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IL MONSTRUM MISOGINO IN QUEVEDO 1 Veronica Orazi Bisogna proprio rassegnarsi: in ogni epoca e latitudi- ne il pregiudizio misogino, la ‘leggenda nera’ sulla donna, sono emersi con forza, evolvendosi col tempo, ma pro- filando sempre un vero e proprio monstrum. Col mutare dei codici culturali e dell’immaginario collettivo questo monstrum è stato connotato di volta in volta secondo le categorie di pensiero dell’età che lo rinverdiva, con rinno- vata vivacità – o piuttosto veemenza e persino virulenza – . In ambito ispanico, tra Medioevo e Siglo de oro, tre testimonianze rendono conto di questo fenomeno, che raggiunge proprio con Quevedo un picco significativo: la raccolta di racconti di matrice orientale intitolata Sende- bar 2 (1253), l’Arcipreste de Talavera 3 (1438) di Alfonso Martínez de Toledo, la spessa vena misogina di Queve- do, affiorante nella sua poesia satirica (Parnaso español, Musa VI, Talía, 1648) come in altre opere (p.e. La culta latiniparla, vari Sueños – de la Muerte, del Infierno , La hora de todos, ecc.). In sostanza, nel Sendebar era il tema centrale dell’o- pera a informare una misoginia di tipo ‘concettuale’, di taglio sapienziale, e los engaños de las mugeres serviva- no a illustrare i pericoli e gli inganni del mondo, secondo una prospettiva gnomica, vivacizzata da ammiccamen- ti arguti ma sempre equilibrati. Quasi due secoli dopo, 1 Questo intervento è concepito come sviluppo e conclusione della parabola tematica iniziata col contributo V. Orazi, Misoginia, oscenità, basso corporeo: dal ‘Sendebar’ (1253) all’ ‘Arcipreste de Talavera’ (1438), in Atti del Convegno Giudizi e pregiudizi. Percezione dell’altro e stereotipi tra Europa e Mediterraneo, Firenze 9-13 Giugno 2008, Firenze, Alinea, 2010, vol. I, pp. 29-47. 2 Sendebar. El libro de los engaños de las mujeres, Estudio introductorio, edición crítica y notas por V. Orazi, Barcelona, Editorial Crítica, Colección “Clásicos y Modernos” 11, 2006. 3 Alfonso Martínez de Toledo, Arcipreste de Talavera, edizione critica a cura di M. Ciceri, Modena, Mucchi, 1974, 2 voll.

“Il monstrum misogino in Quevedo”, in Leyendas negras e leggende auree, Firenze, Alinea, 2011, pp. 253-265

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IL MONSTRUM MISOGINO IN QUEVEDO 1

Veronica Orazi

Bisogna proprio rassegnarsi: in ogni epoca e latitudi-ne il pregiudizio misogino, la ‘leggenda nera’ sulla donna, sono emersi con forza, evolvendosi col tempo, ma pro-filando sempre un vero e proprio monstrum. Col mutare dei codici culturali e dell’immaginario collettivo questo monstrum è stato connotato di volta in volta secondo le categorie di pensiero dell’età che lo rinverdiva, con rinno-vata vivacità – o piuttosto veemenza e persino virulenza – .

In ambito ispanico, tra Medioevo e Siglo de oro, tre testimonianze rendono conto di questo fenomeno, che raggiunge proprio con Quevedo un picco significativo: la raccolta di racconti di matrice orientale intitolata Sende-bar 2 (1253), l’Arcipreste de Talavera 3 (1438) di Alfonso Martínez de Toledo, la spessa vena misogina di Queve-do, affiorante nella sua poesia satirica (Parnaso español, Musa VI, Talía, 1648) come in altre opere (p.e. La culta latiniparla, vari Sueños – de la Muerte, del Infierno – , La hora de todos, ecc.).

In sostanza, nel Sendebar era il tema centrale dell’o-pera a informare una misoginia di tipo ‘concettuale’, di taglio sapienziale, e los engaños de las mugeres serviva-no a illustrare i pericoli e gli inganni del mondo, secondo una prospettiva gnomica, vivacizzata da ammiccamen-ti arguti ma sempre equilibrati. Quasi due secoli dopo,

1 Questo intervento è concepito come sviluppo e conclusione della parabola tematica iniziata col contributo V. Orazi, Misoginia, oscenità, basso corporeo: dal ‘Sendebar’ (1253) all’ ‘Arcipreste de Talavera’ (1438), in Atti del Convegno Giudizi e pregiudizi. Percezione dell’altro e stereotipi tra Europa e Mediterraneo, Firenze 9-13 Giugno 2008, Firenze, Alinea, 2010, vol. I, pp. 29-47.

