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Riccardo Martinelli Il suono: scienza e tecnica tra Settecento e Ottocento 1. L’età dell’Encyclopédie Il XV volume dell’Enyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, apparso nel 1765, offre al lettore due voci relative al suono: la prima, intitolata « Son (Phys.)», si deve a Jean-Baptiste LeRonde d’Alembert; la seconda, dal titolo « Son, en Musique», è invece opera di Jean-Jacques Rousseau. L’ Encyclopédie codificava in tal modo una chiara ripartizione di ambiti che tuttavia non deve trarre in inganno: una disgiunzione radicale tra fisica e teoria musicale è complessivamente assente dalle ricerche dell’epoca. Lo stesso articolo di Rousseau, come si vedrà, ne offre qualche riprova, e d’Alembert notoriamente non disdegnava dal canto suo la teoria e l’estetica musicale (cfr. ad es. d’Alembert 1762). Le due voci sul suono, ricche di rimandi a ulteriori argomenti di fisica e di musica trattati nell’opera, rappresentano in effetti il punto di convergenza, più che di disgiunzione, delle serie tematiche corrispondenti. Più in generale, la «scienza» e la «tecnica» del suono nel Settecento e nell’Ottocento non sono separabili in modo netto dall’ambito di quei problemi musicali che esse di volta in volta chiamano in causa. Nessuno nega, sia chiaro, che il complesso degli studi scientifici sul suono si sviluppi secondo matrici epistemiche autonome, che lo storico della scienza ha il compito di indagare. Ma in una prospettiva più generale, è facile mostrare come molti degli scienziati protagonisti del dibattito ebbero a cuore, tenendolo presente sullo sfondo o in veste di banco di prova, anche la spiegazione del problema dei fondamenti della musica. Non senza ragione, allorché se ne prescinde per evidenziare il solo aspetto dei progressi scientifici ci si colloca consapevolmente nell’alveo della storia della meccanica, (cfr. ad es. Truesdell 1960; Szabó 1977) anziché mettere in primo piano il riferimento all’acustica o alla scienza dal suono. In quanto segue eviteremo però di seguire questa strada, e non solo per aggirare il tecnicismo matematico che inevitabilmente ne conseguirebbe. Si mira invece ad evidenziare i molti aspetti del dibattito scientifico che sono più direttamente passibili di un’interpretazione teorico-muscale. Dall’intersezione dei due ambiti, emblematicamente rappresentata nelle due voci dell’Encyclopédie, emergono infatti di frequente novità di estremo interesse. Nella voce sul suono fisico, d’Alembert spiegava che il movimento che ne è all’origine «esiste anzitutto nelle parti sottili e insensibili dei corpi sonori ed è suscitato dal loro urto e dalla loro mutua collisione, cosa che produce quel tremore così facile a riscontrarsi nei corpi che rendono un suono chiaro come le campane o le corde degli strumenti musicali» (d’Alembert 1765, p. 343). L’autore, il quale aveva offerto già nel 1747 un importante e discusso contributo alla teoria matematica della corda vibrante (cfr. Szabó 1977, pp. 328 ss.), insiste sulla circostanza che il movimento origina dalle parti minute: se la causa del suono, in un certo senso, è la percussione o lo sfregamento del corpo sonoro, resta il fatto che «nell’uno come nell’altro caso il movimento che segue a questa azione reciproca, ed è la causa immediata del movimento sonoro, è un movimento quasi insensibile che si rende avvertibile nelle parti sottili e insensibili del corpo sotto forma di un tremore (tremblement) e di ondulazioni» (d’Alembert 1765, p. 343). Questa ipotesi sul suono riscuoteva da tempo notevole successo, soprattutto in Francia. Per limitarci a qualche esempio, nel Système général des intervalles des sons di Joseph Sauveur si legge che «il suono è originato dalle vibrazioni delle parti del corpo sonoro» (Sauveur 1701, p. 300); Louis Carré, segretario di Malebranche, scrive che «la causa immediata del suono viene dai tremori ( tremblements) di ciascuna delle piccole parti di cui le corde si compongono», mentre le oscillazioni complessive «non servono che ad aumentare la forza e la durata del suono» (Carré 1709, p. 48); Philippe de La Hire ribadisce: «il suono di un corpo percosso non dipende affatto dalla sua vibrazione […], ma solamente da un fremito (frémissement) delle sue parti» (La Hire 1716, 262); nel popolare Tentamen novae theoriae musicae di Leonhard Euler, del 1739 (ma il grande scienziato svizzero in

Il suono: scienza e tecnica tra Settecento e Ottocento

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Riccardo Martinelli

Il suono: scienza e tecnica tra Settecento e Ottocento

1. L’età dell’Encyclopédie

Il XV volume dell’Enyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, apparso nel 1765, offre al lettore due voci relative al suono: la prima, intitolata «Son (Phys.)», si deve a Jean-Baptiste LeRonde d’Alembert; la seconda, dal titolo «Son, en Musique», è invece opera di Jean-Jacques Rousseau. L’Encyclopédie codificava in tal modo una chiara ripartizione di ambiti che tuttavia non deve trarre in inganno: una disgiunzione radicale tra fisica e teoria musicale è complessivamente assente dalle ricerche dell’epoca. Lo stesso articolo di Rousseau, come si vedrà, ne offre qualche riprova, e d’Alembert notoriamente non disdegnava dal canto suo la teoria e l’estetica musicale (cfr. ad es. d’Alembert 1762). Le due voci sul suono, ricche di rimandi a ulteriori argomenti di fisica e di musica trattati nell’opera, rappresentano in effetti il punto di convergenza, più che di disgiunzione, delle serie tematiche corrispondenti. Più in generale, la «scienza» e la «tecnica» del suono nel Settecento e nell’Ottocento non sono separabili in modo netto dall’ambito di quei problemi musicali che esse di volta in volta chiamano in causa. Nessuno nega, sia chiaro, che il complesso degli studi scientifici sul suono si sviluppi secondo matrici epistemiche autonome, che lo storico della scienza ha il compito di indagare. Ma in una prospettiva più generale, è facile mostrare come molti degli scienziati protagonisti del dibattito ebbero a cuore, tenendolo presente sullo sfondo o in veste di banco di prova, anche la spiegazione del problema dei fondamenti della musica. Non senza ragione, allorché se ne prescinde per evidenziare il solo aspetto dei progressi scientifici ci si colloca consapevolmente nell’alveo della storia della meccanica, (cfr. ad es. Truesdell 1960; Szabó 1977) anziché mettere in primo piano il riferimento all’acustica o alla scienza dal suono. In quanto segue eviteremo però di seguire questa strada, e non solo per aggirare il tecnicismo matematico che inevitabilmente ne conseguirebbe. Si mira invece ad evidenziare i molti aspetti del dibattito scientifico che sono più direttamente passibili di un’interpretazione teorico-muscale. Dall’intersezione dei due ambiti, emblematicamente rappresentata nelle due voci dell’Encyclopédie, emergono infatti di frequente novità di estremo interesse.

