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TRA/PASSATO PROSSIMO Collana diretta da Silvia Giorcelli Bersani e Sergio Roda

Mitologie dell'impero. Memoria dell'antico e comprensione del presente, Torino, CELID, 2013, 290 pp

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TRA / PAS SATO PROSS IMO

Collana diretta da

Silvia Giorcelli Bersani e Sergio Roda

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Co l l a n a TRA / PAS SATO PROSS IMO

La ricerca storiografica recente ha elaborato un rinnovato interesse per le problematiche dellarelazione fra passato e presente.Tale scelta è stata sollecitata da diversi motivi: in primo luogo l’esigenza di una riflessione sulsignificato storico (ma anche politico, civile ed etico) della memoria, in un’epoca in cui si diffon-dono sempre più una sottovalutazione del senso della storia e una proiezione tutta al presentedei valori individuali e collettivi.Ciò determina, da un lato, fenomeni di uso non trasparente del passato e, dall’altro, semplifica-zioni mediatiche e falsamente divulgative della storia che sollecitano l’attenzione e l’audience,ma senza alcuna cura per la correttezza e la precisione storica.Parallelamente si assiste, a livello di analisi politica, politologica e storiografica, al moltiplicarsidei confronti fra realtà contemporanea e realtà anteriori, che ripropongono, benché in versionepiù moderna e sofisticata, i princìpi della funzione didascalica e educativa della storia.In particolare nell’ultimo ventennio tale fenomeno ha raggiunto proporzioni massicce, esten-dendosi dalla sfera della storiografia e dell’analisi politica agli ambiti della letteratura colta epopolare, della cinematografia e della rete, entrando così nell’opinione comune.In relazione a tutto ciò, si è immaginata una collana di studi storiografici che raccolga saggi ori-ginali sui temi della relazione passato/presente, analizzando il pensiero contemporaneo sull’anticoin tutti i suoi aspetti, negativi o positivi, utili o dannosi, funzionali o strumentali, scientifici omeno, e prendendo in considerazione i fenomeni di uso e abuso della storia antica a fini politico-ideologici di legittimazione del potere e di ratifica del diritto, e a fini di legalizzazione delle isti-tuzioni, di conferma delle tradizioni, di proposta o riproposta di modelli culturali, artistici, sto-riografici, etici e comportamentali. Aperta al contributo di tutti gli studiosi interessati, la collana si propone in primo luogo l’aper-tura di ampi dibattiti interdisciplinari sulle tematiche via via individuate. La destinazione d’usointende travalicare l’ambito puramente specialistico, per interessare non solo gli studenti uni-versitari, ma anche un pubblico attento e curioso di ogni aspetto del recupero dell’antico.

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Sergio Roda

Mitologie dell’imperoMemoria dell’antico e comprensione del presente

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Questa pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino.

In copertina: Lawrence Alma Tadema, The Colosseum, olio su tavola, 1896 (coll. privata, USA).

© Celid, dicembre 2013via Cialdini 26, 10138 Torinotel. 011 [email protected]/casaeditrice

I diritti di riproduzione, di memorizzazione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo(compresi microfilm e copie fotostatiche) sono riservati.

ISBN 978-88-7661-899-4

Progetto grafico di copertina: Ezio Aluffi - LeprechaunStampa DigitalPrint Service, Segrate (MI)

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Lo storico è un profeta che guarda all’indietro.(Friedrich Schiller)

Le utopie politiche sono una forma di nostalgia per un passato immaginato, proiettato nel futuro come un desiderio.

(Michael Ignatieff)

[…] il peggior nemico della memoria non mi pare sia tanto la rimozione e l’oblio quanto piuttosto il ricordo che tende

a semplificare, appiattire, banalizzare ciò che è successo. Quando gli storici vanno a studiare più da vicino

e quando i testimoni scavano più in profondo nella loro memoria emergono sfumature, luci e ombre, si scopre che le cose

sono sempre più ingarbugliate, insensate e bizzarre di come ci sono state trasmesse tutte belle impacchettate.

(Lisa Foa)

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Indice

Introduzione 9

CAPITOLO I

L’eredità del mondo antico 29

CAPITOLO II

Messaggi di vita nelle pietre di morte: la funzione dell’epigrafia sepolcrale 56romana tra paganesimo e cristianesimo

CAPITOLO III

I problemi militari al confine nordorientale 80(l’equilibrio di potenza tra mondo antico e mondo moderno)

CAPITOLO IV

Classi medie e società altoimperiale romana: 96appunti per una riflessione storiografica

CAPITOLO V

I pericoli di una storia senza memoria e senza verità 110

CAPITOLO VI

Ammiano Marcellino storico contemporaneo 130

CAPITOLO VII

L’imperialismo romano soft della cultualità condivisa: 145la via religiosa all’integrazione e all’identità multiculturale

CAPITOLO VIII

Strategie imperiali 167

CAPITOLO IX

L’immagine del barbaro tra mondo antico e mondo contemporaneo 185

CAPITOLO X

«Soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Modelli di 203comunicazione mediatica fra mondo contemporaneo e mondo romano

CAPITOLO XI

Pluralismo religioso in una società a-religiosa: l’età imperiale romana 222

CAPITOLO XII

Ai margini dell’impero nell’età dell’angoscia 235

CAPITOLO XIII

Legioni perdute, leggende ritrovate, lungo le strade dell’impero e oltre 262

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Introduzione*

«I Romani hanno spiegato con la loro vita un largo ventaglio, che va dall’arte digodere all’arte di morire: al centro, tra le due, il coraggio, la gravità, l’infamia e latristezza. Per questo, la loro storia è il microcosmo di tutta la Storia; chi conoscebene la storia romana, non ha bisogno di conoscere la storia del mondo; tutto quelloche è opus romanum è opus humanum, tutto ciò che è opera romana è opera umana».Così si esprimeva Henry de Montherlant nella Postilla al suo lavoro teatrale del1965, La guerra civile, che è in realtà il dramma di un uomo potente, Pompeo, allavigilia della disfatta di Farsalo e del trionfo di Cesare, ineluttabile conseguenza,inverata nel ciclo della vicenda storica, dell’abisso che separa il talento dal genio1.Nel maggio del 1946, Benedetto Croce, commemorando l’amico Adolfo Omo-

deo, appena scomparso, nei Quaderni della Critica così fra l’altro si esprimeva:

Possedeva nei suoi lunghi e solidi studi di storia religiosa, e principalmente cristiana,il mezzo per entrare nello spirito di taluni fatti e di taluni personaggi storici che altri-menti rimarrebbero poco chiari, come può vedersi, per ricordare un esempio, nel suolibro su Giuseppe de Maistre; e, versato del pari nella storia antica, che aveva altresìinsegnato nei primi anni della sua professione universitaria, e in quella moderna, cheaveva studiata sempre per bisogno di uomo moderno, fino alla vicinissima a noi e con-temporanea, gli era consentito di passare con la mente dall’una all’altra e di traspor-tare a schiarimento dell’una i lumi che raccoglieva dall’altra; che è una capacità benrara [...] che pochissimi posseggono. Chi legge i suoi maggiori libri di storia e la rac-colta dei suoi sparsi saggi e note e recensioni e polemiche, potrà riscontrare la veritàdi quanto io qui dico2.

Nel 2009 in omaggio a Emilio Gabba (1927-2013), uno dei più grandi studiosidel mondo antico e uno dei maggiori storici contemporanei, Umberto Laffi, ordi-nario di Storia Romana all’Università di Pisa, pubblicò un’ampia e articolata inter-

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*L’Introduzione raccoglie, aggiornandoli e ampliandoli su tematiche sia più generali sia più pun-tuali, alcuni spunti delle mie Conclusioni. L’uso politico e ideologico del passato imperiale romano: la for-tuna di un modello fra analisi storico-politica e opinione comune, pubblicate in P. DESIDERI, S. RODA,A. M. BIRASCHI (a cura di), A. PELLIZZARI (con la collab. di), Costruzione e uso del passato storico nellacultura antica, Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 18-20 settembre 2003), Alessandria2007, pp. 573-585.1 H. DE MONTHERLANT, La guerra civile, Postilla, premessa e trad. it. di P. BUSCAROLI, Torino

1976, pp. 178-179.2 B. CROCE, Adolfo Omodeo, in «Quaderni della Critica» 2, 5, 1946, pp. 1-5. Lo stesso testo crociano

compare in prefazione alla sesta edizione di A. OMODEO, L’età del Risorgimento Italiano, Napoli 1948.

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vista a Gabba stesso, pubblicata sotto il titolo Conversazione sulla storia 3. Nel brevis-simo profilo biografico che precede il testo dell’intervista, Gabba così si presenta:

Sono nato a Pavia il 31 marzo 1927 e sono cresciuto in una famiglia per tradizione inte-ressata ai problemi della vita storica, culturale, politica dell’Italia del XIX secolo. […] Edè nata da lì, io credo, la consapevolezza, divenuta sempre più precisa in me, che ledomande, che sorgono dalla lettura di testi antichi, letterari, epigrafici e monumentali,derivino da un’esigenza pratica dell’esperienza del proprio tempo. Senza che questodiventi naturalmente una prevaricazione del presente sul passato, non c’è dubbio che laconoscenza dei problemi del periodo in cui ho vissuto abbiano influenzato e dato dei sug-gerimenti per la comprensione da parte mia, come storico, della storia del passato. Ogginon c’è più quella centralità degli studi classici che si era mantenuta per tutto l’Otto-cento e per la prima parte del Novecento. Il declino della storia antica in certi ambititradizionalmente avanzati può sembrare drammatico. Per parte mia, resto convinto chedobbiamo continuamente insistere sull’importanza della comprensione della storia,anche antica, per l’approccio e la comprensione delle realtà moderne. Questo mi sembraindispensabile4.

E più avanti, replicando alle osservazioni di Laffi sugli ambienti che avevanoesercitato una significativa influenza sulla sua formazione di storico, Gabba osserva:

Accanto alle lezioni indimenticabili dello stesso Croce, la riflessione storico-storiogra-fica che nasceva dall’insegnamento di Chabod rappresentò per me la vera e propria sco-perta della storiografia. Abituato ad un’analisi filologica-antiquaria (che certamente por-tava alla storia), mi trovai dinnanzi ad una ricerca storico-politica sui problemi dellastoria e sul perché di essa e quindi sulla stessa comprensione dei problemi stessi e dellaloro presentazione. Chabod analizzava e spiegava alcuni storici della Rivoluzione Fran-cese nelle loro premesse culturali, politiche, sociali, che venivano quindi calate nella nar-razione dei fatti. Fino ai primi due decenni del secolo XX praticamente nessuno degli sto-rici italiani del mondo antico aveva condotto un’analisi storiografica sui problemi deiquali si occupava: la letteratura e la critica degli studiosi precedenti erano di regola infunzione del problema esaminato. Le cose incominciarono a cambiare per l’influenzadelle ricerche storiografiche del Croce, della quale vi sono segni anche nei volumi finalidella Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis, e poi naturalmente nella ricerca diArnaldo Momigliano, di Piero Treves, e anche di Santo Mazzarino. Suggestioni del pre-sente sulla riflessione storica non significano né attualizzazione né politicizzazione, maaiutano a individuare, sempre nell’esame dei testi, anche un problema storico antico(contemporaneità della storia). Quella riflessione è sollecitata e condizionata dalle pro-prie premesse culturali e dalla propria partecipazione, più o meno intensa, alle vicendedel presente5.

In tre contesti, momenti e circostanze molto diverse, tre intellettuali di primis-simo piano del Novecento – un letterato, saggista e drammaturgo accademico di

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SERGIO RODA

3 U. LAFFI (a cura di), Emilio Gabba. Conversazione sulla storia, Pisa, Cagliari 2009; sulla figuradi E. Gabba cfr. P. DESIDERI, A. GIUA (a cura di), Emilio Gabba fra storia e storiografia sul mondoantico, Atti del Convegno (Firenze, 15 ottobre 2010), Quaderni della Rivista Storica Italiana, 4,Napoli 2011.4 LAFFI (a cura di), Emilio Gabba. Conversazione cit.5 Ibid., pp. 10-11.

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Francia; il filosofo principe dell’idealismo e dello storicismo; il massimo storico ita-liano del mondo antico dell’ultimo mezzo secolo – convergono sulla valutazione del-l’importanza o addirittura dell’indispensabilità dello studio e della conoscenza dellastoria antica per meglio comprendere la storia contemporanea, e viceversa. Se Bene-detto Croce, esaltando Adolfo Omodeo storico, ne individua il merito principalenell’essere versato parimenti nella storia antica e nella storia moderna e contempo-ranea, il che gli aveva consentito di utilizzare reciprocamente le conoscenze dei fattidell’una per meglio «illuminare» i fatti dell’altra, Emilio Gabba sottolinea comel’attenzione e l’interesse per la storia antica derivino dall’esigenza pratica dell’e-sperienza del proprio presente, e, lamentando la perduta centralità degli studi clas-sici e il declino attuale della storia antica, ribadisce la sua convinzione che la com-prensione di tutta la storia, anche quella antica, sia indispensabile per l’approccio ela comprensione delle realtà moderne, riproponendo il principio irrinunciabile delrapporto biunivoco fra storia del passato e storia del presente ai fini della cono-scenza approfondita e critica di entrambe. Henry de Montherlant, invece, letteratoe non storico, ma assiduo frequentatore della storia antica che fu oggetto di moltesue opere teatrali, letterarie e saggistiche, anche nello sforzo di conciliare antichitàpagana e cattolicesimo6, si spinge fino ad affermare che chi conosce la storia romananon ha bisogno di conoscere l’altra storia, potendo trovare in essa tutto ciò che poisi ripete, nell’eterno riproporsi di un opus humanum che è del pari opus Romanum. La storia romana, dunque, come sintesi e misura di tutta la storia. In effetti, sul

filo del concetto variamente e reiteratamente asserito della contemporaneità dellastoria7, il riferimento alla storia antica e alla storia di Roma in particolare si è ripro-posto nel tempo, talora nelle forme dell’attualizzazione e della politicizzazione giu-stamente rigettate da Gabba e dagli storici seri, ma spesso secondo modelli varia-bili di ricezione o secondo modalità plurime di costruzione e di uso del passatoclassico per fini molteplici: un percorso a ritroso attraverso i secoli consente facil-mente di individuare, da vari versanti, l’utilizzazione e la strumentalizzazione delpassato a fini politici e/o ideologici di legittimazione del potere e di ratifica deldiritto, di legalizzazione delle istituzioni e di conferma delle tradizioni, di giustifi-cazione di iniziative imperialistiche o di difesa di assetti governativi, di proposta oriproposta di modelli culturali, artistici, storiografici, etici e comportamentali. Ilgioco complesso di interazioni fra mondo ellenico e mondo romano ha determinato– nei più diversi contesti storici fino a noi – fenomeni di invenzione o manipola-zione della tradizione, di rivisitazione mitopoietica, di ricostruzione fedele o infe-dele del passato prossimo e remoto, di translatio di to/poi e stereotipi letterari, giu-ridici, storici, teorico-politici, di elaborazione e citazione didascalica di exempla edi virtutes, di trasmissione dei saperi e di modalità di comunicazione intergenera-zionale delle vicende storiche.

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INTRODUZIONE

6 Cfr. i saggi raccolti in H. DE MONTHERLANT, Le treizième César, Paris 1970 (1968); cfr. ora P.DUROISIN, Henry de Montherlant «entre les deux mondes»: la leçon des manuscrits (I), in «Anabases» 16,2012, pp. 49-83; e, più in generale, ID., Montherlant et l’Antiquité, Paris 1987.

7 Il rimando d’obbligo è, ovviamente, a B. CROCE, Teoria e storia della storiografia, Bari 19638(1917), pp. 3-18.

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I conti con il passato nell’antichità classica e all’interno dell’arco cronologico delmondo greco-romano appaiono dunque realizzati con frequenza e continuità,secondo uno schema multiforme di valorizzazione – convinta o strumentale pocoimporta – di ciò che è stato in funzione di ciò che è o di ciò che sarà, in un confrontonel quale il passato ha sempre da insegnare al presente, e nel passato si rintraccianole radici che alimentano, sostengono e indirizzano l’oggi e il domani. E in questaprospettiva, excursus storici più o meno convincenti, riferimenti a epoche e vicendeprecedenti reali o riadattate, connessioni persuasive o fabbricate a fini specifici pro-pongono interazioni causali e fondanti, e istituiscono confronti da cui dedurre indi-rizzi di azione politica, impostazioni filosofiche, valori culturali e morali di riferi-mento, ammaestramenti pratici e teorici. La centralità del confronto con il passato fu già ben evidente nella cultura e nel

pensiero politico e ideologico classico, nonché nell’immaginario collettivo greco-romano, ove costruzione e uso della storia pregressa identificano una sorta di moda-lità costante e prevalente nel processo di formazione individuale e pubblico, e inter-pretano una parte decisiva tanto nell’acquisizione del consenso attorno agli assettipolitici, quanto nella omologazione delle mentalità collettive. Ma un atteggiamentodel tutto simile nei confronti del passato e in particolare dell’antichità classica e dellesue realizzazioni si è perpetuato nel tempo secondo modalità ricorrenti pur nellavariabilità delle situazioni e degli ambiti storici: ciò che sorprende è come in epocheanche (e per certi versi soprattutto) a noi più vicine il gioco dei riflessi fra passato epresente abbia coinvolto in prevalenza l’antichità classica, la Grecia, ma soprattuttoRoma e il suo impero, quasi che il senso comune dell’importanza dell’utilizzazionedel passato per il consolidamento del presente e per la pianificazione del futuro, per-cepito universalmente nel mondo ellenistico-romano8, si ribaltasse sulle realtà stori-che successive, coinvolgendo quell’epoca non più come soggetto progettuale di con-fronti e connessioni, ma come termine specifico di paragone e di parallelismo9.

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SERGIO RODA

8 Cfr. i contributi in A. M. BIRASCHI, P. DESIDERI, S. RODA, G. ZECCHINI (a cura di), L’uso deidocumenti nella storiografia antica, in Incontri Perugini di Storia della Storiografia, XII (Gubbio, 22-24 maggio 2001), Napoli 2003; e in P. DESIDERI, S. RODA, A. M. BIRASCHI (a cura di), PELLIZZARI(con la collab. di), Costruzione e uso del passato storico nella cultura antica cit.9 Gli studi sull’uso del passato e in particolare dell’antichità classica sono ovviamente numerosi e

non è questa la sede per enumerarli; singolare comunque il fatto che essi abbiano trovato particolaresviluppo negli ultimi tempi soprattutto in Francia: cfr. ad es. J. GAILLARD (a cura di), Rome Ier siècleap. J.-C. Les orgueilleux défis de l’ordre impérial, Paris 1996; F. HARTOG, J. REVEL (a cura di), Les usa-ges politiques du passé, Paris 2001; S. CAUCANAS, R. CAZALS, P. PAYEN (a cura di), Retrouver, imagi-ner, utiliser l’Antiquité, Toulouse 2001; C. NICOLET, La fabrique d’une nation. La France entre Rome etles Germains, Paris 2003; R. MEYRAN, Le passé, modes d’emploi. Histoire, mémoire, politique, Paris2005; Usages politiques du passé dans la France contemporaine, I: Politiques du passé, a cura di C. AND-RIEU, M.-C. LAVABRE, D. TARTAKOWSKY; II: Concurrence des passés, a cura di M. CRIVELLO, P. GAR-CIA, N. OFFENSTADT, Aix-en-Provence 2006; D. FOUCAULT, P. PAYEN (a cura di), Les Autorités. Dyna-miques et mutations d’une figure de réference à l’Antiquité, Grenoble 2007; dal 2005 è attiva la rivista«Anabases. Traditions et Réceptions de l’Antiquité», edita presso l’Université de Toulouse II - LeMirail, che si propone come rivista internazionale, transdisciplinare e comparatista rivolta ad analiz-zare la ricezione e le tradizioni dell’Antichità attraverso i tempi, in risposta alla domanda: che cosaavviene dell’Antichità dopo l’Antichità? (cfr. ad es. P. PAYEN, Éditorial. L’Antiquité et ses réceptions:un nouvel objet d’histoire, in «Anabases» 10, 2009, pp. 9-23).

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In effetti il mondo antico ricorre nel moderno e contemporaneo dibattito delleidee, delle teorie e delle interpretazioni della realtà, trovando luogo non soltantonella dimensione alta dell’analisi politica, politologica, filosofica, storiografica, maanche nella quotidianità dell’opinione comune e nella convinzione diffusa anche dicoloro, i più, che pure non partecipano quali agenti attivi all’elaborazione delle lineedi tendenza del pensiero.Le riprove in tal senso, ricavabili dai mezzi d’informazione, sono innumerevoli

e ci consentono, pur nella casualità di contenuti e circostanze, di introdurre undiscorso più generale sull’uso diffuso del passato classico nella società di oggi. Cite-remo qui soltanto alcuni casi fra i tanti che si potrebbero proporre, scelti senzaparticolari criteri selettivi ma in ragione della pura esemplarità. Il 20 febbraio2003 il quotidiano tedesco «Die Zeit», alla vigilia della seconda guerra del Golfo,illustrava in prima pagina l’articolo di fondo di Michael Neumann, Der kommendeKrieg, con un grande disegno caricaturale di George W. Bush rappresentato comeun imperatore romano con le insegne e i paramenti del trionfo mentre guida unagrande biga dorata, simbolo evidente della vocazione imperiale degli Stati Uniti edel loro presidente, pronta a dispiegarsi nella guerra preventiva contro l’Iraq diSaddam Hussein. Rispondendo il 22 giugno 2003 ad Alain Elkann in un’intervista televisiva pro-

grammata da La7, Susan Sontag affermava testualmente che «l’11 settembre segnala fine della repubblica e l’inizio dell’impero», individuando in quel drammaticoevento terroristico la cesura cronologica e ideologica fra il mondo libero e demo-cratico della repubblica e il mondo autoritario e totalitario dell’impero. In sostanzaS. Sontag applicava il modulo interpretativo shakespeariano circa la sostanza ideo-logica del passaggio dalla repubblica romana all’impero augusteo alla nuova fasedella politica statunitense, quella successiva al crollo delle Twin Towers e che si eraconcretizzata con le guerre in Afghanistan e in Iraq e con la limitazione dei diritticivili rappresentata, non solo simbolicamente, dalla prigione di Guantanamo. Ancora nel contesto di un’intervista, in questo caso concessa alla giornalista di

«la Repubblica» Vanna Vannuncini il 25 agosto dello stesso anno dopo un incon-tro a Villa Certosa con il presidente del Consiglio italiano Berlusconi, l’allora mini-stro dell’Interno tedesco Otto Schily, alla domanda: «Il prossimo ospite di VillaCertosa sarà Putin. Che cosa ne pensa dell’idea di Berlusconi che la Russia entrinell’Unione europea?», così rispondeva: «Berlusconi può dire ciò che vuole in pri-vato, ma non sarà mai una politica europea. Quando i sistemi si estendono troppocrollano, se ne accorsero anche i Romani. E noi siamo arrivati al limite, prima dob-biamo consolidare l’Unione. Del resto i russi se ne rendono perfettamente conto».Forse senza nemmeno comprendere appieno la portata della sua affermazione, ilministro toccava con questa frase uno dei temi più ricorrenti nell’animato dibattitodegli ultimi due decenni (prima che la crisi economica globale deflagrasse a partiredal 2008) sia sulle analogie che assimilerebbero l’impero di Roma agli Stati Unitiforti del predominio unipolare mondiale seguito al crollo dell’Unione Sovietica, siasulla difficoltà per gli imperi unipolari di conservare il proprio dominio contenendola propria egemonia entro limiti sostenibili. Come Augusto dopo la strage di Teu-toburgo comprese che il tentativo di conquista dell’Europa centrale, portando ilconfine dello stato romano al fiume Elba, poteva comportare quel «sovraccarico di

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INTRODUZIONE

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dominio» (l’imperial overstretch paventato dai moderni politologi) che avrebbe resopericolosamente insicura la struttura organizzativa e la stabilità sia militare siasocioeconomica dell’impero, e di conseguenza arrestò l’espansione di Roma sullimes renano-danubiano10, così gli Stati Uniti avrebbero dovuto dare prova di altret-tanta intelligenza politica trattenendo l’aspirazione al controllo totale del mondo ecercando di condividere con altri soggetti politici e con le organizzazioni sovrana-zionali la gestione degli equilibri e delle controversie mondiali. Come hanno rile-vato due studiosi dei processi di globalizzazione e della politica contemporanea,Roger Burbach e Jim Tarbell11, e come ha affermato – con l’ancor maggior autore-volezza che gli deriva dalla sua precedente funzione di altissimo funzionario dellaCIA dal 1996 al 2004 – Michael Scheuer12, gli Stati Uniti hanno rischiato, con lapresidenza di G. W. Bush, di trascurare la lezione di Roma e di andare pericolosa-mente oltre il limite della sostenibilità del loro super- o hyperpower. Tutti e tre gliautori evocano in tal senso il concetto classico di hybris, anzi, nello specifico diimperial hubris, a significare un eccesso di superbia politica, di sopravvalutazione diquella che un altro studioso contemporaneo di strategia e geopolitica, già autore diun fortunato volume sulla fine dell’esercito di Roma13, chiama l’hyperpuissance mili-taire des Etats Unis 14, un’hybris appunto destinata, coerentemente con la prospet-tiva mitologica classica, a essere severamente e implacabilmente punita.Il richiamo all’antichità classica rientra dunque tanto nella comunicazione

mediatica popolare quanto nell’analisi politica e nella riflessione intellettuale con-temporanee.Ma lo specifico del confronto tra una realtà di riferimento tanto simbolico-evo-

cativa quanto concretamente pragmatica come l’impero romano e altre struttureimperiali altrettanto – almeno in tendenza – universali, multietniche, multinazio-nali e unipolari, risale molto indietro nel tempo. Saltando il medioevo della rinascitacarolingia e della filiazione, considerata naturale, fra l’impero cristiano di Roma e

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SERGIO RODA

10 Cfr. Y. LEBOHEC, Les marches de l’empire romani (Ier-IIe siècle), in Face aux Barbares, marches etconfins d’empires de la Grande Muraille de Chine au Rideau de Fer, a cura di J.-CH. ROMER, Paris 2004,pp. 17-30; M. J. HIDALGO DE LA VEGA, Algunas reflexiones sobre los limites del oikoumene en el Impe-rio Romano, in «Gerion» 23, 2005, pp. 271-285; M. KLEE, Grenzen des Imperiums. Leben am römi-schen Limes, Stuttgart 2006; D. PLANCK, A. THIEL, Das Limes-Lexikon. Roms Grenzen von A bis Z.,München 2009; E. SCHALLMAYER, Der Limes: Geschichte einer Grenze, München 2011. Su Teutoburgocfr. J. HARNECKER, Arminius, Varus und das Schlachtfeld von Kalkriese. Eine Einführung in die archäo-logischen Arbeiten und ihre Ergebnisse, Bramsche 2002; P. S. WELLS, The Battle That Stopped Rome:Emperor Augustus, Arminius, and the Slaughter of the Legions in the Teutoburg Forest, New York 2003;R. WIEGELS (a cura di), Die Varusschlacht. Wendepunkt der Geschichte? (= Archäologie in Deutschland.Sonderheft), Stuttgart 2007; R. WOLTERS, Die Schlacht im Teutoburger Wald. Arminius, Varus und dasrömische Germanien, München 2008; Y. LEBOHEC, La bataille du Teutoburg, 9 ap. J.-C., Nantes 2008;R.-P. MÄRTIN, Die Varusschlacht. Rom und die Germanen, Frankfurt/M. 2008; M. SOMMER, Die Armi-niusschlacht. Spurensuche im Teutoburger Wald, Stuttgart 2009; B. DREYER, Arminius und der Untergangdes Varus. Warum die Germanen keine Römer wurden, Stuttgart 2009.11 R. BURBACH, J. TARBELL, Imperial Overstrech. George W. Bush and the Hubris of Empire, London

2004. 12M. SCHEUER, Imperial Hubris. Why the West Is Losing the War on Terror, Washington DC 2004.13 P. RICHARDOT, La fin de l’armée romaine 284-476, Paris 20053; cfr. pure ID., Les erreurs straté-

giques des Gaulois face à César, Paris 2006.14 ID., Les Etats Unis hyperpuissance militaire, Paris 2005.

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quella che Dante definisce con celebre espressione la temporalis Monarchia, quamdicunt «Imperium», unicus principatus et super omnes in tempore vel in hiis et super hiisque tempore mensurantur 15, si può far risalire il nuovo approccio, non più natural-mente subordinato in termini di mera continuità ma declinato in forma di modellosuperiore da imitare e riprodurre o comunque da valutare quale parametro di misurapolitico-ideologica, al tardo Cinquecento e all’epoca delle grandi monarchie euro-pee. Fu allora che Giusto Lipsio, con Admiranda, sive de magnitudine Romana libriquatuor (1598), segnò una svolta, impostando la storiografia dell’impero di Roma sumetodologie moderne al fine di tracciarne un quadro a tutto campo, illustrandonetutti gli aspetti politici, economici, sociali, militari, culturali, e al fine altresì di per-seguire un preciso obiettivo ideologico di riaffermazione del primato dell’impero,strettamente inerente al momento storico in cui l’opera fu pubblicata, come conchiarezza emerge dalla dedica ad Alberto d’Austria, figlio di Massimiliano II, impe-ratore dal 1560 al 1576, e fratello di Rodolfo II, succeduto a Massimiliano nellaguida dell’impero dal 1576 al 161216. Nell’epoca immediatamente successiva, prima l’Illuminismo poi il preromanti-

cismo valutarono il modello politico di Roma repubblicana e imperiale alla luce dellenuove istanze di partecipazione, rappresentatività, godimento di diritti e libertàcivili: da Hume a Montesquieu, da Gibbon a Condillac e a Herder, la parabola del-l’espansione di Roma e dell’evoluzione politico-istituzionale dello stato romanovenne sottoposta al vaglio delle nuove filosofie, e se la critica al totalitarismo impe-riale vide esaltare le presunte libertà «democratiche» e popolari repubblicane pre-cesariane e preaugustee, è altrettanto vero che gli stessi autori non poterono fare ameno di esprimere un’oggettiva ammirazione per la lunga stabilità e il benesserediffuso dell’impero e di segnalare la contraddizione di un consenso popolare uni-versale accordato a una dirigenza politica del principe indubbiamente autoritaria,la quale condivideva tutto il potere con la tradizionale oligarchia senatoria17. Eanche là dove, in afflato preromantico, si condannò l’azione civilizzatrice di Roma

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INTRODUZIONE

15 D. ALIGHIERI, Monarchia, I, 2.16 Cfr. J. DE LANDTSHEER, Justus Lipsius’s «De militia Romana»: Polybius Revived or how an Ancient

Historian was Turned into a Manual of Early Modern Warfare, in K. ENENKEL, J. L. DE JONG, J. DELANDTSHEER (a cura di), Recreating Ancient History. Episodes from the Greek and Roman Past in the Artsand Literature of the Early Modern Period, Leiden, Boston, Köln 2001, pp. 101-122; K. ENENKEL, EinPlädoyer für den Imperialismus: Justus Lipsius’ Kulturhistorische Monographie «Admiranda sive de magnitu-dine Romana» (1598), in «Daphnis» 33, 2004, pp. 584-621; J. R. BALLESTEROS SÁNCHEZ, Historiaromana para tiempos modernos: Los «Admiranda» de Justo Lipsio, tesi di dottorato, direct. J. M. CORTÉS,Universidad Pablo de Olavide, Sevilla 2008. Cfr. inoltre D. A. LUPHER, Romans in a New World. Clas-sical Models in Sixteenth-century Spanish America, Ann Arbor 2003. Su questa e sulle tematiche cheseguono, fondamentale il contributo di P. DESIDERI, La romanizzazione dell’impero, in Storia di Roma,II, 2: I principi e il mondo, Torino 1991, pp. 377-626; cfr. pure S. RODA, Roma e il mondo occidentalemoderno: criteri di interpretazione e ipotesi di continuità, Torino 1999; ID., Il modello della repubblica impe-riale romana fra mondo antico e mondo moderno. «Fecisti patriam diversis gentibus unam», Bologna 2011.17D. HUME, That Politics may Be Reduced to a Science, in ID., Essays, Moral and Political, I, 4, Indi-

anapolis 1985 (1741); ID., Of the Balance of Power, in ID., Political Discourses, I, 6, Indianapolis 1985(1752); C. L. MONTESQUIEU, De l’ésprit des lois, Genève 1748; E. GIBBON, The History of the Declineand Fall of the Roman Empire, 6 voll., London 1776-1789; E. BONNOTDE CONDILLAC, Cours d’études,12 voll., Genève 1775.

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che avrebbe impedito ai popoli bambini di percorrere il normale cammino evolu-tivo costringendoli a bruciare le tappe verso l’età adulta e deprivandoli del dirittoalla giovinezza e al normale sviluppo «biologico», non si negò nella sostanza il datoeffettivo della superiorità culturale di Roma18.La rivendicazione della scelta a favore del modello della Roma repubblicana

rispetto a quella imperiale, sull’onda dell’Illuminismo, trovò eco netta e distingui-bile nell’apparato ideologico che sostenne le due grandi rivoluzioni, americana efrancese, di fine XVIII secolo, come hanno ulteriormente ribadito i recenti lavori diMario Sanfilippo, di Wilfred Nippel, di Diana García de Quevedo Rama, di C. J.Richard, di C. Winterer e di moltissimi altri19; ma, mentre in Francia la rapida evo-luzione postrivoluzionaria, bonapartista prima e restauratrice poi, portò a riconsi-derare la superiorità esemplare del sistema imperiale augusteo rispetto a quellorepubblicano, negli Stati Uniti il modello repubblicano s’impose su quello imperialefino a quando l’ideologia dello stato repubblicano-federale prevalse sulla dimen-sione dello stato-nazione in espansione coloniale; la cesura in questo senso è facil-mente individuabile nella presidenza di Theodore Roosevelt e nella vittoria nellaguerra ispano-americana del 1898 con la conseguente conquista delle Filippine, diGuam e di Puerto Rico. È a quel punto che la prospettiva isolazionista degli Stati

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18 J. G. HERDER, Auch eine Philosophie der Geschichte der Menschheit, Leipzig, Riga 1774; ID., Ideenzur Philosophie der Geschichte der Menschheit, Leipzig, Riga 1784-1791.19 M. SANFILIPPO, Immagini della Roma repubblicana nella cultura nordamericana, Iperstoria,

http://centri.univr.it/iperstoria/testi49.htm, 2003; W. NIPPEL, Die Antike in der amerikanischen undfranzösischen Revolution, in Popolo e potere nel mondo antico, Atti del Convegno (Cividale del Friuli,23-25 settembre 2004), Pisa 2005, pp. 259-269; D. GARCÍA DE QUEVEDO RAMA, La antigua Roma yla ideología de la revolución norteamericana, in «Gerión» 23, 1, 2005, pp. 329-343; cfr. pure H. T.PARKER, The Cult of Antiquity and the French Revolutionaries. A Study in the Development of the Revo-lutionary Spirit, Chicago 1937; CH. F. MULLET, Classical Influences on the American Revolution, in«Classical Journal» 35, 1939, pp. 95-102; R. M. GUMMERE, The American Colonial Mind and the Clas-sical Tradition: Essays in Comparative Culture, Cambridge MA 1963; L. GUERCI, Libertà degli antichi elibertà dei moderni. Sparta, Atene e i «philosophes» nella Francia del ’700, Napoli 1979; F. MCDONALD,Novus Ordo Seclorum. The Intellectual Origins of the Constitution, University of Kansas, Lawrence KS1985; C. MOSSÉ, L’antiquité dans la révolution française, Paris 1989; P. A. RAHE, Republics, Ancient andModern. Classical Republicanism and the American Revolution, Chapel Hill NC 1992; W. HAASE, M.REINHOLD, The Classical Tradition and the Americas: European Images of the Americas and the ClassicalTradition, 1, Berlin 1993; C. J. RICHARD, The Founders and the Classics. Greece, Rome, and the Ameri-can Enlightenment, Cambridge MA 1994; J. TOLBERT ROBERTS, Athens on Trial. The Antidemocratic Tra-dition in Western Thought, Princeton NJ 1994; P. A. RAHE, Republics Ancient and Modern: Constitutingthe American Regime, Chapel Hill NC 1994; G. CAMBIANO, Polis. Un modello per la cultura europea,Roma 2000; C. WINTERER, The Culture of Classicism: Ancient Greece and Rome in American IntellectualLife 1780-1910, Baltimore MD 2002; M. MECKLER (a cura di), Classical Antiquity and the Politics ofAmerica. From George Washington to George W. Bush, Waco TX 2006; C. J. RICHARD, Greeks andRomans Bearing Gifts. How the Ancients Inspired the Founding Fathers, Lanham MA, Boulder CO, NewYork, Toronto, Plymouth 2008; M. MALAMUD, Ancient Rome and Modern America, Malden MA,Oxford 2009; J. RAKOVE, Revolutionaries: A New History of the Invention of America, New York 2010;P. S. ONUF, N. COLE (a cura di), Thomas Jefferson, the Classical World and Early America, Charlotte-sville VA 2011; E. G. ANDREW, Imperial Republics. Revolution, War, and Territorial Expansion from theEnglish Civil War to the French Revolution, Toronto, Buffalo, London 2011; C. WINTERER, Thomas Jef-ferson and the Ancient World, in F. COGLIANO (a cura di), A Companion to Thomas Jefferson, Oxford2012, pp. 380-396.

