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\"Incursioni caravaggesche intorno all’attuale Cantone Ticino\" e schede, in \"Serodine e brezza caravaggesca nella “Regione dei Laghi”\", cat. mostra (Rancate, Pinacoteca Züst,

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Tranne il caso di Serodine, cui è dedicato un contributo particolare nel presen-te catalogo, e fatti i debiti conti, una volta spigolate per l’ennesima volta le sillo-gi documentarie di Brentani1 e rintracciate, grazie soprattutto alle catalogazioninovecentesche2, le opere escluse dai rilevamenti degli ultimi decenni, i dipintiche presentano caratteristiche omologabili sotto l’etichetta di “naturalismo”, odi “caravaggismo”, in quello che oggi è chiamato Stato del Cantone Ticino, cor-rispondono a casi assolutamente isolati. Si tratta di fenomeni di mecenatismoeccezionali nel panorama artistico locale e sfuggiti alle fitte maglie della pubbli-cistica degli ultimi tre decenni, concentrata sulla ricostruzione del clima artisti-co nei “Baliaggi degli Svizzeri in Italia” in epoca moderna3.Tenteremo di procedere enucleando la casistica all’interno di alcune categoriepreferenziali, parti delle quali già ampiamente sondate in un recente passato,altre ancora tutte da indagare. Se, infatti, per quanto riguarda le presenze didipinti “foresti” incentivata dal fenomeno migratorio, i casi non ancora studiatirisultano davvero esigui4, sembrerebbe necessario, allo stato attuale degli studi,porre maggior attenzione alle caratteristiche del collezionismo sei e settecente-sco attestato sul territorio. Delegando a un momento successivo del saggio latrattazione particolareggiata di questi aspetti, va comunque da subito rilevatoche, nonostante gli sforzi profusi da Simona Capelli e da Elisabetta Alberti – lequali hanno compiuto per l’occasione capillari ricerche archivistiche atte a tira-re le fila del fenomeno –, i risultati, invero non esaltanti, hanno ancora una voltaconfermato come gli indizi inerenti la presenza di importanti quadrerie sparsenei maggiori centri urbani del Cantone si scontrino con una desolante disper-sione del patrimonio archivistico pertinente ai ceppi familiari coinvolti. Si trattaperò di una ricerca in fieri, della quale si spera altri studiosi possano farsi caricoin un prossimo futuro.

Nel prendere in considerazione il contesto pittorico ticinese, nel tentativo dimetterne a fuoco le caratteristiche nel corso del Seicento, ci troviamo inoltreimmediatamente confrontati con presenze pittoriche disomogenee, sparse su diun’area culturalmente allineabile ad altre regioni della fascia subalpina lombar-do-piemontese.Assolutamente peculiari, al contrario, i connotati politici e amministrativi diquesta porzione di territorio elvetico che solo a partire dal 1803 si sarebbe potu-

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Incursioni caravaggesche intorno all’attuale Cantone Ticino,tra collezioni e dispersioni

Laura Damiani Cabrini

ta chiamare a tutti gli effetti “Cantone Ticino”: fin dai primi decenni del Cin-quecento l’autorità politica e giudiziaria venne assunta dai dodici Cantoni sovra-ni dell’antica Confederazione, che frantumarono il già minuscolo territorio inpiccole unità amministrative chiamate “Baliaggi”. Non sembra però che questasituazione politica particolare abbia avuto qualche ricaduta nel campo delle artifigurative. Nell’arco di tempo percorso dal governo dei Cantoni tedeschi su que-sti territori non si manifestarono, che in situazioni rare e isolate, episodi di com-mittenza pubblica e sconosciuti risultano anche casi di opere patrocinate dal-l’autorità locale a scopo propagandistico o auto-celebrativo.

Anche da un punto di vista economico la “Lombardia svizzera” non si è distan-ziata dalle sorti dell’insieme delle valli subalpine lombarde in epoca moderna,caratterizzate da un’economia agricola di sussistenza e minate, a partire dallametà del Cinquecento, da carestie e pestilenze. La progressiva ricerca da partedella popolazione maschile di contesti economici più floridi ove trovare i proprimezzi di sostentamento ha quindi incentivato, nel XVII secolo, una crescita deiflussi migratori, quasi sempre a carattere temporaneo o stagionale. Non esisteedificio ecclesiastico nel Cantone che non attesti in modo netto l’entità dell’ap-porto fornito alle testimonianze artistiche seicentesche dalle schiere di pittori,stuccatori, architetti, scultori, scalpellini emigrate oltre frontiera, il cui legamecon la patria, o il ritorno, momentaneo o definitivo, e la conseguente reintegra-zione nelle imprese costruttive locali, diveniva strumento necessario alla politicapropagandistica post-conciliare dei due Borromeo, Carlo e Federico5.Potrebbe essere un’opera di importazione col tramite dell’emigrazione anchel’inedita Adorazione dei pastori (fig. 1) conservata nella chiesa di San Barnaba aPazzallo: una pala di dimensioni ragguardevoli, che difficilmente si immagina aborigine destinata al piccolo edificio. Già a un primo sguardo, la tipologia compo-sitiva del dipinto, l’ambientazione notturna sottolineata dall’impiego di una tavo-lozza scarna, giostrata intorno alle tonalità dei bruni, e la resa soffusamente natu-ralistica dei personaggi che fanno da corona alla Madonna col Bambino ricondu-cono a un ambito stilistico vagamente meridionale. Da un punto di vista compo-sitivo, l’anonimo artefice sembra infatti voler emulare l’accostante sentimentali-smo espresso nelle Adorazioni dei pastori di Massimo Stanzione, assemblandospunti tratti da sue due celebri Natività: quella conservata nella Certosa di SanMartino di Napoli, nella sala del Capitolo, della metà degli anni venti, e l’Adora-zione dei pastori conservata al Museo di Capodimonte sempre a Napoli, datataalla seconda metà degli anni quaranta6. Benché il livello non eccelso della telainduca alla cautela circa una possibile proposta attributiva, la cromia ribassata, illinguaggio asciutto ed essenziale e le anatomie impacciate dei personaggi solleci-tano un confronto con l’opera di pittori di area partenopea sulla scia di Stanzio-ne, quali Giovanni Ricca e Onofrio Palumbo7, le cui prime opere datano alla finedegli anni trenta del Seicento, permettendo quindi di avanzare, per l’opera di Paz-zallo, una datazione intorno al 1640.

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fig. 1. Pittore di area napoletana,Adorazione dei pastori, 1640 circa.Pazzallo, chiesa di San Barnaba

Antefatti

Questa situazione potrebbe bastare per scoraggiare qualsiasi ulteriore approfon-dimento della ricerca. Eppure ci si potrebbe legittimamente chiedere se, nellevalli prealpine affacciate sulla pianura padana, qualche umore indicatore di unatteggiamento consentaneo alle logiche culturali milanesi di fine Cinquecento,quelle, per intenderci, alla base della rivoluzione espressiva proposta da Cara-vaggio, avrebbe influenzato gli sviluppi della pittura locale nei primi decenni delSeicento. Nonostante il caso eclatante e significativo della presenza di CamilloProcaccini a Riva San Vitale, la risposta deve essere negativa. Nessun pittorelocale seguì quanto lo stesso Camillo avrebbe presto abbandonato dopo il suoapprodo in terra lombarda, cioè un naturalismo popolare e umorale radicatonella pittura bolognese di stampo post-passerottiano, di cui era stato fedele por-tatore, ma ben presto virato in un sentimentalismo religioso caro all’azione pro-pagandistica di Federico Borromeo, che avrebbe inciso profondamente sullesorti della pittura milanese e, a maggior ragione, locale, nei primi decenni delSeicento. Già stabilmente a Milano a partire dal 1587, Camillo giungeva per laprima volta in territorio sottocenerino nel 1591, chiamato dal prelato GiovanAndrea della Croce, per realizzare uno straordinario insieme decorativo all’in-terno della chiesa di Santa Croce8. La sua debordante vena espressiva avevaavuto già modo di rivelarsi negli affreschi dell’abside di San Prospero a ReggioEmilia, iniziati nel 1585, e a partire dal 1587 nella villa di Lainate del conte PirroVisconti Borromeo, conosciuto qualche anno prima e al seguito del quale avevaprobabilmente raggiunto Roma9. Delle cinque tele commissionate dal DellaCroce, i documenti segnalano esplicitamente solo quelle destinate alla cappellamaggiore consegnate entro il febbraio 1592. Domina nelle due scene laterali raf-figuranti la Visione di Costantino e Il ritrovamento della Vera Croce un’esuberan-za scenica e drammatica che associa, alle tipiche caratteristiche del tardo manie-

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fig. 2. Camillo Procaccini,Il ritrovamento della Vera Croce,particolare, 1592. Riva San Vitale,chiesa di Santa Croce

rismo romano, uno studio delle fisionomie dei personaggi maturata dal Procac-cini nei primi anni milanesi, a fianco di Pirro Visconti Borromeo e degli artistiaffiliati all’Accademia della Val di Blenio: l’allegra accolita di intellettuali e arti-sti attenti alla restituzione degli aspetti meno nobili della vita dei facchini migra-ti a Milano dalle valli periferiche lombarde, radunati intorno alla carismaticafigura di Giovanni Paolo Lomazzo, che li immortalava nei suoi Rabisch10. Si trat-ta di un’attenzione che aveva trovato nuova linfa nell’ambito del fiorente colle-zionismo di disegni di Leonardo dedicati proprio allo studio dei “moti dell’ani-mo”, di cui dà conto anche Lomazzo nel suo Trattato11. Si notino a questo pro-posito ne Il ritrovamento della Vera Croce le maschere espressive impresse ai voltidei popolani intenti al dissotterramento della croce, segnati dallo sforzo e da“ghigni” sinistri, che rivelano da parte di Camillo un’attenzione rivolta alle “testecaricate” già manifestata in opere di qualche tempo precedente, dal chiaroascendente passerottiano (fig. 2).Con l’avvento di Federico Borromeo alla testa dell’Arcidiocesi ambrosiana nel1595, il vento a favore di una pittura votata a un’indagine realistica e introspetti-va dell’animo umano cambiò radicalmente. Per i pittori attivi nella Diocesi coma-sca interessati a confrontarsi con un bagaglio figurativo diverso da quello fre-quentato dagli esegeti della pittura a stampo devozionale e celebrativo di Camil-lo, del Morazzone, e successivamente dei Recchi e di Isidoro Bianchi, non resta-va che la strada per Roma. Lo fece Giovanni Serodine; più tardi Pier FrancescoMola e l’eclettico Francesco Torriani, sicuramente a Roma tra il 1639 e il 1640.

A Mendrisio nel 1641

Avremmo voluto esserci in quell’estate del 1641, seduti in un grotto a Coldrerio,nelle propaggini più meridionali del Cantone, a sentir parlare di quei pittori,Mola di Coldrerio e Torriani di Mendrisio, nati entrambi nel 1612 e tornati(insieme?) da Roma per realizzare, l’uno il piccolo ciclo di affreschi della chiesadella Madonna del Carmelo12, l’altro la Crocifissione e santi (fig. 8) destinata allaparrocchiale; mentre il Carlone di Rovio aveva appena spedito da Genova per ilPetrucci di Maroggia la pala destinata alla sua cappella13. Dei due trentenni pocosi sapeva prima di quella data, ma non si stentava a credere che entrambi fosse-ro stati folgorati dalla presenza nella regione di un anonimo protagonista dellapittura naturalista in area prealpina, anch’egli impegnato negli stessi anni nellacommissione della pala d’altare raffigurante le Sante Lucia e Apollonia (cat. 20-21) per la chiesa dei Serviti a Mendrisio.L’autore dell’Adorazione dei pastori, meglio conosciuta come Natività (cat. 19),oggi conservata nell’ospedale Beata Vergine di Mendrisio – da cui l’origine delnome, “Maestro della Natività di Mendrisio” –, aveva operato nella regione nelcorso del decennio precedente, sfoderando un carisma espressivo eccezionalerispetto alla produzione pittorica media locale. Parlano della sua presenza sulterritorio quattro dipinti, radunati da Mauro Natale14, la maggior parte dei quali

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si trova da qualche anno depositata presso il Museo d’Arte di Mendrisio. Si trat-ta, appunto, della Natività (cat. 19), lasciata in eredità nel 1666 da Gian Giaco-mo Troger alla chiesa dei Cappuccini di Mendrisio, ma realizzata, come ricordala data apposta insieme allo stemma dei donatori, prima del 1638. A seguire, inordine cronologico, lo Stendardo processionale appartenente alla confraternitadel Rosario di Monte, in Val di Muggio (fig. 3), che lo aveva fatto eseguire intor-no al 1633-1615, e le figure di Santa Lucia e Santa Apollonia, realizzate per lachiesa di San Giovanni, sempre a Mendrisio (cat. 20-21). Nonostante le perples-sità avanzate in passato riguardo l’omogeneità stilistica di questo insieme16, misento oggi di poter sostenere con convinzione l’ipotesi del coinvolgimento diun’unica personalità, che si esprime con oscillazioni linguistiche tali da non per-metterne un inquadramento entro coordinate regionali precise, ma con accentiin qualche modo comuni. Vi si colgono le medesime tipologie fisionomiche deipersonaggi, estremamente caratterizzate nei minuti visi colti di profilo, uno stu-dio preciso della postura delle mani scorciate e la medesima tavolozza vivace.L’analisi compiuta in passato sulle tele, che aveva messo in risalto il retroterranaturalistico su cui si impostava l’attività dell’anonimo pittore, evidente nellariproduzione attenta del dato reale associata alle astratte volumetrie delle vestidei personaggi, definite da campi cromatici omogenei e pastosi, aveva portato aidentificarne l’autore con una delle numerose personalità iberiche di passaggionella Lombardia del Vicereame spagnolo17, che per ragioni sconosciute avevaoperato a Mendrisio tra il terzo e il quarto decennio del Seicento, quale l’ancoramisterioso Nicolao Villazis di Murcia18.