Nella voce sul suono fisico, d’Alembert spiegava che il movimento che ne è all’origine «esiste anzitutto nelle parti sottili e insensibili dei corpi sonori ed è suscitato dal loro urto e dalla loro mutua collisione, cosa che produce quel tremore così facile a riscontrarsi nei corpi che rendono un suono chiaro come le campane o le corde degli strumenti musicali» (d’Alembert 1765, p. 343). L’autore, il quale aveva offerto già nel 1747 un importante e discusso contributo alla teoria matematica della corda vibrante (cfr. Szabó 1977, pp. 328 ss.), insiste sulla circostanza che il movimento origina dalle parti minute: se la causa del suono, in un certo senso, è la percussione o lo sfregamento del corpo sonoro, resta il fatto che «nell’uno come nell’altro caso il movimento che segue a questa azione reciproca, ed è la causa immediata del movimento sonoro, è un movimento quasi insensibile che si rende avvertibile nelle parti sottili e insensibili del corpo sotto forma di un tremore (tremblement) e di ondulazioni» (d’Alembert 1765, p. 343). Questa ipotesi sul suono riscuoteva da tempo notevole successo, soprattutto in Francia. Per limitarci a qualche esempio, nel Système général des intervalles des sons di Joseph Sauveur si legge che «il suono è originato dalle vibrazioni delle parti del corpo sonoro» (Sauveur 1701, p. 300); Louis Carré, segretario di Malebranche, scrive che «la causa immediata del suono viene dai tremori (tremblements) di ciascuna delle piccole parti di cui le corde si compongono», mentre le oscillazioni complessive «non servono che ad aumentare la forza e la durata del suono» (Carré 1709, p. 48); Philippe de La Hire ribadisce: «il suono di un corpo percosso non dipende affatto dalla sua vibrazione […], ma solamente da un fremito (frémissement) delle sue parti» (La Hire 1716, 262); nel popolare Tentamen novae theoriae musicae di Leonhard Euler, del 1739 (ma il grande scienziato svizzero in

verità ha una posizione più complessa, come mostrano Truesdell [1960] e Fellmann [1983, pp. 73 ss.]), si legge che «la causa del suono va ricercata nel solo moto vibratorio (motus tremulus)», nell’ipotesi che «le singole particelle dell’aria» debbano essere soggette a «un moto vibratorio simile a quello del corpo stesso» (Euler 1739, pp. 207 s.); secondo Lagrange il suono consiste «di certi tremori (ébranlemens) impressi ai corpi sonori e comunicati al mezzo elastico che li circonda»: ne segue che «solo tramite la conoscenza dei movimenti di questo fluido si può sperare di scoprirne la vera natura» (Lagrange 1759, p. ii). E’ possibile individuare qui gli estremi di un modello scientifico che prevede l’attribuzione del massimo significato al tremore delle parti del corpo sonoro, il quale si trasmette poi sostanzialmente immutato all’aria, diversamente da quanto ipotizzava nel II libro dei Principia Isaac Newton ([1687] 1965, p. 563; cfr. Dostrovsky 1974, pp. 209 ss.), spesso citato polemicamente in simili contesti (Lagrange 1759, p. ii-iii, vi; Euler 1766, p. 185).

Ma simili idee erano lungi dal riscuotere universale consenso. Verso la metà del secolo, Daniel I Bernoulli prendeva pubblicamente posizione nei riguardi delle tesi di Eulero e d’Alembert i cui «complicati» e «arbitrari» calcoli (Bernoulli 1755, p. 148) non aggiungevano nulla al problema che non fosse già desumibile dalla classica trattazione operata nel 1715 da Brook Taylor e dal padre di Daniel, Johann I Bernoulli (su questa disputa cfr. Delsedime 1971; Szabó 1977, pp. 317 ss.; Maltese 1992). Questa soluzione si può riassumere nei seguenti termini: una corda che vibra con un unico ventre al centro può essere considerata per approssimazione come la linea retta a partire dalla quale si forma la successiva figura di oscillazione con un nodo al centro e due ventri, e così via. Questo vale, ovviamente, solo per oscillazioni non troppo grandi, ma il caso è applicabile alla maggior parte delle occorrenze pratiche. La corda vibrante è quindi interessata dal «mescolarsi di più specie di vibrazioni tayloriane allo stesso tempo» e ciò si applica anche a una campana o in una verga, benché i suoni siano in tal caso «extrêmement désharmonieux» (Bernoulli 1755, p. 152 s.). Le vibrazioni delle «piccole parti» del corpo passano così in secondo piano, il moto di ciascun punto essendo la risultante della composizione fisica delle macro-oscillazioni, di forma geometrica determinata (cicloide), coesistenti nel corpo; al tempo stesso, la spiegazione newtoniana della trasmissione del movimento sonoro all’aria torna ad assumere un significato fisico di primaria importanza. Su posizioni simili è pure il conte trevigiano Giordano Riccati, attento studioso di acustica (cfr. Barbieri 1992). Fin dall’introduzione del suo Delle corde ovvero fibre elastiche, del 1767, egli si schiera apertamente con Daniel Bernoulli contro Eulero, d’Alembert e Lagrange (Riccati 1767, pp. ix-x). Per Riccati, infatti, una corda «non può vibrarsi salvo che o intera, o divisa in parti eguali». Ma non solo: di fatto, una corda vibra sia intera, sia suddivisa nelle parti suddette: «[n]elle vibrazioni delle corde sonore la Natura accoppia insieme questi diversi moti con mirabile meccanismo, insegnandoci […] che una corda si vibra e tutta intera, e divisa in parti eguali, e ciò fino a minutissime distribuzioni» (Riccati 1767, p. 69). Un secolo prima di Helmholtz, inoltre, Riccati propone di utilizzare una molla incurvata, apposta ai punti notevoli della corda, come una sorta di «risuonatore». La molla, però, non ha la proprietà di amplificare i suoni parziali bensì quella di smorzare i suoni «della corda intera» e di tutte le sue parti aliquote ad eccezione di quella compresa tra il punto considerato e l’estremo più prossimo cui la corda è fissata: «per tal mezzo si udiranno quanto basta distinti fino i suoni delle parti trentesime» (Riccati 1767, p. 82). Uno schema di riferimento di questo genere sarà poi difeso e sviluppato da Chladni e dai fratelli Weber: ne tratteremo dunque più diffusamente nel secondo paragrafo. A dominare la scena dell’Encyclopédie era invece il modello dei «tremori» in precedenza illustrato: vediamo con quali conseguenze.

