardo inquisitivo. Come darle torto? Non le
riusciva di dar fede alle mie parole insincere. Io però le restituii uno sguardo carico di
biasimo. Non le stavo affatto mentendo, infatti: ero anche disposto a prosciugare le casse
del comitato per i finanziamenti alla ricerca, pur di ottenere che facesse quel che non
sapeva ancora di apprestarsi a fare. Rimanemmo in quella posizione per un lungo
intervallo, scrutandoci pacatamente a vicenda, piegando a turno il collo di qua e di là,
come esperti dinanzi ad un dipinto di dubbia provenienza. Agli occhi d'un osservatore
estraneo, la scena avrebbe potuto venire scambiata per un episodio di corteggiamento.
Avevo l'impressione che, scrutandomi tra le lunghe ciglia, Stella si facesse di nuovo
scorrere tra le dita i carati della mia anima, contandoli come i grani d'un rosario,
dubbiosa.
«Parto oggi stesso, allora» disse alla fine in tono definitivo.
«Ma domani è la Festa dell'Indipendenza!» finsi di obiettare. «Cosa ci vai a fare, a
Palo Alto da sola?»
«È quel che vuoi, o no? Parto oggi. Lascio il mio manoscritto alla tua segretaria
tra due settimane» concluse. «Se per caso te ne sei scordato, il mio argomento di
dissertazione riguarda la tipologia omerica »
«Perché dovrei essermene scordato?»
«… il tipo dell'eroe e il tipo del traditore, entrambi incarnati in Ulisse».
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«Non vedo l'ora di leggere i nuovi capitoli».
«Se ti può servire l'informazione, Gian, ho visto J. J. Bernhard polverizzare e
sniffare Ritalin a dozzine di pillole per volta».
«Cosa dovrei farmene di questa informazione?»
Si strinse nelle spalle, studiandomi un'ultima volta con aperto interesse, girò sui
tacchi e si allontanò.
Tornai dentro in cerca dei miei occhialini da nuoto. Ayako comprese che
intendevo nuotare e mi seguì all'interno del cenotaffio. Le parole scambiate con Stella mi
avevano colmato di un'euforia sinistra e incontenibile. Un sicario dopo un delitto riuscito
non si sarebbe sentito più esaltato o più spregevole. Entrai d'impulso nella stanza da
bagno, dove mi insaponai le mani e le fregai l'una sull'altra con foga, fino ad arrossarle.
Poi recuperai gli occhialini da nuoto sul pavimento della mia stanza ed uscii in
compagnia di Ayako.
Era una mattinata di luce vitrea, come se la notte prima ci fosse stata tempesta
sull'oceano. Il fondo dell'aria aveva un che di artico e si sfaldava nel cielo in fiocchi d'un
gelo iridescente, sebbene il sole sfolgorasse da tempo in vetta al dirupo. Ci attardammo
qualche minuto ad osservare Clare sul suo surfboard, che scernierava l'acqua in due cigli
sfaccettati. Poi ci spingemmo abbastanza al largo e nuotammo a lungo affiancati. Le
onde, troppo irregolari e nervose, mi ostacolavano la respirazione tra una bracciata e
l'altra. Non c'era neanche una foca in acqua. Di tanto in tanto si formava sotto ai miei
piedi un turbine che mi risucchiava in giù per qualche istante.
Non ero abbastanza riposato per quel tipo di oceano. Avevo il fiato corto. Quando
alla fine raggiungemmo il bagnasciuga, dovetti aiutarmi con le braccia per arrancare
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fuori. Mi piegai in due sulla sabbia, esausto, restio a fare lo sforzo di spostarmi ancóra.
Invece Ayako era sgattaiolato via in scioltezza; potevo scorgerlo oltre la goletta
incagliata, che risaliva agilmente verso il cenotaffio. Mi battevano i denti dal freddo.
Rimanevo carponi senza accennare a muovermi. Vidi le scarpe nere di J. J. Bernhard
penetrare il mio limitato raggio visuale; si accostarono finché vennero lambite dall'ultimo
riflusso della schiuma delle onde, poi mi sentii afferrare per una mano e venni sollevato
in piedi con uno strattone.
«Sono l'unico che ha finito la tua omelette, Balsamo» disse con un sorriso privo di
convinzione.
«Quanta fatica inutile» balbettai. Ma per un istante la notizia delle omelette
sprecate mi rese furibondo. «Quanta fatica inutile!» cercai di ripetere con qualche livore,
articolando a stento le parole a causa del gelo alle labbra e alle gengive. L'istante dopo
provai un eccentrico barlume di gratitudine verso la solidarietà culinaria di J. J. Bernhard.
Le nacchere dei denti mi martoriavano il nervo ottico, impedendomi di sostenere il suo
sguardo. Come l'avrebbe presa, se avesse saputo che gli avevo appena sottratto l'amante?
Col pretesto di espellere acqua dalle orecchie, mi percossi le tempie col palmo della
mano, prima la destra, poi la sinistra, nel tentativo di recuperare la concentrazione che mi
aveva guidato nella conversazione con Stella. Ci tenevamo ancora per mano, J. J.
Bernhard ed io lui tutto nero, io seminudo e grondante acqua salmastra. L'aria intorno a
noi era satura d'un voltaggio inesprimibile, una carica magnetica primordiale che non
riconoscevo ma presentivo fatale.
«Non ho visto nessuna sirena in acqua» mormorai, abbassando gli occhi con
l'imbarazzo d'una novizia.
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«Nemmeno io ho avuto fortuna stanotte» rispose lui.
Quella sera i fuochi artificiali di Carmel cominciarono poco dopo le dieci, non
appena il cielo si fu adeguatamente oscurato. Ero seduto sulla terrazza accanto a Ayako, i
piedi ciondoloni, nella posizione in cui avevo conversato con suo padre poco prima
dell'alba. Seto era in piedi, le spalle appoggiate alla vetrata, e Delapasture gli si strusciava
contro come un'anguilla, baciandolo con insistenza. Lui era tornato a indossare il suo
completo scuro nero da dirigente d'azienda, lei era ancora in costume da bagno e
sfoggiava una rovente scottatura su entrambe le spalle. Stella se l'era svignata in sordina
dal cenotaffio senza salutare nessuno. Di tanto in tanto, una voce chiedeva: «Ma dov'è
andata a cacciarsi Stella?»
J. J. Bernhard faceva l'indifferente, ma aveva certamente intuito la defezione
dell'amante. Dopo il blitz della vigilia, non gli era più riuscito di imporre la sua dittatura.
Gli affreschi abbozzati nella sala del cenotaffio avevano languito tutto il giorno.
Terminato il loro bilancino dorato, nelle cui vaschette avevano inserito un cuore ed una
piuma d'uccello, Seto e Delapasture s'erano appartati nell'unica camera rimasta libera e
non ne erano usciti che al tramonto. Succube dell'insistenza di J. J. Bernhard, Clare aveva
cominciato a ritoccare il cobra sulla testa del suo leone, ma s'era presto spazientita e
aveva ripreso a cavalcare le onde sul surfboard. L'avevo vista dalla mia postazione sul
tetto, mentre dava di petto agli spruzzi delle ondate, inarcata come un cavalluccio marino.
