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1 Martha Nussbaum: la compassione entro i limiti della ragione Paolo Costa In maggioranza la tradizione intellettuale e politica occidentale ha guardato con sospetto il sentimento di compassione, che, a sua volta, ha trovato i propri difensori in un gruppo di pensatori eterogeneo e tutt’altro che unanime 1 . Le ragioni di questa diffidenza sono molteplici e non del tutto esplicite. In parte la compassione suscita sospetti per il semplice fatto di essere un’emozione, apparendo, quindi, soprattutto agli occhi severi dei razionalisti, inaffidabile, parziale, passivizzante, priva di un’adeguata ca- pacità di discriminazione. Indispettisce, inoltre, nella compassione la sua tendenziale ineffettualità, il sentimentalismo, l’incapacità cioè di andare oltre la semplice reazione, per così dire, «estetica», affettiva, e passare all’azione. A questo aspetto si lega, poi, un ulteriore motivo d’insoddisfazione. La constatazione, cioè, del divario esistente tra la quan- tità di dolore presente nel mondo e la reale capacità dell’individuo di com- patirlo e condividerlo. Questa sproporzione espone la compassione, soprat- tutto in politica, al rischio di essere strumentalizzata in direzione di fini che le sono estrinseci. Se, come già notava Aristotele nella Retorica (1385b 12-18), noi tendiamo a compatire individui le cui sventure ci appaiono in- giuste o sproporzionate alle colpe e in cui, in virtù delle affinità tra la loro condizione e la nostra, riusciamo facilmente a immedesimarci, è chiaro che la compassione può essere alimentata o ostacolata da particolari concezioni della giustizia o dalla maggiore o minore capacità di attivare strategica- mente processi d’identificazione. Più in particolare, essendo la compassio- ne necessariamente selettiva nel suo esercizio concreto e individuale, è ov- viamente molto alto il rischio che il criterio implicito di questa selettività sia di tipo ideologico. Questo è in effetti spesso il destino del sentimentali- smo in politica: l’incapacità di comprendere e gestire gli esiti inattesi delle proprie buone intenzioni che deriva da una cecità rispetto alla ‘logica’ pro- pria dell’azione. 1 Cfr. M. Nussbaum, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 2001, p. 369: «Mentre la tradizione contraria alla compassione esibisce una grande conti- nuità e unità d’argomentazione, la tradizione favorevole alla compassione è più dispersa, comprende romanzieri oltre che pensatori politici, psicologi oltre che filosofi; i suoi membri, nel complesso, non sono ben consapevoli dei rispettivi argomenti».

Martha Nussbaum: la compassione entro i limiti della ragione

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Martha Nussbaum: la compassione entro i

limiti della ragione

Paolo Costa

In maggioranza la tradizione intellettuale e politica occidentale ha guardato con sospetto il sentimento di compassione, che, a sua volta, ha trovato i propri difensori in un gruppo di pensatori eterogeneo e tutt’altro che unanime1. Le ragioni di questa diffidenza sono molteplici e non del tutto esplicite. In parte la compassione suscita sospetti per il semplice fatto di essere un’emozione, apparendo, quindi, soprattutto agli occhi severi dei

razionalisti, inaffidabile, parziale, passivizzante, priva di un’adeguata ca-pacità di discriminazione. Indispettisce, inoltre, nella compassione la sua tendenziale ineffettualità, il sentimentalismo, l’incapacità cioè di andare oltre la semplice reazione, per così dire, «estetica», affettiva, e passare all’azione. A questo aspetto si lega, poi, un ulteriore motivo d’insoddisfazione. La constatazione, cioè, del divario esistente tra la quan-

tità di dolore presente nel mondo e la reale capacità dell’individuo di com-patirlo e condividerlo. Questa sproporzione espone la compassione, soprat-tutto in politica, al rischio di essere strumentalizzata in direzione di fini che le sono estrinseci. Se, come già notava Aristotele nella Retorica (1385b 12-18), noi tendiamo a compatire individui le cui sventure ci appaiono in-giuste o sproporzionate alle colpe e in cui, in virtù delle affinità tra la loro

condizione e la nostra, riusciamo facilmente a immedesimarci, è chiaro che la compassione può essere alimentata o ostacolata da particolari concezioni della giustizia o dalla maggiore o minore capacità di attivare strategica-mente processi d’identificazione. Più in particolare, essendo la compassio-ne necessariamente selettiva nel suo esercizio concreto e individuale, è ov-viamente molto alto il rischio che il criterio implicito di questa selettività

sia di tipo ideologico. Questo è in effetti spesso il destino del sentimentali-smo in politica: l’incapacità di comprendere e gestire gli esiti inattesi delle proprie buone intenzioni che deriva da una cecità rispetto alla ‘logica’ pro-pria dell’azione.

1 Cfr. M. Nussbaum, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 2001, p. 369: «Mentre la tradizione contraria alla compassione esibisce una grande conti-

nuità e unità d’argomentazione, la tradizione favorevole alla compassione è più dispersa, comprende

romanzieri oltre che pensatori politici, psicologi oltre che filosofi; i suoi membri, nel complesso, non sono ben consapevoli dei rispettivi argomenti».

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Hannah Arendt: compassione e pietà Proprio questo è l’aspetto contro cui ha puntato il dito Hannah Arendt

nella sua celebre critica del sentimento di compassione svolta soprattutto nello scritto Sulla rivoluzione2. A ben vedere, però, la critica arendtiana non è rivolta tanto alla compassione tout court, quanto più specificamente all’uso politico che è stato fatto della compassione nell’epoca delle rivolu-zioni moderne. Per comprendere il motivo profondo di questa critica, si deve tenere ben presente il ruolo che la contrapposizione tra naturale e arti-

ficiale, tra necessità e libertà, svolge nel quadro categoriale arendtiano. La politica, la dimensione pubblica, è per l’autrice la sede di una libertà artifi-ciale, in quanto potenzialità strappata alla ciclicità naturale e spersonaliz-zante della spontaneità biologica. In questo senso l’humanitas dell’uomo (con i suoi caratteristici tratti di stabilità e presenza, che gli derivano dal suo nesso col ‘mondo’, e di varietà e multiformità pienamente dispiegate

all’interno dello spazio pubblico) emerge dall’hominitas come una sorta di salto di qualità ‘ontologico’, reso possibile dalle doti non naturali dell’uomo: il linguaggio, la memoria, la capacità di riferirsi a modelli in-temporali e, quindi, di edificare un mondo di artefatti innaturali.