Nella voce sul suono in musica, Rousseau fa riferimento alle acquisizioni concernenti il suono nella sua accezione fisica. Egli inizia col distinguere il suono dal più generico rumore (bruit) in quanto il primo è permanente e «appréciable»:

Quando l’agitazione trasmessa all’aria da un corpo percosso violentemente perviene al nostro orecchio, essa vi produce una sensazione che si chiama rumore. Ma vi è una specie di rumore permanente e distinto che si chiama suono (Rousseau 1765, p. 345).

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Ma da cosa derivano i caratteri distintivi del suono, la permanenza (che in seguito Rousseau [1768, p. 1047] definirà anche «résonnance») e la distinzione? In ossequio ai principi fisici sopra illustrati, la «permanenza» deriva dalla «durata dell’agitazione dell’aria», la quale proviene a sua volta da un «movimento simile nelle parti del corpo sonoro» (Rousseau 1765, p. 345). E’ facile vedere, infatti, che una corda di violoncello o una campana esibiscono un simile tremore quando emettono un suono: se qualcosa si inceppa nel loro movimento, «niente più tremore, niente più suono» (qui Rousseau cita testualmente da Diderot 1748, p. 68). Si noti che non è la presenza o meno degli armonici a distinguere il suono dal rumore. Il rumore, preciserà Rousseau nella voce «Bruit» aggiunta nel Dictionnaire de musique – opera dove il ginevrino farà confluire, accresciute e rimaneggiate, le sue voci enciclopediche di argomento musicale – non è affatto caratterizzato da una mancanza (di armonici), ma per così dire da un eccesso rispetto al suono. Sovente esso è dato dalla «somma di una moltitudine confusa di suoni diversi uditi simultaneamente» (Rousseau 1768, p. 671). Suono e rumore non sono dunque due categorie differenti: si tratta della medesima cosa, che ricorre nella forma della distinzione o dell’indistinzione. La mancanza di «distinzione» – ecco il secondo elemento – caratteristica dei rumori può essere facilmente esperita premendo tutti assieme i tasti di un clavicembalo o rimanendo in cima alla torre mentre le campane risuonano, rendendosi così impossibile distinguere («apprécier») il suono; oppure deriva da un eccesso nell’intensità dell’emissione, che distrugge parimenti l’equilibrio del suono perché fa sì che si percepiscano troppi armonici (Rousseau 1768, p. 672). Quanto ai rumori ordinari, non ottenuti da suoni nei modi ora indicati, Rousseau osserva che i corpi hanno maggiore sonorità e minor tendenza a emettere rumore quanto più la loro fattura è omogenea, e quanto meno essi sono invece «suddivisi in una molteplicità di piccole masse che, avendo differente solidità, lasciano di conseguenza risuonare toni diversi» (Rousseau 1768, p. 671). La disomogeneità molecolare – ecco l’importanza dell’adozione del modello dei «tremori» – è dunque la fonte ultima dell’eccesso armonico che genera il rumore. Schemi argomentativi consimili si rivelano utili anche sul fronte della teoria armonica e delle polemiche a ciò connesse (su cui cfr. Fubini 1971). Nell’articolo «Harmonie» del Dictionnaire, fortemente aumentato rispetto alla versione enciclopedica alla luce della diatriba con Rameau, Rousseau osserva:

Peraltro, il corpo sonoro non rende solamente, oltre alla fondamentale, i suoni che compongono con essa l’accordo perfetto maggiore, ma un’infinità di altri suoni formati da tutte le parti aliquote del corpo sonoro, i quali non rientrano affatto nell’accordo perfetto maggiore. Perché i primi sono consonanti e gli altri non lo sono affatto, dal momento che tutti a pari titolo ci vengono donati dalla natura? Ogni suono rende un accordo veramente perfetto, perché è formato da tutti i suoi armonici, ed è grazie a loro che esso è un suono (Rousseau 1768, pp. 848 s.).

Il medesimo argomento si trova anche negli scritti dalembertiani successivi alla rottura con Rameau, resa esplicita con la seconda edizione degli Eléments de musique (per es. d’Alembert 1772, p. 21; cfr. Escal 1994). Entrambi gli autori suggeriscono in tal modo che la teoria di Rameau sia al tempo stesso sotto- e sovradeterminata rispetto alla realtà del fenomeno sonoro: se da un lato essa non rende adeguatamente ragione del modo minore, ha pure il difetto di privilegiare arbitrariamente alcuni armonici della serie senza poter esibire un motivo particolare. L’equilibrio della natura, che distingue il suono dal rumore, viene forzato in entrambe le direzioni in omaggio a pregiudizi teorici privi di fondamento.

E’ interessante paragonare la concezione rousseauiana con quella che emerge da un’altra opera enciclopedica, apparsa questa volta in Germania: l’Allgemeine Theorie der schönen Künste di Johann Georg Sulzer, la cui prima edizione risale agli anni 1771-1774. Nella voce «Klang (Musik)», anche Sulzer distingue anzitutto il suono rispetto al rumore (Laut: emissione sonora indeterminata, in opposizione al silenzio) in ragione della sua continuità. Ma la distinzione è qui basata su ipotesi naturalistiche alquanto diverse dalla teoria dei tremori.

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Gli scienziati ci dicono che […] il suono, benché appaia continuo, consta di ripetuti colpi singoli e realmente distinti, i quali tuttavia si susseguono così velocemente che noi non avvertiamo l’intervallo di tempo che separa l’uno dall’altro, ma li mettiamo assieme in un tono continuo: l’orecchio si dimostra qui tal quale all’occhio in casi analoghi (Sulzer 1792, vol. III, p. 32).