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Uniti vira in senso imperialista20, secondo un’ottica politica che troverà poi con-ferma e consolidamento nell’intervento in Europa nella prima guerra mondiale. Sitratta, in sostanza, di un avvicinamento della politica statunitense al trend colonia-lista dell’età degli imperialismi che aveva avuto nell’Inghilterra il principale attore:

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INTRODUZIONE

20Va d’altra parte rilevato che una solida corrente di pensiero nega oggi che gli Stati Uniti siano maistati isolazionisti e tende addirittura a individuare una continuità imperialista che trae originidall’indomani stesso della rivoluzione, cfr. ad es. M. BOOT, The Savage Wars of Peace: Small Wars andthe Rise of American Power, New York 2003. Sulle tematiche dell'imperialismo romano e in generale sulconfronto fra l’imperialismo romano e gli imperialismi moderni la letteratura è anche in questo casoamplissima: cfr. R. SYME, Rome and the Nations, in «Diogenes» 72, 1957-1960, pp. 3-20 = ID., RomanPapers, II, Oxford 1979, pp. 566-581; R. KOEBNER, H. D. SCHMIDT, Imperialism. The Story andSignificance of a Political Word, 1840-1960, Cambridge 1964; P. A. BRUNT, Reflexions on British andRoman Imperialism, in «Comparative Studies in Society and History» 7, 1965, pp. 267-288; R. ZEVIN,An Interpretation of American Imperialism, in «The Journal of Economic History» 32, 1972, pp. 316-360; R. F. BETTS, The False Dawn: European Imperialism in Nineteenth Century, Minneapolis 1975; D.M. PIPPIDI (a cura di), Assimilations et résistence à la culture gréco-romaine dans le monde ancien, Paris1976; P. A. BRUNT, Laus imperii, in P. D. A. GARNESEY, C. R. WHITTAKER (a cura di), Imperialism inthe Ancient World, Cambridge 1978, pp. 159-191; D. MUSTI, Polibio e l'imperialismo romano, Napoli1978; W. V. HARRIS, War and Imperialism in Repubblican Rome, Oxford 1979; D. R. HEADRICK, TheTools of Imperialism: Technology and the Expanision of European Colonial Empires in the NineteenthCentury, in «The Journal of Modern History» 51, 1979, pp. 231-263; H. GESCHE, Rom - Welterobererund Weltorganisator, München 1981; J. A. NORTH, The Development of Roman Imperialism, in «Journalof Roman Studies» 71, 1981, pp. 1-9; A. LINTOTT, What Was the ‘Imperium Romanum’?, in «Greece &Rome» 28, 1981, pp. 53-67; R. SYME, The Greek under Roman Rule, in «Proceedings of theMassachusetts Historical Society» 124, 1983, pp. 33-46 = ID., Roman Papers, IV, Oxford 1988, pp. 62-73; T. KLEINKNECHT, Imperiale und internationale Ordnung. Eine Untersuchung zunz anglo-amerikanischenGelehrtenliberalismus am Beispiel von James Bryce (1838-1922), Göttingen 1985; M. H. CRAWFORD (acura di), L’Impero romano e le strutture economiche e sociali delle province, Como 1986; A. A. CAVE,Canaanites in a Promised Land: The American Indian and the Providential Theory of Empire, in «AmericanIndian Quarterly» 12, 1988, pp. 277-297; E. GABBA, Le strategie militari, le frontiere imperiali, in Storiadi Roma, IV, Torino 1989, pp. 487-513; C. NICOLET, Il modello dell'impero, in Storia di Roma, IV,Torino 1989, pp. 459-486; P. A. BRUNT, Roman Imperial Themes, Oxford 1990; G. B. MILES, Romanand Modern Imperialism: A Reassessment, in «Comparative Studies in Society and History» 42, 1990, pp.629-659; E. GABBA, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Firenze 1993; K.-J. HÖLKESKAMP,Conquest, Competition and Consensus: Roman Expansion in Italy and the Rise of the Nobilitas, in«Historia» 42, 1993, pp. 12-39; T. G. PATERSON, United States Intervention in Cuba, 1898: Interpretationsof the Spanish-American-Cuban-Filipino War, in «The History Teacher» 29, 1996, pp. 341-361; C.ANDO, Imperial Ideology and Provincial Loyalty in the Roman Empire, Berkeley, Los Angeles, London2000; N. FERGUSON, Empire. The Rise and Demise of the British World Order and the Lessons for GlobalPower, London 2002; D. A. LUPHER, Romans in a New World. Classical Models in Sixteenth-CenturySpanish America, Ann Arbor 2003; P. VEYNE, L’Empire gréco-romain, Paris 2005; T. HARRISON, Ancientand Modern Imperialism, in «Greece & Rome» 55, 2008, pp. 1-22; M. L. PEARSON, Perils of Empire. TheRoman Republic and the American Republic, New York 2008; M. L. SALVADORI, Democrazie senzademocrazia, Roma, Bari 2009; R. H. IMMERMAN, Empire for Liberty. A History of American Imperialismfrom Benjamin Franklin to Paul Wolfowitz, Princeton, Oxford 2010; A. ERSKINE, Roman Imperialism.Debates and Documents in Ancient History, Edinburgh 2010; D. J. MATTINGLY, Imperialism, Power, andIdentity. Experiencing the Roman Empire, Princeton, Oxford 2011; G. JONES,Honor in the Dust: TheodoreRoosevelt, War in the Philippines, and the Rise and Fall of America’s Imperial Dream, New York, Toronto,London, Dublin, Camberwell, New Delhi, Auckland, Johannesburg 2012; J. THORNTON, L’imperialismoromano, in A. GIARDINA, F. PESANDO, Roma Caput Mundi. Una città tra dominio e integrazione, Catalogodella Mostra (Roma, 10 ottobre 2012 - 10 marzo 2013), Milano 2012, pp. 102-110.

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nella volontà di legittimazione degli imperi coloniali, e in particolare dell’imperobritannico, il richiamo a Roma e al suo impero, esteso ai quattro angoli del mondoe approvato da un consenso che deriverebbe soprattutto dalla sua azione accultu-ratrice e civilizzatrice rispetto a popoli arretrati, costituisce la traccia principale digiustificazione ideologica e politica: fin dalle origini l’imperialismo britannico sirapportò a Roma, stabilendo una sorta di continuità nello sviluppo progressivo dellatranslatio imperii, nel senso che l’Inghilterra avrebbe accolto la lezione di Roma percorreggerne gli errori e migliorarne gli esiti, fondando un impero simile ma supe-riore al modello antico. Le prospettive di politici e intellettuali del tempo, comeLord Cromer, James Bryce e lo stesso giovane Winston Churchill, pur con sensibi-lità molto diverse, appaiono in questo senso concordi21.Quando all’età degli imperialismi coloniali fece seguito l’età dei totalitarismi,

l’uso della storia di Roma si concretò nelle forme arcinote della propaganda fasci-sta della ricostituzione dell’impero e della riproduzione per molti versi grottesca(fino all’assurda attribuzione ai Romani di convinzioni razziste anticipatrici dellavergogna delle leggi razziali del 1938), ma per altri non priva di una certa comples-sità concettuale nelle forme più esteriori ed evocative della romanità classica22;

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21 W. S. CHURCHILL, The River War: An Historical Account of the Re-Conquest of the Sudan,London 1899, pp. 18-19 (cfr. P. A. RAHE, The River War: Nature’s Provision, Man’s Desire to Prevail,and the Prospects for Peace, in J. W. MULLER (a cura di), Churchill as Peacemaker, Cambridge 1997; R.D. KAPLAN, Warrior Politics. Why Leadership Demands a Pagan Ethos, New York 2002, pp. 17-27); J.BRYCE, The Ancient Roman Empire and the British Empire in India, in ID., Studies in History andJurisprudence, New York 1901, pp. 1-84 (trad. it. Imperialismo romano e britannico, Torino 1907, pp.1-95; cfr. pure ID., Democrazie moderne, trad. it., Milano 1949); E. BARING, EARL OF CROMER,Ancient and Modern Imperialism, London 1910. Cfr. P. BRUNT, Roman Imperial Themes, Oxford 1990;DESIDERI, La romanizzazione cit., pp. 577-626; J. WEBSTER, N. COOPER (a cura di), RomanImperialism: Post-Colonial Perspectives, Leicester Archeology Monographs, 3, Leicester 1996; D. J.MATTINGLY (a cura di), Dialogues in Roman Imperialism. Power, Discourse, and Discrepant Experiencein the Roman Empire, in «Journal of Roman Archaeology» suppl. series, 23, 1997; RODA, Il modellodella repubblica imperiale cit., pp. 129-144, e soprattutto il fondamentale studio di FERGUSON, Empirecit., che si sforza fra l’altro di rispondere alla domanda se l’America sia destinata a seguire il destinodell’impero britannico, suo predecessore non soltanto in termini meramente geopolitici, ripetendo ilcammino di quasi tutti gli imperi del passato: crescere, espandersi, allargarsi troppo (varcando inimperial overstretch e in imperial hubris il limes di sicurezza!) e infine cadere. Si vedano inoltreKLEINKNECHT, Imperiale und internationale Ordnung cit.; F. L. VIANO, Una democrazia imperiale:l’America di James Bryce, Firenze 2003; R. OWEN, Lord Cromer: Victorian Imperialist, EdwardianProconsul, Oxford 2004; T. HARRISON, Through British Eyes: the Athenian Empire and ModernHistoriography, in B. GOFF (a cura di), Classics and Colonialism, London 2005, pp. 25-37; P. VASUNIA,Graeter Rome and Graeter Britain, ibid., pp. 38-64; J. T. SEAMAN JR., A Citizen of the World: The Lifeof James Bryce, London, New York 2006; G. SCATENA, Impero, nazione e democrazia nell’opera di JamesBryce, Roma 2010.22 Nella vasta bibliografia si segnalano i lavori di A. GIARDINA, Ritorno al futuro. La romanità

fascista, in A. GIARDINA, A. VAUCHEZ, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Roma, Bari 2000,pp. 212-296; P. FORO, Romaniser la Nation et nationaliser la romanité: l’exemple de l’Italie, in«Anabases» 1, 2005, pp. 105-117; ID., Saluto al Duce, fondatore dell’Impero. L’idée d’empire dans l’Italiefasciste, in T. MENISSIER (a cura di), L’idée d’empire dans la pensée politique, historique, juridique etphilosophique, Paris 2006, pp. 201-212; ID., L’Italie fasciste, Paris 2006; ID., L’autorité de l’Antiquitéromaine dans le discours mussolinien, in D. FOUCAULT, P. PAYEN (a cura di), Les Autorités. Dynamiques

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mentre l’universo nazista, nella prospettiva di fabbricare una struttura simbolica disostegno alla propria ideologia, inventò un’origine nordica della classicità subordi-nando l’impianto mitologico greco-romano al preteso, preesistente impianto mito-logico scandinavo e germanico, e propose derive occultistico-esoteriche che ebberonon poca influenza sulle scelte politico-militari del III Reich23. Per quanto riguardail totalitarismo sovietico, è sufficiente scorrere gli indici della «Vestnik DrevnejIstorii», principale rivista di storia antica russa negli anni fino al 1990 (e per certiaspetti inerziali anche oltre) per accorgersi che l’attenzione si è concentrata, inarmonia con i fondamenti del pensiero marxiano, sul modo di produzione schiavi-stico, che avrebbe avuto nell’impero di Roma una delle sue massime realizzazioni,e sul significato anticipatore delle rivolte servili, sopravvalutate sia nel senso dellaloro ampiezza e significato, sia nel senso della loro incidenza sull’assetto socioeco-nomico e politico dell’impero di Roma24.L’arco cronologico che va dal primo al secondo dopoguerra segnò la conclusione

delle moderne ambizioni imperiali, comunque intese: dalla fine dell’impero degliczar e della Terza Roma alla finis Austriae e alla dissoluzione dell’impero ottomanonel secondo decennio del Novecento, dalla fine dei fascismi alla disgregazionerepentina dei grandi imperi coloniali tra gli anni Quaranta e i primissimi anni Ses-santa del XX secolo. Nel mondo bipolare disegnato dagli accordi di Yalta e dalla vit-toria alleata nel secondo conflitto mondiale, poco spazio vi era per edificazioni ideo-logiche che prendessero in considerazione gli imperi totali del passato e che neriproponessero logiche e prassi. Al contrario, dopo il crollo dell’Unione Sovietica tra 1989 e 1991 e dopo il lesto

svanire delle illusioni di una presunta fine della storia25, la realtà di un mondo in cui

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INTRODUZIONE

et mutations d’une figure de référence à l’Antiquité, Grenoble 2007, pp. 75-83 (del medesimo studioso cfr.anche l’interessante contributo Charles de Gaulle et la culture antique, in «Quaderni di Storia» 57,2003, pp. 173-196); A. GIARDINA, L’impero di Augusto, in AA.VV., I volti del potere, Roma, Bari 2010,pp. 23-70; P. S. SALVADORI, Razza romana, in GIARDINA, PESANDO, Roma Caput Mundi cit., pp. 277-286; cfr. inoltre F. LIFFRAN, Rome, 1920-1945. Le modèle fasciste, son Duce, sa mythologie, Paris 1991,e B.W. PAINTER JR., Mussolini’s Rome: Rebuilding the Eternal City, Italian & Italian American Studies,New York 2005. 23 R. ALLEAU, Hitler et le sociétés secrètes. Enquete sur les sources occultes du nazisme, Paris 1969;

G. GALLI, Hitler e il nazismo magico. Le componenti esoteriche del Reich millenario, Milano 2001; N.GOODRICK-CLARKE, The Occult Roots of Nazism: Secret Aryan Cults and Their Influence on NaziIdeology, London 2004; N. P. NIELSEN, L’universo mentale «nazista», con un saggio introduttivo diV. EGIDI, Milano 2004; J. STRUBE, Die Erfindung des esoterischen Nationalsozialismus im Zeichen derSchwarzen Sonne, in «Zeitschrift fur Religionswissenschaft» 20, 2012, pp. 223-268.24 Ancora fondamentali le considerazioni di A. MOMIGLIANO, Il cristianesimo e il declino dell’im-

pero romano. Introduzione a The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century.Saggi a cura di A. Momigliano, Oxford 1963, pp. 1-16 = Terzo contributo alla storia degli studi classi-ci = Storia e storiografia antica, Bologna 1987, pp. 341-357.25 Alimentate soprattutto, come è noto, dagli scritti di F. FUKUYAMA, The End of History?, in «The

National Interest» 16, 1989, pp. 3-18; ID., The End of History and the Last Man, New York 1992, madallo stesso rapidamente corrette: ID., Reflections on the End of the History, Five Years Later, in«History and Theory» 34, 1995, pp. 27-43; cfr. T. BURNS (a cura di), After History? Francis Fukuyamaand His Critics, Lanham 1994.

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una sola superpotenza sopravanzava in forza militare, economica e culturale il restodel mondo rese all’improvviso nuovamente attuale la riflessione sui sistemi impe-riali, sulla loro formazione, stabilità, continuità e sostenibilità. Anticipata neglianni Ottanta da opere di grande valore scientifico come quelle di Michael W.Doyle26 e Paul Kennedy27, o da analisi di sorprendente lungimiranza come quelle diJean-Christophe Rufin28, il tema della relazione fra la situazione del mondo con-temporaneo e realtà simili nel passato è divenuto a poco a poco centrale nella discus-sione politica, politologica e storiografica, con un’intensità tale – accentuatasi informe talora esasperate dopo l’11 settembre – da varcare ben presto i confini delleaccademie o dei palazzi del potere per diffondersi pervasivamente a livello di opi-nione comune. In particolare assunse tratti stereotipi il paragone fra l’«impero»americano e l’impero romano, interpretato come la sola esperienza storica imperialestabile e duratura in grado di confrontarsi con il dominio unipolare americano sulmondo contemporaneo. Ma se tale luogo comune ha trovato appunto espressioneanche nella cultura popolare – attraverso, ad esempio, le migliaia di raffigurazionidel presidente Bush (ma ora anche del presidente Obama) nelle vesti di imperatoreromano o nell’atto di assumere decisioni politiche analoghe a quelle assunte daCesare, da Augusto, da Nerone o da Teodosio –, e se l’iconografia dei comics haassimilato G. W. Bush e i suoi collaboratori ad attori della scena politica romana29,mentre i soldati in Iraq rilasciavano interviste in cui si descrivevano come i nuovilegionari o i nuovi gladiatori (sic!) dell’impero e celebravano le loro vittorie con biz-zarre parodie dei munera anfiteatrali, di ben altro livello e di ben maggiore com-plessità appare l’uso o la rievocazione strumentale del passato imperiale romano neicontesti intellettuali.Va osservato innanzi tutto come il richiamo all’antichità classica e romana abbia

coinvolto opinionisti dei più diversi orientamenti, anche se ovviamente con un

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26 M. W. DOYLE, Empires, Ithaca NY, London 1986.27 P. KENNEDY, The Rise and Fall of the Great Powers, New York 1988; cfr. la recentissima

intervista dello stesso P. Kennedy in E. CARETTO, Paul Kennedy: strade e ponti le armi segrete degliimperi, in «Corriere della Sera», 27 gennaio 2013, p. 29, ove il grande storico dell’Università di Yale,annunciando di voler mettere mano venticinque anni dopo alla sua opera principe per aggiornarla, masenza correggere gli assi portanti di un’analisi tuttora immutata, afferma fra l’altro: «Le ragionidell’ascesa [degli imperi] non sono solo economiche e militari. Gli imperi crescono grazie anche a unasuperiorità organizzativa e tecnologica. L’impero romano, il più grande della storia, ne è l’esempio piùimportante» e sulle ragioni del declino degli imperi così si esprime: «[Le ragioni del declino] sonocomplesse. I buchi di bilancio, la disorganizzazione, la carenza di leadership, la corruzione, l’eccessivaestensione territoriale e gli esagerati impegni dell’impero, la comparsa di altre potenze più giovani evitali. Nel caso di Roma, tra i fattori del declino vi furono l’arruolamento nelle forze armate di soldatistranieri, le forti pressioni demografiche da Oriente, le invasioni barbariche. Gli imperi vanno evengono. È stupefacente che l’impero romano sia durato così a lungo. L’impero americano non saràaltrettanto longevo».28 J.-CH. RUFIN, L’Empire et les nouveaux barbares, Paris 1991 (anche Paris 2001).29 Cfr. ad esempio D. HORSEY, From Hanging Chad to Baghdad, Seattle 2003 (e ivi soprattutto

Empire Rising. A Satirical History, pp. 11-18) e G. B. TRUDEAU, The War Within, e Heckuva Job,Bushie!, Kansas City 2006; cfr. anche H. ZINN, M. KONOPACKI, P. BUHLE, A People’s History ofAmerican Empire. A Graphic Adaptation, New York 2008.

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diverso grado di adesione al presupposto della similitudine fra l’impero di Roma el’impero americano: dal complesso universo neoconservatore e fondamentalista finoai settori più liberal dell’intelligencija americana, tutti si sono confrontati con talemateria, la quale peraltro ha suscitato l’attenzione anche dei commentatori del Vec-chio Continente. Procedendo dalla constatazione dell’incontrastata superioritàmondiale che avrebbe accomunato gli Stati Uniti a Roma più che a qualsiasi altraesperienza ed entità politica della storia occidentale (e non solo), il gioco delle ana-logie si è esteso alle caratteristiche della tolleranza religiosa/politica che si sostienesia stata praticata da entrambi gli imperi, della «democrazia» partecipativa decen-trata nelle città, negli stati o nelle regioni che costituiscono il sistema imperiale, e– soprattutto – dell’unità culturale cementata dalla lingua comune, dal diritto edalle leggi, dal libero mercato sorretto da una moneta forte, dal controllo soft suusanze e tradizioni locali, dalla omogeneizzazione della way of life attraverso«segni» e modelli globalmente accettati, la cui diffusione/condivisione attesterebbel’«irresistibilità» culturale dell’impero, come Victoria De Grazia ha messo in risaltoin un importante volume di alcuni anni fa30.In un saggio del 2007 31 un singolare analista, John Cullen Murphy Jr., scrittore,

saggista e editore di grande successo (pubblica fra l’altro un magazine di notevolepopolarità e autorevolezza nel proprio specifico settore come «Vanity Fair»),notava come l’America con la sua solida democrazia, la sua economia dinamica e lasua magia tecnologica, fosse lontanissima dalla società schiavista e a suo parere (soloparzialmente condivisibile) statica di Roma antica, ma come altrettanto evidentisiano i numerosi parallelismi: al pari di Roma, gli Stati Uniti d’America sono ungrande stato multiculturale, gravato da un apparato militare sovradimensionato ecostoso, impegnato nella difesa di confini potenzialmente permeabili, con un sensomessianico di missione globale e la tendenza solipsistica a comprendere con diffi-coltà e a sottovalutare le altre culture. Alcune delle simmetrie che Cullen Murphypropone sono quanto meno discutibili dal punto di vista della realtà e dell’obietti-vità storica; altre, come il suo paragonare i barbari invasori del tardo impero allesocietà straniere che acquisiscono massicciamente beni americani, sono puramentemetaforiche; altre ancora invece, come il confronto per analogia tra il corrottosistema clientelare romano e l’ossessione americana per la privatizzazione dei ser-vizi pubblici (una «distorsione del fine pubblico per interesse privato»), sonomeglio mirate e convincenti. Attorno a tali termini di paragone e in generale all’immagine sensazionale degli

USA come un nuovo impero romano – paradossalmente, sia nella dimensione diimpero trionfante nel mondo, sia in quella opposta di impero vacillante verso il col-lasso – si è sviluppato, dal 1989-1990 e poi ancor più a partire dal settembre 2001e dagli avvenimenti bellici successivi, un vastissimo dibattito che ha visto schieratisia coloro che forzano le analogie sino al punto da proporre, come ad esempio PeterBender, una sorta di sinossi fra le vicende storiche di Roma e le vicende degli Stati

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INTRODUZIONE

30 V. DE GRAZIA, Irresistible Empire: America’s Advance through Twentieth-century Europe,Cambridge MA 2005.31 J. CULLEN MURPHY JR., Are We Rome? The Fall of an Empire and the Fate of America, Boston

2007.

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Uniti 32, sia chi, come J. Rufus Fears, Professor of Classics nonché titolare di una sin-golare cattedra in History of Liberty all’Università dell’Oklahoma, giudica fisiolo-gico fin dalle origini rivoluzionarie degli Stati Uniti d’America e della loro costitu-zione il rapporto con Roma, rapporto poi sviluppatosi in forme costanti e coerentidi corrispondenza e similitudine33, sia chi – e sono ovviamente i più – imposta il raf-fronto in termini più critici e flessibili, rilevando coincidenze ma anche distinzionio difformità: tutti quanti però, salvo isolate eccezioni che propongono diverse affi-nità, come ad esempio con l’impero talassocratico ateniese34, trovano nel passatostorico dello stato romano il principale punto di riferimento per correggere strate-gie, verificare scopi, limitare ambizioni, coordinare forze, elaborare comporta-menti, istruire modelli diplomatici, stabilire i fondamenti della continuità delpotere degli Stati Uniti e conservarne il predominio, ampliando o riducendo i pro-pri obiettivi. In effetti, la difficoltà per gli USA di mantenere un potere unipolare eil fatto che Roma ci sia riuscita per vari secoli è il tema di molteplici riflessioni, chehanno coinvolto analisti della politica del calibro di John J. Mearsheimer35 o diJoseph Samuel Nye Jr.36, studioso di quel soft power che dovrebbe essere il verotratto distintivo e vincente che accomuna la politica dei due imperi (anche nella piùrecentemente elaborata accezione teorica di smart power)37. Il soft power che hacome effetto pratico ciò che un altro illustre politologo e politico, il canadeseMichael Ignatieff, definisce Empire Lite, impero leggero38. Secondo questi analisti,

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32 P. BENDER, Weltmacht Amerika. Das Neue Rom, Stuttgart 2003. 33 J. RUFUS FEARS, The Lessons of the Roman Empire for America Today, The Heritage Foundation,

Heritage Lecture 19 dicembre 2005 =http://www.heritage.org/Research/PoliticalPhilosophy/hl917.cfm.34 È il caso, ad esempio, del noto storico della Grecia antica, nonché attivo rappresentante del neo-

conservatorismo, D. Kagan, che nella sua replica (D. KAGAN, Reaction to «Bush’s Real Goal in Iraq»,in «The Atlanta Journal - Constitution», 6 ottobre 2002 =http://www.newamericancentury.org/defense-20021006.htm) a un articolo di J. BOOKMAN (The President’s Real Goal in Iraq, in «TheAtlanta Journal-Constitution», 20 settembre 2002 = http://www.rainbowbody.org/politics/PNAC-goal.htm; http://www.informationclearinghouse.info/article2319.htm) proponeva il raffronto – poi dalui ripreso in forma ancor più articolata intervenendo nel dicembre dello stesso anno come guest speakerpresso l’influente Capital City Club di Atlanta – fra la strategia imperiale messa in atto dalla politicadi G. W. Bush (e teorizzata dalla lobby neo-conservative riunita attorno al PNAC – Project for the NewAmerican Century) e la grande strategia dell’impero di Roma. Cfr. pure D. KAGAN, F. KAGAN, WhileAmerica Sleeps: Self-Delusion, Military Weakness, and the Threat to Peace Today, New York 2000; T.DONNELLY, The Past as Prologue: An Imperial Manual, in «Foreign Affairs», luglio-agosto 2002 =http://www.foreignaffairs.com/articles/58069/thomas-donnelly/the-past-as-prologue-an-imperial-man-ual. Su posizioni negazioniste rispetto al parallelismo Roma/USA cfr. V. SMIL, Why America Is Not aNew Rome, Cambridge MA, London 2010.35 J. J. MEARSHEIMER, The Tragedy of the Great Power Politics, New York - London 2001.36 J. S. NYE Jr., The New Rome Meets the New Barbarians, in «The Economist», 23 marzo 2002, pp.

23-25=http://www.internationalforum.com/Articles/New%20Rome%20meets%20new%20barbarians.asp; ID., The Paradox of the American Power. Why the World’s Only Superpower Can’t Go ItAlone, Oxford 2002.37 J. S. NYE Jr., Soft Power: The Means to Success in World Politics, Washington DC 2005; ID., The

Powers to Lead, Oxford 2008; e, ora, ID., The Future of Power, New York, Philadelphia 2011.38 M. IGNATIEFF, Empire Lite. Nation-building in Bosnia, Kosovo and Afghanistan, London 2003.

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senza un approccio imperiale «leggero» e «morbido» vi è il rischio che, proprio nelmomento del conseguimento della sua maggiore potenza, inizi il declino dell’imperoamericano. Nel passato gli imperi sovradimensionati cadevano perché mancava latecnologia della comunicazione, per la difficoltà di coordinare territori troppo estesioppure perché l’economia non reggeva le spese militari crescenti: così accadde nel-l’epoca tarda dell’impero di Roma, un periodo che per moltissimi versi si avvicine-rebbe a quello in cui viviamo. L’America, a differenza di Roma, dispone di stru-menti per far fronte alla crisi, ma deve superare i limiti politici del proprio potere,quei limiti da cui Roma seppe emanciparsi per un arco di molti secoli 39. L’America,Nuova Roma, è destinata come Roma a mantenere e a espandere un impero acqui-sito non accidentalmente ma by design; come Roma, l’America ha la missione dicambiare il mondo rendendolo più aperto e integrato; Roma e l’America hannosvolto e svolgono, in epoche diverse, il ruolo di guardians of history, garantito soloai grandi imperi unipolari «positivi»40. Il timore della crisi di crescenza, di una compagine imperiale che inizia a decli-

nare quando sembra all’apice del successo è fortemente presente sia in autori chesuggeriscono comportamenti politico-diplomatici «virtuosi» per evitare o conte-nere la crisi41, sia in autori che tutto sommato considerano la crisi inevitabile42 eper certi versi meritata43. E se la discussione appare pour cause più vivace e diffusa

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INTRODUZIONE

39 Ibid., pp. 11-36.40 Queste ultime considerazioni sono di A. J. BACEVICH, American Empire: the Realities and

Consequences of U.S. Diplomacy, Cambridge MA, London 2002; cfr. T. F. MADDEN, Empires of Trust.How Rome Built – and America Is Building – a New World, New York, London 2008.41Ch. A. KUPCHAN, The End of American Era. U.S. Forein Policy and the Geopolitics of the Twenty-first

Century, New York 2002; F. ZAKARIA, The Future of Freedom. Illiberal Democracy of Home and Abroad,New York, London 2003 (del medesimo autore però, successivamente, ID., The Post-American World,New York, London 2008; e ID., The Post-American World. Release 2.0, New York, London 2011).42 B. R. BARBER, Fear’s Empire: War, Terrorism, and Democracy, New York 2003; I. WALLERSTEIN,

The Decline of American Power: The U.S. in a Chaotic World, New York 2003; M. C. RUPPERT, C. AUSTINFITTS, Crossing the Rubicon: The Decline of the American Empire at the End of the Age of Oil, GabriolaIsland 2004; J. GARRISON, America as Empire. Global Leader or Rogue Power?, San Francisco 2004; W.COHEN, America’s Failing Empire U.S. Foreign Relations since the Cold War, Baltimore 2005; H. JAMES,The Roman Predicament: How the Rules of International Order Create the Politics of Empire, Princeton NJ2006; CH. S. MAYER, Among Empires: American Ascendancy and Its Predecessors, Cambridge MA 2006.43 G. VIDAL, The Last Empire, Essays 1992-2000, New York 2001; ID., Perpetual War for Perpetual

Peace, New York 2002; R. MURRAY, The Decline and Fall of the American Empire, New York 2002; G.VIDAL, Dreaming War: Blood for Oil and the Cheney-Bush Junta, New York 2003; E. MEIKSINSWOOD,Empire of Capital, London, New York 2003; G. SOROS, The Bubble of American Supremacy: Correctingthe Misuse of American Power, New York 2003; M. MANN, Incoherent Empire, London, New York2003; N. CHOMSKY, Hegemony or Survival: America’s Quest for Global Dominance, The AmericanEmpire Project, New York 2004; CH. JOHNSON, Blowback: The Costs and Consequences of AmericanEmpire, New York 20042; ID., The Sorrows of Empire. Militarism, Secrecy, and the End of the Republic,New York 2004; ID., Nemesis: The Last Days of the American Republic, The American Empire Project,New York 2006; G. J. IKENBERRY, Liberal Order and Imperial Ambition. Essays on American Power andWorld Politics, Cambridge 2006; N. CHOMSKY, Failed States: The Abuse of Power and the Assault onDemocracy, Orlando 2007; CH. HEDGES, American Fascists: The Christian Right and the War onAmerica, Northampton, Washington DC 2007; T. G. CARPENTER, Smart Power. Toward a PrudentForeign Policy for America, Washington DC 2008; M. DEL PERO, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e ilmondo 1776-2006, Roma, Bari 2008; NYE JR., The Powers to Lead cit.; A. J. BACEVICH, The Limits of

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in America, le stesse problematiche, con analoghi riferimenti al passato imperialeromano quale parametro di confronto, sono presenti anche nei saggi e negli inter-venti di studiosi e analisti europei, da storici come Niall Ferguson44 a intellettualicome Alain Joxe45 o Emmanuel Todd46 o il gruppo raccolto e diretto da MichelWiewiorka per Les Entretiens d’Auxerre47, a giornalisti, politici e polemisti comeAlexandre Adler48, Pierre Hassner e Justin Vaïsse49, a filosofi come Bernard-HenriLévy50 o Jean-François Colosimo51: anche attraverso tale pubblicistica il tema«impero americano e impero romano» si è trasferito nei media e nella cultura popo-lare52, dando luogo a quei fenomeni di diffusione stereotipa di massa di un concettoe di uno schema a cui prima accennavamo. Si tratta di un dibattito che si è di voltain volta tradotto in seria considerazione scientifica storiografica o politologica, inbecera strumentalizzazione a fini politici (ora compiacenti ora polemici) o a fini reli-gioso-fondamentalisti o ancora a fini etico-sociologici, in caricatura e parodia, inluogo comune acquisito che giornali, televisioni e web hanno proposto con spessostanca ripetizione. Ciò almeno fino alla conclusione del primo decennio del nuovosecolo, allorché l’imperversare della crisi economico-finanziaria, soprattutto inOccidente, e il progressivo avanzare (solo marginalmente rallentato dalla crisi) deipaesi del cosiddetto BRICS (Cina, India, Russia, Brasile, Sud Africa) hanno messoin discussione la leadershipmondiale degli Stati Uniti, già peraltro indebolita dall’11settembre, dai sostanziali fallimenti in Iraq e in Afghanistan, dalla disfatta di unmodello di sviluppo che prevedeva la perpetuità della facile acquisizione di ric-chezze dell’economia e della finanza globalizzate. Ma, insieme alla leadership USA,sono venute parimenti meno l’illusione e la stessa prospettiva politico-ideologica diun governo globale, comunque declinato, nella dimensione imperiale e/o egemonicaoppure nella dimensione di organismi sopranazionali preposti a regolare gli equili-bri mondiali e a scongiurare le guerre53.

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SERGIO RODA

Power. The End of American Exceptionalism, New York 2009; G. M. BRAVO (a cura di), Imperi eimperialismo. Modelli e realtà imperiali nel mondo occidentale, XIV Giornata Luigi Firpo. Atti delConvegno internazionale (26-28 settembre 2007), Roma 2009.44 N. FERGUSON, Colossus: The Rise and Fall of the American Empire, London 2005.45 A. JOXE, Empire of Disorder, intr. di P. VIRILIO, Paris 2002; ID., L’Empire du chaos, Paris 2002;

A. JOXE, J. LIBERMAN, Démythifier l’universalité des valeurs américaines, Paris 2004.46 E. TODD, Après l’empire: Essai sur la décomposition du système américain, Paris 2004.47M. WIEVIORKA (a cura di), L’Empire américain?, Paris 2004.48 A. ADLER, J’ai vu finir le monde ancien, Paris 2002; ID., L’odyssée américaine, Paris 2004.49 P. HASSNER, J. VAÏSSE, Washington et le monde. Dilemmes d’une superpuissance, Paris 2003.50 B.-H. LÉVY, American Vertigo, Paris 2006.51 J.-F. COLOSIMO, Dieu est américain: de la théodémocratie aux Etats-Unis, Paris 2006.52 Cfr. ad es. S. R. JOSHEL, M. MALAMUD, E D. T. MCGUIRE JR. (a cura di), Imperial Projections:

Ancient Rome in Modern Popular Culture, Baltimore 2001; LAURA COTTA RAMOSINO, LUISA COTTARAMOSINO, C. DOGNINI, Tutto quello che sappiamo su Roma l’abbiamo imparato a Hollywood, Milano2004; N. SHUMATE, Nation, Empire, Decline. Studies in Rhetorical Continuity from the Romans to theModern Era, London 2006; M. WYKE (a cura di), Julius Caesar in Western Culture, Oxford, Malden MA2006.53 Cfr. M. MAZOWER, Governing the World. The History of an Idea, New York, London 2012; cfr.

pure ZAKARIA, The Post-American World cit.; M. MAZOWER, No Enchanted Palace: The End of Empireand the Ideological Origins of the United Nations, Lawrence Stone Lectures, Princeton NJ, Oxford 2009;ZAKARIA, The Post-American World. Release 2.0 cit.; R. GRIFFITHS, P. LUCIANI (a cura di), Does the 21st

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Nella nuova ottica, i margini concettuali per il paragone con Roma e la suarepubblica imperiale ovviamente si restringono, lasciando più spazio sia ai confrontifra le crisi, sia alle analogie possibili fra i sistemi globali della storia in fase di declineand fall. Rimane in ogni caso il fatto che oggi come ieri – ma da qualche anno a questa

parte con particolare e spiccata evidenza, stimolata specialmente dal confrontoRoma/USA – l’uso del passato classico si impone come una delle chiavi interpretativee dei parametri di valutazione della realtà globalizzata nella quale viviamo e dei pos-sibili scenari futuri che definiranno gli equilibri del mondo. Non è un caso che laCina degli ultimi anni, impegnata non soltanto in una straordinaria affermazioneeconomica e politica, ma anche in un’altrettanto importante operazione d’immaginerispetto al resto del mondo ove il soft power si coniuga con la riproposta di un con-fuciano (ed esportabile) modello di società armoniosa, abbia mostrato profondacuriosità e interesse per l’esperienza storica dell’impero di Roma, specie nella fase dimaggiore sviluppo cronologicamente coincidente con l’altrettanto gloriosa vicendadell’impero Han. Tale interesse si è tradotto anche in ripetute e più o meno rigoroseindagini sulle presunte relazioni storiche fra i due grandi imperi con scambi com-merciali e culturali significativi, nonché su più improbabili ipotesi di presenza fisicae di insediamento di comunità «romane» in Cina, i cui effetti genetici sulla popola-zione di alcune regioni dell’impero di mezzo sarebbero ancor oggi riscontrabili. Sull’abbrivio del rinnovato uso del passato storico classico a livello politico-ideo-

logico, al fine di costruire o negare analogie di leadership egemonico-imperiale, inquesti ultimi anni il gioco dei raffronti si è esteso ad altri ambiti, in una sorta di rin-corsa infinita di specchi riflettenti ove il mondo antico, e in specie il mondoromano, si proponevano di volta in volta come modello di riferimento, termine diconfronto ai più diversi gradi, metro di giudizio, anticipazione e conferma di sceltedi «modernità», «oggetto – come è stato immaginificamente detto – mobile,mutante, aperto, partecipe attivo dell’incessante creazione del presente»54, fino acreare una sorta di nuovo campo di studi su quella che si suole ormai definire la rice-zione 55. Ricezione è un termine impreciso, oltre che indubitabilmente cacofonico,ma il cui impiego ha lo scopo dichiarato di negare sia l’idea di un passato che si rap-porta al presente come al corrispondente terminale di un continuum storico inin-terrotto, sia il proposito di apportare prove supplementari della sopravvivenza, pre-senza e influenza del classico sulla realtà contemporanea. Con ricezione si intende

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INTRODUZIONE

Century Belong to China?, Kiessinger and Zakaria vs. Feguson and Li, The Munk Debate on China,Toronto 2012 (trad. it. Il XXI secolo appartiene alla Cina? Conversazione sul futuro del mondo, Milano2012); P. MISHRA, From the Ruins of Empire. The Intellectuals Who Remade Asia, New York 2012; D.ACEMOGLU, J. A. ROBINSON, Why Nations Fail. The Origins of Power, Prosperity and Poverty, London2012; O. A. WESTAD, Restless Empire. China and the World Since 1750, New York, Philadelphia 2012;N. BERGGRUEN, N. GARDELS, Intelligent Governance for the 21st Century, Cambridge, Malden MA 2013;A. S. BLINDER, After the Music Stopped. The Financial Crisis, the Response and the Work Ahead, NewYork, London 2013.54 PAYEN, Éditorial. L’Antiquité et ses réceptions cit., p. 23. La traduzione è mia. 55 ID., L’Antiquité après l’Antiquité: parcours et détours d’un projet éditorial, in «Anabases» 1,

2005, pp. 5-13; ID., Éditorial. L’Antiquité et ses réceptions cit., p. 23.

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indicare soltanto l’opportunità di esplorare le diverse vie lungo le quali la tradizione(intesa nel senso letterale della parola) dell’antichità si è indirizzata, giungendo finoa noi che l’abbiamo variamente recepita56. Si tratta di un contenuto semantico limi-tativo e generico proprio perché rischia di circoscriversi alla mera constatazione diuna «presenza» dell’antico nella letteratura e nell’arte, nella lingua e nel diritto,nella filosofia e nel pensiero politico, nella cultura popolare e nei media, senza sca-vare a fondo sui meccanismi e sulle finalità dell’utilizzo del passato classico, né sullasua funzionalità strumentale rispetto alle interpretazioni della realtà odierna. Unconto è, infatti, individuare e catalogare le tracce o le riproposizioni/rielaborazionidell’antico presenti nella cultura dei nostri tempi, «alta» o «popolare», e a ognilivello e contesto; tutt’altra cosa è invece, per un verso, usare l’antico come para-digma o come modello del presente e, per l’altro, trarne giustificazione o legitti-mazione per scelte o interpretazioni dell’agire politico, sociale, economico e rela-zionale contemporaneo. Il presente e il «futuro» dell’antico vanno insommamisurati e analizzati su più piani, che non possono circoscriversi all’inventario dicalchi e analogie, ma debbono esplorare i meccanismi più profondi in funzione deiquali opera la memoria dell’antichità classica quale motore e alimento, tuttoraattivi, di ideologie e comportamenti pubblici e politici, e quale fattore di modifi-cazione del pensiero e dei valori contemporanei. In questo senso la lezione di Omo-deo e di Croce, ripresa e rilanciata da E. Gabba, risuona in tutta la sua pregnantevalidità: per comprendere la realtà moderna è imprescindibile conoscere e com-prendere anche la storia antica, e viceversa. L’azione bidirezionale, l’interazionefra storia antica e storia contemporanea è nei fatti, prima che nella teoria o nell’a-nalisi concettuale. L’esperienza del proprio tempo presente è indispensabile perpoter rispondere alle domande che pongono le fonti storiche antiche, e le vicendedell’antico – senza attualizzazioni forzose, politicizzazioni strumentali o prevari-cazioni del presente sul passato – si impongono come irrinunciabile chiave di let-tura del contemporaneo. «La riappropriazione della storia deve diventare proget-tualità del tempo presente»: «la memoria come garante della nostra identità e lastoria come razionalizzazione critica della memoria», è stato detto, con fine intel-ligenza e grande capacità di sintesi, a proposito di recenti «abusi» della storia a finicinicamente politico-elettorali57.

