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INTRODUZIONE “È straordinaria l’abbondanza dei testi poetici nell’Italia del Quattro e del Cinquecento. Voci note, altre meno, ma innumerevoli, manifestano in quei due secoli, come forse in nessun’altra epoca, una passione collettiva per la poesia, per la scrittura. Si scambiano sonetti e madrigali: per desiderio di espressione, per il gusto del comunicare, per gioco, per emulazione… La poesia costituisce una lingua a sé, un codice vasto minuziosamente elaborato, che consente variazioni infinite” 1 . Con queste parole, che ben chiariscono il clima culturale che pervade il XV ed il XVI secolo, Jaqueline Risset apre il volume La lirica rinascimentale, uno degli studi più recenti di Roberto Gigliucci sul petrarchismo. Questo fenomeno letterario assai complesso guardato un tempo con diffidenza (e definito “malattia cronica della letteratura italiana” 2 da Arturo Graf), ma ormai da decenni apprezzato e studiato, coincide quasi interamente con la lirica del Quattrocento e del Cinquecento. La pubblicazione nel 1440 a Bologna del canzoniere di Giusto de’ Conti, intitolato La bella mano, ebbe un enorme successo e si fa oggi coincidere con l’inizio del petrarchismo quattrocentesco. La novità risiede nella capacità di Giusto di aver saputo conciliare la sua forte propensione allo sperimentalismo con la fedeltà al Petrarca. Il fenomeno non può essere analizzato senza tener conto della “questione della lingua”: gli studi più recenti hanno dimostrato come “non sono il desiderio o la necessità di adottare lo strumento linguistico a spingere i lirici quattrocenteschi ad avvicinarsi al Petrarca, ma, al contrario, è la preventiva scelta del genere lirico a comportare l’adozione della sua veste linguistica” 3 . 1 Gigliucci, 2000, p. III. 2 Graf, 1926, p. 3. 3 Santagata, 1993, p. 26. 1

LE RIME DI BERNARDO CAPPELLO (1560).doc

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INTRODUZIONE

“È straordinaria l’abbondanza dei testi poetici nell’Italia del Quattro e del

Cinquecento. Voci note, altre meno, ma innumerevoli, manifestano in quei due

secoli, come forse in nessun’altra epoca, una passione collettiva per la poesia,

per la scrittura. Si scambiano sonetti e madrigali: per desiderio di espressione,

per il gusto del comunicare, per gioco, per emulazione… La poesia costituisce

una lingua a sé, un codice vasto minuziosamente elaborato, che consente

variazioni infinite”1.

Con queste parole, che ben chiariscono il clima culturale che pervade il XV ed

il XVI secolo, Jaqueline Risset apre il volume La lirica rinascimentale, uno

degli studi più recenti di Roberto Gigliucci sul petrarchismo.

Questo fenomeno letterario assai complesso guardato un tempo con diffidenza

(e definito “malattia cronica della letteratura italiana”2 da Arturo Graf), ma

ormai da decenni apprezzato e studiato, coincide quasi interamente con la lirica

del Quattrocento e del Cinquecento.

La pubblicazione nel 1440 a Bologna del canzoniere di Giusto de’ Conti,

intitolato La bella mano, ebbe un enorme successo e si fa oggi coincidere con

l’inizio del petrarchismo quattrocentesco. La novità risiede nella capacità di

Giusto di aver saputo conciliare la sua forte propensione allo sperimentalismo

con la fedeltà al Petrarca.

Il fenomeno non può essere analizzato senza tener conto della “questione della

lingua”: gli studi più recenti hanno dimostrato come “non sono il desiderio o la

necessità di adottare lo strumento linguistico a spingere i lirici quattrocenteschi

ad avvicinarsi al Petrarca, ma, al contrario, è la preventiva scelta del genere

lirico a comportare l’adozione della sua veste linguistica”3.

1 Gigliucci, 2000, p. III.2 Graf, 1926, p. 3.3 Santagata, 1993, p. 26.

1

Il petrarchismo del Quattrocento, come è noto, è più libero ed eslege, ha una

componente occasionale e cortigiana, specialmente verso la fine del secolo.

I temi che caratterizzano le opere di questi scrittori sono la notte (notte

amorosa, notte del sonno riparatore), la partecipazione degli elementi naturali

allo stato d’animo del poeta (locus amoenus secondo le regole classiche), la

vecchiaia come avvertimento della fragilità della bellezza, la fugacità del tempo,

il fuoco d’amore vissuto come nutrimento (l’immagine della salamandra) o

come morte e rinascita (la fenice).

Con il Cinquecento “la letteratura italiana del Rinascimento entra nel suo

periodo di massimo splendore, durante il quale essa esercitò anche la sua più

forte influenza in Europa”4.

Il XVI secolo si apre con un avvenimento fondamentale: nel 1501 Pietro

Bembo pubblica a Venezia, per i tipi di Aldo Manuzio, l’edizione

filologicamente curata del Canzoniere del Petrarca. Questa stampa fu solo la

prima di una lunga serie: durante il secolo si contano 167 stampe del Petrarca.

Al Bembo spetta il merito di aver fissato le linee generali del petrarchismo e

di averlo imposto come modello nella società letteraria del tempo: la sua

operazione consiste nell’aver selezionato una norma rigorosa, sia sul piano

dell’esperienza umana si su quello linguistico.

L’imitazione del Petrarca, quindi, diviene “la forma più appariscente”5 del

fenomeno: le orme del Bembo vennero seguite da moltissimi rimatori che,

ognuno secondo il proprio temperamento, imitavano il grande maestro.

Michelangelo fa coesistere nei suoi testi “la forma del modello e l’irruenza di

una sincerità tragica, che inevitabilmente la frantuma”6; Giulio Camillo

trasforma la canonica coppia Amore-Morte in Amore-Chaos; Veronica

Gambara scrive componimenti caratterizzati dall’equilibrio e dalla misura

4 Friedrich, 1975, p. 1.5 Graf, 1926, p. 5.6 Gigliucci, 2000, p. XV.

2

poetica tipici della poesia del Petrarca; Vittoria Colonna si avvicina al Bembo

per la sua gravitas, aspetto presente anche nelle rime di Giovanni della Casa7.

Ci sono, poi, poeti che seguono la linea del petrarchismo bembiano ortodosso:

Gesualdo, Molino e Bernardo Cappello.

La norma imposta dal Bembo, come è stato osservato, è quindi di tipo

linguistico, ma anche antropologico: dal Petrarca si estraggono le forme del

comportamento umano (le regole dell’espressione amorosa e della

comunicazione sociale).

Il progetto culturale del Bembo venne accolto in tutta Italia: in particolare, a

Roma i pontefici, dall’inizio del secolo, si proposero come protettori delle

lettere e delle arti, aggregando intorno alla corte papale intellettuali di diversa

origine che “nella crisi delle strutture culturali degli altri centri italiani hanno

bisogno di trovare nuove possibilità di sistemazione e di riconoscimento per il

proprio lavoro”8.

La corte ecclesiastica diventa modello per tutte le altre corti italiane: durante il

pontificato di Paolo III Farnese si impose una poesia che si proponeva come

revisione mondana del classicismo petrarchesco (una sorta di ampliamento del

petrarchismo bembiano9). All’esemplarità di un io isolato, la poesia dell’età

farnesiana contrapponeva una lirica d’occasione, all’interno della quale trovava

spazio anche la quotidianità.

La fine del secolo coincide con la saturazione del petrarchismo: si assiste ad

un allontanamento graduale dall’interpretazione bembiana del Petrarca.

La crisi del petrarchismo viene, quindi, individuata nella “rottura

dell’equilibrio bembista e nell’insorgere conseguente di una poesia più

intimamente vibrata e sofferta, nel segno di un vero dramma e di un progressivo

attingimento di una dimensione morale più profonda”10.

7 Ibidem, pp. XV-XXI.8 Ferroni, 1978, p. XIV.9 Forni, 2011, p. 143.10 Scrivano, 1959, p. 76.

3

Nell’ambito degli studi sul petrarchismo, la produzione lirica di Bernardo

Cappello è considerata fra gli esempi di ortodossia petrarchesco-bembiana: se,

come sostiene Rizzi, il Petrarca si imita o “derivandone senz’altro frasi,

immagini, atteggiamenti, versi, o traendo argomento alla propria lirica da un

mondo spirituale modellato su quello del Maestro, e , come il suo, travagliato da

conflitti, da contrasti, da inquietudini, da pentimenti”11, nel Cappello l’imitatio

si realizza in entrambi i modi, proponendo il modello come esperienza poetica

assoluta.

La predilezione per il Petrarca si afferma naturalmente nelle numerose poesie

d’amore, ma non solo: l’influsso del modello si percepisce anche nelle rime di

pentimento e nei componimenti politici.

Il Cappello, pur inquadrato in generale nel petrarchismo bembiano, legato ad

un Petrarca non solo maestro di poesia ma anche di vita e, in particolare,

nell’orbita del circolo farnesiano, è un poeta a tutt’oggi poco studiato.

Si è pensato quindi ad un lavoro preciso, che si concentrasse sulla “storia”

delineata nel canzoniere curato dall’autore nel 1560; una storia che riflette

latamente la biografia del poeta, ma che ovviamente, anche secondo i canoni del

genere, è ispirata ad un progetto idealizzante.

I tratti specifici della raccolta si inseriscono nell’adesione al concetto di

canzoniere come specchio di vita, il che comporta la canonica contrapposizione

di rime d’amore e poesie di pentimento. Quest’ultimo aspetto è accentuato dal

motivo del colloquio con propria anima, centro di cupe meditazioni sulla vanità

dell’esistenza: il desiderio della gloria e degli onori è riscattato, nel corso della

vicenda raccontata, dapprima con l’elogio di una vita appartata e

conseguentemente con la conversione.

A questo scopo, dopo un inquadramento generale della vita e delle opere di

Bernardo Cappello, si è analizzata la vicenda del suo canzoniere cercando di

stabilire, in base ai riferimenti interni ed esterni, una cronologia.

Si è quindi evidenziata la presenza di tre grandi blocchi (l’amore giovanile,

l’esilio ed il periodo farnesiano, l’amore vissuto in vecchiaia) frutto di 11 Rizzi, 1928, p. 33.

4

un’accurata costruzione che ha permesso di individuare un’evoluzione del

poeta, una parabola di maturazione realizzata secondo i canoni della tradizione

lirica petrarchesca.

I. LAVITA E LE OPERE

5

I.1. Dalla nascita all’esilio

Bernardo Cappello nacque a Venezia nel 1498 da Francesco di Cristoforo e da

Elena di Piero Priuli.

Alla morte del padre, illustre diplomatico della Repubblica veneziana,

avvenuta nel 1513, la tutela del giovane Cappello venne affidata ai fratelli

maggiori. La sua educazione fu seguita soprattutto dal fratello Carlo, al quale

Bernardo si affezionò particolarmente, tanto da dedicargli un sonetto molto

accorato quando, nel 1537 questi perse la moglie.

Come accadde ad altri patrizi veneziani, il Cappello seguì le lezioni di Battista

Egnazio, accademico e filologo che dal 1496 aveva allestito nella sua casa una

scuola privata che ebbe molto successo per il metodo innovativo da lui

proposto: durante le sue lezioni, infatti, egli non si limitava a leggere i testi dei

principali autori latini, ma si occupava anche della loro collazione, tramite il

confronto con i codici antichi.

Battista Egnazio fu amico di Erasmo, curatore di varie edizioni aldine, e di

Pietro Bembo.

Bembo fu per il Cappello un vero maestro ed una guida, come Cappello

riconosce in un famoso sonetto, scritto intorno al 1535, indirizzato a Veronica

Gambara:

SONETTO 99

Tutto quel, che da me, donna, sen venedi bello, o di gentil; tutto ha radiceda lui, che solo a guisa di Feniceor tratta l’aria con l’eterne penne:egli l’umile mia musa sovvenne:egli la’mpennò sì, ch’omai le licecantando la divina Berenicegir per li ciel, che pria no le convenne.Questi è colui, ch’all’alme muse in grembonacque: e tutto da loro il latte prese,

6

che Vergilio, ed Omero anzi gustaro.Questo è quel dotto e onorato Bembo,cui sempre Apollo fu largo e cortese:e spesso scende a cantar seco a paro.

In questi anni, segnati dall’avvicinamento alla letteratura, il Cappello ebbe

modo di conoscere molti intellettuali dell’epoca, tra cui Trifon Gabriele, Andrea

e Bernardo Navagero, Gasparo Contarini e Marcantonio da Mula. Frequentò,

inoltre, Luigi Alamanni, quando questi, costretto a riparare a Venezia a causa

della sua compromissione in una congiura antimedicea, fu ospite, nel 1522, di

Carlo Cappello.

Negli stessi anni, il Cappello iniziò anche il cursus honorum di giovane

patrizio veneziano: nel 1523, venne eletto savio agli Estimi e, nel 1529, savio

agli Ordini, importante magistratura che si occupava dei domini marittimi e

della flotta, attraverso la quale venivano indirizzati alle cariche maggiori della

Repubblica i giovani più promettenti.

Il Sanuto, nei suoi Diarii, cronaca dettagliata dei fatti e degli avvenimenti

susseguitisi tra la fine del Quattrocento e i primi trent’anni del Cinquecento,

parla di un grave scandalo di cui il Cappello fu protagonista a pochi mesi

dall’elezione: egli fu ferito al petto da un colpo di spada, infertogli da Pietro

Memmo, che lo aveva sorpreso con la propria moglie.

Questo episodio precluse al Cappello l’elezione alla Quarantia civil vecchia,

uno dei massimi organi costituzionali della Repubblica di Venezia.

Nel 1530, tuttavia, egli fu eletto nuovamente savio agli Ordini e nel 1533

entrò nella Quarantia criminale, con competenze sul diritto penale.

Il 16 maggio 1532 sposò Paola Garzoni, nobile veneziana, figlia di Francesco

Garzoni, dalla quale ebbe tre figli, due femmine ed un maschio. Il figlio

Francesco fu tenuto a battesimo, nel 1537, da Bernardo Tasso, il quale fu legato

al Cappello da una lunga amicizia, tanto che nel suo Amadigi, dato alle stampe

nel 1560, ne parla in questi termini:

Tal v’ho udit’io, Cappel, per le sals’onde

7

Della vostra città talor cantare,E i lumi santi e l’auree chiome bionde Al cui soave suon l’acque profondeStavano intente, e ‘l tempestoso mare, Ponendo freno al sujo furor insano,Rendea il suo verde sen tranquillo e piano.

In questi anni, la fama del Cappello come poeta elegante e raffinato si era

intanto diffusa, tanto che il Bembo gli inviava dei sonetti per chiederne il

giudizio.

Nel 1539 fu mandato a Venezia dall’imperatore Alfonso d’Avalos, generale di

Carlo V e governatore di Milano, affinché sollecitasse la Repubblica a

continuare la guerra contro Solimano, sultano dell’Impero ottomano. “Il

d’Avalos era sollecito di conversare i migliori ingegni onde fioriva questa

illustre città; uno de’ quali, e de’ primi, era Bernardo Cappello”12 che stimò

moltissimo, tanto da rivolgergli, nel lasciare la città, due lettere ed un sonetto.

La corrispondenza tra i due è testimoniata da un gruppo di sonetti (dal 150 al

153) in lode del Marchese del Vasto (150 e 153), di sua moglie Maria

d’Aragona (152) e di entrambi i coniugi (151).

Per quanto riguarda il sonetto 150, “questo è il sonetto, al quale il marchese

cercò di rispondere, stando ancora a Venezia. Ma come il d’Avalos partì da

Venezia e giunse a Loreo, di colà inviò al Cappello un sonetto, non già quel

desso che avea preparato da prima, non avendolo potuto ridurre alla perfetione

che era necessaria”13.

In ringraziamento di questo sonetto, il Cappello inviò al Marchese una lettera

nella quale chiama il componimento di Alfonso d’Avalos puro, alto,

leggiadrissimo e i sonetti 152 e 153.

I.2.L’esilio

12 Paravia 1850, p. 142.13 Ibidem, p. 147.

8

“Ma se onorevole e lieto si volse per Bernardo Cappello quell’anno 1539,

troppo diverso spuntò per lui l’anno seguente”14: il 19 maggio 1539 egli fu

condannato dal Consiglio dei Dieci al confino perpetuo nell’isola dalmata di

Arbe.

L’accusa era di aver creato scandalo e di aver messo in pericolo l’ordine

pubblico: il poeta era insofferente nei confronti di alcune grandi famiglie venete

che mostrarono la tendenza a monopolizzare la gestione del potere politico,

attraverso il controllo del Consiglio dei Dieci e dei consiglieri del Doge. Egli,

come capo della Quarantia, aveva proposto in Senato e in Maggior Consiglio

che venisse istituito un anno di “contumacia” tra l’elezione a consigliere ducale

e quella a membro del Consiglio del Dieci, e viceversa.

Questa legge, giudicata admodum popularem, aveva lo scopo di evitare un

abuso di potere molto simile a quello che si verificò a Firenze, dove chi fosse

eletto gonfaloniere passava automaticamente alla Pratica, senza l’elezione da

parte del popolo. Il clima antioligarchico cui Cappello aderì era animato dalla

presenza di alcuni esuli fiorentini che avevano trovato riparo a Venezia e che

frequentavano la casa del poeta, tanto che la dura condanna inflittagli dal

Consiglio dei Dieci mirava soprattutto a colpire questi fermenti prima che

assumessero dimensioni preoccupanti.

L’esilio nell’isola di Arbe ebbe, però, la durata di poco più di un anno: “in

quella sua terra d’esilio egli sospirava sempre all’Italia”15; la dura vita che

condusse è testimoniata da un sonetto che lo scrittore indirizza all’amico

Niccolò Zeno:

SONETTO 133

Zen mio gentil, se saper hai voglia,qual sia ‘l mio stato, e come il tempo io spenda;versan, mentre la notte il mondo benda,lagrime gli occhi, e ‘l cor sospiri e doglia:poi quando Febo il ciel d’ogni ombra spoglia; doppia il mal sì, che nulla è, che m’offenda

14 Ibidem, p. 150.15 Ibidem, p. 160.

9

più, che ‘l sentir, che vigor l’alma rendaa questa frale mia noiosa spoglia.Vedermi tolto alla mia illustre e carapatria, a’ dolci parenti, a’ fidi amici,e fatto gioco e favola alle genti;e’l saper de’ miei danni esser radicimiei desir alti, a bell’opere intenti,fan la mia vita più che morte amara.