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I fuochi artificiali spuntavano da dietro il dirupo retrostante e si andavano a
infrangere contro la calotta del cielo senza una singola esplosione. Il silenzio di quelle
vampate multicolori aveva un che di irreale. Il viso rivolto verso l'alto, Ayako si sporse
verso di me e mi sussurrò all'orecchio che non voleva più saperne di dipingere le pareti
sotto la direzione di J. J. Bernhard. Gli avevo messo un braccio sulla spalla e me lo
stringevo contro. Nel trasformare l'oceano, l'altura e la vegetazione circostanti in un
paesaggio sconosciuto, la luce delle vampate nel cielo mi faceva prendere coscienza del
rapido mutamento nelle circostanze della mia vita. Ad una fiammata d'un rosso
particolarmente acceccante, non mi riuscì di trattenere un singhiozzo; mi era sembrata la
premonizione del sorgere del sole, che da oggi in poi, sentivo, avrebbe caratterizzato
l'inizio di ogni mia giornata all'insegna d’un ricordo spaventoso. Se ignoravo ancora la
natura di questo ricordo, potevo avvertirne le intimazioni nel moltiplicarsi dei lampi che,
come un'emorragia ininterrotta, laceravano il sipario compatto della notte per
rimarginarsi nello spazio di un attimo. Avvertii grosse lacrime sgorgarmi arbitrarie dagli
occhi: i lampi dei fuochi artificiali si sfogliavano come petali indistinti nel loro specchio
liquido. Continuai a piangere a lungo, in silenzio e all'insaputa di tutti, stringendo Ayako
in un forte abbraccio.
È tradizione concludere i fuochi artificiali del 4 Luglio con un gran finale di
effetti mesmerizzanti a spron battuto, inframmezzati da botti paurosi. Ma gli addetti alla
manifestazione, su a Carmel, avevano voluto fare gli eccentrici, rinunciando ad assordarci
i timpani. Le fiamme nel cielo si spensero discretamente, e la terrazza del cenotaffio
rimase in un silenzio come imbarazzato per diversi minuti.
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Poi vidi arrivare J. J. Bernhard, che se l'era evidentemente svignata durante lo
spettacolo, reggendo a braccia distese due drappi voluminosi. Spiegò il primo sotto i
nostri occhi, come se fosse un tappeto persiano. Era la bandiera a stelle e strisce; la fece
schioccare un paio di volte nell'aria, poi la affidò a Clare, e dispiegò una seconda
bandiera, quella italiana stavolta. Agganciò quest'ultima al cavo metallico del pennone e
la issò con fare burlesco, canticchiando l'inno di Mameli e supplendo alle pause
orchestrali con sbuffatine sonore delle guance. Poi fu la volta della bandiera americana.
Seto lo assecondò fischiettando The Star Spangled Banner.
Concluso il doppio alzabandiera, J. J. Bernhard si accostò a Seto con fare risoluto,
soffregandosi le mani, come pregustando un piacere imminente. «Qua la mano!»
esclamò, porgendo la destra a Seto.
Questi gliela strinse docilmente.
«Con le più sincere congratulazioni, amico mio!» J. J. Bernhard disse. Poi si
rivolse al resto della compagnia, indicando Seto con un gesto plateale del braccio. «Per lo
spettacolo di questo 4 Luglio, al signore qui presente il biglietto d'ingresso è costato…»
Si rivolse a me con fare interrogativo. «Qual’è la cifra esatta pagata per l'acquisto di
questa tomba, ho scordato… quattro milioni di dollari, a occhio e croce?» Tornò a
rivolgersi a Seto: «Dopo il tuo collasso a Wall Street, Seto, ci si aspettava che avresti
ridotto le spese voluttuarie».
Delapasture cercò di intromettersi: «J. J. Bernhard, cosa diavolo le prende!»
«Tu tieni la bocca chiusa, ch'è meglio!» la zittì. «Stiamo dimenticando che Seto
ha famiglia, per caso?» Fece una mezza piroetta alla volta di Ayako. «Perché non
chiediamo a Seto Junior che cosa pensa della nuova geisha bionda del papà?» Non diede
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il tempo a Ayako di comprendere o di reagire. Si era girato verso di me: «Ricevi uno
stipendio da Seto per il disturbo, o ti limiti a scopargli la moglie?» Ruotò di nuovo sui
tacchi con uno squittio secco e si rivolse a Seto: «Com'è visto un giapponese sposato ad
una testa rossa, dai famigliari rimasti a casa? Be', è sempre una bella impresa sottrarre la
squaw all'uomo bianco… Certo che se poi l'uomo bianco se la porta a letto, non ci
guadagni un granché. Ma puoi sempre rifarti presentando la tua nuova geisha ai parenti.
Questa è bionda... È tutto un mercanteggiare, non ti pare, proprio come a Wall Street.»
Rimasto senza fiato, il viso stravolto, J. J. Bernhard si era appoggiato con aria
spossata al pennone sormontato dalle due bandiere. Nessuno parlava. Le bandiere,
flaccide fino ad un istante prima, si gonfiarono e presero a frustare drammaticamente la
brezza che le sbatteva di qua e di là. Il tradimento di Stella aveva avuto gli effetti dovuti,
realizzavo, proprio quando cominciavo a pensare che l'amor proprio di J. J. Bernhard
fosse inattaccabile a meno che lui fosse semplicemente sotto gli effetti del Ritalin.
Avrei voluto sprofondare dalla vergogna.
Si sentì la voce sottile di Ayako dichiarare in tono molto serio, sottovoce: «A me
piace Delapasture, perché dovrebbe stare zitta?… l'ho curata io dalla quercia velenosa…»
«Hai curato anche me» disse Clare. «Domani ti insegno a usare il surfboard, baby
brother».
«Ma le onde non mi portano via?»
«Conosco un'insenatura stretta stretta vicino a Monterey dove le onde sono basse.
Ci andiamo domani, okay?»
«Okay» rispose lui. Poi aggiunse, in un tono tentativo che tradiva l'intima
gratificazione: «Baby sister...»
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J. J. Bernhard stava tuttora riprendendo fiato dalla sua sfuriata. La luce fievole
proveniente dalle candele accese dietro la vetrata rivelava i tratti affranti del suo volto.
Sembrava immensamente invecchiato. Si guardava ostinatamente i palmi delle mani,
come se volesse leggervi il fattore determinante del suo colpo di testa. Fu in un
atteggiamento devastato che osservò l'uscita di scena di Seto, il quale, pedinato
solennemente da Delapasture, ci lasciò senza profferire motto, non prima di avermi
accostato per stringermi sbrigativamente la mano. Uno dei suoi occhi mi balenò di fronte,
ingigantito dagli occhiali come dietro l'oblò d'una batisfera; ci lessi un'espressione di
umida devozione. Era chiaro che Seto non credeva una parola delle accuse di J. J.
Bernhard nei miei confronti. Non mancai di notare che Delapasture si cacciava una delle
sue pillolette in gola. Cercavo di persuadermi che avevo agito per il meglio anzi, erano
state le circostanze ad agire per conto mio.
Sebbene mi fossi destato più presto del solito, non anticipai che di un'oretta la
defezione di Seto e Delapasture, che vidi accingersi a lasciare il cenotaffio all'alba,
mentre lavoravo al tavolo dietro la vetrata. Il sole non era ancora sorto; la coppia era
chiaramente impaziente di eclissarsi. Mi offrii di equipaggiarli con una delle mie torce
elettriche. Seto mi ringraziò accettandola, poi mi strinse la mano in modo molto formale,
piegandosi in uno dei suoi inchini, chiamandomi “Professor” alla sua maniera, ed
esprimendo gratitudine “per tutto l'aiuto che gli davo”. Al momento di partire,
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Delapasture mi abbracciò e mi baciò riconoscente sulle guance. È inutile dire che mi
consideravo un mostro.
Era stata Clare a fasciare J. J. Bernhard nelle sue cinghie di cuoio la notte prima?
Dormiva ancora della grossa, impalato ai piedi delle due bandiere, quando Clare venne ad
informarmi che quel mattino lei e Ayako sarebbero andati a fare surf a Monterey. Voleva
l'auto in prestito. Al mio arrivo a Carmel, in giugno, avevo parcheggiato il Vokswagen
nello spiazzo in cima al dirupo. Prevedevo che avrebbe avuto la batteria scarica, dopo una
sosta così prolungata. Avendo appreso più volte a mie spese che i carri attrezzi del pronto
soccorso sono inamovibili nei giorni di festa nazionale, mi offrii di aiutarla a metterlo in
moto. Mi introdussi nella cameretta di J. J. Bernhard e frugai tra i suoi effetti personali,
finché scovai le chiavi del BMW che aveva preso in affitto a Carmel; il bagagliaio del
BMW doveva avere in dotazione i cavi necessari ad una messa in moto d'emergenza.