Se si tengono ben distinte queste due sfere della condizione umana, ri-sulterà chiaro come Hannah Arendt non possa essere definita pregiudi-

zialmente ostile alla compassione. Quest’ultima manifesta infatti, quanto-meno, nella dimensione prepolitica dell’esistenza una sua positività: anzi-tutto perché pone l’uomo in contatto con la propria realtà naturale3 e, in secondo luogo, perché dischiude il singolo individuo agli altri tramite un sentimento immediato di condivisione. Al pari dell’amore, come si può de-sumere da alcuni celebri passi di Vita activa4, la compassione consente una

comprensione diretta dell’identità dell’altro (ovvero indipendente dalle sue qualità mondane), ma è incapace di porre tra sé e l’altro una distanza in cui possa trovare spazio il mondo. Essa vive, cioè, di assenza di distanza e, non a caso, è muta, opaca, aliena alla luminosità dello spazio pubblico (che

2 Cfr. H. Arendt, On Revolution, The Viking Press, New York 1965², pp. 73-114, trad. it. Sulla rivolu-zione, Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 76-121. 3 Cfr. H. Arendt, On Humanity in Dark Times. Thoughts about Lessing, in Men in Dark Times, Har-

court, Brace & World, New York 1968, p. 6, trad. it. L’umanità nei tempi oscuri. Riflessioni su Les-sing, «La società degli individui», n. 1, 2000, p. 7. La prima realtà naturale con cui l’uomo viene posto

in contatto tramite le passioni è ovviamente la vita; in proposito cfr. l’introduzione di H. Arendt a J.

Glenn Gray, The Warriors. Reflections on Men in Battle, University of Nebraska Press, Lincoln 1970, pp. vii-xiv. 4 Cfr. H. Arendt, The Human Condition, The University of Chicago Press, Chicago 1958, p. 242, trad.

it. Vita activa, Bompiani, Milano 1988², pp. 178-179 e anche, On Revolution, cit., p. 86, trad. it. cit. p. 91.

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può solo farla degenerare in ipocrisia; la compassione, come la bontà, esi-ge la negazione di sé).

La compassione è quindi per costituzione amondana. Essa si rivolge al-

la umanità nella sua nudità, alla mera hominitas. Ovviamente questa uma-nità, nella sua naturalità, è estranea all’ambito della giustizia, del discorso, dell’azione. Essa coincide infatti con la manifestazione non regolabile del vivente che chiede di essere accolta senza distinguo nella sua datità, densi-tà, immutabilità e, pertanto, anche nei suoi aspetti meno convenzionali, nella sua vera e propria ‘brutalità’, ingovernabilità. In sintonia col celebre

detto di Terenzio, la compassione esige un’immedesimazione con l’umanità essenziale dell’altro, che dev’essere riconosciuta come propria senza distinzioni: in questo senso, in quanto esseri compassionevoli, nulla di ciò che è umano può esserci estraneo.

Da questo punto di vista la compassione può essere perciò intesa come un’importante precondizione della humanitas, di quel salto di qualità ‘on-

tologico’ che dischiude tutte le potenzialità di trascendimento di sé proprie del genere umano, benché vada accuratamente distinta da essa. L’errore sta nel mancato rispetto dei confini. Non a caso quando fa il suo ingresso nella sfera pubblica la compassione subisce una trasformazione essenziale. Essa diventa sentimento di pietà e perde la capacità di distinguere l’altro che si trova di fronte nella sua individualità. Spersonalizzando i soggetti che

compatisce, la pietà finisce in effetti per accorparli in un aggregato privo di volto, com’è ben testimoniato dall’esempio storico analizzato da Hannah Arendt: l’idea di popolo che guidò le azioni di Robespierre e Saint-Just – le peuple, les malheureux5.

Qui si nasconde per l’appunto il rischio estremo del sentimentalismo in politica, laddove a dominare è una sensazione vaga (la pietà), che non è né

una vera e propria passione, come la compassione autentica, né un princi-pio d’azione, come la solidarietà6, che, partecipando della ragione, è in grado di discriminare e di farsi quindi politico. Al pari di tutti gli altri sen-timenti, la pietà manifesta invece un carattere illimitato/indefinito (bound-less) che la rende politicamente particolarmente pericolosa. Questa insen-sibilità alle differenze sommata al suo carattere antimondano la espone in-

fatti al rischio di essere strumentalizzata per ogni fine, anche il più distrut-tivo, tramite l’utilizzo del suo gesto espressivo più estremo: la rabbia o la violenza.

Ma la pietà è evidentemente una forma degenerata di compassione, la quale – come emerge chiaramente nell’interpretazione arendtiana della pa-

5 Cfr. H. Arendt, On Revolution, cit., p. 75, trad. it. cit. p. 78. 6 Per questa distinzione tra pietà, compassione e solidarietà, cfr. ibidem, pp. 88-89, trad. it. cit. p. 94.

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rabola del Grande Inquisitore di Dostoevskij7 – è una forma di sofferenza intensa, suscitata da un individuo particolare, mai da una classe sociale o da un popolo, ed estranea a ogni dimensione mondana o politica. In so-

stanza, l’aspetto positivo della compassione sembrerebbe risiedere proprio nella sua funzione ‘catartica’ di apertura originaria alla contraddittoria realtà dell’uomo in quanto animale sofferente su cui è possibile far poggia-re l’edificio ‘innaturale’ dell’humanitas. «Umanamente parlando – osserva la Arendt in un passo di Sulla rivoluzione – è la capacità di soffrire e sop-portare che dà all’uomo la possibilità di creare durabilità e continuità»8 o,

in altre parole, di creare un mondo. Così intesa, la compassione, ovvero la naturale capacità di condividere

la sofferenza che accomuna tutti gli uomini, appare come una componente importante di quella accettazione prepolitica degli aspetti di datità, passivi-tà, animalità delle nostre esistenze che ci avvicinano agli altri esseri viven-ti9. Tale accettazione, a sua volta, è una precondizione della libertà umana,

di quel trascendimento dell’hominitas che si realizza nello spazio pubblico e, più in generale, nel mondo. In questo senso la compassione rappresenta un’emozione prepolitica che svolge un ruolo essenziale nel dare forma a un senso primario di umanità da cui trae stabilità quell’ascesi intramonda-na che si realizza con l’edificazione di spazi pubblici e l’esercizio della li-bertà umana.

Come sempre in Hannah Arendt si tratta di rispettare degli equilibri precari e dinamici, volta a volta, tra stabilità e innovazione, necessità e li-bertà, oscurità e luminosità. È lecito dunque chiedersi se, in assenza di questo sentimento minimo di umanità, avrebbero senso tutti gli sforzi pro-digati per umanizzare il mondo attraverso l’opera, l’azione e il discorso. In ogni caso, va rimarcato come la compassione, il com-patire, preceda la

piena affermazione di sé e, anzi, per molti aspetti la escluda10. Non solo non vi è obbligo di reciprocità nella compassione, ma vi è in essa una ten-denza strutturale alla dissoluzione dei confini tra sé e gli altri, al limite per-sino tra sé e la totalità del vivente. In questo senso si può dire che la com-

7 Ibidem, pp. 85-87, trad. it. cit. pp. 90-92 8 Ibidem, p. 95, trad. it. cit. p. 102. 9 A dire il vero, nel saggio su Lessing (cfr. H. Arendt, On Humanity in Dark Times, cit., p. 15, trad. it. cit. p. 16) la Arendt nota come sia la condivisione della gioia e non la condivisione della sofferenza a

esprimere al meglio l’apertura all’altro. D’altro canto, è innegabile l’affinità tra nozioni quali la capaci-

tà di compatire, di empatire, di condividere, di provare sofferenza, che rientrano tutte nell’ambito se-mantico di quella importante caratteristica umana che nel linguaggio comune suole essere indicata col

termine ‘sensibilità’. 10 Sulla contrapposizione tra senso di sé, egoità e l’esultanza «estatica» della condivisione cfr. l’introduzione a J. Glenn Gray, op. cit., pp. x-xi.