Nel settembre 1541, egli riuscì a raggiungere Roma ed a porsi sotto la

protezione del cardinal Alessandro Farnese, nipote di papa Paolo III. A causa di

questa fuga, il Consiglio dei Dieci intentò un secondo processo nei confronti del

Cappello, il quale venne invitato a presentarsi a Venezia entro quindici giorni.

La gravità dell’accusa, ovvero di aver divulgato segreti di Stato, lo indusse a

non presentarsi, tanto che, il 16 novembre 1542, il Consiglio del Dieci bandì il

Cappello in perpetuo, promettendo mille ducati a chi lo catturasse vivo o morto.

Secondo questa sentenza, se fosse caduto nelle mani dei Dieci, sarebbe stato

impiccato alle colonne di piazza S. Marco.

I.3. Dalla condanna al bando perpetuo alla morte

Nel dicembre 1542 il Cappello dovette rifugiarsi a Roma, a castel S. Angelo,

ma dalla primavera del 1543 essendo diminuiti i pericoli relativi alla taglia che

il Consiglio dei Dieci aveva messo su di lui, il Cardinal Farnese gli assegnò una

provvigione ed il governo di diverse città nello Stato della Chiesa. Egli ottenne,

quindi, la luogotenenza di Tivoli e, nel 1544, già sofferente per una malattia agli

occhi che l’aveva reso quasi cieco, fu nominato governatore di Orvieto; nel

1546 ebbe il governo di Todi, nel 1547 quello di Assisi e infine passò a Spoleto,

nel 1549.

Il 10 novembre 1549, con la morte di papa Paolo III, si interruppe la carriera

romana del Cappello, ma la vicinanza al circolo farnesiano gli permise di

10

stringere rapporti con alcuni fra i maggiori letterati del tempo: Paolo Giovio,

Francesco Maria Molza, Giovanni Della Casa, Annibal Caro.

La corte farnesiana promosse, infatti, il convergere dell’iniziativa poetica

intorno ai medesimi eventi, celebrati a gara da una pluralità armonica di voci.

“Quanto più il tema celebrativo si chiude in un giro di concetti preordinati e

riconoscibili solo a un pubblico scelto, tanto più l’invenzione lirica si piega a

una stilistica competitiva dell’ornato elegante e ingegnoso”16. In particolare, in

occasione delle nozze della nobile romana Settimia con Antonio Iacobacci, ogni

poeta si cimenta “a prova” con la lode della donna per offrire un esempio di stile

personale che prende pieno rilievo quando lo si legga nel circuito dei vari testi

che gli sono correlati. Nel caso specifico, numerosi sono i motivi comuni:

l’allusione ricorrente al numero sette; il riecheggiare del nome “Settimia” fra

rovine antiche e selve pastorali; la bellezza casta e beatificante della sposa.

Il Cappello offre un esempio di come la sua personalità stilistica, di stretta

osservanza bembesca, si cimenti con questo tema nel dittico di sonetti 181-182,

dedicati, appunto, a Settimia.

Un’altra costante che caratterizza l’età farnesiana è la trattazione lirica dei

conflitti che coinvolsero l’Italia in quegli anni, di cui il Cappello dà numerose

prove.

Nel 1551, il cardinal Alessandro Farnese dovette lasciare Roma per un breve

esilio, a causa del conflitto che coinvolse il nuovo papa Giulio III, alleato con

l’imperatore, e i Farnese, a proposito del ducato di Parma. Il Cappello seguì il

suo protettore a Firenze, dove ebbe modo di conoscere Pier Vettori, Benedetto

Varchi e Lodovico Castelvetro.

Nell’agosto del 1552 si recò a Siena e nel settembre dello stesso anno seguì il

Cardinale, legato ad Avignone, in Francia, dove rimase quasi tre anni. In questo

periodo, divenuto procuratore del cardinale per i beni dell’abbazia di S. Stefano

di Caen, di cui Alessandro Farnese era commendatario, curò gli affari del suo

signore, il quale gli concesse il godimento di una pensione vitalizia.

16 Forni, 2011, p. 146.

11

Dall’autunno del 1555 il Cappello visse nuovamente a Roma, finché

nell’estate del 1557 fu chiamato a Urbino dall’amico Bernardo Tasso, il quale

necessitava del suo aiuto per la revisione dell’Amadigi.

Fu accolto onorevolmente alla corte di Guidubaldo della Rovere, al quale il

Cappello aveva dedicato numerosi componimenti, sia per consolarlo della morte

della prima moglie Giulia Varano (214-215-216), sia in onore delle nozze con

Vittoria Farnese (dal 217 al 221). Un dittico di sonetti (222-223) ed una canzone

(226) furono indirizzati alla nuova Duchessa d’Urbino; venne poi un ulteriore

dittico per la nascita di Francesco Maria II della Rovere (224-225), tanto che il

Serassi sostiene che questo “fu tempo, in cui il Cappello esercitasse con

impegno la felice sua vena”17.

Il Duca Guidubaldo protesse il Cappello al punto da invitare ad Urbino il

letterato marchigiano Dionigi Atanagi, con il compito di leggere al poeta, la cui

vista era ormai fortemente compromessa, il poema tassiano.

Fu probabilmente in questo periodo che il Cappello raccolse e riordinò le sue

Rime, che sarebbero state poi pubblicate nel 1560 proprio a cura dell’Atanagi.

Nel 1559 egli raggiunse nuovamente il cardinal Farnese a Parma, per tornare

poi a Roma, dove trascorse, ormai vecchio e malato, gli ultimi anni della sua

vita.

Morì a Roma nella notte tra il 7 e l’8 marzo del 1565, ormai completamente

cieco.

I.4. Le opere

17 Serassi, 1753, TOMO II.

12

Nel 1560 per i tipi di Domenico e Giovan Battista Guerra esce a Venezia a

cura di Dionigi Atanagi la princeps delle Rime di Bernardo Cappello che

godette di una notevole fortuna nel Cinquecento.

Con quest’opera il Cappello si impose come interprete del nuovo

petrarchismo, sulla scia dall’autorità del Bembo.

Il nome di Bernardo Cappello rientrò nel circuito degli studi eruditi con

l’edizione del 1753 uscita a Bergamo per i tipi di Pietro Lancellotti a cura di

Pierantonio Serassi e con le annotazioni di Agamiro Pelopideo.

Da allora egli venne accolto nelle antologie.

Nel 1870, poi, furono pubblicate le sue Lettere a Bologna per i tipi di Gaetano

Romagnoli a cura di A. Ronchini.

Il Cappello si fa interprete di una lirica petrarchista d’impronta bembiana, che

richiede la forma canzoniere come testimonianza di un’ideale vicenda

biografica. La canonica contrapposizione di rime d’amore e componimenti in

cui il poeta fa emergere il proprio pentimento tramite il motivo del colloquio

con la propria anima viene risolto con la meditazione sulla vanità dell’esistenza

e con il bisogno di una vita appartata, temi che il poeta lega strettamente alla

consapevolezza del suo destino di esule.

Nella seconda metà dell’Ottocento due lavori furono dedicati all’attività dello

scrittore: nel 1850, Pier Alessandro Paravia propone un’analisi sui codici delle

Rime nel saggio Discorso sui codici delle Rime e sulla vera causa dell’esilio di

Bernardo Cappello, all’interno del quale approfondisce l’indagine sulle poesie

dello scrittore, tramite il confronto dei componimenti presenti nell’edizione

Serassi con alcuni inediti, trovati nelle librerie di Apostolo Zeno e di Marco

Foscarini e con altri codici della biblioteca Marciana di Venezia; nel 1874 uscì

il lavoro di Crespan, Petrarca a Venezia, volto a difendere l’impronta originale

che il Cappello riuscì a dare ai suoi versi, sempre, però, in ossequio alle

tematiche ed ai moduli espressivi di stampo bembesco. Il Crespan, infatti,

13

afferma che “basta correre il suo Canzoniere. Vanto singolare di lui è

l’originalità e in ciò può dirsi che forma parte da se stesso. Ne’ suoi versi tu noti

una franchezza e un andamento nobile, signorile, indipendente, come d’uom che

attingendo a’ suoi esemplari v’infonde poi quella vita che sa derivare dalle sue

ispirazioni. Perché non può negarsi che imiti il Bembo e il Petrarca; ma quanto è

diversa l’imitazione da quelli che l’han preceduto”18.

Nel 1966, la Storia della letteratura italiana, edita da Garzanti, presenta un

breve approfondimento sullo stile dei componimenti del Cappello, nel capitolo

riguardante il petrarchismo, indicandolo tra coloro che, nonostante abbiano

risentito fortemente dell’influenza del Bembo, hanno trovato una loro personale

poetica. In particolare, per quanto riguarda Bernardo Cappello, Delio Cantimori

fa riferimento ad “una tendenza e a modi elegiaci e descrittivi che fanno

pensare, oltre che a una nativa inclinazione, a certi influssi d’altra poesia, e più

forse di quella latina dei classici e degli umanisti”19.

Enrico Albini, nel 1973, nel saggio La tradizione delle Rime di Bernardo

Cappello si occupò di ricostruire fililogicamente la storia dei componimenti

dello scrittore, riconoscendo quella del 1560 come l’edizione d’autore.

Nel 1974, Taddeo nella monografia Il manierismo letterario e i lirici

veneziani del tardo Cinquecento individuò le due principali linee che

caratterizzano la lirica veneziana di stampo petrarchesco ovvero quella che parte

dal magistero del Bembo e quella che recupera i modi della poesia cortigiana

del Quattrocento all’insegna dell’artificiosità e inserì il Cappello tra coloro che

seguono la prima. Lo stile dello scrittore è oggetto di una breve analisi in

relazione all’amicizia che lo lega al cenacolo, sviluppatosi intorno agli

insegnamenti del maestro e, in particolare, al Molino, il quale condivide con il

Cappello la scelta di “un petrarchismo moderato, generalmente alieno da

complicatezze ed orpelli stilistici”20.

18 Crespan, 1874, p. 204.19 Storia della letteratura italiana Garzanti, 1966, p. 210.20 Taddeo, 1974, p. 74.

14

Con il Molino, il Cappello ha in comune, nello specifico, la similitudine del

baco da seta, immagine che deriva dalla realtà “moderna” e che viene inserita

nel sonetto La rete del peccato.

Baldacci inserì nell’antologia Lirici del Cinquecento del 1975 alcuni

componimenti del Cappello, corredati di un apparato di note e preceduti da una

breve storia della vita del poeta, affermando di aver condotto la scelta

sull’edizione Serassi.

Ancora, nel 1990, Fedi, ne La memoria della poesia, introdusse un capitolo in

cui affronta il tema dei canzonieri e dei lirici cinquecenteschi: parlando di quel

“sistema” che si viene a creare, nel corso del Cinquecento, in cui nasce l’idea di

un nuovo uditorio lirico di lettori-autori, tra i quali l’imitazione diventa una

regola di riconoscimento e di creazione culturale all’interno di un’identica

koinè, si occupò del rapporto che lega il Cappello al Bembo, nei termini di un

sodalizio documentato dallo scambio epistolare.

Fedi analizza una parte della corrispondenza tra i due poeti, osservando che

alcune delle scelte lessicali del Cappello dipendono dai suggerimenti del

maestro; in particolare, si fa riferimento all’uso del termine “noia” considerato

molto prezioso perché presente solo quattro volte in Rerum Vulgarium

Fragmenta e, quindi, intatto nella sua allusività, in luogo del più comune

“male”. Il Cappello accoglie il consiglio del Bembo: utilizza, infatti il termine

proposto nel sonetto 209 per indicare la sofferenza da lui provata per la morte

del maestro.

Recentemente Forni ha indagato temi e modi poetici del circolo farnesiano; in

questo ambito, si è dedicato brevemente al Cappello.

Il Cappello, dal 1541, è presente a Roma, sotto la protezione del cardinal

Alessandro Farnese e, quindi, da quel momento, rientra a far parte degli

intellettuali del circuito farnesiano. Alla luce di ciò, Forni, nel suo lavoro, si

sofferma brevemente a considerare alcuni sonetti del Cappello per confrontarli

con i componimenti di altri letterati legati ai Farnese, allo scopo di far emergere

15

alcune caratteristiche che accomunano la lirica che si viene a sviluppare in tale

ambito.

Nonostante la presenza di alcuni studi sulle Rime di Bernardo Cappello, è

inevitabile constatare come ognuno di essi affronti l’analisi dei componimenti in

modo sommario e, soprattutto, unicamente in relazione alla scuola poetica

all’interno della quale lo scrittore è stato inserito. Manca uno studio esaustivo

sul macrotesto del canzoniere, che risulta necessario per una comprensione del

poeta e del suo percorso.

II. LE RIME DI BERNARDO CAPPELLO

16

II.1. Cronologia del canzoniere

Dalla successione dei componimenti e dalle informazioni contenute in essi,

incrociate con gli avvenimenti storici citati o allusi si è potuto risalire ad una

cronologia sufficientemente attendibile della la storia raccontata nel canzoniere

di Bernardo Cappello.

Il poeta parla dell’incontro con la donna amata, avvenuto tradizionalmente in

primavera, nel sonetto 2 sostenendo di essere ancora giovane (v. 9 “Nel più

vago fiorir de’ miei verdi anni”).

Al sonetto 39 il Cappello afferma di aver oltrepassato la metà della sua vita:

considerando, con Dante, il trentacinquesimo anno come quello che segna

questo spartiacque, si può supporre che all’altezza di questo componimento il

poeta avesse già compiuto i 35 anni.

Al sonetto 51 lo scrittore dichiara che sono passati dodici anni

dall’innamoramento. Questo componimento, letto in unione al sonetto 60,

permette di datare l’anniversario di cui parla il poeta all’anno 1534. Il 60,

infatti, è dedicato a Paolo III in occasione della sua elezione al soglio pontificio

avvenuta il 13 ottobre 1534.

Il Cappello, nato nel 1498, ha qui 36 anni, il che porta ad affermare che la data

dell’incontro con Madonna possa essere fissata al 1522.

Dalla canzone 102 si apprende che sono passati tredici anni

dall’innamoramento: siamo nel 1535 e lo scrittore ha quindi 37 anni.

Il gruppo di componimenti politici indirizzati all’imperatore Carlo V ed al re

di Francia Francesco I risalgono al 1536: nella canzone 108, infatti, il poeta fa

riferimento all’invasione dello Stato di Milano da parte dei Francesi che

avvenne contemporaneamente all’assalto dello Stato francese da parte

dell’imperatore.

Il quindicesimo anniversario dell’innamoramento è celebrato al sonetto 113:

siamo, quindi, nel 1537, stesso anno della composizione della canzone 119

dedicata a Pietro Pizzamano in occasione della sua morte.

17

Il sonetto 122 risale al 1538: esso è dedicato ad Eleonora Gonzaga, Duchessa

d’Urbino per consolarla della morte del marito Francesco Maria della Rovere

avvenuta il 20 ottobre 1538.

Al sonetto 124 il poeta fa riferimento all’intenzione di papa Paolo III di

eleggere cardinale il Bembo: l’avvenimento si verificò nel 1539.

Da questo punto del canzoniere si assiste all’infittirsi di componimenti

dedicati ai membri della famiglia Farnese. Il Cappello, esiliato da Venezia il 19

maggio 1540, dopo un anno passato nell’isola dalmata di Arbe, riuscì a

raggiungere Roma.

Il sonetto 126 è, infatti, il primo di una lunga serie indirizzata al cardinal

Alessandro Farnese, nipote di papa Paolo III: il componimento risale al

settembre 1541 quando il poeta si rifugiò a castel S. Angelo, ponendosi sotto la

protezione del cardinale.

Il gruppo di componimenti 156-159 è scritto in morte di Faustina Mancini,

gentildonna romana presente anche nelle Rime del Molza, ed è databile tra la

fine del 1543 e l’inizio del 1544. Allo stesso anno risale il dittico di sonetti 162-

163 in morte dello stesso Molza.

Tra il 1544 ed il 1545 fu scritto anche il sonetto 161 indirizzato a papa Paolo

III in occasione dell’apertura del Concilio di Trento ed il 166 per la promozione

al cardinalato di Tiberio Crispo avvenuta il 19 dicembre 1544.

Il gruppo di sonetti 206-211 risale al 1547: il Cappello piange la morte del

Bembo avvenuta il 18 gennaio 1547.

Il trittico 214-216 fu dedicato a Guidubaldo Duca d’Urbino per consolarlo

della morte della prima moglie Giulia Varano databile al febbraio del 1547.

I componimenti che vanno dal 217 al 223 risalgono al 1548: essi furono

dedicati alle nozze tra Guidubaldo d’Urbino e Vittoria Farnese, avvenute il 26

gennaio 1548.

Il dittico 224-225, composto in onore della nascita di Francesco Maria II della

Rovere, è quindi del 1549, stesso anno in cui fu scritto il sonetto 227 per la

morte di papa Paolo III.

Al 1551 è databile il sonetto 234 in morte del cardinal Andrea Cornaro.

18

Allo stesso anno risale la canzone 241 indirizzata al Senato veneziano: il poeta

fa riferimento agli scontri tra i Farnese ed il nuovo papa Giulio II a proposito del

ducato di Parma, a causa dei quali il cardinal Alessandro Farnese dovette

lasciare Roma.

Il dittico di sonetti 251-252 è del 1553, anno della morte di Orazio Farnese.

Al 1556 risale il sonetto 275 in morte di Claudio Tolomei.

A questo stesso anno è databile anche l’innamoramento del poeta, che ormai

ha compiuto i 58 anni, per Leonora Cibo, figlia del marchese Lorenzo Cibo e di

Ricciarda Malatesta, alla quale sono dedicati la maggior parte dei componimenti

che seguono.

Il sonetto 322 è indirizzato a Filippo II re di Spagna per la vittoria riportata

contro i Francesi a S. Quentin in Piccardia avvenuta nell’estate del 1557.