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56Cfr. pure su queste tematiche S. SETTIS, Il futuro del classico, Torino 2004; M. CENTANNI (a curadi), L’originale assente. Introduzione allo studio della tradizione classica, Milano 2005; F. BENIGNO, N.BAZZANO, Uso e reinvenzione dell’antico nella politica di età moderna, secoli XVI-XIX, Bari, Roma 2006;U. CARDINALE (a cura di), Essere e Divenire del «Classico», Atti del Convegno internazionale (Torino-Ivrea, 21-23 ottobre 2003), Torino 2006; ID. (a cura di), Nuove chiavi per insegnare il classico, Torino2008; U. CARDINALE, L. CANFORA (a cura di), Disegnare il futuro con intelligenza antica, Bologna 2013.Da considerare anche l’intensa attività sui temi dell’influenza dell’antico sul mondo moderno dell’In-stitute of Greece, Rome and the Classical Tradition dell’Università di Bristol (The Bristol Institutefor Research in the Humanities and Arts - BIRTHA; cfr. i reports annuali dal 2003-2004: http://www.bri-stol.ac.uk/arts/birtha/centres/institute/reports.html). La Bibliotheca Academica Translationum, natanel 2000 da una collaborazione fra il Classics Center dell’Università di Oxford e il Centre Louis Ger-net di Parigi (CNRS/EHESS, ora Centre ANHIMA - UMR 8210), è un progetto che si pone il fine di studiarele interpretazioni del mondo greco-romano e la diffusione del sapere classico nell'Europa dei secoliXVIII-XIX (http://bat.ehess.fr).57 F. CARDINI in G. GALEAZZI, Cardini «In quelle frasi c’è un complesso napoleonico e la ricerca di

voti vacanti». Intervista, in «La Stampa», 28 gennaio 2013, p. 3.

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Con buona pace di Henry de Montherlant, dunque, non è sufficiente conoscerela storia romana per conoscere la storia del mondo, ma la storia antica e la storiaromana, secondo una sorta di processo di contagio virale, pervadono, contaminan-doli, gli ambiti storico-culturali posteriori fino a condizionare lo stesso sviluppodella realtà di oggi o, quanto meno, a offrirne combinazioni di accesso, a propornemodelli interpretativi, a consentirne profonde decifrazioni analitiche, e a proget-tare un futuro auspicabilmente migliore.

Il volume raccoglie tredici contributi, che hanno come elemento unitario diversiaspetti, modalità e forme dell’uso della storia di Roma nel dibattito moderno e con-temporaneo. Vengono affrontate in particolare le diverse «mitologie dell’impero»emerse dal confronto, assai vivace e articolato specie nell’ultimo ventennio, fra larealtà antica e la realtà di oggi. La tradizione della repubblica imperiale romana,come confermano gli scritti e le dichiarazioni di autorevoli studiosi di varie disci-pline, di storici, di politici, di politologi, di giornalisti e di cronisti, è stata utiliz-zata, strumentalizzata e talora inventata per legittimare o giustificare iniziativeimperialistiche, difendere assetti di governo, proporre modelli culturali e compor-tamentali di volta in volta funzionali a precisi disegni politici o ideologici. A tal finesi è fatto riferimento, in svariate circostanze, alla presunta tolleranza politica e reli-giosa di Roma, all’unità culturale, linguistica e giuridica dell’impero, alla sua dimen-sione multietnica, alle efficaci modalità di cattura del consenso e di integrazione deipopoli conquistati, alla complessità della struttura sociale dell’impero di Romacaratterizzata da forte mobilità intergenerazionale e intragenerazionale, ai trattiparacapitalistici dell’economia di Roma, all’evoluzione in senso unipolare del potereromano, alla stabilità, alla pace sociale interna e alla lunga durata di un sistema-impero organizzatore e regolatore del mondo, alle concause che ne determinaronodopo secoli di prosperità il declino e la caduta. Alcuni contributi sono inediti, seppur oggetto a suo tempo di relazioni di con-

vegno o di incontri di studio i cui Atti non sono stati pubblicati o nei cui Atti nonfurono a suo tempo compresi per diverse motivazioni, ma principalmente per l’im-possibilità dell’autore di rispettare i tempi di consegna. Gli altri sono già comparsi,in pubblicazioni collettive o in riviste distribuite su un arco cronologico che va dal2000 al 2011, con l’unica eccezione di un saggio del 1988, qui inserito per la coe-renza tematica. Tutti i contributi sono stati sottoposti a forte revisione, sia (soprat-tutto) dal punto di vista dell’indispensabile aggiornamento bibliografico, sia, inmolti casi, dal punto di vista di un’adeguata integrazione di contenuti o di unopportuno supplemento di riflessione indotto dall’evoluzione dei tempi e dell’ana-lisi storiografica e politica. In questa prospettiva il volume non si può definire strictusensu, nemmeno per i contributi già pubblicati, una tradizionale raccolta di studiediti in tempi più o meno recenti: si tratta piuttosto del prodotto di una verifica atutto tondo di studi su tematiche omogenee o affini, ma che, proprio per la con-temporaneità e in alcuni casi per la rapidità di evoluzione degli argomenti trattati,imponevano qualche intervento, anche significativo, di revisione e riconsidera-zione. Le fonti da cui sono stati sviluppati i testi qui raccolti sono state indicate incorrispondenza dei singoli capitoli, in forma di nota al titolo.

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IL’eredità del mondo antico*

Tutti coloro che, in numero certo non esiguo, si sono cimentati nell’arduaimpresa di analizzare e discutere aspetti, natura e sostanza dell’eredità trasmessadalla Grecia, da Roma o dall’intero mondo antico alle epoche successive non hannopotuto esimersi da una premessa d’obbligo, tra lo stereotipo e il rituale, circa l’im-possibilità di gestire adeguatamente una materia non solo sterminata, poliforme emultivalente, ma altresì sottoposta a variabilità e soggettività di giudizio in rap-porto al mutare delle contingenze storiche, politiche, ideologiche e culturali1.

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* Il capitolo L’eredità del mondo antico aggiorna il saggio dal medesimo titolo edito in La Storia. Igrandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, Torino 1988, vol. I, pp. 479-502.1 Utili e seri riferimenti di carattere generale sull’eredità dell’antico nelle sue varie declinazioni, in

una letteratura peraltro vastissima e spesso condizionata da strumentalizzazioni politico-ideologiche«contemporanee», possono essere: T. ZIELINSKI, Le monde antique et nous, Louvain 1909; G. FERRERO,Roma nella cultura moderna. Discorso tenuto in Campidoglio il 21 aprile 1910, commemorando in Municipioil Natale di Roma, Milano 1910; ID., Ancient Rome and Modern America. A Comparative Study of Moralsand Manners, New York, London 1914; AA.VV., Das Erbe der Alten. Schriften über Wesen und Wirkungder Antike, voll. I-X, Leipzig 1923-1924; W. G. DE BURGH, The Legacy of the Ancient World, NewYork 1924; E. STEMPLINGER, Die Ewigkeit der Antike, Leipzig 1924; O. IMMISCH, Das Nachleben derAntike, Leipzig 1933; H. LADENDORF, Antikestudium and Antikekopie. Vorarbeiten zur einer Darstellungihrer Bedeutung in den mittelalterlichen and neueren Zeit, Berlin 1953; S. MAZZARINO, Storia di Roma estoriografia moderna, Napoli 1954; S. C. EATON, The Heritage of the Ancient World from the Earliest Timeto the Fall of Rome, New York 1960; C. WICKHAM, La chute de Rome n’aura pas lieu, in «Le MoyenAge» 99, 1993, pp. 107-126; A. GIARDINA, A. VAUCHEZ, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini,Roma, Bari 2000; J. SOLOMON, The Ancient World in the Cinema, Yale University Press, New Haven,London 2001; S. R. JOSHEL, M. MALAMUD, D. T. MCGUIRE JR., Imperial Projection. Ancient Rome inModern Popular Culture, Baltimore, London 2001; F. ROSCETTI (a cura di), con la collab. di L.LANZETTA, L. CANTATORE, Il classico nella Roma contemporanea. Mito, modelli, memorie, Atti delConvegno (Roma, 18-20 ottobre 2000), Roma 2002; M. PANI (a cura di), Storia romana e storia moderna.Fasi in prospettiva, Bari 2005; N. SHUMATE, Nation, Empire, Decline. Studies in Rhetorical Continuityfrom the Romans to the Modern Era, London 2006; C. J. RICHARD, Classical Antiquity and EarlyConceptions of the United States Senate, in M. MECKLER (a cura di), Classical Antiquity and the Politics ofAmerica. From George Washington to George W. Bush, Waco TX 2006, pp. 29-39; P. DESIDERI, S. RODA,A. M. BIRASCHI (a cura di), con la collab. di A. PELLIZZARI, Costruzione e uso del passato storico nellacultura antica, Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 18-20 settembre 2003), Alessandria2007; B. WARD-PERKINS, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Roma, Bari 2008; K. MODZELEWSKI,L’Europa dei barbari. Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana, Torino 2008; T. F.MADDEN, Empires of Trust. How Rome Built – and America Is Building – a New World, New York,London 2008; M. MALAMUD, Ancient Rome and Modern America, Malden MA, Oxford 2009; C.

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Quanto, nel presente o nel passato più recente, «ancora attinge un qualsivoglia con-dizionamento, incentivo o caratterizzazione (formale o sostanziale che sia) ricon-ducibile al mondo classico»2 non pertiene infatti, come è fin troppo ovvio sottoli-neare, soltanto alle pur vaste aree dell’arte e della cultura, ma si insinua in formepiù o meno palesi, secondo modi e livelli diversi di discendenza o mediazione, ininnumerevoli ambiti della realtà postclassica, dalle scienze ai linguaggi comuni ospecializzati, dalla politica al diritto, dagli schemi logico-concettuali più complessialla sfera della mentalità e dell’immaginario quotidiano.In questa prospettiva appare velleitaria anche ogni ipotesi di puro inventario

completo della consistenza patrimoniale tramandata dall’antichità, a meno di nonlimitarsi alla constatazione delle emergenze più evidenti, con il rischio implicito,però, di marciare sul terreno della semplificazione o della banalità. Non che si voglianegare legittimità di alcuni lavori di sintesi estrema, come quello condotto ad esem-pio da G. Forni, nel 1968, a conclusione dell’importante volume miscellaneo Nuovequestioni di storia antica 3: si tratta anzi di operazioni utili sul piano della propostadivulgativa e che come tali pienamente si giustificano. Ha certo un senso rilevareche «la civiltà moderna affonda le sue radici nell’evo antico dei popoli del Medi-terraneo»; mentre appare già più discutibile, e frutto di valutazioni tutto sommatoassai soggettive, sottolineare come gli imperi egizio, achemenide e macedone influi-rono per varie ragioni (isolamento, crollo repentino, o effimera durata) in misuraminore sulla formazione della civiltà attuale rispetto a quello che fu il contributoinvece dei Babilonesi-Assiri, dei Fenici, degli Ebrei4; così come è ovvio ribadire lapaternità della Grecia e di Roma nella formazione di quelle che sono «le basi dellanostra mentalità, del nostro sentimento, della nostra logica, della nostra etica, delnostro costume, delle nostre concezioni di stato e di società», basi che «furonoimpostate dai Greci, elaborate e diffuse dai Romani – i quali vi aggiunsero di pro-prio soprattutto i concetti giuridici –, accolte dal cristianesimo che vi immise glielementi soprannaturali». Altrettanto pertinente e scontato è inoltre il richiamospecifico al peso avuto dalla Grecia e da Roma nella costruzione di modelli e ideo-logie politiche «moderne»; nell’elaborazione filosofica; nella formulazione diprincìpi fisici, matematici e scientifico-naturali; nella creazione di canoni artistico-letterari; nella codificazione legislativa e giurisprudenziale; nella diffusione ed evo-luzione del linguaggio5.

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WICKHAM, Le società dell’alto Medioevo. Europa e Mediterraneo, secoli V-VIII, Roma 2009; H. LEPPIN,Das Erbe der Antike, München 2010 (trad. it. L’eredità del mondo antico, Bologna 2012). 2 L. CRACCO RUGGINI, G. CRACCO, L’eredità di Roma, in Storia d’Italia, V: I documenti, Torino

1973, pp. 3-45.3G. FORNI, L’eredità del mondo antico, in Nuove questioni di storia antica, Milano 1968, pp. 887-896.4 Specificamente sull’eredità del mondo egizio S. R. K. GLANVILLE, The Legacy of Egypt, Oxford

1942; sull’eredità della Persia, A. J. ARBERRY, The Legacy of Persia, Oxford 1953, e inoltre E. LOSARDO (a cura di), La Lupa e la Sfinge. Roma e l’Egitto dalla storia al mito, Catalogo della Mostra (Roma,Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, 11 luglio 2008 - 9 novembre 2008), Milano 2008.

5 FORNI, L’eredità cit., pp. 887-896. Sull’eredità della Grecia classica ed ellenistica, AA.VV., TheLegacy of Greece, a cura di R. W. LIVINGSTONE, Oxford 1921; G. MURRAY, Hellenism and the ModernWorld, London 1953. Sull’eredità di Roma, oltre ai testi già ricordati, cfr. pure AA.VV., L’eredità diRoma, Milano 1953 (1923), con ricco supporto bibliografico; AA.VV., L’eredità di Roma nella

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Simili disamine riepilogative svolgono insomma una funzione didattico-divul-gativa rassicurante, nel senso che offrono organica sistemazione e puntuale catalo-gazione di tutto ciò che, in modo spesso parziale, disarticolato o confuso, il sensocomune, anche a livelli medi o medio-bassi di cultura, accredita come eredità delmondo antico. Si spiegano così l’accento particolarmente insistito che ad esempioG. Forni poneva su un aspetto di meno pregnante rilievo, ma certamente più con-creto e onnicomprensibile, del retaggio dell’antichità nella realtà moderna, come lamutuazione e la persistenza dei termini tecnico-specifici dei linguaggi della politica,della letteratura o delle arti, oppure il cenno conclusivo – che suonerebbe scontatoo superfluo in contesti diversamente finalizzati – all’eredità materiale «che soprav-vive negli impianti urbanistici di centri abitati che tuttora riproducono quelloantico, nelle strade, nei ponti e negli acquedotti romani ancora oggi in uso»6. Nonbisogna dunque chiedere a trattazioni così concepite nulla più di ciò che possono eprogrammaticamente s’impegnano a proporre, interpretando il loro assunto tema-tico, anche quando si presenta sotto un titolo totalizzante quale L’eredità del mondoantico, entro i precisi limiti metodologici e concettuali di cui si è detto. Risultanoinfatti inevitabilmente assenti da questo tipo di lavori discussioni critiche relativealla fittissima letteratura sulla legacy of the ancient world, così come pure vi appaionoestremamente sfumate e incerte le direttrici di una qualsiasi prospettiva di stori-cizzazione. Si può dire in altre parole che l’attenzione è fissata esclusivamente sullaconcretezza del legato ereditario antico, sia esso reperto archeologico o ruderemonumentale, manufatto a noi pervenuto o genere letterario tuttora frequentato,idea politica o modello istituzionale, teorema matematico o concetto filosofico, imi-tazione poetica classicista o tecnica architettonica, codice moderno traslato dacodici antichi o sopravvivenza lessicale7, mentre si trascura tutto ciò per cui l’ap-partenenza al patrimonio del mondo antico è stata in passato o è ancor oggi giudi-cata dubbia, o discussa, o al contrario falsamente sostenuta in relazione ai più sva-riati motivi oggettivi o strumentali.

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letteratura e nella civiltà delle nazioni moderne, in V. USSANI, F. ARNALDI (a cura di), Guida allo studiodella civiltà romana, Napoli 1954, pure fornito di ampia bibliografia; CRACCO RUGGINI, CRACCO,L’eredità di Roma cit., con acuti accenni fra l’altro al problema della difficoltà di comporre un discorsototale sull’eredità del mondo antico. Riscontri di vivo interesse sono ancora reperibili nel vecchiolavoro di A. GRAF, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, Torino 1923, e nel piùrecente R. KRAUTHEIMER, Roma. Profilo di una città 312-1308, Roma 1981; dello stesso autore, su unaspetto specifico dell’eredità di Roma e sui temi della translatio imperii, Tre capitali cristiane, Torino1987. Sullo stesso tema i contributi compresi in La nozione di «Romano» fra cittadinanza e universalità,in Da Roma alla Terza Roma. Documenti e Studi, II, Napoli 1984. Più in generale, si veda anche ilvolume miscellaneo, contenente acuti e «singolari» saggi di studiosi di più diversa formazione culturale,AA.VV., Civilisation latine. Des temps anciens au monde moderne, a cura di G. DUBY, Paris 1986. In unaprospettiva storiografica è d’obbligo il ricorso a P. TREVES, Lo studio dell’antichità classicanell’Ottocento, Torino 1976-1979 (1962); A. MOMIGLIANO, Storia greca, e S. MAZZARINO, Storiaromana, in La Storiografia italiana negli ultimi vent’anni, Milano 1970; ID., Il mutamento delle ideesull’«antichità» classica nell’Ottocento, in «Helikon» 9-10, 1969-1970, pp. 154-174; e ancora i bilancidi D. MUSTI, La storia greca, e di M. MAZZA, La storia romana, in La storiografia italiana vent’anni dopo,1965-1985: bilancio e prospettive, Atti del Convegno (Arezzo, 2-6 giugno 1986), Roma, Bari 1989.6 FORNI, L’eredità cit., pp. 895-896.7 Sull’eredità della scienza antica, G. SARTON, Ancient Science and Modern Civilisation, Lincoln

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In effetti uno studio non meramente constatativo sull’eredità del mondo anticoe sul suo significato nelle epoche dal medioevo a oggi non può prescindere dall’af-frontare, quanto meno per exempla, il problema di enorme rilievo storico dell’usoche nel corso dei tempi si è fatto del patrimonio trasmesso dall’antichità. Il retag-gio del mondo classico, e in misura assai minore quello del mondo preclassico, nonsolo ha subìto valutazioni molto diverse in epoche storiche e luoghi geografici dif-ferenti, ma è stato spesso usato come supporto politico-ideologico-culturale in situa-zioni e in realtà talora anche contraddittorie: la strumentalizzazione in positivo oin negativo del modello antico ha quindi accresciuto o sminuito, a misura del variaredel contesto storico, il peso dell’eredità; la sua stessa consistenza, oltre quelli chesono gli elementi concreti non contestabili e abbastanza agevolmente catalogabili,è stata ampliata o ridotta in parallelo con il continuo mutare delle prospettive digiudizio e dei parametri interpretativi. La letteratura sul tema, per parte sua, nonsolo ha seguito, accolto e fatta propria la sostanza di tale evoluzione, ma spesso,obbedendo a «disparate esigenze di confronto culturale e politico»8 se ne è fattasoggetto attivo, filtrando il patrimonio ereditario antico attraverso maglie di voltain volta più o meno fitte e sollecitandone usi variamente funzionali. La storiografiasull’Erbschaft degli antichi ha interagito insomma costantemente, dal medioevo finoa oggi, con le realtà storico-politiche, storico-sociali, ideologico-religiose e culturali,ora subendo da esse forti condizionamenti, ora invece anticipandone o stimolan-done i mutamenti.Per queste ragioni, più ancora che per la straordinaria quantità di contributi e

interventi accumulatisi nel corso dei secoli in un flusso continuo, periodicamenteravvivato da momenti di particolare intensità produttiva, sarebbe fatica vana,votata comunque a esiti parziali e insoddisfacenti, tentare di organizzare l’intera,

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1954; ID., The Appreciation of Ancient and Medieval Science during the Renaissance (1450-1600),Philadelphia 1955; D. C. LINDBERG, The Beginnings of Western Science: The European ScientificTradition in Philosophical, Religious, and Institutional Context, 600 B.C. to A.D. 1450, Chicago 1992; G.TRAINA, La tecnica in Grecia e a Roma, Roma, Bari 20002; nonché le relazioni proposte al Convegno distudi “Scienze e tecniche in Grecia e a Roma: il punto sugli studi” (Roma, 3-4 giugno 2008). Cfr. pureS. ISOLA, Scienza antica e scienza moderna, lezioni per il ciclo di incontri avviato a giugno 2011 pressoil Circolo “Andreoni” di Firenze e i cui testi sono ora reperibili in http://www.enoizapic-name.wordpress.com/eventi/scienza-tecnoscienza-e-progresso/scienza-antica-e-scienza-moderna; V.MARAGLINO (a cura di), Scienza antica in età moderna. Teoria e immagini, Bari 2012. Sull’eredità deldiritto, E. M. MEIJERS, Etudes d’histoire du droit, IV: Le droit romain au moyen age, Leiden 1966; H. J.BERMAN, Law and Revolution: The Formation of the Western Legal Tradition, Cambridge MA 1983; P.STEIN, Roman Law in European History, Cambridge 1999; F. GALLO, L’eredità perduta del dirittoromano. Introduzione al tema, in «Diritto e Storia» 6, 2007 = http://www.dirittoestoria.it/6/D-&-Innovazione/Gallo-Eredit-perduta-diritto-romano.htm; U. WESEL, Geschichte des Rechts. Von denFrühformen bis zur Gegenwart, München 2006; J. D. HARKE, Römisches Recht. Von der klassischen Zeitbis zu den modernen Kodifikationen, München 2008; J. M. RAINER, Das Römische Recht in Europa. VonJustinian zum BGB, Wien 2012. Sull’eredità dell’arte, più che ai lavori di W. PACH, The ClassicalTradition in Modern Art, New York 1959, e di W. OAKESI-LOTT, Classical Inspiration in Medieval Art,New York 1960, è ancora assai utile fare riferimento ai numerosi ed esaurienti contributi compresi neitre volumi Memoria dell’antico nell’arte italiana, Torino 1984-1986 e in S. SETTIS (a cura di), I Greci.Storia, cultura, arte e società, 4 voll., Torino 1996-2002.8 CRACCO RUGGINI, CRACCO, L’eredità di Roma cit., p. 4.

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eterogenea letteratura sull’eredità antica secondo linee di sviluppo coerenti osecondo orientamenti omogenei.Può presentare invece maggiore interesse e fattibilità uno studio che tenga conto

del rapporto causale, costante nel tempo, fra diverse valutazioni e diversi usi del-l’eredità del mondo antico, e che si sforzi di analizzare nel vivo di episodi specificile forme di attivazione e di operatività di tale rapporto. Non si tratta, anche in que-sto caso, di pervenire con metodo induttivo alla scoperta di schemi universalmenteapplicabili, giacché, ovviamente, anche sul rapporto fra senso dell’eredità dell’an-tico e suo uso strumentale le contingenze storiche influiscono quali agenti modifi-catori, dando vita a una gamma pressoché infinita di sfumature e di varianti. Ma èaltrettanto vero che, ad esempio, le tecniche d’impiego spregiudicato o diffuso delpatrimonio premedievale al fine di determinare effetti di aggregazione politico-ideologica e di consenso sociale conservano intatte, nell’evolvere dei tempi, alcunecaratteristiche di fondo, soprattutto per quanto si riferisce ai meccanismi di elabo-razione e applicazione. Così, è possibile verificare il ricorso dei medesimi modelliantichi in epoche diverse e lontane, ogniqualvolta un quadro storico sembra ripro-porsi, a distanza di tempo, con caratteri di analogia, reale o strumentalmentecostruita9. L’esempio che segue ci pare in questo senso fortemente emblematico.

Alla fine di ottobre dell’anno 312 d.C., l’imperatore Costantino sconfisse Mas-senzio al ponte Milvio ed entrò in Roma, ove ricevette dal senato il titolo di primoAugusto, ottenendo così di fatto (oltre al diritto di legiferare con effetto su tuttoil territorio dell’impero) la sanzione della sua posizione preminente rispetto a quelladegli altri Augusti. Rivestito il consolato il 1° gennaio 313, Costantino lasciò Romaqualche tempo dopo – forse all’inizio della primavera – per raggiungere Milano:nella capitale padana erano in programma le nozze fra il collega Licinio e sua sorellaCostanza. Secondo l’opinione diffusa, in quella circostanza i due imperatori avreb-bero emesso il cosiddetto editto (o rescritto, per usare il termine giuridicamentepiù appropriato e corretto) di Milano, con il quale si ammetteva la liceità di ogniculto e in particolare del culto cristiano. Si tratta, com’è a tutti ben noto, di unavvenimento epocale, il cui significato storico si proietta ben oltre la realtà tar-doimperiale, ma si tratta pure, come è altrettanto risaputo, di un avvenimento sullacui verità storica tuttora intensamente si discute, dal momento che nelle fonti anti-che non v’è traccia del supposto rescritto, mentre è conosciuto un editto di tolle-ranza di Galerio del 311, è conosciuta un’attività filocristiana di Costantino negliultimi mesi del 312, è conosciuto infine (attraverso la trascrizione tramandataci daEusebio e da Lattanzio) l’editto di Nicomedia di Licinio del 13 giugno 313, che

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9Sull’uso del modello antico, oltre ai cenni in FORNI, L’eredità cit., e in CRACCO RUGGINI, CRACCO,L’eredità cit., si può consultare l’intero primo volume, L’uso dei classici, di Memoria dell’antico cit. e inparticolare i contributi di C. FRUGONI, L’antichità: dai Mirabilia alla propaganda politica, pp. 5-72; diM. MIGLIO, Roma dopo Avignone. La rinascita politica dell’antico, pp. 73-112; di M. GREENHALGH,«Ipsa ruina docet»: l’uso dell’antico nel Medioevo, pp. 113-167; e di G. CANTINOWATAGHIN, Archeo-logia e archeologie. Il rapporto con l’antico fra mito, arte e ricerca, pp. 169-217; si veda anche, nel volumeterzo della medesima opera: Dalla tradizione all’archeologia, il fondamentale saggio di S. SETTIS, Con-tinuità, distanza, conoscenza. Tre usi dell’antico, pp. 375-486.

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avrebbe riprodotto, ad avviso di molti, il testo integrale del rescritto milanese. Glistudiosi, sulla base di tali elementi, dibattono dunque ancor oggi sia sull’esistenzadel rescritto di Milano, sia sul rapporto fra tale provvedimento e gli analoghi inter-venti normativi di Galerio e di Licinio, sia sulla reale natura e scansione della poli-tica religiosa costantiniana, sia naturalmente sull’importanza e sul peso storico ditale politica10. Gli esiti di tale dibattito – costantemente riaperto nonostante le

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10Gli studi sulla questione costantiniana e in particolare sulla sua politica religiosa costituiscono uncapitolo fra i più affollati della storiografia sul mondo antico; vano e inutile sarebbe tentare in questasede una rassegna esaustiva; citerò soltanto le sintesi più significative nonché fornite di rassegnecritiche e/o di ampi rimandi bibliografici, a cominciare dal grande affresco di J. BURCKHARDT, Die ZeitConstantins des Grossen, Basel 1853 (trad. it. L’età di Costantino il Grande, Roma 1970, edizionequest’ultima inserita nella Biblioteca di Storia Patria, e preceduta dall’importante introduzione di S.MAZZARINO, ricca di messe a punto sulla problematica costantiniana e su usi e interpretazioni delmodello costantiniano nel corso dei secoli); cfr. inoltre A. ALFÖLDI, The Conversion of Constantine andPagan Rome, Oxford 1948 (trad. it. Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Roma, Bari 1976); J.VOGT, Constantin der Grosse und sein Jahrhundert, München 1949; ID., Die Konstantinische Frage (DieBekehrung Constantins), in Relazioni del X Congresso Internazionale di scienze storiche (Roma, 4-11settembre 1955), II, Firenze 1955; A. H. M. JONES, Constantine and the Conversion of Europe, NewYork 19622 (1948); S. CALDERONE, Costantino e il cattolicesimo, Firenze 1962; R. MACMULLEN,Constantine, New York 1969; N. H. BAYNES, Constantine the Great and the Christian Church, nuova ed.a cura di H. CHADWICK, Oxford 1972 (1929); F. KERESZTES, Constantine, a Great Christian Monarchand Apostle, Amsterdam 1981; T. D. BARNES, Constantine and Eusebius, Cambridge MA 1981; R. LANEFOX, Pagani e cristiani, Roma, Bari 1991 (1986); D. H. WRIGHT, The True Face of Constantine the Great,in «Dumbarton Oaks Papers» 41, 1987, pp. 493-507; T. G. ELLIOTT, Constantine’s Conversion: Do WeReally Need It?, in «Phoenix» 45, 1991, pp. 420-438; G. FOWDEN, The Last Days of Constantine:Oppositional Versions and Their Influence, in «The Journal of Roman Studies» 84, 1994, pp. 146-170;B. BLECKMANN, Konstantin der Große, Reinbeck IA 1996; M. CLAUSS, Konstantin der Große und seineZeit, München 1996; S. N. C. LIEU, D. MONTSERRAT, From Constantine to Julian: Pagan and ByzantineViews; A Source History, New York 1996; E. MÜHLENBERG (a cura di), Die Konstantinische Wende,Gütersloh 1998; J.-M. CARRIÉ, A. ROUSSELLE, L’Empire Romain en mutation des Sévères à Constantin,192-337, Paris 1999; A. CAMERON, S. G. HALL, Life of Constantine, Oxford 1999; J. CURRAN, PaganCity and Christian Capital, Oxford 2000; H. A. DRAKE, Constantine and the Bishops. The Politics ofIntolerance, Baltimore 2000; A. MARCONE, Costantino il Grande, Roma, Bari 2000; ID., Pagano ecristiano. Vita e mito di Costantino, Roma, Bari 2002; K. PIEPENBRINK, Konstantin der Große und seineZeit, Darmstadt 2002; C. M. ODAHL, Constantine and the Christian Empire, London 2004; A.CAMERON, The Reign of Constantine, A.D. 306-337, in The Cambridge Ancient History, XII: The Crisisof Empire, a cura di A. BOWMAN, A. CAMERON, P. GARNSEY, Cambridge 2005, pp. 90-109; A.DONATI, G. GENTILI (a cura di), Costantino il Grande. La civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente,Catalogo della Mostra (Rimini, Castel Sismondo, 13 marzo - 4 settembre 2005), Cinisello Balsamo2005; K. M. GIRARDET, Die konstantinische Wende, Darmstadt 2006; N. LENSKI (a cura di), TheCambridge Companion to the Age of Constantine, New York 2006; A. DEMANDT, J. ENGEMANN (a curadi), Konstantin der Große. Geschichte - Archäologie - Rezeption, Trier 2006; P. VEYNE, Quand notremonde est devenu chrétien (312-394), Paris 2007; A. DEMANDT, J. ENGEMANN (a cura di), Konstantin derGroße. Imperator Caesar Flavius Constantinus, Mainz 2007; H. SCHLANGE-SCHÖNINGEN (a cura di),Konstantin und das Christentum: Neue Wege der Forschung, Darmstadt 2007; E. HERRMANN-OTTO,Konstantin der Große, Darmstadt 2007; O. SCHMITT, Constantin der Große (275–337), Stuttgart 2007;R. VAN DAM, The Roman Revolution of Constantine, Cambridge 2007 (trad. it. Costantino. Unimperatore latino nell’Oriente greco. Tra ideologia romana e novità cristiana, Cinisello Balsamo 2013); A.GOLTZ, H. SCHLANGE-SCHÖNINGEN (a cura di), Konstantin der Große. Das Bild des Kaisers im Wandelder Zeiten, Köln 2008; G. BONAMENTE, G. CRACCO, K. ROSEN (a cura di), Costantino il Grande tra

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messe a punto sempre più convincenti, soprattutto dal punto di vista dell’analisigiuridico-romanista ma anche storiografica – si collocano rispetto al rescritto mila-nese, con diverse e multiformi coloriture, entro un segmento di posizioni, ai cuiestremi vi è, da un lato, la negazione dell’esistenza del rescritto11 o l’attribuzionedel provvedimento a Licinio e non a Costantino12, e dall’altro l’affermazione senzatentennamenti della realtà del rescritto e l’attribuzione al solo Costantino dell’ini-ziativa di emissione del medesimo, che avrebbe avuto immediata pubblicazione eapplicazione in tutte le province dell’impero e sarebbe stato ribadito in Orientedall’editto liciniano di Nicomedia13. In realtà una sorta di parola sostanzialmentedefinitiva al dibattito è stata ora posta da A. Marcone, il quale, sulla base di un’at-tenta revisione di fonti e letteratura, ha sintetizzato la questione in quattro punti:1. il documento che è consuetudine chiamare «editto di Milano» non è un editto;2. tale documento non fu promulgato a Milano; 3. l’autore del documento non èCostantino ma Licinio; 4. i cristiani non ottennero la tolleranza attraverso queldocumento perché l’avevano ottenuta due anni prima in virtù dell’editto di Gale-rio dell’aprile 31114.I nodi problematici relativi al rescritto di Milano (realtà o falso storico? Iniziativa

costantiniana o espressione della volontà collettiva, imposta dalle circostanze stori-che contingenti, di tutti gli imperatori regnanti tra il 311 e il 313?) perdurano peral-tro di là da ogni accertata verità documentaria e si collegano, nell’immenso crogiuolo

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L’EREDITÀ DEL MONDO ANTICO

medioevo ed età moderna, Bologna 2008; T. D. BARNES, Constantine: Dynasty, Religion and Power in theLater Roman Empire, Oxford 2010; K. M. GIRARDET, Der Kaiser und sein Gott. Das Christentum imDenken und in der Religionspolitik Konstantins des Großen, Berlin, New York 2010; K. EHLING, G.WEBER (a cura di), Konstantin der Große. Zwischen Sol und Christus, Darmstadt 2011; G. A. CECCONI,CH. GABRIELLI (a cura di), Politiche religiose nel mondo antico e tardoantico. Poteri, indirizzi, forme dicontrollo e prassi di tolleranza, Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 24-26 settembre2009), Bari 2011; G. FILORAMO, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Roma, Bari 2011,in particolare pp. 88-113; R. VAN DAM, Remembering Constantine at the Milvian Bridge, New York2011; T. D. BARNES, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Malden2011; J. BARDILL, Constantine, Divine Emperor of the Christian Golden Age, Cambridge 2012; 313:l’editto di Milano. Da Costantino ad Ambrogio. Un cammino di fede e libertà, Centro culturale cattolico,Cinisello Balsamo 2012; G. SENA CHIESA (a cura di), Costantino 313 d.C. L’editto di Milano e il tempodella tolleranza, Catalogo della Mostra (Milano, 25 ottobre 2012 - 17 marzo 2013), Milano 2012; M.GUIDETTI, Costantino e il suo secolo. L’«editto di Milano» e le religioni, Milano 2013.11 O. SEECK, Das sogenannte Edikt von Mailand, in «Zeitschrift fur Kirchengeschichte» 12, 1891,

pp. 381-386, è uno dei più convinti assertori dell’irrealtà del rescritto. Su questa stessa posizione,autorevolmente, VOGT, Constantin der Grosse cit. Cfr. pure T. CHRISTENSEN, The So-Called Edict ofMilan, in «Classica et Medievalia» 35, 1984, pp. 129-175, e molto di recente, con argomentazionistringenti, BARNES, Constantine cit.12 Secondo H. GRÉGOIRE, La «conversion» de Constantin, in «Revue de l’Université de Bruxelles»

36, 1930-1931, pp.231-272, l’editto va attribuito a Licinio e non a Costantino; molto più articolata laposizione di CALDERONE, Costantino cit. 13 L’interpretazione totalmente tradizionalista, che vede in Costantino l’unico autore del rescritto

milanese, è stata ripresa da M. ANASTOS, The Edict of Milan (313), A Defence of its Traditional Autorshipand Designation, in «Revue des Etudes Byzantines» 25, 1967, pp. 13-41; cfr. J. RIST, Die MailänderVereinbarung von 313: Staatsreligion versus Religionsfreiheit, in «Studia Patristica» 34, 2001, pp. 217-223.14 A. MARCONE, L’editto di Milano. Dalle persecuzioni alla tolleranza, in SENA CHIESA (a cura di),

Costantino 313 d.C. cit., pp. 42-47.

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della Konstantinische Frage, con altre questioni altrettanto controverse soprattutto acausa delle molteplici implicazioni che tale materia presuppone al limite fra dibattitostorico, polemica ideologico-religiosa, professione fideistica, impulso propagandi-stico, deformazione strumentale, condiscendenza timorosa ad assunti ritenuti dog-matici. In primo luogo vi è il problema della «sincerità» o meno della scelta filocri-stiana di Costantino, da cui dipende non tanto una valutazione moralistica (del tuttoirrilevante dal punto di vista storico) del suo operato, bensì un modello interpretativogenerale della storia del tardoantico e del significato dell’impero cristiano in tutte lesue espressioni, dal IV secolo al medioevo e oltre (si ricordi il grande affresco storicodisegnato da J. Burckhardt15, secondo il quale l’«irreligioso» Costantino fece la suascelta religiosa per mero interesse politico, di fronte alla realtà di un intero mondoche si era convertito al cristianesimo); vi è poi la controversia nella sostanza margi-nale, ma di straordinario rilievo per quanto si riferisce alla costruzione dell’immaginepopolare del santo Costantino trasmessa alle epoche successive16, circa la natura dellasupposta visione notturna prima di ponte Milvio (il celeberrimo «sogno» di Costan-tino) e del simbolo (solare, solare-cristiano o cristiano tout court) fatto inserire dal-l’imperatore sui labari dei suoi soldati che andavano ad affrontare Massenzio17; vi è,infine, in una dimensione del tutto diversa giacché nessuno più vi accredita il minimovalore storico ma in compenso con una pregnanza storiografica certo superiore, laleggenda della donazione costantiniana alla chiesa di Roma, pretesa origine del poteretemporale dei papi, la cui incidenza sul mondo medievale e oltre è risaputa18. Questioni varie, in buona misura ancora aperte e dibattute talune in sede scien-

tifica, altre su piani diversi e in funzione di diverse esigenze o tesi più o meno stru-mentali, che si fondono tutte nella grande «questione costantiniana», da secolioggetto di intensissima e ininterrotta attenzione. Ma di là dall’importanza storio-

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15 BURCKHARDT, L’età di Costantino il Grande cit.16 M. NAVONI, «Beatus Constantinus, tali parente». L’imperatore Costantino e la madre Elena riletti

da Sant’Ambrogio, in SENA CHIESA (a cura di), Costantino 313 d.C. cit., pp. 84-89; E. PEVERE, F.BRASCHI, Costantino ed Elena, santi della Chiesa d’Oriente, ibid., pp. 162-167.17 M. DIMAIO, J. ZEUGE, N. ZOTOV, «Ambiguitas Constantiniana»: the «Caeleste Signum Dei» of

Constantine the Great, in «Byzantion» 58, 1989, pp. 333-360; O. NICHOLSON, Constantine’s Vision ofthe Cross, in «Vigiliae Christianae» 54, 2000, pp. 309-323; P. WEISS, Die Vision Constantins, in J.BLEICKEN (a cura di), Colloquium aus Anlass des 80. Geburtstages von Alfred Heuß., Kallmünz 1993, pp.143-169 = «Journal of Roman Archeology» 16, 2003, pp. 237-259; MARCONE, Pagano e cristiano cit.,pp. 65-75; E. CAVALCANTI, La croce e il monogramma di Cristo nelle narrazioni del ciclo costantiniano,in DONATI, GENTILI (a cura di), Costantino il Grande cit., pp. 44-55; N. STAUBACH, «In hoc signovinces». Wundererklärung und Wunderkritik im vormodernen Wissensdiskurs, in «FrühmittelalterlicheStudien» 43, 2009, pp. 1-52; F. BISCONTI, Il vessillo, il Cristogramma, i segni della salvezza, in SENACHIESA (a cura di), Costantino 313 d.C. cit., pp. 60-64.18 P. DE LEO, Ricerche sui falsi medioevali, I - II: «Constitutum Constantini», compilazione agiogra-

fica del sec. VII, Reggio Calabria 1974; D. MAFFEI, La donazione di Costantino nei giuristi medievali,Milano 1964; W. SETZ, Lorenzo Vallas Schrift gegen die konstantinische Schenkung. Zur Interpretationund Wirkungsgeschichte= «De falso credita et ementita Constantini donatione», Tübingen 1975; G. M.VIAN, La donazione di Costantino, Bologna 2004; J. FRIED, Donation of Constantine and «ConstitutumConstantini». The Misinterpretation of a Fiction and its original Meaning, Berlin 2007; ID., Die Konstan-tinische Schenkung, in J. FRIED, O. B. RADER (a cura di), Die Welt des Mittelalters. Erinnerungsorte einesJahrtausends, München 2011, pp. 295-311.