Il BMW nero era parcheggiato di fianco al mio Volkswagen celestino, come
m’aveva detto Stella. Estraemmo un paio di cavi dal portabagagli, uno rosso e uno nero,
poi ottenemmo delucidazioni da un gruppo di turisti che, sebbene visibilmente distratti
dalle proporzioni del capo di Clare, ci consigliarono sulla maniera di collegare i due cavi
con le batterie dei due veicoli. Dopo vari maneggi la mia auto era effettivamente in moto,
mentre uno dei nostri soccorritori commentava, amaro, che colla mia imperizia ero
probabilmente riuscito a scaricare del tutto la batteria del BMW. Clare mi lanciò una
smorfia rassegnata, chiuse perentoriamente il cofano del mio Volkswagen, e si infilò al
posto di guida. Ayako la imitò, sedendole accanto e guardandola adorante.
Salutai la loro partenza con ampi gesti delle braccia. La separazione da Ayako mi
riempiva di un timore ingiustificato e profondo; non sapevo bene cosa fare, cosa pensare,
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mi sentivo malfermo sulle gambe, come se la sua partenza privasse il mio equilibrio
corporeo d'un perno essenziale. Avevo avuto un motivo ulteriore per venire quassù a
Carmel ma non riuscivo a rammentarmi quale fosse.
Ero ancora intento a gesticolare con entrambe le braccia distese quando mi resi
conto che gli scoppiettii rauchi del mio Volkswagen erano svaniti da tempo in
lontananza. I turisti che ci avevano consigliati sulle operazioni di accensione mi
lanciavano sguardi attoniti dal loro capannello. Per darmi un contegno, chiusi il cofano
del BMW e riposi i cavi nel portabagagli. Sedetti al posto di guida per sincerarmi di non
aver scaricato la batteria. Il motore si azionò subito con un rumore felino e impercettibile
di fusa. Ingranai la marcia e partii istintivamente nella stessa direzione del mio
Volkswagen. Imboccai la Statale n.o 1 in direzione di Pebble Beach, poi raggiunsi e
attraversai senza fermarmi la cittadina di Monterey, proseguendo alla volta di Sea Side e
Sand City; una volta che ebbi superato Pacific Grove, cominciai a correre ad alta velocità
lungo il litorale. A tratti la statale, sprovvista di parapetto, si arrampicava divincolandosi
sul fianco di chine ripide a strapiombo sull'oceano, dando l'impressione che dietro la
prossima curva non ci fosse che il salto nel vuoto. Queste salite erano seguite da discese
rapide che, il cuore in gola, mi riportavano d'un balzo a quota zero.
Corsi per un lungo tratto di fianco alla tavola del mare. Il blu plumbeo dell'acqua
e il grigio lucido dell'asfalto si confondevano nei riflessi del parabrezza. Poi in un attimo
fui di nuovo in vetta, di dove si dominava una porzione d'orizzonte smisurata.
Mi lasciai il litorale alle spalle e imboccai la Statale n.o 183 diretta a Salinas.
Dopo una trentina di minuti percorrevo la strada principale di Salinas, fiancheggiata da
splendidi edifici d'inizio secolo, le cui finestre erano sbarrate da tavole di compensato su
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cui campeggiavano vistosi graffiti. Vidi anche un paio di cinematografi dal frontale Art
Deco, ma cadenti, pur'essi sbrigativamente sbarrati dalle tavole di compensato. Mi fermai
in un ristorantino pretenzioso, dove mi servirono un eccellente hamburger tempestato di
pepe nero, che consumai in pochi istanti. Uscii dal parcheggio del ristorante con un paio
di violente sgommate involontarie. Imboccai la Statale n.o 68 che mi avrebbe riportato a
Carmel. Poche miglia a sud-est di Carmel, vidi un segnale sul ciglio della strada che
annunciava l'approssimarsi del Rancho Carmelitano, il ristorante aperto da Clint
Eastwood al tempo in cui era sindaco di Carmel. Seguii le indicazioni dell'insegna, uscii
dalla Statale dopo circa un quarto di miglio, percorsi una stradina di campagna fintanto
che una vistosa insegna rossa mi informò che stavo entrando nel parcheggio del Rancho
Carmelitano. Il parcheggio era deserto. Spinsi il BMW di fianco alla porta d'ingresso,
parcheggiandolo accanto ad un cespuglio impressionante di carciofi in fiore. Scesi e mi
attardai a contemplare il cespuglio. Le foglie verdi indurite dei carciofi fungevano da
petali; dentro alle corolle, ch’erano larghe almeno una spanna, si ergevano centinaia di
sottili filamenti diafani, ritti come spilli, di color violetto. Il parcheggio era pervaso dal
profumo agrumaceo di magnolia.
L'edificio, in stile Mission, era in ottimo stato ma sembrava abbandonato da
tempo. Lungo i fianchi della facciata proliferavano cactus selvatici dei tipi più inconsueti,
assembrati in enormi cespugli dall’aria bellicosa. La pesante porta d'ingresso in legno
arabescato cedette docile alla pressione delle mie dita, e mi trovai a penetrare nella
penombra viscosa di un ampio vestibolo molto fresco. La mia attenzione venne subito
attratta dalle silhouette di due uomini appoggiati al bancone del bar, occupati a bere
parlottando. Il loro mormorio si distribuiva intorno un cicaléccio incomprensibile. Mi
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accorsi che trattenevo il respiro nel contemplare la scena, nel timore ingiustificato che
l'aria del vestibolo mi avrebbe gonfiato smisuratamente i polmoni. Venni accostato da un
ispanico in costume da gaucho, che in un inglese stentato cercò di spiegarmi che il
ristorante non era aperto al pubblico, invitandomi ad uscire. Mi distesi il dito indice
attraverso le labbra, d'impulso, facendogli segno di parlare sottovoce per non disturbare
la conversazione dei due uomini di fronte al bancone. Poi però replicai, con una caparbia
che dovette sorprenderlo almeno quanto stupì me stesso, che il mio era un caso
d’emergenza e bisognava urgentemente che parlassi col proprietario. Il gaucho distese le
dita delle mani a ventaglio e sollevò gli occhi al soffitto, facendo seguire il gesto da una
risatina. «El gringo loco» mormorò. Io lo congratulai involontariamente con lo sguardo
per essersi limitato a parlare con voce flebile. Ma continuai ad insistere, inframmezzando
i miei bisbigli in inglese con vocaboli scelti alla meglio dal mio limitato repertorio in
spagnolo. Il gaucho fece un altro gesto di diniego, al che io imprecai un po' più
sonoramente in italiano, richiamando l'attenzione dei due uomini al bar. Smisero di
confabulare e uno dei due ci si avvicinò, finché il suo viso emerse dalla penombra.
«Mr. Eastwood!» esclamai.
Clint Eastwood fece un cenno al gaucho, indicando che poteva smettere di
occuparsi di me. Questi si allontanò con un'alzata di spalle. «El gringo loco» gli sentii
ripetere.
«Devi essere l'italiano che fa le ferie nella casa sull'oceano a Carmel» l’attore
sussurrò in un italiano stentato. Mi porse la mano. «Clint Eastwood» disse.
Era evidentemente un altro di quegli americani che ignorano le cortesie della terza
persona singolare.
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«Piacere. Gian Balsamo» replicai, parlando ancora sottovoce.