Il dittico 340-341 al cardinal Farnese ed il sonetto 342 fanno riferimento alla

pace di Cateau-Cambresis firmata tra il 2 ed il 3 aprile 1559 da Filippo II e

Arrigo II.

Nel sonetto 343, pure scritto in occasione di quella pace, il poeta si congratula

per le nozze tra Margherita di Valois ed Emanuele Filiberto avvenute il 10

luglio 1559.

Al sonetto 344 il poeta prevede con un anticipo di quattro mesi21 l’elezione al

soglio pontificio del cardinal Angelo de’ Medici, il quale venne incoronato il 6

gennaio 1560 con il nome di Pio IV.

SONETTO 2 : primavera 1522

SONETTI 51 e 60: 1534

CANZONE 102: 1535

CANZONE 108: 1536

SONETTO 113: 1537

CANZONE 119: 1537

SONETTO 122: 1538

SONETTO 124: 153921 Serassi, 1753, TOMO II, Annotazioni sovra le Rime di Bernardo Cappello, p. 199.

19

SONETTO 126: settembre 1541

COMPONIMENTI 156-159: 1543/1544

SONETTO 161: 1544/1545

SONETTI 162-163: 1544

SONETTO 166: dicembre 1544

SONETTI 206-211: 1547

COMPONIMENTI 214-216: 1547

COMPONIMENTI 217-223: 1548

SONETTI 224-225: 1549

SONETTO 234: 1551

CANZONE 241: 1551/1552

SONETTI 251-252: 1553

SONETTO 275: 1556

SONETTO 278: 1556

SONETTO 322: estate 1557

SONETTI 340-342: aprile 1559

SONETTO 343: luglio 1559

SONETTO 344: settembre 1559

II.2. “Prefazione antica di Dionigi Atanagi al Cardinal Farnese”

Il canzoniere di Bernardo Cappello è introdotto dalla prefazione dedicata al

cardinal Alessandro Farnese da Dionigi Atanagi, che assistette l’autore nella

preparazione dell’edizione del 1560.

20

Ad una parte iniziale, in cui l’Atanagi compie un elogio della poetica facoltà,

segue una descrizione dei temi che vengono maggiormente trattati nei

componimenti:

“E quantunque il poema Lirico sia capace d’ogni soggetto; e il Cappello non

ne lasci quasi addietro niuno; egli nondimeno appresso agli amorosi è in quelli

due più frequente, che più sono proprii, e particolari di tal poema: cioè nelle

laudi, e ne’ preghi, che si danno, e porgono a Dio, e in quelle, che si danno, e

porgono a’ Principi, e Signori […] la gratitudine sua verso gli amici, la

riverenza verso i Signori, la fede verso i padroni, il desiderio della libertà

d’Italia, l’amor verso la patria, la pietà verso Iddio: delle quai cose, tutte le sue

cultissime, e dotte carte son piene”.

Ognuno di questi argomenti è affrontato nel canzoniere con uno stile

conformato perfettamente alla lezione bembiana, come sottolinea lo stesso

Atanagi.

La prefazione prosegue e si conclude all’insegna delle lodi del cardinal

Farnese, dedicatario di molti dei componimenti della raccolta in qualità di

protettore del poeta.

“Voi solo sete stato il porto delle fortune […] e l’asilo, e ‘l tempio del suo

duro esiglio; così Voi solo dalla gratissima Musa sua sete sopra tutti gli altri

gloriosamente cantato, celebrato, e alla immortalità consacrato.

[…]

A Voi dunque Illustriss. Signore più che ad ogni altro, si convengono

dirittamente queste Rime: e io perciò a Voi le consacro”.

II.3. Il canzoniere

Il “libro” di Rime di Bernardo Cappello si inserisce nel bembismo, per cui il

Canzoniere del Petrarca risulta l’archetipo storico e formale del genere

consapevolmente imitato.

21

Come nei Rerum Vulgarium Fragmenta, la successione dei componimenti si

snoda lungo una linearità cronologica (pur con qualche oscillazione).

Premesso al canzoniere, in alcune copie della princeps, si inserisce un sonetto

di dedica al cardinal Farnese: il Serassi lo cita come componimento di autore

incero, ma gli ultimi studi (Gigliucci 2000) sembrano attribuirlo all’autore

stesso

SONETTO

Premesso a penna in un Canzoniere dell’Autore, che presso di noi si conserva

Qui come uomo in se moia, in altri viva,e fra le nevi del timore avvampi,sperando ognor, che lo disciolga e scampida servitù chi pur d’arbitrio il priva,piango e canto sovente; e come schivade’ sensi, incontra loro alma accampi;e come talor vinta (oimè) ristampiil torto colle, ond’a rio fin s’arriva.Piango anco il duro esiglio mio, che sianella mia patria indegno e tristo esempio,e crudel nota all’alta pietà mia.E canto voi mio asilo e tempio,almo Farnese: o grave non vi sia,se delle vostre glorie i miei figli empio.

Il sonetto proemiale svolge la funzione di dedica alla donna amata con

richiami a Rerum Vulgarium Fragmenta, I.

SONETTO 1

Queste Rime, ch’a voi piane e dimesse vengon, sì come fide serve umili,vi mostreran, che di desir non viliAmor dolce per voi l’alma m’impresse.Queste lo sperar mio raro, e le spesse paure in lieti e ‘n dolorosi stilivi scopriranno ancor; se le gentilivostre orecchie lor sien talor concesse.E qual uom, ch’allo specchio entro si mira,vedrete in lor l’alte eccellenze vostre

22

risplender quasi mille accese stelle: e forse poi non prenderete in ira,che tra gli affetti miei chiaro si mostre,quanto avanzate le più sagge e belle.

L’amore giovanile

Dal sonetto 2 inizia a delinearsi la storia dell’innamoramento del poeta: siamo

nella primavera del 1522 ed il poeta ha 24 anni.

SONETTO 2

Nel dolce tempo, alla stagion novellache strugge il ghiaccio, e produce erbe e fiori, e racquistati i suoi perduti onoril’antica madre appar giovene e bella;allor che dolce Progne, e sua sorellagli altrui piangono, e i lor commessi errorie ‘l petto accese d’amorosi ardorischerzan le fere in questa parte e ‘n quella;nel più vago fiorir de’ miei verdi anni donna di virtù piena e di beltadem’apparve tal, che’l Sol seco perdea.Quinci sepp’io, com’uom sua libertadecon servitù lieto cangiar potea,e mieter gioia de’ suoi sparsi affanni.

Nel componimento, in realtà non appaiono informazioni dettagliate riguardo

la datazione: il poeta afferma semplicemente di trovarsi nel periodo dei suoi

“verdi anni”. Dal macrotesto si ottiene la linearità cronologica: i singoli testi

contribuiscono a creare un discorso che travalica i limiti degli spazi bianchi e

che si articola tramite i dati che il poeta inserisce qua e là nei singoli

componimenti, in modo da formare una rete di nozioni che permettono di

ricostruire la storia22.

22 Cfr. Santagata, 1989.

23

Con il sonetto 3, indirizzato alla Speranza, il Cappello dà il via ad una serie di

testi che affrontano i topoi letterari petrarchisti, utilizzando immagini e termini

cari alla tradizione: in particolare, i sonetti 3 e 6 sono legati dall’utilizzo

dell’immagine dell’ esca, che nel sonetto 3 è ripetuta in anafora ai vv. 7 e 9;

ancora, il sonetto 6 è ulteriormente legato al 4 per quanto riguarda l’uso

dell’immagine degli occhi di Madonna (bei zaffiri e occhi, ov’egli la sua face

accende). I sonetti 5 e 8 hanno in comune il tema della “guerra amorosa” e

presentano una terminologia specifica (possente invitta schiera, infami schiere,

guerrieri alati, l’aurate sue quadrella23).

Il sonetto 8 introduce la tematica della gelosia, con la comparsa della quale i

toni si fanno più cupi per preannunciare ciò che avverrà nel sonetto successivo,

ovvero l’isolamento del poeta:

SONETTO 8

Cercai, quanto più seppi, allontanarmi, donna, sempre dal vulgo, e farmi tale, che non potesse a pien morte col frale,ch’io vesto, d’ogni lode anco spogliarmi.E quinci voi soggetto de’ miei carmiscelsi in donando al bel desio nov’ale:ma vostra colpa (e non poco men cale)d’altre piume convien, ch’io l’orne e armi.Sì forte sia, che non men bella e saggiadi voi più caro, ch’altri mille avrammi:né mi porrà col vulgo indegno e stuolo.E io per far, ch’ogni altra invidia l’aggia,tenterò coi miei versi alzarla a volo;sì ch’ogni alma gentil di lei s’infiammi.

La colpa, a cui il Cappello fa riferimento al v.7, trova una corrispondenza nel

sonetto 10, ai vv. 5-7 (il mio core / Ti riapriro, rotto il duro obietto / Di che

cinto l’avea gelato affetto), all’interno del quale lo scrittore descrive il suo

23 Cfr. Ovidio, Metamorfosi: gli strali d’oro inducono amore, odio quelli di piombo.Cfr. RVF, CCVI, 10-11, “S’i’ ‘l dissi, Amor l’aurate sue quadrella / spenda in me tutte, et l’impiombate in lei”.

24

riavvicinamento all’amore, avvenuto dopo vari tentativi fatti da Amore stesso di

rientrar nel mio rinchiuso petto.

Con il sonetto 11, ritroviamo l’utilizzo di un’immagine tipica della tradizione

petrarchesca quattro-cinquecentesca: Madonna viene paragonata ad una Fenice,

a causa della quale la ragione viene vinta dall’appetito. Il topos della Fenice

rappresenta tradizionalmente donne che non hanno pari in bellezza e leggiadria;

un esempio dell’uso di questa figura lo si può trovare in Rerum Vulgarium

Fragmenta nella canzone CCCXXI, E’ questo ‘l nido, in che la mia Fenice. Il

componimento è debitore nei confronti del Petrarca anche per quanto riguarda il

presupposto filosofico: il contrasto tra parte razionale e parte volitiva dell’anima

umana nel mito platonico dei due destrieri. L’immagine della Fenice e il

pensiero filosofico “sono a tal punto assimilati e resi abito mentale da perdere

ogni connotato allegorico per apparire come elementi naturali di un racconto

che si svolge senza asperità e in cui anche le dirette citazioni petrarchesche (E

chi discerne è vinto da chi vuole, RVF, CXLI, v. 8) non si avvertono artificiose

ed esibite, ma anzi entrano inavvertite nel tessuto lessicale e sintattico della

composizione”24.

Il sonetto 12 contiene un topos frequente, ovvero quello della nave e del

nocchiero in balia delle onde, la cui salvezza, in questo caso, dipende

dall’amore (E da’ begli occhi, ond’Amor mai non parte / Tratto ritorno, ov’è la

morte mia).

Il sonetto 13 mostra l’influsso dell’elegia classica nella poesia del Cappello, in

quanto al v. 2 la donna amata viene chiamata Cinzia, nome usato da Properzio

per indicare la giovane schiava Licinna, cantata nei suoi “libri”: il nome si

collega ad Apollo ed, in particolare, a Diana, che nacquero a Delo, sul monte

Cinto (si ricordi, a proposito, anche la Delia di Tibullo). Il Cappello si cimenta

qui nell’imitazione dell’epigramma Constiteram ex orientem25 di Quinto Lutazio

24 ? Chiodo, 2000, p. 45. 25 ? “Constiteram ex orientem Auroram forte salutans, / cum subito a laeva Roscius exoritur. // Pace mihi liceat caelestes dicere vestra: // mortalis visus esse deo”. Questo epigramma piacque soprattutto al Petrarca e a partire dalla sua reinterpretazione (“Così mi sveglio a salutar l’Aurora / E ‘l sol ch’è seco, e più l’altro ond’io fui / ne’ primi anni abagliato e son ancora. // I’ gli ho veduti alcun giorno ambedui / levarsi insieme, e ‘n un punto e ‘n un’ora /

25

Catulo tradito da Cicerone nel I libro del De natura Deorum: l’immagine della

donna-sole è peraltro presente nell’intero suo canzoniere.

Il tono elegiaco si ritrova anche nel sonetto 15, nel quale il poeta esprime la

sua sofferenza per l’indifferenza di Madonna e la propria infelicità..

I sonetti 16 e 17 costituiscono un dittico incentrato sulla figura retorica

dell’ossimoro e le connessioni di equivalenza, in questo caso, si sviluppano tra

gli elementi della forma del contenuto e dell’espressione:

SONETTO 16 SONETTO 17Onde mi vien questa mia viva morte? Leve mio peso, e gioia mia dolente,Onde’l mio dolce amaro, e’l freddo foco, viva mia morte, e timida mia speme,e la mia lieta pena, e questo gioco che nel fuggirmi mi seguite, e’nsemedolente, e questa mia non dubbia sorte? lunge mi sete in un punto e presente;Onde, che’l mio sperar tema m’apporte; l’alma incerta di quel, che prova e sente,e che molto languir m’offenda poco; ride nel pianto, e nel suo riso geme:e che gli aiuti, ch’io tacendo invoco, e struggersi e nudrir d’un stesso seme sieno mie fide e disleali scorte? dolce e amaro, in un s’allegra e pente. Con quai piume nel ciel presto e leggero O potenzia d’Amor quanto lei prestam’ergo ad ognor; s’anco sì tardo e greve in tormentando far beato altrui:pur piè da terra unqua non levo o movo? qual miracol maggior d’oprar ti resta?O qual virtù fa, ch’io, come al Sol neve, Anzi di ciò cagion sete sol vuimi sfaccio, e qual Fenice mi rinnovo? vital mia fiamma, e neve mia funesta,Lasso, io no’l so: ma ne gioisco e pero. che’l valor date e ritogliete a lui.

Con il sonetto 20, compare nella raccolta un’ulteriore tematica molto cara al

poeta, ovvero la meditazione sulla vanità dell’esistenza, che il Cappello ravvisa

nel desiderio della gloria e degli onori, probabilmente per influsso della poesia

dellacasiana, pur con il ricordo dei Trionfi: la canonica contrapposizione di rime

d’amore e poesie di pentimento si esemplifica qui come completa adesione al

concetto di canzoniere come specchio di vita ed esempio morale in versi.

SONETTO 20

Se’l breve corso della vita umanalunghe speranze incominciar ne vieta;ond’è, che non si spegne, e non s’acqueta

quel far le stelle e questo sparir lui”, RVF, CCXIX, 9-14) si inaugurò nella tradizione della poesia volgare una fortunatissima teoria di imitazioni che ebbe un momento particolarmente significativo in epoca farnesiana, nelle cui corti i versi di Lutazio Catulo ebbero entusiasti estimatori.

26

l’accesa nostra ambizione insana?Se non ci dimostrasse e corta e vanala vaghezza, che n’arde e inquieta,il tornar e’l fuggir del gran pianeta26;e la poco anzi bionda terra, or cana;direi, che’l mendicar gemme e tesori,e’l procacciar scettri, corone, e fama,fosse propria, e’l tempo strugge e furale ricchezze, le vite, e i nostri onori;perché pur sol quest’ombre, e non Dio s’ama?

Il componimento 2127 si inserisce, all’interno del “libro”, come prima

canzone: il poeta, rivolgendosi prima ad Amore e poi alla donna amata, spera di

mutare in speranza il timore, e’n riso il pianto e, in questo suo tentativo, parla

dell’eternità che i suoi versi daranno a Madonna così come accadde per Laura,

amata dal Petrarca, e a Beatrice, amata da Dante (E quanto dieder fama alta e

felice / Gli egregi Toschi a Laura e a Beatrice).

Il sonetto 2328 fa parte del filone di poesie di pentimento inaugurate dal

sonetto 20: il Cappello fa riferimento a Dio come colui al quale bisogna

unicamente rivolgere le proprie attenzioni per non perdere la giusta via e,

nell’esprimere questo concetto, riutilizza la metafora della nave, quale

paradigma dell’instabilità e del pericolo cui sono sottoposte tutte le realtà

umane, declinata, in questo caso, in senso spirituale.

La canzone 24 è particolarmente significativa in quanto esprime il desiderio

del poeta di far conoscere al mondo l’eccezionalità della donna amata: a questo

scopo, egli fa ricorso a molti dei moduli espressivi della tradizione lirica

petrarchesca29.

26 Cfr. Trionfo del Tempo.27 “Ove ‘l giglio e la rosa / uccide”, cfr. RVF, CXLV, 1, “Pommi ove ‘l sol occide i fiori e l’erba”. 28 Il sonetto inizia con un’espressione che risulta essere la traduzione del Salmo I, Beato colui.29 Alcuni versi sono d’imitazione petrarchesca: “Felice chi percosso è da tai lumi”, cfr. RVF, LXXII, 67-68, “Felice l’alma che per voi sospira. / Lumi del ciel”; “Or quai fonti, quai fiumi / d’eloquenza sì pieni / porian cantar giammai / quel, che’n me fanno i rai / di quei be’ sguardi più che ‘l Sol sereni?”, cfr. RVF, LXXII, 10-12, “Né giammai lingua umana / cantar poria quel, che le due divine / luci sentir mi fanno”; “Sei secretaria antica”, cfr. RVF, CLXVIII, 2, “Che secretario antico è fra noi due”.

27

Il componimento si apre proprio con la manifestazione di questo desiderio:

Amor, poich’hai desio30 / Ch’io di costei ragioni / E l’alto suo valore al mondo

scopra / Questo anco è voler mio. Da questa volontà si sviluppano una serie di

immagini che descrivono Madonna: il terso e crespo oro31 , l’angelico riso, i

begli occhi in voce alta, il parlar, espressioni che vengono elencate in anafora

tramite l’avverbio or. Successivamente, la donna amata viene paragonata alla

primavera, stagione topica per la lirica amorosa e periodo dell’anno nel quale

avvenne l’innamoramento del poeta (Ed or l’andar celeste / Che d’erbe e di fior

veste / Ovunque i passi mova o presti o lenti). Ancora, la divinizzazione di

Madonna (Donna dal ciel discesa) ed infine l’uso dell’immagine dei “lacci

d’amore” (Quei capei crespi e biondi / Che’l cor stringa e circondi / Amor fra i

lacci lor leggiadri e bei / Fan sì dolci legami / Ch’uom libertade sprezzi, e

servir brami).