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grafica che essa riveste, la questione costantiniana si segnala come una delle ereditàpiù pesanti e «attive» del mondo antico, un esempio macroscopico di come certiavvenimenti dell’antichità classica non solo abbiano proiettato i loro effetti neisecoli successivi, talora in un crescendo costante di vitalità, ma si siano ripetuta-mente rigenerati fino a svolgere, attraverso mirate strumentalizzazioni, una perio-dica azione modificatrice nei confronti anche di contesti storici molto lontani dalmomento in cui essi si verificarono. Si è determinato cioè, per la questione costan-tiniana, una sorta di fenomeno di mutazione genetica del dato ereditario antico,non più bene immobile trasmesso di generazione in generazione nella sua origina-ria e immutabile consistenza, bensì patrimonio mutuato dall’antichità che assumedi epoca in epoca una propria variabile fisionomia, adattandosi a svolgere, su sug-gerimento di diversi manipolatori politico-ideologici e naturalmente anche a prezzodi stravolgimenti snaturanti, la funzione di volta in volta richiesta dalle circostanzecontingenti. In questa dimensione, l’oggettività storica (o la ricerca di essa) relativaai vari elementi della questione costantiniana può passare evidentemente in secondopiano, anzi diviene spesso posizione da combattere, là dove rischia di provocareun’alterazione dei parametri interpretativi imposti e quindi di vanificare l’uso stru-mentale che se ne intende fare. Nel concreto, i problemi storiografici connessi alla presunta scelta costantiniana

del 313 (scelta opportunistica o scelta coerente con un intimo coinvolgimento reli-gioso, visione divina o sogno demoniaco, simbolo cristiano o simbolo pagano sullabaro, rescritto di Milano esistente o inesistente, donazione costantiniana reale oleggendaria) sono oggetto di un’analisi scientifica che corre parallela, senza maiincontrarla, con un altro tipo di letteratura, il cui tema è il medesimo ma la cui naturae impostazione metodologica appaiono opposte. Mentre nella prima si registra l’an-sia di pervenire, attraverso l’indagine critica, alla soluzione dei dilemmi posti dallacarenza o dall’ambiguità delle fonti, nell’altra si procede da postulati rigidi e siseguono schemi preconcetti, ignorando l’esistenza di ipotesi alternative e forzando latestimonianza delle fonti al fine di ricondurla ai presupposti dati. Da un lato, dun-que, la normale, seria e libera indagine; dall’altro un gioco variabile di interpretazionipredeterminate, in cui Costantino, la sua scelta religiosa, il labaro, la visione, la dona-zione non costituiscono argomenti complessi di ricerca storica, ma vengono piutto-sto usati – eredità funzionale del mondo antico – come veicolo di comunicazione dimessaggi di tutt’altra natura e di modelli ideologici da diffondere nel presente.L’immagine di Costantino più diffusa in epoca medievale, ad esempio, poggia

evidentemente su un’interpretazione univoca che riprende, senza modificarla se nonmarginalmente, la tradizione accreditata dalle Storie Ecclesiastiche e dalla propagandacristiana fin dal IV secolo: scelta cristiana sincera, croce monogrammatica sulle inse-gne nella battaglia di ponte Milvio, visione notturna del caeleste signum Dei 19 e cosìvia, in una coloritura agiografica la cui funzionalità paradigmatica e legittimanterispetto al quadro politico-istituzionale medievale e al rapporto fra papato e imperosi appalesa con tutta evidenza. È pur vero, di là da ogni generalizzazione che tale

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19 LACT., De mortibus persecutorum, XLIV.

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immagine di Costantino subì ovviamente nel corso dei secoli del medioevo accen-tuazioni o appannamenti in rapporto all’evoluzione delle tensioni religiose, politi-che e ideologiche, ma senza che venissero alterati i dati di fondo che indicavano inlui il liberatore di Roma e di tutto il mondo cristiano dal giogo del paganesimo(liberator urbis - liberator orbis, secondo il tradizionale assioma definitorio)20 e ilrestauratore dell’ordine dell’impero attraverso il cristianesimo, religione di veritàe, appunto, religione di armonia sociale. Nel gioco riflesso che proiettava suCostantino e sulla sua eredità la dialettica politico-religiosa medievale tendevanotalvolta a prevalere, fermi restando i tratti forti della valutazione in positivo, opi-nioni leggermente sottovalutanti, tese a non subordinare la forza spirituale realedella chiesa alla condiscendenza protettiva e interessata del potere imperiale: siafferma così che il merito della vittoria cristiana non fu soltanto di Costantino, purispirato da Dio, ma che il trionfo del cristianesimo è da attribuire soprattutto aicristiani stessi, i quali dimostrarono una tale forza d’animo e una tale fermezzanella fede da superare le persecuzioni e da convincere il potere politico dell’inuti-lità di esse.Su un altro versante si cerca invece, in uno sforzo dialettico e retorico invero

encomiabile, di conciliare la figura senza macchia di un imperatore scelto quale stru-mento del disegno divino con le gravissime colpe che pure la tradizione storiogra-fica antica gli attribuiva, come l’uccisione del figlio, della moglie, di molti avversaripolitici, di Licinio: da un lato tali accuse vengono messe in dubbio o viene sfumatala responsabilità diretta di Costantino; dall’altra invece se ne ammette in ipotesi lafondatezza, cercando però di sminuirne la gravità, o attribuendole al residuo di ani-mus pagano che ancora sarebbe sopravvissuto in Costantino prima di ricevere il bat-tesimo, oppure giustificandole in funzione della perfidia altrui, che aveva obbligatoil pur mite Costantino a esercitare il suo dovere di governante e tutore supremodella giustizia; oppure, infine, gonfiando a dismisura le sue qualità e le sue bene-merenze in modo che, in un’immaginaria bilancia, il piatto dei meriti pesi comun-que assai di più del piatto delle colpe. Si tratteggia così un Costantino modello divirtù paterne e coniugali, nemico della violenza, esempio di giustizia, archetipo delgovernante saggio ed equilibrato e, sul piano più concreto, un Costantino autore diuna legislazione attenta a favorire gli umili, gli infelici, gli schiavi, gli orfani, ledonne, la famiglia, i chierici; un Costantino apportatore di pace, di libertà, di benes-sere, di civiltà; un Costantino che la conversione ha trasformato in cristiano osser-vante di tutti i comandamenti, rispettoso dell’autorità gerarchica ecclesiastica,nemico delle eresie, elargitore di beni alla chiesa. Un campionario di virtù scelte nona caso, ma che nel loro complesso tendono a definire fin nei caratteri secondari lafisionomia dell’imperatore e del governante cristiano ideale, al cui perfetto modellodoveva evidentemente adeguarsi, nelle intenzioni della propaganda ideologica eccle-siastica medievale, non solo l’autorità imperiale, ma ogni autorità laica di governo.Le virtù di Costantino, inoltre, dal punto di vista dell’atteggiamento e delle

provvidenze verso i sudditi e in particolare verso le classi più deboli, riflettono spe-

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20 Cfr. ad es. COLA DI RIENZO, Epistolario, Roma 1890, p. 48. In proposito L. BRACCESI, Romabimillenaria. Cesare e Pietro, Roma 1999, pp. 126-127.

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cularmente, attraverso l’azione persuasiva del messaggio propagandistico, anchequelle che devono essere le virtù del popolo cristiano, ossequioso al potere laico edecclesiastico e paziente, nell’attesa fiduciosa e convinta che l’autorità provvederàalle sue esigenze. La tradizione del Costantino cristiano di Lattanzio o di Eusebiodi Cesarea funge dunque, nel medioevo, da strumento legittimante di un potere edi un’ideologia specifici, nonché da quadro emblematico di riferimento e di soste-gno di un preciso assetto politico e sociale21. Un uso dell’eredità dell’antico e dellatradizione che, fra l’altro, si esprime secondo linee ben note proprio al mondo clas-sico greco-romano, in cui il ricorso alla tradizione (o addirittura, per dirla con Hob-sbawm, all’invenzione della tradizione) in funzione legittimante di una leadership odi una struttura di potere, e al tradizionalismo come supporto ideologico-propa-gandistico rappresenta una delle costanti della dialettica sociopolitica22.In questo senso, si può anzi dire che la tecnica del richiamo programmatico e

articolato alla tradizione rappresenta una sorta di «supereredità» trasmessa dalmondo antico alla scienza della politica delle epoche successive.

La funzionalità del modello di un Costantino cristiano rispetto alla realtà medie-vale risulta evidentemente perfetta, ma la forza e l’efficacia di alcuni schemi inter-pretativi ereditati dal mondo antico meglio si misurano ove si verifichi la loro appli-cazione in contesti all’apparenza estranei, sia per distanza cronologica, siasoprattutto per intrinseche e inassimilabili caratteristiche sociali, politiche, istitu-zionali e culturali.Tra la fine del 1911 e l’inizio del 1912 partì da Roma, dietro suggerimento di

due importanti espressioni dell’associazionismo cattolico «ufficiale» (la PrimariaAssociazione della Santa Croce e il Collegio dei Cultori dei Martiri, l’idea di cele-

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21 Le fonti eusebiana e lattanziana del rescritto sono analizzate in modo comparato in un acutosaggio di CHRISTENSEN, The So-called Edict of Milan cit. Gli aspetti giuridici del rescritto trovanoadeguata trattazione in M. AMELOTTI, Da Diocleziano a Costantino, note in tema di costituzioni imperiali,in «Studia et Documenta Historiae et Iuris» 27, 1961, pp. 241-323 = Scritti giuridici, Torino 1996,pp. 492-574, e in G. LOMBARDI, L’editto di Milano del 313 e la laicità dello Stato, in «Studia etDocumenta Historiae et Iuris» 50, 1984, pp. 1-98; ID., Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall’Edittodi Milano alla «Dignitatis humanae», Roma 1991; P. BIANCHI, «Iura-leges»: un’apparente questioneterminologica della tarda antichità. Storiografia e storia, Milano 2007; P. SINISCALCO, Le radici della laicità(I-V secolo d.C.), in «Diritto e Storia» 10, 2011-2012, relazione presentata al Colloquio internazionale“La laicità nella costruzione dell’Europa. Dualità del potere e neutralità religiosa” (Bari, 4-5 novembre2010), Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari “Aldo Moro”, Centre d’études internationalessur la romanité de l’Université de La Rochelle e Unità di ricerca “Giorgio La Pira” CNR - Universitàdi Roma “La Sapienza” = http://www.dirittoestoria.it/10/memorie/Siniscalco-Radici-laicita.htm); M.P. BACCARI, All’origine della sinfonia di sacerdotium e imperium: da Costantino a Giustiniano, ibid. =http://www.dirittoestoria.it/10/memorie/Baccari-Sinfonia-Sacerdotium-Imperium.htm.22Sull’uso del tradizionalismo nel mondo antico in funzione legittimante, S. RODA, Fuga nel privato

e nostalgia del potere nel IV sec. d.C.: nuovi accenti di un’antica ideologia, in Le trasformazioni della culturanella tarda antichità, Atti del Convegno (Catania, 27 settembre - 2 ottobre 1982), Roma 1985, pp. 95-108; M. FORLIN PATRUCCO, S. RODA, Crisi di potere ed autodifesa di classe: aspetti del tradizionalismodelle aristocrazie, in Società romana ed impero tardoantico, I: Istituzioni, ceti, economie, Roma, Bari 1986,pp. 245-272 e 671-683. Sui meccanismi sociostorici e socioculturali che determinano l’«invenzione dellatradizione», si veda E. J. HOBSBAWM, T. RANGER, L’invenzione della tradizione, Torino 1987 (1983).

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brare in forma solenne e universale la ricorrenza, nel successivo anno 1913, del XVIcentenario della promulgazione del cosiddetto editto di Milano23, il rescritto di tol-leranza del 313 d.C.)24.L’iniziativa poteva apparire quanto meno peregrina per diverse ragioni: in primo

luogo mancava una precisa tradizione celebrativa del rescritto milanese, ignorato inprecedenti occasioni centenarie; a livello di devozione popolare, inoltre, l’editto ditolleranza rivestiva allora indubbiamente scarso significato e presso le masse catto-liche doveva essere assai poco diffusa una conoscenza più che vaga e approssimativadel senso storico-religioso di quel lontano, supposto avvenimento. Eppure il suc-cesso fu a dir poco travolgente. Il Vaticano e il pontefice intervennero direttamentenella gestione e nell’organizzazione del programma delle celebrazioni: venne creatoun Consiglio Superiore, incaricato di promuovere tutte le attività e le iniziative col-legate alla commemorazione e presieduto da due membri illustri dell’aristocraziapalatina, i principi Marcantonio Colonna e Mario Chigi, sotto l’alto patrocinio delcardinale Francesco di Paola Cassetta, vescovo di Frascati25. Scrivendo a quest’ul-timo il 24 gennaio 1912, il segretario di stato, il celebre tradizionalista e antimo-dernista aristocratico spagnolo Rafael Merry del Val, affermava:

Era ben naturale che dalla Primaria Associazione della Santa Croce e dal Collegio deiCultori dei Martiri partisse l’iniziativa di una solenne ed universale commemorazionedel XVI centenario dell’Editto di Costantino, col quale la Chiesa ebbe finalmente rico-noscimento ufficiale e quella libertà e quella pace di cui fu prezzo la Croce di Cristo eil sangue di tanti Martiri. Il Santo Padre ha appreso la notizia di tale iniziativa conviva soddisfazione, ed è ben lieto che, alla vigilia di una data così memoranda, sia sortala felice idea d’invitare i cattolici tutti dell’orbe a celebrare un fatto che, precedutodalla gloriosa vittoria di Costantino su Massenzio, segnò per la Chiesa il primo di queitrionfi che numerosi quanto le persecuzioni, l’hanno accompagnata e l’accompagne-ranno fino alla fine dei secoli. E perché dette feste riescano degne del grande avveni-mento che si vuole ricordare a sedici secoli di distanza, Sua Santità ne vuole affidati il

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23 Le medesime istituzioni (Associazione della Santa Croce e Collegio dei Cultori dei Martiri),così come altre, hanno celebrato fin dall’anno scorso, 2012, con eventi artistico-culturali di varia rile-vanza e senso e con altre manifestazioni collaterali, il nuovo (XVII) centenario costantiniano(http://www.prolocosantoreste.com/NuoviFile/mailart-italiano.pdf; http://www.santiurbanoeloren-zo.org/wp-content/uploads/2010/01/Costantino.pdf; http://www.santoreste.rm.gov.it/news/eventi-iniziative/ii-iniziativa-internazionale-di-mail-art-sant%E2%80%99oreste).24 Sotto il lungo titolo Letture costantiniane, promosse dal Consiglio Superiore e dal Comitato

Romano per i festeggiamenti commemorativi del XVI centenario della promulgazione della pace dellaChiesa (a cura di A. CASAMASSA ET AL., Roma 1914), sono raccolte le conferenze tenute nel 1913presso il Palazzo della Cancelleria a Roma in occasione delle celebrazioni del 1600° anniversario delrescritto di Milano: di particolare interesse, per comprendere lo spirito e il senso dell’avvenimentosecondo il mondo cattolico, sono in tale volume la Prefazione di B. NOGARA; la Lettera di S.E.R. ilSig. Card. Raffaele Merry del Val, Segretario di Stato di S.S., a S.E.R. il Sig. Card. Francesco di PaolaCassetta, Vescovo di Frascati, nonché gli interventi di F. GROSSI GONDI, La grande vittoria diCostantino, e di O. MARUCCHI, Osservazioni storiche ed archeologiche sulle donazioni di Costantino allebasiliche romane. Di utile lettura anche la conferenza di G. TONIOLO, Problemi e ammaestramentisociali dell’età costantiniana. 25 F. VISTALLI, Il cardinale Francesco di Paola Cassetta nella sua età e nella sua opera, Bergamo 1933.

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programma e l’esecuzione ad un Consiglio Superiore, del quale invita a far parte eccel-lenti cattolici, ben noti per la sincerità della loro fede e per l’operoso loro zelo26.

Al Consiglio Superiore, formato da soli cattolici di fede esperimentata, venneaffiancato un Comitato organizzatore romano altrettanto chiuso ai laici: nei disegnidel pontefice e dei suoi diretti collaboratori, le celebrazioni del XVI centenariodovevano palesemente rappresentare, in quello specifico momento storico, un’oc-casione di esaltazione della chiesa e del cattolicesimo, dalle forti implicazioni ideo-logiche e politiche.Ne danno conferma le parole dello stesso segretario di stato nella parte conclu-

siva della citata lettera al vescovo di Frascati:

Di questo Consiglio [superiore] poi l’Augusto Pontefice affida l’alta protezioneall’Eminenza Vostra, ben persuaso che ove l’operosità dei membri che lo compongonosi svolga sotto la saggia guida di V. E., la solenne commemorazione della vittoria dellaCroce sarà per riuscire, quale appunto desidera Sua Santità, una solenne manifesta-zione di fede e un caldo appello a quanti sono cattolici a stringersi vieppiù a questoSegno Augusto in cui è per tutti salute, vita e speranza di una gloriosa risurrezione27.

L’appello del papa Pio X fu accolto dai vescovi e la parola d’ordine delle cele-brazioni si diffuse di diocesi in diocesi, in un fiorire intensissimo di molteplici mani-festazioni28.

L’eco gioliva dei festeggiamenti costantiniani, in ricorrenza del sesto decimo anniver-sario della pace, accordata ufficialmente e con imperiale magnificenza alla Chiesa, giàsi è ripercossa nel mondo civile dall’uno all’altro mare, accolta dovunque con grida digiubilo, con segni manifesti di entusiasmo, e con atti solenni di intenso fervore. Glieffetti stupendi e molteplici di questo movimento universale fra i figli della fede cat-

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26 E. GRECO, Il XVI Centenario Costantiniano e la libertà della Chiesa (313-1913), Biella 1913; D.VIRGA, Le celebrazioni dell’anno costantiniano del 1912 negli articoli pubblicati da «L’OsservatoreRomano» (1° gennaio - 31 dicembre 1912) = http://www.santiurbanoelorenzo.org/wpcontent/uploads/2010/01/Costantino.pdf.27 Lettera di S.E.R. il Sig. Card. Raffaele Merry del Val, Segretario di Stato di S.S., a S.E.R. il Sig. Card.

Francesco di Paola Cassetta, Vescovo di Frascati, in Letture costantiniane cit.; cfr. F. VISTALLI, Il card.Francesco di Paola Cassetta cit.; E. ROSA, Il card. Francesco di Paola Cassetta, in «La Civiltà Cattolica»85, 1934, 1, pp. 394-402.28 Per una panoramica sulle feste e sulle manifestazioni legate all’evento cfr. l’«Almanacco

Italiano» dell’anno 1914: http://archive.org/stream/almanaccoitalian1914floruoft/almanaccoita-lian1914floruoft_djvu.txt. In occasione delle celebrazioni del 1913 fu avviata anche l’edificazionedelle due chiese, parimenti intitolate alla Santa Croce, in via Sidoli, a Milano, e sulla via Flaminia aRoma; identici nella concezione architettonica, i due edifici sacri presentano sulla facciata un impo-nente pronao a colonne in granito con capitelli compositi reggenti un’alta architrave ove risalta unascritta in mosaico inneggiante appunto al XVI centenario costantiniano («An. Chr. MCMXIII PiusX P.M. in memor. pacis a Constantino eccl. datae Cruci SS. DD. ab edicto a. MDC»). Nella fac-ciata della chiesa romana è posto altresì un altro mosaico, opera di Biagio Biagetti, con la raffigura-zione di tre scene: al centro il Trionfo della croce, ai lati l’Editto di Milano e la Vittoria di Costantinoa Ponte Milvio: cfr. http://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00537/; C.RENDINA, Le chiese di Roma, Roma 2000, p. 79.

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tolica già si lasciano ammirare nella vastità del loro numero, nell’eccellenza della loronatura, nello splendore delle loro svariate manifestazioni.

Così si esprimeva, con accenti di ingenua retorica, monsignor Cesare Carbone,allora rettore del seminario regionale di Viterbo, uno dei tanti che, pur privi di ade-guata e specifica formazione scientifica, si cimentarono allora a scrivere sul temadel rescritto di Milano29; la natura stessa dell’operazione, del resto, incoraggiava ilproliferare di scritti che, sotto l’apparenza storiografica, nascondevano intenti squi-sitamente ed esclusivamente encomiastici. Le pagine di Carbone, tratte dal proemiodi un suo libello dal titolo L’Editto di Milano, da chi e perché?, ci aiutano a megliocomprendere, pur attraverso il velo dell’enfasi descrittiva, l’inquietante fervore deigiorni delle celebrazioni.

Sono i Vescovi i primi che, stabiliti quale anello di congiunzione tra i fedeli e ilCapo della Chiesa, hanno iniziato bellamente questo movimento di feste sontuose alricordo sedici volte secolare del glorioso Editto di Milano. […] Le diocesi tutte d’Italiae fuori offrono quotidianamente spettacolo sorprendente di cooperazione alla splendi-da riuscita delle solenni feste centenarie, che portano in sé scolpita l’impronta del-l’immortalità, per ricordare ai posteri quanto entusiasmo e quale risveglio religiososeppe destare nel nostro secolo il celeberrimo Editto di Milano. […] Roma, la maestradi ogni cosa bella e d’ogni perfetta idealità, ne ha dato solenne e maestoso esempio, ealle frequenti conferenze, e nelle accademie, e nelle visite alle catacombe, e negli invi-ti alle associazioni giovanili, e perfino nei temi assegnati da svolgere a premio, ha fattovedere da quale tenacia di propositi sia animata nel concorrere alla sontuosità deifesteggiamenti costantiniani30.

L’entusiasmo dell’apologeta viterbese trova però insospettato riscontro non solonell’abbondante produzione di contributi di analogo impianto, opera di improvvi-sati costantinologi 31, ma anche negli interventi di insigni studiosi dell’antichità (sto-

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29 C. CARBONE, L’Editto di Milano, da chi e perché? La persona - Il fatto - Il motivo, Macerata 1913.Lo scritto è di per sé un piccolo capolavoro di letteratura propagandista pseudostorica, tesa polemica-mente a combattere tutte le opinioni di coloro (protestanti, critici «atei» rancorosi, anticlericali, moder-nisti e così via) che mettevano in dubbio la religiosità di Costantino, gli eventi soprannaturali cheaccompagnarono la sua scelta, l’emanazione dell’editto come espressione soltanto della sua piena ade-sione alla fede di Cristo e non di altri intenti «mondani e particolari».30 Ibid. Il vescovo di Bologna, Giacomo Della Chiesa, futuro pontefice Benedetto XV, così a sua

volta si esprimeva per le locali celebrazioni dell’anniversario costantiniano: «L’Editto pubblicato aMilano da Costantino Magno imperatore […] rese possibile l’aperta professione del Cristianesimo espianò la via alla civiltà, figlia primogenita della religione del Nazareno. Dopo sedici secoli il RomanoPontefice offre ai popoli il modo di rinnovare la condanna degli idoli che nel decorso dei tempi son tor-nati ad avere culto nel cuore degli uomini: per mezzo di uno straordinario giubileo il Papa Pio X inculcaed agevola un’altra volta quella pubblica professione della vita cristiana che il glorioso Editto di Milanorese possibile», in «Bollettino della Diocesi di Bologna» 1913, pp. 267-268; A. SCOTTÀ, Giacomo DellaChiesa arcivescovo di Bologna (1908-1914). L’«ottimo noviziato» episcopale di papa Benedetto XV, Sove-ria Mannelli 2002, pp. 536-538.31 Per esempio A. MONACI, La visione e il labaro di Costantino, a cura del Comitato Romano delle

Feste Costantiniane, Roma 1913; A. PRESTI, Costantino e la storia: risposta critica documentata ai detrat-tori della chiesa nel XVI centenario Costantiniano, Roma 1913; E. JALLONGHI, L’editto di Milano e le sueconseguenze morali, sociali e politiche, 25 pp., estratto da «Religione e Civiltà» 4, 1914, Siena 1914.

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rici della letteratura e del cristianesimo, epigrafisti, archeologi) di matrice cattolica,che tennero nella primavera del 1913 al Palazzo della Cancelleria in Roma un ciclodi conferenze, promosso dal Consiglio Superiore e dal Comitato Romano, sulle pro-blematiche costantiniane. In quelle conferenze, pubblicate a Roma nel 1914 sottoil titolo di Letture costantiniane, personaggi autorevoli – come il gesuita e grandearcheologo ed epigrafista cristiano Felice Grossi Gondi; l’altrettanto noto archeo-logo Orazio Marucchi, l’archeologo e filologo comasco Bartolomeo Nogara; il sale-siano Paolo Ubaldi, filologo autore di studi fondamentali di letteratura cristianaantica (nonché maestro di latinisti, grecisti e cristianisti insigni come Giuseppe Laz-zati, Michele Pellegrino, Emanuele Rapisarda, Quintino Cataudella); GiuseppeToniolo, sociologo ed economista che diede un contributo fondamentale al reinse-rimento dei cattolici nella vita politica italiana superando il Non expedit – disegnanoun quadro generale in cui la scelta di Costantino, e le manifestazioni e gli effetti aessa collegati, assumono valore paradigmatico ed epocale, in quanto sanzione primae definitiva del trionfo del cristianesimo sul paganesimo e della legittimazione dellalibertà religiosa dei cristiani da parte di un potere imperiale fino allora ostile e per-secutore; l’editto di Milano esprime la riconciliazione fra stato e chiesa e si confi-gura come il risultato della confessione-espiazione da parte dell’autorità statale, che,ammessa la colpa per secoli perpetrata, cede alla superiorità morale e ideologicadella chiesa e si conforma ai suoi insegnamenti, compiendo un atto di sostanzialesubordinazione. Ma per quale ragione antichisti di fama – sul cui rigore scientifico anche di là

dalla fede e dalla militanza cattolica non è lecito dubitare, come dimostra il valoreassoluto e l’importanza di molte loro opere – si lasciarono indurre a palesi forzatureinterpretative, obbedendo in modo più o meno consapevole a esigenze politichecontingenti, che vedevano allora la chiesa e i cattolici fortemente coinvolti, ma cheapparivano molto difficilmente conciliabili con la serietà critica a cui quegli studiosierano avvezzi? Che cosa spinse un Grossi Gondi, o un Ubaldi, o un Toniolo32 acomportarsi, nella sostanza, non diversamente da un qualsiasi monsignor Carbone?Quale fu la ragione vera del grandioso apparato celebrativo del XVI centenario delrescritto di tolleranza?

Le risposte sono tutte racchiuse in una non casuale coincidenza cronologica. Il1913, come è noto, fu l’anno dei patto Gentiloni: l’anno della prima partecipazionein forze dei cattolici, con il consenso di Pio X, alle elezioni e dell’accordo elettoralefra liberali e cattolici, che consentì nelle consultazioni politiche dell’ottobre – leprime a suffragio universale maschile della storia d’Italia – ai liberali e a Giolitti dievitare la probabile sconfitta da parte delle forze socialiste, repubblicane e radicali,e ai cattolici di mandare alla Camera 28 loro diretti rappresentanti e 228 deputatiliberali (su un totale di 304 eletti di quel partito), che avevano sottoscritto il pattoproposto da Vincenzo Ottorino Gentiloni e dall’Unione Elettorale Cattolica da luipresieduta. In quella difficilissima tornata elettorale, che si celebrava in un periodo

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32 Si veda ad es. lo scritto di F. GROSSI-GONDI, La battaglia di Costantino a Saxa Rubra, a cura delComitato Romano delle Feste Costantiniane, Roma 1913.

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di profonda crisi economica e sociale in cui la disoccupazione e l’emigrazione ave-vano assunto i caratteri di vero e proprio esodo di massa, toccando proprio nel 1913il massimo storico, l’appoggio dei cattolici ai liberali fu determinante; esso offrìinfatti al vecchio partito storico, privo di una reale organizzazione popolare e di unamoderna struttura in grado di mobilitare le masse, il supporto della rete capillaredelle parrocchie e dell’associazionismo cattolico nelle sue numerose espressioni, par-ticolarmente diffuse nelle campagne; l’unico apparato di aggregazione di consenso,cioè, potenzialmente in grado allora di reggere il confronto con la rete delle sezionisocialiste. D’altra parte, l’accordo con i liberali consentiva ai cattolici di rientrareapertamente e massicciamente nell’agone politico, dopo anni di paziente prepara-zione e di intenso lavoro dietro le quinte. Ma, per convogliare tutte le forze versoquell’impegno coordinato e comune che la difficoltà del confronto elettorale esigeva,era indispensabile uno sforzo propagandistico non indifferente all’interno delmondo cattolico. Occorreva cioè giustificare quello che sarebbe apparso a livello diopinione pubblica un ribaltamento d’indirizzo rispetto alla più che quarantennalepolitica del Non expedit, e occorreva far accettare con piena adesione alle masse cat-toliche l’opportunità e la coerenza di una scelta che schierava di fatto i cattolici alfianco dei nemici giurati di ieri; una scelta che li obbligava, anzi, a lavorare per lorosulla base di una pattuizione che neppure aveva tutti i crismi dell’ufficialità, né tantomeno quelli di un accordo organico e generale, concluso con Giolitti o con altre auto-rità di governo.Non senza ragione del resto, anche dopo le elezioni e dopo il successo della stra-

tegia politica liberal-cattolica, si avvertì la necessità da parte della gerarchia eccle-siastica e dei movimenti cattolici di insistere ancora sul principio della validità dellascelta. Quasi a convincere quei cattolici che, pur avendo accolto disciplinatamentele direttive di voto, nutrivano ancora perplessità circa l’abbraccio con i liberali, siaccreditò l’idea, peraltro non priva di fondamento, di una vittoria più cattolica cheliberale. «L’Osservatore Romano» del 6 novembre 1913 sottolineava ad esempiocome i 228 candidati liberali eletti fra il primo e il secondo turno con i voti catto-lici avessero impedito l’accesso alla Camera di un centinaio fra socialisti e radicali,negando così ai partiti «sovversivi» la possibilità di ottenere la maggioranza, e con-cludeva con un perentorio invito ai liberali a non dimenticare che i cattolici orga-nizzati costituivano «un’ancora di salvezza, l’ultimo baluardo all’irrompente fiu-mana» del socialismo. Addirittura, in un’intervista concessa al «Giornale d’Italia»del giorno successivo, il conte Gentiloni delineava uno scenario politico in cui difatto il governo liberale si trovava tenuto in ostaggio dalla volontà cattolica.Ciò avveniva dopo le elezioni, ma nei mesi precedenti, quando si andava ancora

perfezionando l’intesa cattolico-liberale e si attraversava quella fase delicata in cuil’esito del gioco politico era ancora assai incerto e altissima era la posta in palio pertutti i contendenti, le celebrazioni dell’anniversario costantiniano finirono per assu-mere una dimensione e una funzione non marginali. Attraverso la stessa fittissimarete delle diocesi, delle parrocchie e delle associazioni cattoliche, lungo la qualedoveva trasmettersi il messaggio del nuovo impegno elettorale dei cattolici a fiancodei liberali contro i socialisti (cioè a fianco del vecchio avversario pentito e ravve-duto contro il nuovo, minaccioso pericolo comune), si diffondeva anche capillar-mente il messaggio celebrativo degli avvenimenti del 313 d.C., illustrati ed esaltati

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da ogni pulpito e spiegati al popolo in mille appositi corsi di predicazione. La finedell’emarginazione cristiana, l’instaurazione della pace religiosa, il preteso ricono-scimento da parte del potere imperiale delle colpe commesse contro i cristiani, lapresunta tardiva ma gloriosa riparazione attraverso la concessione della libertà diculto e il recupero dei cristiani alla politica dell’impero, la scelta definitiva e «sin-cera» di Costantino venivano proposti acriticamente come i dati di fatto incontro-vertibili e tranquillizzanti di una realtà passata che, sia pure in forme esteriormentediverse, tendeva nella sostanza a riprodursi secondo identici moduli nell’Italia gio-littiana. Gli anni 1912-1913 suggellavano infatti una nuova riconciliazione: lo statoanticlericale, «incredulo e anticristiano» secondo la celebre definizione di Pio IX,cedeva di fronte alla fermezza dei cattolici e ripristinava, facendo ammenda, la pacereligiosa; a loro volta i cattolici, verificata la sincerità del pentimento, riconosce-vano agli ex nemici la piena legittimità a rappresentare in Parlamento i loro interessie le loro convinzioni così come erano state dichiarate nei sette punti del patto Gen-tiloni, e accorrevano in loro sostegno contro l’incombente minaccia dei neopaganimaterialisti33.La sovrapposizione fra lo scenario del 1913 e quello del 313, distanti fra loro

sedici secoli ma allora proposti al popolo cattolico da una parallela e spesso conte-stuale comunicazione propagandistica, risultava dunque quasi perfetta. L’ereditàdell’antico forniva ancora una volta un modello funzionale al presente. La chiave divolta su cui l’efficacia del messaggio si reggeva era però costituita dal postulato disincerità e affidabilità della conversione in senso filocattolico del vertice dello stato,e da questo punto di vista l’impero tardoantico costantiniano costituiva un grandee incoraggiante precedente e un’incontestabile garanzia per ciò che si andava mani-festando nel panorama politico del regno liberal-borghese di Vittorio Emanuele IIIe del governo Giolitti. Per questa ragione, tornando allo specifico delle feste cen-tenarie costantiniane, violenta si scatenò l’intolleranza contro coloro che, in quelmomento così come in passato, avevano avversato un’interpretazione eccessiva-mente agiografica e integralmente «cattolica» di Costantino.Presentando il volume che raccoglieva le conferenze costantiniane di Palazzo

della Cancelleria, l’archeologo Bartolomeo Nogara, presidente della Commissionescientifico-letteraria del Comitato organizzatore romano, plaudiva al fatto che lecelebrazioni centenarie fossero divenute «non solo occasione di feste religiose e dipratiche di pietà in ogni diocesi e quasi in ogni parrocchia della cattolicità», maanche di nuove «ricerche e discussioni tra i cultori della storia civile ed ecclesia-stica, della giurisprudenza e della sociologia, dell’archeologia e delle lettere»; subitodopo però egli si scagliava con veemenza contro «l’osservatore superficiale e il gaz-zettiere politicante» che invano tentavano di «gittare, su la gran fiamma di catto-

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33 Per un inquadramento generale del periodo storico in cui si svolsero le celebrazioni del 1913, G.CAROCCI, Giolitti e l’età giolittiana. Dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale, Torino 19727, e piùspecificamente G. CANDELORO, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1974, in particolare pp. 352-369;e ora A. TORNIELLI, La fragile concordia. Stato e cattolici in centocinquant’anni di storia italiana, Milano2011, pp. 88-89. L’interpretazione cattolica dei fatti si trova ad es. in A. GROSSI GONDI, Il conte V.O. Gentiloni, Roma 1927.

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lica vita religiosa, suscitata dalle feste centenarie costantiniane, la povertà di unaamarezza settaria» e proseguiva, operando una sorta di ribaltamento semanticocirca il concetto di rigore storico:

Lo storico coscienzioso, che non si lascia imporre dal clamore di un giorno, né guardaalle gazzarre di una folla pasciuta di vento, dovrà riconoscere che le feste centenariedel 1913 han tracciato luminosamente un solco incancellabile negli animi anche piùimmemori e ignari, come indimenticabile è e sarà la data che segna il trionfo delCristianesimo sul paganesimo e la prima proclamazione della libertà dell’umanacoscienza di adorare, non più nell’ombra, ma nella luce, Dio in spirito e verità34.

Le aspre parole del Nogara furono interpretate dallo storico Giovanni Costacome rivolte anche e soprattutto a lui stesso, in quanto autore in quegli anni di

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34NOGARA, Prefazione, in Letture costantiniane cit. Di grande interesse, per inquadrare il clima poli-tico-ideologico di quelle celebrazioni, è il resoconto che delle conferenze alla Cancelleria fece il «Bol-lettino salesiano» 27, 6, del 1° giugno 1913: «ROMA - Alla Cancelleria - L’8 maggio u. s. il salesianoprof. Don Paolo Ubaldi, libero docente nella Regia Università di Torino, teneva nell’Aula Magna delpalazzo della Cancelleria in Roma una conferenza sul movimento letterario greco d’ispirazione cristiananella prima metà del quarto secolo. Vorremmo riferire almeno il sunto della dotta conferenza, dellaquale s’interessò tutta la stampa cattolica, a cominciare dall’Osservatore Romano, ma esorbiterebbedall’indole semplice del nostro periodico. Diciamo soltanto che il tema, al dire dell’Osservatore, venne“sviluppato largamente” e “illustrato con copiosa e sagace documentazione” e che “il pubblico intelli-gente e colto ha ammirato nel conferenziere la soda preparazione in questo campo di studi tropponegletto finora in Italia, ma cui è riserbato un glorioso avvenire a vantaggio della scienza e della fede”.Presiedeva l’eletta assemblea Sua Eminenza R.ma il Signor Cardinale Mariano Rampolla del Tindaro,nostro venerato Protettore; e all’Eminentissimo facevano corona S. E. R.ma Monsignor DomenicoMarinangeli, Patriarca di Alessandria d’Egitto, l’Ill.mo e Rev.mo Mons. Domenico Taccone-Gallucci,Arcivescovo titolare di Costanza di Scizia, i Rev.mi Monsignori Marini, Mercati, Stornajolo, Pascucci,Talamo, Bianchi Cagliesi; P. Rosa S. J., P. Palmieri O. S. A., il Conte Macchi, il Comm. Persichetti,il Cav. Tuccimei, il Cav. Grossi-Gondi e molte rappresentanze di Ordini Religiosi, Collegi, Istituti, eSignori e Signore. Al Testaccio. – Dal 14 al 19 aprile a S. Maria Liberatrice quasi in preparazione alpellegrinaggio che la parrocchia fece a S. Giovanni in Laterano, si tennero alcune conferenze storichepopolari, nella sala Clemson. “L’esito – scrive l’Osservatore Romano del 20 aprile – lo diciamo senzaesagerazione, fu splendido: basti dire che i buoni popolani, intervenuti a ricreare lo spirito col ricordodei trionfi della fede cristiana sulla barbarie pagana, da trecento quanti se ne contavano la prima sera,salirono a quasi mille”. Aprì la serie il prof. comm. Augusto Persichetti, che, dopo aver accennato som-mariamente alle ragioni delle Feste Costantiniane, svolse il tema: Il Cristianesimo e la caduta dell’Im-pero d’Occidente. L’illustre oratore, senza venir meno alla nobile elevatezza di concetti e di forma chelo distinguono, seppe così bene adattarsi al popolo che fu inteso da tutti. Martedì l’avv. Luigi Capaltiparlò del periodo di storia che corre Dall’Editto di Milano a Teodosio il Grande. Con eloquenza calmae persuasiva fece assai bene rilevare i metodi usati dagli anticlericali di quei tempi, non dissimili daquelli di oggi. Seguì il Dott. Mario Cingolani, che per un’ora tenne avvinto l’uditorio alla sua facon-dia, tutta vita e sentimento, spiegando le ragioni e descrivendo i fatti più salienti delle Dieci persecu-zioni. Giovedì fu la sera di Umberto Tupini: con chiarezza mirabile e slancio giovanile espose le prin-cipali differenze fra Paganesimo e Cristianesimo, e chiuse esortando a vivere integralmente la nostraFede divina. Ieri sera fu l’ultima conferenza: parlò il Dott. Egilberto Martire. Con la verve gaia edacuta che gli è propria, fece comprendere il significato dell’Editto di Costantino, e inneggiò alle gloriedella libertà cristiana. Tutti gli oratori furono ascoltati con deferenza ed applauditissimi. Ancora unavolta ci rallegriamo con i bravi Salesiani che reggono la Parrocchia e sanno così bene organizzare ciòche torna a vantaggio morale del popolo».