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fig. 3. Maestro della Natività di Mendrisio,Stendardo processionale (Madonnadel Rosario con i santi Caterinae Domenico, recto), 1633. Mendrisio,Museo d’Arte

fig. 4. Maestro della Natività di Mendrisio,Santa Margherita e il Drago, 1635 circa.Rho, collegio degli Oblati

Si tratta di caratteristiche che mi sembra invece di poter leggere attualmente neitermini di una declinazione espressiva sorprendentemente in linea con la meravi-gliosa stagione sivigliana dei primi decenni del Seicento, piuttosto che come unrapporto filiale, in cui trapela un’attenzione al dato naturalistico maturata proba-bilmente in ambito partenopeo. Da sempre risulta allo stesso modo chiaro il lega-me di questo anonimo artista con la produzione di Giuseppe Vermiglio, tanto d’a-ver indotto critici della statura di Longhi a dirottare perentoriamente l’attribu-zione della Natività verso il catalogo dell’artista milanese19. Anche la ricerca di undettato pittorico minutamente realistico, che invita i due pittori a indugiare sullerughe dei volti, sui capelli ricciuti dei personaggi maschili e sul disegno anatomi-camente affine delle mani, dalle dita tubolari e smussate, non può non destaresospetti circa l’orizzonte culturale comune, tra Roma, Milano e il Piemonte, allespalle del loro percorso. Il legame con Vermiglio diviene quasi imbarazzante nel-l’analisi di un testo pittorico ricondotto solo in epoca recente alla mano del mae-stro di Mendrisio, questa volta conservato in una storica quadreria a poche deci-ne di chilometri di distanza dalla cittadina sottocenerina. In una sala dell’appar-tamento Pozzobonelli del collegio degli Oblati di Rho fa mostra di sé una picco-la Santa Margherita col Drago (fig. 4)20, dove il riferimento all’anonimo maestrodiventa assolutamente palese nella valutazione del volto della santa, gli occhiabbassati rivolti verso il drago: sovrapponibile a quello della Vergine nella Nati-vità e speculare a quello di Santa Lucia, alla cui figura l’accomuna anche la curanella resa delle capigliature e dei monili. La mente non può però non andare nellostesso tempo alla produzione tardiva di Vermiglio (le notizie sul pittore lo vedo-no per l’ultima volta ad Asti nel 1635), ad esempio a Giaele e Sisara e a Giudittacon la testa di Oloferne conservate nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano21. Latemperatura intima e sentimentale e la ricercata dialettica luminosa che vengonoa legare questo gruppo di dipinti tendono a confermare però come le calde atmo-sfere proposte dall’anonimo Maestro della Natività non possano essere confusecon le raggelate istantanee prodotte negli stessi anni dal collega milanese. Distin-gue infatti i dipinti dell’interprete della Natività sottocenerina da quelli del suoalter-ego lombardo una diversa impostazione delle luci – da cogliersi natural-mente soprattutto nelle ambientazioni aperte su un fondale paesaggistico, comenelle due sante Lucia e Apollonia – che, attraverso soffusi passaggi chiaroscurali,tende a sciogliere i contorni delle figure, facendone vibrare gli incarnati. Un pit-toricismo più accentuato increspa inoltre le carni del bimbo nella Natività e lasciatracce di una pennellata graffiante, che scandisce nettamente i piani cromatici, nelgià citato Stendardo di Monte (fig. 3), dove si colgono anche rimandi alla lucidadefinizione delle forme espressa nelle opere di Orazio Gentileschi. Il nome dellafiglia Artemisia era d’altronde già circolato nell’analisi delle Sante, soprattutto inriferimento alla sua fase napoletana, tanto da aver portato a ipotizzare che la realefisionomia del maestro di Mendrisio si celi dietro le vesti di un artista dalle origi-ni lombardo-piemontesi, ma attento alla virata classicista inferta al panorama pit-torico partenopeo dal contemporaneo passaggio a Napoli, nel corso del quarto

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fig. 5. Maestro della Natività di Mendrisio?,Cristo benedice i fanciulli, 1640 circa.Già New York, Metropolitan Museum

decennio del Seicento – sul solco lasciato dalle opere di Vouet –, di ArtemisiaGentileschi, ma anche dei bolognesi Lanfranco e Domenichino. A fare da traitd’union tra queste istanze potrebbe aiutare il confronto con un’opera attribuita inpassato a Pacecco de’ Rosa e, più recentemente, al periodo napoletano di Arte-misia Gentileschi, raffigurante Cristo che benedice i fanciulli, già conservato nelMetropolitan Museum of Art di New York (fig. 5)22. La vivace caratterizzazionedei bambini non inficia la solennità del Cristo, stagliato contro un cielo vesperti-no e avvolto in un manto che ricorda i panni ridondanti delle sante di Mendrisio,così come la gestualità pacata e il disegno curato delle mani. L’impossibilità di unavisione diretta impedisce però quelle considerazioni definitive riguardo al suoinserimento all’interno dello scarno catalogo del pittore che ci piacerebbe davve-ro poter esprimere senza troppi imbarazzi.Tanti i nomi citati per questo artista, forse troppi, se non fosse che, alle chiac-chiere del 1641, si sono sovrapposti i pourparler degli storici dell’arte di oggi, icui commenti rimandano a una sua presunta anagrafe toledana, francese e“umbro-marchigiana”23, fino ad approdare all’indicazione più recente e sicura-mente anche più parlante di Roberto Contini, che segnala le affinità stilistiche trale opere di Mendrisio e quelle di un altro illustre anonimo napoletano: il cosid-detto Maestro dell’Emmaus di Sarasota24. E chissà che il cerchio non si stia avvi-cinando alla chiusura.

L’eterogeneità degli stimoli visivi proposti da questa eccentrica personalità cipermette di ancora meglio valutare la strana congiuntura venutasi a creare aMendrisio alla fine degli anni trenta del Seicento, al momento dell’affermazionedell’astro nascente Francesco Torriani. Lo indica dapprima una replica puntua-le, di ubicazione sconosciuta25 della Natività dell’ospedale sottocenerino (fig. 6),in cui Torriani riformula in chiave classicista il tema trattato dal suo mentore. Purlasciando inalterate le pose dei personaggi che compongono la laconica sacraconversazione, Francesco ribalta la regia luminosa e cromatica, immergendo lascena in un’ambientazione ancor più tenebrosa, illuminata a tratti solo dal fasciodi luce fredda e lunare che esalta l’incarnato lattiginoso degli astanti.Oltre agli influssi del Maestro della Natività di Mendrisio, negli incunaboli dellapittura di Francesco Torriani risulta palese la suggestione di un testo pittorico chenon mancò di incidere profondamente sulle sorti della pittura comasca dei primidecenni del secolo. Mi riferisco naturalmente alla pala di Orazio Gentileschi raf-figurante la Visione dell’angelo da parte dei santi Cecilia, Valeriano e Tiburzio (cat.29), oggi conservata nella Pinacoteca di Brera a Milano, ma già in Santa Cecilia aComo, databile in epoca immediatamente anteriore al 1607. Una pala ancorataalla didascalica chiarezza dei massimi esponenti della pittura controriformatatoscana, secondo una sperimentata formula espressiva che aveva visto Santi diTito tra i suoi massimi esegeti, ma avvolta in tagli luminosi repentini e da un sot-tile naturalismo nella definizione anatomica dei personaggi tipici del linguaggiodei primi seguaci romani di Caravaggio. Il dipinto raffigurante il Martirio di una

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fig. 6. Francesco Torriani, Natività,1640 circa, replica dell’originaledel Maestro della Natività di Mendrisio.Ubicazione sconosciuta.

santa (Caterina d’Alessandria?; cfr. fig. 5 del saggio di Simona Capelli), oggi con-servato nella parrocchiale di Cassina Rizzardi, presso Como26, databile alla metàdegli anni trenta, risulta un eclatante omaggio da parte del pittore all’aristocrati-ca eleganza della santa gentileschiana. La luce metallica, che sublima i connotatifisionomici, e il naso leggermente aquilino sono dati facilmente paragonabili alledelicate fattezze dei suoi futuri personaggi femminili, tra cui il volto dell’Immaco-lata Concezione realizzata nel 1645 per il santuario della Madonna dei Miracoli aMorbio Inferiore27. Al 1637 circa penso vada ricondotta anche la pala raffiguran-te Sant’Antonino della parrocchiale di Albate28 (fig. 7), presso Como, dove l’at-teggiamento estatico del santo e la sua posa falcata rimandano a una tradizionepittorica ancora circoscrivibile entro il perimetro della Lombardia, in stretta rela-zione con il gruppo di personaggi che affollano la scena della Visita di san CarloBorromeo a Torino della chiesa di San Giovanni Battista di Binago29.I vasti interessi giovanili di Francesco Torriani, orientati verso la costante ricercadi un naturalismo epurato e traslato in chiave di intensa concentrazione devozio-nale, poterono trovare, alla fine degli anni trenta, conferme in un viaggio a Roma,documentato dalle lettere spedite al fratello tra il 1639 e il 164030. All’indomanidel suo ritorno eseguiva la già ricordata Crocifissione (fig. 8) di Coldrerio, databi-le al 164131: la più caravaggesca tra le opere firmate dal pittore, rivelatosi attentoluminista nel far emergere dalle tenebre con straordinaria evidenza plastica i corpieburnei dei due martiri cristiani, mentre nella fisionomia estremamente caratte-

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fig. 7. Francesco Torriani?,Sant’Antonino, 1637 circa.Albate, chiesa di Sant’Antonino

fig. 8. Francesco Torriani, Crocifissionecon i santi Giorgio e Vittore, 1641 circa.Coldrerio, chiesa di San Giorgio

rizzata del san Vittore ritorna la testa leggermente reclinata e lo sguardo obliquotipici di tanta pittura dei conterranei Carloni, forse conosciuti un decennio primasui ponteggi della chiesa di Sant’Antonio a Milano. Non si può , allo stesso modo,fare a meno di cogliere quella qualità fortemente iconica dell’immagine, tutta aridosso del primo piano, e quell’indugio quasi eccessivo nella descrizione dei det-tagli ornamentali dell’armatura dei due personaggi, che creano un gioco di riman-di, evidentemente tutt’altro che casuali, con le opere del Maestro della Natività.Il dipinto di Coldrerio avrebbe costituito comunque una chiave di volta nellaparabola artistica del Torriani, le cui inclinazioni naturaliste subirono un primocontraccolpo dopo il presunto viaggio emiliano evocato dalle fonti, avvenutopresumibilmente dopo il 1643, che indusse il pittore ad assestare il suo linguag-gio su di uno standard classicista palese nelle opere realizzate dopo il 1645. Indi-ca questo nuovo corso della sua pittura il Matrimonio della Vergine (fig. 9) dellaparrocchiale di Riva San Vitale32, dove Francesco schiarisce la regia luminosa ecromatica, illuminando la scena con un fascio di luce fredda, che esalta il timbrodelle lacche, rosa e celesti, stese direttamente sulle biacche e sulle preparazionibrune. Queste caratteristiche introducono alla fase meglio conosciuta dell’arti-sta, ruotante intorno al gruppo di dipinti firmati nel 1645, mentre la commistio-ne tra dettato caravaggesco e sublimazione classicista risulta sorprendentementeparallela a quella operata negli stessi anni da altri interpreti del classicismo bolo-gnese e centro-italiano, tra i quali Gian Domenico Cerrini33.

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fig. 9. Francesco Torriani,Matrimonio della Vergine,1643 circa. Riva San Vitale,chiesa di San Vitale

I dipinti erratici

Se risulta arduo delineare un filone “naturalista” della cultura pittorica di ambi-to locale, la ricerca di dipinti di importazione dai centri diocesani o dai luoghidell’emigrazione è a sua volta ostacolata dalla dispersione del patrimonio artisti-co causato dalle soppressioni conventuali attuate dapprima dal governo teresia-no e napoleonico in Lombardia e successivamente dal neonato governo ticinese,che con atto emanato nel 1848 aveva incamerato i beni dei principali conventisparsi sul territorio34. In quest’ultimo caso parecchi fondi librari confluirononella nuova Biblioteca Cantonale di Lugano; altra sorte toccò ai beni artistici,spesso dispersi tramite aste pubbliche organizzate direttamente sul posto. Lavo-ro laborioso e complesso, di cui solo recentemente gli studiosi si stanno pren-dendo carico, la ricostruzione dei nuclei originari al confine tra Comasco e Can-tone Ticino risulta particolarmente difficoltosa, ma alcuni tasselli di questa intri-cata vicenda sono venuti recentemente alla luce. È ad esempio il caso del patri-monio della chiesa del convento domenicano di San Giovanni in Pedemonte aComo, demolita nel 1812 e oggetto di dettagliate ricognizioni, a partire dal pio-nieristico lavoro confluito nel catalogo della mostra Il Seicento a Como, redattoalla fine degli anni ottanta e tutt’ora imprescindibile punto di partenza per ogniesaustiva indagine sull’argomento35. Già grazie alle citazioni del Giovio e delLanzi36 e alla pubblicazione di parte degli arredi ecclesiastici al momento dellasoppressione37 conosciamo buona parte dei soggetti esibiti nei grandi dipinti col-locati nelle cappelle della chiesa, a cui si aggiungono le opere acquistate da edi-fici di culto ticinesi individuate dal Martinola38. Non è scartabile a priori neppu-re l’ipotesi che le due grandi tele mariane oggi conservate nella parrocchiale diRiva San Vitale raffiguranti l’Immacolata Concezione e il Matrimonio della Vergi-ne (fig. 9) – attribuita a Francesco Torriani –, fossero state realizzate proprio peruna delle cappelle (forse quella della Vergine) aperte ai lati dell’edificio39. Graziealle indagini di Simona Capelli, oggi abbiamo la certezza che proprio il com-plesso conventuale lariano fosse anche la primitiva collocazione di un’opera diconsiderevoli dimensioni, visibile nel presbiterio della “nuova” chiesa parroc-chiale dedicata a San Vitale di Chiasso, raffigurante la Visione di san Domenico aSoriano (fig. 10). La pala era situata in origine presso la porta di accesso dellachiesa40 e a provvedere al suo trasloco a Chiasso furono probabilmente i signori“Ambrosioli speziale e Agustoni di Chasso [sic!]”, primi acquirenti del conven-to comasco41. A riprova della sua illustre origine sta anche il fatto che non si trovaalcuna indicazione relativa alla sua presenza nelle relazioni delle visite pastoraliche hanno interessato l’antica parrocchiale chiassese, anteriormente alla suademolizione, avvenuta nel 183442. Le notevoli dimensioni della tela e il partico-lare soggetto raffigurato avevano già fatto sorgere il sospetto di una provenienzadiversa, forse appunto identificabile in un complesso domenicano. Il tema tra-duce infatti una leggenda cara all’iconografia dell’ordine, secondo la quale nel1530, a Soriano nel Cimino, nel Viterbese, la Madonna, accompagnata da MariaMaddalena e da santa Caterina da Siena, apparve in sogno a un frate domenica-

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no, portando in dono un ritratto di san Domenico che si rivelò poi miracoloso.A suscitare interesse in questo caso è l’anomala traduzione del soggetto, nonconsueto in analoghe rielaborazioni iconografiche. L’immagine è scissa infatti indue segmenti distinti, che corrispondono a un partito inferiore calato in unadimensione terrena, in cui quattro monaci increduli emergono dalle tenebre diuna realtà completamente notturna, grazie a una luce proveniente da un lume dicandela, che rivela contemporaneamente anche la sacra effigie di san Domenicomiracolosamente impressa su di una tela. Nel partito superiore la Vergine colBambino, canonicamente in gloria, viene affiancata dai mezzi busti di santa Cate-rina, a destra, e della Maddalena, a sinistra. Mi sembra assolutamente pertinen-te la suggestione di Roberto Contini che vede nell’opera strette tangenze con laproduzione del pittore sarzanese Giovan Battista Casone, allievo e collaboratoredi Fiasella43. Tipici dell’artista sono la semplificazione dei volti, dalle espressioniattonite, e lo studio – non sempre all’altezza del suo illustre maestro – del giocodelle luci artificiali: nota distintiva del Casoni fin dalle prime prove documenta-te, rilevabile, ad esempio, nella grande tela con la Cena in Emmaus del conven-to della Santissima Annunziata di Levanto, firmata e datata 1641. Nella partesuperiore si nota, invece, l’impulso di una pennellata più materica e vibrante, dalsapore toscaneggiante, indice anche di una contaminazione con una pittura giàgiostrata in senso barocco e di una datazione prossima alla metà del secolo. Mail confronto più parlante si può ottenere guardando la pala di medesimo sogget-to conservata nella chiesa di San Domenico a Taggia, in cui, come a Chiasso, laluce “a lume di candela” permette di mettere a nudo i volti increduli dei padridomenicani44.Ci si può legittimamente chiedere quali altre tele erratiche avessero subito le stes-se sorti. Ad esempio non si può credere fosse l’attuale la collocazione originariadella Busto di vecchio (San Pietro?) (fig. 11) segnalataci da Giulio Foletti, posta auna decina di metri d’altezza nella chiesa di San Biagio a Ravecchia45, avvicina-bile senza troppi entusiasmi alla produzione più corsiva di Salvator Rosa.