Questa canzone può, quindi, considerarsi come una sorta di contenitore in cui

sono esemplificati gli aspetti caratteristici della poesia cinquecentesca di stampo

petrarchesco.

Con il sonetto 25 si apre un blocco di componimenti accomunati dalla

medesima tematica naturalistica: il poeta si immagina nell’atto di cantare le sue

pene d’amore tra le selve e di rendere partecipe la natura della sua sofferenza. In

quest’ottica, si sviluppa una sorta di evoluzione del coinvolgimento degli

elementi naturali: se nel sonetto 25 e nella canzone 2632 le selve sono spettatrici

compassionevoli della condizione dello scrittore, nella canzone 31 si nota come

la natura venga coinvolta attivamente. Il poeta descrive, ora, gli sconvolgimenti

che subiscono gli elementi naturali a causa della lontananza di Madonna.

All’interno di questo blocco tematico si inseriscono due sonetti (27 e 28)

“filosofici”: nel primo, il Cappello definisce il cuore come la sede dell’animo e

quindi dei sentimenti, dove Amore ha impresso l’immagine della donna amata;

30 Cfr. Ariosto, canzone 4, Amor, da che ti piace.31 Cfr. RVF, XC, 1, “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”.32 “Poscia sovra ‘l mio cor, qual leon, rugge”, cfr. RVF, CCLVI, 7, “E ‘n sul cor, quasi fiero leon, rugge”.

28

nel secondo, si fa riferimento alle teorie neoplatoniche, secondo cui si può

ascendere alla contemplazione di Dio tramite la contemplazione delle bellezze

terrene. Nel sonetto 28, quindi, Madonna si fa intermediaria tra Dio ed il poeta.

Nella canzone 31, il poeta vive e lamenta una condizione di allontanamento

dall’amata; questa condizione, unita all’indifferenza di Madonna stessa, insinua

in lui un proposito di suicidio che viene descritto nella canzone 32, e che viene

scongiurato dalla consapevolezza di non poter più rivedere la donna amata dopo

la morte.

I sonetti 3333 e 34, legati dalla stessa parola incipitaria (“Non”), costituiscono

un dittico: se il primo esprime la condizione esistenziale di lontananza da

Madonna, per cui il dolore dipende dall’interruzione del rapporto tra gli amanti,

il secondo innesca il ricordo che funge da filtro per la riattivazione del piacere34.

La storia amorosa del Cappello prosegue all’insegna della sofferenza: i sonetti

35-38 sono segnati dal lamento per il disprezzo dell’amata, in un crescendo di

crudeltà che porta il poeta, all’altezza del sonetto 39, a dubitare della liceità del

suo amore.

In particolare, i sonetti 35 e 36 costituiscono un dittico incentrato sul

parallelismo lessicale: oltre ad essere accomunati dalla stessa parola incipitaria

(”Se”), presentano entrambi l’espressione “vostro orgoglio” in riferimento

all’atteggiamento ostile di Madonna.

Il sonetto 39 si rivela molto importante per quanto riguarda la ricostruzione

cronologica degli avvenimenti descritti nel canzoniere: qui, il Cappello,

sostenendo di aver varcato più che’l mezzo del mondan breve viaggio, si trova a

fare una sorta di bilancio della sua vita e comprende che la scelta migliore

sarebbe allontanarsi da Madonna prima che sia troppo tardi per tornare sulla

retta via.

SONETTO 39

Con quanto ardor quanti perigli ho corsi33 “Non ebbi poi, che dir potessi un’ora / lieta giammai”, cfr. RVF, L, 26-27, “Ch’i’ pur non ebbi ancor, non dirò lieta, / ma riposata un’ora”. 34 Zanni, 2014.

29

Seguendo i tuoi vestigi, e’n quante parti,Sai pur Amor, e i passi indarno sparti:Né però mai dall’orme tue piè torsi.Sai di che speme al cor già stanco porsiVigor, ond’ei potesse seguitarti:Quai fur teco i miei studi: e con qual artiL’alma fin qui sotto’l tuo giogo scorsi:Né pur pietà, non che mercè ritrovoLa’ ve mi promettesti: e più che’l mezzoVarcat’ho del mondan breve viaggio.Or perch’io non mi penta poi da sezzo.Dell’errante tua strada il piè rimovo35

Scorto dal lume pio del divin raggio.

I componimenti che seguono sono tutti incentrati sulla sofferenza del poeta.

In particolare, nel trittico di sonetti composto da 40, 41 e 42 il dolore è

causato dalla preoccupazione per una malattia che ha colpito Madonna: nel 40,

il Cappello si rivolge a Dio affinché la guarisca, dato che dalla sua salute

dipende anche la propria; il 4136 è indirizzato alle Ninfe del mar Adriatico, le

Nereidi, al fine che esse intercedano per la salvezza della donna presso Apollo,

dio della medicina; nel 42, la donna amata è finalmente guarita ed il poeta si

impegna ad abbandonare i tristi pensieri per rinnovare in rime e versi il

sentimento d’amore nei suoi confronti.

La tematica della malattia è affrontata anche al sonetto 46, nel quale, però, è il

Cappello stesso ad essere affetto da un morbo, quello della sofferenza amorosa,

che non può essere curato in alcun modo: Che medicina non di pietre, o d’erbe /

Né d’arte maga mi può dar salute37.

Con il sonetto 45 compare il tema dell’infamia, che viene successivamente

ripreso al sonetto 47: lo scrittore si ripromette di cessare i lamenti per non

danneggiare l’onore di Madonna..

35 Cfr. Tasso, canzone, Amor, tu vedi: Ecco ch’io dal tuo regno il piè rimovo.Il piede rappresenta, metaforicamente, la potenza appetitiva dell’anima, soggetta alle passioni (cfr. Achille, vulnerabile solo nel piede ed Euridice, morsa al piede da un serpente).36 “Specchio di valor vero al mondo cieco”, cfr. RVF, CLXXXIV, 11, “Che specchio eran di vera leggiadria”. 37 Cfr.RVF, LXXV, 2-4, “Ch’ e’ medesimi porian saldar la piaga, / e non già vertù d’erbe, o d’arte maga, / o di pietra dal mar nostro divisa”.

30

Con la canzone 4838 ed il successivo sonetto 49 ricompare l’immagine della

natura compartecipe del dolore del poeta: nella solitudine della notte, vissuta in

luoghi selvaggi ed isolati, lo scrittore ama solamente la compagnia della Luna,

la quale, con i suoi languidi raggi, permette ad erbe e fiori di crescere rigogliosi

senza il rischio che vengano bruciati dal Sole. Questa vitalità della natura

ricorda l’eterna primavera dell’età dell’oro.

Il sonetto 51 fa parte dei componimenti cardine per la ricostruzione

cronologica della storia: il poeta dichiara che sono passati dodici anni dal giorno

in cui è stato colpito dall’amore e rinnova la sua preghiera ad Amore affinché

l’amata ricambi i suoi sentimenti.

Questo componimento va letto in unione al sonetto 60, indirizzato a papa

Paolo III, Spirto eletto da Dio novellamente per ottenere una datazione

sufficientemente precisa ( cfr. II.1. Cronologia del canzoniere).

SONETTO 51

Dodeci volte il Ciel Febo ha trascorsoDal dì, ch’io posi nel tuo regno il piede39,Amor, ove ben sai con quanta fede,Fra quante pene ho la mia vita corso:Né posso ancor quel cor di Tigre, o d’Orso,Che par sì umil, chi ne’ begli occhi il vede,Mover sì, ch’ei di me s’abbia mercede,Per porger preghi, o dimandar soccorso:Or tu, se sei Signor giusto e cortese;Se’nteri serbi quei dorati strali,Che nelle piaghe mie già fur sì saldi;Mostra lei, come pungi, e quanto vali,Qualor onesto sdegno avvien ti scaldi:Sì vedrenti avanzar tutt’altre imprese.

I componimenti inseriti in questo luogo del canzoniere sviluppano la tematica

della sofferenza amorosa.

38 “Meco rimanti in questi tronchi scritta”, cfr. RVF, CXXV, 81, “Rimanti in questi boschi”. 39 Cfr. Bembo, Rime, VII, 2, “Quel dì, ch’io posi nel suo regno il piede”.

31

Nella canzone 5240 lo scrittore, augurandosi la morte, immagina di ascendere

in Paradiso e di ascoltare le parole di pentimento di Madonna per aver

disprezzato il suo amore: questo pentimento viene presentato come una

ricompensa nell’aldilà.

Questi tormenti d’amore sono confidati all’amico Girolamo Molino (sonetto

53), il quale è partecipe della stessa sorte di amante non corrisposto.

La condivisione della sofferenza porta il poeta ad ammonire gli altri uomini a

non avvicinarsi all’amore per le insidie che nasconde (sonetto 56); egli stesso

non ha potuto sottrarsi a quelle insidie perché non ha saputo resistere ad Amore

(sonetto 57).

Il tema dell’impossibilità viene poi declinato da una parte come difficoltà nel

descrivere a parole le dolcezze dell’amore (sonetto 58), dall’altra come

incapacità di nascondere i sentimenti (sonetto 59).

Dal sonetto 60 si inseriscono nel canzoniere le rime che nella prefazione

l’Atanagi citava come quelle che si danno e porgono a’ Principi e a’ Signori,

per la maggior parte rivolte ai componenti della famiglia Farnese.

La canzone 61 è un componimento politico in cui si chiede e papa Paolo III di

intervenire per salvare l’Italia: il Cappello fa qui riferimento al giogo, che la

preme (guerre tra l’imperatore Carlo V ed il re di Francia Francesco I) ed al

fiume, ond’ella sol spegnere desia, ovvero il Giordano (conquista della Terra

Santa).

Questo componimento risente fortemente dell’influsso della canzone Spirto

gentil; che quelle membra reggi (RVF, LIII), nella quale Petrarca si rivolgeva ad

un influente uomo politico non ben identificato (le ipotesi variano da Cola di

Rienzo a Stefano Colonna o ancora a Bosone di Gubbio)41 per incitarlo a

rialzare le sorti di Roma. Un altro antecedente si ritrova nella canzone

petrarchesca Italia mia (RVF, CXXVIII).

40 “E come cosa orribile m’addita”, cfr. RVF, VII, 7, “Che per cosa mirabile s’addita”. 41 Santagata, 1989 (connessioni di equivalenza che riguardano gli elementi del contenuto).

32

Dopo questa parentesi politica, riprendono i componimenti amorosi segnati

dalle pene del poeta.

I sonetti 62 e 63 formano un dittico incentrato sulla crudeltà di Madonna: in

entrambi lo scrittore utilizza le medesime espressioni per descrivere il suo stato

d’animo (per mostrarvi irata e fera ripresa da Qualor vi scorgo sì sdegnosa e

fera e Sempre languir per voi la notte e’l giorno in unione alla successiva

Quantunque notte e dì pianga e sospire) ed entrambi sono caratterizzati dalla

stessa parola incipitaria (“Né”).

I componimenti di sofferenza (65, 66, 67, 69, 70) si alternano a quelli in cui

Madonna viene descritta con le caratteristiche che ricordano la “donna angelo”

della tradizione stilnovistica: nel sonetto 64, il poeta la paragona ad una divinità

(Venere), utilizzando moduli e stilemi petrarcheschi nella descrizione delle parti

del corpo (alternando i piè Venere danzar si vede, dolce riso, bei crini).

Il sonetto 68 racchiude molte delle caratteristiche della poesia amorosa: le

espressioni della prima quartina sono debitrici di RVF CXCVIII (L’aura soave

al sole spiega e vibra); successivamente l’amata viene descritta con le topiche

caratteristiche relative (Nobil! Donna e umil, santa e cortese / Fonte d’alta

eloquenza, e di valore); ancora la visione di Amore, rappresentato come padre

della poesia, e di Madonna ispira nobili concetti ed è capace di destare anche gli

ingegni più rozzi.

Nel sonetto 72 il poeta si sofferma sulla lode di ogni particolare legato alla

donna amata: il tempo e ‘l loco, ove d’Amor fui vinto, lo stral, che m’aperse il

manco lato, gli occhi, i lacci, ’l foco, le lagrime e i sospiri, la vostra alma

beltade.

La tematica della partecipazione degli elementi naturali alle pene del poeta

percorre tutto il canzoniere: essa viene ripresa anche nel sonetto 73 e nella

canzone 74, nella quale lo scrittore si lamenta, testimone appunto la natura,

delle sofferenze causategli dall’ingratitudine di Madonna che egli ha sempre

cantato nelle sue rime; nella parte finale del componimento, il poeta sostiene di

voler lodare se stesso per tre motivi (per la condizione in cui si trova, per il

modo in cui lo fa e per l’utilità altrui) e, in ultima istanza, rimpiange di non aver

33

dedicato i suoi versi ad Eleonora Gonzaga, moglie di Francesco Maria della

Rovere, Duca d’Urbino.

Il sonetto 76, così come il dittico 87-88, fa parte di quei componimenti di

pentimento che testimoniano il contrasto interiore del poeta, diviso tra l’amore

per Madonna, il desiderio di fama ed il bisogno di una riconciliazione con Dio.

Se nel 76 lo scrittore si vergogna del suo errore, ovvero di aver dedicato tutte le

sue attenzioni alla donna amata, nel dittico 87-88 il poeta, rivolgendosi

direttamente a Dio, chiede pietà per i suoi sbagli e aiuto per resistere alle

tentazioni del demonio.

La meditazione sulla vanità dell’esistenza viene riproposta al sonetto 79,

indirizzato all’amico Marcantonio da Mula, vescovo di Rieti e bibliotecario

Apostolico, al quale il Cappello confida le sue preoccupazioni che hanno reso la

sua mente sì come piccoletta barca42 / La qual coi remi il fiume avverso ascende

e sforza.

Il sonetto 81, rivolto a Marcantonio Broccadoro, affronta nuovamente il tema

della malattia d’amore: l’amico, notoriamente esperto nell’arte medica, viene

coinvolto affinché trovi un rimedio per le sofferenze del poeta.

Le pene che tormentano lo scrittore sono, infatti, talmente dolorose che egli

accusa Madonna di essere la responsabile della sua morte imminente (sonetti 83

e 84).

I sonetti 89 e 90 costituiscono un dittico d’imitazione dantesca43: il poeta si

rivolge alle donne, le quali hanno tradizionalmente un legame privilegiato con

Amore, affinché lo consolino delle sofferenze provocate dalla crudeltà di

Madonna.

Il tema della lontananza dell’amata è reintrodotto nel trittico di sonetti 91-92-

93: nel primo lo scrittore si rivolge alla Fortuna rea che ha allontanato

Madonna da lui, facendo riferimento alla condizione degli innamorati che

vedono la persona amata anche quando è lontana; nel secondo l’anima del poeta

42 Cfr. Dante, Paradiso, canto 2, “O voi che sete in piccoletta barca”. 43 Cfr. Dante, O voi che per la via d’amor passate.

34

si stacca dal corpo per seguire la donna amata, il cui piede è, però, così veloce

da poter essere raggiunto solo con le ali d’Amore (sonetto 93).

Dopo una parentesi costituita dal sonetto 94 in morte di Cesare Trivulzio,

nunzio di papa Leone X e di Clemente VII , vescovo di Como e di Asti, segue

un blocco di componimenti indirizzati a famose nobildonne dell’epoca.

Il trittico di sonetti 95-96-97 è dedicato alla Duchessa Eleonora d’Urbino, alla

quale si era già accennato nella canzone 74: tutti e tre i componimenti sono volti

alla lode della donna; in particolare, nel terzo il poeta si sofferma a celebrare le

due città che hanno ospitato la Duchessa (Urbino, bagnata dal fiume Metauro, i

cui abitanti, grazie al savio e prudente governo di Eleonora, godono la

condizione di coloro che vissero nell’età dell’oro sotto Saturno e Padova, in cui

Antenore, che la eresse, ritornò dopo le sue disavventure per lasciarvi le proprie

armi e donare il suo nome alla nazione).

Il dittico costituito dai sonetti 99 e 100 è invece dedicato a Veronica Gambara,

poetessa attenta e partecipe alla vita culturale e politica del suo tempo. Il 99, in

particolare, è il componimento, già citato nel capitolo I in cui il Cappello

riconosce apertamente il Bembo come suo maestro di poesia: a lui sono

indirizzati alcuni dei componimenti che seguono.

Nella canzone 10244, infatti, il poeta paragona il Bembo al Petrarca per

l’eccellenza dello stile che, a parere dello scrittore, è apprezzato da Madonna in

misura maggiore del suo.

Il componimento contiene un’informazione particolarmente significativa per

quanto riguarda la linearità cronologica del macrotesto: al v.38 il Cappello

dichiara che sono passati tredici anni dal suo innamoramento, il che permette di

datare la canzone al 1535.

Lo stato d’animo del poeta, continuamente altalenante tra gioia e dolore, è ben

esemplificato al sonetto 105, nel quale tramite l’insistenza sulla figura retorica

dell’ossimoro lo scrittore esprime la sua condizione d’instabilità.44 “Che ricercando le midolle e gli ossi”, cfr. RVF, CLV, 8, “E ricercarmi le midolle e gli ossi”.

35

SONETTO 105

Fra speranza e timor languisco e godo:E la gioia e ‘l languir di par mi piace:Corro alla guerra, e vo cercando pace:E di cui più mi lagno, ognor mi lodo.Ove libertà tento, ivi m’annodo:E sordo a chi favella, odo chi tace:E di me quel nudrendo, che mi sface,Morendo vivo in dolce acerbo modo.Senz’alma spiro: e senza lumi il SoleVagheggio: e senza lingua oso dir cose,Che darian malavoglia a chi l’udisse:E bramo il ben di tal, che ‘l mio mal vole.Con queste leggi Amor in me s’affisse,Donna, quando ad amarvi ei mi dispose.

Questa incertezza porta lo scrittore, come già in precedenza, a rivolgersi a Dio

(sonetto 106) augurandosi di rinsavire con l’avanzare dell’età.

Il blocco politico e farnesiano

I componimenti che seguono (108/112) costituiscono una serie a tematica

politica: i destinatari sono l’imperatore Carlo V ed il re di Francia Francesco I.