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alcuni misurati contributi, nei quali pure non si sottovalutavano l’importanza e lagenialità della politica religiosa di Costantino, restituendole però a una dimensionedi analisi storica laica e non esasperatamente confessionale35. Nei medesimi studiCosta si era permesso, ad esempio, di discutere il valore formale del rescritto diMilano, seppure non negando il significato storico dell’accordo scaturito dall’in-contro milanese del 313 fra Costantino e Licinio. Inoltre, egli destituiva di fonda-mento storico la visione notturna costantiniana alla vigilia di ponte Milvio e, pec-cato evidentemente ancor più grave in quel clima di postulati a priori indiscussi,avanzava forti riserve sulla perfezione di vita cristiana dell’imperatore. GiovanniCosta, insomma, e come lui qualche altro studioso non contagiato dal morbo per-nicioso delle celebrazioni, infrangeva i supporti del modello costantiniano alloraproposto urbi et orbi e ne annullava così la funzionalità politico-ideologica, per riba-dire la quale – e qui sta forse l’elemento più interessante di tutta la curiosa vicendadelle feste del XVI centenario per quanto si riferisce all’uso e alla rivitalizzazionedell’eredità dell’antico – scesero in campo gli studiosi antichisti più noti, che orga-nizzarono un’intransigente strategia di difesa dell’immagine «cristiana» di Costan-tino, basata sul recupero in toto delle argomentazioni filocostantiniane correnti inetà medievale. Sintomatico l’intervento del grande epigrafista e archeologo padreFelice Grossi Gondi, che così chiudeva la sua conferenza romana:

In un’epoca in cui si sono volute riabilitare le bieche figure di un Nerone, di unMassenzio, di un Giuliano, e perfino di un Giuda, fa sorridere la paura e il timore dicoloro che non osano difendere Costantino da una critica astiosa e partigiana. Gliaddebita questa l’uccisione del figlio e della moglie e dei due Licini. Ma quand’anchenon si potesse in nessun modo cancellare queste macchie dalla sua porpora imperiale,il che è tutt’altro che impossibile, non tocca certo alla società moderna di scagliare con-tro di lui la pietra fatale, essa che di simili delitti e in condizioni molto peggiori, sca-giona e manda spesso assoluti i rei. Degne di compianto sono certo quelle uccisioni.Ma la perfidia calunniatrice di una matrigna, la mancanza ai dati giuramenti, la pote-stà di vita e di morte che concedeva l’imperium a Costantino possono bene spiegarcicome un padre tenerissimo del suo primogenito, amantissimo della sposa, alieno pernatura da ogni ferocia lasciasse in sé prevalere la severità del giudice all’indulgenza eall’amore di padre e di sposo36.

Quindi, nel discorso di Grossi Gondi, la discolpa di Costantino cede il passoall’elenco delle sue doti e virtù, una sorta di sintesi dei temi della glorificatio costan-tiniana del 1913 che ricalca perfettamente i contorni dell’agiografia medievale delsanto Costantino:

Ad ogni modo, non è all’uomo privato che in questo XVI centenario si leva la grati-tudine del mondo cristiano. È al grande benefattore, che tolse dai ceppi tanti inno-

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35G. COSTA, La politica religiosa di Costantino il Grande, in «Rassegna Contemporanea» 6, sez. II,1913, pp. 903-925; ID., Critica e tradizione. Osservazioni sulla politica e sulla religione di Costantino,estratto da «Bilychnis. Rivista di Studi Religiosi» 3, 1914, pp. 3-23; ID., Religione e politica nell’Im-pero Romano, Torino 1923, in particolare pp. 203-212, in cui si sostengono e si ribadiscono a posterioricon lucida coerenza le ragioni dei «critici» contro i «tradizionalisti».36GROSSI-GONDI, La grande vittoria di Costantino cit.

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centi, spense i roghi, rinfoderò le spade. A lui che levò al vero Dio, a Pietro, a Paolo,ai martiri basiliche fulgenti di oro e musaici, diede essere civile al corpo della chiesa epotestà di vivere liberamente alla luce del sole; a lui, che non volle che l’augusto segnodella croce, per cui avea avuto vittoria, fosse più patibolo d’infamia; a lui finalmenteliberatore non solo di Roma ma di tutto il mondo cristiano. Liberatori Urbis, LiberatoriOrbis Christiani 37.

Analogamente, e nella stessa sede delle conferenze costantiniane, Orazio Maruc-chi tentava di dissipare ogni sospetto di opportunismo nella scelta di Costantino:

Se nella condotta religiosa di Costantino vi fu una ragione politica per il bene dell’im-pero, questa sua politica religiosa fu però guidata da un sentimento di fede, che purnon essendo ancora chiaro e perfetto fu però in lui vivo e sincero. Ad ogni modo ilmerito di aver fatto trionfare il cristianesimo non è solo di Costantino, giacché esso siaffermò in virtù dell’opera collettiva dei cristiani. Ed è certo che prescindendo anchedall’intervento divino, il merito di aver fatto cessare le persecuzioni spetta in gran parteai cristiani che furono fermi nella loro fede, spetta ai martiri e ai confessori che per tresecoli fecero stupire il mondo [...]. Ma deve riconoscersi che fu Costantino il quale perprimo comprese tutto ciò e diede il più efficace aiuto a tale felice cambiamento38.

Il cambiamento, secondo Orazio Marucchi, era giunto evidentemente attraversoil rescritto di Milano, che imponeva il cristianesimo come «la sola religione ragio-nevole contro le strane aberrazioni del politeismo». Tutto ciò era più che sufficienteper garantire l’immortalità al nome di Costantino. Ma Marucchi si spinge oltre neldiscorso: non vi è ragione, a suo parere, di negare fede al racconto della «prodigiosavisione ripetuto con giuramento solenne dallo stesso imperatore al grave storicoEusebio». Ma comunque si configurasse la visione (sogno, «immaginazione eccitatadai gravi pensieri religiosi»), essa dimostra il convincimento che Costantino avevadella verità del cristianesimo; inoltre, fu davvero Cristo a mostrarsi a Costantino,così come sempre Cristo si mostra a chi abbandona l’errore e abbraccia la verità:

Si dovrà sempre celebrare come un grande avvenimento quella chiara visione che, perdisposizione divina, il saggio imperatore aveva avuto del cristianesimo come di unareligione di verità e di ordine sociale, visione che lo determinò a concedere pace elibertà alla chiesa cristiana, a riconoscerla legalmente e ad assicurarne con sovrana lar-ghezza la tranquilla esistenza. Costantino, quantunque benemerito per tanti titoli dellaciviltà universale, commise nondimeno delle gravi colpe; né la Chiesa pure esaltando-lo ha mai disconosciuto ciò, come non ha disconosciuto, anzi ha deplorato le colpe ditanti illustri suoi figli. Ma anche su queste colpe, le quali sono avvolte ancora nel miste-ro, non avendone noi documenti che ne facciano riconoscere tutte le circostanze, dob-biamo essere cauti prima di pronunciare un giudizio; e non può sapersi fino a qualpunto egli ne fosse veramente reo. Ad ogni modo qualunque responsabilità egli abbiaavuto, ciò non prova che egli poté conciliare queste colpe con la fede cristiana, comepretendono i nemici del cristianesimo. [...] Le colpe che commise Costantino, devonoattribuirsi soltanto a ciò che ancora restava in lui del sospettoso autocrate pagano e che

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37 Ibid. 38MARUCCHI, Osservazioni storiche ed archeologiche cit.

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la nuova fede incompleta nell’animo suo non aveva ancora distrutto; devono attribuir-si a quella personalità mista di pagano e di cristiano che il battesimo non aveva tra-sformato. Al contrario però, ai princìpi del cristianesimo che egli adottò, si deve attri-buire ciò che fece di grande con la sua legislazione, quando abolì il supplizio spaven-tevole della croce ed il marchio infamante sulla fronte degli schiavi, quando mitigò lasorte di questi infelici, quando nobilitò la donna, rinforzò i vincoli della famiglia e assi-curò a tutti la pace e la libertà39.

Dio, per il Marucchi, si servì di Costantino, strumento agli inizi forse ancoraimperfetto, per portare a compimento «quell’opera meravigliosa che sotto l’insegnadel nome di Cristo cambiò la storia del mondo». Le feste del XVI centenario del-l’editto di Milano volevano appunto celebrare il disegno divino compiuto per mezzodi Costantino, allorché fu data pace e libertà al cristianesimo «e questo avveni-mento, apportatore di civiltà universale, è tanto grande che l’averne solennementecelebrato il ricordo sarà di onore perpetuo alla Chiesa, come ad altri sarà di ontaperenne l’averlo con settaria intolleranza oltraggiato».Meglio del Grossi Gondi, il Marucchi con straordinaria abilità retorica sembra

concedere dunque qualche spazio alla critica che rifiuta l’agiografia costantiniana:ma si tratta solo di un artificio, retorico appunto, che aggira o demolisce l’ostacoloper riproporre un’immagine tradizionale, eusebiana-medievale, di Costantino intermini ancor più integralistici e intolleranti, come dimostra paradossalmente pro-prio la frase conclusiva del suo intervento, là dove ci si scaglia, con singolare bou-leversement dei termini della questione, contro la settaria intolleranza di chi avevaosteggiato l’iniziativa del XVI centenario e su cui penderebbe un destino di perpe-tua vergogna. Ma ancor maggiore appare l’abilità didattica dell’archeologo romanonell’impostare il suo discorso sull’intreccio costante e consapevole fra l’esigenzadichiarata di «illustrare sempre meglio l’ambiente storico dell’epoca costantiniana,la persona stessa dell’imperatore e le sue relazioni con la Chiesa cristiana, ondesieno dissipati tanti errori e tanti pregiudizi che si hanno intorno a quel grandeavvenimento che in tutto il mondo si viene commemorando», nonché di occuparsidelle basiliche costantiniane e dei doni fatti da Costantino alla chiesa romana e di«ricavare le conseguenze che si possono dedurre dal fatto di quelle costruzioni e diquei doni cospicui riguardo al sentimento religioso che dové animare l’augustoautore», e l’esigenza non dichiarata ma egualmente cogente di rapportare il fattoantico alla realtà presente, accentuandone gli aspetti in questo senso più emblema-tici: come interpretare, ad esempio, la marcata sottolineatura del ruolo avuto dallatenacia cristiana sulla svolta in senso tollerante dell’impero, se non come un precisorichiamo al preteso cedimento liberale di fronte alla fermezza cattolica nei decennidopo Porta Pia? O l’accenno al cristianesimo come religione di ordine sociale, senon quale giustificazione della necessità di un’alleanza politica per fermare appuntoi partiti «sovversivi», nemici dell’ordine? O, ancora, l’insistenza sulla sinceritàdella scelta-conversione, se non come invito a dare fiducia alla scelta-conversione ditanti ex anticlericali che si erano impegnati con il patto Gentiloni a sostenere leistanze dei cattolici? E così si potrebbe a lungo continuare, percorrendo l’interotesto della conferenza di Orazio Marucchi.

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39 Ibid.

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Una simile impostazione, quando l’onda lunga delle celebrazioni non si eraancora esaurita, veniva ancora una volta lucidamente messa in discussione, nel feb-braio 1914, da Giovanni Costa. Riferendosi proprio ai conferenzieri delle Letturecostantiniane egli osservava:

Non nego ai miei avversari il bagaglio critico necessario alla concezione storica, mapiuttosto credo che essi subordinino il loro criticismo alla visione, immanente nel lorospirito, di un Costantino quale l’ha dipinto Eusebio. Ora io e con me tutti coloro chenon «sentono» questa figura di Costantino […] non posso subordinare il criticismo altradizionalismo e quindi assumo di fronte ai problemi che fa sorgere la raffigurazionedel Costantino tradizionale, la posizione di chi rappresenti la critica. Ma nel far ciò mipreme dichiarare che nessun altro motivo che non sia il motivo scientifico mi spinge acombattere la tradizione. Libero studioso – il che non equivale alla formula demagogi-co-massonica di libero pensatore – mi ritengo così sciolto da qualsiasi legame di impo-sizione religiosa, come alieno da qualsiasi opposizione di carattere politico, onde nellavoluta conservazione della tradizione storica costantiniana, non vedo se non un graveerrore storico. Ora che questo errore si divulghi in quei momenti che sembran fatti abella posta per creare figure storiche convenzionali, negli anniversari cioè, è cosa chea me è parsa meritevole di un’opposizione di carattere precisamente popolare40.

Pur da posizioni avverse, Grossi Gondi, Nogara, Marucchi o Costa concordano,involontariamente, su un punto: scagliandosi gli uni contro i gazzettieri politicanti,la critica astiosa, l’intolleranza settaria di chi rifiuta il Costantino tradizionale, odichiarandosi l’altro alieno da opposizione di carattere politico, essi ammettonotutti quanti, in maniera implicita, come la controversia su Costantino avesseassunto allora le caratteristiche di una vera e propria polemica politico-ideologica,che – come abbiamo visto – coinvolgeva anche chi era solito affrontare le proble-matiche del mondo antico secondo il rigore critico di una seria metodologia scien-tifica. Come già nel medioevo, in quella particolare stagione della storia d’Italiasulla Konstantinische Frage ereditata dall’antichità tardoimperiale non si discuteva,ma piuttosto ci si schierava, in un complesso e inestricabile sovrapporsi di stru-mentalizzazioni propagandistiche, di professioni di fede, di esortazioni appassio-nate, di condanne intransigenti e di scomuniche senza appello. Il XVI centenariodel rescritto di tolleranza cadde, per sorte curiosa, in un periodo in cui in Italia siriproponeva il problema della riconciliazione fra una chiesa e uno stato ostili. Conuna sapiente regia, che seppe appannare le pur enormi differenze per esaltare invecele analogie fra i due contesti storici, le celebrazioni di Costantino e del suo rescritto

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40COSTA, Critica e tradizione cit., pp. 4-5; cfr., con ancor altrettanto vigore polemico, ID., Religionee politica cit., pp. 302-303: «Con vita e intendimenti siffatti [Costantino] non ebbe giudici nei con-temporanei, ebbe detrattori feroci o adulatori smaccati; non trovò storici che lo giudicassero, ebbe bio-grafi che lo divinizzarono, panegiristi che lo idealizzarono, scrittori che ne dissimularono i difetti, chene esagerarono i meriti. L’odio e l’amore lo perseguirono anche nelle età lontane: quella che lo seguì,priva di discernimento critico e proclive alle falsificazioni di parte, lo fece il fondatore del dominio tem-porale dei papi; le altre, più critiche, sfatarono la leggenda, ma i debellati fecero di lui un campione cri-stiano, grazie all’editto di Milano e ne esagerarono la grandezza; gli altri lo trascinarono volgarmenteper le gemonie. Santificato dalla Chiesa d’Oriente e magnificato da quella d’Occidente, ebbe dagli sto-rici che tentarono assidersi arbitri in mezzo a loro, non vanità di lodi, ma gloria d’apprezzamenti».

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furono utilizzate come supporto per la svolta politica che doveva sancire il ritornomassiccio dei cattolici alla vita politica del paese e il superamento dello scontro sto-rico con lo stato liberale unitario. In un certo senso, il mondo antico aveva fornitomattoni preziosi per riparare la breccia di Porta Pia41.

Nel suo intervento del 1914 Giovanni Costa aveva colto, forse senza valutarneappieno la portata in quella prospettiva specifica, i due termini dialettici fonda-mentali riferibili all’eredità del mondo antico e all’interpretazione o al suo uso: cri-tica e tradizione42. Si tratta in sostanza di due atteggiamenti antitetici, con cui ci siè posti in passato e ci si continua talvolta anche oggi a porre rispetto a ciò che neipiù diversi campi il mondo antico ha tramandato alle epoche susseguenti. Da unlato, l’acquisizione del dato antico, cristallizzato o imbalsamato in schemi rigidi(magari, come abbiamo visto, periodicamente e strumentalmente applicati allarealtà presente), oppure additato come modello non perfettibile a cui la tradizioneha conferito un’autorità didattica paradigmatica. Dall’altro, l’analisi storico-criticadell’antichità e del patrimonio da essa offerto, senza complessi di subordinazione esenza intenti strumentalizzanti. Giovanni Costa confessava di non «sentire» lafigura di Costantino divenuta tradizionale per la chiesa: la discriminante fra tradi-zione e critica risiede appunto nel modo di accostarsi, più o meno lucido o coin-volto, all’eredità dell’antico; quelli che Costa chiamava i tradizionalisti erano allora(1913) mossi da pulsioni coinvolgenti, che imponevano loro di accettare acritica-mente linee interpretative imposte su un fatto antico e di aderirvi totalmente: nelcaso particolare, un uso politico contemporaneo di quel fatto non ammetteva l’al-

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41A riprova della contingenza e della strumentalità dell’interpretazione totalmente positiva e glo-rificante della figura e dell’opera di Costantino è forse sufficiente ricordare come, un quarto di secolodopo, Luigi Pareti esaltando l’impero fascista, «secondo impero di Roma», a suo parere evoluzione intotomigliorativa del primo impero cesaraugusteo ove il duce rappresentava la sintesi perfetta delle qua-lità e delle virtù di Cesare, di Augusto e di Costantino, così si esprimeva a proposito della politicacostantiniana: «quando ripensiamo alla mirabile conciliazione col Vaticano [ovviamente il riferimento,servilmente encomiastico per il fascismo e il suo duce, è ai Patti lateranensi, N.d.A.], è Costantino chesi riaffaccia alla nostra mente; ma con Costantino nacque anche il Cesaropapismo e poi, per ripercus-sione, il miraggio terreno della Chiesa, e il dissidio millenario di Occidente fra lo Stato e la Chiesa,composto proprio solo da Mussolini, e da Pio XI. E mentre la politica costantiniana significò la perse-cuzione di ogni altro Credo, coi nostri occhi vedemmo i prelati cattolici ed i sacerdoti di altre religionioffrire insieme l’oro alla patria, ed i sudditi musulmani dell’Impero affidare al Duce la fatidica spadadell’Islam». Mussolini dunque meglio di Cesare, meglio di Augusto, e a maggior ragione meglio di unCostantino non più quasi santo nemico dei persecutori ed esaltatore della libertà religiosa, ma fonda-tore di un deprecabile potere temporale dei papi e della chiesa nonché a sua volta feroce persecutoredei non cristiani. Cfr. L. PARETI, I due imperi. L’aquila romana. Cesare e il primo impero. Mussolini e ilsecondo impero di Roma, Catania 1938, rist. anast. Valverde (Ct), Roma 1988, pp. 246-247. Sulla figuradi Mussolini glorificato come novello Costantino in occasione della firma dei Patti lateranensi cfr. L.BRACCESI, Costantino e i Patti lateranensi, in G. BONAMENTE, F. FUSCO (a cura di), Costantino il Grandedall’antichità all’umanesimo, Atti del Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico (Macerata, 18-20dicembre 1990), Macerata 1992, pp. 203-211 = in «Studi Storici» 32, 1991, pp. 161-167 (più in gene-rale, BRACCESI, L’antichità aggredita. Memoria dell’antico e poesia del nazionalismo, Roma 1989). Si vedainoltre il Catalogo della Mostra augustea della romanità, Roma 1937, pp. 362-365; M. CAGNETTA, Anti-chisti e impero fascista, Bari 1979, pp. 60-62.42COSTA, Critica e tradizione cit.

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terazione benché minima dello schema di interpretazione tradizionale, perché ciòne avrebbe vanificato la funzionalità richiesta. Ma anche altri modi di «sentire»,cioè di percepire per così dire emotivamente il mondo antico – individuando inesso, ad esempio, momenti di espressione artistica, letteraria, filosofica o politicanon più raggiungibili e creando quindi categorie ideali da contemplare – rappre-sentano forme di tradizionalismo ricorrenti attraverso cui ci si confronta con l’an-tichità e il suo retaggio. Si può anzi rilevare come l’uso strumentale dell’ereditàindiscussa dell’antico e la contemplazione parimenti acritica di un mondo classicointeso come età di realizzazioni massime e inimitabili si siano, dal medioevo a oggi,riproposte continuamente (talora procedendo in parallelo, talora sovrapponendosi,talora addirittura identificandosi) quali facce di un tradizionalismo bifronte spessoprevalente rispetto al giudizio critico.Studiando gli usi dell’antico nell’arte italiana, Salvatore Settis ha individuato

acutamente, in riferimento specifico all’epoca medievale, tre livelli di trasmissionedell’eredità antica: a un primo e più basso (o più generale) livello si collocherebbela mera trasmissione, secondo un meccanismo puramente inerziale, di tipologie abi-tative, gesti, parole: una specie di tradizione automatica del tutto inconsapevole43.Al secondo livello si porrebbe invece la percezione oculare e il riuso occasionale deimodelli antichi: l’antico, tramandato casualmente, verrebbe cioè dapprima perce-pito in modo ancora indifferenziato e non consapevole, per essere poi più consape-volmente selezionato, non in base a canoni esemplari, ma soltanto per la sua usabi-lità in un contesto dato; in questa fase, dunque, il modello antico persisterebbe nonperché classico, vale a dire come parametro di confronto acquisito e conclamato,bensì come eredità delle generazioni precedenti, usata in quanto a disposizione,attraente per l’occhio o adatta allo scopo, indipendentemente dal fatto che si trattidi un prodotto, intero o frammentario, di una civiltà sentita nel suo insieme comemodello, cioè appunto di una civiltà classica. Soltanto al terzo livello, in una terzafase che S. Settis giudica peraltro assolutamente solidale e dipendente dalle prece-denti senza le quali non avrebbe potuto dispiegarsi in tutta la sua forza, nascerebbel’auctoritas.Il principio dell’auctoritas degli antichi, affermato nelle corti carolinge e ripreso

poi con ben maggior vigore nel XII secolo, trasformerebbe il riuso occasionale dimodelli casuali in impiego altamente selettivo, dove la scelta è orientata in base allanormatività del modello e, insieme, alla sua usabilità in un contesto dato. Norma-tività del modello e usabilità in un contesto dato sono qualità riferite, nell’analisidel Settis, all’ambito dei manufatti e della produzione artistica, ma a ben vedere dinull’altro si tratta se non della verifica – magistralmente condotta sull’arco di unadocumentazione ricchissima e probante al di là di ogni ragionevole dubbio – dellapresenza in tale ambito delle due facce del tradizionalismo, a cui prima facevamoriferimento. Auctoritas degli antichi come tradizionalismo consapevole che accre-dita al modello un valore esemplare da cui dipende la sua funzionalità, o che, al con-trario, deduce dalla flessibilità strumentale del modello la sua valenza paradigma-tica. Davvero i due elementi, come la disamina di Settis dimostra e come la

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43 SETTIS, Continuità, distanza, conoscenza cit., pp. 373-486.

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millenaria vicenda della questione costantiniana ribadisce, si compongono, scom-pongono e ricompongono fra loro in alterna gerarchia.

Ogni discorso per immagini che includa significativi elementi antichi può essere defi-nito, per opposizione al quotidiano «discorso di consumo» che si attua con l’assem-blaggio di elementi contemporanei, un «discorso di riuso» caratterizzato dalla ripeti-bilità degli elementi all’interno di un ordine sociale che si presume costante. Per con-verso, la ripetibilità (la riusabilità) dei singoli elementi ha una funzione stabilizzante,in quanto strumento sociale che implica la persistenza, da una generazione all’altra, dilinee costanti di giudizio e di valori stabili, o dati per tali. L’esistenza stessa di un«discorso di riuso» comporta (conseguenza e, insieme, presupposto) la fissazione dimeccanismi sociali di conservazione degli elementi da riusare, di legittimazione del lorovalore in quanto stabile e tendenzialmente normativo, di traduzione di ogni singoloelemento in formula adattabile ai contesti via via rinnovati44.

Il processo per cui si perviene all’auctoritas degli antichi, o se si preferisce il pro-cesso di acquisizione della consapevolezza della tradizione, si connette evidente-mente al problema della continuità fra mondo antico e medioevo, e a quello, ancorpiù complesso e delicato nelle sue implicazioni storiografiche pregnanti, della perio-dizzazione e dei trapassi, sia all’interno dell’età antica (Oriente-Grecia-Roma), siafra antichità e medioevo, fra medioevo e Rinascimento, fra Rinascimento ed etàmoderna. Com’è stato opportunamente sottolineato, ad esempio, il Rinascimentoavrebbe assunto un atteggiamento nuovo rispetto al medioevo nei confronti del-l’antichità classica, perché sarebbe divenuto consapevole della distanza storica cheseparava Greci e Romani dal mondo contemporaneo. Il medioevo, inconsapevoledella distanza storica, non pensava né guardava all’antichità come a un universoculturale compiuto in sé e gravitante attorno a un proprio peculiare centro di gra-vità: per questo avrebbe assimilato il retaggio della classicità così come una piantaassimila gli elementi del suolo e l’anidride carbonica diffusa nell’atmosfera45. IlRinascimento, al contrario, avrebbe dovuto impegnarsi fortemente per elaborareforme efficaci di conciliazione con l’antico. L’acquisizione rinascimentale delladistanza storica rispetto al mondo antico avrebbe inoltre segnato il passaggio dal-l’auctoritas alla vetustas, vale a dire da una concezione che considera il modelloantico superiore al modello presente ma unito ad esso da una linea di continuità, a

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44 Ibid., p. 484. Sul «discorso di consumo» e sul «discorso di riuso» si vedano le formulazioni, inlarga misura accolte dal Settis, di H. LAUSBERG, Elementi di retorica, Bologna 1969 (1949); cfr. L.NERI, Il ri-uso: condizione del discorso retorico, in «Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofiadell’Università degli Studi di Milano» 59, 2006, pp. 335-345.45 Sull’attitudine rinascimentale nei confronti dell’antichità rispetto all’attitudine medievale, E.

PANOFSKY, F. SAXL, Classical Mythology in Medieval Art, in «Metropolitan Museum Studies» 4, 1933,pp. 228-280, e più in generale i saggi di F. SAXL, La fede negli astri, Torino 1985 (1912-53), con impor-tante Introduzione di S. SETTIS; e C. GINZBURG, Da A. Warburg a E. H. Gombrich. Note su un pro-blema di metodo, in ID., Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino 1986 (1966), n. ed. Torino 2000,pp. 29-106. Per un ulteriore confronto: L. DELACHENAL, Spolia. Uso e reimpiego dell’antico dal III al XIVsecolo, Milano 1995; i saggi contenuti in Roma antica nel Medioevo: mito, rappresentazioni, soprav-vivenze nella ‘Respublica Christiana’ dei secoli IX-XIII, Milano 2001; C. MARITANO, Il riuso dell’antico nelPiemonte medievale, Pisa 2008.

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una concezione per cui le antichità, pur conservando appieno e addirittura taloraaccentuando il loro valore di modello, appaiono come elementi di una realtà con-clusa, compiuta e finita, non individuabile in elementi di persistenza genealogica,ma eventualmente ricostruibile frammento per frammento.Nasce impercettibilmente un nuovo modo di concepire l’antico e la sua eredità,

che passo dopo passo porterà alla formazione di un nuovo metodo storico-critico equindi alla creazione della moderna storiografia sul mondo antico, caratterizzatadal ricorso alle fonti non più soltanto letterarie e soprattutto dall’acquisitacoscienza della differenza tra la collazione delle fonti (la raccolta dei fatti) e la lorointerpretazione46. Ma guai a pensare in termini positivisti di sviluppo progressivolineare: l’impulso critico segnato dal passaggio medioevo-Rinascimento e alimen-tato da passaggi successivi non esclude – l’esempio delle celebrazioni costantinianedel 1913 costituisce in questo senso una riprova inquietante – la regressione aglischemi tradizionalisti del «discorso di riuso». D’altra parte, come ancora il Settisacutamente sottolinea,

i meccanismi sociali di conservazione degli elementi del «discorso di riuso» [...] assu-mono complessivamente la forma legittimante e stabilizzante della TRADIZIONE, laquale può assumere, fra gli altri, gli aspetti peculiarmente distinti di auctoritas e vetu-stas. L’auctoritas implica l’adozione dei modelli classici data come normativa, e insom-ma un riuso di elementi e regole in quanto fissati una volta per tutte, lungo una lineacontinua. La vetustas, invece, è la forma che assume la tradizione quando, pur ricono-scendo a determinati elementi del discorso di riuso il valore di modello, li colloca al dilà di ogni linea continua, quasi tessere di un mosaico che adorni un’altra casa in un’al-tra città47.

Lo studio del mondo antico radicalmente «altro» prodotto dall’evoluzione post-medievale dell’atteggiamento nei confronti dell’antichità, insomma, può parados-salmente incanalarsi su due strade: la prima è quella appena indicata, che ha portato

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46A. MOMIGLIANO, Ancient History and the Antiquarian, in «Journal of the Warburg and CourtauldInstitutes» 13, 3/4, 1950, pp. 285-315 (trad. it. Storia antica e antiquaria, in ID., Sui fondamenti dellastoria antica, Torino 1984, pp. 3-45). Momigliano ha scritto parole conclusive sulla nascita del nuovometodo storico e sulla creazione della storiografia moderna in vari saggi ristampati nelle due raccoltecitate, e in particolare: Genesi storica e funzione attuale del concetto di ellenismo (1935), in ID., Sui fon-damenti cit., pp. 153-184; La formazione della moderna storiografia sull’Impero romano (1936), ibid., pp.89-152; Il contributo di Gibbon al metodo storico (1954), ibid., pp. 294-311; L’eredità della filologia anticae il metodo storico (1958), ibid., pp. 70-88; Le conseguenze del rinnovamento della storia dei diritti antichi(1964), ibid., pp. 185-203; Le regole del gioco nello studio della storia antica (1974), ibid., pp. 477-486 (=ID., Storia e storiografia antica, Bologna 1987, pp. 15-24); Il posto della storiografia antica nella storiogra-fia moderna (1979), ibid., pp. 46-69. Cfr. pure A. MOMIGLIANO, Tra storia e storicismo, Pisa 1985.47 SETTIS, Continuità, distanza, conoscenza cit., p. 484. Cfr. pure ID., Il futuro del classico, Torino

2004; G. BODON, Veneranda Antiquitas. Studi sull’eredità dell’antico nella Rinascenza veneta, Studies inEarly Modern European Culture - Studi sulla cultura europea della prima età moderna, 1, Bern, Ber-lin, Bruxelles, Frankfurt am Main, New York, Oxford, Wien 2005; M. CENTANNI (a cura di), L’origi-nale assente. Introduzione allo studio della tradizione classica, Milano 2005; F. BENIGNO, N. BAZZANO,Uso e reinvenzione dell’antico nella politica di età moderna, secoli XVI-XIX, Manduria, Bari, Roma 2006;U. CARDINALE (a cura di), Essere e divenire del «Classico», Atti del Convegno internazionale (Torino-Ivrea, 21-23 ottobre 2003), Torino 2006; ID. (a cura di), Nuove chiavi per insegnare il classico, Torino2008.

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felicemente all’acquisizione del nuovo metodo storico e del rigore critico teso allaprogressiva conoscenza del passato nella sua totalità; l’altra, più subdola, è quellache – passando attraverso una sopravvalutazione dell’eredità dell’antico e delle«folgorazioni che piombano sulla trama del presente dall’esterno», cioè da un’etàlontana e conclusa ma proprio per questo suscettibile di mitizzazioni mascherate daun’abile e mistificante utilizzazione delle fonti – rischia di ripercorrere a ritrosotutto il cammino e di riproporre di fatto (pur se in vesti nuove) nient’altro che ilvecchio uso strumentale della tradizione.

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II

Messaggi di vita nelle pietre di morte: la funzione dell’epigrafiasepolcrale romana tra paganesimo e cristianesimo*

Vi sono epoche nella storia in cui il concorrere di una pluralità di speciali con-tingenze economiche, sociali, politiche e culturali, il benessere generalizzato e ilprolungarsi nelle generazioni della pace e della stabilità interna consentono di pla-care l’ansia quotidiana della sopravvivenza e di sospendere nella soddisfazione delpresente la ricerca ideologico-religiosa per un futuro migliore ante o post mortem. Siavverte in quelle epoche, e non solo o non più soltanto in contesti socioculturali eli-tari ma a livello di mentalità collettiva e di massa, una sollecitazione diffusa e appas-sionata a non ricusare la gioia del mondo, a non rinunciare alla bellezza, a prolun-gare il vitalismo giovanile contro la decadenza della vecchiaia, a rivalutare il gusto,a privilegiare il diritto di scegliere, di selezionare, di preferire, di godere; cresce efa premio su altre pulsioni la volontà di perseguire la felicità immediata nell’arcoesclusivo dell’esistenza terrena, l’unica concessa sicuramente all’uomo; si impone –come è stato detto con felice espressione1 – una sorta di «militanza della pienezzadel presente», che suona come un grande stimolo a essere esigenti verso la qualitàdella vita, a riempire hic et nunc il vuoto parmenideo lasciato dalla fine della spintapropulsiva di grandi ideologie totalizzanti o dall’impegno assorbente della lottasociale o della guerra. Nulla più, in quei contesti storici, rimanda fideisticamente, per la soddisfazione

dei desideri, a un «dopo» migliore, a un Regno dei Cieli o a una futura costituendaSocietà di Eguali; la bontà del presente appanna e rende inutile la beatitudinefutura, mentre l’esigenza di un aldilà di riparazione e riscatto delle pene sopportatein vita appare sempre più debole; la fiducia nella sopravvivenza dopo la morte nonsolo non è più certa, ma anzi vieppiù si allontana, si confonde, sfuma fino a scom-

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* Il contributo riprende considerazioni espresse sia in Corpo morto e corpo vivo nelle iscrizioni fune-rarie metriche latine, in F. HINARD (a cura di), La mort au quotidien dans le monde romain, Actes du Col-loque organisé par l'Université de Paris IV (Paris-Sorbonne, 7-9 octobre 1993), présentés par F.HINARD (†) avec la collaboration de M.-F. LAMBERT, Paris 1995, pp. 81-99, sia in Messaggi di vita nellepietre di morte: la funzione dell’epigrafia sepolcrale romana tra paganesimo e cristianesimo, in U. MAT-TIOLI (a cura di), Senectus, III: Ebraismo e Cristianesimo. La vecchiaia nell'antichità ebraica e cristiana,a cura di U. MATTIOLI (†), con la collab. di A. CACCIARI e V. NERI, Bologna 2007, pp. 787-808.1 L. RAVERA, A proprio agio, in «Il Circolo», marzo 1993, p. 50.

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parire irrimediabilmente nella fitta nebbia del crepuscolo ideologico-religioso; tuttal’attenzione e tutte le forze si indirizzano allora nell’al di qua e nel presente. I tempideideologizzati suggeriscono la scelta di un modello di vita ove la ricerca della feli-cità prima della decadenza senile e della morte fa premio su ogni altro valore e suogni altro diritto.Nuovi valori di riferimento, insomma, vengono indotti da quella che potremmo

definire una crisi etico-psicologica di crescenza, strettamente dipendente dalla per-durante stabilità politica e sociale e dalla prosperità economica. Così come il pre-valere della tendenza a ricercare in questa vita, senza alternative ultraterrene, ilmassimo della gioia è funzionale e consequenziale a periodi di crisi prolungata deiquadri ideologici di relazione: periodi in cui l’appannamento variamente motivatodi ideologie forti si coniuga peraltro con una realtà non (o non ancora) compromessada eventi laceranti e sostanzialmente integra, sia nella compagine sociale, sia nellacapacità individuale di controllo del privato.Di rado però tali momenti, come è ben chiaro agli storici, si prolungano a suffi-

cienza nel tempo, poiché essi vengono per lo più presto superati o da una revivi-scenza dei pregressi modelli di organizzazione e controllo politico, sociale, econo-mico e ideologico-culturale, o appunto – in senso involutivo – dal collasso edall’irreversibile disgregazione strutturale della società; ancor più raramente, poi,essi risultano documentabili in modo adeguato attraverso fonti di sicura fiducia esufficienti per coprire verticalmente l’intero spettro sociale.Uno di questi periodi lunghi e fortunati dal punto di vista delle opportunità d’in-

dagine è indubbiamente l’epoca compresa fra la tarda repubblica e l’alto imperoromano. In effetti, nell’arco di tempo che va dalla fine del I secolo a.C. alla sogliadel III secolo d.C. si verificarono due circostanze peculiari che caratterizzano soloe soltanto quel periodo, e su cui vale la pena di soffermarsi brevemente. In primo luogo, va sottolineata l’efficacia di quello che viene normalmente defi-

nito il processo di romanizzazione. Il processo di romanizzazione, di là da revisionismi che una moda recente –

peraltro scarsamente sostanziata da sostegni documentari e che contesta anche lacorrettezza semantica del termine – ha teso a sottovalutare, rappresenta il feno-meno (forse il più grandioso che si sia dato nella storia della civiltà umana) di ridu-zione a unità politica e omogeneità culturale di un complesso di popoli e stati vintiper lo più con la forza delle armi, ma associati poi con eccezionale rapidità e suc-cesso alle funzioni di governo fino al punto da restarne quasi cancellata la distin-zione originaria fra vincitori e vinti, sostituita gradualmente da una distinzione fraclassi sociali, al di là di ogni appartenenza etnica o geografica2.