Mi chiese come trovavo il suo italiano. Senza aspettare risposta, osservò che la
sua pronuncia doveva essersi alquanto arrugginita. Non tentai di contraddirlo, il che mi
parve apprezzare. Aveva lavorato a lungo in Italia agli inizi della carriera. Riconosceva
gli italiani dalla maniera in cui teniamo le mani in tasca, disse puntando un dito verso di
me. Parlava e gesticolava con fare esageratamente ieratico, come una persona in preda
agli effetti di un potente sedativo. Mi chiese che mestiere facevo nella vita etc. Gli risposi
che insegnavo a Stanford, al che reagì con un mezzo inchino, tornando ad esibire il suo
italiano: «Ma allora dobbiamo chiamarti “Signor Professore”!» Poi si offrì di mostrarmi il
ristorante. Mi dissi onorato, aggiungendo che non avrei voluto rubargli troppo del suo
tempo.
Mi prese sottobraccio con un contatto fragile e remoto della mano e, attraversata
la semioscurità di un paio di spaziose sale da pranzo, mi introdusse nelle cucine deserte,
ch'erano tutt'una porcellana incorniciata d'acciai inossidabili e smalti laccati. Ad ogni
passo staccava esageratamente i piedi dal pavimento, come se fosse artritico oppure
stesse simulando l'attraversamento di un prato fradicio. Poi scendemmo nelle cantine,
dove a lume di candela mi mostrò i vini prodotti dai suoi vigneti italiani nelle Langhe. Le
sagome degli scaffali avevano qualcosa di moresco e il legno era inverosimilmente
tarlato. Estrasse una delle sue bottiglie italiane dallo scaffale e la soppesò brevemente,
considerandola cogitabondo, poi la rimise a posto con una scossa del capo e sfilò una
sottile fiaschetta metallica dai pantaloni. Svitato il cappuccio, ci versò un dito di whiskey
e me lo offrì. Benché fossi astemio dall'inizio dell'estate, l'occasione meritava
un'eccezione. Lui intanto aveva trangugiato un paio di sorsi direttamente dal collo della
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fiaschetta. Buttai giù alla meglio il liquido infuocato, reprimendo un conato di tosse. Un
torpore subitaneo prese a invadermi le membra. Dovevo fare uno sforzo, concentrandomi
sulla fiammella della nostra candela, per continuare a credere di trovarmi veramente in
quelle cantine. A giudicare dalla mia limitata prospettiva visuale, i corridoi sembravano
distribuiti intorno a diverse nicchie oblunghe, in ciascuna delle quali avrei potuto
agevolmente distendermi per schiacciare un pisolino in pace. Ero quasi sul punto di
piegare le ginocchia ed accovacciarmi sul pavimento, cedendo allo sfinimento, quando
mi trattenni con un brivido, e diedi sfogo invece all'amalgama di parole che mi
fermentava dentro da qualche minuto.
«Mr. Eastwood» dissi, «sono venuto qui da lei in cerca di consiglio».
Dopo un paio di false partenze che gli sfalsarono la fisionomia, gli riuscì di
coordinare i muscoli facciali, e mi regalò uno di quei sorrisi che nei film assorbono i suoi
occhi in fessure sottili come rughe.
«Sono innamorato di una donna» dissi, «una egiziana sposata a un giapponese».
«E lei è innamorata di te».
«Sì, ma c'è di mezzo un terzo uomo che vuole portarla via ad entrambi».
«Hai visto i film che ho girato in Italia con Sergio Leone?» mi chiese.
«Uno o due» risposi. «Gli spaghetti western...»
«Allora cosa aspetti? La formula è sempre la stessa. Nascondi la corazza sotto un
poncho da straccione e parti alla carica…»
Mi venne da premere le labbra in una smorfia titubante. Lui elaborò, senza sforzo
apparente stavolta, una variante più amabile del sorriso grinzoso di poco prima. Disse che
se avevo voluto chiedere consiglio proprio a lui, era perché conoscevo la risposta, ero
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padrone dei mei mezzi, e avevo già preso misure appropriate. Annuii con il sollievo di
una convinzione: era un argomento indovinato, trovavo.
Mi scortò alla mia macchina, solcando la penombra viscosa del ristorante colle
falcate di quel suo passo guardingo. Sostò qualche attimo accanto al BMW, palpandone
la portiera come se fosse il fianco d’uno stallone che gli sarebbe toccato domare,
assorbendo intanto un altro po’ d’alcool dalla sua fiaschetta. Puntò un dito verso il
cespuglio dei carciofi:
«Hai mai visto un prodigio simile in Italia?» chiese.
Assentii vigorosamente con il capo, intendendo che no, non avevo mai visto una
cosa simile in Italia. Ci stringemmo la mano prima di separarci, e provai nuovamente, al
contatto, l'impressione fragile e remota di quando mi aveva preso sottobraccio.
«Good luck, pardner» disse alla cow-boy, a mo' di congedo.
Ero saltato a bordo del BMW e mi ero lasciato alle spalle il Rancho Carmelitano,
guidando spericolatamente fino a Carmel. Avevo parcheggiato nello spiazzo sopra il
dirupo e mi ero lanciato giù per il sentiero che conduce al cenotaffio. Il sole filtrava basso
tra i cipressi marittimi, abbagliandomi. Le ombre della sera sembravano incombermi da
tergo, come se non dovessero scaturire dalla scomparsa del sole ma provocarla,
accalcandosi fino a farlo rotolare oltre l'orizzonte. A poca distanza dal cenotaffio,
intravvidi Dalia sulla terrazza in compagnia di J. J. Bernhard. Dalia indossava un paio di
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shorts ed era a petto nudo. Lui era del tutto in nero, come al solito. Provai una stretta al
cuore. Mi fermai dietro un cipresso per spiarli, approfittando di quello strano
disequilibrio di luce radente ed ombre calanti che mi faceva sentire invisibile. Dalia e J. J.
Bernhard chiacchieravano in atteggiamenti che suggerivano una collaudata intimità. Di
tanto in tanto lei sorrideva o si stiracchiava. J. J. Bernhard aveva allungato un braccio
verso la baia in uno dei suoi gesti di sufficienza, e compresi che le stava raccontando
l'episodio del naufragio della goletta di Seto.
Una delle vele quadre della goletta s'era snodata dal pennone e si gonfiava in
risposta alle raffiche della brezza marina. Notai che le due bandiere issate da J. J.
Bernhard sull'asta metallica della terrazza garrivano sopra le loro teste, e l'agitazione
scomposta dei tessuti multicolori era accompagnata da schiocchi frequenti, secchi come
frustate. Non doveva essere facile conversare in quel frastuono.
Il cuore tornò a contrarmisi quando vidi J. J. Bernhard soffregare un dito contro
un capezzolo di Dalia. Era possibile però che la luce e la prospettiva mi stessero
ingannando. Del sole restava soltanto un grumo verde a scintillare sopra il filo
dell'orizzonte; mi penetrava le cornee come uno spillo. Vidi Dalia inchinarsi per sollevare
dal pavimento della terrazza una delle cinghie di cuoio. J. J. Bernhard s'era andato a
stringere contro il pennone, sotto le bandiere. Dalia gli avviluppò la cinghia intorno ai
polpacci, poi gli strinse la seconda cinghia intorno a braccia e torace, e infine la terza
intorno all'addome.
J. J. Bernhard fu il primo dei due a vedermi arrivare. «Welcome back, pardner»:
sono le parole di benvenuto che nel ricordo mi pare di sentirgli pronunciare, per quanto
sia inverosimile che avesse veramente duplicato la dizione manierata con cui Clint
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Eastwood s'era congedato da me. «Welcome back, pardner». Eppure continuo a
sentirgliele dire, quelle tre parole, quelle cinque sillabe teneramente scandite, le ultime
che mi rivolse prima di morire. Io risposi con un cenno del capo ma senza replicare. Ero
sconvolto dal terrore che Dalia potesse tradirmi con lui. Ero al tempo stesso oppresso
dalla vergogna di aver tradito la fiducia che due notti prima lo aveva indotto a confidarsi
con me. Avevo di fronte, saldamente avviluppato al pennone, inoffensivo come una
vittima sacrificale, un uomo con la cui integrità e intelligenza, temevo, non avrei potuto
competere. Perché mai, in fondo, Dalia avrebbe dovuto preferirgli me?