La canzone 108, a Carlo V, è costruita secondo i canoni di un’orazione

deliberativa: la prima stanza si apre con una captatio benevolentiae sulla scorta

di quelle suggerite da Menandro nel De genere demonstrativo45, seguita da una

proposizione in cui, da una parte si chiede che l’imperatore metta fine alla

guerra con Francesco I e dall’altra si esorta all’impresa in Terra Santa. Ai vv.

13-17, in riferimento allo scontro tra Carlo V e Francesco I, il poeta parla

dell’invasione dello Stato di Milano da parte del re di Francia che avvenne

45 Pelopideo, Annotazioni, TOMO II.

36

contemporaneamente all’assalto da parte dell’imperatore, di ritorno da Tunisi,

dello Stato francese.

I due episodi avvennero nel 1536, che è l’anno di probabile composizione

della canzone; nello stesso anno 1536 Carlo V diede in moglie la sorella

Eleonora a Francesco I per suggellare la pace (cfr. terza stanza). Nella quarta e

nella quinta stanza, il poeta cerca di muovere a compassione l’imperatore

facendo riferimento al pericolo che correva l’Italia a causa dell’avanzata dei

Turchi ed esortandolo alla riconciliazione con il re di Francia. A tal proposito

sono molto interessanti i vv. 52 e 53 (Pace pace tra voi: volgasi il ferro / Ove

Cristo vi chiama) che richiamano le parole del Petrarca (Io vo gridando pace

pace pace) nella canzone Italia mia.

Il tema della necessità della pace tra l’imperatore ed il re di Francia viene

affrontato anche nel sonetto 111 indirizzato ad entrambi: il poeta cerca di

persuaderli ad una riconciliazione, che avvenne poi nel 1537, in vista della

guerra contro gli infedeli.

Il dittico che segue (sonetti 113 e 114) è dedicato al Bembo: il secondo è in

risposta al sonetto CXIV46 del maestro, il quale nell’estate del 1528 aveva

composto e dedicato al Cappello due componimenti il cui argomento è la

rinuncia all’amore. Nel sonetto 113 invece il poeta sostiene di trovarsi nelle

terre del Friuli, non lontano dal Colle di Conegliano, dove piange per la crudeltà

di Madonna che ormai ama da quindici anni (v. 10).

Il componimento risale al 1537, stesso anno della morte della moglie del

fratello Carlo Cappello e di Pietro Pizzamano, ai quali sono dedicati il sonetto

117 e la canzone 119.

Per quanto riguarda il componimento in morte del Pizzamano, il poeta

immagina le parole di dolore del fratello dell’amico ed infine descrive una sorta

di sogno nel quale Pietro scende momentaneamente dal Paradiso per descrivere

allo scrittore l’immensa gioia che prova nella sua vita nell’aldilà e gli parla di

46 Edizione di riferimento: Rime a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino, 1966.

37

alcuni uomini illustri che ha incontrato nei cieli (tra i quali il Navagero e

l’Ariosto). I riferimenti a Dante sono numerosi.

Il sonetto 120 riprende il tema della tregua tra Carlo V e Francesco I: il

Cappello si rivolge a papa Paolo III proprio in occasione della Lega di Nizza.

A Paolo III è indirizzato anche il sonetto 124, scritto per esortare il papa ad

includere il Bembo nel collegio cardinalizio (1539).

Prima di questo componimento, si pone un ulteriore sonetto, il 122,

importante per la ricostruzione cronologica degli avvenimenti descritti nel

canzoniere: il poeta si rivolge alla Duchessa d’Urbino Eleonora Gonzaga allo

scopo di consolarla per la morte del marito Francesco Maria della Rovere,

avvenuta il 20 ottobre 1538

Il sonetto 126 dedicato ad Alessandro Farnese, protettore del Cappello dopo

l’esilio da Venezia, apre una serie di componimenti in lode del cardinale e della

famiglia di questi: qui, come in altre parti del canzoniere, il poeta lo paragona

ad Alessandro Magno in virtù del potere che il ciel già diede / tener dell’oriente

il sommo impero.

SONETTO 126

A Te qual già Reina alta del mondoVegno, e lieto m’inchino: e via più ancora, poiché nel grembo tuo nacque, e dimorachi virtù inalza, e i vizi caccia al fondo.Questi è colui, ch’ogni gravoso pondolieve al grand’Avo suo rende: e onorala nostra età, che di lui priva or foraquasi un mar di miserie ampio e profondo.Questi è ‘l novo Alessandro: a cui sì comeal figlio di Filippo il ciel già diedetener dell’oriente il sommo impero;così veder obedienti e domele genti tutte e le provincie spero,se lo scettro di te gli si concede.

38

Di seguito l’autore indirizza il sonetto 129 a papa Paolo III in

raccomandazione di se medesimo.

All’altezza di questo gruppo di componimenti il Cappello, dopo essere fuggito

dall’isola di Arbe, si trova a Roma e come dimostra il sonetto 131, vive una

condizione di continuo tormento a causa della sua triste sorte di esule.

Il sonetto 132 è indirizzato a Marcantonio da Mula, uno dei protettori del

poeta nei primi anni dell’esilio. Questo ed il seguente 133, dedicato a Niccolò

Zeno, raccontano l’infelicità dello scrittore per la lontananza dalla patria.

I sonetti dal 134 al 138 sono rivolti ad importanti letterati dell’epoca: il 134 è

indirizzato a Vittoria Colonna, poetessa tanto apprezzata da essere chiamata

divina, che celebrò in versi la morte del marito, il Marchese di Pescara, e scrisse

alcune rime spirituali accennate in questo componimento; il 135 è dedicato a

Paolo Giovo, vescovo di Nocera e storico; il trittico 136-138 è, infine, è rivolto

al Della Casa.

Per quanto riguarda i sonetti dedicati a quest’ultimo, lo scrittore si impegna

nella lode delle rime del poeta toscano, al quale chiede di aiutarlo nel migliorare

il suo stile: il Della Casa era talmente apprezzato dal Cappello da essere

giudicato più elegante del Petrarca (sonetto 136, vv. 13-14, del gran Tosco, che

talora, / mentre ‘l cercate pareggiar, vincete).

Il sonetto 139 a madonna Orsa de Dominis appartiene a un genere molto

praticato all’epoca, ovvero quello di un’ampia similitudine dotta che occupa per

intero lo spazio della composizione. In questo caso il poeta, prendendo spunto

dal nome della donna, la paragona alla costellazione dell’Orsa Maggiore

facendo riferimento alla storia di Callisto raccontata da Ovidio nel secondo libro

delle Metamorfosi47.

SONETTO 139

Come nel ciel la rilucente stella,

47 Callisto, concubina di Giove, fu trasformata nelle stelle della costellazione dell’Orsa Maggiore da Giunone.

39

che gelosa Giunon guarda ancor torto,il cammin mostra a’naviganti, e’l porto,onde fuggon sovente atra procella;splende qua giù di luce via più bella,e nell’orribil mar, dove m’ha scortoAmor, è sol mia guida e mio confortodonna, che dal suo nome anco s’appella.Colei dal sacro coro di Dianascacciata fu, qual impudica, e questava d’ogni indignità tutta lontana:e mentre a noi di par bella e onestasi mostra, è sì nell’onestate umana;ch’uom, s’è più casta, o pia, dubbio ne resta.

Il sonetto 140 è dedicato al cardinal Farnese in occasione di una festa data nel

suo parco: il giardino, descritto come locus amoenus, viene paragonato al

Paradiso (cfr. greco, paradiso = orto) e la compagnia di belle donne presenti alla

festa ad angeli.

La lode alle donne continua nel seguente sonetto 141, nel quale il poeta si

rivolge ad Amore affinché lo indirizzi nella scrittura dei versi: il dio gli

suggerisce allora di descrivere gli occhi, la voce e l’aspetto più divino che

umano di donne oneste e belle.

I sonetti 142-146 costituiscono un gruppo di componimenti in onore di

Vittoria Farnese, nipote di Paolo III, mentre il dittico successivo (147-148) è

dedicato ad un altro componente della famiglia Farnese, il cardinale

Guidascanio Sforza, figlio di Costanza Farnese, a sua volta figlia del papa.

Il gruppo di sonetti dal 150 al 153 è indirizzato ad Alfonso d’Avalos,

Marchese del Vasto, il quale, come si è detto, conobbe e stimò molto il Cappello

durante il suo viaggio a Venezia per trattare con il Senato della Lega Santa

contro Solimano, a nome dell’imperatore Carlo V.

Il tema della guerra contro gl’infedeli è sviluppato anche nel dittico

successivo (154-155) rivolto a papa Paolo III.

Il gruppo di componimenti che segue (156-159) è scritto in morte di Faustina

Mancini, detta Mancina, databile tra il novembre del 1543 e l’aprile del 1544: la

gentildonna romana è presente anche nei versi del Molza dove viene celebrata

40

come emblema della bellezza e della fragilità femminile (la Mancina, infatti,

morì di parto). In particolare, nella canzone 157 il Cappello si rivolge a

Ranuccio Farnese, al quale anche il Della Casa indirizzò un componimento in

morte della donna.

Nel sonetto 161 a papa Paolo III è presente un importante riferimento storico:

il poeta allude al Concilio di Trento, indetto nel 1545.

SONETTO 161

Vero terren Giove, ond’alla nostraEtà virtute e reverenzia accrebbeL’altro celeste, a cui del danno increbbe,ch’oggi sovrasta all’alta Chiesa vostra;giacchè da voi ode chiamarsi in giostraal gran Concilio, tutto tremar debbeil rio popol Lutero: e ben vorrebbepoter fuggir quel, ch’ei bramar più mostra.Come sediziosa turba vile,cui ministra il furor il ferro e’l focosì, che già l’opra al minacciar precorre;poi che di pietà grava uomo gentile,e di suoi merti al comun ben soccorre;tace, e paurosa alla ragion dà loco.

I sonetti 164 e 165 costituiscono un dittico in morte di Francesco Maria

Molza, celebre poeta del tempo già citato per la sua predilezione nei confronti

della Mancina.

Un altro dittico è formato dai successivi sonetti 167 e 168 dedicati a

Margherita d’Austria, figlia naturale dell’imperatore Carlo V e sposa, in

seconde nozze, di Ottavio Farnese, nipote di papa Paolo III.

Il gruppo di componimenti che segue (169-172) è scritto in lode di Alessandro

Farnese: il poeta, legato al cardinale per un dovere di riconoscenza, lo definisce

dolce rifugio alle mie acerbe pene (sonetto 172, v. 14).

Dopo un dittico (173-174) dedicato a Lavinia della Valle, moglie di Tommaso

de’ Cavalieri ed un trittico al duca Ottavio Farnese (175-177), il Cappello

indirizza un particolare sonetto, il 178, al cardinal Crispo: in esso, il poeta fa

41

riferimento ad una leggenda secondo la quale il cardinale sarebbe responsabile

di un’impresa in cui un liocorno immergerebbe il corno in un rivo dal quale

uscirebbero dei serpenti.

All’interno di questa serie politica-luttuosa-farnesiana, il poeta dissemina

alcune rime d’amore.

Con il sonetto 180, lo scrittore riprende il tema della lode alla donna amata:

qua l’amore si accende attraverso gli occhi di madonna, ma in questo caso si

parla di un amore casto tramite il quale si possono scorgere le vere gioie, ovvero

quelle di Dio.

Il dittico di sonetti 181-182, dedicato alla nobildonna romana Settimia

Iacobacci, rientra nel circuito di testi scritti dai vari letterati presenti alla corte

farnesiana in onore delle nozze tra la donna e Antonio Iacobacci48.

In particolare, nel sonetto 182 il poeta paragona Settimia a Pandora, alla quale

tutti gli dei presentarono i loro doni. Le virtù dei pianeti si accordano con le

favole degli scrittori e con le influenze degli astrologi: Mercurio, ambasciatore

degli dei, regala a Settimia l’eloquenza; Venere la bellezza; Apollo le dona

occhi acuti e luminosi; Marte, dio della guerra, le rende altera; Giove, padre

degli uomini e degli dei, le dona maniere affabili; Diana, la dea vergine, le

regala la pudicizia ed, infine, Saturno la prudenza e la costanza.

SONETTO 182

Tutti sette i pianeti a prova intentierano in adornar vostro uman velo;quando volle qua giù mandarvi il cielovago di farne innamorar le genti.Dievvi Mercurio accorti e dolci accenti:Venere gigli e rose, che né gelo

48 Forni, 2011, p. 145: “Nel quadro molteplice di un classicismo volgare rinnovato emerge in questi anni un esercizio collettivo della poesia lirica che trova la sua sede più propria entro il dialogo codificato delle accademie. Attraverso circoli culturali di differente gusto letterario , la corte farnesiana promuove infatti il convergere dell’iniziativa poetica intorno ai medesimi eventi celebrati a gara da una pluralità armonica di voci: festività, nozze, incontri, elogi di opere d’arte, commemorazioni funebri di personaggi e nobildonne illustri”.

42

curan, né Sole: e’l Dio, che nacque in Delo,occhi non men, ch’i suoi raggi, possenti:e Giove, e Marte, l’uno i modi alteri,l’altro i benigni, ond’uom v’onori e ama:e Cinzia d’onestate il bel tesoro:e Saturno, i senili alti penseri:poi piacque a quel superno e santo coro,che Settimia da lui Roma vi chiamate.

Con il trittico di sonetti 184-186, indirizzato a Vittoria Farnese, il poeta

riprende la lode della donna e nello specifico fa riferimento alla delusione per la

mancata conclusione del suo matrimonio con Carlo di Valois, duca d’Orleans, al

quale si accennava nel sonetto 179.

Nel dittico 187-188, il Cappello tratta un tema particolare: una donna gli

appare in sogno per chiedergli di comunicare, tramite i suoi versi, il proprio

amore all’amato.

Il trittico di sonetti 189-191 è dedicato a Silvia della Valle: nel 189 il poeta

ricorda il mito di Rea Silvia, madre di Romolo e Remo, fatta Dea per essere

stata moglie del dio Marte; nel 190 lo scrittore fa riferimento al nome della

nobildonna per creare un’ ambientazione silvestre; nel 191, infine, si accenna

agli onori che le furono attribuiti dai versi del Bembo.

L’attività del poeta, durante gli anni trascorsi presso la famiglia Farnese, si

volse spesso a tematiche che riguardano l’origine e le leggende di Roma: nel

sonetto 192, infatti, il Cappello fa riferimento alla vicenda della figlia di L.

Virginio. Livio racconta che la fanciulla venne uccisa dal padre per salvarne

l’onestà: il decemviro Appio la dichiarò schiava del suo cliente M. Claudio al

fine di averla in suo possesso. La plebe romana, a seguito di questo fatto,

eliminò i decemviri ed elesse il magistrato del consoli.

Il gruppo di sonetti 193-198 celebra Livia Colonna, nobildonna romana

moglie di Marzio Colonna: lo scrittore alludendo al cognome della donna, narra

il racconto di Esodo 1349 (sonetto 194).

49 “Qual già per trarre a libertà l’Ebreo / popolo il gran fattor dell’universo / in colonna di nube il di’ converso, / e la notte d’ardor scorta gli feo” e “Che’n colonna di nube vi scoprite”, cfr. Esodo 13,21, “Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, e di notte

43

La presenza di rime d’amore, seppur molto limitata in questa sezione, è

testimoniata dai componimenti 199-202: il 199 sviluppa il tema dei “nodi

d’amore” dai quali il poeta non desidera essere sciolto; il sonetto 200 presenta

una casistica di topoi letterari ( giogo d’Amor, Tigre d’ogni pietà, diletti e duol);

il 201 ha come tema centrale la gelosia; nel sonetto 202 il poeta lamenta la

freddezza di Madonna (nella terminologia amorosa, “gelo” e “gelosia” si

sovrappongono).

I sonetti 203-205 sono indirizzati al cardinal Farnese: il 203, nel quale è

presente il caratteristico riferimento ad Alessandro Magno, è scritto nel

momento in cui il cardinale stava preparando l’esercito per lo zio Paolo III in

soccorso dell’imperatore Carlo V contro i protestanti di Germania, mentre i

sonetti 204-205 formano un dittico che tratta di una malattia e della successiva

guarigione del Farnese.

Il gruppo di sonetti 206-211 è composto per la morte del Bembo (18 gennaio

1547): il grande letterato, maestro di poesia del Cappello, viene ricordato, nel

sonetto 209, anche accogliendo un suggerimento che il Bembo gli aveva

proposto alcuni anni prima. Il Bembo in una lettera dell’11 novembre 1535

scriveva al giovane amico:

“Il mio giudicio d’intorno al medesimo sonetto vostro, che nel fine delle vostre lettere mi chiedete, non aviene che io vi dia; sì perché egli per sé si dimostra vago e bello e leggiadro sopra modo, e sì per ciò che voi n’avete da potere accortamente giudicar tutti gli altri. Né bisognava che esso a me venisse timidamente, come dite, e tale essendo, et ad amico vostro venendo. Nondimeno a fine che vediate che io ho in grado di piacervi, dico che io stimo che sia bene che leviate di lui quella voce Moia, che non par che si dica ornatamente del male. Potrete por nella rima in luogo di lei, Noia, che fia più bella che non è Male; et agevolmente si potrà il verso rassettar tutto, se vi penserete. State sano”50.

con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte”. 50 Cfr. Travi, 1972.

44

La discussione su “noia” in rima al posto di “male” (con l’eliminazione del

precedente “moia”) fa sì che l’epistola esca dal più consueto scambio di cortesie

e rientri in un sistema che prevede un lessico comune, una lingua che si

dimostra subito riconoscibile. La variante sostitutiva proposta (“noia”) risulta,

nella posizione di fine verso, molto più connotativa del generico “male”

(largamente attestato nei Rerum vulgarium). Essa, infatti, appare nel Petrarca

lirico e in quella condizione di rima solo quattro volte: è quindi più preziosa,

meno abusata, intatta nella sua allusività51.

Il Cappello accoglie, quindi, il suggerimento proprio in un sonetto dedicato al

maestro (v. 13):

SONETTO 209

L’Alma, la cui partenza ognor sospingeLa sconsolata mia Musa a lagnarsi;non perch’io non la veggia in cielo starsifra le più gloriose alme benigne;ma perché vera alta pietà mi stringedel mondo, che solea lieto adornarsidi sue sante virtuti; e chiaro farsiquasi ciel, cui l’aurora alluma e pigne;spesso in sogno a me riede; e di sua gioiaor mi fa parte, or chiama il mio duol vano,or in altra maniera mi consola:e se non, che poi ‘l giorno la m’invola;fors’ella acqueterebbe ogni mia noia:o fero giorno, o sogno dolce umano.