Dietro la continuità del suono si nasconde una pulsazione molto rapida: come le gocce d’acqua rendono dapprima un tintinnio distinto, poi al crescere della frequenza un gorgheggio continuo, così il Klang deriva dalla pulsazione dell’aria. Ma questo solleva un problema fondamentale. Da pulsazioni accelerate è possibile infatti ottenere emissioni continue che rientrano tuttavia più nella categoria dei rumori che in quella dei suoni: è quanto accade ad esempio con la ruota di un carro lanciato a velocità sostenuta. Per Sulzer la soluzione è chiara: la differenza è nella presenza di armonici, caratteristici dei suoni ed assenti dai rumori: solo in quest’ipotesi si comprende

perché il suono delle corde, e in particolare quello delle corde basse, ha qualcosa di così pieno, di così gradevole per l’udito. Perché qui si ode il molteplice simultaneamente, e questi molti confluiscono l’uno nell’altro in modo così perfetto, come se fossero uno, ed esso ha pertanto una bella armonia.

Anche Sulzer, tuttavia, è lungi dal difendere Rameau: l’armonia non è il fondamento della musica e gli Antichi ebbero musica eccellente senza di essa (Sulzer 1792, vol. II, p. 472). Ma non sfuggirà la differenza di presupposti teorici che sottendono queste osservazioni critiche rispetto a quelle rousseauiane. I tremori sonori lasciano spazio in Sulzer alla dottrina delle «pulsazioni», probabilmente mediata dalla cosiddetta «tarda scolastica» tedesca, che impone di esaltare il ruolo degli armonici nella definizione del suono non per le specifiche caratteristiche armoniche del processo in gioco, ma per la maggior ricchezza verrebbe da dire metafisica insita nell’udire il molteplice (degli armonici) nell’uno. Non a caso, Sulzer critica Rousseau per aver definito l’armonia una deleteria invenzione gotica: benché a rigore non necessaria, essa nella maggioranza dei casi si rivela un utile strumento dell’arte musicale (ibid.).

2. Acustica romantica

Autodidatta istruitosi alla migliore letteratura del tempo, Ernst Florens Friedrich Chladni è un uno sperimentatore indefesso, capace di numerose innovazioni in campo acustico, tra le quali spicca l’invenzione di un metodo per la visualizzazione delle oscillazioni sonore delle superfici piane (cfr. Ullmann 1996). E’ da una descrizione di questo metodo che occorre muovere per comprendere il valore assoluto dei suoi studi e le loro ricadute sulla cultura del tempo. Trasponendo in campo acustico la metodologia applicata da Georg Christoph Lichtenberg ai campi elettormagnetici, Chladni cosparge uniformemente di polvere sottile delle piastre di varia forma, saldamente fissate in alcuni punti notevoli; successivamente fa vibrare la piastra mediante un archetto da violino: egli ottiene così suoni di varia altezza, cui corrispondono differenti «figure» che si generano per l’accumularsi della polvere sulle «linee nodali», luoghi geometrici dei punti dove l’oscillazione è minima o nulla. Notevole è che da una singola piastra, proprio come da una singola corda, sia possibile ottenere – sfiorando leggermente la superficie in alcuni punti notevoli – un’intera serie di suoni, cui corrisponde una serie di Klangfiguren nel senso descritto. Chladni traspone dunque su scala bidimensionale il fenomeno lineare dei modi superiori di oscillazione della corda: ma è decisivo aggiungere che nei casi da lui studiati la serie dei suoni segue proporzioni aritmetiche del tutto diverse – includenti ad esempio la terza minore – e tali da imporre un profondo ripensamento in merito alla natura del suono. La suggestiva visione delle allora celebri Klangfiguren fa da suggello del passaggio alla scienza dell’età romantica, pervasa da un’idea di complessità e di profondità della natura inconcepibile nella precedente stagione razionalista.

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Concentrando l’attenzione sulla Tav. I relativa alle piastre circolari, tratta dalle Entdeckungen über die Theorie des Klanges (Chladni 1787), proviamo a illustrare l’interpretazione di tali figure da parte del loro scopritore. Fissata al centro una piastra circolare sollecitata nel punto p, si genera una specie di croce a due bracci (fig. 2): mentre la croce resta in quiete, i punti disposti lungo i diametri nf e mp sono soggetti alla massima oscillazione. Sfiorando la piastra nei punti opportuni Chladni ottiene le figg. 4, 6, 8, 11, 12. L’altezza tonale è tanto maggiore quanto lo è il numero dei diametri della figura stellata (analoghe considerazioni valgono per le figure generate dalla piastra quadrata della Tav. VIII). Su questa base, Chladni spiega anche il comportamento acustico dei corpi tridimensionali. Dal un punto di vista acustico, una campana si comporta ad esempio come se fosse lo sviluppo tridimensionale della placca circolare della fig. 2, per così dire «tirata» verso l’alto a partire dal centro (Chladni 1787, pp. 29-30). La campana è infatti appesa al centro (nodo), e oscilla per successive ed alternative contrazioni ed espansioni dei diametri (nf e mp). Al tempo stesso, la campana inizia ad assumere anche i modi oscillatori superiori rappresentati dalle figg. 4, 6, 8, 11, 12. Con un’analoga proiezione tridimensionale si comprende la fig. 1: la piastra ha un comportamento simile a quello di una lamina fissata al centro, come una pinza da fuoco o un moderno diapason da accordatura.

Le innovazioni sperimentali interagiscono in Chladni col piano propriamente teorico. Anzitutto, nel sistema di Chladni l’aria è considerata un corpo come tutti gli altri, soggetto alle regole acustiche generali (a Chladni si deve la formula per il calcolo della velocità di propagazione del suono in un mezzo qualunque del quale sia nota la densità). E non è un caso che fin dalla prima pagina della versione francese dell’originale Akustik (Chladni 1802), che Chladni stesso redasse nel 1809 a Parigi e pubblicò con il titolo di Traité d’acoustique (Chladni 1809), si affermi lapidariamente che «è del tutto improprio presentare nei trattati di fisica la teoria del suono come appartenente alla teoria dell’aria» (Chladni 1809, p. 1; cfr. anche 1802, p. 4). In un gas libero come l’aria, le oscillazioni si «trasmettono» perché ogni particella compie una sola oscillazione prima di tornare al proprio stato inerziale: l’assenza di elasticità è la condizione perché una porzione di gas libero, anziché suonare come la colonna d’aria nella canna dell’organo, trasmetta semplicemente il suono. Nel sistema fisico corpo oscillante-aria-orecchio, l’anello intermedio risulta dunque il meno determinante ai fini della delucidazione scientifica del fenomeno. Di definire la dinamica delle oscillazioni nei fluidi si occuperanno, proprio a partire dalle osservazioni di Chladni (del quale furono vicini di casa in gioventù), i fratelli Wilhelm e Ernst Heinrich Weber, i celeberrimi scienziati – fisico il primo, fisiologo il secondo – ai quali si deve la fondamentale distinzione tra onda

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progressiva e stazionaria, che contribuisce non poco al chiarimento delle questioni sul tappeto (Weber e Weber 1825; cfr. Martinelli 1999a).