Ma nel momento in cui lei mi sfiorò una mano colla sua, ebbi la certezza di aver
totalmente frainteso la scena che avevo spiato in lontananza. J. J. Bernhard chiese a Dalia
di portargli un bicchiere d'acqua. Guardandola sparire all'interno del cenotaffio che avevo
inteso consacrare alla memoria del fratello, fui preso da un moto misto di gelosia e di
rammarico, come se, rivolgendo a lei la sua richiesta, J. J. Bernhard mi avesse privato di
un diritto acquisito. Dalia tornò sulla terrazza in un baleno e gli distillò in gola, con
delicatezza materna, il liquido contenuto in un bicchiere. Lui aveva spinto la testa
all'indietro e la lingua all’infuori, e lei gli aveva posato il palmo di una mano sulla
guancia, in una posizione identica a quella che avevo assunto io due notti prima per
dissetarlo.
«Sono pronto» disse lui alla fine. «Vorrei che mi lasciaste solo».
Mi accostai d'impulso e, senza guardarlo negli occhi, gli asciugai il labbro
inferiore col dito pollice.
Dalia ed io rientrammo insieme nel cenotaffio. Lei estrasse vivande e provviste da
un borsone che aveva portato con sé, disponendole sul bancone accanto alla stufa nella
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cucina; cucinammo a lungo ed elaboratamente, e poi cenammo con calma. La pace e il
silenzio regnavano nel cenotaffio finalmente deserto. Clare e Ayako non erano ancora
tornati da Monterey, evidentemente. Dalia mi annunciò che quella notte avremmo
dormito sul pavimento della sala, dinanzi alla vetrata. Non sapevo se era stata finalmente
messa al corrente del mio progetto di cenotaffio, e non glielo chiesi. Non aveva fatto il
minimo commento riguardo alle pitture murali che ci circondavano.
Suggerii che avremmo potuto spostare due delle brande dalle camere da letto. Lei
respinse l'idea, e distese invece sul pavimento il sacco a pelo che Ayako si era portato in
vacanza, senza poi mai utilizzarlo. Era un apparato professionale in tela impermeabile,
imbottito di piume d'oca, ragguardevole quanto alle dimensioni, ricoperto esternamente
di tasche e comparti di vario formato ed uso incerto. Ci spogliammo e sdraiammo a turno,
prima io, poi lei. Un brivido incontenibile mi percorse dalla testa ai piedi al contatto della
sua pelle nuda.
Gli occhi di Dalia luccicavano nel buio del cenotaffio. Premette forte la fronte
contro la mia. «La senti?» disse. Piegandomi il collo di lato con la mano e distendendosi
sul mio petto, fece combaciare l'una sull'altra due delle nostre orecchie, come ventose:
«La senti, adesso?»
«Che cosa dovrei sentire?»
«La voce… È tornata a parlarmi in questo momento. Puoi sentirla?»
«Sì» le mentii, non con l'intenzione di ingannarla ma perché non avevo scelta. In
quel momento afferravo oscuramente il senso delle istruzioni che riceveva dalla sua voce
interiore, sebbene non potessi udirla. Afferravo, terrificato dalla prospettiva di un amore
smisurato e al di fuori d'ogni regola, che tutto quel ch'era compreso in questo nostro
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amore doveva significare il mio consenso al delitto che ci avrebbe legati per sempre
ignari ma consapevoli, colpevoli ma innocenti. Sentivo la sua voce interiore? No, l'ho già
detto: non la sentivo per niente. Ora so, col senno di poi, che non era la voce del fratello
Rami ma quella della donna che incontravo ogni notte in sogno. Ma mi sono ripromesso
di non parlare con il senno di poi, in questo resoconto. Non sentivo la voce, però
avvertivo il suo scopo: le intimava di condiscendere a quel che si sarebbe compiuto
quella notte. J. J. Bernhard e Seto non potevano più sottrarla al nostro destino.
Dalia era distesa di traverso sul mio torace. Mi scavalcò facendo leva sulle braccia
e si accovacciò sui miei inguini. Sollevò la mano destra e, sostenendosi con l'altra, strinse
gentilmente le sue cinque dita sotto il mio mento, esercitando una sottile pressione
crescente. La mia bocca si spalancava a mano a mano, in cerca dell'aria che mi veniva a
mancare; gli occhi, guardandola a tutta prima senza comprendere, sembravano farmisi
erettili e protrudersi verso di lei. Sentivo i battiti accelerati del mio cuore. Sentivo un
nuovo, ricco circuito vitale scaricarsi dalle sue dita al mio collo, dal collo ai polmoni, dai
polmoni al ventre, e dal ventre al suo pube, premuto contro il mio. La sua mano non
accennava ad allentare la strozzatura. La mia passione cresceva e cresceva, finché venni
risucchiato dentro di lei da un guizzo deliberato dei muscoli della sua vulva, che mi lasciò
boccheggiante in una specie di deliquio indifeso.
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Mi vedevo disteso accanto a Dalia. Lei giaceva su un fianco, rivolta verso di me.
Le vidi aprire gli occhi, non gradatamente come qualcuno che si svegli ma nella maniera
involontaria che segue un battito di ciglia. Mi restituiva lo sguardo con un sorriso sottile.
Il suo volto non vibrava, soggetto al solito caleidoscopio di trasformazioni, ma si lasciava
contemplare. Era il volto di mia madre da giovane, tale e quale lo ricordavo dall'infanzia.
Adesso ero in piedi e le correvo incontro, al colmo di una contentezza irrefrenabile.
Correvo e correvo e correvo a braccia spalancate per raggiungerla, strillando di gioia.
Anche lei aveva disteso le braccia per ricevermi. Quando l'ebbi raggiunta, posò le palme
sul mio petto all'altezza del torace. Incurvando le dita gradatamente verso l'esterno,
contro le costole, compì con entrambe le mani un movimento semicircolare che me le
affondò dentro la cassa toracica, raccolte a coppa intorno al cuore. Estrasse delicatamente
un piccolo muscolo rosso guizzante e me lo mostrò; palpitava con potente regolarità nel
cavo delle sue mani. Mentre li guardavo pulsare, i due ventricoli si separarono l'uno
dall'altro e ciascuna cavità si rovesciò su se stessa come un guanto. Si ingrandivano
entrambe lentamente, avviluppando in ripetuta successione la superficie delle pareti
interne intorno a quella delle pareti esterne. Si facevano grandi, come sfogliandosi. A
mano a mano che si dilatava, il ventricolo destro invadeva la calotta blu del cielo di
fronte alla vetrata, che si colorava di un rosso cupo ed omogeneo, un mare di sangue. Il
ventricolo sinistro, intanto, s'era allargato fino ad occupare tutto il bacile della baia, che
s’era tinto dello stesso rosso cupo del cielo. Era impossibile distinguere dove finivano gli
argini rossi del cielo e dove cominciavano gli argini rossi del mare. Ma avrei detto,
misurando l'estensione del mio cuore, sterminato tra le mani di mia madre, che ero io a
pompare tutto quanto l’ossigeno necessario a nutrire la vita di quell'universo di sangue.
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Venni svegliato da Dalia che mi scuoteva per una spalla. Spalancai gli occhi ma
tornai subito a chiuderli, lancinati dalla luce che penetrava attraverso la vetrata. Per un
lungo momento, le palpebre serrate, mi sforzai di ricordare il da farsi, nella quieta
embrionica persuasione che dalla filigrana del mio passato dovessero rivelarmisi le
direttive dei miei futuri imperativi. Poi ricordai l'ombra di mia madre. Dischiusi
nuovamente gli occhi, appena una fenditura, come avevo visto fare a Clint Eastwood, e
rimasi per un po' a scrutare Dalia dietro lo spiraglio delle palpebre, senza parlare. Le mie
ciglia sembravano bersi a sorsate la luce tambureggiante della stanza.