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passione rivela un profilo antiumanistico: essa contribuisce infatti a disar-ticolare il sé e la sua identità pubblica, mondana.

Potremmo dire, altresì, che la compassione si situa sulla soglia del

mondo umano propriamente inteso, nella forma di un’apertura all’altro e alla nostra realtà più immediata. È corretto anche parlare di un proto-senso di realtà che chiede di essere confermato dalla condivisione con altri di un mondo comune e forse persino di una consolazione aurorale che deriva dal sentimento di non essere soli, di condividere una vicinanza più fisica che morale con i nostri simili (e non solo con essi). A tal scopo, il carattere non

articolato, muto, della compassione può rappresentare più un pregio che un difetto in quanto è in grado di fondare un senso di comunanza potenzial-mente davvero universale e illimitato perché indefinito. Semplicemente, essa non è in grado di svolgere alcun ruolo nel mondo ‘umano’ o, meglio, può costituire la base o una condizione importante della moralità e, volen-do, anche della politica, ma non il suo contenuto. In questo senso per Han-

nah Arendt non può esistere una politica compassionevole. Compassione e spazio pubblico si escludono a vicenda.

Una fenomenologia della compassione

Impostata la questione in questi termini, è sicuramente interessante con-frontare la visione critica, benché articolatamente critica, della compassio-ne proposta da Hannah Arendt con la concezione della compassione che Martha Nussbaum ha sviluppato di recente nel suo libro Upheavals of Thought11. Vi sono infatti diversi punti in comune e alcune differenze si-gnificative. La prima differenza che va rimarcata è che, diversamente che

negli scritti arendtiani, nel caso della filosofa americana ci troviamo di fronte a una teoria sistematica delle emozioni che può essere riassunta in questi termini.

Si tratta, anzitutto, di una concezione cognitiva e intenzionale delle emozioni. La tesi principale dell’autrice è che le emozioni non sono affatto moti irrazionali dell’animo, bensì stati fisico-mentali sempre razionali in

senso descrittivo (sono cioè necessariamente connessi a delle creden-ze/convinzioni, a dei beliefs), mentre possono essere più o meno razionali da un punto di vista normativo a seconda che le credenze che li sottendono siano più o meno fondate. Esse incarnano, inoltre, una forma di consape-volezza intenzionale, in quanto sono suscitate da oggetti o stati di cose che vengono ‘intenzionati’, cioè colti dal particolare punto prospettico della

11 Cfr. M. Nussbaum, op. cit., pp. 297-454.

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creatura che prova quella particolare emozione (ira, compassione, timore ecc.).

Le emozioni hanno quindi un legame molto stretto con le credenze. Di

che natura è questo legame? Per la Nussbaum le credenze sono condizioni necessarie (non si dà emozione senza credenza), costitutive (il tipo di cre-denza determina il tipo di emozione) e finanche sufficienti (basta la cre-denza per produrre una certa emozione) di quegli stati piacevoli o dolorosi che denominiamo emozioni. Dato che, poi, le credenze in genere non sono patrimonio del singolo individuo, la postulazione di un nesso costitutivo

tra esse e le emozioni comporta un giudizio sulla natura sociale delle emo-zioni, dischiudendo la possibilità di un lavoro critico personale e collettivo di trasformazione e affinamento della vita emozionale degli individui. In una simile prospettiva questo tipo di lavoro ha evidentemente una valenza etica fondamentale e altrettanto cruciale è la definizione dei limiti di tale lavoro. Bisogna chiedersi, infatti, se esistono delle emozioni (per esempio

la vergogna o il disgusto) intellettualmente più intrattabili e, se sì, quali sono e perché è più difficile trasformarle.

Secondo la Nussbaum, infine, le emozioni dischiudono l’universo del valore. Questo valore è un valore estremamente mondano, connesso a beni che non dipendono da noi e che possono venirci a mancare. Le emozioni ci espongono, quindi, e rispondono alla contingenza. Per la Nussbaum una

prospettiva che enfatizza il valore delle emozioni entra inevitabilmente in conflitto con tutti gli ideali razionalistici che pongono invece l’accento sull’autosufficienza dell’uomo, sul distacco dal mondo ecc. (ideale prima platonico, poi stoico e infine cartesiano). Esiste quindi un legame ben pre-ciso tra valorizzazione delle emozioni umane e una concezione dell’uomo come essere finito, corporeo; un’idea tragica e umanistica dell’esistenza in

cui è presupposto un nesso essenziale (benché non di semplice creazione) tra uomo e valore; un’idea della fragilità ineluttabile del bene umano.

Riassumendo, all’inizio di Upheavals of Thought la Nussbaum descrive in questi termini le emozioni: «Le emozioni presuppongono giudizi su co-se importanti, giudizi in cui, nel giudicare un oggetto esterno come rilevan-te per il nostro benessere, riconosciamo la nostra dipendenza e incomple-

tezza di fronte a parti del mondo che non controlliamo completamente»12. Tale prospettiva viene definita una «versione modificata della visione anti-ca degli stoici, secondo la quale le emozioni sono forme di giudizio valuta-tivo che attribuiscono a certe cose e persone che sono al di fuori del nostro controllo grande importanza per il nostro stesso flourishing» (realizzazio-

12 Ibidem, p. 19.

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ne, eudaimonia, pienezza) 13 . Rispetto alla visione degli stoici, la Nus-sbaum pone, tuttavia, l’accento su una nozione più ampia di ‘conoscenza’ che, nelle sue intenzioni, dovrebbe consentire di rendere conto anche delle

emozioni dei bambini, degli animali e di molte emozioni degli adulti defi-nite troppo frettolosamente irrazionali solo perché non si accordano con un’immagine eccessivamente ristretta e intellettualistica della conoscenza. In sintesi, la visione delle emozioni della filosofa americana può essere de-finita ‘cognitivo-valutativa’ ed ‘eudaimonistica’, in quanto pone un parti-colare accento sul nesso tra le emozioni e il desiderio della persona di ave-

re una vita felice e buona. L’emozione, in sostanza, intenziona un oggetto che è visto come importante per noi, per il ruolo che esso svolge nella no-stra vita. Ciò non deve indurre, però, a svalutare le emozioni come moti inevitabilmente egoistici ed egocentrici, che presupporrebbero una visione esclusivamente strumentale degli oggetti a cui sono rivolte. Questi ultimi possono infatti avere per noi un valore intrinseco, ma la natura intrinseca

del loro valore non arriva mai sino al punto di azzerare la relazione parti-colare che essi intrattengono con la nostra persona14. Un oggetto emotiva-mente intenzionato ha quindi per definizione valore (in caso contrario non susciterebbe alcuna reazione emotiva), ma è tutt’altro che secondario il fat-to che esso abbia comunque valore per noi, dal nostro punto prospettico. D’altro canto la dimensione del valore a cui hanno accesso gli esseri umani

è per costituzione subject-related, presuppone cioè una relazione privile-giata con il punto di vista e il mondo del soggetto.