2 Sendebar. El libro de los engaños de las mujeres, Estudio introductorio, edición crítica y notas por V. Orazi, Barcelona, Editorial Crítica, Colección “Clásicos y Modernos” 11, 2006.

3 Alfonso Martínez de Toledo, Arcipreste de Talavera, edizione critica a cura di M. Ciceri, Modena, Mucchi, 1974, 2 voll.

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invece, Martínez de Toledo, nell’intento di reprobación del amor mundano, offriva nell’Arcipreste de Talavera un’immagine della donna ricettacolo dei sette vizi capita-li, segnata dall’osceno e dal basso corporeo, in un exem-plum e contrario espressione non di un sentire personale ma di una temperie culturale, influenzata dalla tradizio-ne apologetica e didattico-religiosa. Dopo un intervallo di altri duecento anni, infine, sarà Quevedo a dare voce a una variazione ulteriore sul tema della scrittura anti-femminile; ora i codici culturali, l’immaginario colletti-vo, sono marcati dal senso d’illusorietà delle apparenze, di precarietà dell’esistente destinato a dissolversi, amara consapevolezza che si fa denuncia del drammatico svani-re di ogni cosa, nella prospettiva del desengaño, affollata dai fantasmi controriformisti di note ossessioni discri-minatorie (la fobia dell’altro se/perché ‘eterodosso’, sia questi moro, ebreo, donna e via dicendo), che alimentano manie come la limpieza de sangre, l’omofobia, la sessuo-fobia; e anche la misoginia finirà per connotarsi in modo ancora una volta peculiare.

In un simile contesto, il monstrum misogino segue la sua evoluzione, modellato dalle categorie di pensiero vigenti, facendosi espressione ulteriore del desengaño e della mentalità dell’epoca. Non si tratta più di imputare alla donna pecche trasmesse da auctoritates sapienziali o religiose, né di condannare l’amore mondano; adesso l’in-dividuo è calato in una dimensione che percepisce come transeunte, in cui ciò che appare si rivela inconsistente. E se su tutto ciò si innesta la vena satirica profondamente soggettiva di Quevedo, alla donna resta poco da sperare: la ripresa della spinta misogina si fa apoteosi dell’annien-tamento muliebre, raggiunto in modo del tutto personale, per distanziamento o per abbassamento di quella donna e di quel corpo percepiti come minaccia 4.

4 Sull’argomento, cfr. A. Mas, La caricature de la femme, du mariage et de l’amour dans l’oeuvre de Quevedo, Paris, Hispano-Americanas, 1957; M.G. Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, Roma, Bulzoni, 1984; R. Quérillac, Quevedo de la mysogynie à l’antifeminisme, prólogo de A. Redondo, Nantes, Université, 1987. Si veda anche, più in generale, M. Ciceri, ‘La vida del Buscón’: il corpo rifiutato, in Idem, Marginalia hispanica, Roma, Bulzoni, pp. 321-344. Si ricordino anche R. Gómez de la Serna, Quevedo y las mujeres, in “Clavileño”, 1, 3, 1950, pp. 63-68; L. Spitzer, L’arte di Quevedo nel ‘Buscón’, in Idem, cinque saggi di ispanistica, a cura di G.M. Bertini, Torino, Giappichelli, 1962, pp. 131-220; A. Martinengo, Quevedo e il simbolo alchimistico, Padova, Liviana, 1967; M. Read, Language and the Body in Francisco de Quevedo, in “Modern Language Notes”, 99, 1984, pp. 235-255.

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Ma secondo quali strategie compositive, quali moda-lità espressive, l’autore dà voce alla ‘sua’ vena misogina, veicolata dalla satira, giocata su un meccanismo in cui il concetto si rinfrange in mille sfumature di senso? La rilet-tura di alcuni sonetti consentirà di far emergere i tratti e i temi chiave della misoginia quevediana.

[Mujer puntiaguda con enaguas] 5

Si eres campana, ¿dónde está el badajo? / Si pirámide andante, vete a Egito; / Si peonza al revés, trae sobres-crito; / Si pan de azúcar en Motril te encajo. // Si capitel, ¿qué haces acá abajo? / Si de disciplinante mal contrito / Eres el cucurucho y el delito, / Llámente los cipreses arrendajo. // Si eres punzón, ¿por qué el estuche dejas? / Si cubilete, saca el testimonio; / Si eres coroza, encájate en las viejas. // Si büida visión de San Antonio, / Llámate Doña Embudo con guedejas; / Si mujer, da esas faldas al demonio.