Dalia mi stava inginocchiata di fianco, accanto al sacco a pelo, la mano posata
sulla mia spalla, il viso reclino al di sopra del mio: era il viso di Dalia, indubitabilmente,
e non più quello di mia madre. Ma c'era anche un che di diverso e d'antico nella sua
vicinanza. La novità era nel volto, compresi, che non eludeva più il mio sguardo.
Spalancai gli occhi del tutto, malgrado il fastidio tagliente del sole, e considerai quel
volto tanto familiare che finallora non avevo mai potuto vedere per intero. Era diverso da
quello delle fotografie, più agile e liscio, come generoso dei propri tratti un volto
irrevocabile. Perché non sorrideva?
Uscimmo in terrazza. L'acqua della baia basculava compatta, bilanciandosi in
lunghe oscillazioni dorate intorno al perno del cenotaffio. La goletta di Seto si era
disincagliata e galleggiava su un fianco immediatamente alle spalle dei frangenti. Più
discosto, dritta sul suo surfboard, Clare filava rapida in direzione perpendicolare alla
barca, come una valchiria risoluta ad abbordarla. Era circondata di foche. Tutte le nostre
foche erano scese in acqua, conclusi dopo un rapido conteggio.
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Dalia voleva mostrarmi qualcosa. J. J. Bernhard era tuttora legato al pennone,
avviluppato nelle tre cinghie di cuoio, gli abiti inzuppati d'acqua marina, il collo storto
all'indietro in una posizione innaturale. Un lembo fradicio della bandiera americana gli si
era drappeggiato intorno al cranio come un turbante o un berretto rinascimentale. Mi
fissava con occhi sbarrati. Quando fui di fronte al pennone, vidi una chiazza d’un rosso
cupo sul suo petto ed un'enorme pozza scura ai suoi piedi. Rabbrividii e rivolsi a Dalia
un'occhiata sgomenta. Lei mi posò una mano sul braccio e annuì brevemente, come per
rassicurarmi di fronte a quello spettacolo incomprensibile. Puntò l'altra mano in direzione
del dirupo alle spalle della casa. Seto era seduto su una roccia lì dietro, vestito nel suo
solito completo scuro, i capelli sudati appiccicati al cranio, gli occhi persi nel vuoto. In
una mano, appoggiata al ginocchio, stringeva la sua spada da Seppuku.
Seduto sulla stessa roccia al suo fianco c'era Ayako, che mi rivolgeva uno sguardo
stranamente imperterrito. Con la coda dell'occhio vidi che Dalia gli aveva rivolto un
cenno del capo, e Ayako le rispose con un minimo gesto della mano, senza scomporsi.
Anche Seto, per quanto stranito, doveva aver avvertito il cenno di Dalia; fece un mezzo
inchino col capo, senza smettere di scrutare nel vuoto. La lama della spada era imbrattata
di sangue.
Guardavo questa scena da incubo e mi dicevo che era troppo cruda, troppo austera
ed irreale per essere ancora parte del mio sogno. L'unica componente che pareva onirica
erano i volteggi indifferenti di Clare sul surfboard, circondata di foche. Ma era palese che
se n'era sgattaiolata fuori dal cenotaffio qualche tempo prima, senza accorgersi di niente.
Non l'avevo sentita rientrare con Ayako la notte scorsa, sebbene mi fosse parso di
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rimanere insonne a lungo, dopo il sesso con Dalia. A giudicare dall'accanimento con cui
si contorceva sull'acqua, Clare era ovviamente ignara della situazione al cenotaffio.
Evitavo di fare il minimo movimento. Respiravo con una specie di cautela. Mi
domandavo in quale forma il mio panico avrebbe sferrato la prima bordata. Una massa
coagulata di emozioni contraddittorie mi faceva arrossire. Avrei cominciato a vomitare di
colpo? Mi sarei messo a battere i denti all'impazzata, avrei urlato o preso a tremare
incontrollabilmente? Dovevo svenire?
Gli uccelli della baia si erano evidentemente passati la voce degli eventi
straordinari che animavano il cenotaffio; posati tutt'intorno, alcuni intruppati persino
sugli alberi inclinati e malfermi della goletta, combinavano uno strepito assordante. Per
quanto strano, non si vedeva un singolo paio d'ali in volo al di sopra delle nostre teste.
Notai una pellicola di sangue rossastro sul bordo della ferita rappresa che
attraversava la gola di J. J. Bernhard; teneva impigliata una bolla d'aria delle dimensioni
di una noce. Avvicinatomi alla salma, mi accorsi con sgomento che la bolla d'aria si
gonfiava, per quanto impercettibilmente. Che J. J. Bernhard respirasse ancora? Che dietro
quegli occhi vitrei operasse ancora una mente capace di intendere e di volere? Gli
sventolai inutilmente la mano dinanzi al viso, provai a chiamarlo per nome ma mi accorsi
che non usciva nessun suono dalle mie labbra. Allora gli palpai tentativamente una
guancia per provocare una reazione; al contatto delle mie dita, il capo di J. J. Bernhard
oscillò come un birillo e si rovesciò sulla spalla destra, rimanendo pendulo a fissarmi da
sotto in su. La bolla d'aria sulla ferita s'era istantaneamente gonfiata, esplodendo nel
momento in cui un fiotto di sangue sgorgava dal collo scoperchiato e mi spruzzava il
viso. Nel balzare all'indietro provai una sensazione di risucchio, come se il miscuglio
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delle passioni che questa vicenda era destinata ad estirpare dalla mia esistenza potesse
trascinarmi dentro a quella fenditura.
Stavo disinvischiando i piedi nudi dalla pozza scura e collosa che circondava la
salma decapitata di J. J. Bernhard, distratto dal concerto assurdamente festoso dei volatili
assiepati a migliaia per spiarci, quando mi resi conto che, dal momento della mia entrata
in scena, Ayako aveva scrutato attentamente tutti i miei maneggi; ed io avevo
inconsapevolmente conformato ogni mio gesto al calibro del suo giudizio. Quando fui
finalmente saldo sulle gambe, mi rivolsi a Dalia: «Ma perché non volano tutti quegli
uccelli? Stanno accovacciati come polli». Mi ascoltai pronunciare questa impertinenza
con fatalità ma anche con un senso di rivelazione, come se convinzioni possentemente
radicate in me fossero destinate a scivolare obliquamente su quelle mie parole, e la mia
immaginazione fosse occupata ad assemblare, a lampi, una nuova costellazione di
certezze inedite. Poi, come a sigillo di queste parole, diedi un breve battimano ed una
moltitudine di volatili si alzò istantaneamente al di sopra delle nostre teste, tuffandosi in
varie orbite concentriche: pulcinelle di mare, quaglie, gabbiani bianchi, aironi blu, colibrì
svelti come schegge di smeraldo, qualche falco. Seto e Ayako sollevarono entrambi gli
occhi al cielo. Vidi che anche Clare, sul suo surfboard, si era distratta ad osservare lo
spettacolo, e per un attimo fu sul punto di perdere l'equilibrio.
Chiesi a Dalia, puntando un dito alla volta della salma stretta al pennone: «Cosa
succede adesso?»
«Non devi preoccuparti, Gian. Seto non torcerebbe un capello a Ayako, lo sai.
Prima di svegliarti ho chiamato il 911 col cellulare di Seto».
«Il suo cellulare… ? Come hai messo le mani sul suo cellulare?»
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«Gli ho detto di darmelo. Gli ho spiegato che dovevo chiamare la polizia perché si
occupassero di lui e le guardie mediche perché si occupassero di J. J. Bernhard. Ayako
l'ha capito che dobbiamo solo aspettare, vedi?»
Mi misi anch'io ad aspettare, ma in quel trambusto di uccelli festosi non era più
l'attacco di panico che aspettavo, soltanto l'arrivo della polizia e delle guardie mediche.