Le copie

Tra le presenze sparse sul territorio ticinese che possano rientrare nella nostracasistica può essere inserito qualche numero relativo a repliche di dipinti diseguaci di Caravaggio della prima ora, di cui ancora una volta, per le ragionisopra esposte, risulta oggi arduo tracciare a ritroso il solco di un percorso sinoalle origini.Sembrava disperso il Cristo davanti a Caifa (fig. 12) facente parte della quadre-ria di palazzo Bagutti a Rovio, pubblicato dal Casella nel 1922 come opera delpittore tardo-settecentesco Giovan Battista Bagutti46, e lo si riscopre invece ogginella sagrestia della chiesa di Santa Maria degli Angeli a Lugano47. Si tratta di unareplica in formato ridotto di un fortunato dipinto di Gerrit van Hontorst oggivisibile alla National Gallery di Londra, ma collocato fino al 1804 nella collezio-

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fig. 10. Giovan Battista Casone,Visione di san Domenico a Soriano,1640 circa. Chiasso, chiesa di San Vitale

fig. 11. Bottega di Salvator Rosa?,Busto di vecchio (San Pietro?),1650 circa. Bellinzona (Ravecchia),chiesa di San Biagio

ne romana della famiglia Giustiniani48. Il successo del dipinto fu comunqueimportante già durante la vita dell’artista, considerato che alla morte di Hon-thorst nel 1656 il numero di repliche constava almeno di sei esemplari49. Certo èfuori discussione un confronto qualitativo tra l’esemplare Giustiniani e quelloagli Angeli, il quale presenta un notevole impaccio nella conduzione dei voltidegli astanti in secondo piano; ma suscita allo stesso tempo perplessità l’attribu-zione del dipinto al Bagutti: pittore che non ha mai nascosto le sue inclinazionitardo-roccocò e neoclassiche50. Sembrerebbe più opportuno pensare a una repli-ca realizzata da un artista di area nordica, entro la prima parte del Seicento.Merita attenzione anche il Transito della Vergine (fig. 13), oggi conservato nellaquadreria della chiesa di Sant’Antonino a Balerna51, replica del celebre dipintorealizzato da Carlo Saraceni per la cappella di Laerzio Cherubini nella chiesaromana di Santa Maria della Scala, in sostituzione dell’analogo esemplare cara-vaggesco rifiutato dalla committenza e oggi conservato al Museo del Louvre diParigi52. Come ha giustamente rilevato Anastasia Gilardi53, il formato orizzonta-le dell’opera, irrispettoso degli originali destinati alla chiesa di Santa Maria dellaScala a Roma, ne fa una derivazione autonoma rispetto all’illustre prototipo,forse mediata da modelli a stampa54. In particolare, l’impiego di un’imprimiturabituminosa che ne ha notevolmente compromesso lo stato di conservazione, e lestesure compatte delle zone cromatiche, portano ad avanzare ipoteticamentequale autore del dipinto il nome di Francesco Torriani, la cui personalità si staprofilando con sempre maggior forza nei termini di abile divulgatore di celebriprototipi figurativi di matrice italiana, veneta ma soprattutto emilana55. Se non ne

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fig. 12. Copista nordico,Cristo davanti a Caifa(da Gerrit van Honthorst), 1650 circa?.Lugano, chiesa di Santa Mariadegli Angeli

fig. 13. Francesco Torriani?,Transito della Vergine(da Carlo Saraceni), 1635 circa.Balerna, chiesa di Sant’Antonino

fu l’autore, di certo Torriani conosceva l’esemplare romano, per essersene libe-ramente servito in diversi dipinti. Ad esempio nella figura della Veronica, tra-dotta in almeno due versioni conservate a Mendrisio, entrambe recentementerestaurate: una appesa nei locali adiacenti al coro della chiesa di San Francesco,di notevole qualità, e una, appartenente alla bottega, esposta nella chiesa di SanNicolao, che riprendono fedelmente la figura femminile in basso a destra56, pre-sente nell’illustre prototipo romano.

Le quadrerie

Le vicende di molti di questi dipinti si intrecciano anche con quelle delle storichequadrerie attestate nei territori balivali svizzeri di lingua italiana già a partire dalSeicento. Ma gli studi sono, per questi aspetti, troppo lacunosi e il tema preten-derebbe una ricerca a parte, destinata, ne sono convinta, ad avere riverberi inedi-ti sulla storia del collezionismo lombardo. La curiosità mossa dal ritrovamento diun dipinto di Giovanni Serodine (il Cristo deriso di collezione privata, cat. 6)scomparso dopo la mostra alle Isole di Brissago del 195057 e le conseguenti inda-gini atte a ricostruire il tracciato della sua illustre provenienza hanno innescatouna serie di ricerche sulla collezione Luvini Perseghini, radunata in corpore, sicu-ramente fino al 1945, in un ambiente appositamente destinato alla sua conserva-zione, adiacente alla villa di Sassa presso Lugano58. Era questa la residenza estivadella famiglia del colonnello e avvocato Giacomo Luvini Perseghini (1795-1862)che abitava stabilmente in contrada Verla (oggi via Luvini) a Lugano. Fu eretta trail 1820 e il 1840 sul sedime acquistato nel 1739 all’ospedale di Santa Maria dai fra-telli Giuseppe e Ambrogio Luvini, mercanti di Lugano59, e nel 1910, dopo lademolizione del palazzo in centro, diversi elementi architettonici barocchi vi furo-no trasferiti60. Purtroppo non possediamo indizi circa gli arredi delle dimore luga-nesi, poiché le prime attestazioni della presenza della quadreria risalgono solo al1855, quando veniva citata dal Pasqualigo nella sua Guida

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. Tutto ci farebbe cre-dere che proprio Sassa fosse però la prima destinazione di questo straordinarioinsieme, di cui, nonostante tutti gli sforzi profusi nella ricerca, non siamo oggi ingrado di risalire alle radici più lontane. Vero è che l’ultima erede, Luigia SaroliGrecchi Luvini Perseghini (1869-1943), deceduta nel 194362, oltre alla quadreriadi Sassa, aveva ereditato dalla madre Marta (1846-1931), figlia di Giacomo,un’importante, quanto intricata vicenda genealogica, all’interno della quale, tra-mite legami di parentela sanciti da rapporti endogamici, si trovavano riunite alcu-ne storiche casate luganesi. Della famiglia Luvini facevano parte, oltre il già cita-to colonnello, anche Giuseppe Maria Luvini (1725-1790), frate minore cappucci-no e vescovo di Pesaro dal 1785 al 1790 (anno della morte)63 e alcuni avvocati,membri dell’aristocrazia politica liberale nella prima fase della costituzione del-l’attuale Stato del Cantone Ticino64. Il padre di Luigia, Francesco Grecchi (1843-1899), nativo di Codogno (vicino a Milano), era stato console d’Italia a Lugano epatrocinatore di diverse iniziative culturali65, mentre il marito Marco Saroli (1868-

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1930) era esponente di una facoltosa casata di Cureglia, a sua volta imparentatacon quella degli Enderlin. Alla storica quadreria ottocentesca dovevano quindiessersi aggiunte negli anni altre importanti acquisizioni, forse in parte incentivatedai contatti di Francesco Grecchi e di Marco Saroli con l’Italia. Il primo, infatti,era nato a Codogno e forse vi era vissuto per qualche tempo con la moglie Marta,sposata a Lugano nel 186866, mentre Marco Saroli aveva posseduto una “palazzi-na” a Milano67.

Le pareti di villa Luvini a Sassa ospitavano almeno tre tele di Giovanni Serodine,un dipinto “a lume di candela” raffigurante una Maddalena in meditazione, dueopere di Giuseppe Antonio Petrini, più altre “tavole” e “bozzetti” menzionati nelfitto carteggio dell’antiquario Ugo Donati, interessato all’acquisto di buona partedei dipinti68. Le opere del Serodine erano il San Pietro (cat. 9), acquistato da Dona-ti per 9000 franchi69, la Sacra Famiglia (cat. 3) acquisita dallo stesso Donati per1000 franchi e poi rivenduta al parroco di Ascona per 8000, e il Cristo deriso (cat.6) oggi in collezione privata, il cui acquisto non avvenne da parte del mercante,poiché inizialmente considerato estraneo all’ambito ticinese, in quanto reputatouna copia di “Gherardo Delle Notti”70. Il Ritratto del padre (cat. 7), per volontàdella stessa Luigia, era già dal 1936 depositato nella sede del Museo Storico dellaCittà di Lugano71, dopo che la madre aveva rifiutato, qualche anno prima, il pre-stito di un’altra tela reputata dello stesso Serodine72. Erano probabilmente a Sassaanche due opere di Giuseppe Antonio Petrini oggi conservate alla Pinacoteca Züst

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fig. 14. Trophime Bigot,Maddalena penitente, 1625 circa.Puerto Rico, Museo de Arte de Ponce,The Luis A. Ferré Foundation,Inc. 62.0335

di Rancate: il Davide con la testa di Golia73 e laMadonna col Bambino, sant’Andreae l’Angelo custode, che grazie alle ricerche di Simonetta Coppa oggi sappiamo esse-re stata eseguita prima del 1740 per il distrutto oratorio di Sant’Andrea a Brusim-piano, consacrato nel 174074. LaMaddalena penitente (fig. 14), attribuita a Trophi-me Bigot, fu acquistata nel 1962 dal Museo de Arte de Ponce a Puerto Rico, dov’ètutt’oggi conservata75. Quando fu vista da Nicolson nel 1958 la tela si trovava perònella Galleria De Boer a Amsterdam ed esposta come anonimo caravaggesco fran-cese del XVII secolo76.In assenza di discendenti diretti e di un atto testamentario, l’ultima dei GrecchiLuvini consegnò tacitamente tutto il suo cospicuo patrimonio alla famiglia Grec-chi di Codogno, con grande rammarico della città di Lugano, la quale vide sfu-mare la possibilità di un’annessione di villa e collezione all’interno delle pro-prietà comunali77.Si può ragionevolmente credere che l’insieme della quadreria sia stato comple-tamente alienato tra il 1954 e il 1957: la villa di Sassa fu ceduta nel 1954 dall’e-secutore testamentario degli eredi, l’avvocato Ottorino Arborio, ai Giussani,proprietari della Monteforno di Bodio78 e nel 1957 il Cristo deriso veniva esclusodal vincolo di vendita da parte delle autorità cantonali, appurato, anche grazie aipareri di Roberto Longhi e di Giuseppe Fiocco, che la videro esposta nellamostra brissaghese del 195079, che non si trattava di un’opera spettante al pitto-re “ticinese” Giovanni Serodine80.Da dove venissero quei dipinti, probabilmente collezionati nel corso della primametà dell’Ottocento, quando la fama del pittore non era ancora tale da permette-re un apprezzamento per il suo operato a livello internazionale81, non è facile dastabilirsi. Non si può però comunque completamente escludere che il tracciatodella loro provenienza sia da farsi risalire direttamente all’interno degli attualiconfini nazionali, forse addirittura ad Ascona, terra d’origine della famiglia diGiovanni Serodine, dove sappiamo che il padre era ritornato da Roma alla sogliadegli ottant’anni. Nel 1631 Cristoforo dettava infatti a Minusio il suo ultimo codi-cillo testamentario82, mentre era probabilmente ospite del figlio Andrea, dal 1627arciprete di San Vittore a Muralto. Vi era giunto con il nipote Giovan Battista,nato tra il 1625 e il 1626 e figlio naturale di Giovanni, del quale era rimasto orfa-no nel 1630, divenendone anche erede universale83. Dei venticinque dipinti lascia-ti da Cristoforo alla nuora Lucia Viola a Roma nulla sappiamo84, mentre non èimprobabile che, in quanto tutore del nipote, egli avesse portato con sé in patriaanche i beni del figlio di Giovanni, che continuò la propria esistenza in modoagiato85, tra Ascona, Locarno e Muralto86, fino alla morte, avvenuta dopo il 167187,sposandosi due volte e avendo quattro figli88.

Al di là di queste considerazioni, resta il fatto che opere del Serodine erano statesegnalate nella seconda metà del Settecento da Johann Caspar Füssli a Brissagoin casa Borrani, dove riferiva diQuattro evangelisti, e a Locarno nella dimora deiMarcacci89, la cui cospicua collezione sembra constasse di ben tre tele dell’artista

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asconese90. Degli “Evangelisti” si è persa completamente traccia, se si esclude laproposta del Longhi di vedere nel San Giovanni della Galleria Sabauda di Tori-no e nel Santo che legge della Galleria Estense di Modena parte di una serie com-posta dai quattro Evangelisti, oggi dispersa91.Contatti tra la famiglia Serodine e i membri della nobile famiglia dei Marcaccinon furono infrequenti nel corso del Seicento, perché nella chiesa di San Vitto-re a Muralto, dov’era stato arciprete il fratello di Giovanni, essi possedevano lojuspatronato della cappella dedicata ai santi Antonio di Padova e Carlo92 e nellostesso edificio il prelato aveva battezzato nel 1630 Giovan Antonio Marcacci,figlio di Carlo Marcacci e della nobile Giulia Trevani93. I Marcacci avevano pos-sedimenti anche a Tenero, dalla cui parrocchiale proviene anche una copia delCristo deriso di Serodine (cat. 27) oggi conservata nella chiesa di Gordola. Filip-po Marcacci vi aveva infatti fatto costruire nel 1614 una torre, detta “La Frac-cia”, e Giovan Antonio Marcacci eretto un “palazzetto”94. Si affaccia così quasinaturalmente l’ipotesi che proprio dalla collezione dei Marcacci potessero pro-venire sia il Cristo deriso, poi in collezione Grecchi Luvini (cat. 6), che un EcceHomo ora disperso, come indicherebbero le repliche dei due dipinti, oggi con-servate nella parrocchiale di Gordola (cfr. cat. 27-28), la cui presenza in quellazona non avrebbe altrimenti ragione d’essere.All’epoca del Füssli, la dimora di Piazza Grande a Locarno era occupata dalpenultimo discendente di questa dinastia di fiscali – imparentata con le più illu-stri casate comasche95 –, Carlo Francesco Marcacci (1734-1776), il quale nel 1768aveva sposato la nobildonna di Como Maria Teresa Ciceri96. Il dato non è disecondaria importanza, perché al momento del matrimonio sembra che le finan-ze del Marcacci non fossero floride, mentre Maria Teresa, la quale vantava tra isuoi antenati il cardinale Carlo Stefano Ciceri, portava in dote 12.000 lire e forseanche parte di una considerevole collezione di dipinti. In casa Ciceri a Como ilconte Camillo, parente di Maria Teresa, aveva radunato un’importante quadre-ria97, lasciata in eredità al nipote Giovanni Antonio Marcacci (1769-1854), ultimoesponente della nobile casata98. Console svizzero nel Lombardo-Veneto, a lungoresidente a Milano, alla sua morte donò alla città di Locarno il palazzo di fami-glia, ora sede del comune, e la sua cospicua collezione di armi e dipinti le cui trac-ce si estinsero definitivamente tramite le vendite all’asta perpetrate dal Comunenel corso del Novecento99.