Il sonetto realizza l’annullamento della donna attra-verso il distanziamento, riducendo la forma a profilo sti-lizzato, partendo dalla percezione sensoriale (la vista) per produrre una serie di associazioni. La satira prende spunto dall’assurdità dell’indumento, che deforma l’aspetto di chi lo indossa rendendolo grottesco, tanto da ispirare una serie di ipotesi descrittivo-interpretative per riconoscere l’identità del soggetto 6. Di fatto, la donna non compare in questi versi, né compare il suo corpo: entrambi vengono ‘schermati’, spostando l’attenzione sull’abbigliamento, o meglio, su un dettaglio dell’abbigliamento (il guardinfan-te). In questo modo, si giunge al grado zero della fisicità, al disinnesco del corpo, rarefatto fino all’azzeramento.

Questo meccanismo, concretizzato nell’enumerazione di oggetti, attivata da associazioni ispirate dal richiamo geometrico, segue un procedimento di variatio sostenuto dall’anafora 7, combinato all’amplificatio tramite acco-

5 Cfr. l’analisi del sonetto in Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, cit., pp. 188-191; ma vid. anche A.A. Parker, ‘La buscona piramidal’: Aspects of Quevedo’s Conceptism, in Francisco de Quevedo. El escritor y la crítica, G. Sobejano (ed.), Madrid, Taurus, 1978, pp. 97-105. La magrezza attira anche altrove le critiche del poeta: cfr. Mas, La caricature de la femme, cit., pp. 20-22, 56-57.

6 Cfr. E. Veres D’Ocon, Notas sobre la enumeración descriptiva en Quevedo, in “Saitabi”, 31-32, 1949, pp. 27-50.

7 Sulla frequenza e la rilevanza di questo tipo di struttura retorica, cfr. E. Veres D’Ocon, La anáfora en la lírica de Quevedo, in Idem, Estilo y vida entre dos siglos, Valencia, Bello, 1976, pp. 135-155.

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stamenti iperbolici che amplificano il concetto. L’intenso dinamismo che ne deriva produce un crescendo concet-tuale, reso sferzante dall’apostrofe veemente a un inter-locutore muto (un ‘tu’ imprecisato, sintesi di un’intera categoria), con una raffica di interrogativi, sempre più perentori per la durezza verbale e per l’effetto di intensi-ficazione progressiva.

La struttura retorico-stilistica e quella sintettica con-vergono nell’evocare lo stesso concetto: al climax del parossismo comparativo, infatti, nel tentativo di defini-zione dell’immagine contemplata con affettata perplessi-tà, si giunge col concorso della dimensione retorica (una sequenza anaforica) e di quella sintattica (condizionali incalzanti): l’andamento dei versi è iterativo, paralleli-stico, a sottolineare con insistenza il nucleo concettuale, riaffermando ogni volta con maggiore decisione quanto espresso sin dal primo verso. La sintassi, poi, si regge sul periodo ipotetico: nella protasi è condensato il senso di incertezza e di conseguente aspettativa sullo svelamen-to dell’incognita, confermato poi dall’apodosi (che solo al v. 4 coincide con un’espressione assertiva) in forma interrogativa o risolto bruscamente con un imperativo esortativo.

Si assiste, dunque, a un processo di reificazione, per cui gli elementi evocati (campana, pirámide, peonza, pan de azúcar, capitel, cucurucho, punzón, cubilete, coroza, embudo) enfatizzano la visione materiale del corpo, non come oggetto potenzialmente strumentalizzabile e fruibi-le, ma al contrario per stilizzarlo e quindi disinnescarlo, annullandone la minaccia. L’indumento diviene emblema strategicamente distanziatore, la cui sagoma conica sugge-risce una serie di possibili interpretazioni deformanti. Solo in un caso si rileva un esempio di assimilazione zoomorfa (nell’accostamento all’arrendajo del v. 8) oppure il ricor-so alla visione distorta (nel raffronto con la büida visión de San Antonio al v. 12). Nel sonetto la mujer (soggetto esplicitato solo nell’ultimo verso, ancora sbavato dal dub-bio: “si eres mujer...”) diviene faldas (soggetto traslato), con una sineddoche: il dettaglio del vestiario rappresenta la donna, che si dissolve assorbita nell’indumento, la cui sagoma è assimilata ad alcuni oggetti; e se la protagonista viene nominata solo alla fine, del suo corpo neanche si par-la e meno ancora lo si descrive.