Guardando il cadavere di J. J. Bernhard, avevo difficoltà ad immaginare il sepolcro in cui
avrebbe consentito a vedersi installato. Poi guardai il volto pallidissimo di Seto. Provavo
un sentimento simile alla compassione per lui, non troppo differente né molto più intenso,
in fondo, della pena che mi faceva quand'era ancora un divo dell'informatica. Poi mi
guardai i piedi; sembravano stranamente puliti, sebbene fossero più imbrattati di sangue
della spada che Seto reggeva tuttora in mano. In quel momento ricordai che il sangue
pompato dal mio cuore s'era dilatato nottetempo nelle mani dell'ombra di mia madre, fino
ad appropriarsi di tutto l’ossigeno del creato. Pensai, con un sollievo ed una trepidazione
del tutto irragionevoli, che c'è un’infinità di amore ma anche un'infinità indispensabile di
egoismo raccolti in questa nostra bolla sottile di gas respirabili. L'odio no, per l'odio non
c'è spazio effettivo disponibile, quando ci prodighiamo tutti alla stessa maniera per
ritardare la stessa sentenza ineluttabile, destinata ad annoverarci tutti egualmente, un
giorno, nel numero dei più. L’odio non è altro che un’assenza di amore.
Nottetempo, l'ombra di mia madre era diventata Dalia, la quale, in questo
momento, mi stava accanto. Eretta e tenace come un obelisco, flessuosa e paziente come
una palma, incapace di darsi pace se non nutrendosi della mia pace interiore; era lei il
ricettacolo inconsapevole di tutti i segreti che, di questa vicenda, erano destinati a
rimanermi ignoti. Ma intanto il volto evanescente di Dalia s'era fatto fermo e definito, e
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non era quello di mia madre ma proprio il suo, il volto fermo e definito che fino ad ora
non m'era mai riuscito di vedere interamente, nemmeno in sogno: fermo, nel senso di
tutte le cose che sono permanenti in questo universo, e definito, nel senso di tutte le cose
che vi permangono inesorabili. Come l’amore inesorabile di una madre: l’amore di mia
madre per me, e anche le ragioni del suo complotto im mio favore, che stentavo e stento
tuttora ad afferrare del tutto.
Ricominciando ad aspettare, mi resi conto che stavo respirando. Percepivo
l'andirivieni del mio fiato come una meraviglia, una specie di movimento organico del
creato, una fantastica mostruosità: spontanea, naturale, ma con un che di impossibile e di
crudele e di miracoloso. Inalavo l'aria salmastra dell'oceano con calma acquiescenza.
Athu nifu em-bah au xu er t'eru pet.
FINE
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t s'aï n sensen
Traduzione di Gian Balsamo dal manoscritto no. 3284 del Museo del Louvre
(Théodule Devéria, Catalogue des manuscripts egyptiens, pp. 130-166)
1. Principio del Libro del Respiro,
Composto da Iside a beneficio del fratello Osiride,
Al fine di rinnovare la vita del suo spirito,
Al fine di rinnovare la vita del suo corpo,
Affinché tutte le sue membra, reincarnate,
Abbiano scalato l'orizzonte di fianco al padre, Dio Sole,
E il suo spirito, rinato nel Cielo del disco lunare,
Abbia rifulso nel seno materno di Nu-t,
Stella tra le stelle di Orione:
Affiché ciò possa essersi realizzato in gloria di Osiride,
Genitore divino, profeta di Amon-Ra, re degli Dei,
Profeta di Khem, toro fecondatore della propria madre
Osiride, che risponde anche al nome di Ausar,
Nella veridicità di tutte queste sue manifestazioni,
Nonché figlio veridico del profeta del suo stesso ordine,
Nes-paut-ta-ti.
Guai a chi diffonde i segreti di questo papiro!
Sono di beneficio soltanto a colui che,
Confinato nella Necropoli,
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Sarà rinato infinite volte nel fiato della verità.
2. Si dia inizio alla Recitazione:
Salve Osiride [inserire nome proprio del defunto].1
Puro il tuo cuore,
Purificato il tuo glande,
Netto il tuo deretano,
Fragrante il tuo ombelico:
Ti garantiscono solenne immunità.
Non c'è membro in te che sia contaminato.
L'Osiride [nome proprio] è depurato a mezzo di mille essenze
Estratte dai Campi della Pace, a nord dei Campi di Sanehem-u.
Le due Dee, Vati e Subren, l'hanno mondato a turno,
L'una all'ottava ora della notte,
L'altra all'ottava ora del giorno.
Vieni, Osiride [nome proprio].
Ecco che accedi al Tempio delle Dee della Verità.
Ecco che ricevi l'indulgenza d'ogni colpa commessa, d'ogni crimine.
1 Le prime versioni del Libro del Respiro risalgono alla XXVIma Dinastia. Il sacerdote o la sacerdotessa del Dio Sole in possesso del Libro del Respiro era destinato a divenire, dopo il decesso, un Osiride, ovverossia una delle incarnazioni oltretombali del dio, virtualmente al pari del Faraone. Col progredire della cosiddetta democratizzazione dell'oltretomba egizio, il privilegio dell'immortalità d'oltretomba venne a dipendere in gran parte dal possesso di una copia personale del Libro dei Morti, o nel caso specifico del clero al servizio del Dio Sole, di una copia personale (vergata in papiro, ovviamente) del Libro del Respiro. Si riscontra pertanto l'esistenza, sempre più frequente nelle fasi tarde dell'Impero, di copie generiche del Libro del Respiro, ove lo scriba ha omesso il nome del defunto. Lo spazio lasciato in bianco di seguito all'epiteto "Osiride" era destinato all'inserimento del nome dell'acquirente della copia stessa. Cfr. Gian Balsamo, Resurrection in the Afterlife Rituals and Spells (London: Heinemann & Secker, 2002), pp. 116-119.
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Ecco che il tuo nome diventa: Pietra della Verità.
3. Salve, Osiride [nome proprio].
La tua purezza ti ha schiuso la Porta del Paradiso.
Le Dee della Giustizia ti hanno mondato nel loro grande Tempio.
Un atto di purificazione è stato celebrato in tuo onore nel Tempio di Seb.
Le tue membra sono state consacrate nel Tempio del Cielo.
Adesso puoi contemplare Ra quando tramonta, a sera,
Avvolto nelle vesti di Atum.
Amon ti si è reso inseparabile,
Ti garantisce il fiato.
Ptah ti si è reso inseparabile,
Ti plasma le membra.
Adesso puoi scalare l'orizzonte in compagnia del Sole.
Il tuo spirito viene accolto nell'Arca del Sole.
Il tuo spirito viene divinizzato nel Tempio di Seb.
Sei giustificato per l'eternità.
4. Salve, Osiride [nome proprio].
La tua individualità è pregna della permanenza degli astri.
Il tuo corpo s'è fatto efflorescente.
Non sei respinto dal Cielo,
Ma la Terra ti accoglie a braccia aperte.
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Il tuo viso s'illumina, non arde, in prossimità del Sole.
Il tuo spirito si stabilizza, non svanisce, in prossimità di Amon.
Il tuo corpo si rinnova, non deteriora, in prossimità del Grande Dio Osiride.
Sei abilitato a respirare per l'eternità.
5. Il tuo spirito ti procaccia offerte quotidiane:
Pane, birra, carne di bue e carne d'oca, acqua fresca, intingoli.
Ritorni tra di noi per giustificare queste offerte.
La tua carne riveste le tue ossa,
come al tempo della vita terrena.
Vieni riassorbito dal tuo corpo,
Torni a masticare il tuo nutrimento.
Ma ormai dividi queste offerte con gli spiriti degli Dei.
Ti custodisce Anubi: è il tuo cane da guardia.
Non vieni respinto alle Porte del Paradiso.
Thoth, grande tra gli Dei più grandi, Signore di Sesennu,
Accorre presso di te al fine di scrivere, di suo pugno,
Il Libro del Respiro.