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MESSAGGI DI VITA NELLE PIETRE DI MORTE: LA FUNZIONE DELL’EPIGRAFIA SEPOLCRALE

2 In generale cfr. M. H. CRAWFORD (a cura di), L’Impero romano e le strutture economiche e socialidelle province, Como 1986; S. GOZZOLI, Fondamenti ideali e pratica politica del processo di romanizza-zione delle province, in «Athenaeum» 65, 1987, pp. 81-108; P. DESIDERI, La romanizzazione dell’impero,in Storia di Roma, II/2: I principi e il mondo, Torino 1991, pp. 577-626; G. WOOLF, Becoming Roman.The Origins of Provincial Civilization in Gaul, Cambridge 1998; S. KEAY, N. TERRENATO (a cura di),

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L’omologazione socioculturale (oltre che politica, istituzionale e amministrativa)avviata e compiuta da Roma sull’intero territorio dell’impero si estese con sor-prendente ampiezza sia in senso geografico, sia in senso sociologico e, attraversol’efficacia unificante e omogeneizzante della lingua, del diritto, dell’impianto ammi-nistrativo cittadino, dell’urbanizzazione, dei modelli costruttivi, della doppia cit-tadinanza, determinò una fase insolitamente duratura di identità di valori di riferi-mento e di omogeneità di mentalità3. Un successo sociopolitico indubbio, e così storicamente importante che il dibat-

tito sulla romanizzazione ha finito per essere nei secoli, fino a oggi, la sede naturalesia di una presa di posizione, implicita o esplicita, sul significato dell’impero diRoma nella storia del mondo (o almeno dell’Occidente), sia, in un’ottica di tipo«comparatistico» o «analogistico», di una valutazione generale di quelli che pos-sono essere considerati i vantaggi e gli svantaggi delle formazioni politiche defini-bili come imperi multinazionali e multietnici4 (oltre all’analisi dei contemporanei

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Italy and the West. Comparative Issues in Romanization, Oxford 2001; D. KRAUSSE, «Farewell to Roma-nization?», in «Archaeological Dialogues» 8, 2, 2001, pp. 108-115; D. J. MATTINGLY, Vulgar andWeak «Romanization» or Time for a Paradigm Shift?, in «Journal of Roman Archaeology» 15, 2002, pp.536-540; ID., Being Roman: Expressing Identity in a Provincial Setting, in «Journal of Roman Archaeo-logy» 17, 2004, pp. 5-25; J. M. DAVID, La romanizzazione dell’Italia, Roma, Bari 2002 (1997); C. B.CHAMPION (a cura di), Roman Imperialism: Readings and Sources, Malden, London, Carlton 2004; L.A. CURCHIN, The Romanization of Central Spain: Complexity, Diversity, and Change in a Provincial Hin-terland, London, New York 2004; P. LE ROUX, La romanisation en question, in «Annales. HistoireSciences Sociales» 59, 2, 2004, pp. 287-311; P. MATYSZAK, The Enemies of Rome, London 2004; D.ROUSSET, La cité et son territoire dans la province d’Achaïe et la notion de «Grèce romaine», in «Anna-les. Histoire Sciences Sociales» 59, 2, 2004, pp. 363-385; J.-B. YON, La romanisation de Palmyre et desvilles de l’Euphrate, ivi, pp. 313-336; H. BOTERMANN, Wie aus Galliern Römer wurden. Leben im Römi-schen Reich, Stuttgart 2005; D. KRAUSSE, Das Phänomen Romanisierung. Antiker Vorläufer der Globa-lisierung?, in Imperium Romanum. Roms Provinzen an Neckar, Rhein und Donau, Begleitbuch zur Lan-desausstellung im Kunstgebäude Stuttgart vom 01.10.2005 bis 08.01.2006, Esslingen am Neckar2005, pp. 56-62; T. BEKKER-NIELSEN, Rome and the Black Sea Region: Domination, Romanisation,Resistance, Black Sea Studies, 5, Aarhus 2006; A. CADOTTE, La romanisation des dieux: l’interpretatioromana en Afrique du nord sous le haut-empire, Leiden 2007; AA.VV., Patria diversis gentibus una? Unitàpolitica e identità etnica nell’Italia antica, Atti del Convegno internazionale (Cividale del Friuli, 20-22settembre 2007), a cura di G. URSO, Pisa 2007; AA.VV., Aspetti e problemi della romanizzazione. Vene-tia, Histria e l’arco alpino orientale, Atti della XXXIX Settimana di Studi Aquileiesi (Aquileia-Grado,15-17 maggio 2008), a cura di G. CUSCITO, Antichità Altoadriatiche, LXVIII, Trieste 2009; L.REVELL, Roman Imperialism and Local Identities, New York 2009; N. MORLEY, The Roman Empire:Roots of Imperialism, London 2010; I. A. OLTEAN, Dacia: Landscape, Colonisation and Romanisation,London, New York 2010; S. RODA, Il modello della repubblica imperiale romana fra mondo antico emondo moderno. «Fecisti patriam diversis gentibus unam», Milano 2011.3 R. JHERING, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I, Leipzig

1866; F. SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934; C. M. WELLS, The Roman Empire,London 1984; in generale, M. DUVERGER (a cura di), Le concept d’empire, Paris 1980; DESIDERI, Laromanizzazione cit., pp. 577-628; RODA, Il modello della repubblica imperiale cit.4 W. V. HARRIS, War and Imperialism in Republican Rome, Oxford 1979; M. H. CRAWFORD (a cura

di), L’impero romano e le strutture economiche e sociali delle province, Como 1986; Storia di Roma, II,2: I princìpi e il mondo, Torino 1991; C. LEPELLEY (a cura di), Rome et l’intégration de l’Empire, 44 av.J.-C. 260 ap. J.-C., II: Approches régionales du Haut-Empire romain, Paris 1998.

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dell’impero – da Tacito5 a Flavio Giuseppe 6 a Elio Aristide7 –, si pensi soltanto,per fare pochi nomi a tutti noti, alle considerazioni di un Giusto Lipsio8, di unGibbon9, di uno Hume10, di un Montesquieu11, a un trattato fondamentale comeAuch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit di J. G. Herder12,oppure – in epoca più recente – agli inquietanti quanto lucidi parallelismi tral’impero di Roma e l’impero coloniale britannico o fra lo stato romano e quellonazista, proposti rispettivamente dal The Ancient Roman Empire and the BritishEmpire in India di James Bryce13 e dalle straordinarie Réflexions sur l’origine de

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5 TAC., Agricola, 30-32; Ann., XI, 23-24.6 JOSEPH., Bell. Iud., II, 3-5, si veda ad es. E. GABBA, L’impero romano nel discorso di Agrippa II

(Joseph., B.I., II, 345-401), in «Rivista Storica dell’Antichità» 6-7, 1976-1977, pp. 6-7, e inoltre P. E.VIDAL-NAQUET, Du bon usage de la trahison, introduction à la traduction par P. SAVINEL de La Guerredes Juifs de Flavius Josèphe, Paris 1977 (trad. it. Il buon uso del tradimento, Roma 1980); M. HADAS-LEBEL, Flavius Josèphe. Le Juif de Rome, Paris 1989; T. RAJAK, Josephus: the Historian and his Society,London 2002 (1983); P. BILDE, Flavius Josephus between Jerusalem and Rome: his Life, his Works andtheir Importance, Sheffield 1988; D. LAMOUR, Flavius Josèphe, Paris 2000; O. GUSSMANN, Das Prie-sterverständnis des Flavius Josephus, Tübingen 2008; V. VON THARAU, Bericht meiner Seele. Entwurf desFlavius Josephus über seine Gottsuche, Bruchhausen-Vilsen 2010; RODA, Il modello della repubblica impe-riale cit., pp. 53-64.7 AEL. AR., Ei)j Rw/mhn, n. XXVI, ed. B. KEIL, 1898, rist. Berlin 1958. Si veda J. OLIVER, The

Ruling Power. A Study of the Roman Empire in the Second Century after Christ through the Roman Ora-tion of Aelius Aristides, Transactions and Proceedings of the American Philosophical Society, 43, 4,Philadelphia 1953; R. KLEIN, The Romrede des Aelius Aristides, Darmstadt 1983; AEL. AR., A Roma,trad. e comm. a cura di F. FONTANELLA, intr. di P. DESIDERI, Pisa 2007; L. QUATROCELLI, Elio Ari-stide e la legittimazione greca dell’Impero di Roma, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s. 24, 2, 2007,pp. 197-210; F. FONTANELLA, The Encomium on Rome as a Response to Polybius’ Doubts about theRoman Empire, in W. V. HARRIS, B. HOLMES (a cura di), Aelius Aristides between Greece, Rome, andthe Gods, Leiden, Boston 2008, pp. 203-216; RODA, Il modello della repubblica imperiale cit., pp. 11-39.8G. LIPSIO, Admiranda, sive De magnitudine romana libri quattuor, Antwerpiae 1598. Si veda F. A.

YATES, Astraea. The Imperial Theme in the Sixteenth Century, London, Boston 1975; F. MOREAU (a curadi), Le stoïcisme au XVIe et au XVIIe siècle. Le retour des philosophies antiques à l’Âge classique, Paris 1999;G. OESTREICH, Antiker Geist und moderner Staat bei Justus Lipsius (1547-1606): der Neustoizismus alspolitische Bewegung, Göttingen 1989.9 E. GIBBON, Decline and Fall of the Roman Empire, London 1776-1788. Si veda G. GIARRIZZO,

Edward Gibbon e la cultura europea del Settecento, Napoli 1954.10 D. HUME, Opere, a cura di E. LECALDANO, E. MISTRETTA, II, Bari 1971, soprattutto il saggio del

1741, La politica può essere ridotta a scienza (in quella edizione alle pp. 411-425), e, in seguito, i saggi del1752 Sull’equilibrio di potenza (pp. 739-747) e Sulla popolosità delle nazioni antiche (pp. 782-864). 11 CH. DE SECONDAT DEMONTESQUIEU, Oeuvres complètes, a cura di R. CAILLOIS, II, Paris 1951;

cfr. soprattutto le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains e de leur décadence (1726) e illibro XXIII De l’esprit des lois (1748). 12 J. G. HERDER, Auch eine Philosopie der Geschichte der Menschheit, Leipzig 1774 (trad. it. Ancora

una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, a cura di F. VENTURI, Torino 1951), le cui con-siderazioni sono più tardi ribadite e ampliate in ID., Ideen zur Philosophie der Geschichte des Menschheit,Riga, Leipzig 1784-1791.13 J. BRYCE, The Ancient Roman Empire and the British Empire in India, in ID., Studies in History and

Jurisprudence, New York 1901 (trad. it. in Imperialismo romano e britannico, Torino 1907); si veda T.KLEINKNECHT, Imperiale und internationale Ordnung. Eine Untersuchung zum angloamerikanischenGelehrtenliberalismus am Beispiel von James Bryce (1838-1922), Göttingen 1985; F. L. VIANO, Unademocrazia imperiale: l’America di James Bryce, Firenze 2003; P. VASUNIA, Greater Rome and Greater

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l’hitlérisme di Simone Weil14 ). Sta di fatto comunque che, tra la fine della Repubblica e l’avanzato III secolo

d.C., mentalità e valori di riferimento accomunano – con rare e circoscritte ecce-zioni – i cittadini dell’impero dalle pianure pannoniche alle coste dell’Atlantico, dailimiti dei deserti africani al Mare del Nord, dagli altopiani di Siria ai confini calé-doni, senza che sia possibile distinguere individualità etniche spiccate, rilevanti spe-cificità culturali, connotati extraromani prevalenti.La seconda circostanza peculiare consiste nella singolare funzione di strumento

primario e pervasivo di comunicazione polivalente assunta, in quello stesso conte-sto storico-cronologico, dall’epigrafia. Ciò consente di disporre oggi di un’amplis-sima testimonianza diretta circa gli elementi fondanti della «carta dei valori» e delmodo di intendere, di ragionare, di sentire, di rapportarsi alla realtà individuale ecollettiva dell’uomo romano imperiale.Non occorre qui ripetere come soltanto nell’impero di Roma – non a caso spesso

definito per antonomasia «civiltà dell’epigrafia» – le iscrizioni abbiano svolto lafunzione di veicolo privilegiato di trasmissione di messaggi pubblici, o di comuni-cazioni private destinate però a un pubblico il più vasto possibile. Passarono cosìallora, attraverso lo strumento epigrafico, commemorazioni di defunti ed esalta-zioni autopropagandistiche, titolature imperiali e scansioni onorifiche di carriera,ex voto e dediche cultuali, leggi e disposizioni normative, atti pubblici e atti privaticon valore giuridico, verbali di associazioni e liste magistratuali, indicazioni viariee di servizio e insegne di bottega, termini di confine e delimitazioni di proprietà,manifesti elettorali e invettive private, diplomi militari e attribuzioni di opere pub-bliche, dichiarazioni di voto e dichiarazioni d’amore, maledizioni e sortilegi; senzacontare l’ulteriore, infinita varietà dei micromessaggi incisi, graffìti o dipinti suglioggetti di uso quotidiano15.

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Britain, in B. GOFF (a cura di), Classics and Colonialism, London 2005, pp. 38-64; J. T. SEAMAN JR., ACitizen of the World: The Life of James Bryce, London, New York 2006; G. SCATENA, Impero, nazionee democrazia nell’opera di James Bryce, Roma 2010.14 S. WEIL, Ecrits historiques et politiques, Paris 1960, soprattutto le Réflexions sur l’origine de l’hit-

lerisme, degli ultimi mesi del 1939 ma pubblicato postumo soltanto, appunto, negli Ecrits del 1960; latraduzione italiana di questo e altri contributi è in EAD., Sulla Germania totalitaria, Milano 1990; cfr.M. BROC-LAPEYRE, Simone Weil et l’histoire (Principes et méthodes appliqués à l’histoire de Rome), in G.KAHN (a cura di), Simone Weil philosophe, historienne et mystique, Paris 1978; J. HELLMAN, SimoneWeil: An Introduction to her Thought, Waterloo ONT (Canada) 1981; S. PÉTREMENT, Simone Weil. EinLeben, Leipzig 2007; R. WIMMER, Simone Weil. Person und Werk, Freiburg 2009; C. RANCÉ, SimoneWeil. Le courage de l’impossible, Paris 2009; S. BARSACQ, Simone Weil, Le ravissement de la raison, Paris2009; D. CARLIEZ, Penser la politique avec Simone Weil, Ivry-sur-Seine 2009; R. ESPOSITO, Il disposi-tivo della persona, in A. CORBINO, M. HUMBERT, G. NEGRI (a cura di), Homo, caput, persona. La co-struzione giuridica dell’identità nell’esperienza romana, Pavia 2010, pp. 49-63; E. J. DOERING, SimoneWeil and the Specter of Self-Perpetuating Force, Notre Dame IN 2010; e in generale S. WEIL, Oeuvrescomplètes, 2 voll., Paris 1988. 15 G. SUSINI, Il lapicida romano. Introduzione all’epigrafia latina, Bologna 1966 (ora in Epigraphica

Dilapidata. Scritti scelti di G. Susini, Faenza 1997, pp. 7-70); R. MCMULLEN, The Epigraphic Habit inthe Roman Empire, in «American Journal of Philology» 103, 1982, pp. 233-246; G. SUSINI, Epigrafiaromana, Roma 1982; ID., Compitare per via. Antropologia del lettore antico: meglio, del lettore romano,

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Possiamo dire, in altri termini, che nella società romana imperiale le iscrizionicostituivano il mezzo principale di diffusione della comunicazione interpersonalein tutte le forme e le modalità che allora assumeva, e che esse fungevano da tramitemediale, primario e pervasivo, fra area del privato e caduco e area del pubblico epermanente. Ciò secondo una crescita esponenziale – come ha dimostrato la cosid-detta «curva di Mrozek» ben nota agli epigrafisti latini16 – che dall’età augusteasale fino a tutto il II secolo, in non casuale corrispondenza con il trend di crescitaeconomica e di integrazione politica e sociale dell’impero.La destinazione sociale così articolata e multivalente dello strumento epigrafico

si riflette, esaltandolo, sul valore documentario che le centinaia di migliaia d’in-scrizioni latine a noi note esprimono e che si estende ai più diversi aspetti dellarealtà e della vicenda storica, offrendo tra l’altro un’informazione che si può con-siderare «veridica» nella misura in cui è garantita da un controllo sociale tantoforte, da rendere difficile e tendenzialmente controproducente ogni alterazioneprofonda dei fatti17. Certo, la straordinaria potenzialità informativa del materiale iscritto incontra

limiti oggettivi nel fatto che la documentazione si presenta oggi a noi come unmosaico fortuito e casuale dal punto di vista della quantità e della distribuzione deiritrovamenti18. Ma, se talune mancanze non si possono colmare, ugualmente le

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in «Alma Mater Studiorum» 1, 1, 1988, pp. 105-124; G. SANDERS, Perennità del messaggio epigrafico:dalla comunità tardoantica ai lettori dello studio bolognese, in Alma Mater Studiorum Saecularia Nona,Conferenze di Ateneo (Bologna, 10 ottobre 1986), Bologna 1988; S. RODA, Epigrafia latina, in L.CRACCO RUGGINI (a cura di), Storia antica. Come leggere le fonti, Bologna 1994, pp. 50-85; J. BODEL (acura di), Epigraphic Evidence. Ancient History from Inscriptions, London, New York 2001; S. GIORCELLIBERSANI, Epigrafia e storia di Roma, Roma 2004; J.-M. LASSÈRE, Manuel d’épigraphie romaine, 2 voll.,Paris 2005; M. CORBIER, Donner à voir, donner à lire. Mémoire et communication dans la Rome ancienne,Paris 2006; M. CEBEILLAC GERVASONI, M. L. CALDELLI, F. ZEVI, Epigraphie latine, Paris 2006; J.ANDREU (coord.), Fundamentos de Epigrafia Latina, Madrid 2009; A. BUONOPANE, Manuale di epigrafialatina, Roma 2009.16 S. MROZEK, A propos de la répartition chronologique des inscriptions latines dans le Haut-Empire,

in «Epigraphica» 35, 1973, pp. 113-118; ID., A propos de la répartition chronologique des inscriptionslatines dans le Haut-Empire, in «Epigraphica» 50, 1988, pp. 61-64; cfr. pure MCMULLEN, The Epi-graphic Habit cit.; ID., Frequency of Inscriptions in Roman Lydia, in «Zeitschrift für Papyrologie undEpigraphik» 65, 1986, pp. 237-238; E. MEYER, Explaining the Epigraphic Habit in the Roman Empire,in «Journal of Roman Studies» 80, 1990, pp. 74-96; I. MORRIS, Death-ritual and Social Structure inClassical Antiquity, Cambridge 1992, in particolare pp. 167-173.17 M. CORBIER, L’écriture dans l’espace public romain, in L’urbs. Espace urbain et histoire, Ier siècle

avant J.-C. - IIIe siècle après J.-C., Actes du Colloque international organisé par le Centre national de larecherche scientifique et l’Ecole française de Rome (Roma, 8-12 maggio 1985), Coll. de l’EcoleFrançaise de Rome, 98, Rome 1987, pp. 27-60; G. SUSINI, Le scritture esposte, in G. CAVALLO, P.FEDELI, A. GIARDINA (a cura di), Lo spazio letterario di Roma antica, II, Roma 1989, pp. 271-305; ID.,La scrittura e le pietre, in Storia di Roma, III, 2, Torino 1993, pp. 865-896; J. POUCET, Réflexions surl’écrit et l’écriture dans la Rome des premiers siècles, in «Latomus» 48, 1989, pp. 285-311; G. CAVALLO,Gli usi della cultura scritta nel mondo romano, in G. PUGLIESE CARRATELLI (a cura di), Princeps Urbium.Cultura e vita sociale nell’Italia romana, Milano 1991, pp. 171-254; G. ACHARD, La communication àRome, Paris 1991; CORBIER, Donner à voir, donner à lire cit.18 Sull’impiego statistico e seriale del dato epigrafico si veda G. PEREIRA MENAUT, Probleme

der globalen Betrachtung der römischen Inschriften, in «Bonner Jahrbucher» 175, 1975, pp. 141-164;

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iscrizioni rimangono fonte assolutamente privilegiata per la conoscenza della men-talità antica, tanto più in ambito romano-imperiale, ove appunto i documenti epi-grafici pagani attestano la lunga durata di un modo di pensare comune, che a suavolta legittima, in una sorta di circolo virtuoso, la seriazione, cioè l’utilizzazioneseriale delle iscrizioni e quindi l’ulteriore estensione dell’apporto documentario19.Tale discorso acquista particolare rilievo in relazione all’epigrafia funeraria, il

cui contributo, per molti versi importante, appare prezioso soprattutto al fine diricomporre un quadro attendibile, anche dal punto di vista sociologico, dell’imma-ginario collettivo romano per quanto attiene specificamente all’atteggiamento versola vita e la morte, la giovinezza e la senescenza, nonché per quanto si riferisce al rap-porto fra concretezza della realtà terrena ed eventualità di sopravvivenza post mor-tem, ovviamente nella diversa concezione prima pagana e quindi cristiana. Tantopiù che il monumento sepolcrale romano soddisfa contestualmente a una pluralitàdi funzioni: per un verso – direttamente connessa al sepolcro e indipendentementedalla sua struttura, collocazione, materia, dimensione o tipologia decorativa – vi èla duplice missione di protezione sacra dei resti mortali e di perpetuazione del nomedel defunto. In quest’ottica il testo dell’iscrizione funeraria, vero e proprio fulcroessenziale e ideologico del complesso funerario, non si limita semplicemente a iden-tificare e a esplicare la destinazione della tomba, ma trasmette il messaggio di quel-l’esistenza ormai spenta di cui aspira a essere voce prolungata nel tempo dopo lamorte e potenzialmente imperitura: la scrittura, dunque, incisa sulla pietra comeantidoto duraturo alla parata oblivio mortuorum 20, alla caducità della memoria nonsollecitata; la pietra iscritta come estremo «baluardo tangibile, inamovibile, fedeleche si erge non fra la fragilità dell’uomo e la sua sparizione fisica, ma fra l’essereumano e l’oblio»21, fra la permanenza nel ricordo terreno e la secunda mors 22, lamorte definitiva e ben più tragica della dimenticanza.Per tutta l’antichità, superata rapidamente la divisione tripartita del cosmo

omerico-esiodeo (cielo, terra, inferi), trionfa una ripartizione psicologica, secondola quale il mondo è composto da due distinti emisferi, opposti e correlati: la vita ela morte. L’angoscia umana davanti alla morte e di fronte al progressivo decaderedella vigoria fisica, subito di là dal livello istintivo di conservazione, non è – salvoche per alcuni limitatissimi ed elitari ambienti intellettuali come quelli connessiall’ascesi platonica e neoplatonica – effetto di una cattiva coscienza preoccupatadell’espiazione delle colpe commesse in vita, ma è semplicemente dettata dal desi-derio prevalente e fondamentale di continuare a esistere, a perpetuarsi in carne eossa, a vivere nel mondo nella pienezza delle proprie forze e risorse, a evitare ilpossibile e probabile nulla che succede alla decadenza e alla cessazione dell’essere.

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J. AGUILELLA ALMER ET AL., Détermination de la représentativité des inscriptions latines grace à la statisti-que inférentielle, in «Antiquités Africaines» 9, 1975, pp. 115-126; R. PERONI, Classificazione tipologica,seriazione cronologica e distribuzione geografica, in «Aquileia Nostra» 69, 1998, coll. 9-28; S. MARCHE-SINI, Seriazione ed epigrafia: l’impiego di BASP (the Bonn Archaeological Software Package) nello studio diiscrizioni, in «Archeologia e Calcolatori» 15, 2004, pp. 257-266.19 SUSINI, La scrittura e le pietre cit.20 PLIN., Ep. VI, 10, 5.21 SANDERS, Perennità cit., p. 9.22 Per la definizione di secunda mors come «morte definitiva» si veda BOETH., Cons. II, 7, 26.

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Ma poiché tale aspirazione non può alla prova dei fatti essere soddisfatta, allora cisi deve in extremum accontentare di una sopravvivenza nel nome, nel ricordo posi-tivo dei vivi e non soltanto dei parenti, degli amici, dei finitimi, ma anche di qua-lunque sconosciuto sopravvivente, il quale per caso venga a contatto e si soffermia leggere il nome e il profilo individuante del defunto affidati alla pietra tombale23.Ed è appunto soprattutto nella civiltà dell’epigrafe di Roma imperiale, in quella noman’s land estesa senza confine fra il mondo dei vivi e la «terra della dissolvenza»24dei defunti inesorabilmente e rapidamente corrosa dalla dimenticanza, che ilricordo si semina sulla pietra, cresce, tende a raggiungere il livello della formaantica più accessibile, comprensibile e concreta della sopravvivenza, quella dellamemoria terrena25. Se il suo obiettivo primario – ma come vedremo non unico – è la perpetuazione

della memoria, ecco allora che l’epigrafe funeraria pagana si sforza non certo di deli-neare realtà complesse o generali, ma al contrario di fissare i momenti di massimaimportanza della vita del morto, mantenendo costante la sintonia con l’immagina-rio collettivo dei cittadini dell’impero. Il conformismo rispetto ai valori cristallizzati e universali della società urbana

romana è – in altre parole – la chiave attorno a cui si costruisce qualsiasi elogiofunebre in grado di assicurare anche a persone del tutto anonime in vita il dirittoa una sopravvivenza, la cui durata si misurerà appunto in rapporto alla maggiore ominore efficacia nella sollecitazione del ricordo dei vivi. Fra la vox mortui, l’iscri-zione sepolcrale e la collettività dei potenziali lettori, intenzionali o casuali, s’in-treccia un colloquio che può assumere molteplici forme e contenuti, ma che nonpuò mai prescindere da almeno due ordini di esigenze: la prima è quella di indurrecomunque a un giudizio positivo sul defunto, sia esso provocato dall’enunciazionedi una brillante carriera, o dal richiamo a doti morali specchiate, o più semplice-mente dall’esposizione di un fatto, di un gesto, di un comportamento; dal lancio diuna battuta o motto di spirito; dalla declamazione di una sentenza di rassicurantevalore universale. La seconda esigenza, condizione necessaria della prima, è quellache non si operino strappi violenti o anticonformisti rispetto alle pulsioni, alle con-vinzioni e agli umori della mentalità comune nell’opulenta società cittadina altoim-periale; una società ove il benessere si estende anche ai ceti popolari non proletari,ove l’agiatezza consente occasioni generalizzate di rapida e amplissima mobilitàsociale, ove la qualità della vita viene comunque percepita positivamente, in modotale da accrescere e consolidare l’attaccamento all’esistenza terrena, pur senza chesi annullino del tutto le aree di disagio individuale e collettivo o le angosce esi-stenziali di chi non si adatta alla competitività individualista imposta dalla frene-

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23Quae fuerunt praeteritate citae testimonia, nunc de / clarantur hac scribtura postrema. Haec sunt enim/ mortis solacia, ubi continetur nom[i]nis vel generis / aeterna memoria, si legge in CIL VIII, 2756 = CLE1604, dedicata, a Lambaesi, da Aelius, tribuno della III Legio Augusta, alla moglie morta – secondo laconvinzione del marito – a causa dell’effetto malefico di una defixio. 24 Ancora SANDERS, Perennità cit., p. 5.25 SUSINI, Epigrafia romana cit., pp. 99-110; RODA, Epigrafia latina cit., pp. 210-213; LASSÈRE,

Manuel d’épigraphie cit., I, pp. 220-290; ANDREU, La epigrafia funeraria, in ID. (coord.), Fundamentosde Epigrafia Latina cit., pp. 323-364.

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sia di uno sviluppo che potremmo definire, pur con tutti i limiti dell’attualizza-zione storica, paracapitalistico.La stessa interdipendenza fra contenuti del messaggio epigrafico funerario

romano e la realtà sociale cittadina spiega anche un’altra finalità del monumento edell’epigrafe sepolcrale, che talora si somma alle funzioni di protezione del corpodel defunto e di perpetuazione della memoria: nei casi comuni in cui l’iscrizionefuneraria viene esposta a cura dello stesso destinatario quando egli è ancora in vita,il contenuto del messaggio epigrafico, fatte ovviamente salve le due esigenze impre-scindibili di cui si è detto, si amplia introducendo elementi giudicati utili alla pro-mozione sociale del dedicatario. Se si accetta, per comodità, una comune semplificazione che individua nei mes-

saggi epigrafici funerari romani tre centri di interesse principali, e cioè la vita sullaterra, la condizione sociale o etica del personaggio a cui l’iscrizione è dedicata, lasollecitazione/speranza di una sopravvivenza anche soltanto nel ricordo dei viventi,si può affermare che nelle iscrizioni incise in vita il primo di questi tre centri tendead assumere una posizione prevalente o addirittura prevaricante: l’epigrafia divienecioè strumento attivo e spregiudicato per acquisire meriti capitalizzabili in vita,mentre la sua destinazione funeraria passa in secondo piano come dato occasionalee accessorio. Accade così che un oscuro funzionario pubblico di condizione servile di un uffi-

cio fiscale di provincia, la statio della XL Galliarum del piccolo borgo di Pedona,nel distretto amministrativo delle Alpi Marittime, impieghi somme sicuramenteingenti per innalzare una stele funeraria di grande pregio e valore alla mogliedefunta, ma poi, nel testo dell’epigrafe, privilegi nettamente, sia in termini di spa-zio sia in termini di visibilità e misura delle lettere, non il ricordo della consortebensì le note relative alla carica da lui stesso rivestita e, con smaccata piaggeria, ilnome del suo capufficio26. E accade, a livelli sociali e politici assai più elevati, che l’esposizione minuziosa

della scansione di carriera miri non tanto a fissare nella memoria collettiva le posi-zioni di prestigio acquisite dal dedicatario, ma piuttosto a raccogliere consenso infunzione di ulteriori successi e dell’acquisizione di cariche, prestigio e potere ancorapiù ampi e consistenti27. Mai come in questi casi l’epigrafia appare lontana dallasuperata definizione mommseniana di Kirchhofwissenschaft, di scienza dei cimiteri:

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26 CIL V, 7852 = ILS 1854 = AE, 1992, pp. 320-324; inoltre in Supplementa Italica n.s., 13, RegioIX. Liguria. Pedona, a cura di E. CULASSOGASTALDI, G. MENNELLA, Roma 1996, p. 310. Il testo recitaD(is) M(anibus) / Victori /nae / Flaminalis / M. Tarquini // Memoris/c(onductoris) XL / Gall(iarum) ser(vus)vilic(us) / stationis Ped(onensis) / coniugi caris // simae et de se / benemerenti. Sul significato storico e socio-logico dell’iscrizione si veda S. RODA, La collezione epigrafica del Museo civico di Cuneo, in Dal territo-rio al Museo, Atti delle Giornate di studio (Cuneo, 10-11 gennaio 1981), Cuneo 1981, pp. 103-104 e107-108; G. MENNELLA, La Quadragesima Galliarum nelle Alpes Maritimae, in «Mélanges de l’Ecolefrançaise de Rome. Antiquité» 104, 1992, pp. 209-232; RODA, Epigrafia latina cit., pp. 210-213; J.CARLSEN, Vilici and Roman Estate Managers until AD 284, in «Analecta Romana Istituti Danici»,Suppl. XXIV, 1995, pp. 27-56.27 SUSINI, Epigrafia cit., pp. 116-123; per una simile funzionalità nei cursus tardoimperiali cfr. S.

RODA, Magistrature senatorie minori nel tardo impero romano, in «Studia et Documenta Historiae etIuris» 53, 1977, pp. 23-112.

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fin dal momento della progettazione e composizione, questo tipo di iscrizioni fune-rarie appare infatti pressoché totalmente rivolto a soddisfare aspirazioni del pre-sente e concepito in funzione di un futuro che si gioca ancora in vita. L’avvenire dimorte sembra, al contrario, di fatto rimosso, sotto la spinta del vitalismo prorom-pente dell’ambizione.L’elemento forte della pulsione vitale contro la morte, variamente espressa,

accomuna peraltro l’intera produzione epigrafico-funeraria pagana. Per il mondoromano precristiano l’esistenza in terra ha un valore assoluto, tale che la mortesignifica una cesura definitiva, non un semplice passaggio, come avverrà in seguitonella realtà cristiana: è una vera dissoluzione dell’essere, non la distruzione diun’apparenza. La negazione o il sostanziale disinteresse per l’aldilà che mostrano siala religione ufficiale romana, sia ideologie e filosofie prevalenti nella realtà altoim-periale, come lo stoicismo e l’epicureismo, alimentano l’opinione più diffusa, anchea livelli bassi della scala sociale, che la morte corrisponda a un sonno eterno senzarisveglio28. È pur vero che, nella confusa miscela delle credenze e delle dottrine – popolari

o elitarie – che tendevano a colmare il vuoto ideologico di una religione ufficialeinsoddisfacente ed estremamente distratta rispetto alle problematiche esistenziali eteleologiche, esistevano numerose confessioni che parlavano in modo specifico dellasopravvivenza dell’anima e del suo destino nell’aldilà, ma esse rimanevano legate apiccole sette29. Anche le immagini della beatitudine e dei Campi Elisi30, dell’im-mortalità astrale, della salita all’Empireo, proposte in sede intellettuale e poetico-letteraria colta, delineavano una sorta di paradiso di lusso, riservato agli eletti daglidèi e collocato oltre i più lontani orizzonti terrestri, mentre per la stragrande mag-gioranza dei defunti non restava che la prospettiva di finire in cenere dentroun’urna sepolcrale, dal momento che la stessa idea di una vaga sopravvivenza comepallidi simulacri nello squallore degli inferi veniva respinta come talmente inquie-tante da essere quasi peggiore del nulla31.

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28 Cfr. ad es. CIL III, 9733 = CLE 77; CIL V, 1939 = ILS 8165; CIL V, 1939 = ILS 8165 =CLE 1585 (Aquileia); quasi ovvio, in tal senso, il riferimento ad esempio a LUCR., De rer. nat. II, 991-1001, sulla decomposizione dei corpi e sul ritorno dello spirito nell’atmosfera donde è disceso; cfr. P.BOYANCÉ, La religion astrale de Platon à Ciceron, in «Revue des Etudes Greques» 65, 1952, pp. 312-350; L. ROUGIER, La religion astrale des pythagoriciens, Paris 1959; P. BOYANCÉ, Lucrèce et l’épicurei-sme, Paris 1963; M. VON ALBRECHT, Terror et pavor: politica e religione in Lucrezio, Atti del Convegno“Terror et pavor. Violenza, intimidazione, clandestinità nel mondo antico” (Cividale del Friuli, 22-24settembre 2005), Pisa 2006, pp. 231-245; D. KOSTAN, Lucrezio e la psicologia epicurea (nuova ed. rive-duta, aggiornata e ampliata di ID., Some Aspects of Epicurean Psychology, Leiden 1973), Milano 2007;M. BERETTA, F. CITTI (a cura di), Lucrezio. La natura e la scienza, Firenze 2008.29 Per esempio CIL IX, 2024 = CLE 590 (Benevento), ove si legge: Zoticus hic nomen nundum

vanumque reliquit / in cineres corpus et in aethera vita soluta est; CIL VIII, 20288 suppl. = CLE 1834:… nam meum ad caeli] transivit spi[ritus astra…; CIL III, 6384 = CLE 1206 (Salona): … corpus habetcineres, animam sacer abstulit aër.30 Cfr. ad es. CIL VI, 9437 = CLE 403; CIL VI, 10097 = CLE 1111 (Roma).31 Ad esempio CLE 2071 (Thimgad): … speravi do[lor heu vitam producere longam / nil mihi post]

finem est: nil volo, nil cupio; CIL XII, 5270 = CLE 242 (Narbonne): Hospitium tibi hoc. Invitus venio.Veniendum est tamen.

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Si può affermare, insomma, che prima della diffusione capillare del cristiane-simo32 nessuna dottrina di generale risonanza insegnava che ci fosse nella morte nul-l’altro che un cadavere in rapida decomposizione, che accelerava e concludeva ine-sorabilmente e ineluttabilmente il degrado iniziato nella vecchiaia. S’innesca di quiun meccanismo psicologico ancipite, che oscilla fra gli estremi della disperazioneper la non sopravvivenza (tanto più dovendo rinunciare a una qualità di vita gene-ralmente e diffusamente apprezzabile) da un lato, e dall’altro dell’esorcizzazione oaddirittura del rifiuto della morte, attraverso modi diversi e personali di esaltazionevitalistica.L’accesso più diretto e sicuro a questo universo mentale, singolare e affasci-

nante, ci è consentito appunto dall’epigrafia funeraria e, più specificamente, dalcorpus degli epitaffi in versi33: un complesso di qualche migliaio di testi iscritti,

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32 Sul nuovo atteggiamento cristiano verso la morte e l’aldilà, così come appare rispecchiato nelmutamento formale e contenutistico dell’epigrafia funeraria cristiana rispetto a quella pagana, si vedain generale C. PIETRI, La mort en Occident dans l’épigraphie latine. De l’épigraphie païenne à l’épithaphechrétienne, 3e-6e siècles, in «La Maison-Dieu» 144, 1980, pp. 25-48; ID., Grabinschrift, in Reallexikonfür Antike und Christentum, XII, Stuttgart 1983, coll. 514-590; ID., Le temps chrétien de la fin de l’an-tiquité au Moyen-Âge. III-XIII siècles, in Le temps chrétien de la fin de l’antiquité au Moyen-Âge. III-XIII siè-cles, Actes du Colloque international du CNRS (Paris, 9-12 mars 1981, n. 604), Paris 1984, pp. 63-97; ID., Christiana tempora: une nouvelle image de l’homme, in «Cristianesimo nella storia» 6, 1985,pp. 221-243; inoltre J. JANSSENS, Vita e morte del cristiano negli epitaffi di Roma anteriori al VI secolo,Roma 1981; C. CARLETTI, «Epigrafia cristiana», «epigrafia dei cristiani»: alle origini della terza età del-l’epigrafia, in A. DONATI (a cura di), La terza età dell’epigrafia, Atti del Colloquio AIEGL-Borghesi(Bologna, 9-11 ottobre 1986), Faenza 1988, pp. 115-136; A. SARTORI, Formularii funerarii cristiani; latradizione innovata, ibid., pp. 159-168; G. SANDERS, Lapides memores. Païens et chrétiens face à la mort:le témoignage de l’épigraphie, Faïence 1991; N. CRINITI, Parole di pietra; morte e memoria nell’Italiaantica, in «Ager Veleias» 2, 7, 2007 = http://www.veleia.it/download/allegati/fn000208.pdf; L.MONTANINI, Le donne romane e la morte, in «Ager Veleias» 4, 12, 2009 = http://www.veleia.it/down-load/allegati/fn000149.pdf; N. CRINITI, «Memoria mortuorum» nel Mediterraneo antico, in «AgerVeleias» 6, 4, 2011 = http://www.veleia.it/download/allegati/fn000292.pdf; molto utile anche la con-sultazione di N. CRINITI, Mors antiqua: bibliografia sulla morte e il morire a Roma, in «Ager Veleias» 5,10, 2010 = http://www.veleia.it/download/allegati/fn000298.pdf (ultimo aggiornamento di talebibliografia online: 30 settembre 2012).33 Si veda ad es. D. PIKAUS, Levensbeschouwing en milieu in de latijnse metrische inscripties, Brussel

1978; P. CUGUSI, Aspetti letterari dei «Carmina Latina Epigraphica», Bologna 1985; P. COLAFRANCE-SCO, M. MASSARO (a cura di), Concordanze dei Carmina Latina Epigraphica, con la collab. di M. L.RICCI, Bari 1986; J. PRIEUR, La mort dans l’antiquité romaine, Rennes 1986; F. HINARD (dir.), La mort,les morts et l’au-delà dans le monde romain, Actes du Colloque (Caen, 20-22 novembre 1985), Caen1987; M. L. FELE ET AL. (a cura di), Concordantiae in Carmina Latina Epigraphica, Hildesheim 1988;M. R. MASTIDORO, Concordanza dei Carmina Latina Epigraphica compresi nella silloge di J. W. Zarker,Amsterdam 1991; J. M. C. TOYNBEE, Morte e sepoltura nel mondo romano, Roma 1993; HINARD (acura di), La mort au quotidien dans le monde romain cit.; C. DE FILIPPIS CAPPAI, «Imago mortis».L’uomo romano e la morte, Napoli 1997; N. CRINITI (a cura di), «Lege nunc, viator…». Vita e morte neiCarmina Latina Epigraphica della Padania centrale, Parma 1998; E. WOLFF, La poésie funéraire épi-graphique à Rome, Rennes 2000; R. HERNÁNDEZ PEREZ, Poesia latina sepulcral de la Hispania Romana:estudio de los topicos y sus formulaciones, Valencia 2001; P. CUGUSI, Carmina Latina Epigraphica e novel-lismo: cultura di centro e cultura di provincia. Contenuti e metodologia di ricerca, in «Materiali e discus-sioni per l’analisi dei testi classici» 53, 2004, pp. 125-172; M. T. SBLENDORIO CUGUSI, L’uso stilisticodei componenti nominali nei Carmina Latina Epigraphica, Bari 2005; C. ARIAS ABELLÁN, Notas sobre elléxico de los Carmina Latina Epigraphica, in S. KISS ET AL. (a cura di), Latin et Langues Romanes, Tübin-

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distribuiti uniformemente nel territorio dell’impero, che è espressione dei piùdiversi ambiti sociali (dagli schiavi all’aristocrazia senatoria) e che assolve compitidi comunicazione assai più ampi e articolati, sia in relazione ai contenuti sia in rela-zione alla qualità dei messaggi trasmessi, rispetto alla comune epigrafia sepolcralein prosa.Accanto ai dati individuanti (onomastica, interrelazioni personali, indicazioni

biometriche, mestieri, funzioni o scansioni di carriera, eventuali motivazioni o pre-cisazioni dell’offerta) di dedicanti e di dedicatari, comuni a entrambe le tipologieepigrafiche, nelle iscrizioni metriche si aprono spazi consistenti per un colloquiodiretto, prevalentemente esplicito e solo in rari casi affidato al meccanismo dellatrasmissione simbolica o subliminale, tra il defunto e coloro che transitano davantialla tomba e all’epitaffio34. La scelta, economicamente assai onerosa eppure sostenuta anche da individui di

non elevata condizione, di farsi incidere una pur breve epigrafe metrica in luogodella consueta e stereotipa iscrizione funeraria in prosa si giustifica, anzi, propriocon la pressante esigenza di attivare questa sorta di dialogo estremo con la colletti-vità dei potenziali lettori. Un dialogo che, seppure variamente strutturato e artico-lato, finisce molto spesso per assumere, in forma diretta o mediata, il significatoasseverativo di un apoftegma, di un principio assiomatico con cui si proclama l’es-senza totalmente negativa della morte a fronte dell’essenza positiva di una vita ter-rena vissuta nella felicità e nella compiutezza dei valori.Si coglie dunque, in primo luogo, nei versi che negli epitaffi metrici accompa-

gnano dediche, nomi e biometrie, il senso della definitività della morte: Ulteriusnihil est morte neque utilius («Non c’è nulla oltre la morte, nulla è più utile»),

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gen 2005, pp. 243-252 (con ampia bibliografia); P. KRUSCHWITZ, Die metrischen Inschriften der römi-schen Republik, Berlin 2007 (anche in questo caso con utili ragguagli bibliografici, non riferiti soltantoallo specifico dell’epigrafia metrica repubblicana); W. M. HOPE, Death in Ancient Rome, New York2007; P. CUGUSI, Rilettura di Carmina Latina Epigraphica vecchi e nuovi, II: Pompeiana, problemi testuali,formule, temi, rapporto con Virgilio e Catullo, in «Bollettino di Studi Latini» 40, 2010, pp. 532-560, ein generale la già ricordata rassegna di CRINITI, Mors antiqua cit., e, inoltre, ID., Il «visibile parlare»: pre-cedenti classici della «memoria» e della morte nel mondo occidentale, in A. SETTI, «Tu che ti soffermi eleggi…». Il cimitero della Villetta e le sue «memoriae» nella Parma di Maria Luigia, Parma 2010, pp. 11-53; ID.,Monumenti, iscrizioni e luoghi di sepoltura nel mondo occidentale: bibliografia storica recente, ibid.,pp. 303-318; ID., «Mors moderna»: bibliografia orientativa sulla morte e il morire nel mondo occidentale,in «Ager Veleias» 6, 1, 2011 = http://www.veleia.it/download/allegati/fn000291.pdf; ID., «Memoriamortuorum» cit.