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[Epitafio de una dueña, que idea también puede ser de todas]

Fue más larga que paga de tramposo, / Más gorda que mentira de indiano, / Más sucia que pastel en el verano, / Más necia y presumida que un dichoso; // Más ami-ga de pícaros que el coso, / Más engañosa que el primer manzano, / Más que un coche alcahueta, por lo anciano, / Más pronosticadora que un potroso. // Más charló que una azuda y una aceña, / Y tuvo más enredos que una ara-ña; / Más humos que seis mil hornos de leña. // De mula de alquiler sirvió en España, / Que fue buen noviciado para Dueña, / Y muerta pide, y enterrada engaña.

Ancora una volta si assiste all’annullamento della don-na per distanziamento (qui anche cronologico) e per con-densazione del concetto, che diventa emblema. Neppure in questo sonetto la donna compare, né compare il suo corpo e quel Fue che apre l’epitaffio di una figura sintesi di un’intera categoria ci cala in una dimensione preterita, già in atto nell’esordio, resa irrevocabile dalla morte. Il soggetto incarna la quintessenza della negatività femmi-nile, profilata ricorrendo a topici, clichés e luoghi comu-ni (dell’epoca ma anche atemporali, in un caso persino di matrice biblica, al v. 6), che ne fanno un prototipo di gene-re, condensato simbolico e rappresentativo.

Al solito, la struttura retorico-stilistica e quella sintatti-ca concorrono nella formulazione del messaggio: l’anda-mento dei versi è anaforico, iterativo, parallelistico, quasi un martellamento; la sintassi si sviluppa attraverso una se-rie di raffronti incalzanti, che esprimono asserzioni nette. Anche in questo caso, la costruzione dei versi produce un ritmo incalzante, dal forte dinamismo, che sfocia nel corto circuito negativo per affastellamento.

Così, ci si trova di nuovo di fronte al meccanismo di reificazione, articolato stavolta su tre livelli: oggetti, con-cetti astratti, tipi umani: quindi il raffronto con la paga, il pastel, il coso, il manzano, il coche, la azuda e la aceña, l’horno de leña; oppure con la mentira 8; o ancora con il dichoso o il potroso. Si rilevano, poi, due esempi di assi-milazione zoomorfa: il paragone con l’araña e con la mula de alquiler, immagine – quest’ultima – significativa; se-

8 Alla protagonista viene imputato di essere più gorda della menzogna di un indiano: la corpulenza di solito non attira le critiche del poeta, che vi allude di rado; cfr. Mas, La caricature de la femme, cit., pp. 18-20.

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condo Quevedo, infatti, nella Spagna del tempo, la dueña è paragonabile e una mula a nolo – per molti, mezzo di trasporto indispensabile, il cui servizio era notoriamente pessimo – e ciò ha costituito un ottimo noviziato per di-ventare appunto dueña, categoria identificata con una pro-fessione dall’autore (se la bestia serve – male – lungo le vie di comunicazione, la dueña fa altrettanto a palazzo) 9. Una nota collegata al basso corporeo affiora, poi, nell’ac-cusa di essere gorda e sucia (vv. 2 e 3, rispettivamente), mentre un efficace gioco concettista (v. 7) delinea il profi-lo della mezzana 10. La seconda terzina offre la sintesi del messaggio con lo svelamento del soggetto e il verso finale rovescia il topico barocco dell’amore che vince la morte: qui sono l’avidità e la falsità, l’indole ingannevole della donna a perdurare oltre il trapasso, mantenendo costantes más allá de la muerte le prerogative di ‘genere’.

In questo caso, la condanna misogina si spinge oltre la materialità, per investire la sfera ideale, sfruttando luoghi comuni del tempo o piuttosto acronici; la spinta misogi-na si concretizza, dunque, sia attraverso la reificazione e l’assimilazione zoomorfa, sia nella proiezione concettuale stereotipata.

[Desnuda a la mujer de la mayor parte ajena que la com-pone]

Si no duerme su cara con Filena, / Ni con sus dientes come, y su vestido / Las tres partes le hurta a su marido, / Y la cuarta el afeite le cercena; // Si entera con él come y con él cena, / Mas debajo del lecho mal cumplido / Todo su bulto esconde, reducido / A chapinzanco y moño por almena, // ¿Por qué te espantas, Fabio, que abrazado / A su mujer, la busque y la pregone, / Si, desnuda, se halla descasado? // Si cuentas por mujer lo que compone / A la mujer, no acuestes a tu lado / La mujer, sino el fardo que se pone.

Qui l’annullamento della figura femminile avviene per decostruzione: nei versi la donna c’è e all’apparenza c’è

9 La satira delle dueñas compare anche nei Sueños de la muerte e del infierno, in cui l’autore le definisce ranas, sabandijas perniabiertas – definizioni che denunciano la lussuria femminile – , lampreas sin diente ni muela.