L’impostazione generale di Chladni comporta novità significative sul piano della definizione del concetto di suono. Anzitutto, il comportamento acustico della corda non ha alcun privilegio particolare in ordine a questa definizione. Per Chladni appare abbastanza naturale considerare il comportamento acustico di corde e colonne d’aria come un caso particolare all’interno di una più vasta e in precedenza insospettata legalità naturale, che emerge dalla fenomenologia delle figure e per la quale egli auspica una formulazione matematica (che tuttavia richiederà ancora parecchio tempo, cfr. Szabó 1977, pp. 407 ss.). Chladni non ha dubbi: «non è conforme alla natura voler derivare tutta l’armonia dalle vibrazioni di una corda, e soprattutto dalla coesistenza di qualche suono con la fondamentale. Una corda non è che una specie di corpo sonoro» (Chladni 1809, p. 11). Né si può affermare che i suoni armonici siano «contenuti» nel suono complessivo: piuttosto, come aveva già mostrato Daniel Bernoulli (1753, p. 187), in un medesimo corpo, in certe circostanze, vi sono diverse «specie compresenti di oscillazione». Chladni si schiera dunque apertamente nel contesto delle polemiche settecentesche sul suono:

Se si fosse saputo che esistono corpi sonori nei quali i toni superiori stanno tra loro in rapporti completamente diversi da quelli che si hanno per una corda, e per lo più disarmonici e irrazionali […], certamente allora nessuno sarebbe caduto nell’errore di inferire – dal fatto che assieme alla fondamentale di una corda risuonano toni corrispondenti alla serie dei numeri naturali – la coesistenza di questi toni in qualunque altro suono, e di considerare tale coesistenza come un segno distintivo essenziale del suono (Klang) rispetto ad ogni altro suono fisico (Schall), o addirittura di volerne dedurre tutti i principi fondamentali dell’armonia (Chladni 1787, pp. 70 s.).

Sbaglia dunque Rameau (ma dal canto suo anche Sulzer) a considerare il Klang «che è assolutamente semplice, come se fosse qualcosa di molto complesso» (Chladni 1802, p. 3). Il risuonare degli armonici non ha luogo sempre, e quando ha luogo, non vi è un unico suono complesso ma più suoni assieme, che convivono sullo stesso sistema fisico.

Va sottolineata l’influenza di Chladni su una serie di pensatori del tempo degni della massima attenzione: Goethe, Herder, ma soprattutto Novalis, il quale in certo modo riassorbe le dottrine di Chladni mostrandosi singolarmente capace, nella sua Enzyklopädistik, di conciliarne l’innovativo approccio sperimentale con quello tipicamente razionalista. Novalis immagina infatti una duplice componente del suono, quella terreno-materiale e quella aereo-spirituale, a pari titolo concorrenti a definire la nozione di suono e a fissarne il ruolo simbolico nel sistema della sensibilità, concepita da Novalis (ben altrimenti che da Kant) nel suo ruolo attivo e poietico. Anche in Johann Wilhelm Ritter ([1810] 1988, p. 255 ss.), grazie alla mediazione di Hans Christian Øersted, le figure di Chladni hanno un ruolo importante, e la sua opera varrà per tutta la generazione successiva, fino a Schopenhauer e a Hegel, quale manuale di riferimento (su questi temi cfr. Martinelli 1999; 2005).

3. La stagione positivista

Non è un caso che un teorico come Chladni si applichi con energia alla progettazione e costruzione di strumenti musicali: i suoi studi sulle oscillazioni di piastre e altri oggetti non filiformi suggeriscono in modo alquanto naturale la possibilità di un utilizzo pratico. Anzi, è quanto mai opportuno segnalare l’importanza delle applicazioni tecnologiche ed organologiche in ordine alla nascita e al significato delle concezioni scientifiche e teoriche circa il suono. Sfruttando il principio delle oscillazioni longitudinali delle lamine di vetro, Chladni tenta inizialmente (Chladni 1794, p. 107; 1802, p. XV) di perfezionare la celebre Glasharmonika di Benjamin Franklin, strumento la cui fama conobbe in Europa una vertiginosa parabola dal successo (indicative le composizioni mozartiane del 1790) fino all’oblio, causato in parte dal sospetto che l’iperstimolazione dei

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polpastrelli potesse condurre gli strumentisti a malattie nervose, con effetti nefasti potenzialmente estesi anche all’uditorio tramite i toni ingannevolmente melliflui dello strumento. Con gli strumenti di sua invenzione, l’Euphon e il Clavicylinder, Chladni tentava – non senza accenti di ingenuità – di coniugare i suadenti toni dei verrofoni con una tecnologia più raffinata (e meno sospetta), che nel caso del Clavicylinder prevedeva l’uso di una tastiera e la possibilità di fruire di una certa gamma dinamica (cfr. Chladni 1790, 1794 e 1821). Sotto il profilo organologico, si può dire che il passaggio alla stagione teorica successiva sia segnato dal rinnovato interesse per le questioni legate al rapporto tra frequenza ed altezza a seguito dell’introduzione della sirena rotante da parte di August Seebeck (il figlio del celebre Thomas). Il principio della produzione del suono pare qui fatto apposta per smentire le tesi acustiche di Chladni, riportando perentoriamente l’attenzione sul mezzo di trasmissione: si ottiene infatti un tono di altezza determinata semplicemente causando onde periodiche di compressione nell’aria grazie alla presenza – in un disco rotante dinanzi all’ugello di emissione dell’aria – di una serie di fori, la cui distanza determina ceteris paribus l’altezza tonale. E proprio dalla polemica tra Seebeck e Georg Simon Ohm (cfr. Turner 1977; Vogel 1994) sulla natura del suono si può dire abbia inizio la stagione positivista dello studio sul suono, culminata nell’opera helmholtziana.