34 Come è noto, infiniti sono i modi e le forme con cui nell’epigrafia sepolcrale metrica il defuntocerca di attirare l’attenzione del viandante, lo invita a soffermarsi e tenta di avviare un colloquio conlui: si veda l’esplicito CIL XI, 4010 = CLE 120 (Capena): Eus tu, viator, veni hoc et quiesce pusilu. /Innuis et negitas? Tamen hoc redeudus tibi («Ehilà, passante, vieni qui e soffermati per un po’. Fai cennodi no e ti rifiuti? In ogni caso tu dovrai ritornare qui». Traduzione dell’autore). Cfr. M. SILVESTRINI,M. MASSANO, L’epigrafe metrica di Montemilone, in M. PANI (a cura di), Epigrafia e territorio. Politica eSocietà. Temi di antichità romane, V, Bari 1999, pp. 160-178, in particolare p. 176, nota 65), e CIL XI,6243 (Fano): Viator, viator: quod tu es, ego fui: quod nunc sum, et tu eris («Viandante, viandante: quelche tu sei anch’io fui: quel che sono ora, anche tu sarai») e poi ancora, a titolo esemplificativo, CIL V,4905 = CLE 982; CIL XII, 1027 = VI, 9545 = CLE 74 (via Appia); CIL III, 9733 = CLE 77 (Trilj,Dalmazia); CIL VI, 5767 = CLE 1101 (tra la via Appia e la via Latina); CIL IX, 2128 = CLE 83(Benevento); CIL XI, 5357 = CLE 1098 (Spello); CIL X, 6616 = CLE 127 (Velletri).

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afferma Caius Minucius Chrestus, liberto delle prealpi bresciane35, mentre da unalapide fatta incidire a Roma da L. Scaterius Amethystus per adempiere alla volontàtestamentaria del congiunto Scaterius Celer sale l’invito a riflettere per l’occasio-nale viandante: Nihil sumus et fuimus mortales. Respice, lector, / in nihil ab nihiloquam cito recidimus («Non siamo niente e siamo stati mortali. Rifletti bene, tu chestai leggendo: nel nulla dal nulla ricadiamo con straordinaria rapidità»)36. Disperadel futuro dopo la morte L. Nomerius Victorinu(s) Marsus, milite territoriale a Reg-gio: Credo certe ne cras («Sono sicuro che non c’è futuro»)37, e Alexander, unresponsabile di latifondo della Cisalpina orientale, dopo aver rivolto l’estremosaluto alla moglie [Coniugi kar(issimae)] e un augurio a chi sosta davanti al tumulo,esclama in una sorta di climax nichilista: Primitiva haue: et tu quisquis es uale. Nonfueram, non sum, nescio, non ad me pertinet («Addio, Primitiva: e salute a te chiun-que tu sia. Non sono stato, non esisto, non ne so niente, non mi interessaniente»)38. Un colto personaggio dell’aristocrazia locale, L. Annius Octavius Vale-rianus, dal suo sarcofago nel sepolcro trovato a Casalrotondo sulla via Appia iro-nizza, con accenti tratti dalla poesia ellenistica greca, sulla sfortuna della morte:Evasi, effugi. Spes et Fortuna valete, / nil mihi vobiscum est, ludificate alios («Sonoscappato, sono sfuggito. Salve a voi, Speranza e Fortuna, non ho più niente a chefare con voi, prendete in giro qualcun altro») 39.Ancora, in una dedica collettiva, sotto la contraddittoria e apparentemente iro-

nica rubrica vitai consolat[io] («consolazione della vita»), si certifica l’impossibilitàdi rispondere agli interrogativi esistenziali (Quid sumus aut loquimur, vita est quiddeni[que nostra?] / Vel modo nobiscum vixit homo nunc homo no[n est] …Quid quasiiam vita est? Non est quod quaerere cu[res]) e si constata come dopo la morte deldefunto stat lapis et nomen tantum, vestigia nulla 40. Il dramma della morte innescatalora una rabbia furibonda: un africano, in visita nel Nord Italia, viene colto damorte improvvisa nella terra straniera; il lungo testo della sua iscrizione funerariaè tutto un’invettiva contro la maledetta e odiosa terra che si è appropriata del suocorpo e contro il destino tanto cinico e beffardo che l’ha fatto morire lontano daisuoi, imprigionandolo materialmente sul suolo di un luogo odioso rispetto al natio

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35 CIL V, 4654 = CLE 1493. Questa e le altre traduzioni riportate in seguito sono, salvo diversaindicazione, di chi scrive.36 CIL VI, 26003 = CLE 1495.37 CIL VI, 23003.38 CIL V, 1939 = ILS 8165 = CLE 1585 (Aquileia).39 CIL VI, 11743 = CLE 1498 (via Appia); riprende il primo e il settimo verso dell’epigramma

greco Anthologia Graeca, IX, 134 (ed. Heinemann, London 1927, vol. III, p. 68). Sul connubio For-tuna-Spes cfr. M. DE FINO, Gli Aquilini di Ostia e la Spes, in M. PANI (a cura di), Epigrafia e territorio.Politica e Società. Temi di antichità romane, IV, Bari 1996, pp. 31-50, in particolare pp. 42-45; CRINITI,«Memoria mortuorum» cit., pp. 6-7.40 CIL VI, 22215 e Add., p. 3527 = CLE 801 (Roma). («Che cosa siamo o di che discorriamo, alla

fin fine che cosa è la nostra vita? Fino a poco fa un uomo visse con noi, ora quell’uomo non c’è più.Rimane soltanto una pietra e un nome e nessun’altra vestigia. E dunque che cosa è in sostanza la nostravita? Non vale la pena che ti preoccupi di chiedertelo»). L’epigrafe è dedicata da un liberto a tre suoiliberti, esempio fra i tanti dei frenetici meccanismi di mobilità intragenerazionale che connotavano lasocietà romana imperiale.

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paese41. Un ricco sacerdote e patrono del distretto delle Alpi Marittime se laprende, invece, con la miseria degli uomini e con il fato insensibile che sembragodere nel mietere letteralmente le esistenze di coloro che vorrebbero, e probabil-mente per giovane età dovrebbero, ancora vivere, mentre sadicamente mantiene invita coloro che – possiamo presumere afflitti da mille pene fisiche e morali – prefe-rirebbero morire42.Un solo spiraglio di sopravvivenza si apre nella tragedia del decesso: il nome

inciso sulla pietra è l’unico incerto vestigium dell’esistenza, ma è pur sempre unatraccia, un segno consegnato ai vivi perché perpetuino la memoria del morto. Quan-documque igitur vitam mea fata reposcent / et breve in exiguo marmore nomen ero 43,recitava Properzio rivolto a Mecenate: ridotto a un semplice nome, l’uomo affidase stesso alla perennità della pietra. Il terrore di svanire, di dissolversi due volte, nel corpo e nella memoria, si esor-

cizza parzialmente affidando alle parole iscritte una comunicazione durevole, cheripete dopo la morte, come in un’eco tendenzialmente perpetua, la voce e il pen-siero del morto. Ma se la morte è il limite definitivo, l’atto finale di un inesorabile processo di

consunzione, la concreta realizzazione, nel microcrosmo dell’individuo, del trionfodel male, appare ovvio che un giudizio non positivo si estenda anche alla vecchiaia,a quel momento dell’esistenza cioè che anticipa la morte e che, peggio ancora,denuncia in corpore vili i sintomi progressivi sempre più chiari e tangibili della cor-ruzione, del declino, della degenarazione, del disfacimento, della perdita del con-trollo e della padronanza di sé e della propria funzionalità vitale. È pur vero cheesiste nel mondo romano, ed è a tutti ben conosciuta, una concezione «alta» dellavecchiaia, intesa come stadio della vita sereno, da accettare e vivere con pacata ras-segnazione: se noi ci accostiamo a un’opera celeberrima come il ciceroniano CatoMaior de senectute, accanto all’elencazione degli aspetti negativi della vecchiaia (lasenectus distoglie l’uomo dalla vita attiva; lo strappa dalle abituali occupazioni44;indebolisce la memoria45; toglie le forze rendendo il corpo debole e incerto46;esclude dalle principali gioie della vita e cioè dai piaceri del sesso, della passione, delbanchetto, del gioco47, avvicina alla morte, che diviene non più lontana eventualitàma realtà incombente e prossima48) troviamo un’altrettanto puntuale e sinotticaproposizione elementi invece vantaggiosi (l’attività pubblica può essere svolta, più

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41 CIL V, 1703 = CLE 2199: Hic iacet Restitutus peleger in pace fidelis. / Ex Africa venit ut istamurbem videret. / Hec invisa tellus istum voluit corpus habere. / Hic quo natus fuerat, optans erat illo reverti./ Id magis crudelius, ut nullum suorumque videret. / Invenerat satis amplius quam suos ipse parentes. / Neciam erat exter, sicut provenit ut esset ab ipsis. / Sed quo fata vocant, nullus resistere possit. / Huic sodaliciiMeiorensium contra votum fecerunt. 42 CIL V, 7917 = CLE 404: Miseros homines! Vivont qui vivere nolunt, / vivere qui debent, fato

moriuntur acerbo.43 PROP. II, 1, vv. 71-72.44 CIC., Cato VI, 15 sgg. 45 Ibid., VII, 21 sgg.46 Ibid., XI, 34 sgg.47 Ibid., XII, 39 sgg.48 Ibid., XIX, 66 sgg.

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proficuamente, anche da vecchi; per le attività dei vecchi non serve la forza fisicama la forza spirituale; la memoria non incide sulla maggior parte delle disposizioninaturali, sull’entusiamo e sull’alacrità, che possono rimanere intatti; la vecchiaialibera finalmente l’uomo dalla schiavitù del sesso; la morte non deve far paura, è unritorno alle origini e così via). Tale proposizione, che in ogni caso non arriva anegare le oggettive privazioni della vecchiaia, ma invita semmai a sublimarle in unnuovo ordine alternativo e compensatorio di azioni/sensazioni positive, appare tut-tavia confinata entro i ristretti limiti di una filosofia e di un’ideologia di élite. Ilmessaggio epigrafico, come voce della normalità quotidiana, trasmette tutt’altraconvinzione. La gente comune, in altri termini, non era per nulla convinta cheinvecchiare fosse un bene: in un mondo nel quale l’aspettiva di vita era ancora tuttosommato piuttosto bassa, l’invecchiamento avrebbe potuto essere considerato unaconquista soltanto se la scienza medica e la farmacologia fossero state in grado dilenire le sofferenze del decadimento corporeo e di rallentare il processo di debilita-zione fisica della senescenza49. Gli acciacchi della vecchiaia fanno paura sul pianomateriale come torture alle quali non si può sfuggire, ma fanno ancor più paura sulpiano psicologico come anticamera percettibile del male della morte e della sua defi-nitività senza prospettive. In queste condizioni, una pesante valenza negativa acco-muna la morte e la vecchiaia, ma mentre alla tragedia della prima è impossibile sfug-gire, al dramma della seconda è auspicabile che ci si possa sottrarre: se quindi lamorte può essere intempestiva perché strappa le vite anche al limitare della gio-ventù50, è pur vero che chi ha raggiunto un’età elevata considera la propria soprav-vivenza un insulto della sorte non diverso da quello costituito da un precoce tra-passo51, tanto più che una lunga vita, oltre ai malanni dell’età, porta con sé ildramma di veder morire le persone che si amano52; e perciò i vecchi, salvo rare ecce-zioni, invocano la morte53. Talora addirittura, come fa in una pietra padovana lanon ancora ventenne Claudia Toreuma, ci si consola per l’immatura dipartita poi-ché la stagione sulla terra è stata molto breve, ma molto felice, e perché morendosi sfugge appunto al crimen, longa senecta, tuum 54; una lunga vecchiaia corrisponde

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49 Sulla durata media della vita a Roma e sulle indagini demografiche possibili su base epigraficacfr. ad es. A. R. BURN, Hic breve vivitur. A Study of the Expectation of Life in the Roman Empire, in«Past and Present» 55, 1952-1953, pp. 2-31; L. MORETTI, Statistica demografica ed epigrafia: duratamedia della vita in Roma imperiale, in «Epigraphica» 21, 1959, pp. 60-78; K. HOPKINS, On the Pro-bable Age Strucure of the Roman Population, in «Population Studies» 20, 1966-1967, pp. 245-264; I.KAJANTO, On the Problem of the Average Duration of Life in the Roman Empire, in «Acta AcademiaeScientiarum Fennicae» 153, 1968, pp. 1-72; W. SUDER, L’utilizzazione delle iscrizioni sepolcraliromane nelle ricerche demografiche, in «Rivista Storica dell’Antichità» 5, 1975, pp. 217-228; T.PARKIN, Roman Demography and Society, Baltimore 1992; R. SALLER, Patriarchy, Property and Deathin the Roman Family, Cambridge 1994; R. BAGNALL, B. FRIER, The Demography of Roman Egypt,Cambridge 1994. 50 Cfr. ad es. CIL VI, 28047 = CLE 1128; CIL VIII, 9048 = CLE 1610.51 CIL VI, 28047 = CLE 1128.52 CIL X, 4429 = CLE 844.53 CIL XIV, 636 = CLE 487.54 CIL V, 2931 = CLE 996. Lapide sulla tomba di Toreuma, liberta dell’imperatore Tiberio, morta

diciannovenne: Hac ego bis denos nondum matura per annos / condor humo multis nota Toreuma locis. /

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insomma all’essere vittima di un delitto intollerabile. Una vita serena e ben vissutaè l’unico possibile lenimento alle pene della vecchiaia: se la senescenza avviene dopoanni di stenti, di dolori e di patimenti, allora un ulteriore rammarico si produce nel-l’animo umano e si assomma ai tormenti della tarda età: quello di avere inesorabil-mente perduto l’unica occasione che il destino offre agli uomini55, e anche quandoil sense of humour gioca a esorcizzare il male di vivere e in particolare di vivere nellasenilità, dietro il motto giocoso è facile cogliere il dramma agghiacciante di anni vis-suti «morendo più volte», senza morire veramente: il maestro dei mimi Leburna,vissuto eccezionalmente quasi cent’anni, dalla sua tomba sulle rive del Danubioricorda al viandante: aliquoties mortuus sum, set sic numquam («sono morto parec-chie volte, ma nessuna in questo modo»)56; la battuta si spende sull’«ultima» morte,diversa da tutte le altre, ma la tragedia è in quel morire ripetuto, tante volte, per-dendo pezzo dopo pezzo le funzioni vitali, aggiungendo di giorno in giorno soffe-renza a sofferenza, male a male, invocando probabilmente una vera fine conclusivae liberatoria che tarda incredibilmente a venire57.In questa realtà drammatica, dunque, in cui davvero, ungarettianamente, la

«morte si sconta vivendo» per tutti coloro che non muoiono giovani e felici, evi-tando l’offesa del tempo senile, per chi – e si trattava ovviamente della stragrandemaggioranza dei cittadini dell’impero – non poteva vantare glorie eccezionali l’i-scrizione finiva con l’essere non solo l’unica testimonianza che potesse informare iposteri del passaggio sulla terra di un defunto, ma anche una sorta di riscattopostumo dai mali dell’esistenza attraverso la perpetuazione della memoria; l’epi-grafe sepolcrale, infatti, in quanto voce pubblica di un monumento privato, era ingrado di arricchire la più anonima delle esistenze caduche dell’ultimo titolo di famache la comunità dei vivi possa attribuire all’uomo, e cioè appunto del diritto adavere un nome iscritto per sempre sulla pietra tombale; quel nome poteva trasmet-tersi nel tempo, integro e intangibile, non più soggetto a consunzione o decadi-mento, non più esposto alle beffe di una sorte crudele. Vi è chi ha parlato a questo proposito, e probabilmente non a torto, di un vero

e proprio «culto del nome». Tale culto comporterebbe di per sé un tentativo di sote-riologia umana, la quale riconduce a una religione senza divinità, costruita dall’es-sere umano per i suoi simili, che egli a sua volta prima o poi raggiungerà, homohomini vita, dal momento che la sopravvivenza nella memoria è concepita a esattamisura della capacità umana: donde l’eventualità, beffarda e sconvolgente a un

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Esiguo uitae spatio feliciter acto / effugi crimen, longa senecta, tuum («Non ancora adulta, non ancora ven-tenne giaccio sotto terra, io, Toreuma, nota in vari luoghi. Dopo aver compiuto un breve ma felice,percorso di vita sono riuscita a evitare, o lunga vecchiaia, le tue azioni nefande»).55 CIL XIII, 2313 = CLE 1277; CIL XIV, 914 = CLE 1318. 56 CIL III, 3980 = ILS 5228. Cfr. M. CARROLL, Spirits of the Dead. Roman Funerary Commemora-

tion in Western Europe, Oxford 2006, p. 149; J. LEBNO, Commemorating the Polish Renaissance Child.Funeral Monuments and their European Context, Farnham, Burlington 2011, pp. 236-237.57 Su queste tematiche cfr. in particolare W. SUDER, La mort des viellards, in HINARD (a cura di), La

mort au quotidien dans le monde romain cit., pp. 31-45; si veda pure ID., Geras. Old Age in Greco-RomanAntiquity. A Classified Bibliography, Wroclaw 1991.

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tempo, di essere talora nella tomba un sine nomine corpus 58, una condizione ancorpeggiore della morte. In questa prospettiva si comprende anche la ragione del ripe-tersi negli epitaffi di espressioni di salvaguardia della tomba. La violenza delle male-dizioni scagliate contro i potenziali profanatori si misura con l’importanza attri-buita al monumento funerario in quanto estremo strumento di una sia pur modestaforma di persistenza tra i vivi59. Se dunque la vita è breve e la speranza è fragile, se anche una vita prolungata è

male in quanto corrotta dalla senescenza, se il corpo morto non è che cenere e la vitasi dissolve nell’etere, se sulla terra non si lascia altro che un nome «nudo e vano»,se il sarcofago è tutto ciò che resta (Hoc est, sic est, aliud fieri non licet: «Non c’èaltro che questo, è così, non è consentito che altro avvenga»60), allora occorre rivol-gersi in modo totalizzante alla vita, occorre impiegare opportunamente il tempobreve che ci è concesso, occorre assaporare a fondo le gioie che l’esistenza può con-cedere; occorre, per milioni di vite disilluse circa ogni genere di persistenza dopo lamorte, mettere in atto una strategia di difesa contro l’ingiustizia della vecchiaia edella morte, che consiste nella ricerca pervicace di godimento di tutte le felicità ter-rene fino a quando le forze lo consentono.Con lucida semplicità un tabellarius (un messo imperiale) da Cartagine, giocando

sul significato premonitore del suo nome (Vitalis) delinea nella sua lapide funeraria,fatta incidere ed esporre prima della morte, i princìpi di una comune e condivisafilosofia esistenziale popolare: Dum sum Vitalis et vivo, ego feci sepulchrum / acquemeos versus, dum transseo, perlego et impse. / Diploma circavi totam regionem pede-strem / et canibus prendi lepores et denique vulpes. / Postea potiones calicis perduxilibenter, / multa iuventutis feci, quia sum moriturus. / Quisque sapis iuvenis, vivo tibipone sepulchrum («Mentre io, Vitale, sono ancora vivo, mi sono fatto costruire ilsepolcro e quando ci passo davanti rileggo io stesso i versi che a me si riferiscono.Ho attraversato a piedi tutta la regione portando documenti, e ho catturato con icani lepri e perfino volpi. E poi ho bevuto volentieri calici di vino e ho fatto inmodo di godere i piaceri della gioventù perché so che dovrò morire. Chiunque tusia, giovane, sii saggio e predisponi il tuo sepolcro da vivo»)61. Curioso sdoppiamento, costruirsi in vita la tomba per rispecchiarvisi in una

sorta di ambiguo memento esorcizzante, e dalla contemplazione della propria

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58 Cfr. VERG., Aen. II, vv. 554-558. Cfr. P. ALLEGRETTI, Chi poria mai pur con parole sciolte (Inf.XXVIII), in «Tenzone» 2, 2001, pp. 9-25 = http://www.ucm.es/info/italiano/acd/tenzone/t2/Pao-laAllegretti.pdf.59 Cfr., a mero titolo di esempio, in un’amplissima serie di attestazioni analoghe, il banale Ne tan-

gito, o mortalis, reverere Manes deos («Non toccate, mortali. Abbiate rispetto per gli dei Mani»: CIL VI,5075 = ILS 8173 = CLE 16 da Roma), o il violento, due volte iterato, Quisquis hoc sustulerit aut ius-serit, ultimus suorum moriatur / quisquis hoc sustulerit aut laeserit, ultimus suorum moriatur («Chiunquesolleverà questa pietra o ordinerà di rimuoverla, muoia come l’ultimo della sua famiglia. Chiunque sol-leverà questa pietra o a essa arrecherà danno, muoia come l’ultimo della sua famiglia»: CIL VI, 29946= ILS 8185), o lo scurrile […] qui hic minxerit aut cacarit habeat deos Superos et Inferos iratos («[…] chiqui sopra piscerà o defecherà abbia gli dei Superi e Inferi adirati contro di lui»: CIL VI, 13740 = ILS8202).60 CIL VI, 29952 = ILS 8161 = CLE 247.61 CIL VIII, 1027 = ILS 1710 = CLE 840.

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futura, inevitabile e definitiva dimora trarre stimolo per meglio gustare la vita in uncarpe diem reiteratamente conclamato. Già in un breve, notissimo epitaffio romano di età tardorepubblicana si poteva

leggere: Fortuna spondet multa multis, praestat nemini. / Vive in dies et horas, nam pro-prium est nihil («Le promesse della fortuna sono molte per molti, ma per nessunovengono mantenute. Vivi alla giornata, ora per ora: niente infatti ci appartiene»)62,e in un’iscrizione risalente alla prima età imperiale l’invito si ripete da parte di undefunto diciottenne: Decem et octo annorum natus vixi ut potui bene, / gratus parentiatque amicis omnibus. Ioceris, ludas hortor: hic summa est severítas («Ho vissuto finoall’età di diciotto anni meglio che ho potuto, benvoluto da mio padre e da tutti gliamici. Ti esorto a scherzare e a divertirti: qui il rigore è assoluto»)63. E poi le innumerevoli – notissime e proverbiali – esortazioni a bere, a fare l’a-

more, a gustare i divertimenti fino a quando risplende la luce della vita, fino aquando le membra ancora esprimono la necessaria vitalità: «La vita è breve, la spe-ranza è debole, entrate. Il lume è acceso: fino a che la luce splende, beviamo,amici»64 oppure «Le terme, il vino, il fare l’amore contaminano i nostri corpi, male terme il vino il fare l’amore sono la vera sostanza della nostra vita»65; oppureancora, nella lapide dedicata a un bambino di poco più di due anni, «Tu che ti sof-fermerai a leggere, vivi, stai in salute e che tu ami e sii amato fino a che verrà il tuogiorno»66, e così via, oscillando fra il compiacimento ostentato del viveur e il ram-marico di chi tale lezione di vitalità senza freni non ha potuto o saputo accogliere,ma dal sepolcro – generosamente – ammonisce gli altri a non commettere analogoerrore.Non necessariamente, però, la ricerca della felicità nell’unica esistenza che ci è

data viene risolta nel vitalismo prorompente del godimento fisico: l’immagine diuna vita pienamente vissuta, che si vuole accreditare là dove la mano ingiusta dellamorte (la rea Persefone) non ne abbia troncato anzitempo il fluire, si può identifi-care anche con la proposta di un modello di virtù maschile e femminile, la cui appli-cazione integrale è sintesi di successo e serenità acquisiti. Attraverso gli innumerevoli profili di vite spese nell’esercizio della virtù, passa

– com’era inevitabile – un messaggio di conformistica adesione ai parametri medi etradizionali della rispettabilità sociale vigenti all’interno delle comunità urbaneromane. Già nella lontana epoca dei Gracchi, in un’epigrafe funeraria dove il giocodelle assonanze sepulcrum-pulcrum-pulcrai sottolinea ancora una volta la tragediacorruttrice della morte, vengono esaltati i meriti «femminili» di Claudia, una sposadefunta: Hospes, quei deico, paullum est, asta ac pellege. / Heic est sepulcrum hau pul-cruum pulcrai feminae. / Nomen parentes nominarunt Claudiam. / Suom mareitum

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62 CIL XII, 1219 = VI, 24563 = ILS 7976 = CLE 185.63 CIL VI, 1169 = CLE 85.64 CIL III, 12013-3 = ILS 8607: Vita brevis, spes fragi[lis, uen]ite. / Accensust. Dum lucet, bibamus,

sodales.65 CIL VI, 15258 = ILS 8157 = CLE 1499: Balnea uina Venus corrumpunt corpora nostra, / sed

vitam faciunt b(alnea) u(ina) V(enus). Per analoghe espressioni cfr. CEBEILLAC GERVASONI, CALDELLI,ZEVI, Epigraphie latine cit., pp. 310-312.66 CIL VI, 13075 = ILS 8137: Tu qui perleges uiuas, ualeas, ames, Ameris usque at die tuo.

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corde deilexit souo. / Gnatos duos creavit. Horunc alterum // in terra linquit, alium subterra locat. Sermone lepido, tum autem incessu commodo. / Domum seruauit. Lanamfecit. Dixi. Abei («O tu che passi di qui, ben poco ho da dirti, sosta e leggi. Questoè il modesto sepolcro di una bella donna. I genitori le imposero il nome di Claudia.Amò suo marito con tutto il suo cuore. Partorì due figli. Uno di questi lo ha lasciatoin terra, l’altro giace sotto terra. Piacevole nel discorrere, conveniente e moderatanel comportamento. Si occupò della casa. Filò la lana. Ho detto tutto. Puoi prose-guire il tuo cammino»)67; mentre, all’interno di una lastra inghirlandata di rose delgrande sepolcro quadrato noto sotto il nome di Colombario degli Statili, leggiamole ultime parole di una donna: Viva viro placui prima et carissum(a) coniunx / quoiusin ore animam frigida deposui / Ille mihi lachrimans morientia lumin(a) pressit: / postobitum satis hac femina laude nitet («Viva, piacqui a mio marito, sua prima e caris-sima consorte, e nelle sue labbra deposi l’ultimo mio soffio vitale. Egli mi chiusepiangendo gli occhi che si spegnevano: dopo la morte, per una donna ciò è suffi-ciente per risplendere di lodi»)68. Nella sintesi di un semplice distico, un sarcofago di età adrianea ci condensa le

virtù di Amymone, figlia di Marco: Hic sita est Amymone Marci optima pulcherrima/ lanifica pia pudica frugi casta domiseda («Qui giace Amymone, figlia di Marco, bra-vissima e bellissima, capace nel filare, pia, pudica, frugale, casta, donna di casa»)69.Dalle colline del Monferrato, un marito, P. Vibius Verissimus, ricorda la sposaincomparabile, Statilia Tigris, morta a trentasei anni: O formosa nimis semperquepudica maritis, / duobus recubisti toris, ubi duos natos dedisti amoris. / Qui primis illefuit, si potuisset uincere fata, / hunc titulum laudis posuisset ille tibi. / Sed ego infelix,qui te talem carui ecce modo / fruitus sexdecim anni castigate et amori tui («Oh troppobella, sempre onesta con i mariti, hai condiviso due letti matrimoniali, hai dato laluce a due figli frutto dell’amore. Il tuo primo marito, se avesse potuto contrastareil destino, sarebbe stato lui a porre quest’iscrizione in tuo onore e lode. Ma ora sonoio, infelice, cui spetta tale compito, io, defraudato di una tale consorte, io che hoavuto la fortuna di godere del tuo casto amore per sedici anni»)70.Scorrono così davanti ai nostri occhi mille figure di figlie, di spose e di madri

esemplari, fedeli, castae et pudicae ma nel contempo amanti appassionate, innamo-rate e sottomesse al padre o al marito, disposte a ogni sacrificio, capaci di conver-sare come si conviene, dal portamento e dall’incedere dignitoso e «onesto», parsi-moniose custodi e amministratrici della casa, abili esecutrici di lavori femminili71.

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67 CIL I1, 1211 = VI, 15342 = ILS 8403 = CLE 52. Cfr. M. R. LEFKOWITZ, M. B. FANT,Women’s Life in Greece and Rome: A Source Book in Translation, London 1982, n. 134; F. CENERINI,La donna romana. Modelli e realtà, Bologna 2002, pp. 11-28.68 CIL VI, 6593 = CLE 1030. Cfr. L. MONTANINI, Le donne romane e la morte cit., p. 21.69 CIL VI, 11602 = CLE 237. Cfr. N. CRINITI, Imbecillus sexus: le donne nell’Italia antica, Brescia

1999, p. 41.70 CIL V, 7453 = CLE 1578.71 Quasi inutile citare a questo proposito la celeberrima Laudatio funebris quae dicitur Turiae di CIL

VI, 1527, 37053 = FIRA, BRUNS, 104, 126 = ILS 8397= FIRA, III, ARANGIO-RUIZ, 69, pp. 209-219. Sulla Laudatio Turiae, cfr. E. K. H. WISTRAND, The So-Called Laudatio Turiae: Introduction, Text,Translation, Commentary, Lind 1976; L. STORONIMAZZOLANI, Una moglie, Palermo 1982; D. FLACH,Die sogenannte Laudatio Turiae; Einleitung, Text, Übersetzung und Kommentar, Darmstadt 1991; G.

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Sull’altro versante trionfano le virtù maschili dell’onestà, della lealtà, della con-cordia, del lavoro svolto con dedizione, della carriera percorsa con successo, del-l’affermazione economica, della ricchezza acquisita che si traduce in prestigiosociale e in successo politico, dal momento che, secondo le regole ferree della coop-tazione censitaria, erano ammessi negli organi di governo delle città soltanto coloroche avessero acquisito l’alto livello di reddito previsto dalle leggi municipali Una carriera dignitosamente percorsa, condotta fino ai massimi vertici possibili,

un mestiere abilmente esercitato, un’attività svolta con onestà rappresentano la sin-tesi delle virtù maschili riprodotte e conclamate negli epitaffi metrici. Ma la vitasine fraude 72, sine macula 73, sine lite, sine rixa, sine controversia, sine aere alieno 74, èdi per se stessa un bene e si esercita nel complesso dell’esistenza indipendentementedalle funzioni e dalle attività di lavoro svolte. Hic fuit ad superos felix, quo non felicior alter / aut fuit aut vixit, simplex bonus

atque beatus. / Numquam tristis erat, laetus gaudebat ubique, / nec senibus similis mor-tem cupiebat obire / set timuit mortem nec se mori posse putabat («Finché fu vivo fusommamente felice come nessun altro, semplice, buono e sempre contento. Non eramai triste, allegro se la spassava dovunque, né assomigliava ai vecchi nel desiderarela morte, anzi la morte la temeva e non credeva che sarebbe morto»)75. Così unamoglie celebra l’anziano consorte che ha accompagnato alla tomba all’età di 77anni, 5 mesi e 15 giorni, e fra le virtù indicate spicca non a caso il timore della mortesed timuit mortem nec se mori posse putabat. Temere la morte significa attaccamentoalla vita, significa esaltare fino in fondo, anche a settantasette anni, il valore del-l’esistenza contro il disvalore estremo dell’annullamento dell’essere, significadistaccarsi stoicamente dalla massa di coloro che, come abbiamo visto, raggiunta lavecchiaia invocano la morte liberatoria. Allo stesso modo un pedagogo di estrazionelibertina scrive di se stesso, da vivo, nel suo futuro sepolcro: Pius et sanctus vixiquam diu potui sine lite / sine rixa sine controversia / sine aere alieno. Amicis fidembonam praestiti peculio / pauper, animo divitissimo, / bene valeat is qui hoc titulum /perlegit («Ho vissuto pio e santo per tutto il tempo concessomi senza intentarecause, senza ingaggiare risse, senza querelare, senza appropriarmi del denaro d’al-tri. Sono stato leale con gli amici, povero di beni ma ricchissimo per doti d’animo,auguro ogni bene a chi si sofferma a leggere questa iscrizione»)76.

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FILORAMO, S. RODA, Cristianesimo e società antica, Roma, Bari 1992, pp. 220-224; E. A. HEMELRIJK,Masculinity and Femininity in the «Laudatio Turiae», in «The Classical Quaterly» 54, 2004, pp. 185-197; M. JON/CA, Laudatio Turiae – funeberis oratio uxori dedicata. Pochwal_a Turii – mowa pogrzebowaku czci z.ony, Poznan/ 2011. Analoghe esaltazioni della virtus femminile romana ad esempio in CIL I2,1570 = X, 6009 = CLE 56; CIL V, 7453 = CLE 1578; CIL VI, 5254 = CLE 86; CIL VI, 7579 =ILS 8190 = CLE 2770; CIL VI, 7595 = ILS 8422; CIL VI, 10006 = CLE 1133; CIL VI, 12072 =CLE 546; CIL VI, 28942 = CLE 96; CIL VIII, 5804 =CLE 636; CIL VIII, 8123 = CLE 187; CILXII 1036; CLE 389; CLE 45; ILA fr. 175.72 CIL VIII, 11824 = ILS 7457.73 CIL VI, 9663 = ILS 7518.74 CIL VI, 8012 = ILS 8436.75 CIL XIV, 636 = CLE 487 (Ostia).76 CIL V, 8012 = ILS 8436.

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Vivere ed esercitare la virtù fino a quando si può, svolgere il compito assegnatodalla società fino al momento della morte, attendere al proprio lavoro fin che leforze lo permettono, distinguersi per meriti morali o per zelo nell’attività compiutasì da fissarsi indelebilmente nel ricordo dei vivi foss’anche per una sola dote, peruna sola capacità peculiare e individuale: un giovane auriga tarragonese, privo diallori perché all’inizio della carriera, esalta il fatto che seppure rudis già si avventu-rava a reggere la quadriga 77; un buffone imperiale, imitatore di Tiberio, si gloria diessere stato colui che per primo si cimentò pubblicamente nell’imitazione spassosadegli avvocati (primum invenit causidicos imitarii)78; addirittura un animale, un cane,in una colonna funeraria innalzata a sua memoria, si vanta di non aver mai latratoinvano quando in vita faceva la guardia ai carri del padrone, e ora tace mentre l’om-bra protegge le sue ceneri79.La felicità si conquista anche attraverso l’esercizio non passivo delle virtù e delle

qualità. Le doti morali si esprimono pure con l’azione e non solo nel silenzio mutodella coscienza. Perfino le virtù, statiche e sommesse per eccellenza, della dedizioneconiugale femminile appaiono tanto più significative ed esaltanti se vissute supe-rando pericoli e insidie: Me propter maria, terras atque aspera caeli / sidera trasistimediosque per h[ostes] / invenisti viam, hiemis nefanda tulisti / o dulci coniunx animogratissima nos[tro] («Per colpa mia hai dovuto percorrere mari, terre e subire l’in-clemenza del tempo e le asprezze del cielo e hai trovato la giusta via passando attra-verso nemici temibili, hai sopportato le ingiurie dell’inverno o dolce sposa carissimaall’animo nostro»)80, afferma grato uno sposo, mentre un altro marito apprezzavivamente che la moglie diletta per tanti anni lo abbia superato in capacità e zelo81.Vitalismo e attivismo, con non disdegnati risvolti pratici, dunque, fino a quando

esiste un barlume di vita, finché il corpo è in grado di agire e finché il cadavere,antitesi estrema di bellezza e movimento, non verrà definitivamente rinchiuso nelbuio del sepolcro e l’esistenza si dissolverà fra la terra e l’etere.Un nome inciso, la memoria dei vivi, possono far perdere alla morte una tra-

scurabile battaglia, non certo la guerra che da sempre l’oppone (eterna vincente)alla vita; ma la ricerca sistematica della felicità, partendo da ciò che si ha, agendoper sé negli affetti, nel lavoro, nella carriera, spendendo intensamente ognimomento dell’unica esistenza che ci è data, offrendo al corpo in vita il modo diestrinsecare tutta la sua potenzialità positiva, permette di vendere cara la pelle enon consente alla morte di vincere prima del tempo, inducendo depressione, apa-tia, tristezza e angoscia paralizzante. Ma il conflitto è duro: contro il decadimentooccorre una forza morale che compensi quella fisica declinante, occorre che la vec-chiaia sia sconfitta nel segno di virtù positive prevalenti. Si ritorna cioè a unadimensione che non può essere di tutti, ma solo di una ristretta élite confortata dalla

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77 CIL II, 4314 = ILS 5299 = CLE 1279.78 CIL VI, 4886 = ILS 5225.79 CIL IX, 5785 = CLE 1174.80 CIL VI, 12072 = CLE 546.81 ILA, p. 54, n. 175: Certaui tecum, coniunx, pietate uirtute frugalitate et amore, sed perii. Cunctis

haec sors concedatur («Sono stato in competizione con te, moglie, per virtù, modestia e amore, ma vin-cesti tu. Augurerei a tutti di godere della stessa fortuna»).