10 L’accostamento tra la alcahueta e il coche rivela, poi, un dato realistico: la carrozza, che permetteva di restare al riparo da sguardi indiscreti, era un luogo ideale per gli incontri clandestini e per l’attività delle prostitute, come ribadirà quasi un secolo e mezzo dopo don Nicolás Fernández de Moratín nell’Arte de las putas.

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anche il suo corpo, che però con lo smantellamento, pezzo dopo pezzo, si rivela inconsistente. Il sonetto, che prende spunto dai primi cinque versi di un epigramma di marzia-le 11, inverte il processo di reificazione, ricorrendo alla de-strutturazione: il poeta procede dall’oggetto (indumento, monile, belletto, acconciatura) verso l’essenza. Il tentativo fallisce e svela che la donna (-corpo) è un niente, costruito per accumulo di elementi posticci.

Ancora una volta la struttura retorico-stilistica e quella sintattica procedono in parallelo, anche se le subordinate condizionali (il cui impiego amplifica l’incertezza e il sen-so di straniamento) sono di più ampio respiro, rispetto ai due casi precedenti: la prima quartina contiene una prima protasi, in cui compaiono alcuni tratti della contraffazione (cara, dientes, vestido, afeite 12). La seconda quartina offre una seconda protasi, che insiste nell’indicare altri aspetti illusori: se la protagonista mangia ‘intera’ col marito, cioè completa degli accessori, una volta coricatasi (nel talamo mal cumplido, dove si mostra ritrosa e si sottrae ai doveri coniugali), dopo aver dismesso la bardatura che la cela, mostrerà un corpo ridotto a bulto (con uno strategico e ras-sicurante distanziamento che ne disinnesca la pericolosi-tà), chapinzanco (privo dei ‘trampoli’, mostrando così la sua vera statura) e con moño ‘difensivo’ (disfatta l’accon-ciatia verosimilmente elaborata, la crocchia – simile a una torre merlata – consentirà un’ulteriore reificazione della figura femminile, paragonata a un edificio fortificato).

La prima terzina contiene l’apodosi – un’interrogati-va retorica – , che rende ridicolo lo stupore della scoperta dell’inconsistenza della donna, pura apparenza costruita sommando mistificazioni, al punto che quando la moglie appare desnuda il marito si ritrova descasado. Ciò consen-te l’uso di quel desnuda, altrimenti insostenibile, tanto sa-rebbe inquietante l’incontro con la nudità femminile, con la corporeità sensuale ed erotizzante. In sostanza, si arriva comunque all’azzeramento della fisicità e a disinnescare l’insidia ‘corpo’, con l’eliminazione progressiva delle so-fisticazioni. Quevedo adesso va oltre la reificazione e l’i-

11 Marziale, epigramma IX, 37, vv. 1-5; cfr. M.A Candelas Colodrón, El epigrama de Marcial en la poesía de Quevedo, in “La Perinola”, 3, 1999, pp. 59-96 (specie alle pp. 77-79).

12 Cfr. almeno M.G. Profeti, ‘La botica delas mujeres’: trucco e trucchi delle donne, in “Quaderni di lingue e letterature”, 9, 1984, pp.113-131.

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bridazione zoomorfa, per attuare uno svelamento attraver-so lo smarscheramento: la mujer è SOLO il fardo que se pone. Tolti uno a uno gli artifici che la compongono, resta il nulla: la donna è pura apparenza, inconsistenza assolu-ta priva di sostanza e la sopresa (retorica, marcata dalla satira) suscitata dalla scoperta conduce inevitabilmente al desengaño (a lo misógino).

[Vieja verde, compuesta y afeitada] 13

Vida fiambre, cuerpo de anascote, / ¿Cuándo dirás al ape-tito “¡Tate!”, / Si cuando el “Parce mihi” te da mate, / Empiezas a mirar por el virote? // Tú juntas en tu frente y tu cogote / Moño y mortaja sobre seso orate; / Pues siendo ya viviente disparate, / Untas la calavera en al-modrote. // Vieja roñosa, pues te llevan, vete: / No vistas el gusano de confite, / Pues eres ya varilla de cohete. // Y pues hueles a cisco y alcrebite, / y la podre te sirve de pebete, / Juega con tu pellejo al escondite.