Il 211 è, invece, in risposta al sonetto Qual fia ragion che’l duol misuri, e

tempre scritto dal Coppetta per consolare il Cappello della morte del Bembo.

Nel sonetto 212, indirizzato a Benedetto Varchi, il poeta medita sulla vanità

dell’esistenza, sostenendo che chi desidera ascendere alla contemplazione delle

cose celesti si deve purgare dalle passioni umane: lo scrittore si avvale

51 Fedi, 1990, p. 72.

45

dell’immagine di Platone per cui l’anima avrebbe due ali, metafora della virtù

attiva e di quella contemplativa.

Con il sonetto 214 si apre una lunga parentesi in onore dei duchi d’Urbino.

Il trittico di componimenti 214-216 è dedicato a Guidubaldo per consolarlo

della morte della moglie Giulia Varano (18 febbraio 1547) e per persuaderlo a

nuove nozze

Le tre canzoni 217-21952 per le nozze di Guidubaldo della Rovere e Vittoria

Farnese (26 gennaio 1548) sono costruite in modo da risultare simili tra loro per

lo schema delle rime e per il numero di versi in ogni stanza: i componimenti

sono formati da cinque stanze ed un congedo di tre versi.

Le “Canzoni Sorelle” hanno come modello le cantilene oculorum del Petrarca.

La composizione di un “poemetto lirico…diviso in tre canzoni”53 ha avuto un

notevole successo nel Cinquecento: Bembo, nel libro III degli Asolani, ha scritto

un trittico di questo genere, così come molti altri poeti54.

CANZONE 217

Prima stanza

Renda de’ frutti suoi più larga partela terra, che non suole: e mele e i fiumicorrano, e’n puro latte il mar si cange:lascino gli inquieti lor costumii venti tutti, e’l rio Saturno e Marte gli influssi, onde fra noi spesso si piange:e tutto quel, che nostra pace frange,nel ciel, nell’acqua, e nella terra manche:e regni in lor sol quanto gioia apporte.Che poiché dato è ben degno consorte

52 Cfr. RVF, canzoni dette “degli occhi” dallo stesso Petrarca (LXXI, Perché la vita è breve, LXXII, Gentil mia donna, i’ veggio, LXXIII, Poi che per mio destino). Esse costituiscono un unico ed ampio discorso con tre forti pause. A differenza delle canzoni del Cappello, quelle del Petrarca variano nel numero delle stanze (LXXI: 7, LXXII: 5, LXXIII: 6), ma hanno anch’esse medesimo schema: aBCbAC CDEeDfDFF, più il congedo ABB.53 De Sanctis, 1869, p. 139.54 Si veda C. Berra, Le canzoni degli occhi (RVF 71, 72, 73), in Lectura Petrarce, 15 aprile 2010).

46

a lei, ch’ogni alto ingegno par che stancheor con l’alma beltà, ch’ogni altra avanza;or con valor, col quale ella sorvolavittoriosa alle più eccelse e sola; or col santo parlar, ch’ha in se possanzad’arder il ghiaccio, e far le genti accorte;cangiar si deve in buona ogni ria sorte.

CANZONE 218

Prima strofa

Ecco la sposa illustre: ecco che’l cieloDa’ rai percosso di sua forma santaDi vaghezza s’infiamma, e d’onestate.Tal la Dea, di ch’ancor Grecia si vanta55,quand’arse Peleo d’amoroso zelo,mostrossi: e forse di minor beltate.Vinta è la lor da questa nostra etate,benché di quella canti quel gran cieco56

che vide più ch’altri mille occhi e mille:in quella nacque il forte e grande Achille,schermo e onor dell’alto popol Greco:in questa, e da costei, ch’oggi s’accoppiacon lui, ch’a par d’ogni famoso vale,tosto i guerra e in pace uscirà tale,ch’Urbino e Roma n’avran fama doppia:e degno è ben, che da costor sfavilletal luce, ch’ogni torbido tranquille.

CANZONE 219

Prima stanza

55 Tetide, figlia di Nereo e moglie di Peleo.56 Omero.

47

Poiché m’infiamma ancor disio non leveCantar le nozze gloriose e degne,ch’apportan gioia ad ogni cor non vile;chi rime potrà darmi non indegne?Chi modo saggio, ond’io ‘n spazio sì breveChiuder possa il soggetto ampio e gentile?Tu, che l’esser da Giove, e hai lo stileDal cielo, e d’Imeneo madre ti chiami,o santa Urania, poich’io spesso sogliodelle laudi del figlio empier il foglio(se forse il lodator suo non disami)Con le sorelle del Parnaso scendi:e gli amorosi affetti, e le dolcezzefuture de’ duo sposi, e l’allegrezzelieta meco, e con lor a cantar prendisicch’elle, quasi a mare altero scoglio,restin del tempo salde al duro orgoglio.

I sonetti che seguono formano un gruppo diviso in tre dittici: il 220-221 è

dedicato al duca Guidubaldo per le stesse nozze, il 222-223 è di nuovo a

Vittoria Farnese, mentre il 224-225 è in onore della nascita del loro figlio

Francesco Maria II della Rovere (20 febbraio 1549).

In particolare, il 222 è un sonetto allegorico: in esso il poeta allude ai simboli

della casa Farnese (gigli azzurri) e a quelli della casa della Rovere (quercia). La

signora Vittoria Farnese, nel componimento, assume le sembianze di una palma,

simbolo della vittoria e premio dei vincitori nei combattimenti57.

Con la canzone 226 in lode dell’ormai nuova duchessa d’Urbino Vittoria

Farnese si chiude il ciclo di componimenti aperto dal trittico per la morte di

Giulia Varano.

Il sonetto 22758 è composto per la morte di papa Paolo III (10 novembre 1549)

a causa della quale si interruppe la carriera romana del Cappello.

57 Da Teseo in poi la palma era il guiderdone della vittoria nelle guerre e nei giochi solenni di corpo e d’intelletto; era ancora il simbolo dell’immortalità ed il carattere di coloro che venivano ascritti nel ruolo degli dei.58 “Giace afflitta pupilla in veste nera”, cfr. RVF, CCCLXVIII, 82, “Vedova sconsolata in veste negra”.

48

Anche i sonetti che seguono (228-229-230) sono legati allo stesso evento: il

228 è scritto in consolazione di Vittoria Farnese; il 229 è dedicato al cardinal

Alessandro Farnese mentre era vacante la Santa Sede; il 23059 è indirizzato al

cardinal Pole, il quale non fu eletto al soglio pontificio solamente per due voti.

Il sonetto 231 è dedicato al cardinale di Ferrara Ippolito II d’Este, figlio di

Alfonso I d’Este e di Lucrezia Borgia.

I sonetti 23260 e 233 sono indirizzati ad Alessandro Farnese.

Il sonetto 234 è composto in morte del cardinale Andrea Cornaro, diacono di

S. Teodoro (30 gennaio 1551).

Ancora i componimenti 235-237 costituiscono un trittico per un infortunio

accaduto al cardinal Farnese.

Il sonetto 238, indirizzato al cardinale di S. Angelo Ranuccio Farnese che si

era recato a Venezia, contiene espliciti riferimenti all’esilio ed alla sofferenza

del poeta.

SONETTO 238

Quanto d’avervi sia contenta e lietaVenezia mia nel suo onorato seno;altrettanto ancor voi di gioia pienovivrete vita in lei libera e queta.Sì m’apra in segno amico alto pianetadopo tante atre notti un dì sereno:ch’all’amate acque, al dolce mio terreno,la mia fe mi richiami, e la sua pietà.Quivi con voi tutto a bei studi intentoGioioso mi starei; parte tessendoDi vostre lode a’ miei versi ornamento;parte dell’alma mia patria scrivendol’opre, onde’l lume suo non sia mai spento,l’orme del sacro Bembo andrei seguendo.

59 “Tesor facendo, al ciel coi rai la scorge: / ch’ave in lui Dio, come in suo specchio, sparsi”, cfr. Paradiso, canto I, “Veramente quant’io del Regno santo / nella mia mente potei far tesoro”. 60 “U’ del vostro tardar anco al ciel dole” , cfr. RVF, CCLXXV, 4, “Et di nostro tardar forse li dole”.

49

I sonetti 239 e 240 sono una testimonianza dei tipici scambi cinquecenteschi

di epistole e di componimenti, in una comunità di sodali accomunati dall’idea

della poesia come veicolo privilegiato di conoscenza intellettuale ed

esistenziale: il 239 è infatti scritto in risposta al sonetto Se del candido augello

di Domenico Venier, mentre il 240 è indirizzato a Iacopo Cenci, il quale aveva

mandato precedentemente al Cappello il componimento Poiché quanto d’Orfeo.

SONETTO 239 SONETTO 240Venier mio, che dal candido e celeste Cencio, a cui Febo i suoi concetti inspiraAugel, che’n grembo all’alma Leda giacque61, e’l colto stil, ch’a noi vi fa sì caro;e d’Orfeo, e del Dio, che’n Delo nacque, se’n risponder a voi rime preparo,il canto sempre a vostra voglia aveste; scorgo, ch’ei del mio ardir meco s’adira.a cui concenti gli onor suoi riveste Quinci la man dall’opra si ritira;la terra; e chiare fansi l’aria e l’acque; e timido a tacer da Marsia imparo62:e Talia, ch’iva ignuda, e rado piacque, e da lui63, che le Dee, che vi lattaro,bella si scopre, e’nvola in ricca veste; col temerario ardor mosse a giust’ira:già che la vostra musa non poteo ond’ei visse i dì suoi di luce spenti.farvi ancor mai presso a Madonna Cigno; Ma chi può tor al cor, che’l grande onore,se ben sete appo noi Febo, e Orfeo; ch’a me date, a voi grato ei non ridone?creder se dee, ch’uom non poria benigno E non gioisca in giudicar possentirender quel cor, che’n lei pia stella feo i versi vostri ad infiammar d’amoreforse per vostro ben crudo e ferrigno. chi freno e legge al vostro arbitrio impone?

La canzone 241 è rivolta al Senato veneziano: il poeta cerca di persuaderlo ad

unirsi con il re di Francia contro le persecuzioni dell’imperatore e del nuovo

papa Giulio III nei confronti della famiglia Farnese. Nel 1551 Giulio III, con il

pretesto di essere stato offeso da Ottavio Farnese che aveva chiesto, senza il suo

consenso, aiuto ad Enrico re di Francia per riavere sotto la sua signoria la città

di Parma, mosse le armi contro di lui mettendosi dalla parte dell’imperatore.

Dopo la sconfitta dei Farnese a Mirandola, si arrivò ad un accordo (29 aprile

1552): venne stabilita una tregua di due anni trascorsi i quali Ottavio Farnese

61 Cfr. il cigno in cui si trasformò Giove per ingannare Leda.62 Cfr. Ovidio, Metamorfosi: Marsia, vinto da Apollo nella gara di canto, fu da questi scorticato vivo.63 Tameri, figlio di Filammone ed Arsia, sfidò le Muse al canto. Esse, dopo averlo vinto, lo privarono della vista e della facoltà di cantare, facendogli perdere la memoria di tale arte (Omero, Iliade II).

50

avrebbe potuto accordarsi con il papa per la restituzione del Ducato di Castro al

fratello Orazio.

In base alla canonica alternanza di componimenti di argomento vario a poesie

d’amore, che in questa parte del canzoniere si rivela sbilanciata a favore delle

rime d’occasione, con il sonetto 242 lo scrittore si rivolge ad Apollo affinché

ponga rimedio alle sue sofferenze amorose.

Ancora il sonetto 244 fa riferimento al potere che esercita Amore sugli

uomini, allontanandoli dal giusto cammino verso Dio.

Il trittico di componimenti 245-247 celebra il duca di Firenze Cosimo I de’

Medici, discendente di Lorenzo e fratello del vecchio Cosimo, considerato

padre della patria: il sonetto 245, facendo riferimento al nome del duca, crea un

legame con il cosmo, ordine e ornamento e quindi anche mondo; nella canzone

246, dedicata a Cosimo ed a sua moglie Eleonora di Toledo, il poeta parla delle

virtù proprie di un buon principe, benignità e giustizia (v. 39, Perché sciolta sen

gìo di tai duo nodi), e ricorda che furono molti i re che, per aver governato

rettamente i loro popoli, dopo la morte vennero reputati divinità (vv. 49-51, Né

già per altro a Febo, e a Diana, / a Giove, a Giuno, i prisci sacerdoti / sacrifici

ordinaro, e poser voti).

Le lodi dei Medici comprese nel canzoniere si spiegano con il soggiorno

dell’autore a Firenze nel 1551: il cardinal Farnese, infatti, fu costretto a lasciare

Roma per un breve periodo a causa dei dissidi con l’imperatore e Giulio III ed il

poeta lo accompagnò.

Nel settembre del 1552 lo scrittore seguì il cardinale in Francia, dove ebbe

modo di comporre un dittico di canzoni (249-250) in onore di Margherita di

Valois, figlia di Francesco I e sorella di Enrico II.

Durante il soggiorno francese, venne scritto anche il dittico di sonetti (251-

252) in morte di Orazio Farnese, duca di Castro (18 luglio 1553): durante

l’estate del 1553, infatti, Orazio si trovava ad Hesdin, nell’Artois, quando

51

Filiberto di Savoia ne intraprese l’assedio per conto di Carlo V. Orazio fu ucciso

da un’archibugiata, lasciando la moglie Diana, figlia naturale del re di Francia

Enrico II, che la aveva data in sposa per legarsi ai Farnese.

Il gruppo di sonetti dal 253 al 261 è ancora dedicato a Margherita di Valois: il

nome della donna offre al poeta lo spunto per lodarla con le caratteristiche di un

fiore e la terminologia che caratterizza tali componimenti fa riferimento alla

purezza della perla ed allo splendore della gemma.

Proseguono le lodi di Margherita di Valois i sonetti 265 e 266, che fanno parte

di uno scambio con Annibal Caro (il poeta, infatti, rispose al Cappello con il

sonetto La chiara gemma in cui sola risponde).

I sonetti 262-264 costituiscono un trittico in onore di Caterina de’ Medici,

figlia di Lorenzo duca d’Urbino e di Maddalena dei Conti di Vernio; sposa di

Enrico, secondogenito di Francesco I, ne ebbe due figli che divennero re in

tenera età, per cui ella tenne la reggenza. In particolare, nel sonetto 263 il poeta

fa riferimento a Luigi Alamanni che, rifugiatosi in Francia, celebrò i reali e

specialmente Caterina; mentre nel sonetto 264, tramite un paragone con gli

Alcidi comandanti della spedizione contro Troia, si celebrano i quattro figli

della regina, i quali, sedate le discordie civili (le eresie), debellarono la minaccia

dei Turchi.

Il gruppo di componimenti 268-272 è dedicato a Girolama Colonna64: secondo

un tipico procedimento usato dal poeta, nella canzone 26965 la donna viene

lodata facendo riferimento al cognome (D’un bianco e vivo marmo, v. 1) ed alle

sue doti, ovvero la castità, la sapienza e la grazia (Diana seco, e Pallade

soggiorna, / e Pasitea con l’altre sue sorelle, vv. 55-56), caratteristiche che

ritornano anche negli altri sonetti.

Con il sonetto 273 ricompare all’interno del canzoniere la tematica amorosa:

Madonna appare in sogno al poeta per ricordargli le dolcezze d’Amore; lo

64 Tasso la inserisce tra le donne illustro che ha visto sul Colle della Gloria (canto 100). 65 “E chi no’l crede, vada egli a vedelle”, cfr. RVF, CCXLVII, 8, “Et chi nol crede, venda egli da vedella”.

52

scrittore, allora, si rivolge a Morfeo, uno dei tre principali ministri del sonno66,

affinché si manifesti alla donna amata sotto le sue spoglie per informarla del suo

rinnovato innamoramento.

Con l’avanzare degli anni, il poeta appare sempre più combattuto tra le

passioni ed il senso di colpa nei confronti di Dio, tanto che, dopo una poesia

d’amore come la 273, ci si trova di fronte ad un componimento di pentimento

(274): il poeta si rivolge a Dio e medita sulla vanità delle cose terrestri.

Il sonetto 275 è composto per la morte di Claudio Tolomei, vescovo di

Cursola (1556): il Cappello lo ricorda soprattutto come autore della raccolta

Versi e regole della nuova poesia toscana, pubblicata a Roma per i tipi di

Antonio Blado d’Asola nell’ottobre del 1539, in cui si propone l’applicazione

della misurazione quantitativa latina e greca ai versi toscani. Il paragone del

volgare con le lingue più nobili porta il poeta a nominare, accanto a Dante,

Petrarca e Boccaccio, il Bembo come riformatore e restauratore della lingua.

I sonetti 276-277 costituiscono un dittico indirizzato al cardinal Farnese in

occasione di una sua assenza da Roma.

Il secondo amore: Leonora Cibo

Da questo punto del canzoniere si susseguono numerosissimi componimenti

in lode della signora Leonora Cibo, figlia del marchese Lorenzo Cibo e di

Ricciarda Malatesta, della quale il poeta si innamorò in età avanzata (il Cappello

ha 58 anni).

I sonetti 278, 279 e 280 si strutturano come caratteristici componimenti

d’amore: nel 278 gli occhi di Leonora riaccendono nel poeta una passione che

viene definita saggio ardore proprio perché vissuta in vecchiaia; il 279 presenta

una dichiarazione di modestia da parte dello scrittore che sostiene essere Apollo

66 Cfr. Ovidio, Metamorfosi, Libro II.

53

l’unico in grado di cantare adeguatamente una donna di così grande valore; nel

280 viene ancora lodata la bellezza di Madonna.

Il nuovo innamoramento crea nel poeta un ulteriore sconvolgimento che viene

rappresentato tramite il motivo del colloquio con la propria anima.