Non siamo neppure in grado di valutare se vi sia qualche legame tra le vicendedegli eredi di Giovanni Serodine, quelle del collezionismo dei Borrani e dei Mar-cacci e la presenza ad Ascona di alcuni dipinti dal marcato carattere naturalisti-co, che attestano l’attenzione maturata nel clima artistico lacuale per l’opera diCaravaggio e per le istanze luministiche presenti nella Città eterna nella primametà del Seicento. Il San Filippo, attribuito all’atelier di Domenico Fetti (cat. 15)e la Guarigione dell’ossesso (fig. 15)100 fanno oggi parte della quadreria del colle-gio Papio di Ascona, composta da dipinti di varie epoche. Le complesse vicende

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fig. 15. Pittore caravaggesco di areameridionale, Guarigione dell’ossesso,1615 circa. Ascona, collegio Papio

fig. 16. Pittore lombardo-piemontese,Visione di san Pietro a Giaffa,particolare, 1640 circa.Ascona, Casa parrocchiale

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storiche e i numerosi passaggi di gestione dell’edificio che li ospita impedisconodi formulare una chiara ipotesi circa la loro provenienza101, anche se nel secondocaso è probabile possa valere l’indicazione proposta nel catalogo della mostra diSerodine del 1950, che lo vedeva esposto al n. 14 con una collocazione nella chie-sa parrocchiale di Ascona102. L’impronta radicalmente caravaggesca di questodipinto emerge – ancor più che dalle pose concitate degli astanti, dai netti taglichiaroscurali o dall’impostazione compositiva dell’immagine, tutta risolta entroil primo piano – nella tipologia del volto dell’armigero incorniciato dalle bracciaalzate dell’indemoniato, che sembra voler scimmiottare un ritratto dello stessoMerisi. Nell’impossibilità di una visione diretta, risulta arduo pervenire a unadatazione precisa e soprattutto definire una delimitazione geografica pertinentea questa curiosa traduzione del soggetto evangelico103, nella quale trapela la venagrottesca e vernacolare del suo anonimo interprete, forse esponente della cultu-ra pittorica partenopea dei primi decenni del Seicento.Alcuni dipinti conservati fino almeno al 1987 nella sagrestia della parrocchialeasconese attestano invece il culto per san Pietro104, patrono di Ascona. Meritauna menzione almeno la Visione di san Pietro a Giaffa (fig. 16), oggi conservatanella Casa parrocchiale105, non tanto per gli agganci con la pittura naturalistaromana, quanto per l’impiego, almeno nella parte superiore dell’opera, di unductus pittorico scarno e veloce risolto per rapide stesure di bruni e di ocra,volto ad abbozzare uno zoo immaginario composto da felini, uccelli e gazzelle,che oltre a tradire il contenuto iconografico della scena106, ricorda latamente lafuria espressiva di Giovanni Serodine. Se il paesaggio al crepuscolo scorto allespalle della figura seduta in primo piano sembra alludere a un contatto tra l’a-nonimo artista e una pittura atmosferica di matrice bolognese largamente diffu-sa anche in ambito romano, soprattutto negli anni quaranta del Seicento, lacaratterizzazione sommaria dell’anatomia del santo rivela agganci con la più cor-siva corrente espressiva lombardo-piemontese.Nella sagrestia asconese era conservata anche una replica di primo Seicento del-l’Incredulità di san Tommaso di Caravaggio107 (fig. 17), il cui originale realizzatoa Roma per i Giustiniani è oggi quasi unanimemente riconosciuto nell’esempla-re conservato alla Bildergalerie del castello di San Soucis a Postdam, presso Ber-lino108, onorato nei secoli del maggior numero di repliche conosciute di operedel Merisi109. Il dipinto in questione, di discreta qualità e oggi esposto nel MuseoParrocchiale della cittadina sul Verbano, ha avuto addirittura l’onore di vedersiattribuito in passato se non il nome dello stesso Caravaggio, almeno quello diGiovanni Serodine110. Pur non sussistendo dubbi circa l’estraneità dell’opera allamano dell’artista asconese, in quanto “la conduzione pittorica denuncia […] unpaziente lavoro di rifinitura estraneo al vigoroso tratteggio del Serodine”111,rimane pur sempre il dubbio di una provenienza direttamente da Roma, dove –è stato più volte ribadito – dovette ben presto organizzarsi un vero e propriomercato delle opere del Merisi, a stretto uso e consumo dei proprietari e incen-tivato alla morte dello stesso dall’amico, collega e “socio” Prospero Orsi112.

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Se il nome di Serodine doveva essere all’epoca di Füssli poco conosciuto, sem-bra non lo fosse affatto nei territori costituenti l’attuale Cantone Ticino quello diCaravaggio, citato a più riprese in diversi nuclei collezionistici, di cui conoscia-mo gli elenchi solo a partire dal Settecento113.È noto l’interesse della famiglia comasca dei Turconi114 per la pittura del Seicen-to grazie alla pubblicazione di diversi inventari della loro villa di Loverciano115,presso Castel San Pietro, che danno conto di una cospicua quadreria, compostanel 1806 da ben 270 pezzi116. A Castel San Pietro eressero una prima dimora,attestata già nel 1602, dove viveva Ludovico Turconi117, che venne ampliata tra il1671 e il 1723, verosimilmente dagli architetti Agostino e Carlo Francesco Silva,su commissione del conte Ippolito118. È probabile che sia da mettere in relazioneai lavori di ampliamento della dimora il primo inventario della collezione, redat-to alla fine del Seicento, dove vengono enumerati e descritti 133 dipinti, chepalesano le preferenze tematiche dei collezionisti, rivolte soprattutto alla ritratti-stica, a vedute e battaglie, ma anche a temi di carattere religioso. Suscitano inte-resse gli unici tre autori citati, tutti di area lombarda119, e un “Quadro in piedi dimezza figura con cornice nera rap. Il gran Turco con arco e frezze”, nel quale giàa Giuseppe Martinola era piaciuto riconoscere l’esemplare firmato e datato daPier Francesco Mola oggi al Louvre120. Il dipinto, attestato a Firenze nel 1775,passò alla fine del Settecento in Francia, dove rimase fino all’acquisto effettuatodal museo parigino nel 1948121. Pochi i temi che sarebbero potuti piacere a Cara-vaggio e ai suoi seguaci, se si escludono le figure a mezzo busto di guerrieri “conasta in spala” e “con spada e scudo” e l’“amore che dorme”. A un secolo didistanza i gusti erano già mutati, in quanto in una Nota e stima de quadri prezio-si fatti dal S.re Gio. Batta. Bagutti, risalente al 1777 circa compariva un quadro“rapr.te uno galetto di gusto di Michel Angelo da Caravaggio”122.

Non è completamente impossibile trovare casi di collezionismo neppure daparte dei funzionari stanziati stabilmente sul territorio, spesso accusati di grossi

fig. 17. Pittore caravaggescoromano?, Incredulitàdi san Tommaso(da Caravaggio). Ascona,Museo parrocchiale

abusi nell’amministrazione della giustizia e della pressione fiscale, con il sospet-to che molti di loro sfruttassero la situazione a danno della popolazione accu-mulando ingenti somme di danaro123. I Beroldinghen, ad esempio, membri del-l’aristocrazia urana e coinvolti nella commissione della serie di teleri affidati allacura di Francesco Innocenzo Torriani nella cappella di Sant’Antonio delladistrutta chiesa conventuale di San Francesco a Lugano124, furono possessori diuna cospicua collezione di dipinti, di cui purtroppo non conosciamo gli inven-tari, stimata da “Antonio Odescalco pittore di Como” nel 1715 e poi parzial-mente dispersa125.È noto anche il caso dell’interesse per la pittura contemporanea del capitanoGian Giacomo Troger, originario di Altdorf, nel Canton Uri, che fu personaggiodi primo piano nella vita pubblica di Mendrisio, poiché mantenne per circa unquarantennio la carica di cancelliere del Baliaggio. Sposò nel 1622 PellegrinaPerina, di Scaria, in Val d’Intelvi – vedova di Agostino Torriani, cancelliere dellacomunità e notaio del lanfogto –, che legò con lui il proprio nome alle più impor-tanti fabbriche ecclesiastiche della cittadina126. La loro devozione nei confrontidella chiesa del convento dei Cappuccini di Mendrisio, eretta tra il 1621 e il1625, si era già manifestata con la donazione delle due tele originariamente postea fianco dell’altare maggiore: nel 1638 quella con San Felice da Cantalice riceve ilBambino dalle braccia della Vergine, di anonimo pittore ligure, e nel 1655 conL’apparizione di Gesù Bambino a sant’Antonio Patavino di Francesco Torriani127.Anche la sua attività collezionistica è testimoniata dal lascito testamentario infavore del convento, del 1666128, nel quale compaiono la Natività, del “nostro”Maestro della Natività di Mendrisio (cat. 19) ma anche due copie da due celebricomposizioni di Andrea Del Sarto129 e i due dipinti assegnabili a Fra Semplice daVerona (cat. 25-26).

Converrà tornare a parlare presto di collezionismo nelle terre ticinesi in epocamoderna, in riferimento, ad esempio, alle quadrerie di Francesco Torriani e deiGhiringhelli a Mendrisio130, dei Porta a Manno e dei Fossati a Morcote. Ma saràtema per approfondimenti futuri.

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1 Brentani 1937-1963.2 Si vedano soprattutto i rilevamenti documentari eterritoriali di Piero Bianconi nelle Valli superioridel Cantone (Bianconi 1948), di Giuseppe Marti-nola, le cui indagini sono confluite negli “Inventa-ri” del patrimonio storico-artistico del Mendrisiot-to (Martinola 1975; un indice dei suoi scritti inAgliati 1988) e di Virgilio Gilardoni per Bellinzo-nese, Locarnese e Gambarogno (Gilardoni 1955;1972; 1979b; 1983).3 Va all’esposizione dedicata dal Museo Cantonaled’Arte di Lugano nel 1989 a Pier Francesco Mola– che offriva uno spaccato della situazione pittori-ca sottocenerina all’epoca del momentaneo ritornoin patria, nel 1641, del pittore originario di Col-drerio – il merito di essersi fatta carico della primaindagine relativa alla pittura del Seicento nellaparte meridionale del Cantone. Si veda Bianchi1989; Damiani 1989; Natale 1989. Ad essa sonoseguiti studi confluiti nel volume dedicato dallaFondazione Cariplo alla pittura a Como e nel Can-tone Ticino (in particolare Bianchi 1994b; Damia-ni Cabrini 1994).4 Seicento ritrovato 1996; la collana “Artisti deiLaghi. Itinerari Europei”, che ha visto il suo esor-dio nel 1994 con un volume dedicato alla famigliaColomba (cfr. Pedrini-Stanga 1994) e i numerimonografici della rivista “Arte e Storia” sulla pre-senza degli “Svizzeri” in varie regioni italiane.5Una panoramica del fenomeno in Damiani Cabri-ni 2000.6 Shütze, Willette 1992, pp. 192, 237-238.7 Sull’ancora per certi versi misteriosa personalitàdel Ricca, Spinosa 2010, pp. 377-378. Per Palum-bo, si vedano Porzio 2006, Porzio 2008.8 Per la presenza di Camillo Procaccini a Riva SanVitale, si veda, da ultimo, Cardani Vergani, Damia-ni Cabrini 2006; Damiani Cabrini 2007, conbibliografia.9 Per tutti gli aspetti relativi alla prima attività del-l’artista bolognese, Camillo Procaccini 2007.10 Lomazzo 1589.11 Cfr. Camillo Procaccini 2007.12 Tantillo 1989, pp. 202-204.13 Databile al 1640. Bartoletti, Damiani Cabrini1997, pp. 173-177, con bibliografia.14 Natale 1989, p. 97.15 Il 1633 è l’anno di costituzione della confrater-nita. Si veda, per ultimo, A. Gilardi, in Mendrisio2006, pp. 114-116 n. 8, con bibliografia prece-dente.16 La scrivente ha abbracciato in passato la tesi delcoinvolgimento di un artista diverso nello Stendar-do di Monte, pensando ad addentellati, che ancoraoggi non si possono comunque del tutto sottacere,con la cultura pittorica ligure. Cfr. L. DamianiCabrini 1992, in Mendrisio 1992-1993, pp. 29-31,n. 6; Eadem, in Pittura a Como 1994, pp. 320-321.17Natale 1989, p. 97; Damiani 1989, pp. 335-337;L. Damiani Cabrini, in Mendrisio 1992-1993, pp.24-26 nn. 3-4, e in Pittura a Como 1994, pp. 320-321.

18 Per il quale, Martinola 1958, pp. 34-35; Gilardi2006a.19 È già stata segnalata la presenza nell’Archiviocomunale di Mendrisio (Fondo Cappuccini, sc. 1b.,fasc. 1b), dell’opinione sulla Natività espressa nel1948 dal critico, secondo cui l’opera apparterreb-be alla produzione di un caravaggesco lombardo-piemontese e, più precisamente, alla tarda attivitàdi Giuseppe Vermiglio: L. Damiani Cabrini, inMendrisio 1992-1993, p. 26 n. 9.20La tela, segnalata da Andrea Spiriti con un’attri-buzione a Camillo Procaccini (Spiriti 1999, p.312), è stata ricondotta al Maestro della Natività inDamiani Cabrini 2006.21Terzaghi 1997.22Per le vicende attributive relative alla tela appar-tenuta alle collezioni americane dal 1927 al 1979, siveda R. Lattuada, in Roma/New York/Saint Louis2001-2002 [ed. it], pp. 380-381, fig. 132; Lattuada2005, pp. 82-84, 95 n. 8. L’opera, di cui non siconosce l’attuale collocazione, deve avere godutoin anni recenti di buona fortuna iconografica, per-ché ritrovabile a guisa di illustrazione in una seriedi siti web americani di varia natura, con l’anticaattribuzione a Pacecco de’ Rosa.23 L. Damiani Cabrini, in Pittura a Como 1994, p.330.24 Per il profilo di questo anonimo maestro si vedalo studio di Ferdinando Bologna (1991), che gli hadato appunto il nome di “Maestro dell’Emmaus diSarasota”.25 Il dipinto è passato a un’asta Semenzato delnovembre 1989 (n. 17) con un’emblematica attri-buzione a Guy François e successivamente attri-buito al Torriani dalla scrivente: cfr. DamianiCabrini 2006.26La tela, benché recentemente restaurata, non sipresenta in buone condizioni di conservazione. Èstata pubblicata senza una precisa indicazione cro-nologica e attributiva in Zastrow 2002, pp. 152-154.27 A. Gilardi, in Mendrisio 2006, pp. 120-121 n. 10.28 Conosciuta grazie a una segnalazione di SimonaCapelli. Anche Aiani, Malinverno, Rovi 2012. p. 15.29 L. Damiani Cabrini, in Mendrisio 2006, pp. 109-111 n. 6.30 Martinola 1958.31 A. Gilardi, in Mendrisio 2006, pp. 112-113 n. 732 Per le vicende critiche relative ai due dipinti,Damiani Cabrini 2006, pp. 36, 84 nota 26; Eadem,in Mendrisio 2006, pp. 114-116 n. 8.33 Per il quale: Gian Domenico Cerrini 2005.34 Cattori 1930; Brambilla Di Civesio, Brambilla DiCivesio, Piceni 1995.35 Il Seicento a Como 1989. Sul convento domeni-cano, in particolare, Rizzini 1989; Rovi 1989b, p.68.36 Giovio 1795; Lanzi 2000, ad indicem.37 Anche Marazzi 1980; Catelli, Pini 1997; Rovi2005.38 Basti citare il San Michele Arcangelo e Tobiolo,conservato nella parrocchiale di San Michele