Il sonetto attua l’annullamento della donna con il ri-corso all’abbassamento per contrasto, connotato nel senso dell’osceno. Anche in questo caso, la donna compare nei versi e compare il suo corpo, ma entrambi vengono trattati in modo da suscitare repulsione: la vecchia lubrica incar-na una contraddizione in termini, che annulla l’insidiosità dalla figura femminile e dalla sua fisicità nell’opposizione tra pulsione sessuale incontenibile e decadimento, e sfrutta l’osceno per provocare disgusto. Così, il corpo non rappre-senta più il rischio di un’attrazione allettante, ma garanti-sce la certezza del rifiuto.

La struttura retorico-stilistica e quella sintattica sosten-gono la modulazione del messaggio: la prima quartina condensa il contrasto e si apre con un’apostrofe violen-ta, cui segue un’interrogativa retorica – una denuncia – , espressione del consueto meccanismo di reificazione: la vita della vecchia è definita fiambre (spia dell’ossessione alimentare 14) e paragonata a una pietanza fredda; il suo

13 Cfr. l’analisi del sonetto in Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, cit., pp. 45-48; e in A.M. Snell, Hacia el verbo: signos de transignificación en la poesía de Quevedo, London, Tamesis Book, 1981, pp. 67-70; ma vid. anche E. Alarcos Llorach, Expresividad fónica en la lírica de Quevedo, in Homenaje a Quevedo. Actas de la II Academia Literaria Renacentista, V. García de la Concha (ed.), Salamanca, Universidad, 1982, pp. 245-260.

14 Cfr. A. Rothe, Comer y beber en la obra de Quevedo, in AA.VV., Quevedo in Perspective, Delware, Newark, 1982, pp. 181-225.

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corpo è di anascote (tela modesta, ma anche tela dipin-ta su ambo i lati, a richiamare l’assurdo imbellettarsi: per cui anascote nel primo significato è in accordo con la vita fiambre, mentre nella seconda accezione produce una pri-ma contraddizione). Quest’immagine bisemica è subito opposta all’appetito sessuale della vecchia, che non riesce a controllarsi neppure con l’avvicinarsi della morte: per-sino in questo frangente si guarda intorno, alla ricerca del virote, metafora per il membro maschile; l’osceno irrompe perché la lubricità della vecchia lo esige.

La seconda quartina insiste sul contrasto insanabile (de-crepitezza / lubricità), di cui viene accusato il ‘tu’ aggre-dito con veemenza. L’immagine della crocchia è sovrap-posta a quella del sudario: entrambi coincidino sulla testa dissennata, perché preda di appetiti insaziabili, nonostante l’età avanzata e il corpo in disfacimento, concetto enfatiz-zato dalla definizione affibbiata alla protagonista (viviente disparate del v. 7, che ripropone la visione distorta). E, tuttavia, la vieja continua a impiastrarsi (con i belletti, pa-ragonati all’almodrote – l’intingolo – , espressione bisemi-ca, che rimanda all’ossessione per il cibo) la calavera, non il viso (con richiamo al campo semantico della morte 15), rievocando tra l’altro le unciones de las brujas.

Le due terzine condensano una serie di imperativi esortativi, a enfatizzare la condanna: nella prima, l’apo-strofe violenta Vieja roñosa ribadisce il degrado fisico; poi, viene sviluppato il contrasto tra il rivestimento po-sticcio e ciò che ricopre, in un crescendo ripugnante, ba-sato sull’assimilazione zoomorfa: il raffronto col gusano confettato, suscita disgusto e rimanda alla decomposizio-ne, processo quasi già atto nella vecchia 16;; ma la glassa evoca anche i belletti, in un’immagine dai riverberi po-lisemici. Si ripresenta, quindi, il consueto meccanismo di reificazione: il corpo rinsecchito della vecchia viene

15 Sull’ossessione della morte (spesso collegata a quella del tempo), vid. almeno I. Zavala, La muerte en la poesía de Quevedo, in Idem, La angustia y la búsqueda del hombre en la literatura, México, Universidad veracruzana, 1965, pp. 41-60; J.A. Roig del Campo, La muerte en la poesía de Quevedo, in “Humanidades”, 19, 1967, pp. 79-101; J. Romera Castillo, “El ‘Campo conceptual’ de la problemática existencial y algunos campos léxicos textuales tiempo-muerte en la poesía de Quevedo”, in AA.VV., Estudios sobre literatura y arte, Granada, Universidad, 1979, pp. 113-136; J.M. Balcells, “Sobre la muerte”, in Idem, Quevedo en “La cuna y la sepultura”, Madrid, SGEL, 1981, pp. 103-144.

16 Nei Sueños de la muerte e del infierno Quevedo rivolge la sua satira contro le dueñas, definendole anche abreviaciones del otro mundo e túmulos vivos.