Evidentemente, la compassione è un’emozione di questo tipo, ed è do-tata, quindi, di un contenuto intenzionale, cognitivo ed eudaimonistico. Ri-spetto a emozioni altrettanto note come la tristezza, la paura, l’amore, la gioia, la speranza, la rabbia, la gratitudine, l’odio, l’invidia, la gelosia, la

colpa, la compassione ha in più la caratteristica di essere un’emozione so-cialmente molto importante, e proprio per questo l’autrice si propone di dimostrare che essa è un’emozione razionale non solo in senso descrittivo, ma anche in senso normativo, cioè «idonea a guidare bene la deliberazione in età adulta»15. Nella prospettiva della Nussbaum, è infatti importante che le teorie e quindi i giudizi etici si accompagnino sempre a emozioni ade-

guate16 e la compassione sarebbe proprio un’emozione di questo tipo in quanto essa, a differenza per esempio del disgusto o della vergogna,

13 Ibidem, p. 22. 14 Ibidem, p. 31. 15 Ibidem, p. 297. 16 In proposito la Nussbaum cita a p. 323 un suggestivo passo dell’Emilio di Rousseau: «vederlo senza sentirlo non equivale a conoscerlo».

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«estende i confini del sé»17, rispondendo, in tal modo, positivamente al di-lemma centrale della condizione umana: la ricerca di un punto d’equilibrio non soffocante o distruttivo tra esposizione alla sorte e controllo, tra vulne-

rabilità e sicurezza, tra attività e passività, tra sé e gli altri. L’obiettivo del-la Nussbaum è infatti quello di supportare con un’adeguata teoria delle emozioni una «visione etica normativa che pone l’accento sull’immaginazione, la reciprocità, la flessibilità e la pietà»18. La scom-messa teorica si riassume nell’idea (antistoica) di riconoscere un’importanza cruciale ad alcune emozioni nella nostra vita etica, nella

convinzione che vi siano risorse all’interno delle emozioni stesse per con-trastare gli effetti sfavorevoli delle emozioni negative (cosa che, per l’appunto, gli stoici non credevano, convinti com’erano che le emozioni veicolassero sempre delle credenze normativamente irrazionali).

La definizione della compassione da cui prende le mosse l’analisi dell’autrice è la seguente: «La compassione è un’emozione dolorosa pro-

vocata dalla coscienza della sventura immeritata toccata a un’altra perso-na»19. Come esempio, la Nussbaum si serve di un caso classico: la vicenda di Filottete così come essa viene narrata da Sofocle nella tragedia omoni-ma. Com’è noto, Filottete è un guerriero greco a cui, durante il viaggio verso Troia, tocca in sorte un destino molto sfortunato. Sull’isola di Lemno egli viola infatti inavvertitamente un recinto sacro, viene morso da un ser-

pente ed esplode in ingiurie talmente empie da indurre i suoi compagni ad abbandonarlo sull’isola solo, zoppo e con la sola assistenza del suo arco e delle frecce. Dieci anni dopo i suoi compagni decidono però di tornare sull’isola attirati dal suo arco e dalle sue frecce, senza i quali gli è impossi-bile vincere la guerra. Da qui prende le mosse il dramma sofocleo: la storia di un uomo punito dalla sorte al di là di ogni sua colpa, abbandonato dai

suoi compagni e potenziale vittima dell’ennesimo affronto che, alla fine, viene però salvato dalla compassione dell’uomo inviato per ingannarlo (Neottolemo).

Questa vicenda mitica serve a Martha Nussbaum per esplicitare, sulla scia di Aristotele, la «struttura cognitiva» della compassione20. A suo avvi-so la compassione presuppone: (a) un giudizio di merito sulla serietà della

sventura toccata in sorte al soggetto compatito. Questo giudizio è tutt’altro che soggettivo, né fa automaticamente proprio il punto di vista dello spet-

17 Ibidem, p. 300. 18 Ibidem, p. 297. 19 Ibidem, p. 301. La definizione ricalca quella aristotelica menzionata all’inizio del saggio. In proposi-to cfr. anche M. Nussbaum, The Fragility of Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philo-

sophy, Cambridge University Press, Cambridge 2001², pp. 383-388, trad. it. La fragilità del bene. For-

tuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, il Mulino, Bologna 1996, pp. 687-691. 20 M. Nussbaum, Upheavals of Thought, cit., p. 305.

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tatore. Come dice Adam Smith nel brano della Teoria dei sentimenti mora-li citato dalla Nussbaum: «La compassione assume il punto di vista dello spettatore, formulando il miglior giudizio che lo spettatore può offrire su

ciò che sta realmente avvenendo alla persona, anche quando esso differisca dal giudizio della persona stessa»21. Questo aspetto preserva la compassio-ne da ogni genere di condiscendenza o paternalismo. A sua volta tale giu-dizio di serietà presuppone un’idea della realizzazione (eudaimonia) uma-na che consenta, per l’appunto, di discriminare quelle offese della sorte che effettivamente minano in profondità l’esistenza dell’individuo e giustifica-

no la comparsa di un sentimento di compassione. Al centro di questa idea della realizzazione umana vi è una lista di capacità umane fondamentali che costituisce l’impalcatura di un Best Account della condizione umana22. L’imparzialità dello spettatore non va comunque a discapito della natura intenzionale dell’emozione provata. Infatti, «l’oggetto compatito è un og-getto intenzionale – interpretato all’interno dell’emozione così come esso

viene visto dalla persona che prova quell’emozione»23. Non c’è quindi un punto di vista archimedeo sull’oggetto, non esiste la visione corretta in sé e per sé, ma c’è comunque spazio per un conflitto di interpretazioni riguardo al modo più o meno corretto di ‘vedere’ il caso in questione24.