Ecco, sei abilitato a respirare in eterno,
A rinnovare la tua forma terrena tra i viventi.
Ecco, vieni divinizzato al pari degli spiriti degli Dei.
Il tuo cuore è il cuore di Ra.
Le tue membra sono le membra del Grande Dio Osiride.
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Da ora vivi in eterno.
6. Salve, Osiride [nome proprio].
Amon trascorre le sue giornate al tuo fianco,
Sì da restituirti la vita.
Aperu trascorre le sue giornate al tuo fianco,
Sì da rivelarti la Via.
I tuoi occhi hanno recuperato il dono della vista;
Le orecchie: il dono dell'udito;
La bocca: il dono della parola.
E come incedi speditamente sulle gambe!
Il tuo spirito, consacrato nel Cielo,
È abilitato ad intraprendere tutte le metempsicosi.
Sei tu a portare la gioia nella Casa del Sole, in Annu.
Ti risvegli ad ogni far del giorno,
Immerso nella luce di Ra.
Amon si fa latore del tuo spirito vitale,
Ti concede di respirare fin dal sarcofago.
Protetto dal Libro del Respiro di Thoth,
Rinasci ogni giorno alla vita terrena,
Respiri ogni giorno per tramite suo.
I tuoi occhi sono abilitati a contemplare il disco solare.
La verità ti è stata rivelata alla presenza del Grande Dio Osiride.
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Le sacre litanie della veridicità sono impresse suo tuo corpo.
Horus, difensore del padre Osiride,
S'erge a protettore del tuo corpo.
Adesso divinizza il tuo spirito,
Lo accomuna allo spirito di tutti gli Dei.
È lo spirito di Ra che infonde vita nel tuo,
È lo spirito di Shu che colma d'aria gli organi
Della tua respirazione.
7. Salve, Osiride [nome proprio].
Il tuo spirito respira con la forza del paese che ami.
Sei ospite nella residenza del Grande Dio Osiride, Abtu,
Laggiù ad Occidente.
Vi accedi in eccelsa purezza.
Il Dio colma di provviste i tuoi appartamenti.
8. Salve, Osiride [nome proprio].
Tutte le divinità d'Egitto vengono a te,
Ti guidano alla volta dell'eternità.
La vicinanza del Grande Dio Osiride rivitalizza il tuo spirito.
Respiri al tuo ingresso nell'aldilà.
Ra e Osiride accudiscono al tuo ingresso in segretezza solenne.
Il tuo corpo è vivo nell'accedere alla Necropoli.
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Il tuo spirito vive per sempre in Paradiso.
9. Salve, Osiride [nome proprio].
Sechet debella i tuoi nemici.
Har-aa-Hetu si prende cura di te.
Har-Shet plasma il tuo cuore.
Har-Maa protegge il tuo corpo.
Vivo, perduri in forza e benessere.
Sei elevato al trono che ti spetta in Ta-ser.
Vieni, Osiride [nome proprio].
Manifestati nella tua forma veritiera!
Rafforzato dagli amuleti della tua mummia,
Sei pronto a riprendere vita.
Sei stato preservato in perfetta salute:
Cammini, respiri, ti sposti per ogni dove, reincarnato.
Il Sole sorge sul tuo domicilio terreno.
Respiri ed esisti in Osiride,
Il Grande Dio che ti imbeve dei suoi raggi.
Amon-Ra ti dona la vita,
Ti illumina tramite il Libro del Respiro.
Segui il Grande Osiride passo a passo,
Ti mantieni a ridosso di Horus suo figlio,
Signore dell'Arca Sacra.
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Quale meraviglia! Sei diventato il più grande degli Dei.
La bellezza del tuo viso si reincarna nella tua discendenza.
Il tuo nome gode di prosperità perenne.
Vieni, vieni al grande Tempio della Necropoli,
Per le celebrazioni del Festival di Ka;
Vi incontrerai Colui che soggiorna a Occidente.
La tua fragranza eguaglia l'odore dei Santi.
Il tuo nome è illustre tra gli Eletti.
10. Salve, Osiride [nome proprio].
Il tuo spirito sarà vissuto secondo i dettami del Libro del Respiro.
Ti sarai reincarnato secondo i dettami del Libro del Respiro.
Nell'accedere al Paradiso, non vi avrai trovato traccia dei tuoi nemici.
Sei un'anima divina nella Necropoli.
Il tuo cuore ti appartiene: non è più separato da te.
I tuoi occhi ti appartengono: li schiudi ad ogni nuovo giorno.
11. Litanie recitate dagli Dei radunati al cospetto del Grande Dio Osiride,
A beneficio dell'Osiride [nome proprio]:
Fa' che gli venga spalancata la Porta del Paradiso.
Fa' che venga accolto benignamente nell'aldilà.
Fa' che il suo spirito viva in eterno.
Fa' che gli venga assegnata una magione onorifica nella Necropoli.
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Fa' che riceva adeguato compenso per i suoi meriti terreni.
Affidagli il Libro del Respiro, affinché possa respirare.
12. Siano rese offerte regali al Grande Dio Osiride,
Il Dio che soggiorna a Occidente, Signore di Abtu,
Perchè possa recare vettovaglie all'Osiride [nome proprio]:
Pane, birra, carne, vino, olio e liquori,
Squisite provvigioni d'ogni tipo.
Il tuo spirito è vivo,
Il tuo corpo è in piena efflorescenza,
Per iniziativa diretta di Ra.
Non soffri d'alcun dolore, d'alcuna ferita,
Sei compenetrato di Ra per l'eternità.
13. Oh Belve, giunte a balzi dalla città del Sole,
L'Osiride [nome proprio] è immune dal peccato.
Oh Artigli Divini, piombati fulminei da Kerau,
L'Osiride [nome proprio] non ha commesso alcun crimine.
Oh Sbranatori degli Occhi, discesi da Hermopolis,
L'Osiride [nome proprio] non ha mancato di compassione.
Oh Gorgoni, risalite dagli Inferi,
L'Osiride [nome proprio] non s'è macchiato d'intolleranza.
Oh Leoni Celesti, discesi dall'Alto,
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L'Osiride [nome proprio] non deve rispondere d'un cuore indifferente.
Oh Bestie dell'Orgoglio, accorse fin da Sekhem,
L'Osiride [nome proprio] non ha cercato rifugio nella codardia.
14. Oh voi tutte, divinità del Paradiso,
Rispondete all'appello dell'Osiride [nome proprio].
Il suo arrivo tra di voi è imminente.
Non reca traccia di colpa o di peccato.
Non si trovano testimoni d'accusa a suo carico.
Vive nella verità.
Si pasce soltanto di verità.
Il Dio è soddisfatto delle sue azioni, tutte.
Ha nutrito gli affamati.
Ha dissetato gli assetati.
Ha vestito gli ignudi.
Ha immolato offerte degne degli spiriti più puri.
Nessuna lamentela è stata sollevata in suo sfavore,
Né al cospetto d'alcun Dio.
Accoglietelo senza remore nel vostro Paradiso.
Assecondatelo quando cammina nella scia del Grande Dio Osiride,
Accodato al corteo delle divinità di Kerti.
Se spicca tra i Devoti per favori ricevuti,
Se brilla tra gli Eletti per grado di santità,
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Fate che viva!
Inoculate di vita il suo spirito!
Ovunque si presenti, il suo spirito è benvoluto.
Gli è stato assegnato il Libro del Respiro,
Affinché possa respirare in sintonia con gli spiriti del Paradiso;
Affinché possa realizzare tutte le metempsicosi che gli aggradano,
Al pari di Colui che risiede a Occidente;
Affinché possa inoltrarsi ovunque desideri,
In vita sulla Terra nei secoli dei secoli.
…………………….
Quando il Libro del Respiro viene composto appositamente per il Defunto,
Quegli ottiene di respirare in eterno con lo spirito degli Dei.
Si dia termine alla Recitazione.