SONETTO 281

Cangia, misera, cangia e speme e voglia:sforzati al cielo; e sdegna il mondo omaiAnima, ch’ivi lieta vita avrai;cui non tema perturba, o scema doglia.Questa terrena tua caduca spoglia,che cotanto ami; e meglio fora assail’odiasti; è grave sì d’anni e di guai,ch’esser lunge non può che te ne scioglia.E tu celeste e immortal pur badi,posto in non cale il tuo nobile stato,fra gli ozi, sol di questa scorza vile.Né scorgi, che se l’ale, che t’ha datoL’alto Re, che ti finse a se simile,quinci non spieghi, a morte eterna cadi.

Lo scrittore continua con le lodi a Leonora Cibo: nei sonetti 282 e 283 si fa

riferimento costantemente alla vecchiaia del poeta. Nel 283 in particolare, il

poeta sottolinea la differenza tra la passione vissuta in gioventù e questo nuovo

amore che continua comunque ad allontanarlo da Dio.

I sonetti 284-285 costituiscono un dittico in cui il poeta parla della sua

rinnovata passione amorosa.

Il componimento 286, sempre dedicato a Leonora Cibo, è una sestina che

osserva le regole petrarchesche del genere.

SESTINA LIRICA 286

Non aperse il ciel mai pur solo un giornopar a quei dì, che nel felice tempoebbi, ch’io scorsi il Sol di quei begli occhi,che fan sovente invidia a quel del cielo;

54

ma, lasso, al partir suo nacque la notte,ch’illuminar non può celeste Sole.Come che alla nov’alba il novo Solelieto rechi ad ognuno il novo giorno;e ch’altri sia, che più prezzi la notte;ma solo annoia l’uno e l’altro tempo:e odio e fuggo quanto è sotto’l cielo,poiché m’è tolto il Sol de’ duo begli occhi.Sotto empia stella apersi al mondo gli occhi:da che a pena veduto quel bel Sole,onde la terra si pareggia al cielo;egli ad altrui dovea condurre il giorno,lasciando, che l’avanzo del mio tempotutto passasse in tenebrosa notte.E non si vide mai più tetra nottedi quella, ch’io ritrovo, ovunque gli occhivolgo guardando, e rimembrando il tempo,che mi fea luce il mio terrestre Sole;movo dolente a maladir il giorno,ch’apportò nel mio mal sì ratto il cielo.Occhi lucenti, che sotto altro cielo,spogliando or delle tenebre la notte,d’alto e doppio splendor vestite il giorno;fortunato ciascun, cui dato è gli occhifermar ne’ santi rai del vostro Sole:e disperar in ciò tutto’l suo tempo.Ma io non spero mai di veder quel tempo,che torni ad infiammar il nostro cielod’onestade e valor il mio bel Sole: e di sgombrar la trista oscura notte,ch’ognor invita a lagrimar quest’occhil’occaso del mio lieto e chiaro giorno.Ratto il mio giorno estremo adduca il tempo;se gli occhi sempre è per vietarmi il cielo,che render ponno alla mia notte il Sole.

Il sonetto 287 rielabora ancora una volta il tema della guerra d’amore, mente

nel 288 la felicità del poeta dipende dalla vicinanza di Madonna: la lontananza

di Leonora, la quale permette al poeta di vivere il Paradiso in terra, viene

descritta come una morte anzitempo.

Il motivo della lontananza viene ripreso nella canzone 289: lo scrittore,

facendo riferimento al cognome della donna amata, descrive il bisogno di lei

55

come necessità di nutrimento. La velocità dei pensieri crea le ali per avvicinarsi

a Madonna, tanto da poterla udire e vedere anche in absentia. Nelle ultime

strofe, è presente un giuramento simile a quello di Amore in Ovidio.

Il sonetto 29067 crea una parentesi all’interno dei componimenti in onore di

Leonora Cibo: esso è dedicato alla Signora Livia da Barbiano, moglie di

Gilberto Sanvitale, segretario di papa Paolo III. Al v. 11 il poeta fa riferimento

all’Amor pudico, distinguendolo dall’amore volgare e lascivo.

Con la canzone 291 si riprende la serie dei componimenti in lode di Leonora

Cibo.

Qui Madonna viene paragonata ad un tempio bellissimo all’interno del quale

albergano il Senno e le Grazie; il componimento ricorda la canzone Tacer non

posso, et temo non adopre in cui Petrarca paragona Laura alla bellezza di un

edificio.

La lode alla donna continua nel sonetto 292 che introduce il dittico di canzoni

293-294 in cui Madonna viene descritta come una novella Aurora che illumina

la vita del poeta con i raggi di un nuovo sole.

Il tema della lontananza dall’amata vissuta come morte viene ripreso ai sonetti

295, 296, 298 e 302: il 295, in particolare, si struttura come una sorta di

epitaffio che il poeta immagina inciso sulla propria tomba. Le parole

dell’iscrizione funebre, Un qui si giace / servo d’Amore (vv. 12-13) richiamano

il Convivio di Platone, in cui anche Socrate si descrive in questi termini

(tzeràpon te èrotos).

Il sonetto 297 affronta due dei motivi che caratterizzano i componimenti in

onore di Leonora Cibo, ovvero la rielaborazione metaforica del nome della

donna ( vv. 1-4, Dolce cibo mio fia quell’ora, / che’n te mirando, e ascoltando i

67 Il sonetto è simile a RVF, CCXLVIII, Chi vuol veder quantunque po’ Natura.

56

lieti / accenti accorti, la mia fame acqueti; / o digiun sempre converrà, ch’io

mora?) e il tema dell’amore vissuto in vecchiaia.

Quest’ ultimo aspetto viene ripreso anche in altri componimenti.

Nel sonetto 299 l’età avanzata porta il poeta a manifestare con minor intensità

i sentimenti: tramite l’uso di una metonimia, la vecchiaia viene definita saggia

perché in essa l’uomo acquista prudenza.

Nel sonetto 300 la preoccupazione dello scrittore per un amore considerato

sconveniente perché vissuto in vecchiaia si sovrappone al desiderio nei

confronti dell’amata. Il timore espresso in questo componimento si trasforma in

vera e propria sofferenza nel sonetto 30668, nel quale il poeta si rimprovera di

aver permesso ad Amore, un cieco e crudo fanciulletto (v. 13), di dominarlo.

Infine, nel sonetto 307 lo scrittore manifesta il desiderio che il suo animo cessi

di provare quegli sconvolgimenti che Amore gli provocò in gioventù e, perciò,

chiede aiuto a Dio affinché gli permetta di condurre la restante parte della vita

nel suo zelo ardendo (v. 14).

La canzone 301 ed il sonetto 311 fanno riferimento alla dottrina filosofica

secondo la quale l’essenza di tutte le creature è compresa nella divina Idea come

archetipo esemplare: nella canzone, infatti, Madonna viene chiamata bella

Sirena e terrestre Dea poiché, grazie alla sua presenza ed al suo canto, gli

uomini possono avere esperienza del paradiso sulla terra; allo stesso modo, nel

sonetto l’amata viene lodata come un essere divino (v.13, come la vostra idea

nel santo regno).

La canzone 301 affronta anche la tematica della castità (v. 49-51, Meco ho

colei, che nel suo casto seno, / com’in suo albergo, ognor siede: e governa / i

sensi suoi con non errante freno) che caratterizza questo periodo della vita del

poeta, così come l’amore per Leonora.

68 “Che gli amorosi vermi l’abbian roso”, cfr. RVF, CCCIV, 1-2, “Mentre che’l cor dagli amorosi vermi / fu consumato”.

57

Nei sonetti 303 e 304 Madonna viene lodata per la sua bellezza e per la virtù:

in particolare, nel 30369 l’amata sembra raccogliere in sé tutte le meraviglie del

mondo; mentre il 304 paragona la sua voce ai cori angelici.

Il sonetto 305, in cui il poeta ammette la sua resa nei confronti di Amore dopo

molti anni passati nel tentativo di resistere, presenta un particolare linguistico

molto interessante. Ai vv. 12-13 si legge Che’n breve spazio sia, che tutto

inaspe / Cloto lo stame di mia vita corto: il verbo inaspare (avvolgere intorno

all’aspo) viene qui riferito a Cloto, la quale, delle tre Parche, è colei che fila lo

stame della vita, ma in realtà è Lachesis che lo avvolge intorno all’aspo così da

determinare la quantità di vita che essa può assegnare, finché Atropo non tagli il

filo. Il Petrarca, infatti, in RVF, CCX scrive Qual dextro corvo o qual mancha

cornice / canti’l fato, o qual Parca l’innaspe?, facendo riferimento, secondo

Santagata70, proprio a Lachesis.

Probabilmente, il Cappello, nell’alludere all’attività della Moira, si riferisce

all’etimologia greca del nome: Cloto dal verbo klòtzo significa, infatti, filare.

La canzone 308 chiude il blocco di componimenti dedicati a Leonora Cibo: la

metafora del fuoco è dominante.

Madonna viene chiamata fuoco per tre motivi: per lo splendore della sua

bellezza; per la sua purezza (il riferimento è a Dante che chiama “fuochi” gli

spiriti beati in Paradiso, canto 22); perché produce amore che consuma chi la

vede.

Come dichiarato nel sonetto di dedica al Farnese, uno dei temi principali del

canzoniere è l’esilio. Nel componimento 309, in risposta al sonetto di Iacopo

Marmitta Teco piango, Cappello, il grave danno sulla pestilenza di Venezia del

1556, il poeta fa riferimento al suo esilio al v. 1 (S’al mio non degno, e perciò

grave danno).69 “Che del divin mirabil magistero / ogni eccellenzia in voi raccolta avete”, cfr. RVF, IV, 1-2, “Que’ ch’infinita providentia et arte / mostrò nel suo mirabil magistero”. 70 Petrarca, Canzoniere, a cura di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 2011, p. 904.

58

Il sonetto 310 è dedicato alla signora Maddalena Torrella di Salata, alla quale

lo scrittore attribuisce ciò che gli Antichi imputavano ai magici incanti, ovvero

col parlar trarre a sua voglia il cielo (v. 9).

I sonetti 312-313 costituiscono un dittico in lode di Margherita d’Austria,

figlia naturale dell’imperatore Carlo V e moglie di Ottavio Farnese: nel 312 si fa

riferimento alla teoria platonica delle idee già accennata ai sonetti 301 e 311

(vv. 6-7, Perfettissimo dono: e tra le prime / idee superne esempio almo e

sublime); mentre nel 313 il poeta paragona la donna ad una perla non di rugiada

nata, come aveva già fatto precedentemente con Margherita di Valois, e ne loda

la bellezza, l’eloquenza e la soavità, tutte doti che discendono direttamente dal

pianeta Giove.

Il sonetto 314 è dedicato ad una donna indefinibile, per lodare la quale il

Cappello fatica a trovare le giuste parole (vv. 1-2, Che possiam dir di voi, che

non pria detto / sia d’altre, dalle Muse amate e colte?): di essa allora viene

celebrata la carnagione che solo due insigni pittori come Apelle e Zeusi

sarebbero in grado di riprodurre.

Il sonetto 315 è composto in lode della signora Anna Bentivoglia, della quale

si canta la castità: lo scrittore sostiene, infatti, che se in gioventù avesse

impegnato il suo tempo nello scrivere rime per lei, avrebbe raggiunto

l’eccellenza stilistica di Dante e Petrarca.

I sonetti 316-317 formano un dittico in morte della signora Virginia

Pallavicini da Gambara, mentre i componimenti 318-319 sono scritti in morte

del conte Antonio Landriani, genero di Guidubaldo II d’Urbino: in particolare,

nel sonetto 319 il poeta si sofferma sulla sofferenza del duca, già provato dalla

perdita del padre Francesco Maria (vv. 10-12, Col qual già d’anni ancor

acerbo, e cinto / d’aspri perigli sosteneste in guisa / il grave caso del gran

padre estinto).

Molti dei componimenti situati in quest’ultima parte del canzoniere sono la

testimonianza del dialogo tra gli scrittori di poesie nel Cinquecento: una sorta di

genere epistolare in poesia.

59

I sonetti 320 e 321 attestano lo scambio di componimenti tra il poeta ed

Antonio Gallo: se nel 320 il Cappello paragona lo stile del Gallo al tepore del

Favonio, nel 321 la discussione sulle tecniche poetiche porta l’amico a

rispondere con il sonetto Quant’hanno gemme gl’Indi, o color Persi.

Il trittico di sonetti 323-325 è, invece, indirizzato a Bernardo Tasso: il

Cappello e l’amico si sfidano in una sorta di gara poetica il cui argomento è la

lode di Vittoria Farnese.

Il sonetto 32271 è dedicato a Filippo II re di Spagna per la vittoria contro i

Francesi a S.Quentin (1557). Questa battaglia diede seguito alla pace di Cateau-

Cambresis che sarà l’argomento dei componimenti 340-343.

I sonetti 326-327 costituiscono un dittico in lode di Virginia della Rovere,

figlia di Guidubaldo e di Giulia Varano, mentre il componimento 328 è

indirizzato al duca d’Urbino, celebrato per il valore e la sapienza (vv. 5-6,

Saggio e invitto Duce: al cui governo / siedon Marte, e Minerva).

Il sonetto 329 è dedicato alla città di Venezia, alla quale si chiede di allearsi

con il duca d’Urbino per una guerra. Il poeta ricorda al v. 2 un costume

tradizionale: ogni anno una solenne cerimonia sanciva il metaforico matrimonio

della città con il mar Adriatico come dimostrazione del dominio della

Repubblica sul mare.

La canzone 330 è indirizzata a Vittoria Farnese per la morte della figlia

Eleonora. Lo scrittore si mostra debitore nei confronti del Petrarca: i vv. 4-5, de’

più rari / suoi preziosi fregi il mondo sgombra risentono di RVF, CCCXXVII,

v. 4, colei che tutto’l mondo sgombra; mentre i vv. 27-28, d’un cristallo eletto /

si congiungnean le mura all’aureo tetto richiamano RVF, CCCXXV, v. 16,

Muri eran d’alabastro, e’l tetto d’oro.

71 “Di tema, ch’ei, quasi animal, ch’adombra”, cfr. RVF, CCXXVII, 8, “Come animal che spesso adombre e’ncespe”.

60

I componimenti devozionali

La parte finale del canzoniere è caratterizzata da numerosi componimenti

devozionali.

La canzone 33172 si costituisce come un lungo colloquio del poeta con la

propria anima: la meditazione sulla vanità dei piaceri terreni ed il conseguente

desiderio di seguire la via di Dio culminano nel ricordo della passione di Gesù

Cristo, tramite le parole di perdono che egli pronunciò sulla croce (Luca 23, 33-

34).

Nell’ultima strofa, infine, il poeta fa una descrizione dell’eterna beatitudine

che risente della canzone Alma cortese del Bembo:

CANZONE 331 vv. 109-126

Quivi d’altra bellezza, e d’altre gioie,d’altri tesor, d’altri agi, e d’altri regnisi gode: e d’altri affetti, e d’altra gloria.Cura, né teme v’ha, che l’alme annoie.E quivi degli oltraggi e degli sdegnil’oblio somma vendetta esser si gloria.Quivi non ha, come quaggiù, vittoriade’ ben terreni il lieve tempo edace:che d’ale scosso in quell’alme contradené piuma imbianca mai, né cangia etade:ma coi beati liba eterna pacedal divin grembo, ove posando giace.Quivi (se dalla strada, ove sei volta,non ti ritragge il cieco senso e sordo,al tuo ben parco, e al tuo mal ingordo)sarai fra l’alme benedette accolta:ove’l tuo stato sia più dolce assaidi quanto uom desiar possa giammai.

72 “E donde ogni virtù quasi è sbandita”, cfr. RVF, VII, 1-2, “La gola e’l somno et l’otiose piume / ànno del mondo ogni vertù sbandita”

61

Il motivo del colloquio con l’anima è ripreso anche nei sonetti 335, 337, 338 e

339.

Nel componimento 335 il poeta fa riferimento alla gabbia in cui è chiusa

l’anima degli uomini nella vita terrena: soltanto la pietà di Dio è in grado di

rompere i nodi che la imprigionano. La similitudine che lo scrittore usa per

spiegare questo processo di liberazione è quella del baco da seta (vv. 13-14,

Qual prezioso verme, che risale / dal carcere, ch’a se stesso andò tessendo),

adottata precedentemente da Dante in Purgatorio 10, nell’apostrofe diretta ai

superbi perché imparino le vie dell’umiltà (vv. 126-126, Non vi accorgete voi

che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia

sanza shermi?). L’immagine dei bruchi che si fanno farfalle era motivo costante

nella letteratura religiosa ed il rapporto che si istituiva fra anima e farfalla

faceva parte della simbologia cristiana.

Il sonetto 337 tocca uno dei dogmi della fede cristiana: la resurrezione (v. 14,

Teco al gran dì lo ricongiunga in cielo).

Nel sonetto 33873 il poeta fa riferimento alla fugacità della vita terrena: tramite

quella che Aristotele nella Poetica definisce metaphora proportionis, lo

scrittore paragona le età della vita umana ai mesi dell’anno sostenendo la

velocità con cui esse si susseguono fino alla morte.

Nel componimento 339 il poeta allude alla sua età avanzata (crin canuti, l’uno

e l’altro piede grave dagli anni, scemata vista) nella quale la saggezza lo ha

portato a liberarsi delle mondane gioie e quindi dei timori e delle noie e ad

avvicinarsi a Dio.

All’interno del gruppo dei componimenti devozionali, risulta fondamentale il

sonetto 336 alla Vergine.

Il Cappello ha come principale punto di riferimento la canzone Vergine bella,

ultimo componimento del Canzoniere del Petrarca, ma ovviamente non manca il

legame con il Paradiso dantesco.

73 “E pria che’l Sol chini o in alpe nevi”, cfr. RVF, CV, 5, “Già su per l’Alpi neva d’ogni’ntorno”.

62

SONETTO 336

O dell’eterno tuo figlio fatturaVergine e madre immacolata e bella,nel mar de’ ciechi affetti nostri stella,che scorgi al ciel per via piana e sicura;ornamento superno, o di naturamiracolo, e di Dio sposa e ancella;della cui lode perde mia favella;quanto ben picciol lume il Sol oscura.O novella Eva, il cui celeste fruttoridonò vita al mondo; che’l terrenodell’altra antica a morte avea condutto;volgi ora a me quel pio sguardo sereno:talché sicuro dall’eterno luttovarchi, dove’l gioir mai non vien meno.