Arcangelo a Sagno, di scuola lombarda, acquistatonel 1783 “dai Padri di San Giovanni Fuori lemura” per lire 35 (Martinola 1975, p. 485) e laResurrezione di Lazzaro di Giovan Battista e Gio-vanni Paolo Recchi, donata alla chiesa Parrocchia-le di Chiggiogna (D. Pescarmona, in Pittura aComo 1994, p. 312).39 Damiani Cabrini 2006, pp. 36, 84 nota 26;Eadem, in Mendrisio 2006, pp. 114-116 n. 8.40 Archivio di Stato di Milano, Fondo Religione,Amministrazione, cart. 1758, f. 7. Elenco de’ quadriesistenti nella chiesa e convento de GG Domenicanidi S.Gio Battista ed Evangelista fuori e presso lemura di Como: “Alla porta. Quadri laterali grandiuno rappresentante S. Domenico in Soriano e l’al-tro la Vergine composta a S. Domenico con corni-ce di legno a colori d’orata”. Stranamente il dipin-to non viene citato da Martinola 1975.41 Cfr. Rizzini 1989, p. 90 n. 28.42 Per tutte le informazioni relative all’attuale edifi-cio, Martinola 1975, pp. 162-165.43 Per il quale, cfr. Devitini 2008, con bibliografia.44 Per l’opera, cfr. F. Cervini, in Restauri 1995, pp.127-130 n. 11.45 118 × 93 cm.46 130 × 93,5 cm. Casella 1922, p. 39, tav. XV.47 Edoardo Agustoni mi informa dei passaggi diproprietà del dipinto: nel 1939 era citato nella par-rocchiale di Rovio (cfr. Mostra del ’600 e ’7001939). Passato nelle mani di Giacomo Conza, fuereditato dalla famiglia Gaggini che la donò, pro-babilmente tra gli anni settanta e ottanta del Nove-cento, alla chiesa degli Angeli.48 272 × 183 cm. Judson, Ekkart 1999, pp. 6-8, 10-11, 81 nota 58, datano l’opera al 1618, elencandonon meno di ventotto repliche tra dipinti, disegnie traduzioni a stampa; cfr. anche Papi 1999, pp.135-137, che anticipa la realizzazione dell’opera al1615. Per un riepilogo della vicenda critica, S.Danesi Squarzina, in Caravaggio e i Giustiniani2001, pp. 314-315 n. D15.49 Hoogewerff 1924, p. 6.50 Per la ricostruzione critica dell’operato del pitto-re di Rovio, Giovanni Battista Bagutti 1994.51 Olio su tela, 112 × 162 cm.52 Un sunto della tormentata commissione, cheobbligò anche Saraceni alla realizzazione di unaseconda versione del dipinto, in Ottani Cavina1968, pp. 118-119 nota 69; 127-128 nota 92; Bre-jon de Lavergnée, Loire 1990.53Gilardi 2006b, pp. 70-71. A cui si deve anche l’a-nalisi critica dell’opera.54Nel 1619 Jan Leclerc ne trasse un’acquaforte oraal British Museum di Londra.55 Damiani Cabrini 2006.56 Martinola 1975, pp. 289, 298.57 Brissago 1950, n. 15.58 Chiesa 1934, p. LIV, tav. 95: “La porticinabarocca riprodotta in questa tavola si trova nellaVilla Sassa e si trova nel villino separato che oraaccoglie una galleria di quadri”; Camponovo,Chiesa 1969, p. 241: “La villa, dalla torretta a fine-

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stre, mostra un solo fianco dal colore gialliccio edè separata dall’altra dal colore marrone, dove ilpiano rialzato accoglieva una pregevole quadreria,di cui sono rimasti in mente fra altri, due Serodi-ne, ora rispettivamente al Museo di Belle Arti Cac-cia nella Villa Ciani e alla Pinacoteca GiovanniZüst di Rancate”.59 Robbiani 1970, pp. 103, 123, 192, 217, 249 e 289.Anche Pometta, Chiesa, Maestrini 1975, p. 43.60 Pasqualigo 1855, p. 183; Grassi 1883, p. 43;Chiesa 1934, p. LIV, tav. 95; Camponovo, Chiesa1969, p. 241; INSA 1991, pp. 248, 249, 342.61 Pasqualigo 1855, p. 183.62 “Giornale del Popolo”, 28 aprile 1943.63 Martinola 1943, p. 94; Marti-Weissenbach 2008,pp. 45-46.64 Lienhard Riva 1945, p. 238.65 Codogno, 17 luglio 1843 - Lugano, 27 marzo1899. Cfr. anche Esposizione Nazionale 1896, pp.83-84; Necrologio 1899, p. 44.66 Ricerche compiute nell’Ufficio Anagrafe diCodogno da Fabrizio Redaelli, a cui va la nostrariconoscenza.67Marco Saroli 1930.68 L’interessante carteggio dell’antiquario e storicodell’arte Ugo Donati è stato catalogato da AnitaGuglielmetti e messo a disposizione per le ricercheda Stefano Donati, a cui va il nostro ringraziamen-to. In particolare: Lettera di Ugo Donati all’avvo-cato Ottorino Arborio del 22 agosto 1945, in cuil’antiquario offre 11.470 franchi per i seguenti“pezzi”; “N. 18 Madonna su tavola con cornice eputti fr. 1900.- / 19 Madonna su tela con cornicericca 700.- / 14 Sacra Famiglia grande 3000.- / Figu-ra di donna allo specchio 350.- / Bozzetto veneziano150.- / Ritratto di Signora con libro 170 / 22 Cristoderiso, copia di Gherardo 2500 / 9 Sacra Famigliaattribuita al Serodine 1400.- / Due tavolette tede-sche 1300 -. Con questa offerta […] a lei restereb-be il San Pietro del Serodine, cioè il pezzo fortedella collezione, e tantissimi altri quadri, che ven-duti alla spicciolata frutterebbero di più”. Oltre aquelli menzionati nel testo, facevano parte dellacollezione anche alcune opere presenti nel Catalo-go dell’Esposizione ticinese di Arte Sacra del 1903,di cui si menziona quale proprietaria la madredella suddetta Luigia: p. 14, “dipinto sul legno,proprietà della signora Marta Greco Luvini Perse-ghini, Lugano […] tavoletta dipinta in legno”; p.17, “Madonna col bambino”.69 Cfr., anche, Brissago 1950, n. 5: “‘San Pietro (ofilosofo in meditazione)’, Rancate, Sig. GiovanniZüst, già nella Quadreria Grecchi Luvini”.70 Per un approfondimento circa la vendita deidipinti di Serodine e i successivi passaggi di pro-prietà, si vedano le relative schede qui in catalogo.71 Depositato il 9 aprile 1936 e in seguito donato:Archivio storico della Città di Lugano, CarteggioCommissione Caccia, 17 maggio 1938: “…lasignora Luisa Saroli nata Grecchi Luvini, ha fattodono al Museo (Fondazione Caccia) del quadro‘Figura di Santo’ [‘Ritratto del padre’] di Giovan-

ni Serodine che figurava già in deposito al Museo”.72 Archivio storico della Città di Lugano, CarteggioCommissione Caccia, 22 febbraio 1930: la Com-missione della Fondazione Caccia si reca a VillaSassa dove ammira i quadri di Marta GrecchiLuvini e chiede alla Sig.ra se può prestare al Museodi Lugano un quadro di Serodine; 26 febbraio1930: Marta Grecchi Luvini risponde attraversol’avvocato Antonio Bolzani in termini negativi, inquanto: “Suo desiderio, anzi, sua volontà esplicita(che ha assunto col tempo quasi carattere di unobbligo morale) è quella che la galleria di quadri,ammirata giustamente da codesta Lod. Commis-sione, rimanga intatta e inalterata insino alla suamorte”.73 Locarno 1938, tav. XIV , come collezione LuigiaGreco Saroli Luvini Perseghini; D. Caverzasio, inGiuseppe Antonio Petrini 1991, pp. 148-149 n. 21.74 L’oratorio venne benedetto nel 1740; cfr. Coppa1997, pp. 83-86; D. Caverzasio, in Giuseppe Anto-nio Petrini 1991, pp. 150-151 n. 22.75 Maria Maddalena, olio su tela, 92,5 × 121,2 cm,Puerto Rico, Museo de Arte de Ponce, cat.62.0335. Cfr. Held 1965, pp. 11-12; Held, Taylor,Carder 1984, p. 20.76 De Boer 1958: segnalata come “French school17th Century”; Notable works 1958, tav X; Nicol-son 1990, pp. 61-62, la menziona quale pendantdel San Gerolamo immerso nella lettura, attribuitoallo stesso artista di cui segnala tre diverse versioni.Per un sunto della complessa questione relativaalla costituzione del catalogo dell’artista provenza-le, Prohaska 2010.77 “Corriere del Ticino”, 1 e 5 maggio 1943.78 “Corriere del Ticino”, 9 ottobre 1953: “Secondonostre informazioni il castello di Sassa già apparte-nente al col. Giacomo Luvini Perseghini è statovenduto al Signor Giussani, il terreno sottostantenella parte che resta da vendere appartiene al ven-ditore avv. Arborio, uno degli eredi della sostanzaGrecchi Luvini”.79 Bellinzona, Ufficio Beni Culturali, Carteggiocommissione monumenti storici: Lettera dell’11ottobre 1957. La commissione risponde alla letteradel 16 settembre 1957 dell’avvocato OttorinoArborio, nella quale egli chiedeva se il Cristo deri-so iscritto nell’elenco dei Monumenti Storici delCantone Ticino il 10 febbraio 1948 – decisionecontro la quale aveva fatto ricorso – continuasse inquella data a essere presente nell’elenco delleopere tutelate. Nella stessa missiva si fa presenteche nel 1948 era stata richiesta una perizia a Lon-ghi, mai pervenuta, ma che lo studioso fiorentinoaveva avuto modo di vedere l’opera nel corso del-l’esposizione di Brissago del 1950, escludendo lapaternità di Serodine.80 Bellinzona, Ufficio Beni Culturali, Carteggiocommissione monumenti storici: Lettera del 30ottobre 1957. La Commissione dei monumentiaccetta l’annullamento dell’iscrizione della tela dal-l’elenco delle opere tutelate, poiché: “1. È da esclu-dere che sia opera di Serodine. 2. Il valore intrin-

seco della tela, non risulta da corrispondere all’art.2 della legge del 15 aprile 1946, il quale prescriveche potranno essere dichiarati monumenti solo inquanto la loro perdita od esportazione arrechino,per il loro grande pregio, un danno grave al patri-monio artistico ed alla storia del Cantone”.81 Anche nel contesto ticinese, esclusa la cerchiadegli “intendenti d’arte”, il nome del pittore nondoveva essere particolarmente noto alla fine delXIX secolo, viste le considerazioni espresse da ungiornalista di “La Libertà” il 19 settembre 1891,al cospetto delle opere di Serodine esposte all’“Esposizione retrospettiva dell’arte ticinese”:“All’esposizione retrospettiva dell’arte ticinese,per la magistrale vigoria del tocco, il vecchio qua-dro del Cav. Giovanni Serodino, pittore di scuolaveneziana, di cui varrebbe la pena di renderpopolare nel Ticino la biografia, essendo questonome ci torna nuovo pressoché a tutti”.82 Il codicillo testamentario (che è stato impossi-bile rintracciare), datato 18 dicembre 1631, furogato a Minusio dal Notaio Andrea Vicari. Cfr.Borrani 1924; Crivelli 1938, p. 124.83 Si veda il testamento di Giovanni rogato aRoma il 21 dicembre 1630, giorno del suo deces-so. Cfr. Corradini 1987, p. 145.84 Il 2 giugno 1631 Cristoforo Serodine redige aRoma l’inventario dei suoi beni, che cede allanuora Lucia Viola (vedova del fratello di Serodi-ne, Giovan Battista, deceduto qualche annoprima e risposatasi nel frattempo col romanoRocco Porcari), in cui vengono menzionati 25quadri (Archivio di Stato di Roma, 30 Not.Capit., uff. 18, vol. 20, Lorenzo Bonincontro, f.433). Cfr. Corradini 1987, p. 145.85 Come indica questo atto notarile rintracciato daAlfredo Poncini (che ringrazio per la preziosa col-laborazione) nell’Archivio Patriziale di Ascona,Notaio: “Jacobus Antonius, filius quondam Johan-nis Baptistae Alidi di Ascona”, datato 1655 giugno28, in cui “Johannes Baptista Serodine”, figlionaturale del cavaliere “Johannes Serodine” ederede testamentario “pro medietate” di suo nonnopaterno Cristoforo Serodine, cede a “JohannesPetrus Duno” 150 scudi (di 6 lire imperiali l’uno).Questa somma rappresenta una parte della suaquota di credito di 1’100 scudi verso il Comune(atto rogato il 6 dicembre 1631), pervenutagli dalladivisione ereditaria fatta con l’arciprete AndreaSerodine, pure lui erede di Cristoforo Serodine.86 Giovan Battista visse a Muralto, come si evinceda questo atto rintracciato da Alfredo Poncini nel-l’Archivio Patriziale di Ascona, Notaio “JohannesMaria Varena, filius domini Damiani”, di Locar-no. “l655 novembre 2 . Johannes Baptista Serodi-nus” di Ascona, abitante a Consiglio Mezzano,assegna a “Philippus Abundius” un credito di 70scudi (di 6 lire imperiali l’uno) verso il Comune diAscona.87 Archivio Parrocchiale di Locarno, Libro deiMorti dal 1671: è citato come defunto GiovanBattista Serodine fu Giovanni (figlio illegittimo),

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senza essere specificata la data di morte. Le noteconservate nell’Archivio dell’Ufficio dei Beni Cul-turali di Bellinzona (Scatole riguardanti GiovanniSerodine, dove sono radunati diversi documentioriginali e notizie inerenti la famiglia del pittore,probabilmente collazionati dall’arciprete di Asco-na Siro Borrani) menzionano un “Libro dei Ver-bali dei Vicini di Ascona” (di cui si è persa trac-cia), in cui Giovan Battista compare nel 1633, nel1634, in relazione a un lascito di quadri, e nel 1665e 1671, a riguardo di una presunta demolizione dicasa Serodine ad Ascona.88 Archivio Ufficio Beni Culturali Bellinzona, Sca-tole con documenti riguardanti Giovanni Serodi-ne: Giovan Battista Serodine sposa il 30 aprile1647 Maddalena Marta fu Antonio Barazzi. Figlidella coppia: 5 settembre 1648 Giovan Andrea; 2agosto 1650 Giovan Luigi; 10 maggio 1642 Gio-van Battista; 8 settembre 1654 Caterina e 14 gen-naio 1657 Cristoforo. Da quanto si evince dallalettura di queste trascrizioni Giovan Battista sem-bra poi essersi risposato con Marta (1642-1712). Il14 novembre 1712 muore infatti a Locarno MartaSerodine, d’anni 70, moglie di Giovan BattistaSerodine (figlio illegittimo). Sepolta in San Fran-cesco di Locarno.89 Füssli 1774, p. 28.90 Per le vicissitudini inerenti questa collezione,Gilardoni 1972, pp. 150-152.91 Longhi 1954, pp. 22, 33-34. Per la discussionecritica relativa al Santo che scrive della GalleriaEstense si veda R. Contini, in Rancate 1993, p. 124n. 10. Per il San Giovanni della Galleria Sabaudadi Torino, G. Spione, in La buona ventura 2003,pp. 20-21 n. 2.92 Ninguarda 1898, I, p. 204. Anche Gilardoni1972, p. 350 n. 7.93 Archivio di Stato di Milano, Araldica, cart. n. 93,Libri dei Battesimi della collegiata di San Vittore aMuralto: “1630 adì 27 novembre. Giò Antoniofiglio del nobile Sig.e Fiscale Carlo Marcacci edella nobile Sig.ra Giulia Trevani legitimi diLocarno è stato battezzato da me arciprete Sero-dino compatre fu l.Ill.mo Sig.re Commisarioregente e la nobile Sig.ra Veronica moglie delnobile Sig.re locotente Cristoforo Orello”.94 Gilardoni 1983, pp. 268-269.95 La famiglia Marcacci 1881, pp. 183-187: “Lafamiglia fu ascritta alla Corporazione dei Borghe-si, esercitò juspatronato nella Collegiata, allaMadonna del Sasso (cappella dell’Assunta) ed inS. Antonio (cappella di S. Gregorio). Le reliquieche vi si custodiscono furono donate alla dettachiesa nel 1685 dal barone Gian Antonio Marcac-ci. […] La famiglia, per vantaggiosi matrimonj,inquartò il suo stemma con quelli dei Morigia, deiLocatelli, dei Carati, dei Velasco e meglio deiCiceri di Como”. Anche Schneider 2010.96 Per la figura di Carlo Francesco Maria Marcacci,Schneider 2010, pp. 8-13.97 Il conte Camillo Ciceri possedeva una ricca col-lezione di quadri, ricordati nelle fonti dell’epoca:

due grandi tele raffiguranti due Apostoli, attribui-te ad Agostino Carracci, due Battaglie attribuite aJacques Courtois, detto il Borgognone, un Con-certo d’angeli attribuito a Bernardino Luini o aEnea Salmeggia, una Madonna col Bambino, san-t’Agnese e un’ancella riferita a Raffaello o al Peru-gino, un’altra Madonna attribuita a LorenzoLotto e un Banchetto, all’epoca ritenuto di Hol-bein, che dopo vari passaggi di proprietà è statodonato nel 1966 ai Musei Civici di Como ed è oraritenuto opera dell’artista fiammingo AmbrosiusBenson. Cfr. Bertolotti 1821, pp. 2, 35-36, 322;Idem 1818, p. 256.98 Alla morte del Ciceri, nel 1823, gli oggetti d’artee gli strumenti furono ereditati dal nipote Giovan-ni Antonio Marcacci. Questi vendette i dipinti etrasportò alcuni violini a Milano; altri li cedette inloco, così che gli strumenti dell’Amati e dello Stei-ner furono comprati da Giosuè Tagliabue, maestrodi cappella della cattedrale comasca. Il palazzovenne invece acquistato dal capomastro Carlo Fer-rario, che procedette alla ristrutturazione della fac-ciata. Cfr. Como e la sua storia 1994, pp. 120-121;Schneider 2010, pp. 236-237.99 Nei documenti del Fondo Marcacci citati dalloSchneider, conservati nell’Archivio Comunale diLocarno (RM n. 12), compare alla data 4 giugno1858 una vendita di dipinti; ivi, p. 316 n. 65.100 96 × 134 cm. L’opera è stata rintracciata nell’In-ventario dell’Ufficio Beni Culturali di Bellinzona(Ascona, Collegio Papio, scheda A51. Colgo l’oc-casione per ringraziare della cortese disponibilitàGiulio Foletti e Katja Bigger del servizio Inventa-rio), segnalata all’interno della cosiddetta “SalaRossa”. Non è stato però possibile visionarla.101 Per la storia dell’edificio, Zucconi-Poncini 2012,pp. 34-47.102 Brissago 1950, n. 14.103 Marco 5: 1-9.104 Si veda anche il Pentimento di Pietro (olio sutela, 90 × 70 cm), con scheda in R. Chiappini, inLocarno/Roma 1987, p. 126 n. 21: strano mélangestilistico che rimanda all’ambito di bottega del pit-tore fiammingo Gerard Seghers (Anversa, 1591-1651) nella sua ultima fase rubensiana.105 Olio su tela, 169 × 83 cm. Cfr. R. Chiappini, inLocarno/Roma 1987, p. 126 n. 22.106Mentre si trovava a Giaffa Pietro ebbe una visio-ne: vide una grande tovaglia su cui si trovavano ingran quantità alimenti che la Legge diMosè dichia-rava impuri.107 Olio su tela, 95 × 133 cm.108 Per un sunto delle vicende relative al dipinto diCaravaggio, S. Danesi Squarzina, in Caravaggio e iGiustiniani 2001, pp. 278-280 n. D2.109 Per le repliche del dipinto Giustiniani rilevate inarea piemontese, Caretta 2011, pp. 44-48. È dasegnalare anche la copia di buona qualità conser-vata alla Pinacoteca Züst di Rancate (61 × 75,5 cm;inv. PZ 408), donata al museo da Gino e GiannaMacconi nel 2002.110 Locarno 1938, p. 45 n. 18; Lugano 1979, n. 101.

111 R. Chiappini, in Locarno/Roma 1987, p. 126 n.19.112 Spezzaferro 2002, pp. 23-50; Terzaghi 2009, pp.88-108.113 Per un’efficace sintesi delle dinamiche inerenti ilcollezionismo in Ticino tra Sette e Ottocento,Bianchi 2001, pp. 275-291, 400-402.114 Il ramo della famiglia residente nel Mendrisiot-to ha origine con Ludovico e si estinguerà nel 1805con il conte Alfonso Turconi. Ludovico, infatti,che sposerà Rosa Giovio, avrà Alfonso, primo Tur-coni a frequentare regolarmente Castel San Pietro(nel 1588 gli verrà conferita la cittadinanza. Cfr.Martinola 1975, p. 159).115 Esistono almeno quattro inventari della quadre-ria, conservati presso l’Archivio di Stato del Can-tone Ticino, Fondo Archivio Landamano Maggi25, tre dei quali citati da Martinola (1949, pp. 164-167; 1975, p. 162 nota 2) e ripresi da Simona Mar-tinoli e Elfi Rüsch (1993, p. 59). Il primo è databi-le alla fine del Seicento; seguono quello del 1794 el’ultimo datato 1806. Per il quarto inventario, infranota 122.116 Anche Segre 2006b, p. 235117 Medici 1966, p. 95. Per la storia edilizia delpalazzo, Martinoli, Rüsch 1993.118 Ivi, p. 55; anche Segre 2006a, pp. 42-48.119 Cfr. Martinola 1949, pp. 164-167: “David con latesta del Gighante di maniera del sig. Torriano”identificabile con l’esemplare ora conservato pres-so il Museo d’Arte di Mendrisio (Cfr. A. Gilardi, inMendrisio 2006, pp. 160-161 n. 25); un “originaledel Montalto” e un altro di “Carlo Fran. Panfilopittore milanese”.120 Per il riconoscimento del “gran Turco” qualeopera di Mola, cfr. Martinola 1958; Damiani Cabri-ni 2012.121 Per le vicende relative al dipinto del Mola, Lau-reati 1989, p. 162.122 Segnalato e parzialmente pubblicato in Bianchi2001, p. 280.123 Ceschi 1980, pp. 99-100.124 Calderari 2006.125 In quell’epoca la collezione apparteneva a CarloGiuseppe Beroldinghen. Si veda Brentani 1937-1963, V [1944], pp. 128-129.126 Cfr., Martinola 1975, p. 290 nota 3; Medici1980, pp. 352, 368 nota 23.127 Cfr. Medici 1980, p. 349. Per l’attribuzionedella tela al Torriani, L. Damiani Cabrini, in Men-drisio 2006, pp. 114-116 n. 8. Per l’attività colle-zionistica del Troger, anche A. Gilardi, in Mendri-sio 2006, p. 97.128 Baroffio 1879, p. 351, riportava l’erronea data-zione 1667, citata dalla storiografia successiva. Latrascrizione dell’atto in Damiani Cabrini 1989, p.335.129 Riconosciute tali da Mauro Natale. Cfr. Natale1989, p. 93.130 Per la collezione Ghiringhelli, cfr. Martinola1948. Per quella dei Torriani, cfr. Martinola 1958,pp. 6, 30-32; Idem 1980, p. 103.

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Iscrizioni: in alto a destra CAP: IO. IACOBUS TRO-GHER URAÑ / DÑA PEREGRINA COM~ / EIUS CONIUXANNO 1638

Mostre: Mendrisio 1984, n. 19; Lugano 1989, n.V.9; Mendrisio 2006, n. 2; Mendrisio 2010.

Il dipinto – che ha beneficiato di un interventodi restauro nel 1960 a opera di Bruno Abbiati(Martinola 1975, p. 103) – offre agli occhi dellospettatore l’immagine di una canonica Natività,che vede schierati, su un medesimo asse diago-nale, un pastorello posto di schiena in primopiano, la Vergine, al centro della composizione,intenta a sollevare le falde del velo che avvolgel’Infante, e il san Giuseppe con le mani incrocia-te appoggiate all’estremità di un bastone. Chiu-dono il fondale della scena una capanna immer-sa nelle tenebre – evocata dal tetto di pagliasovrastante gli astanti – e i profili ingombrantidel bue e dell’asino. In alto, a destra, oltre alladata 1638, sono stati apposti gli stemmi dellecasate Troger e Perini: i coniugi che donarono ildipinto alla chiesa dei Cappuccini di Mendrisionel 1666 (per tutte le notizie riguardanti il capi-tano Troger e il suo lascito, si veda cat. 25-26).Dal momento della soppressione del convento,la tela è passata sotto la tutela dell’Ospedaledella Beata Vergine. La lunga tradizione criticabasata su di un’affermazione del Baroffio (1879,p. 351), che giudicava questo affascinante emisterioso testo pittorico opera “del celebreGuercino da Cento”, venne sconfessata daldibattito scaturito a seguito delle sue prime pre-sentazioni pubblicche, in occasione delle mostreArte sacra dal XIV al XVII secolo, svoltasi a Men-drisio nel 1984, e di quella luganese dedicata aPier Francesco Mola (Lugano 1989, n. V.9). Ipareri emersi sottolineavano la complessità stili-stica e la difficoltà interpretativa di un quadro dilevatura eccezionale se confrontato alla produ-zione pittorica media locale. Nel catalogo siriportava l’impressione di Giovanni Testori,secondo cui la Natività sarebbe opera di un pit-tore lombardo-piemontese con caratteristiche

Maestro della Natività di Mendrisio(attivo a Mendrisio nel quarto decennio del XVII secolo)

19. Natività, 1630 circa

olio su tela, 135 × 119 cmMendrisio, Ospedale Regionale Beata Vergine

fig. a. Pittore spagnolo?, Natività.Ubicazione sconosciuta

III. TERRITORIO: CANTON TICINO

prossime alla produzione di Giuseppe Vermi-glio, a cui guardava anche Silvano Colombo (inMendrisio 1984) nell’introduzione al catalogo,intravvedendovi però uno stile più arcaico, quasitardo-cinquecentesco. Come già aveva rilevatoRoberto Longhi (di cui è stata segnalata l’opi-nione espressa nel 1948, cfr. L. Damiani Cabri-ni, in Mendrisio 1992-1993, p. 26, n. 9), la for-mulazione compositiva compressa e semplifica-ta, volta alla riscoperta di quelle sacre conversa-zioni lombarde di primo Cinquecento valutatein modo così entusiasta dalla trattatistica federi-ciana, trova punti di tangenza con opere qualil’Adorazione dei pastori, firmata e datata nel1622 da Giuseppe Vermiglio e realizzata per lachiesa conventuale novarese dei Canonici latera-nensi, oggi alla Pinacoteca di Brera a Milano;tanto da far pensare a una presa di contatto del-l’anonimo interprete della Natività con la cultu-ra del lombardo, rilevabile nella precisa descri-zione naturalistica dei tratti fisionomici dei per-sonaggi, facilitata da soffusi scarti luministici.Mauro Natale (1989) vi individuava invece unretroterra culturale di matrice iberica, con parti-colare riferimento alla pittura toledana (PedroOrrente e Alejandro de Loarte), mediato con leistanze di caravaggismo “in chiaro” divulgatenella regione da Orazio Gentileschi (pala dellaVisione dell’angelo da parte dei santi Cecilia, Vale-riano e Tiburzio, già a Como; cat. 29). Il criticoradunava inoltre attorno alla tela altre tre opereda considerarsi del medesimo artefice e oggi con-servate presso il Museo d’Arte di Mendrisio: leSante Lucia e Apollonia eseguite per la chiesa diSan Giovanni (cat. 20-21) e uno stendardo pro-cessionale di proprietà della confraternita delRosario della chiesa di Sant’Antonio a Monte(cfr. fig. 3, del saggio di chi scrive). Nel gruppo siritrovano infatti le medesime tipologie fisionomi-che, estremamente caratterizzate nei minuti visicolti di profilo, lo studio preciso della posturadelle mani scorciate e la stessa intonazione pitto-rica. Associandomi all’opinione di Natale, horibadito a più riprese in passato i debiti della telanei confronti della cultura iberica (Damiani

Cabrini 1989, pp. 335-337; Eadem, in Mendrisio1992-1993, pp. 24-26, nn. 3-4; Eadem, in Pitturaa Como 1994, pp. 320-321), individuandovi unartefice compreso nel novero dei numerosi pitto-ri iberici di passaggio nella Milano del Vicereamespagnolo, alla scoperta dei grandi modelli pitto-rici peninsulari. NellaNatività sembravano abba-stanza palesi, in particolare, gli addentellati conla cultura artistica sivigliana della prima metà delXVII secolo, resi manifesti dall’importanza dataalle moli ingombranti del bue e dell’asino insecondo piano; da quella increspatura della pastapittorica che delinea le carni del vivace Bambinoo, ancora, dall’anomala cuffietta calata sul voltodella Vergine, costituita dalla sovrapposizione divernici pigmentate e contrastante con gli abitidelle figure maschili, delineate da una pitturaestremamente compatta: elementi che oggi misembra invece di poter leggere piuttosto in riferi-mento alla tradizione napoletana (Damiani

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Cabrini 2006, pp. 41-42). Anastasia Gilardi spo-stava più recentemente la problematica in ambi-to locale (in Mendrisio 2006, pp. 97-99, n. 2),sottolineando le affinità stilistiche tra l’opera del-l’anonimo Maestro e quella del giovane France-sco Torriani, mentre Andrea Spiriti (2010, p.151) aggiungeva allo scarno catalogo del pittoreun San Giuseppe col Bambino conservato nell’A-bazia di Pontida che “permette di rafforzare lasottolineatura di Caravaggismo napoletano, indirezione di Battistello e del Maestro dell’An-nuncio ai pastori”.La ricerca di un dettato pittorico minutamentenaturalistico, che invita l’anonimo artista diMendrisio a indugiare sulle rughe e sui capelliricciuti di san Giuseppe e sullo studio delle mani– dalle dita tubolari e smussate – dei personaggi,non può non destare sospetti circa la presa dicontatto con la pittura espressa da GiuseppeVermiglio, e sull’orizzonte culturale, tra Roma,Milano e il Piemonte alle spalle del suo percorsoartistico. Distingue, però, i dipinti dell’anonimomaestro, da quelli del suo alter ego lombardo,una diversa impostazione luministica e spazialedelle scene, avvolte in una calda atmosfera dalsapore neo-veneto che fa vibrare gli incarnati deipersonaggi, creando soffusi passaggi chiaroscu-rali, e un pittoricismo più accentuato, con fortiaddentellati con la cultura pittorica napoletana.Nella Natività si respira infatti un’aria parteno-pea, quando negli antri maleodoranti di Ribera edel Maestro dell’Annuncio ai pastori si insinuaun sentore più mondano, che porta a quella pit-

tura raffinata – in cui il naturalismo caravagge-sco delle origini si fonde con componenti emi-liane e neovenete – propria di Artemisia Genti-leschi, di passaggio a Napoli già nel 1630, diStanzione e dei pittori nati sulla sua scia comeFrancesco Guarino e Pacecco de’ Rosa.Riguardo alla datazione: contrariamente da quan-to più volte espresso dalla scrivente, si deve pen-sare necessariamente a una collocazione di moltoantecedente il 1638, in anticipo rispetto allo Sten-dardo di Monte, databile non prima del 1633 (siveda il saggio di chi scrive, in questo catalogo, fig.3). Non sembra infatti casuale la riproposta all’in-terno della serie dei Misteri del Rosario, chefanno da corona alla figura della Vergine su di unlato dello stendardo, della stessa immagine dellaNatività del nosocomio di Mendrisio, evidente-mente edita dall’anonimo maestro in un periodoprecedente.La fortuna della Natività che qui si discute èsostenuta da almeno tre repliche: una attribuita aFrancesco Torriani di ubicazione sconosciuta (cfr.fig. 6, del saggio citato); un’altra di cui si conser-va una fotografia nella fototeca della FondazioneZeri di Bologna (fig. a), già presso Frederic Monta NewYork, con un’attribuzione al sivigliano Joséde Sarabia (cfr. anche Damiani Cabrini 1989). Unterzo esemplare si trova nella Alte Kirche St.Aegidius a Sisikon nel Canton Uri, fatto eseguirenel 1683, evidentemente a Mendrisio, dalla fami-glia Beroldingen (Gasser 1986, p. 16).

Laura Damiani Cabrini

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Mostre: Zurigo 1945, nn. 43-44; Mendrisio1992-1993, nn. 3-4; Mendrisio 2006, n. 3; Men-drisio 2010.