Fin dal titolo, la Lehre von den Tonempfindungen, als physiologische Grundlage für die Theorie der Musik di Hermann von Helmholtz, apparsa in prima edizione nel 1864, espone il programma di un confronto complessivo con il fenomeno: dalla fisica alla psicofisiologia uditiva fino alla teoria musicale. Il punto di partenza è costituito da un’attenta considerazione dei fenomeni fondamentali di fisica acustica. I caratteri fenomenici con cui i suoni si presentano – altezza, intensità e timbro – possono essere spiegati sulla base dei caratteri fisici dell’onda sonora: notoriamente, altezza e intensità corrispondono alla frequenza e all’ampiezza dell’onda. Quanto al problema del timbro, Helmholtz risulta particolarmente incisivo: egli dimostra che il timbro è funzione della distribuzione e dell’intensità dei diversi armonici parziali superiori. Il timbro rappresentava forse il punto più debole e oscuro per le teorie settecentesche (cfr. ad es. Rousseau 1765 e Diderot 1748), ma anche per Chladni, il quale ne attribuisce l’origine a una poco chiara «mescolanza» di suono e rumore (Chladni 1802, p. 48). Ma a dispetto della radicale differenza di prospettive, Helmholtz si rifà a Chladni in un punto alquanto significativo. Le figure di Chladni, ritiene Helmholtz, possono essere ottenute su una membrana anche per risonanza. Facendo risuonare in prossimità di una membrana cosparsa di sabbia un suono di determinata altezza, esso induce la figura che gli corrisponde. Si ottiene in questo modo un analizzatore fisico di suoni: «l’esistenza oggettiva degli armonici parziali può essere provata in qualunque momento mediante una membrana oscillante per simpatia, la quale smuove la sabbia di cui è cosparsa» (Helmholtz 1870, p. 82). Helmholtz dimostra che la membrana reagisce con la medesima figura per note decrescenti opportunamente scelte nella serie dei sovratoni (Obertöne) armonici di una corda: ciò prova che il suono caratteristico, registrato della membrana, è contenuto quale armonico superiore nel suono più grave utilizzato. Le conclusioni sono ben note:

Le oscillazioni pendolari nelle quali l’oscillazione dell’aria può essere suddivisa si dimostrano qui capaci di azione efficiente nel mondo esterno, indipendentemente dall’orecchio e indipendentemente dalla teoria matematica. Resta con ciò dimostrato che il punto di vista teorico, attraverso cui i matematici giunsero originariamente alla scomposizione di onde complesse, è effettivamente fondato nella natura della cosa (Helmholtz 1870, p. 72).

Dopo questa prova Helmholtz introduce i celebri risuonatori: oggetti vitrei o metallici di forma sferica o cilindrica, muniti di due aperture, una delle quali è adatta ad essere apposta all’orecchio. Tramite questo collegamento, scrive Helmholtz, «la membrana del timpano dell’osservatore» viene utilizzata al posto «delle membrane elastiche artificiali» (ibid.). Dato che il risuonatore esalta la sola nota che gli corrisponde, l’osservatore può convincersi del fatto che quel tono è contenuto in molti altri suoni o rumori, esattamente come previsto dalla teoria matematica.

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Infine, Helmholtz passa a utilizzare allo scopo un sistema di corde tese, come quelle di un pianoforte, che risulta anch’esso un analizzatore fisico; ma, aggiunge, «se si vogliono distinguere i toni con sicurezza […] bisogna cospargere di sabbia la membrana» (Helmholtz 1870, p. 71). In questo modo il metodo sperimentale di Chladni, pur apprezzato da Helmholtz, veniva piegato alle esigenze di una dottrina d’impostazione radicalmente opposta a quella auspicata dallo scopritore delle Klangfiguren.

Helmholtz tributa un’attenzione inedita ai risvolti psicologici e fisiologici della percezione musicale. Questo aspetto, che caratterizza la Lehre, ha l’effetto di rafforzare nuovamente – e in modo assai vigoroso – le relazioni tra la fisica acustica e la teoria musicale. I risultati raggiunti in precedenza sembrano qui confermati per intero. Con uno sforzo dell’attenzione, infatti, si riesce quasi sempre a udire («heraushören») gli armonici parziali entro un suono unitario, ad esempio una certa nota al pianoforte. Solitamente non vi è alcun interesse biologico che possa indurre a distinguere i singoli armonici parziali: in natura occorre anzi utilizzare il suono complessivo come segno per identificarne la fonte. E tuttavia nelle «sensazioni di suono» debbono essere effettivamente presenti tutte le componenti: diversamente, l’acquisizione della facoltà soggettiva dell’analisi tonale risulterebbe inesplicabile. Occorre allora teorizzare due livelli distinti nella ricezione sonora: quello ordinario o percettivo, e quello appercettivo nel quale il soggetto diviene consapevole di tutte le piccole percezioni che compongono l’impressione, e che normalmente rimangono sotto la soglia della consapevolezza (Helmholtz 1877, p. 106; diversa la precedente versione in Helmholtz 1870, p. 101). Questo «inconscio» musicale, già intuito da Leibniz, assume tuttavia per Helmholtz una connotazione di carattere schiettamente fisiologico. La capacità analitica dell’orecchio si spiega infatti assumendo che esso agisca come un risuonatore, e l’indagine anatomica supporta quest’ipotesi: l’orecchio interno esibisce strutture (soprattutto le fibre della membrana basilaris) che ben si prestano ad entrare in risonanza con le vibrazioni trasmesse dall’orecchio esterno. Nell’ipotesi di Helmholtz, ciascuna fibra di diversa lunghezza si attiva per una singola frequenza corrispondente, di modo che tra le componenti dell’onda complessa e il correlato fisiologico vi sia una corrispondenza puntuale. Ed è lo stesso Helmholtz a proporre il classico paragone tra l’apparato uditivo così inteso e un pianoforte le cui corde, sollevati gli smorzatori, entrino in vibrazione per risonanza. Helmholtz estende così all’acustica fisiologica il principio delle energie nervose specifiche già enunciato in forma generale da Johannes Müller e da lui già applicato con successo nel campo dell’ottica (Helmholtz 1865). Le differenze qualitative tra le sensazioni non dipendono dalla natura qualitativa degli stimoli, ma sono condizionate dalle proprietà specifiche dell’apparato neurale conduttore. Il nervo ottico trasmette sempre e comunque sensazioni di luce, anche se la stimolazione distale è di natura chimica o meccanica, ad esempio ottenuta mediante una pressione dei pollici sui globi oculari. Nella Lehre Helmholtz è in grado di radicalizzare questo principio, traendone le conseguenze più estreme. Anche le differenze qualitative entro l’ambito di ciascun singolo senso dipendono esclusivamente dai singoli fasci di recettori terminali (retinici o della membrana basilare) interessati dalla stimolazione. Niente rende allora la natura dei colori e dei suoni più misteriosa di quella dei semplici impulsi di natura motoria.