Fin dall’inizio la preghiera si rivela sintesi degli attributi che il culto cristiano

assegna a Maria: il poeta la definisce vergine e madre insieme, figlia e madre di

colui che le è padre e figlio. L’espressione usata risente delle parole che S.

Bernardo, nella Divina Commedia, rivolge alla Vergine affinché faccia da

intermediaria tra Dante e Dio (Paradiso 33, v. 1, Vergine, figlia del tuo figlio) e

dei versi del Petrarca (RVF, CCCLXVI, vv. 27-28, Vergine pura, d’ogni parte

intera, / del tuo parto gentil figliuola et madre). Si hanno dei precedenti anche

in Bernardo, De laudibus Virg. matris II 4, mente et corpore sanctam, in

Venanzio Fortunato, inno Ave maris stella, vv. 2-3, Dei mater alma / alque

semper virgo e nella lauda di ser Garzo, Ave, Vergene gaudente, vv. 3-4, Lo

Signor per meraviglia / da te fece madre e figlia e vv. 75-76, Onorata se’ dal

Padre, / di cui tu se’ figlia e madre.

L’inno di Venanzio è modello anche per il concetto espresso al v. 3: la

Vergine ebbe nome Maria per volere divino (stella del mare che indica la strada

ai naviganti), opinione che si trova anche in S. Ambrogio, omelia De Nativ.

Maria Virg., ripresa a sua volta dal Petrarca (canzone Vergine Bella, v. 66, Di

questo tempestoso mare stella).

63

L’espressione di Dio sposa, avendo Maria concepito per opera dello Spirito

Santo, risente ancora della canzone petrarchesca (v. 47, Madre, figliuola e

sposa), che è pure modello per il v. 12 (vv. 22 e 25, Vergine, que’ belli occhi

[…] volgi al mio dubio stato).

Il v. 14, infine, si rifà a Dante, Paradiso 10, v. 148, colà dove gioir

s’insempra.

Nell’aprile del 1559 fu firmata la pace di Cateau-Cambrésis: il trattato,

stipulato tra Enrico II di Francia e Filippo II di Spagna, definiva gli accordi che

posero fine alle guerre d’Italia ed al conflitto tra gli Asburgo e la Francia. Essa

regolò gli equilibri europei per tutto il secolo successivo e riconosceva

protagoniste della scena la Spagna e la Francia. Sancì inoltre l’inizio del

predominio spagnolo in Italia.

Il Cappello, come tutti gli intellettuali dell’epoca, accolse con entusiasmo la

notizia della pace tanto da comporre quattro sonetti per celebrarla.

Il dittico 340-341 è dedicato al cardinal Farnese: in particolare, nel 341 il

poeta sottolinea il punto dell’accordo in cui i due sovrani si impegnano a

sostenere la Chiesa nella sua opera di consolidamento e diffusione del

cristianesimo, in risposta ad dilagare dell’Idra delle eresie.

Il sonetto 342 ha come protagonista la Pace stessa, personificata e presentata

con i tradizionali ornamenti (v. 1-3, Di ricche spiche cinta, e di seconde / viti

ornata le tempie, a noi sen vene / la santa Pace). Il poeta, nelle terzine, sostiene

che solo in tempo di pace ci si può dedicare completamente alla poesia : O dolce

pace, o del gran Giove figlia, / di Febo amica, e di pietà sorella, / sposa

d’amor, e di giustizia madre: / per te la nostra età ritorna bella: / tu d’opre la

rivesti alte e leggiadre: / o beato colui, ch’a te s’appiglia!).

Infine il sonetto 343 fa riferimento al matrimonio tra Emanuele Filiberto duca

di Savoia e Margherita di Valois, sorella di Enrico II celebrato il 10 luglio 1559

per consolidare la pace.

64

Nel sonetto 344 il poeta predice l’assunzione ad pontificato del cardinal

Angelo de’ Medici: egli verrà effettivamente eletto il 6 gennaio 1560 con il

nome di Pio IV.

Il trittico di sonetti 345-347 è infatti dedicato al nuovo papa Pio IV al quale si

augura di reggere la Chiesa per tanti anni quanti S. Pietro (sonetto 347, v. 6, A te

di Pietro gli anni interi presti).

Il componimento 348 è indirizzato a S. Carlo Borromeo, nipote di Pio IV,

mentre il sonetto 349 è dedicato a Pier Giovanni vescovo di Forlì, per celebrare

il quale lo scrittore fa riferimento al nome del prelato: egli infatti riunisce i nomi

dei più diletti discepoli di Cristo, Pietro e Giovanni.

Il sonetto 350 è indirizzato a papa Pio IV in ringraziamento della sua

protezione.

I sonetti 351 e 352 sono un’ulteriore testimonianza di quel dialogo letterario

che il Cappello intratteneva con i poeti dell’epoca: il 351 è la risposta al sonetto

Quelle grazie, Signor di Iacopo Mocenigo, mentre il 352 è in replica al

componimento I begli occhi onde i miei spogliati e casti di Gio. Maria Agazio.

Il canzoniere si chiude con il sonetto 353 in celebrazione dell’Atanagi.

Con questo componimento il Cappello risponde al sonetto Tolgasi il velo

omai, posto in apertura delle poesie del poeta nell’edizione 1560, con il quale

l’Atanagi lo esortava a permettere la pubblicazione delle sue rime.

SONETTO 353

Quel, che cantando i piango, e voi colmateCol dotto stil d’eterni alti splendori,a gran pena ardirei di mandar fori,senza i bei lumi, onde sì chiaro il fate.O novello Aristarco, e’n questa etatee lima e fregio a’ più saggi Scrittori:a che bramar, che’l mio canto v’onori,s’ei tanto ha sol d’onor, quanto glien date?Questo fora col cribro al falso regnoacqua portar: e l’or di piombo e l’ostro

65

adornar di color funesto e adro.O care a Febo a par d’ogni altro ingegno:ben giurar vi posso io, ch’al secol nostroscrittor di voi più degno altro non squadro.

III. L’EVOLUZIONE DEL PERSONAGGIO

Dall’analisi del canzoniere di Bernardo Cappello si è potuto osservare

un’evoluzione del personaggio in base alla scelta dei temi trattati nei

componimenti che, come già constatato, sono disposti nella raccolta in ordine

tendenzialmente cronologico.

Le tre componenti tematiche canoniche (rime d’amore, componimenti politici

e poesie di pentimento) sono raggruppate nel canzoniere del Cappello in tre

grandi blocchi: una prima parte, la giovinezza, caratterizzata da liriche d’amore;

una seconda parte segnata dall’esilio, nella quale si infittisce la presenza di

poesie dedicate ad importanti personaggi dell’epoca ed una terza sezione

rappresentata dall’amore vissuto in vecchiaia.

Si individuano, inoltre, dei componimenti nodali che segnano le linee guida

del percorso poetico dell’autore.

La giovinezza del poeta

66

Nella storia delineata nel canzoniere, gli anni dal 1522 al 1534 sono

caratterizzati dall’avvicinamento del poeta alla letteratura: i sonetti 1-20 sono

segnati dalla presenza dei topoi della tradizione lirica amorosa all’insegna

dell’ortodossia lirica petrarchesco-bembiana.

In particolare, il sonetto 20 e la canzone 21 individuano il tema della fama

come motivo cardine degli anni giovanili: nel sonetto la meditazione sulla

vanità dell’esistenza è strettamente legata al desiderio della gloria e degli onori,

mentre le stanze finali della canzone parlano del potere eternatore della poesia

(v. 51-52, E quanto dieder fama alta e felice / gli egregi Toschi a Laura e

Beatrice).

Il tema della fama è presente anche nella canzone 24: il poeta esprime il

desiderio di far conoscere al mondo l’eccezionalità della donna amata.

La canzone 48 è testimonianza del contrasto interiore vissuto dal poeta: qui al

desiderio di gloria ed onori si contrappone l’elogio di una vita appartata.

Il senso di pentimento non è ancora nato nello scrittore: il componimento si

pone come un primo passo nella direzione del percorso di conversione che il

personaggio compie nella storia delineata nel canzoniere.

Con la canzone 61 compare la tematica politica: il Cappello ha ormai concluso

il suo cursus honorum e questo componimento indirizzato a papa Paolo III

mostra la sua preoccupazione per le guerre d’Italia e per la lotta contro

gl’infedeli. Il riconoscimento del Petrarca come maestro di poesia e di vita è ben

chiaro: le canzoni Spirto gentil e Italia mia sono infatti modello per l’autore.

In questa prima parte della raccolta il tema della fama è preponderante, tanto

che anche la canzone 74 lo sviluppa: il lamento per l’ingratitudine di Madonna

che è sempre stata celebrata nella sue rime porta il poeta a riflettere sulla gloria

che i suoi versi avrebbero dato a donne più meritevoli (vv. 61-63, Sceglier

devea chi con sublime e raro / stil far potesse sue bellezze eterne: / e

67

schernirsene poi del tempo avaro; vv. 70-75, Quante fur, di che’l nome oggi si

tace, / donne leggiadre e belle, perché’n grado / preser, più ch’altro, ciò ch’a’

sensi piace? / I quai, se’n questo periglioso vado / perpetua fama aver forse non

sprezza, / devrebbe ella appagar men che di rado). Anche il riferimento ad

Eleonora Gonzaga è concepito in funzione della gloria poetica: il Cappello si

annovera tra’ più chiari ingegni per fama (vv. 92-93) ed in relazione a questo

sostiene la sua capacità di lodare una donna tanto eccezionale.

Questa canzone è strettamente legata al sonetto 76 in cui il poeta esprime il

suo pentimento per il desiderio di onori in unione all’amore per Madonna ed al

dittico 87-88 con il quale si invoca la pietà di Dio per gli sbagli commessi ed il

suo aiuto contro le tentazioni.

Nel corso della sezione, si nota un aumento dei componimenti di meditazione

e di pentimento: il contrasto interiore vissuto dal poeta, diviso tra il desiderio di

fama e d’amore e la necessità di un avvicinamento a Dio, cresce con il

trascorrere degli anni ed il sonetto 106 ne è una chiara testimonianza.

Nel prosieguo della storia, si fa sempre più importante l’impegno politico

dell’autore: la canzone 108 segna l’inizio di un blocco di componimenti che

dimostrano l’interesse del poeta per le guerre tra Carlo V e Francesco I e

l’impegno in Terra Santa. Come per la canzone 61, anche qui il modello

dell’autore è la poesia politica del Petrarca.

L’esilio ed il periodo farnesiano

Con il sonetto 126 compare nel canzoniere la figura del cardinale Alessandro

Farnese come protettore del poeta.

Con i sonetti 131, 132 e 133, che testimoniano l’infelicità dell’autore, la

tematica dell’esilio fa il suo ingresso nella raccolta.

68

Negli anni dell’esilio il Cappello è a Roma, ospite dei Farnese; i

componimenti che entrano nel canzoniere riferiti a questo periodo sono

strettamente legati all’ambiente in cui egli si trova.

Mescolandosi ai riti di corte, la poesia dell’età farnesiana non ne celebrava

soltanto i momenti ufficiali, ma anche la quotidianità. Di conseguenza, anche

quando la poesia d’occasione si trova riordinata in un secondo momento in

forma di canzoniere, come accade nel caso del Cappello, “l’unità del libro non

riesce più a delineare la parabola di un’esperienza intima e assoluta”74.

Nella raccolta, poi, è presente la preoccupazione del poeta per la situazione

politica del tempo: il dittico 154-155, indirizzato a papa Paolo III, tratta della

lotta contro gl’infedeli, mentre nel sonetto 161 si trova un riferimento al

Concilio di Trento.

L’evento della morte del Bembo porta il poeta a riflettere sulla fugacità della

vita terrena: nel sonetto 212, indirizzato a Benedetto Varchi, egli pone il tema

della vanità dell’esistenza al centro di cupe meditazioni. L’autore arriva alla

conclusione che chi desideri ascendere alla contemplazione delle cose celesti si

deve purgare dalle passioni umane, che, per quanto lo riguarda, sono il desiderio

della fama e l’amore.

Il poeta sembra aver preso coscienza della necessità di abbandonare ciò che,

con Platone, appartiene all’ambito della vita attiva per dedicarsi alla

contemplazione di Dio.

Il tema dell’esilio, ricorrente in questa seconda sezione della raccolta,

caratterizza anche il sonetto 238 indirizzato al cardinale Ranuccio Farnese, nel

quale il poeta esprime la sua sofferenza per non poter ritornare in patria (vv. 7-

8, Ch’alle amate acque, al dolce mio terreno, / la mia fe mi richiami, e la tua

pietà).74 Forni, 2011, p. 150.

69

Con il procedere della raccolta si assiste ad un incremento di poesie di

pentimento: il continuo contrasto interiore del poeta è testimoniato ancora una

volta dal sonetto 244 e dai componimenti 273 e 274. In particolare questi ultimi

due sonetti costituiscono una sorta di dittico: se nel 273 l’autore esprime il suo

desiderio d’amore, nel 274 il rimorso per non aver seguito la via che conduce a

Dio lo conduce al pentimento.

La vecchiaia del poeta

Con il componimento 278 si apre la terza sezione della raccolta caratterizzata

dall’amore per Leonora Cibo.

Questo nuovo innamoramento, vissuto in vecchiaia, accentua il contrasto

interiore del poeta.

Nel sonetto 281 egli chiede alla propria anima di sforzarsi di abbandonare le

passioni terrene per poter ascendere al cielo.

In quest’ultima parte del canzoniere scompare il tema della fama: l’unica

passione che il poeta deve eliminare è l’amore.

I continui riferimenti alla vecchiaia, definita saggia nel sonetto 299, sono una

testimonianza della consapevolezza raggiunta dall’autore della fugacità della

vita umana: la continua contrapposizione di rime d’amore e poesie di

pentimento si risolve nella richiesta d’aiuto che il poeta fa a Dio (sonetti 306 e

307).

La canzone 301 risulta emblematica del tentativo di conciliazione tra Amore e

Dio: facendo riferimento alla dottrina secondo la quale l’essenza di tutte le

creature è compresa nella divina Idea come archetipo esemplare, egli sostiene la

necessità della presenza della donna amata per avere esperienza del Paradiso

(vv. 22-24, Ben so, che l’uom, cui dato è sì bel viso / mirar da presso, e ascoltar

il canto, / standosi in terra, gode il Paradiso).

Nel finale, il poeta sostiene la necessità della castità: la purezza e la

spiritualità vengono affermate come qualità che più si addicono al vero amore,

70

ovvero quello che è inteso platonicamente come una via per elevarsi alla

perfezione ed alla contemplazione di Dio.

La parte finale della raccolta è caratterizzata da un gruppo di componimenti

devozionali.

La canzone 331, in particolare, sviluppa il motivo del colloquio con la propria

anima: i riferimenti alla passione di Cristo ed all’eterna beatitudine, ripresi

anche nel sonetto 337 con un richiamo al dogma cristiano della resurrezione,

aprono la strada al completo cambiamento che il poeta dichiara di aver vissuto

(sonetto 337): la saggezza della vecchiaia lo ha finalmente portato a liberarsi

dalle mondane gioie.

Con il sonetto 336 alla Vergine si può considerare concluso il percorso del

poeta verso la strada che conduce a Dio.

71

CONCLUSIONI

Come è emerso dal lavoro svolto, Bernardo Cappello ha costruito una raccolta

nella quale una biografia ideale realizzata secondo i canoni del genere

canzoniere si intreccia con riferimenti alla vita reale.

Il “libro” di rime si articola in tre grandi blocchi.

I componimenti inseriti nella prima sezione, quasi interamente dedicata ad un

amore giovanile, risentono fortemente dell’influsso esercitato dal petrarchismo

di stampo bembiano: i topoi della tradizione lirica amorosa, la partecipazione

degli elementi naturali allo stato d’animo del poeta ed il desiderio della gloria e

degli onori sono temi costanti.

La seconda parte (il blocco politico-luttuoso-farnesiano), segnata dal tragico

evento dell’esilio e caratterizzata da componimenti politici ed encomiastici,

presenta una progressione cronologica con dei capisaldi riconoscibili dal lettore:

il riferimento al Concilio di Trento (sonetto 161), la morte di Pietro Bembo

(sonetti 206-211), le nozze tra Guidubaldo d’Urbino e Vittoria Colonna

(componimenti 217-223).

La terza sezione è segnata dall’amore per Leonora Cibo. Questo secondo

innamoramento vissuto nella maturità è caratterizzato da un continuo contrasto

interiore: il poeta lamenta la difficoltà di conciliare il sentimento per la donna

amata con la necessità di allontanarsi dai piaceri terreni e seguire la strada della

72

salvezza. Quest’ultimo blocco, infatti, termina con una serie di componimenti

devozionali, tra i quali risulta fondamentale il sonetto 336 alla Vergine.

Dall’analisi svolta, risulta quindi un’accurata costruzione da parte del

Cappello di un canzoniere che mostra l’evoluzione del personaggio-poeta: lo

scrittore delinea una parabola di maturazione (i componimenti di pentimento ne

sono una chiara testimonianza) che affianca al tema amoroso quello del

pentimento – secondo la tradizione petrarchesca – ma anche quello delle

relazioni politiche, culturali, letterarie, secondo l’esempio bembiano.

73

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1975 Il manierismo letterario e i lirici veneziani del tardo Cinquecento,

Roma, Bulzoni.

Zanni, Raffaella

2014 Dalla lontananza all’esilio nella lirica italiana del XIII secolo,

Arzanà.

77

INDICE DEL VOLUME

INTRODUZIONE 1

I. LA VITA E LE OPERE

I.1. Dalla nascita all’esilio 6

I.2. L’esilio 9

I.3. Dalla condanna al bando perpetuo alla morte 10

I.4. Le opere 13

II. LE RIME DI BERNARDO CAPPELLO

II.1. Cronologia del canzoniere 17

II.2. “Prefazione antica di Dionigi Atanagi al Cardinal

Farnese” 21

II.3. Il canzoniere 22

III. L’EVOLUZIONE DEL PERSONAGGIO 67

78

CONCLUSIONI 73

BIBLIOGRAFIA

Testi 75

Bibliografia critica 76

79

80

81