La compassione presuppone poi (b) un giudizio sulla natura non meri-tata della sventura toccata in sorte all’individuo compatito. Se costui sof-

frisse infatti in ragione di una sua colpa, il suo dolore non ci susciterebbe compassione, bensì biasimo (a cui corrisponderebbe vergogna dal lato del colpevole), a meno che non sussistesse una sproporzione irragionevole tra la colpa e la punizione. Questa precondizione è connessa al nostro senso dell’ingiustizia. Come nota Aristotele (Retorica, 1386b 6-8) è molto più facile provare compassione per una persona buona. Siccome, però, non è

facile stabilire il livello di responsabilità del singolo, risulta chiaro che questo «elemento cognitivo dell’emozione è molto malleabile»25, e che po-litici, giornalisti ecc., ovvero gli opinion-makers, possono suscitare ad arte un sentimento di compassione o biasimo intervenendo con espedienti reto-rici sulla nostra visione dell’azione. Un’obiezione più radicale viene da tut-ti coloro (una lunga lista di filosofi che va dagli stoici a Kant) che dubitano

21 Ibidem, p. 309. 22 Cfr. anche ibidem, p. 310: «nell’emozione stessa è implicita una concezione della realizzazione umana (human flourishing) e dei principali dilemmi della vita umana, la migliore che lo spettatore sia

in grado di formarsi». Per quanto concerne l’elenco delle dieci capacità umane fondamentali, cfr. ibi-

dem, pp. 415-418. 23 Ibidem, p. 310, corsivo mio 24 Una serie di esempi di questo potenziale conflitto d’interpretazioni è fornita dalla Nussbaum nel ca-

pitolo 8. 25 Ibidem, p. 314.

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che cose veramente gravi possano accadere agli uomini, ossia che gli uo-mini siano davvero esposti alla sorte e alla fragilità dei beni esterni. Per tutti costoro non ci sarebbe quindi mai un motivo valido per compatire gli

altri. Nella sua interpretazione del sentimento di pietà Aristotele pone infine

l’accento sul senso di comunanza col soggetto compatito che deriverebbe da un’idea delle possibilità affini, dalla consapevolezza, cioè, che noi stessi potremmo essere vittime di una sventura analoga (da qui deriva il nesso tra compassione e paura). Come recita il celebre brano dell’Emilio di Rous-

seau citato a ragion veduta dalla Nussbaum:

Perché i re non hanno pietà per i loro sudditi? Perché pensano che non saranno

mai esseri umani. Perché i ricchi sono così severi coi poveri? Perché non hanno

paura di diventare poveri. Perché i nobili disprezzano così i contadini? Perché non

saranno mai contadini […] Chiunque può diventare domani ciò che colui che aiu-

tiamo è oggi […] Perciò non abituate il vostro allievo a considerare le sofferenze

degli sventurati e le fatiche dei poveri dall’altezza della sua gloria; e non confidate

di potergli insegnare la pietà se li considera a sé estranei. Fategli comprendere be-

ne che il destino di questi infelici può essere anche il suo, che tutte le loro disgra-

zie sono lì sotto i suoi piedi, che innumerevoli, imprevedibili e inevitabili eventi

possono farlo sprofondare in esse da un momento all’altro. Insegnategli a non con-

tare né sulla nascita né sulla salute né sulla ricchezza. Mostrategli tutte le vicissi-

tudini della sorte26.

Per suo canto, la Nussbaum riconosce l’importanza ‘epistemologica’ e

‘psicologica’ di tutto ciò, ma non è convinta che questo atteggiamento prudenziale rappresenti a tutti gli effetti una terza condizione necessaria

del sentimento di compassione. Secondo lei l’educazione famigliare e so-ciale genera spesso barriere (di classe, religione, genere, orientamento ses-suale ecc.) che riducono fortemente la nostra capacità di cogliere la somi-glianza tra la nostra condizione e quella delle persone sofferenti. Per tacere poi delle differenze di specie. Al giudizio di somiglianza la Nussbaum propone perciò di sostituire come terza condizione (c) il giudizio eudaimo-

nistico. Secondo questa prospettiva, «affinché la compassione sia presente, la persona deve considerare la sofferenza dell’altro come una parte signifi-cativa del suo schema di fini e scopi. Egli o ella devono considerare la di-sgrazia di quella persona come qualcosa che concerne la sua stessa realiz-zazione. In effetti, essi devono rendersi vulnerabili nella persona dell’altro. È questo giudizio eudaimonistico, non il giudizio sulle analoghe possibili-

26 Ibidem, pp. 315-316.

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tà, che sembra essere una componente necessaria della compassione»27. Per provare compassione sarebbe sufficiente, quindi, sentire la sofferenza altrui come una ferita al proprio progetto di vita, come un colpo alla pro-

pria stessa vulnerabilità. Anche qui si palesano, nondimeno, i rischi di ri-strettezza e angustia della compassione, giacché i confini eudaimonistici degli individui sono spesso limitati e lo sforzo di estenderli è tutt’altro che agevole e il suo esito incerto. Per questo è utile esercitare il giudizio eudaimonistico sia con richiami alla somiglianza dei destini sia con ragio-namenti prudenziali affini a quelli eseguiti sotto il ‘velo d’ignoranza’ rawl-

siano, secondo cui «data l’incertezza della vita, saremo inclini, stando così le cose, a desiderare una società in cui il destino di quelli messi peggio […] sia il migliore possibile. L’interesse egoistico stesso, tramite riflessio-ni sulla comune vulnerabilità, promuove la selezione di principi che innal-zano la base della società»28. Ancora una volta giustizia e compassione marciano di pari passo.

Va notato, però, che, secondo la Nussbaum, non è tanto l’interesse egoistico (ovvero il nesso compassione-paura) a motivare in ultima istanza l’azione beneficante, bensì proprio il giudizio eudaimonistico. Questo fatto attesterebbe la presenza di un nucleo etico o «quasi-etico» nel sentimento stesso di compassione, che l’autrice descrive come «la considerazione dell’altra persona in quanto parte del proprio circolo di interesse (circle of

concern)»29. In virtù di ciò, l’impresa di Martha Nussbaum appare molto meno disperata di quanto non potesse apparire a prima vista, essa consiste infatti, nelle sue parole, nel «ricavare un’etica (limitata) da un un’etica (li-mitata)»30. I limiti della ragione entro cui l’autrice vuole ricondurre la compassione, in effetti, non sono a essa esterni, né tantomeno estrinseci.

Conseguentemente, nella prospettiva della Nussbaum:

Il problema non è come inserire altre cose e persone in un sistema fondamen-

talmente egoistico; la questione è, piuttosto, come ampliare, educare e stabilizzare

elementi di cura (concern) che sono già presenti – e in particolare come costruire

una cura stabile e veramente etica per persone che sono anche oggetti di bisogno e

di risentimento e di rabbia. Nel momento in cui la compassione fa la sua comparsa

sulla scena, parte del suo lavoro è già stato fatto31.

27 Ibidem, p. 319. 28 Ibidem, p. 321. 29 Ibidem, p. 336. 30 Ibidem, p. 337. 31 Ibidem.

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Il problema è quindi come estendere i confini del circolo che ha nel sé il proprio centro di gravità, posto che questo sé non è una monade priva di porte e finestre. In effetti, «la compassione non deve scaturire magicamen-

te dal nulla: essa deriva direttamente da elementi protoetici relazionali che esistono già»32.