Un elemento molto caratteristico della dottrina helmholtziana è il principio di rappresentanza (Vertretung). L’accordo perfetto maggiore funge in un certo senso da rappresentante del suono singolo in grazia della somiglianza tra le note che lo compongono e gli armonici parziali di un suono ordinario (Helmholtz 1870, p. 457). Questo sembra suggerire una concezione connotata in senso naturalistico: la musica trova una profonda ragion d’essere nella natura fisica dei fenomeni sonori. Sarebbe però un errore sottolineare esclusivamente questo aspetto: il principio di tonalità, ben supportato dall’ipotesi della Vertretung, viene inteso da Helmholtz come una scelta estetica piuttosto che come una necessità naturale (cfr. Serravezza 1996, pp. 21 ss.). E tuttavia, la concezione helmholtziana implica almeno che il suono sia gravido di potenziali sviluppi tonali. Non è un caso, e con ciò riemerge la questione delle applicazioni organologiche, che Helmholtz fosse così avverso al temperamento equabile, al punto da farsi costruire un harmonium a intonazione

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naturale (Helmholtz 1870, p. 496 ss.): uno strumento che sotto il profilo teorico incarna, per così dire, l’archetipo di un progetto intellettuale diametralmente opposto a quello che Chladni aveva voluto affidare al suo Clavicilynder – al quale lo accomuna solamente, e significativamente, lo scarso successo derivante dalla difficile applicabilità pratica.

4. Verso una fenomenologia del suono

Il trionfo scientifico conseguito di Helmholtz porta con sé numerose conseguenze, alcune delle quali non sono esenti da un carattere in certo modo paradossale. Molti progressi teorici determinanti, forieri di un profondo mutamento anche nel contesto delle teorie generali della percezione, nascono infatti proprio dal terreno della polemica con la dottrina helmholtziana delle sensazioni di suono. Ciò vale soprattutto per gli autori formatisi alla grande lezione filosofica di Franz Brentano: tra i casi più noti rientrano senza dubbio la dottrina della fusione tonale di Carl Stumpf (1890, pp. 128 ss.) – correlato di una «sinergia specifica» di livello cerebrale che accoppia due stimoli sonori in modo caratteristico – e il concetto di «qualità figurale» formulato da Christian von Ehrenfels ([1890] 1979) sviluppando in modo autonomo – e complessivamente divergente – alcune critiche mosse alla Lehre da Ernst Mach, insoddisfatto per la moltiplicazione esponenziale del numero delle energie specifiche da parte di Helmholtz e per questa ragione incline a cercare fattori di sintesi, sia pure mantenendosi entro una spiegazione di tipo fisiologico (Mach [1906] 1975, p. 257). Ma anche se pensiamo al giovane Wolfgang Köhler delle Akustische Untersuchungen (Köhler 1909; 1910; 1913; 1915), in parte redatte sotto la guida di Stumpf ma in parte già testimonianza di una sensibilità autonoma che prelude alla matura Gestalttheorie, vediamo che lo Helmholtz della dottrina delle sensazioni di suono rappresenta un termine di riferimento polemico decisivo ancora nei primi decenni del nuovo secolo. Tutti questi autori pongono l’accento su alcuni aspetti fenomenologici del problema che Helmholtz aveva trascurato (su Husserl si veda il capitolo successivo). La brillante soluzione helmholtziana di alcuni dei problemi centrali della teoria del suono ha allora l’effetto inatteso di spostare il baricentro dell’interesse verso ulteriori questioni, talora del tutto inedite, talora cadute da lungo tempo nell’oblio.

Giova anzitutto ricordare che Helmholtz ammetteva (senza considerare l’intensità, dipendente dall’energia fisica) due soli caratteri nella sensazione: la modalità, che dipende dall’energia specifica del senso (sensazioni tonali, cromatiche, tattili, ecc.), e la qualità, funzione della frequenza dell’oscillazione fisica (Helmholtz [1878] 1967, p. 598). A parità di modalità, ad esempio nel campo delle sensazioni tonali, può dunque variare solo la «qualità», che determina direttamente l’altezza e indirettamente il timbro. Intensità, altezza e timbro esauriscono dunque il campo degli attributi legittimamente predicabili di un determinato suono a prescindere dalla durata. Ogni altro possibile attributo, nella prospettiva helmholtziana, è allora necessariamente il frutto di un’associazione, di una riflessione o di un’analogia strutturalmente inessenziali e secondari. La ricerca successiva mette radicalmente in discussione questo modello, al punto che la maggior parte degli psicologi dell’ultimo scorcio dell’Ottocento consente sulla necessità di ammettere l’esistenza di dimensioni ulteriori nel suono, variamente designate come spazialità, volume, peso, estensione, corposità, densità, saturazione, qualità, chiarezza, tonicità, fonicità, vocalità, ecc. Questi termini, nelle intenzioni degli autori, non rimandano a descrizioni figurate o metaforiche del fenomeno. Si pensa qui per lo più a delle descrizioni fenomenologicamente rilevanti di fatti irriducibili, in alcuni casi sperimentalmente evidenziabili mediante la dimostrazione della relativa indipendenza delle corrispondenti variabili psicologiche. Dal punto di vista storico, l’idea che nelle sensazioni di suono potesse nascondersi una stratificazione complessa si era già chiaramente delineata alla fine del Settecento. Basandosi sulle conoscenze disponibili in merito ai casi patologici di amusia e daltonismo, Kant parla ad esempio di un duplice livello nelle sensazioni uditive e visive: vi è chi ode o vede perfettamente ma non coglie la natura qualitativa squisitamente «cromatica» di queste

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percezioni (Kant [1790, § 14] 1995, p. 205; [1798, § 22] 1995, p. 42). Prudentemente Kant tendeva ad attribuire questo secondo livello a un intervento della riflessione, piuttosto che alla sensibilità. Occorre attendere Rudolph Hermann Lotze per incontrare l’esplicito riferimento a una duplicità qualitativa insita nelle stesse sensazioni di suono. Anticipando la linea poi abbracciata da Brentano, Lotze distingue chiaramente l’«altezza» dalla «qualità» tonale (Lotze 1868, p. 272 s.). Le matrici di sviluppo della questione però sono ulteriormente ramificate, e rimandano alla corrente spesso sotterranea dello herbartismo. Herbart, attento studioso di questioni musicali (cfr. Moro 2006), era lontano dall’ammettere speciali qualità tonali; tuttavia la sua constatazione di una duplice progressione (aritmetica e geometrica) dei suoni aveva preparato il terreno per la magistrale interpretazione geometrica del carattere dei suoni, nei termini di una «spirale» logaritmica, figura ciclica ma al tempo stesso in progressione ascendente, fornita dal suo allievo Moritz Wilhelm Drobisch (Drobisch 1855).