Costrette in un formato fortemente verticale eaddossate al primo piano, sono affrontate duemonumentali figure di martiri, chiaramenteidentificabili per i simboli esibiti nella manodestra: nella santa Lucia gli occhi, in Apolloniauna tenaglia occorsa all’estrazione dei denti. Sipresentano con piedi scalzi poggianti su di unpavimento a mattonelle bianche e nere degra-danti in prospettiva, avvolte in gonfi manti dallecontrastate cromie, il viso di santa Lucia legger-mente abbassato a nascondere la propria cecità,quello di Apollonia rivolto al cielo. Si rileva,all’altezza del fianco destro di Lucia, la presenzadella sagoma di una mano parzialmente masche-rata da ridipinture e un evidente rifacimentodella mano sinistra di Apollonia: elementi chetestimoniano di un taglio verticale subito dalletele, con la conseguente separazione delle duesante, le quali dovevano quindi trovarsi origina-riamente inserite in un’unica composizione,decurtata in seguito anche ai bordi. Acquistanoin questo modo significato le strutture architet-toniche poste ai lati, che dovevano originaria-mente costituire i pilastri portanti di un arco acui è stata sottratta la parte superiore, chiuso dauna balaustra oltre la quale si scorge un paesag-gio collinare. Nonostante lo schema compositivocosì ricostituito restituisca un’immagine inusua-le nel contesto iconografico italiano – tra i raricasi si annoverano i Santi Procolo e Nicea dipin-ti da Artemisia Gentileschi per la cattedrale diPozzuoli verso il 1636-1637 (cfr. per ultimo M.Nicolacci, in Artemisia Gentileschi 2011, p. 222,n. 38, con bibliografia) –, la tela ha goduto diuna immediata fortuna in ambito sottocenerino,anche per il ruolo taumaturgico assegnato dallareligiosità popolare alle due sante, tanto da tro-varne echi in alcuni dipinti secenteschi conser-vati nelle chiese del comprensorio e nella primaattività di Francesco e di Innocenzo Torriani (L.Damiani Cabrini, in Mendrisio 1992-1993, p.25, n. 3; A. Gilardi, in Mendrisio 2006, p. 100,n. 3). Ciò si giustifica anche in considerazione

dell’importanza della sede originaria del dipinto,la chiesa di San Giovanni a Mendrisio, già inglo-bata nel complesso conventuale dei Serviti. L’e-sistenza di una cappella dedicata alle due sante èattestata nel 1641 (Torriani 1917; L. DamianiCabrini, in Mendrisio 1992-1993, p. 26, n. 4). Lapala dovette verosimilmente essere rimossa dal-l’altare che la conteneva e smembrata al momen-to della demolizione dell’antico edificio, avvenu-ta nel 1721, alla riedificazione del quale le duetele così ricavate furono inserite nella cappelladell’Addolorata, attestata dal 1774 (F. Bianchi,in Mendrisio 2010, p. 40), per poi prendere defi-nitivamente posto, prima dell’attuale collocazio-ne, ai lati delle finestre del presbiterio. A frontedell’immediato riflesso di quest’opera sulla cul-tura pittorica locale, la posizione infausta giusti-fica il silenzio delle fonti sette e ottocenteschecirca questo splendido esempio di pittura natu-ralistica incastonata nelle propaggini settentrio-nali della Lombardia svizzera. Solo nel 1945 idipinti vennero riconosciuti tra le migliori opered’arte appartenenti al Canton Ticino ed espostea Zurigo con attribuzione al Moretto. Nel 1984,in occasione della presentazione espositiva dellaNatività dell’Ospedale della Beata Vergine diMendrisio (cat. 19), Mauro Natale colpiva perònel segno accorpando le due sante all’esiguocatalogo del pittore che ben presto avrebbe bat-tezzato col nome di “Maestro della Natività diMendrisio” (Natale 1989; Damiani 1989). Al dilà della quasi inutile constatazione della presen-za in questo gruppo di un’unica personalità arti-stica – non fosse altro che per quei volti davverosovrapponibili e raddolciti da lievissimi trapassichiaroscurali appartenenti sia alla Santa Luciache alla Vergine protagonista della Natività – èpossibile rilevare il rigore espressivo del loroignoto artefice nell’equilibrio calibratissimo traricerca monumentale e perizia disegnativa, tradefinizione dei valori cromatici e regia luminosa,che ne fanno un unicum nel panorama artisticolocale. Nel caso delle Sante in discussione, le duefigure si stagliano parzialmente in controlucecontro un cielo colto alle prime luci del giorno,reso più fosco che in origine dal persistere divernici alterate. Pennellate graffianti ne incido-

no la superficie pittorica, definendo senza sostai larghi panneggi, mentre la luce scivola tra lepieghe pesanti creando nelle stoffe riverberiimpreziositi dall’increspatura, a tratti, dellapasta pittorica. Le campiture cromatiche pasto-se e compatte, nettamente definite nei toni deirosa e degli ocra hanno fatto parlare di richiamialla pittura toledana della prima parte del XVIIsecolo (Damiani Cabrini 1989; Eadem, in Men-drisio 1992-1993, pp. 24-26; Eadem, in Pittura aComo 1994, p. 320), che oggi mi sembra invecedi cogliere sempre con maggior convinzione indirezione della tradizione pittorica napoletanadegli anni trenta del Seicento (Damiani Cabrini2006, pp. 40-43). Di diverso avviso la Bianchi (inMendrisio 2010 p. 40), la quale recentementeaffrontava la problematica relativa all’anonimomaestro di Mendrisio individuando nelle sueopere “un teatro sacro degli affetti” legatoall’Accademia Ambrosiana di Milano, con riferi-menti, nell’austero classicismo manifestato dallaposa delle sante, al tardo Rinascimento lombar-do, esemplificato a Mendrisio dal Polittico Tor-riani di Bernardino Luini, all’epoca conservatonella chiesa di San Sisinio. L’ipotesi presuppor-rebbe una datazione decisamente “alta” dellaproduzione dell’anonimo Maestro, in considera-zione della chiusura dell’Accademia con la pestedel 1630, che mi pare di non poter tenere inlinea di conto. Non credo invece sia da far cade-re nel vuoto la suggestione evocata dal richiamo,nelle due sante, di Artemisia Gentileschi, nellasua prima fase napoletana, per quel connubiofelice, di cui fu capace, tra solida costruzionedella forma di marca toscana e aperture a quelnaturalismo, ormai giostrato in chiave classici-sta, tipico della pittura partenopea all’internodel quarto decennio del Seicento.

Laura Damiani Cabrini

Maestro della Natività di Mendrisio(attivo a Mendrisio nel quarto decennio del XVII secolo)

20-21. Sant’Apollonia; Santa Lucia, 1635-1640 circa

olio su tela, 187 × 57 cm ciascunoMendrisio, Museo d’Arte

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Prima del restauro affrontato per l’occasione, idipinti si trovavano, impolverati e scuriti da ver-nici ossidate, in un locale adiacente alla chiesa diSan Francesco, già inglobata nel complesso con-ventuale dei frati Cappuccini di Mendrisio.Innalzato a partire dal 1620 e consacrato nel1635, il convento fu soppresso per ordine gover-nativo nel 1852 (Martinola 1945, p. 2) e distrut-to l’anno successivo, così che la chiesa, insieme ainumerosi quadri che vi sono tutt’ora contenuti,passò di proprietà all’Ospedale della Beata Ver-gine di Mendrisio, sorto sullo stesso sedime.Come mi informa il restauratore Mario Graf, èprobabile che le due tele avessero avuto in origi-ne un formato molto simile. La Madonna colBambino, infatti, venne decurtata ai bordi erimontata, insieme al suo pendant, su un nuovotelaio, probabilmente alla metà dell’Ottocento,al passaggio di proprietà al nosocomio. Diversainvece è la consistenza delle tele di supporto: dimigliore qualità, perché di trama fitta e sottile,quella che fa da supporto al San Francesco; incre-dibilmente rada quella su cui è stesa la fragilepellicola pittorica della Vergine col Bambino.Questa anomalia si riflette solo in parte sui carat-teri dello stile, in quanto le differenze, non ecla-tanti, tra i due dipinti, emergono soprattutto alivello di definizione dei panneggi: estremamen-te elaborati e striati da complessi reticoli di rialzitonali quelli visibili nel manto dell’angelo inprimo piano alla sinistra del San Francesco, piùampi e sintetici quelli che avvolgono la Vergine.Si tratta di considerazioni che potrebbero porta-re a intravvedere un’origine diversa per questidue esempi di pittura devozionale; a una presa dicontatto ravvicinata, si colgono invece indicazio-ni morelliane che inducono a considerarli conce-piti, se non da un unico artista, almeno all’inter-no di uno stesso ambito di bottega. Medesima èinfatti la modulazione delle ombre che tornisco-no con passaggi decisi le forme raddolcite datinte rosate sui volti dei protagonisti delle dueraffigurazioni e la stesura sottile dei pigmenti chene delineano con tratti sfumati le fisionomie. Daun punto di vista iconografico, le due immaginitradiscono entrambe la loro destinazione origi-naria a una chiesa dell’ordine cappuccino. Alla

devozione mariana rimanda la Madonna colBambino, dove la figura femminile – di un’ele-ganza solenne assimilabile quasi, nella cura esibi-ta dell’acconciatura elaborata, a una statua anti-ca – si contrappone quella dell’irrequieto Bam-bino, con il corpo proteso verso lo spettatore.L’iconografia del San Francesco sorretto dagliangeli risale invece a una tradizione diffusasi allafine del Cinquecento nelle sedi dell’ordine fran-cescano, in quanto somma del tema dell’estasimistica a quello della consolazione angelica. Laparticolare soluzione compositiva qui adottataderiva da un dipinto del Cavalier d’Arpino con-servato nella cappella di San Francesco dellachiesa di San Bonaventura a Frascati (Röttgen1973, n. 24), databile intorno alla fine degli anninovanta del XVI secolo, da cui Cornelis Corttrasse un’incisione che determinò la diffusionedel soggetto oltralpe (Savelsberg 1992, tav. 17).Anche nel nostro caso, l’anonimo interprete del-l’opera potrebbe essersi avvalso di un’incisione,come farebbe presumere l’iconica e legnosa figu-ra del santo in estasi, mentre la definizione deicorpi angelici colti di profilo dimostra da partedello sconosciuto maestro un margine di autono-mia interpretativa.Prima del presente restauro, tra tutti i candidatia una possibile attribuzione dei due dipinti,quello con più titoli sembrava senz’altro essereAntiveduto Grammatica. Il suggerimento diRoberto Contini coglieva infatti da subito, nellatesta dell’angelo in primo piano a destra – conquel caschetto di capelli biondi e ricciuti che glisono nota distintiva – “la firma” del pittore sene-se di origine, ma romano di adozione. È indub-bio infatti come le pose dei personaggi, a partiredalla resa frontale della Vergine, a cui si con-trappone, con uno schema compositivo reitera-to all’infinito, una figura laterale colta di profilo,risultino un topos formale dell’ambito di Gram-matica. Nonostante l’ambientazione austerarisolta a ridosso del primo piano, tipica di Anti-veduto, in queste opere si respira, a mio modo divedere, una dinamica degli affetti diversamenterisolta, che stempera la netta demarcazione chia-roscurale dei volti e i contorni quasi stereometri-ci delle sue paffute figure, per dar vita, nelle

pose e nelle espressioni dei personaggi, a un piùdisteso dialogo espressivo e gestuale. NellaMadonna col Bambino, l’infante tenta di divinco-larsi al di fuori dello spazio compositivo, risal-tando con diversa forza plastica rispetto ai pro-totipi del maestro tosco-romano, mentre i trattiraddolciti della Vergine alludono a un pittore, senon di una generazione successiva, almeno piùevoluto e già confrontato con i languori di unapittura sicuramente attenta al dettato luministi-co di matrice caravaggesca, ma orientata insenso classicista e con un occhio ben puntatoverso la Toscana e l’Emilia. Dopo il restauro,anche l’alone che fa da corona alla figura diMaria è emerso con maggior consistenza e piùdelicati si sono rivelati i trapassi chiaroscurali,mentre le tinte squillanti dei gialli, dei rossi e deiblu hanno preso maggior vigore. Il nome chetorna con maggiore insistenza alla mente in que-sto momento è quello di Guercino, in conside-razione della sua produzione a carattere devo-zionale, e in particolare quella realizzata nellaseconda metà degli anni trenta del secolo. Nonsi tratta evidentemente di sostenerne una pre-sunta autografia, ma di porre queste opere sottola sua sfera d’influenza, nell’alveo della suacospicua bottega, dove, tra gli altri, operò ancheBartolomeo Gennari, alla cui attività i due dipin-ti possono essere accostati in forma dubitativa.

Laura Damiani Cabrini

Restaurati in occasione della mostra da MarioGraf grazie al contributo della Pinacoteca canto-nale Giovanni Züst (Madonna col Bambino) edella Fondazione Winterhalter di Mendrisio (SanFrancesco).

Pittore emiliano?

22. Madonna col Bambino,1635 circa

olio su tela, 122 × 88 cmMendrisio, chiesa di San Francesco

23. San Francesco sorretto dagli angeli,1635 circa

olio su tela, 131 × 98,5 cmMendrisio, chiesa di San Francesco

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Il dipinto è attualmente ospitato nella chiesa diSanta Maria delle Grazie a Bellinzona, ma pro-viene dall’adiacente complesso conventuale deiFrati Minori Osservanti (Gilardoni 1955, pp.133-134), soppresso nel 1848 e adibito dal 1921a casa di riposo per anziani. Nel 1996 la chiesasubì un devastante incendio, da cui la tela uscìillesa. Il conseguente restauro, terminato nel2006, ne sollecitò il paragone con la produzionedell’artista milanese Giuseppe Vermiglio (Calde-rari, Pedrioli, Ruggiero 2010, p. 287). Non sitrattava comunque di un’opera completamenteinedita, in quanto aveva già colpito nel 1955l’immaginazione di Gilardoni (1955, pp. 133-134), rammentandogli “la maniera del Morazzo-ne”. Allo stile dell’artista lombardo guardavaanche il padre francescano, nonché erudito gen-ovese, Venanzio Belloni (1975, p. 29, ill. 56), chenel pubblicare una guida della chiesa, la defini-va “pittura molto bella e ben conservata”. A chiabbia dimestichezza con l’operato del milaneseGiuseppe Vermiglio, non sfuggiranno però leanalogie tra questo quadretto devozionale a des-tinazione privata e le opere meglio conosciute delsuo repertorio pittorico (per una sistemazionecritica della sua parabola artistica, Frangi 1994;Morandotti 1999; Giuseppe Vermiglio 2000;Terzaghi 2000). Si tratta in effetti di una canoni-ca immagine di santo colto a mezzo busto, parti-colarmente frequentata negli ultimi anni di vitadel pittore e di cui forse, visto il numero semprepiù frequente di esemplari rintracciati sul mer-cato e nelle sagrestie lombarde, fu interpreteanche la non documentata, ma sicuramentecopiosa, bottega (Morandotti 1999, p. 259, n.106). Tra le meglio conosciute, la serie più studi-ata è sicuramente quella composta da ritratti disanti certosini, conservata alla Certosa di Paviaed eseguita intorno al 1627 (Morandotti 1999, p.266). Siamo invece, in questo caso, vista la desti-nazione della tela a un convento dell’ordine, difronte all’immagine di san Francesco, con lemani segnate dalle stimmate incrociate al pettoin segno di preghiera e devozione, colto in unmomento di profonda commozione, mentre riv-olge lo sguardo al cielo. Dimenticati i trascorsiromani e i retaggi caravaggeschi della sua cultura

pittorica, Vermiglio, di ritorno a Milano da Romasicuramente entro il 1621, abbandonava progres-sivamente quanto di più moderno avesse incon-trato nell’Urbe, per avvicinarsi ad una pittura“degli affetti” tanto cara alla poetica federiciana,magnificamente interpretata in quegli anni nelcapoluogo lombardo da Daniele Crespi e rimas-ta in voga anche nella generazione, sopravvissu-ta alla peste del 1630, dei Cairo e dei Gherardi-ni, in aperto dialogo con i devoti modelli delpieno Rinascimento lombardo. Rispetto alla ste-sura pittorica lustra e colorata esibita nei fortu-natissimi esemplari redatti da Vermiglio a caval-lo tra gli ultimi anni romani e l’immediato ritor-no in patria, dove si coglie anche più di un rife-rimento all’opera di Guercino, qui ci viene resti-tuita un’immagine immersa in un’atmosfera sol-forosa, in cui prevalgono i colori terrosi, lumeg-giata, sul volto commosso del santo, da densitocchi d’avorio che non a caso hanno fatto pen-sare ai pittori protagonisti del primo Seicentolombardo, quali il Morazzone. Il tono dram-matico che trapela dai lineamenti scarnificati delfrate, segnati dalla penitenza e inumiditi dallesue stesse lacrime, e l’intensa partecipazioneemotiva che esala dalla bocca dischiusa nell’in-vocazione della litania, contrastano con brani dimeno felice resa anatomica. Mi riferisco in parti-colare alle mani ingessate al petto, che costituis-cono allo stesso tempo una firma del pittore, inquanto protagoniste di quasi tutta la sua pro-duzione pittorica, ma soprattutto dei dipinti real-izzati a partire dal 1627, anno che segna anche ilsuo rapporto duraturo con l’ordine certosino.Parla in questa direzione il confronto, non certocasuale, con la figura di Sant’Anselmo presentealla Certosa di Pavia, il cui volto risulta tra l’altroquasi sovrapponibile a quello del mistico bel-linzonese, aiutandoci a stabilire una datazionedell’opera in prossimità del 1630 circa.