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accostato al bastoncino del cohete, a partire dalla perce-zione visiva. Nella seconda terzina, tra i riferimenti sen-soriali connessi al trapasso, trova spazio la dimensione olfattiva: la vieja, prossima alla morte, puzza già di cisco e alcrebite (come il bastoncino stecchino degli zolfanel-li); la podre le serve da pebete, contrapposizione irriduci-bile di opposti: il ‘profumo’ della vecchia è il tanfo della putrefazione 17. Nel verso finale, climax dell’accumula-zione parossistica modulata sull’osceno e sugli aspetti di-sgustosi, la vecchia viene esortata a giocare a nascondino col pellejo, confermandone la natura di morta-viva: di lei resta solo la pelle incartapecorita, ridotta a involucro svuotato.

L’attacco misogino si profila, quindi, attraverso l’ab-bassamento per contrasto, giocato sull’osceno, ricorren-do alla reificazione e in parte all’assimilazione zoomor-fa, stratagemma per garantire il disinnesco dell’ordigno donna-corpo.

[Pinta el ‘Aquí fue Troya’ de la hermosura] 18

Rostro de blanca nieve, fondo en grajo, / la tizne presu-mida de ser ceja, / la piel que está en un tris de ser pe-lleja, / la plata que se trueca ya en cascajo; // Habla casi fregona de estropajo, / El aliño imitado a la corneja; / Tez que con pringue y arrebol semeja / Clavel almidonado de gargajo. // En las guedejas vuelto el oro orujo, / Y ya me-recedor de cola el ojo, / Sin esperar más beso que el del brujo. // Dos colmillos comidos de gorgojo, / Una boca con cámaras y pujo, / A la que rosa fue, vuelven abrojo.

L’espressione contenuta nell’epigrafe allude – come è noto – al tema delle rovine, delle glorie passate ormai de-cadute, collegato al topico del tempo che atterra ogni cosa, qui applicati alla bellezza, nell’ambito della satira misogi-na espressa nel contrapporsi di ‘apparenza (posticcia) nel passato / realtà (impietosa) nel presente’.

Il sonetto ripropone l’annullamento della donna attra-verso l’abbassamento per contrasto, ancora più marcato rispetto al caso precedente: qui, infatti, il procedimento

17 Sulle sensazioni olfattive negative, nauseabonde e sulla loro descrizione in Quevedo, si veda almeno D. Alonso, El desgarrón afectivo en la poesía de Quevedo, in Idem, Poesía española, Madrid, Gredos, 1976, pp. 495-580.

18 Cfr. l’analisi del sonetto in Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, cit., pp. 52-54.

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sfrutta l’osceno, ma anche il basso corporeo e gli aspetti scatologici. Nei versi la donna c’è e c’è il suo corpo, nel raffronto attivato dall’elemento cronologico (spia dell’os-sessione del tempo 19), con conseguente rovesciamento del topico della bellezza destinata a sfiorire.

La struttura retorico-stilistica e quella sintattica sono organizzate per costrutti bipartiti, per ottenere un effetto di enfasi: nella prima parte sono registrati gli aspetti positivi (apparenza passata) e nella seconda si concentrano quelli negativi (svelamento presente).

Nella prima quartina si ricorre al cromatismo e all’as-sociazione zoomorfa per produrre una cascata di paragoni negativi, costruiti attorno al tema dell’aspetto contraffatto e dei danni del tempo, della metamorfosi o meglio del de-cadimento: il biancore dell’incarnato (blanca nieve) è otte-nuto grazie al belletto su uno sfondo en grajo (cioè scuro), il carboncino imita le sopracciglia, la pelle è sul punto di essere pelleja (per l’età e lo stato, ma il termine suggerisce anche un gioco di parole, nel rimando all’appellativo offen-sivo per designare le prostitute); quindi la plata si trasforma in cascajo 20, riverberando il concetto di valore svalutato. La seconda quartina precipita nel basso corporeo: la pro-tagonista parla come una fregona de estropajo (con valore doppiamente evocatore: come una sguattera e – nell’allu-sione all’espressione lengua de estropajo – farfugliando), nella cura della persona imita la cornacchia, la pelle a for-za di pringue – impiastri, ma anche sporcizia grasienta – e arrebol (belletto rosso) sembra un garofano incartapecorito (immagine floreale subito svilita) – inamidato con gargajo – dalle sfumature biancastre o giallastre, in un’immagine che segna l’inizio del crescendo ripugnante.

La prima terzina insiste sul cromatismo, nella trasforma-zione dell’oro dei capelli in orujo 21. Il decadimento fisico

19 Cfr. M. Durán, El sentido del tiempo en Quevedo, in “Cuadernos Americanos”, 13, 1954, pp. 273-288; C. Marcilly, L’angoisse du temps et de la mort chez Quevedo, in Francisco de Quevedo. El escritor y la crítica, G. Sobejano (ed.), Madrid, Taurus, 1978, pp. 71-85.