Anche esercitarsi nell’empatire gli altri può essere utile sia in vista della formulazione di giudizi adeguati sulla gravità della sofferenza patita sia per esercitare bene il giudizio eudaimonistico. L’atto empatico non costi-tuisce comunque mai un’identificazione completa con l’altro, non è un an-

nullarsi nell’altro, in quanto rimane pur sempre viva la coscienza della se-paratezza. Questa è una precondizione indispensabile perché possa esservi un nesso tra empatia e compassione, giacché quest’ultima è un’emozione dolorosa provata nei confronti di un altro in quanto altro, che richiede una sorta di «twofold attention» (Wollheim), di attenzione duplice verso l’altro33.

L’empatia può comunque essere non accurata e, più in generale, non è sufficiente per provare compassione. Si può infatti empatire una persona felice, oppure si può empatire una persona infelice ma senza provare alcu-na compassione (così come, viceversa, si può provare compassione per una creatura che non si riesce a empatire, come nel caso degli animali). La vera utilità dell’esercizio empatico è proprio nell’aiuto che esso fornisce

all’estensione dei confini del sé e alla rottura di quel guscio di ottusità e sordità che può renderci gli altri totalmente estranei e impenetrabili. In sin-tesi, «l’empatia è un’abilità mentale di grande importanza per la compas-sione, sebbene di per sé sia fallibile e moralmente neutra»34. La sua utilità è tale che può ben dirsi che sia migliore uno sforzo empatico utilizzato a fini malvagi che un’assoluta assenza di empatia, la quale conduce inevita-

bilmente a una completa disumanizzazione dell’altro, a una estraneità che può anche perdere ogni senso del limite (come dimostra il caso dei campi di concentramento nazisti).

I principali ostacoli alla compassione sono costituiti quindi dalle istitu-zioni sociali inadeguate e dalla mancata fuoriuscita da quella condizione di egoismo/narcisismo patologico che un normale processo di maturazione ed

educazione dovrebbe consentire di superare. L’incapacità di riconoscere la propria condizione di essere bisognoso, vulnerabile, dipendente dagli altri ed esposto alle vicissitudini dei beni esterni può condurre infatti a una cre-scita smisurata dell’ideale di autosufficienza con un conseguente incre-mento dei sentimenti di disgusto (verso coloro che non sono all’altezza di

32 Ibidem. 33 Ibidem, p. 328. 34 Ibidem, p. 333.

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questo ideale) e di vergogna (verso le proprie debolezze), il cui sbocco più naturale sono quei fenomeni di sessismo, razzismo, ecc. ben noti nelle no-stre società. Fenomeni che, con Martha Nussbaum, potremmo definire

«d’intolleranza dell’umanità verso se stessa»35. Detto ciò, è chiaro che una sfida centrale per una società che desidera diffondere un atteggiamento di

generale e appropriata compassione è quella di combattere i meccanismi che sono

alla base di queste versioni ipertrofiche della vergogna e del disgusto, producendo

persone che possano convivere con la propria umanità. La rinuncia

all’onnipotenza è essenziale per la compassione e un’ampia compassione per i

propri concittadini è essenziale per una società decente36

L’obiettivo è quindi «riconoscere la propria non-onnipotenza»37. Scopo che si comincia a perseguire da bambini, quando nella relazione con i geni-tori s’imparano a sviluppare i sentimenti d’amore, cura e colpa, si appren-

de a elaborare in maniera non distruttiva i primi lutti e le prime perdite e, infine, s’impara ad assumere il punto di vista degli altri. A tal fine fornisce un contributo essenziale lungo tutto l’arco delle nostre esistenze l’arte e in particolare la letteratura, «che nutre la nostra capacità di guardare con pia-cere alla finitudine umana»38.

I filosofi e la compassione

Questo è, in linee generali, il ritratto che l’autrice propone della com-

passione. Ma qual è la sua replica alle obiezioni filosofiche che tradizio-nalmente sono state mosse contro il valore di questa emozione?

Martha Nussbaum non ha alcuna difficoltà a riconoscere che la «com-passione è controversa»39; cosa che, per altro, l’intera tradizione filosofica è lì ad attestarci. Secondo Platone, gli stoici, Spinoza e, in larga misura, Kant40 e Nietzsche41 il sentimento di compassione si basa in realtà su giu-

35 Ibidem, p. 350. 36 Ibidem. 37 Ibidem, p. 351. 38 Ibidem. 39 Ibidem, p. 354. 40 Nel ritratto delineato da Martha Nussbaum, Kant appare in effetti una figura paradossale in quanto

egli eredita dagli stoici il giudizio negativo verso le emozioni, ma non elabora una teoria delle emozio-

ni neanche lontanamente comparabile a quella stoica. Per Kant, in sostanza, le emozioni e le passioni sono fondamentalmente moti impulsivi, irrazionali e quindi non cognitivi. Esse possono essere solo

strumentalmente utili alla morale, come nel caso della compassione che indirizza naturalmente il dove-

re. Sviluppare le emozioni, pertanto, è soltanto un dovere condizionale o indiretto, non un dovere in sé, e lo è solo in quanto noi siamo non solo esseri razionali, ma anche animali dotati di ragione (la nostra

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dizi falsi e, in questo senso, è da considerarsi un’emozione normativamen-te irrazionale, fondata cioè su credenze che non reggono a una disamina attenta.

La prima domanda cruciale a cui si deve fornire risposta è se davvero la sorte sia in grado di arrecare danni gravi agli esseri umani e se questa con-vinzione (su cui si basa tutta la letteratura lato sensu tragica) non poggi su un equivoco di fondo. Non è forse vero che accettare questa idea signifi-cherebbe in sostanza negare agli esseri umani la dignità che spetta loro in quanto esseri razionali, ovvero sminuire le loro capacità e forze intrinse-

che? Secondo la tradizione socratica la compassione è indegna degli uomini

in quanto attribuisce un valore eccessivo ai beni esterni, mentre la dote più importante degli individui è la vita interiore (la ragione e la volontà) che rimane sempre soggetta al loro controllo e quindi immune ai colpi della sorte. Stando così le cose, la risposta emotiva corretta ai danni che noi

stessi possiamo infliggere al nostro ‘centro di virtù’, alla nostra personalità autentica, è soltanto il biasimo, non la compassione. Nel biasimare la man-canza rispettiamo infatti la dignità dell’agente in quanto lo riteniamo pie-namente responsabile del suo destino.42

Un’altra critica ricorrente alla compassione, oltre a quella che ne sotto-linea l’angustia e la parzialità, le rimprovera il legame ambiguo che essa

intrattiene con la rabbia e la vendetta. Come sostengono gli stoici, infatti, allenare l’animo alla ‘mollezza’, alla tenerezza della compassione, signifi-ca alla fine esporlo al rischio di «essere invaso dai serpenti del risentimen-to e dell’odio». 43 Il loro stesso invito alla misericordia è ben distinto