Laura Damiani Cabrini

Giuseppe Vermiglio(Milano 1587 - Milano? post 1635)

24. San Francesco in preghiera, 1630 circa

olio su tela, 77,5 × 61,5 cmBellinzona, chiesa di Santa Maria delle Grazie

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Iscrizioni: in basso a sinistra (di entrambe letele), “CAP: IO: IACOBUS TROGHER URAÑ: / DÑAPEREGRINA PERINA COM~: / EIUS CONIUX ANNO

1641”

Mostre: Lugano 1989, n. V.10.

Restaurati nel 1935 (Martinola 1975, p. 287) enel 1989, in funzione della loro esposizione nellamostra luganese dedicata a Pier Francesco Mola,i due dipinti si trovano da sempre collocati sullacontrofacciata della chiesa di San Francesco aMendrisio, già inglobata nel complesso conven-tuale dei frati Cappuccini, distrutto per ordinegovernativo nel 1852 (Martinola 1945, p. 37).Come nel caso della Natività dell’Ospedale dellaBeata Vergine (cat. 19), si tratta di una commis-sione patrocinata dal capitano Gian GiacomoTroger, originario di Altdorf, nel Canton Uri, eda sua moglie Pellegrina Perina, che volleroapporre sulle tele lo stemma del proprio casato,nell’angolo in basso a sinistra, insieme a unadidascalia in cui è inserita la data 1641. Furonoperò donati solo in un secondo momento allachiesa dei Cappuccini, con atto testamentariodatato 16 giugno 1666: “Lascia [il Trogher]. l’ar-gento delle sue due spade [...] con li quadri,cioè/la B. Natività di N. Sre., due nelli qualisono dipinti la Madonna Santissima con il Bam-bino, St Giò. Batt.a e Sta Elisabetta, uno del StBonaventura, ed uno St Paolo primo Eremita, liquali nominati quadri vuole restino sempre nellaChiesa o Convento dei Padri Cappuccini inMendrisio, ne in alcun tempo possino esserealienati o trasmessi altrove” (Bellinzona, Archi-vio Cantonale, cart. 215, Ghiringhelli, 1666;Baroffio 1879, p. 351, segnalava il documentocon l’erronea datazione 16 giugno 1667, riporta-ta anche dalla storiografia successiva. Ulterioriapprofondimenti in Damiani 1989, p. 335). Ilsoggetto dei quadri viene a confermare il senti-mento di devozione dei coniugi nei confronti delconvento, che permise loro la facoltà di averesepoltura in chiesa, di fronte all’altare dellaMadonna (Medici 1980, p. 351). La raffigurazio-ne dei due santi non è casuale, in quanto con-nessa all’iconografia francescana e cappuccina.

San Paolo – ricordato dalla tradizione agiografi-ca tra i primi eremiti cristiani – è colto in medi-tazione vestito di un saio francescano, con unteschio in mano, in uno spazio boschivo, sedutodietro una roccia che funge da ripiano, su cui èposto un crocifisso. Padre della Chiesa e teoricodi punta dell’ordine francescano, in quanto pro-tettore dei teologi San Bonaventura (1218-1274)viene raffigurato invece nella sua cella tappezza-ta di libri, dietro uno scrittoio sul quale sono col-locati vari volumi e gli utensili necessari allascrittura. Il santo volge il capo in alto a destraper contemplare probabilmente il crocifisso, tra-dizionalmente considerato fonte prima di ispira-zione per i suoi scritti (Réau 1958-1959, pp. 234-235). Alle sue spalle, appeso al muro, si scorgeanche il galero cardinalizio.A parte le sporadiche menzioni di Martinola(1975, p. 287) e Medici (1980, pp. 351-352), ebenché di non trascurabile fattura, i dipintihanno aspettato fino al 1989 prima essere pro-mossi a oggetto di studio (Damiani 1989, pp.337-338). In quel frangente proponevo un’anali-si stilistica che sottolineava i riferimenti figurativigenericamente settentrionali insiti nelle dueopere, in quanto vi rilevavo caratteri oscillanti traVeneto e Lombardia, per approdare a un’ipotesiattributiva che prendeva in considerazione l’am-bito di attività di uno specialista dell’iconografiacappuccina, quale Fra Semplice da Verona. Ilformato identico, la strutturazione simmetricadelle figure – una col corpo flesso verso sinistra,l’altra verso destra –, la medesima impaginazio-ne, che vede i santi visti dall’alto proporsi amezzo busto dietro a un piano che fa da trait-d’union tra lo spazio da loro occupato e quellofruitivo, e la stessa gradazione bruna dei toni dicolore, farebbe escludere il dubbio di un inter-vento di mani diverse per i due quadri, che pre-sentano però significative divergenze nella con-duzione pittorica. L’intonazione cupa, quasimonocroma del colore nel San Bonaventura – lacui cella è rischiarata, a tratti, da una luce metal-lica e tagliente che scava il volto del santo e cheriverbera sugli oggetti – lascia trapelare un con-tatto del suo esecutore con i protagonisti dellapittura lombarda, in particolare post-federicia-

na, da Stefano Montalto a Francesco del Cairo.A quest’ultimo può essere soprattutto ricondot-ta l’estrema tornitura della luce sulle forme ana-tomiche, che riemergono a tratti dalle tenebre ela stesura dei pigmenti attenta ai valori di super-ficie. Una maggiore distensione spaziale e lumi-nistica pervade invece la figura del san Paolo,immersa in un paesaggio con cipressi, di cui siintravvede il profilo in lontananza. In questocaso a prevalere sono riferimenti alla culturaemiliana e alle tipologie dei personaggi – daivolti squadrati, canuti e con barba – proposti dalrepertorio di Guercino. Benché una parola defi-nitiva circa l’autore dei dipinti potrà essere pro-nunciata solo al termine di un auspicato restau-ro, penso non sia del tutto fuorviante mantenerel’antica indicazione attributiva a Fra Sempliceda Verona e una collocazione cronologica cherispetti l’ante quem del 1641. Pittore eccentricoe non sempre prevedibile, con accenti che dallatarda maniera veneziana passano alle ferme cam-piture virate in senso naturalista nelle operedegli anni venti del secolo, approderà alla finedella sua lunga carriera a una pittura aperta alleistanze del cortonismo in voga a Roma negli anniquaranta e cinquanta del Seicento (Manzatto1972). Le dita intrecciate a canna del san Bona-ventura sono le stesse manifestate dalla Madda-lena protagonista della Deposizione del Museodegli Uffizi di Firenze, firmata e datata 1621, acui l’imparenta anche lo stesso scatto della testaverso destra, promosso, allo stesso tempo, a pro-tagonista del Sant’Antonio Abate della chiesa deiCappuccini di Conegliano, firmato e datato1644. Utile anche il confronto tra le teste dei duesanti e la cospicua produzione grafica dell’artistaveronese, al cui ampliamento gli studi hannorecentemente contribuito in modo rilevante(Contini 2006, Morét 2006).

Laura Damiani Cabrini

Fra Semplice da Verona(Verona 1598 - ? 1654)

25. San Paolo Eremita, 1640 circa

olio su tela, 135,5 × 98,5 cmMendrisio, chiesa di San Francesco

26. San Bonaventura, 1640 circa

olio su tela, 135 × 97,5 cmMendrisio, chiesa di San Francesco

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I due dipinti, di identico formato, si trovanocollocati dal 1917 nella chiesa parrocchiale diSant’Antonio a Gordola. Alcune lettere rintrac-ciate nell’Archivio Vescovile di Lugano (Scatola“Gordola” II), datate nel 1917, ci informanoperò che all’epoca essi erano conservati nellachiesa dei Santi Pietro e Vincenzo, dell’attiguocomune di Tenero: edificio ricostruito nel corsodel Settecento e all’epoca in precario stato diconservazione. Da un controllo delle visitepastorali che hanno interessato quest’ultima par-rocchia non risulta però alcun cenno alle tele. Lacorrispondenza citata contiene anche la richiestarivolta alla Curia vescovile di Lugano da partedel consiglio parrocchiale di Gordola, da cuiTenero dipendeva, di poter vendere i due dipin-ti, esaminati, sembra, “da ottimo artista”, checuriosamente li reputava “due copie fedelmenteeseguite e che datano della prima metà del sec.XVIII”. In data 20 novembre alla risposta nega-tiva della Curia era allegato l’invito rivolto all’ar-ciprete di Locarno di dislocare le tele nellanuova parrocchiale di Gordola, consacrata nel1896 (Gilardoni 1983, p. 178, n. 191).Un dato da non sottovalutare, già fatto presenteda Gilardoni (1983, pp. 179-180, n. 192), ècomunque il probabile coinvolgimento, nellastoria dei due dipinti, della famiglia Marcacci,che possedeva nel comune di Tenero diversibeni immobili. La loro cospicua collezionelocarnese constava secondo il Füssli (1774, p.28) di ben tre esemplari di Giovanni Serodine enon stentiamo a credere che almeno uno di essipotesse essere il Cristo deriso (cat. 6), poi passa-to in epoca sconosciuta alla collezione luganesedei Grecchi Luvini. Risulta quasi spontaneoimmaginare che una seconda tela – forse dellostesso Serodine e ora dispersa – facesse pendantcon la prima e raffigurasse, proprio come in unadelle due tele di Gordola, un “Ecce Homo”. Loconferma il fatto che il Cristo deriso che qui sidiscute è una replica esatta e databile ai primidecenni del Seicento del dipinto ricondotto allamano di Giovanni Serodine presente in mostra.Se n’era sicuramente accorto Ugo Donati, l’anti-quario interessato all’acquisto di diversi dipintiappartenenti alla quadreria dei Grecchi Luvini,

all’indomani del decesso, nel 1943, dell’ultimaerede della casata, il quale conosceva però la col-lezione già dal 1938 (si veda anche il saggio dichi scrive). Non si sa se per convinzione, o percercare di abbassare il prezzo dell’esemplareGrecchi Luvini, Donati inizialmente avevacomunque reputato Il Cristo deriso di Serodineuna replica della tela di Gordola, pubblicandoquest’ultima, insieme al suo pendant, qualeopera autografa del pittore olandese Gerrit vanHonthorst (Donati 1942, p. 23). Dopo aver vistoesposto l’esemplare Grecchi Luvini alla mostradi Brissago dedicata a Serodine, l’antiquario tor-nava sull’argomento (Donati 1950), affermandoche “Nessun dubbio ora che la tela di Gordolasia una copia del Cristo deriso esposto allamostra e che questo sia opera sicura del Serodi-ne […]. Sempre nella chiesa, esiste un EcceHomo della stessa mano e della stessa grandezzadella copia del Cristo deriso, che potrebbe esse-re copia di un originale perduto del Serodine”.Gilardoni (1983, p. 179) escludeva invece che lecopie di Gordola possano avvicinarsi ai modidell’Honthorst, in quanto “il modo fluido dellaloro stesura cromatica sembra negare l’autrogra-fia del maestro”.I riferimenti a Honthorst, in particolare perquanto riguarda le sue prime opere pubblicheromane, risulta assolutamente calzante perentrambe le versioni del Cristo deriso, che riflet-tono in generale gli interessi di Serodine in dire-zione dei pittori olandesi di stanza a Roma. Se,da un punto di vista squisitamente compositivo,le opere sollecitano un confronto con la lunettacon il Cristo deriso di David de Haen, realizzatoverso il 1617-1619 per la cappella della Pietàdella chiesa romana di San Pietro in Montorio(Grilli 1997), ancor più marcata risulta l’adesio-ne di Serodine e del suo anonimo copista a unapittura caravaggesca attenta agli effetti “lume dicandela”, come quella manifestata da Gerrit vanHonthorst nelle opere giovanili, quali le varieredazioni – molto discusse – sul tema della deri-sione di Cristo edite a Roma nel corso del secon-do decennio (per le quali, Papi 1999, pp. 123-127; Judson, Ekkart 1999, pp. 87-88, 349-352).Non sembra però necessario dilungarci sulla

distanza qualitativa che separa il pur ottimoesercizio di bella scrittura dell’esemplare di Gor-dola dalla stupefacente qualità inventiva esibitadal suo referente serodiniano. L’anonimo artistachinatosi sullo studio del dipinto già GrecchiLuvini tradisce la sua probabile appartenenza alnovero dei pittori nordici attivi a Roma nellaprima metà del Seicento, nell’impiego di unamateria pittorica compatta e nell’attenzionequasi maniacale per gli effetti prodotti da unafonte di luce artificiale sugli incarnati dei perso-naggi. Rivela allo stesso modo la sua entità dicopista indugiando, con fare inutilmente lezioso,sui rialzi di biacca nelle vesti e definendo conmano pesante i profili degli astanti, marcandonepiù del necessario i chiaro-scuri.Un discorso in parte diverso merita l’EcceHomo, di cui viceversa non si conosce il prototi-po figurativo. La resa frontale della composizio-ne, con la figura del Cristo a mezzo-busto, sta-gliata contro un drappo scarlatto e illuminata dauna lanterna tenuta in mano da un armigero dispalle, non può destare dubbi circa l’adesionealla poetica caravaggesca del suo anonimo ese-cutore. Si tratta però della realizzazione di unartista diverso, impacciato nella resa delle anato-mie e meno capace di rendere, con l’attenzioneche il suo status di pittore naturalista meritereb-be, le fisionomie degli astanti. A guardar benecerte durezze nei volti, vien quasi da pensareall’impegno di un pittore di ambito settentriona-le, applicato nella replica di un testo visivo chegli è culturalmente distante, come sarebbe potu-to avvenire a un Gian Domenico Caresana tra-piantato a Roma.Aggiungo, in extremis, l’opinione di RobertoContini il quale vi individua analogie con la pro-duzione di Giacomo Cavedone.

Laura Damiani Cabrini

Pittore naturalista

28. Ecce Homo,prima metà del XVII secolo

olio su tela, 118 × 160 cmGordola, chiesa parrocchiale di Sant’Antonio

Copista di Giovanni Serodine

27. Cristo deriso,prima metà del XVII secolo

olio su tela, 118 × 160 cmGordola, chiesa parrocchiale di Sant’Antonio

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