Con grande disappunto di Brentano, che aveva tentato una diversa soluzione distinguendo altezza e «chiarezza» tonale nel contesto di una complessa teoria della percezione delle qualità multiple (Brentano 1905), Géza Révész si richiamava proprio alla spirale di Drobisch allo scopo di rappresentare intuitivamente le due componenti dell’altezza tonale. La dottrina di Révész si basa su osservazioni compiute agli estremi dello spettro uditivo, nonché su soggetti affetti da amusia. Questi casi, tradizionalmente trascurati come irrilevanti, mostrano invece la relativa indipendenza di due componenti tonali: «ciò che si ripete di ottava in ottava è la qualità, mentre ciò che cambia in direzione costante è l’altezza della sensazione tonale» (Révész 1912, p. 130; cfr. anche Révész 1933, p. 67). Purtroppo Révész denomina Höhe, e cioè «altezza», una delle due componenti della Tonhöhe – ossia dell’altezza tonale comunemente detta (in inglese pitch). Ma in generale il lessico del tempo appare una babele nella quale è difficile orientarsi (cfr. Rich 1919).

Divise nel lessico e sulle soluzioni specifiche, molte scuole psicologiche del tempo cooperano comunque alla critica della teoria helmholtziana. Carl Stumpf, ad esempio, ammette due qualità tonali: altezza ed «estensione» (Ausdehnung). Quest’ultimo è il carattere per cui i suoni sembrano assottigliarsi e divenire sempre più «taglienti», o «appuntiti», nel procedere verso l’acuto (e viceversa). Nel primo volume della Tonpsychologie, Stumpf attribuisce l’«estensione» a una mera associazione con altre rappresentazioni (Stumpf 1883, pp. 207 sgg.); in seguito, però, egli ribattezza l’«estensione» come «grandezza tonale» (Tongröße), e riconosce il carattere autonomo di questa qualità tonale «quasi-spaziale» (Stumpf 1890, p. 56; 537). Spesso, osserva Stumpf, i bambini ordinano naturalmente i suoni in piccoli e grandi, piuttosto che in alti e bassi, acuti e gravi, o chiari e scuri. Stumpf spiega il timbro (Klangfarbe) ricorrendo all’influenza del «colore tonale» (Tonfarbe) dei toni parziali componenti, che è un carattere comprendente altezza, intensità e «grandezza» dei suoni nel senso illustrato. Scrive Stumpf: «i toni semplici più acuti sono più chiari, più forti e più sottili», e dunque i suoni complessi che contengono toni armonici parziali relativamente più acuti hanno un timbro «più alto (chiaro), più forte, più tagliente» (Stumpf 1890, p. 539).

Discepolo di Stumpf avvicinatosi poi progressivamente alla psicologia della Gestalt, Erich Moritz von Hornbostel si riferisce alla componente lineare dei suoni denominandola (come Brentano) «chiarezza», e riserva invece «tonicità» (Tonigkeit) alla componente ciclica. Così come accade nel senso visivo, la chiarezza è il carattere più originario, basilare, radicato al punto da essere condiviso da suoni e rumori. La tonicità, ossia la qualità specificamente musicale, è invece il momento «più labile, biologicamente irrilevante, più recente dal punto di vista dell’evoluzione» (Hornbostel 1926, p. 712). A riprova, Hornbostel riporta alcuni esperimenti dai quali emerge che solamente i bambini musicalmente più dotati sanno riprodurre una melodia mantenendo la tonicità: di norma, essi si sforzano «di imitare la chiarezza e il timbro del modello con quanta maggiore accuratezza possibile, trascurando del tutto la tonicità» (ibid.). Secondo Hornbostel, un comportamento analogo caratterizza gli adulti «amusicali» e la percezione acustica di alcuni animali, indifferenti alla ciclicità delle ottave ma molto sensibili alle variazioni timbriche. In questo

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modo, la percezione del suono viene ad inserirsi entro uno studio psicologico complessivo dell’intrinseca interrelazione dei vari ambiti sensibili. Hornbostel mostra come danza, musica, percezione visiva e olfattiva abbiano componenti comuni, radicate a diversi livelli: superata l’iniziale resistenza, ciascuno è in grado di indicare al pianoforte la nota che suona altrettanto chiara del profumo del giglio, con margini sperimentali di approssimazione decisamente accettabili tra i diversi soggetti (Hornbostel 1925, p. 290). La fenomenologia della percezione del suono è in tal modo ricondotta a fondamentali questioni antropologiche:

L’essenziale nella sensibilità non risiede in ciò che divide i sensi, bensì in ciò che li unifica: tra loro, con l’intero dei vissuti che è in noi (ad inclusione di quelli non sensibili), e con tutto ciò che vi è al di fuori di noi e che può essere da noi vissuto (Hornbostel 1925, p. 294).

Tuttavia, è importante sottolineare che Hornbostel si tiene ben alla larga da una certa deriva misticheggiante della Synästhesie-Forschung, del genere rilevabile ad esempio in Georg Anschütz, per il quale le sinestesie svelano un livello ineffabile e profondo, una «vera struttura» difforme da quella sensibile (Anschütz 1926, p. 267). Per Hornbostel, la sensibilità non perde i propri tratti autonomi anche se viene a riconnettersi con unità di senso più ampie. Si comprende in tal modo la ripetuta affermazione, da parte di Hornbostel, del carattere della musica come forma di cultura – che inverte letteralmente la posizione espressa nella terza Critica kantiana, dove la musica è «più godimento che cultura» (Kant [1790, § 53] 1995, p. 481) – e lo stretto legame con gli studi di carattere etnomusicologico ai quali Hornbostel deve oggi per lo più la sua fama. Questo atteggiamento, in linea con i principi della psicologia della Gestalt della quale lo studioso viennese fu rappresentante di spicco, rappresenta un rovesciamento prospettico epocale, che merita di chiudere la presente rassegna. Ciò che conta a definire il suono non è la vertiginosa sommatoria delle sensazioni che cooperano, complice l’analisi dell’orecchio, a definire il carattere del percepito, ma la fenomenologia della percezione musicale che rimanda all’intero degli atti sensibili, dei presupposti culturali e dell’intero dei vissuti umani, unificati in una nuova prospettiva estetica e antropologica.

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