Menschheit). La verità, però, è che anche solo per svolgere questa minima funzione orientativa, le

emozioni dovrebbero possedere una natura intenzionale che gli è negata, tuttavia, dalla stessa teoria

kantiana. In proposito cfr. anche M. Nussbaum, Kant and Stoic Cosmpolitanism, «The Journal of Poli-tical Philosophy», n. 1, 1997, pp. 1-25 e il saggio di Marina Savi contenuto in questo stesso volume. 41 In Nietzsche viene a cadere il dualismo kantiano, che, però, è risolto totalmente a favore

dell’animalità. Inoltre, nella lettura nietzschiana, l’animalità è concepita all’interno di una prospettiva vitalistica che non lascia spazio sufficiente alla debolezza e alla dipendenza. In Nietzsche l’energia

umana ha quasi solo un’origine interna; la sua fonte è innata e, apparentemente, inesauribile. Le diffi-

coltà, infatti, lungi dal deprimerla, accrescono questa forza interiore, questa vitalità che è indice di no-biltà. È superfluo aggiungere che questa prospettiva vitalistica ha un chiaro retroterra metafisico. Su

questi temi cfr. anche G. Simmel, Friedrich Nietzsche. Eine moral-philosophische Silhouette, «Zei-

tschrift für Philosophie und philosophische Kritik», n. 2, 1896, pp. 202-215, trad. it. Friedrich Nie-tzsche. Un profilo filosofico-morale, «La società degli individui», n. 1, 1998, pp. 87-101. 42 Vale la pena di osservare come la Nussbaum apprezzi le motivazioni ugualitarie e cosmopolite pre-

senti in questa tradizione razionalista, ma ne contesti gli assunti per così dire ‘antropologici’. 43 M. Nussbaum, Upheavals of Thought, cit., p. 362. Si pensi all’invito di Seneca a Nerone a non attac-

carsi ai beni esterni per potere così diventare un «sovrano più umano e gentile». Cfr. anche M. Nus-

sbaum, The Therapy of Desire. Theory and Practice in Hellenistic Ethics, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1994, trad. it. Terapia del desiderio, Vita e pensiero, Milano 1998, nonché

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dall’appello alla compassione, giacché, come nota acutamente Nietzsche, la misericordia è una sorta di «autosoppressione della giustizia»44, l’ atto di forza e di superiorità di chi condona all’altro la sua colpa nel nome della

propria imperturbabilità. Il forte – lo stoico –, proprio perché tale, è natu-ralmente indulgente e misericordioso, mentre il compassionevole è debole e facilmente preda di impulsi vendicativi.

Il sostenitore di questa posizione, per altro egemone nella nostra tradi-zione filosofica, sarà disposto a riconoscere i sentimenti di biasimo, di ri-spetto, di misericordia, ma non la compassione. Riguardo a questa obie-

zione di cui non disconosce la forza, Martha Nussbaum invita a smussare gli angoli della contrapposizione, in particolare del contrasto tra compas-sione e rispetto, così da farne due alleati più che due avversari. Di conse-guenza si chiede:

Perché siamo costretti a fare una scelta drastica tra provare compassione per

una persona che soffre e avere rispetto per la sua dignità? Perché non possiamo

fare delle distinzioni, provare compassione relativamente ai mali che la sorte le ha

inflitto e al contempo avere rispetto e ammirazione per il modo in cui una persona

buona saprà sopportare con vigore questi mali? Non siamo obbligati a sostenere

che l’umanità morale della persona cancella la perdita per rispettare l’umanità

quando la vediamo45.

La verità, secondo Martha Nussbaum, è che esiste una contraddizione profonda tra l’assunzione della ‘prospettiva archimedea’ sugli affari umani propria dello stoico e la sua rivendicazione di un’attitudine morale. A ben vedere, la moralità umana svanisce nel momento stesso in cui è osservata da una distanza siderale, in particolare nel momento in cui viene negata

ogni rilevanza alle offese inferte agli uomini dalla sorte. Dove può mai na-scere il valore dello sforzo morale se per gli uomini non vi è alcun ostacolo da superare, alcun prezzo effettivo da pagare? Dove finiscono le virtù del coraggio, della giustizia, della moderazione? Che ne è della moralità una volta che ai beni esterni non viene riconosciuto alcun valore intrinseco, te-nuto conto che «essa sembra consistere sostanzialmente proprio in una cor-

retta distribuzione di tali cose»?46. In effetti lo stoico descritto da Martha Nussbaum appare molto simile a quel narcisista patologico a cui si è fatto

l’analisi che Hannah Arendt fa del ruolo della compassione nello stimolare l’odio giacobino nella Ri-

voluzione francese in On Revolution, cit., cap. 2, § 3. 44 F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift [1887], in Sämtliche Werke, a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin 1967 sgg., vol. V, trad. it. Genealogia della morale. Uno scritto polemico,

Adelphi, Milano 1984, p. 62. 45 M. Nussbaum, Upheavals of Thought, cit., p. 370. 46 Ibidem, p. 373.

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riferimento sopra. Il suo rifiuto assoluto di ammettere la propria e la nostra vulnerabilità lo irrigidisce infatti in una postura contratta in cui pare esser-vi spazio solo per un’aspirazione illimitata al controllo.

Una simile prospettiva morale è per la Nussbaum antropologicamente insostenibile. Essa disconosce infatti la natura ambigua e ambivalente dell’uomo, non si rende conto che l’attività e la passività debbono coesi-stere in un’immagine dell’essere umano secondo la quale esso è sì esposto alla sorte, ma non impotente. Al contrario, «la società che incorpora la pro-spettiva della compassione tragica nel suo disegno fondamentale comincia

con un’intuizione generale: le persone sono agenti degni, ma sono anche, spesso, vittime. Agency e victimhood non sono affatto incompatibili, solo la capacità di agire rende tragica la condizione di vittima»47.

Fondamentale è allora discriminare, distinguere tra i beni esterni quelli realmente importanti e affiancare alla compassione umana una «teoria eti-ca corretta»48, che ci indichi con precisione quali sono i beni che hanno va-

lore, quali sono le responsabilità personali e quali quelle sociali, e che ci illumini su quali sono gli interessi personali corretti. Tale teoria etica forni-rebbe ai giudizi che stanno alla base del sentimento di compassione la base cognitiva indispensabile per fare della compassione quella emozione «ido-nea a guidare bene la deliberazione in età adulta» di cui si è parlato in pre-cedenza.

La compassione è quindi un’emozione potenzialmente inaffidabile che chiede di essere educata, orientata e, soprattutto, estesa. Ma ciò non signi-fica che essa possa essere soppiantata in toto da una teoria morale adegua-ta. La teoria, giacché pretende di fare presa solo sull’intelletto, non può ba-stare; in un certo senso è troppo astratta e «una teoria morale astratta, non attraversata da quelle connessioni d’immaginazione e simpatia può essere

facilmente piegata a fini malvagi, poiché il suo significato umano non è chiaro […] una moralità basata sulle regole, non animata dalle risorse dell’immaginazione, troppo facilmente può confondersi con un’acquiescenza alle regole culturali o alle regole imposte dall’autorità»49. Al contrario, «la compassione stessa è l’occhio attraverso cui le persone vedono il bene e il male degli altri e il suo vero significato. Senza di essa,

la visione astratta dell’intelletto calcolatore si rivela cieca rispetto ai valo-ri»50.