20 Riferimento alla moneta d’argento e poi a quella di rame – prima lega di rame e argento in proporzioni variabili, poi dall’epoca di Filippo V solo di rame – .

21 La plata e l’oro rimandano all’ossessione crematistica, al concetto di valore svalutato, di preziosità svilita: si ricordi che, secondo l’autore, Dafne non si ferma nella sua fuga da Apollo perché non sente risuonare la borsa (così Profeti, Quevedo: la scrittura e il corpo, cit., pp. 40-41) – riferimento all’avidità femminile. Cfr. E. Alarcos García, El dinero en las obras de Quevedo, discorso di apertura dell’a.a. 1942-43, raccolto in Homenaje al profesor Alarcos García.

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inarrestabile è descritto quindi con immagini ancipiti, che lasciano affiorare l’ossesisone anale: l’ojo merita adesso solo la cola (occhio-cispa: degrado dovuto all’età; e ano-coda: la protagonista è ridotta a una vecchia strega) e solo un brujo potrà baciarlo (richiamo all’osculatio ani, caratte-ristica delle pratiche stregonesche). Nella seconda terzina, i due canini rosi dal gorgojo e la boca con cámaras e pujo ispessiscono l’assimilazione bocca-ano, esasperando il sen-so di repulsione. Così, quella che fu rosa è ora cardo.

Il sonetto attesta l’inabissamento nel basso corporeo e negli aspetti scatologici, non per finalità didattico-reli-giose (la reprobatio amoris di Martínez de Toledo), ma per denunciare in modo impietoso il degrado cui tutto va incontro, specie l’avvenenza e l’apparenza inconsistente. Ritornano la reificazione, l’assimilazione zoomorfa ma compare anche l’impiego costante del cromatismo a fini amplificatori, nello sviluppo in chiave misogina dei temi trattati. L’elemento cromatico, infatti, gioca un ruolo ine-dito e importante, sottolineando la centralità della perce-zione sensoriale (vista, olfatto, ecc.).

Questi versi segnano forse il climax dell’annullamen-to della donna-corpo, tramite l’abbassamento per contra-sto, potenziato al massimo dal ricorso all’osceno, al basso corporeo e agli elementi scatologici, che garantiscono la disattivazione della figura femminile e della sua fisicità.

Ecco dunque delineati i meccanismi quevediani dell’attacco misogino: da un lato la donna e il suo corpo, minaccia da disinnescare, vengono proiettati lontano, an-nullandone il potenziale perturbante con il distanziamento, che segna il grado zero della fisicità; oppure con l’acco-stamento a una serie di topici negativi, che ne fanno un emblema esecrabile: in entrambi i casi, a partire dal pro-cesso di reificazione e di ibridazione zoomorfa. Quando il corpo invece c’è, o sembra esserci, viene neutralizzato con l’inversione del processo di reificazione, con la decostru-zione, sottraendo pezzo dopo pezzo gli elementi posticci che compongono la donna, la cui essenza si riduce a un nulla; e quando inevitabilmente questo corpo si impone

Vol. I: Sección antológica de sus escritos, Valladolid, Universidad, 1965, pp. 375-442. Vid. anche E. Geisler, Geld bei Quevedo, Frankfurt a.M.-Bern, P. Lang, 1981; E. Geisler, La identidad imposible. En torno al ‘Buscón’, in “Nuevo Hispanismo”, 1, 1982, pp. 39-54, 213-214.

Veronica Orazi

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nella concretezza viene ritratto nel decadimento, nel cor-rompimento, sempre in contrasto stridente con altro: che si tratti della pulsione sessuale incontenibile della vieja verde o dell’evocazione di un passato di avvenenza che cozza contro lo sfacelo dell’età, esaltato dall’osceno, dal basso corporeo e dagli aspetti scatologici.

Così, se la misoginia strumentale del Sendebar ema-nava dai concetti di centralità del sapere e di translatio studiorum e la misoginia deformante dell’Arcipreste de Talavera irradiava dal didascalismo religioso e dalla re-probatio amoris (in entrambi i casi, ancora tipicamente medievali), adesso la satira misogina di Quevedo è percor-sa dalle ossessioni personali del poeta – assieme a quelle del suo tempo – e sostenuta da puntate di acredine, riflesso di una prospettiva personale – oltre che epocale – , che investe tutto, anche il monstrum misogino.

Il monstrum misogino in Quevedo