Che dire, infine, della relazione tra compassione e vendetta? Anzitutto, non si può negare il ruolo sociale della rabbia. Spesso, infatti, contro le in-

47 Ibidem, p. 406. 48 Ibidem, p. 386. 49 Ibidem, pp. 389-390. 50 Ibidem, p. 392.

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giustizie non c’è reazione emotiva più adeguata della collera. Il nostro obiettivo corretto non deve essere perciò quello, tradizionalmente stoico, di estirparla, quanto piuttosto di controllarla, temperarne gli eccessi attraver-

so adeguate soluzioni giuridiche e legislative. Tanto più che la rabbia ci stimola a estendere il nostro senso delle ingiustizie (anche per esempio nel caso di disgrazie apparentemente naturali), in quanto presuppone un’attribuzione di responsabilità per il danno inflitto maggiore di quello normalmente presupposto dal moto di compassione.51

Il discorso è diverso per la vendetta. Compassione e vendetta sono in

effetti le due alternative a cui siamo posti di fronte nel caso di un grave tor-to subito. Entrambe si basano su giudizi di serietà, colpa e nesso eudaimo-nistico, ma mentre la vendetta cerca una scorciatoia verso la crudeltà che passa per la disumanizzazione dell’altro, la compassione si oppone a que-sto tentativo chiedendo alla vendetta di qualificarsi, di passare dal mutismo alla parola, e forgiando un’alleanza con tutti gli esseri umani52.

Il vero rischio insito nella compassione è l’autocompiacimento, il peri-colo, indicato da molti, che essa si esaurisca in se stessa e non conduca mai all’azione benevolente. Per gli individui, infatti, chiosa l’autrice, «spesso un’esperienza momentanea è molto più facile […] di un impegno conti-nuativo»53.

Da un punto di vista politico, la Nussbaum opera una scelta di campo

esplicita a favore di un preciso modello istituzionale: la democrazia libera-le così com’essa viene concepita da John Rawls nel suo scritto Liberalismo politico. La domanda che l’autrice si pone è quali siano le istituzioni più idonee per favorire e promuovere la compassione, tenuto conto che: 1) non possiamo attenderci che esisteranno mai istituzioni perfette, e 2) che la compassione personale resterà una risorsa civica importante anche in una

democrazia liberale funzionante. Di conseguenza, «la relazione tra la com-passione e le istituzioni sociali è e dovrebbe essere a doppio senso: gli in-dividui compassionevoli costruiscono istituzioni che incarnano ciò che essi immaginano; e le istituzioni, a loro volta, influenzano lo sviluppo della compassione negli individui»54.

Per quanto concerne le dimensioni costitutive della compassione, al

giudizio sull’importanza del danno subito può fornire un contributo essen-ziale la definizione di una lista di beni umani fondamentali che la comunità

51 Varrebbe forse la pena di chiedersi, in proposito, se la Nussbaum non sottovaluti la ‘pigrizia’ – quel-

la che un tempo si sarebbe definita la ‘peccaminosità’ – umana, la tendenza cioè ad abbandonarsi a una rabbia distruttiva e irragionevole solo per sgravarsi dalle fatiche dell’elaborazione del lutto. 52 Cfr. ibidem, p. 395. 53 Ibidem, p. 399. 54 Ibidem, p. 405.

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internazionale è chiamata a far propri e che la Nussbaum elenca in quest’ordine: 1) vita; 2) salute fisica; 3) integrità fisica; 4) sensi, immagi-nazione e pensiero; 5) emozioni; 6) ragion pratica; 7) affiliazioni (a. sociali

e b. rispetto); 8) altre specie; 9) gioco; 10) controllo sul proprio ambiente (a. politico e b. materiale). Per affinare il giudizio sulla colpa e il merito servono invece delle leggi e delle istituzioni in continua evoluzione e quindi in grado di recepire con sufficiente rapidità i cambiamenti sociali. Il giudizio eudaimonistico, infine, deve proseguire la sua evoluzione in una direzione cosmopolitica. A tal scopo possono offrire un aiuto importante i

mass-media, i leader politici e anche la continua opera di revisione giuridi-ca del quadro legislativo.

In conclusione, si può notare come anche l’analisi di Martha Nussbaum non sfoci in verità nella difesa di un’idea di politica compassionevole, se per politica compassionevole si intende una politica guidata esclusivamen-te dal sentimento di compassione. L’obiettivo che l’autrice si prefigge è

piuttosto di rammentare a chi fa politica e, più in particolare, a chi opera all’interno delle istituzioni liberal-democratiche – il cui perno rimane non-dimeno il criterio della giustizia – il debito che esse hanno nei confronti di risorse emotive come la compassione, da cui non possono prescindere, pe-na il decadimento stesso della loro funzione. Benché con un’enfasi diversa, anche la filosofa americana s’impegna dunque, al pari della Arendt, in

un’opera di tracciatura di confini, anche se il suo intento principale è la creazione di una sinergia efficace tra emozioni e ragione, più che la salva-guardia di un equilibrio virtuoso e fragile tra polarità opposte di una condi-zione umana internamente articolata. Mentre la Arendt scorge un’inconciliabilità (ma non un’incompatibilità) di fondo tra compassione e politica – da cui non può essere eliminata una componente essenziale di

durezza e austerità – e postula l’esistenza di un salto ‘ontologico’ tra la na-turalità della compassione e l’artificialità delle relazioni nello spazio pub-blico, la Nussbaum sottolinea invece il carattere poroso dei confini tra compassione e giustizia e, più in generale, tra emozione e ragione, nel no-me di un’idea indulgente e non tetragona di umanità.

Stabilire quale tra le due prospettive sia la più aderente alla realtà ri-

chiederebbe un’ulteriore lavoro d’analisi per cui manca qui lo spazio suffi-ciente. In ogni caso, l’indicazione preziosa che si può ricavare dal lavoro di entrambe le pensatrici è proprio l’invito a operare delle distinzioni accu-rate per oltrepassare la mera contrapposizione tra compassione e giustizia. Ambedue incarnano infatti delle esigenze fondamentali dell’essere umano; fondamentali, ma diverse. Perdere di vista tale diversità così come non ri-

conoscere la loro comune imprescindibilità può essere esiziale per la deli-berazione pratica. È questo un ammonimento che vale la pena di ribadire

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anche in un momento in cui la contemplazione della tragicità apparente-mente inesorabile della storia suscita un sentimento di prostrazione poco propizio per l’arte, pur così filosofica, della distinzione.