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filosofia o da un’ideologia così salda da contrastare la pena dell’esistenza che scivoladolorosamente verso la fine. A meno che un’ideologia salvifica di massa non ribalti i termini della questione,

riposizionando il rapporto fra morte e vita e trasformando il lento scivolare in dire-zione del nulla, dalle sofferenze della vecchiaia alla definitività irrevocabile del tra-passo, in un cammino glorioso verso una nuova esistenza, assai più «vera» emigliore della precedente, nella quale le sofferenze e le virtù terrene costituiscanoaddirittura viatico privilegiato per una sicura beatitudine eterna: fu ciò che lenta-mente avvenne nella realtà dei secoli più avanzati dell’impero, e nella mentalità col-lettiva dei cittadini che l’abitavano, con il sovrapporsi e il sostituirsi dei valori diriferimento cristiani a quelli pagani. Ancora l’epigrafia testimonia nel modo piùpalese il mutamento: dal confronto fra i testi funerari pagani e cristiani traspare, ineffetti, con chiarezza il divergente atteggiamento verso la morte e il decadimentofisico, e il diverso significato attribuito al momento del trapasso, con i correlatiriflessi sulla realtà del tempo trascorso nella vita terrena in giovinezza e in vecchiaiae sull’eventualità del tempo futuro post mortem. Il totale rovesciamento di prospet-tiva viene attestato fin dalle origini dalle iscrizioni cristiane, quando nell’impiantostrutturale, che risulta ancora in larga misura mutuato da quello pagano, la produ-zione epigrafica funeraria cristiana introduce un elemento non a caso totalmenteassente nei testi pagani: la data della morte. Il momento della morte, temuto erespinto dai pagani, si trasforma nell’ottica ideologica cristiana in momento ago-gnato: la morte che conclude il tempo individuale pagano dà inizio invece, per ilcristiano, a un tempo nuovo ben più importante e significativo. La fine della vitaterrena è l’inizio della nuova vita sine fine: essa non va dunque compianta né a essaci si deve ribellare, anche se giunge prematura. Il giorno del trapasso è il vero e pro-prio dies natalis, in quanto rappresenta la nascita dell’anima alla gioia della vitaeterna: morte e nascita coincidono, in quella che non è più una cesura temporaledefinitiva, ma appunto un momento felice di passaggio82.Il riposizionamento di valori pare evidente anche rispetto alla dialettica giovi-

nezza-vecchiaia nell’interfaccia e nell’interrelazione con la sovraordinata dialetticavita-morte: un’iscrizione pagana mutila di Vercelli – il cui testo si integra, seppurcon qualche incertezza, attraverso la tradizione manoscritta – descrive le ultime oredi due giovanissimi amanti: «Agli dèi Mani di Filomeno ed Eutichia, bravi giovaniche se ne andarono a dormire insieme in ottima salute e che furono ritrovatientrambi morti, uniti in un abbraccio»83. Poche parole, provenienti da una nonricca iscrizione di una terra di periferia, sperduta nell’immenso territorio del riccoimpero di Roma; eppure quelle poche parole sintetizzano con maggior efficacia disolenni carmi sepolcrali incisi su sepolcri lussuosi una realtà mentale e ideologica

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82 Fondamentali in questo senso i contributi di G. SANDERS, Les chrétiens face à l’épigraphie funé-raire latine, in D. M. PIPPIDI (a cura di), Assimilation et résistance à la culture gréco-romaine dans le mondeancien. Travaux du VIe Congrès International d’Études classiques (Madrid, settembre 1974), Bucareszti,Paris 1976, pp. 283-299; e inoltre PIETRI, La mort en Occident cit., pp. 25-48; FILORAMO, RODA, Cri-stianesimo cit., pp. 231-277.83 CIL V, 6700 = S. RODA, Iscrizioni latine di Vercelli, Torino 1985, pp. 70-71, n. 38; M. BOCCA-

LINI, L’antiquaria vercellese tra ’500 e ’600, Vercelli 1995, p. 35.

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universalmente condivisa nel mondo romano pagano. Filumino ed Eutichiamuoiono a letto, probabilmente facendo l’amore; trapassano insieme nel momentoin cui compiono o hanno appena compiuto l’atto più significativo, intenso e vitaledel piacere terreno; toccano ancora una volta, mentre muoiono, il culmine della feli-cità nella vita terrena: il loro è davvero un gesto di scherno supremo contro lasuprema ingiustizia della morte e contro l’insulto della vecchiaia, che non potrà cor-rompere la loro giovanile, sana, prorompente freschezza84. Probabilmente nonmolti decenni più tardi, nella prima parte del testo inciso sulla lapide funeraria diun veterano africano di Madaura, morto a ottantatré anni in pace fidelis alla leggedi Cristo, leggiamo accenti di diverso ma analogo vitalismo85: il veterano CaeciliusAemilianus ha militato con onore nella III legio Augusta di stanza a Lambaesis, nelservizio militare ha speso volentieri la sua vigorosa gioventù, lo zelo del suo impe-gno e della sua fatica gli hanno procurato l’honesta missio. E qui si sarebbe fermataogni iscrizione pagana, fissando e riassumendo in un’immagine positiva ei)j a)ei/ ilsenso di un’intera esistenza, comunicando nel tempo ai posteri il valore e il presti-gio autoreferenziale di una vita terrena spesa nella virtus del dovere. L’epigrafe cri-stiana però non si arresta. Non è sufficiente l’aver compiuto il proprio dovere nellaprofessione o avere esercitato mirate virtutes, per marcare positivamente la propriaesistenza: occorre la costanza nella fede per avere accesso a una seconda vita, che èla sola che davvero conti. Per questo, nella seconda parte del suo epitaffio, il vete-rano racconta come pos laborem virtutis honesta missione meritum ad felices annos pro-vexit senectus catolice legi fidelissima mente inserviens («dopo il servizio militare, con-gedato con onore per il valore dimostrato, mi avviai lungo i felici anni dellavecchiaia servendo con spirito di assoluta fedeltà la legge cristiana»)86. Nella nuova

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84 Il frammento, conservato al Museo Leone di Vercelli, conserva soltanto le tre linee conclusive (incomplexu / pari exanimes / inventi sunt). La lapide integra venne scoperta nel 1570 nel coro del duomodi Sant’Eusebio, come si evince dai mss. attribuiti al nobile vercellese del XVI secolo G. F. Ranzo. Nellesue Memorie per servire alla storia di Vercelli (mss., f 19), il Ranzo presenta la seguente trascrizione deltesto dell’epigrafe, che fu accolta – nonostante il severo giudizio che egli dava della tendenza del Ranzoa «inventare» epigrafi inesistenti – da L. BRUZZA (Iscrizioni antiche vercellesi, Roma 1874, pp. 126-129,n. LXVI), il quale suggerì anche una suddivisione in linee assente nel testo dello stesso Ranzo: D(is)Manibus / Philumini / et Eutichie / Menander et Vestina / domini iuvenum benemer(entium) // qui cum simulquietem / sani petissent / in complexu / pari exanimes / inventi sunt. Secondo P. F. BULGARUS, che nel 1578riprese il testo per F. Cicereius, la lettura sarebbe invece: D(is) M(anibus) / Philumeni / et Eutychie /Menander / et Vestina domini // iuvenum / benemerentium / qui cum simul / quietem sani petissent / in com-plexu // pari exanimes / inventi sunt. Infine, nel 1658, M. A. Cusano così trascrisse, senza separazionilineari: D(is) M(anibus) Philumini et Eutichiae Menander et Vestina domini iuvenum benemerentium [nessoin tium] qui cum simul quietem sani petiissent in complexu pari exanimes inventi sunt. La copia del Ranzoconfluì poi in G. A. RANZA, Poesie e memorie di donne letterate con alcune antiche e moderne poeticheiscrizioni di donne vercellesi, Vercelli 1769, p. 83, mentre quella del Cusano si legge in J. DURANDI, Del-l’antica condizione del Vercellese e dell’antico borgo di Santià, Torino 1766, p. 34. Sull’autenticità del-l’epigrafe qualche dubbio ha sollevato il Bruzza, mentre in seguito il Mommsen, CIL V, 6700, osservacon decisione: de sinceritate tituli ne dubita. In realtà, per necessaria cautela, non tutti i sospetti di inau-tenticità vanno accantonati, e ciò più per l’incertezza della tradizione e il mistero della scomparsa del-l’elemento superiore – di cui nulla sappiamo dalle fonti coeve e posteriori il ritrovamento – che non perspecifiche ragioni contenutistiche relative al testo epigrafico perduto e superstite.85 ILCV 1593.86 Ibid.

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prospettiva, gli anni difficili della senectus, gli anni da evitare, gli anni che per for-tuna loro Filumino ed Eutichia non hanno avuto in sorte di conoscere, divengonoanni felici dedicati all’ossequio della legge cristiana in preparazione del dies natalis. Una senectus bona87, cristiana, sembra contrapporsi alla «criminale»88 longa senec-tus pagana: eppure, anche in sede di epigrafia cristiana spesso il to/poj della vec-chiaia come infermità difficile da sopportare89 e che tutto sommato è bene evita-re90 riaffiora, quale retaggio di una mentalità indubbiamente difficile da modifi-care sul piano umano; la poena della senescenza e il peso di una vita fessa non èfacilmente tollerabile nemmeno dai cristiani, se non attraverso i modi di un’ecce-zionale sublimazione, proibita ai più e forse propria esclusivamente degli uominisanti, che soli sono in grado, eroicamente, di porre una longeva senectus al servi-zio del trionfo della dottrina e dell’edificazione delle opere di fede 91.

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MESSAGGI DI VITA NELLE PIETRE DI MORTE: LA FUNZIONE DELL’EPIGRAFIA SEPOLCRALE

87 Cfr. ad es. CIL XIII, 5591 b = ILCV 1658.88 CIL V, 2931 = CLE 996.89 ICUR II, 81 = ILCV 4751 ( […] in senio infelix altera poena mihi […] ). 90 CLE 1430 = ICUR II, 122 = ILCV 4753 (Longaevo mecum vixisti tempore, coniunx, / sed divi-

sus amor nil putat esse diu. / Tu senium et fessae fovisti taedia vitae, / atque aetas visa est ipsa redisse mihi[…]); CLE 1385 = ICUR I, 1098 = ILCV 1312 ( […] profuit ergo tibi senium finisse […] ). 91 CIL V, 6817 = CLE 777 = ICUR II, 173 = ILCV 1804. Cfr. in generale C. CARLETTI, Epi-

grafia dei cristiani in Occidente dal III al VII secolo, Bari 2008.

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III

I problemi militari al confine nordorientale(l’equilibrio di potenza tra mondo antico e mondo moderno)*

In un libro del 1996, che fu oggetto di approfondito dibattito presso storici divaria estrazione, politici e scienziati della politica, Michael Sheehan, allora diret-tore del Department of Politics and International Relations dell’Università di Aber-deen (all’interno del quale fondò nel 1996 e per breve tempo diresse l’innovativa eimportante Space Policy Research Unit), è ritornato a occuparsi di uno dei mecca-nismi pragmatico-concettuali che nel corso del tempo più fortemente hanno condi-zionato le relazioni fra gli stati: il balance of power, l’equilibrio di potenza1. La monografia di Sheehan esamina l’origine e lo sviluppo della teoria dell’equi-

librio di potenza dal XVIII secolo fino ai giorni nostri, nonché le modalità della suaapplicazione quale chiave di comprensione dei grandi fenomeni storici dall’antichitàclassica a oggi, seguendo un percorso di puntuale segnalazione constatativa che nonrinuncia però al cimento di una rigorosa analisi critica. Michael Sheehan contesta l’impostazione tradizionale che, in quanto basata su

un sostanziale fraintendimento della realtà storica, tende a semplificare l’ambiguanatura di tale concetto e a disconoscere sia la molteplicità spesso contraddittoriadel significato a esso attribuito nel variare della contingente realtà pratica, sia ledivergenti finalità (descrittive, analitiche, prescrittive e propagandistiche) a cui hadi volta in volta offerto facile sostegno. Ne conseguirebbe il sostanziale fallimentodi ogni tentativo fino a oggi esperito, tanto a livello storiografico quanto a livellopolitico-diplomatico, di definire con precisione l’equilibrio di potenza come cate-goria di sistema e di specificarne costanti e regole operative. Si oscilla quindi fra gli

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* Il testo del presente capitolo è una rielaborazione della relazione congressuale I problemi militarial confine nordorientale, pubblicata in Aquileia romana e cristiana fra II e V secolo, Atti della XXX Set-timana di Studi Aquileiesi (Aquileia, 19-22 maggio 1999), in «Antichità AltoAdriatiche» 47, 2000,pp. 71-90.1 M. SHEENAN, The Balance of Power. History and Theory, London, New York 1996 (riedito nel

2000). Michael Sheehan è ora (dal 2004) professore presso la Swansea University dopo aver ricopertoall’Università di Aberdeen anche la direzione dello Scottish Centre for International Security, e a Lon-dra la direzione dell’International Institute for Strategic Studies. La sua indagine continua a verteresulla teoria dell’equilibrio di potenza, ma si è estesa negli ultimi anni alle problematiche della sicurezzainternazionale, con particolare riferimento all’Asia di Nord-Est; alle politiche internazionali relativeall’uso militare dello spazio esterno e, soprattutto, ai temi del controllo degli armamenti e dei sistemiantisatellite.

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estremi di chi nella lunga durata storica attribuisce alla politica di balance of powervalore universale, insostituibile per il mantenimento della pace in un sistema inter-nazionale basato sulla leadership non contrastata e sulla coesistenza competitiva dipochi stati sovrani, o di chi invece considera come una delle maggiori cause di con-flitto proprio la precarietà oggettiva di un ordine politico mondiale o continentalefondato sulla mera deterrenza dell’equilibrio di forza2. Non ci preme qui ovviamente entrare nel merito di tale dibattito né valutare le

proposte che, da scienziato della politica ed esperto di relazioni internazionali,Sheehan suggeriva per il presente e il futuro: in particolare egli sottolineava innanzi

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I PROBLEMI MILITARI AL CONFINE NORDORIENTALE

2 Sulle tematiche connesse all’elaborazione concettuale e all’applicazione pratica, politico-diplo-matica, nel corso della storia, del principio dell’equilibrio di potenza nelle relazioni internazionali eall’interno dei sistemi politici complessi bipolari e multipolari, è disponibile una vastissima bibliografia,orientata tuttavia più sul versante della scienza della politica che su quello dell’indagine storica: in ge-nerale, cfr. comunque E. B. HAAS, The Balance of Power as a Guide to Policy-Making, in «Journal ofPolitics» 15, 1953, pp. 370-398; ID.,The Balance of Power: Prescription, Concept or Propaganda?, in«World Politics» 5, July 1953, pp. 442-477; M. A. KAPLAN, Balance of Power: Bipolarity, and OtherModels of International Systems, in «The American Political Science Review» 51, 1957, pp. 684-693;K. W. DEUTSCH, J. D. SINGER,Multipolar Power Systems and International Stability, in «World Politics»16, 1964, pp. 390-406; H. BUTTERFIELD, The Balance of Power, in H. BUTTERFIELD, M. WIGHT, Diplo-matic Investigations: Essays in the Theory of International Politics, Cambridge 1966, pp. 132-148; D. A.ZINNES, An Analytical Study of the Balance of Power Theories, in «Journal of the Peace Research» 4,1967, pp. 270-288; ID., Coalition Theories and the Balance of Power, in S. GROENNINGS, E. W. KEL-LEY, M. LEISERSON (a cura di), The Study of Coalition Behavior: Theoretical Perspectives and Cases FromFour Continents, New York 1970, pp. 351-368; M. WIGHT, The Balance of Power and InternationalOrder, in A. JAMES (a cura di), The Bases of International Order, London 1973, pp. 85-115; H. J. MOR-GENTHAU, Politics among Nations. The Struggle for Power and Peace, New York 1978 (trad. it. Politicatra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, Bologna 1997); K. N. WALZ, Theory of International Poli-tics, New York, London 1979; J. E. DOUGHERTY, R. L. PFALTZGRAFF, Relazioni internazionali. Teoriea confronto, Milano 1979; R. GILPIN, Guerra e mutamento nella politica internazionale, Bologna 1981;M. CESA, L’equilibrio di potenza. Analisi storica e teorica del concetto, Milano 1987; A. WATSON, TheEvolution of International Society, London 1992; R. LITTLE, L’equilibrio di potenza nelle relazioni inter-nazionali. Metafore, miti, modelli, Milano 2009; E. DIODATO, Dall’equilibrio di potenza all’equilibriogeopolitico?, in «Rivista italiana di scienza politica» 3, 2009, pp. 441-464; per le strette correlazionifra il concetto di balance of power e le problematiche del realismo e dell’idealismo/internazionalismopolitico, nonché del rapporto fra etica e politica, cfr., oltre al citato Morgenthau, soprattutto J. H.HERZ, Political Realism and Political Idealism. A Study in Theories and Realities, Chicago 1951; N. BOB-BIO, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna 1979; GILPIN, Guerra e mutamento cit.; F. E.OPPENHEIM, Il ruolo della moralità in politica estera, Milano 1993; R. GILPIN, No One Loves a PoliticalRealist, in B. FRANKEL (a cura di), Realism: Restatements and Renewal, London 1996, pp. 3-26; V.HÖSLE, Moral und Politik. Grundlagen einer politischen Ethik für das 21. Jahrhundert, München 1997; A.PANEBIANCO, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Bologna 1997; J. A. VASQUEZ,The Power of Power Politics. From Classical Realism to Neotraditionalism, Cambridge, New York 1998;I. BERLIN, Il senso della realtà, Milano 1998; P. P. PORTINARO, Il realismo politico, Roma, Bari 1999;J. J. MEARSHEIMER, The Tragedy of Great Power Politics, New York 2001; M. C. WILLIAMS, The Real-ist Tradition and the Limits of International Relations, Cambridge 2005; K. N. WALZ, Realism and Inter-national Politics, New York, London 2008; D. BELL (a cura di), Political Thought and International Rela-tions: Variations on a Realist Theme, Oxford 2008; V. S. TJALVE, Realist Strategies of Republican Peace:Niebuhr, Morgenthau, and the Politics of Patriotic Dissent, New York 2008; S. J. BARKIN, Realist Con-structivism: Rethinking International Relations Theory, Cambridge 2010, tutti con all’interno utilirimandi ad altra significativa letteratura in merito.

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tutto la necessità di supportare l’equilibrio di potenza con altre tecniche diploma-tiche che consolidino la stabilità del sistema-mondo, ove si vogliano evitare i costidi un perenne stato di guerra, non importa se fredda o calda, dal momento che, dalpunto di vista dell’insostenibile drenaggio economico, la distinzione risulta presso-ché irrilevante; ma soprattutto Sheehan osservava come l’idea di equilibrio dipotenza, nella sofisticata versione elaborata verso la metà del XIX secolo e validafino all’epoca della guerra fredda, dovesse combinarsi nello scorcio del millennio, adieci anni dalla caduta del muro di Berlino, con l’idea di sicurezza collettiva, digaranzia comune, di un controllo armato teso a produrre un nuovo equilibrio basatosul diritto degli stati e degli individui a un’eguale sicurezza, nella quale la compo-nente dei diritti sociali e umani recitasse una parte prevalente rispetto a quella dellamera salvaguardia dei confini, del territorio e dell’economia nazionale. Il futuro delbalance of power si giocherebbe dunque sul filo di una nuova concezione del dirittointernazionale dove i cosiddetti elementi «societali» sovranazionali (per esempio ilrispetto dei diritti umani, la tutela degli interessi economici collettivi della societàinternazionale globalizzata) fanno premio sui princìpi di sovranità nazionale.Tutto ciò, se tocca molto dappresso la nostra sensibilità sia di uomini del XXI

secolo sia di studiosi dei processi storici naturalmente esula probabilmente dalletematiche di questo volume, ma il libro di Sheehan e alcune delle argomentazioniche egli propone, soprattutto nella prima parte del suo saggio, paiono insieme pro-pedeutiche ed esplicative rispetto a una complessa e articolata fenomenologia qualeè quella del controllo e della difesa dell’impero romano dall’epoca della romanizza-zione al tardoantico e, ancor più in particolare, dell’estrema strategia difensiva del-l’Occidente tardoimperiale, che – come è risaputo – a lungo si identificò con ladifesa dell’arco alpino. A proposito di teoria dell’equilibrio di potenza e mondo antico, va premesso in

primo luogo che Sheehan fa propria e ribadisce la nota constatazione di H. But-terfield3, secondo cui l’idea di balance of power sarebbe assente nelle teorie di valu-tazione politica elaborate nell’antichità, un’assenza sorprendentemente ignoratadagli studiosi e dagli storici del mondo antico, i quali d’altra parte mostrano di nonapplicare mai tale categoria interpretativa all’analisi delle grandi vicende di tra-sformazione.In realtà già D. Hume4 si chiedeva se l’idea dell’equilibrio di potere fosse inte-

gralmente il prodotto della moderna politica o se si dovesse a essa soltanto la for-malizzazione terminologica del concetto, dal momento che, ad esempio, la politicainterstatale della Grecia classica fu sicuramente e oggettivamente governata da unprincipio di equilibrio di potere. In tempi ben più vicini a noi, P. Fleiss5 ha soste-nuto come l’antica Grecia si reggesse su un sistema complesso di balance of powerpoi trasformato in sistema bipolare dominato da Atene e Sparta, mentre M. Kaplanidentifica l’intero periodo di fioritura delle città stato greche come una tipica realtà

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3 BUTTERFIELD, The Balance of Power cit., p. 133.4 D. HUME, Sull’equilibrio di potenza, trad. it. in D. HUME, Opere, II, a cura di E. LECALDANO, E.

MISTRETTA, Bari 1971, pp. 739-747.5 P. J. FLEISS, Thucydides and the Politics of Bipolarity, Baton Rouge LA 1966.

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di balance of power che tra i secoli V e IV avrebbe conosciuto una fase di peculiareestensione di tale modello politico-concettuale6.Ma ancor più recentemente altri, come R. Purnell7 e A. Watson8, hanno prefe-

rito porre l’accento sulla singolare circostanza che a un mondo come quello greco,governato da norme culturali che ne giustificano la definizione e il senso di inter-national society, non corrisponda nessun approccio teorico che tenda a costruire unaconsistente e globale teoria delle relazioni internazionali. Se per esempio Aristotelea lungo discute e scrive riguardo alla natura del governo cittadino, la sua riflessionecirca le relazioni fra le poleis greche o fra queste ultime e il più vasto mondo apparequanto mai esile, se non inesistente. D’altro canto è lo stesso Watson a notare comeTucidide, indicando la causa principale della disastrosa guerra del Peloponnesonella crescita rapida e tumultuosa della potenza ateniese e nel timore che tale svi-luppo repentino aveva suscitato fra gli Spartani, denunci un’impostazione di pen-siero assai vicina alla concezione dell’equilibrio di potenza9. Si manifesta insommanell’ambito dell’antica Grecia una dissociazione fra alcune costanti della prassi poli-tica e il loro riconoscimento concettuale: i rapporti di quel sistema internazionalesono retti da regole che ben difficilmente potrebbero disconoscersi come effetto diun equilibrio di potenza, ma ciò non affiora nella coscienza dei contemporanei – senon indirettamente in alcune puntuali seppure specifiche analisi storiche qualequella tucididea10 – e quindi tanto meno si traduce in elaborazione teorica. A partire dalla Grecia classica comunque, secondo la maggior parte degli stu-

diosi e secondo lo stesso Sheehan, si aprirebbe un grande buco nero che scavalche-

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I PROBLEMI MILITARI AL CONFINE NORDORIENTALE

6M. A. KAPLAN, New Approaches to International Relations, New York 1968, p. 399.7 R. PURNELL, Theoretical Approaches to International Relations: the Contribution of the Graeco-

Roman World Balance, in T. TAYLOR (a cura di), Approaches and Theory in International Relations, Lon-don 1978, p. 19.8WATSON, The Evolution cit., p. 50.9 Fra le vicende della storia greca e le relative analisi dei contemporanei, che vengono in qualche

modo connesse dai moderni studiosi (da Hume in poi) con la teoria dell’equilibrio di potenza, ricor-diamo le considerazioni che si leggono nel primo libro di Tucidide circa le cause reali e pretestuosedella guerra del Peloponneso (in particolare I, 23, 6: «Ritengo infatti che la causa più vera, ma anchela meno evidente nelle dichiarazioni, sia questa: gli Ateniesi divenivano più potenti e destavanoapprensione nei Lacedemoni, al punto da costringerli alla guerra. Tuttavia, le cause dichiarate aperta-mente da parte di ambedue le città e dalle quali furono indotte a rompere il trattato e ad entrare inguerra, sono quelle che seguono [trad. it. di M. MOGGI, Milano 1984]», cui segue appunto la digres-sione sullo scontro fra Corcira e Corinto circa la questione di Epidamno – I, 24-55 –, e sull’interventoateniese contro Potidea – I, 56-66); l’intera questione della presa ateniese di Melo (TUC., V, 84-116;ISOCR., Pan. 100-121, su cui in particolare FLEISS, Thucydides and the Politics cit.; S. FORDE, Thucy-dides on the Causes of Athenian Imperialism, in «American Political Science Review» 80, 1986, pp. 433-448; H. R. ALKER, The Dialectical Logic of Thucydides’ Melian Dialogue, in «American Political ScienceReview» 82, 1988, pp. 805-820; R. N. LEBOW, B. S. STRAUSS (a cura di), Hegemonic Rivalry. FromThucydides to the Nuclear Age, Boulder 1991, in particolare pp. 31-70, 87-188; M. CESA, Le ragionidella forza. Tucidide e la teoria delle relazioni internazionali, Bologna 1994; R. D. LUGINBILL, Thucydi-des on War and National Character, New York 1999; L. CANFORA, Tucidide e l’impero. La presa di Melo,Roma, Bari 20002); l’orazione di Demostene (Discorso per i Megalopolitani) per perorare la causa del-l’intervento di Atene a favore di Megalopoli, minacciata dagli Spartani nel difficile e incerto equilibriotripolare che le vittorie tebane avevano determinato nel mondo ellenico poco prima della metà del IVsecolo a.C.10 Cfr. appunto l’appena citata analisi in TUC., I, 23-66.

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rebbe il mondo romano e i secoli bui del medioevo e nel quale lo sviluppo della teo-ria dell’equilibrio di potere si sarebbe irrimediabilmente arrestato per riaffioraresoltanto all’alba dell’età moderna, nell’Italia e nell’Europa «in certo modo bilan-ciata»11 del Magnifico, di Machiavelli e di Guicciardini12. D’altra parte, la capacitàdi Roma di controllare per secoli il mondo mediterraneo e la lunga, storicamenteimparagonabile durata dell’impero romano avrebbero offerto di per sé una sorta diprova empirica del valore relativo dei meccanismi di equilibrio di potenza e certonon avrebbero sollecitato inutili speculazioni per sistematizzare teoricamente ciòche non trovava riscontro nella pratica politico-strategica.A questo punto l’analisi di Sheehan mostra particolarmente la corda, denun-

ciando una visione quanto meno parziale e riduttiva, più da scienziato della poli-tica che non da storico, di una realtà complessa come quella dell’impero di Roma.Può essere infatti corretta l’osservazione circa la perdurante assenza negli autoriromani di sistematizzazione metodologico-interpretativa del concetto di equilibriodi forze, ma anche qui occorrerebbe una più attenta distinzione fra la definizioneesplicita in termini moderni di princìpi legati alla scienza della politica o addirit-tura alla filosofia della storia (che è assai arduo richiedere alla storiografia romana)e la descrizione di fenomeni politico-militari o politico-diplomatici in atto, attra-verso i quali è indubbiamente possibile cogliere, anche facendo riferimento aglistorici di Roma, numerosi spunti di analisi comunque riconducibili alla problema-tica del balance of power. La vicenda storica di Roma, contrariamente a quanto sostengono Michael

Sheehan e molti studiosi contemporanei di scienza della politica e di storia dellerelazioni internazionali, prevalentemente di scuola anglosassone, si mostra ampia-mente regolata dalla meccanica dell’equilibrio e del disequilibrio delle forze; è suf-ficiente far riferimento a confronti epocali di lunga o lunghissima durata comequello con Cartagine o quello con l’impero partico-persiano per trovarci di fronte amodelli esemplari di equivalenza bipolare: nel primo caso – Roma/Cartagine13 – l’e-quilibrio deflagra con relativa rapidità, mentre nel secondo caso – Roma/Parti-Per-siani – si osserva una tipologia di relazione internazionale biunivoca ancor piùemblematica e sulla quale converrebbe oggi ritornare in maniera ben più organica eapprofondita di quanto non si sia fatto in passato: l’equilibrio perdura infatti persecoli, per alterarsi in maniera significativa soltanto in periodi tutto sommato brevi

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11 N. MACHIAVELLI, Il Principe, XX; cfr. F. GUICCIARDINI, La Storia d’Italia, I, I, e, nel quadro diuna chiara interpretazione «biologica» della storia che, al di là delle chiavi interpretative di improntaneoplatonica, denuncia una visione comunque riconducibile allo schema dell’equilibrio di potenza, cfr.pure PH. DE COMMYNES, Mémoires V, 18.12 In proposito soprattutto CESA, L’equilibrio di potenza cit., pp. 13-480.13 Il riferimento d’obbligo è ovviamente ai trattati romano-cartaginesi, prima e dopo i primi due

conflitti punici; tali trattati, di là dalla loro attendibilità storico-cronologica, attestano l’evidente e pro-gressivo modificarsi dei rapporti di forza tra le due potenze, passando attraverso un momento disostanziale equilibrio di potenza tra l’inizio e la fine della prima guerra punica, ancora sancito (sullacarta se non nella sostanza) dalle clausole di pace del 241 a.C.: POLYB., III, 23-27; XV, 18-19; cfr. E.GABBA, L’imperialismo romano, in Storia di Roma, II, 1, Torino 19901, pp. 55-67.

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di alterno sbilanciamento di forze (come al tempo di Traiano a vantaggio di Roma,o in pieno III secolo a vantaggio dei Persiani)14.Ma all’universo politico-concettuale dell’equilibrio di forze non rimandano sol-

tanto le macroscopiche confrontations dello stato repubblicano o dello stato impe-riale con i grandi omologhi d’Africa o d’Oriente; altrettanto e forse più sorpren-denti appaiono le connessioni con tale universo nelle strategie dei periodi estremiche aprono e chiudono la grande storia di Roma: prima l’epoca dell’espansioneimperialistica e della romanizzazione e, dopo, le fasi della crisi tardoantica, il lungoperiodo cioè, per dirla alla Edward Luttwak, della difesa «in profondità»15 che siapre con i Severi e si chiude senza rumore nell’incerto scorrere del V secolo d.C.Non è qui luogo, per ovvie ragioni, di ripercorrere le tappe della romanizzazione

e di ridisegnarne il poliedrico profilo politico, economico, culturale, ideologico,strategico e militare, ma qualche spunto di chiarimento nel senso che ci interessapuò venire da una fonte davvero particolare e insospettata. È merito di Paolo Desideri16 avere riportato l’attenzione di chi si occupa di sto-

ria romana e dell’ideologia della romanizzazione, anche nei suoi molteplici riflessisul mondo occidentale moderno, sull’opera saggistica di James Bryce. Personaggiodi grande rilievo politico nell’Inghilterra della transizione vittoriana e dell’iniziodel XX secolo17, ministro con Gladstone, autore di un avanzato ancorché sfortunato

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14 Cfr. ad es. E. GABBA, Per la storia dell’esercito romano in età imperiale, Bologna 1974, pp. 7-42;M. G. ANGELI BERTINELLI, Roma e l’Oriente: strategia, economia, società e cultura nelle relazioni politi-che fra Roma, la Giudea e l’Iran, Roma 1979; J. WOLSKI, Iran und Rom. Versuch einer historischen Wer-tung der gegenseitigen Beziehungen, ANRW, II 9.1, Berlin, New York 1979, pp. 195-214; G. WIRTH,Rom. Parther und Sassaniden, in «Ancient Society» 11-12, 1981-1982, pp. 305-347; A. N. SHERWIN-WHITE, Roman Foreign Policy in the East, 168 BC - AD 1, London 1983; J. COULSTON, Roman, Parthianand Sassanid Tactical Developments, in P. W. M. FREEMAN, D. L. KENNEDY (a cura di), Defence of theRoman and Byzantine East, BAR, 297, Oxford 1986, pp. 59-75; G. MARASCO, Greci, Parti e Romanialla metà del II sec. d.C. Sull’iscrizione bilingue dell’Eracle di Seleucia, in ID., Studia Historica, Firenze1988; E. GABBA, I Parti, in Storia di Roma, II, 2, Torino 1991, pp. 433-442; A. D. LEE, Informationsand Frontiers. Roman Foreign Relations in Late Antiquity, Cambridge 1993; V. SARKHOSH CURTIS, S.STEWART (a cura di), The Age of the Parthians, London 2007; H. BÖRM, J. WIESEHÖFER (a cura di),Commutatio et Contentio. Studies in the Late Roman, Sasanian, and Early Islamic Near East in Memory ofZeev Rubin, Düsseldorf 2010; R. M. SHELDON, Rome’s War in Parthia, London 2010, e – in partico-lare sulla funzione di stato cuscinetto fra Roma e impero partico a lungo giocata dall’Armenia, che dif-ficilmente si può negare rientri in uno dei canoni più studiati della teoria dell’equilibrio dei sistemipolitici là dove si definisce il ruolo del balancer fisicamente interposto fra potenze o sistemi di potenzeequivalenti –, M.-L. CHAUMONT, L’Arménie entre Rome et l’Iran, I: De l’avènement d’Auguste à l’avè-nement de Dioclétien, ANRW, 1, II/9, Berlin, New York 1976, pp. 71-194.15 E. N. LUTTWAK, The Grand Strategy of the Roman Empire, Baltimore 1976 (trad. it. La grande

strategia dell’impero romano dal I al III secolo d.C., Milano 1981, pp. 171-253).16 P. DESIDERI, La romanizzazione dell’impero, in Storia di Roma, II, 2, Torino 1991, pp. 577-626.17 Oltre alla prefazione di G. PACCHIONI a J. BRYCE, Imperialismo romano e britannico, Torino

1907, cfr. soprattutto T. KLEINKNECHT, Imperiale und internationale Ordnung. Eine Untersuchung zumangloamerikanischen Gelehrtenliberalismus am Beispiel von James Bryce (1838-1922), Göttingen 1985; F.L. VIANO, Una democrazia imperiale: l’America di James Bryce, Firenze 2003; J. T. SEAMAN JR., A Cit-izen of the World: The Life of James Bryce, London, New York 2006; G. SCATENA, Impero, nazione edemocrazia nell’opera di James Bryce, Roma 2010; S. RODA, Il modello della repubblica imperiale romanafra mondo antico e mondo moderno. «Fecisti patriam diversis gentibus unam», Milano 2011, pp. 129-144.

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progetto di Home-Rule per l’Irlanda, e ancora ministro segretario di stato per i pro-blemi d’Irlanda nel gabinetto Campbell-Bannermann e poi capo della propagandainglese durante il primo conflitto mondiale, a Bryce si devono studi di varia natura:storica, storico-comparativista, politica, giuridica e scientifica18. Gli storici delmondo antico e medievale ricordano ovviamente soprattutto la sua pregevole mono-grafia sul Sacro Romano Impero e i suoi saggi di comparazione fra imperi e impe-rialismi romano e britannico. Nel più importante fra questi ultimi lavori, TheAncient Roman Empire and the British Empire in India (pubblicato a New York nel1901 e tradotto rapidamente anche in Italia insieme ad altri suoi contributi nelvolume complessivo Imperialismo romano e britannico, Torino 1907), James Bryceespone le sue teorie filocolonialiste nell’ottica legittimante della missione civilizza-trice e del diritto/dovere delle nazioni più civili di assumere il controllo dei popolibarbari o semibarbari, avviandoli sul lento cammino della civiltà attraverso un pro-cesso tanto selettivo quanto tenace e inflessibile di assimilazione e omogeneizza-zione culturale. L’obiettivo e il compito che il liberal Bryce assegna alle nazioni europee e soprat-

tutto all’Inghilterra è quello di dare vita a una sorta di nuova unità del genereumano, accomunata da un kind of civilisation che sia ovunque lo stesso nei suoiaspetti esteriori di tipo istituzionale, politico, economico e sociale e che sia anchesufficientemente uniforme nei suoi contenuti intellettuali. Il prezzo da pagare peril conseguimento di tale meta e in funzione del quale occorre anche, per così dire,sublimare o ribaltare regole etiche comuni ed elementari la cui applicazione risul-terebbe, in un simile contesto di missione universalistica, gravemente nociva, è l’an-nientamento di alcune razze inadeguate o refrattarie all’assorbimento dei nuoviprincìpi e l’assoggettamento di altre potenzialmente recettive, ma soltanto su tempidi incommensurabile lunghezza. Tutto in funzione di un’idea, già realizzata aitempi di Roma imperiale, che la dominazione e il governo dei popoli assoggettatidebbano essere considerati come una missione da compiere con senso di responsa-bilità verso Dio e verso l’umanità intera. Leader di tale processo missionario è ovvia-mente per Bryce l’Inghilterra, che va riproducendo e migliorando, correggendonegli errori di prospettiva sociostorica, l’esperienza di Roma, la quale unificò politi-camente il mondo antico, già culturalmente coeso in Oriente, grazie alla civiltàgreca, allargata all’Occidente e rinsaldata sul piano etico-religioso dalla diffusionemonopolistica del cristianesimo19. All’interno di questo articolato quadro ideologico, che sarebbe evidentemente

riduttivo – anche per lo spessore intellettuale di chi lo elabora – liquidare in ter-mini di mero e contingente opportunismo politico colonialista, procede costante,per analogie strutturali e di fondo ma anche per differenze comunque significativedi dettaglio, il gioco del parallelismo fra la Roma della conquista e l’Inghilterra delcolonialismo. Di particolare interesse, per noi, il confronto che Bryce istituisce findalle pagine di esordio della sua indagine:

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18 B. C. BERNARD, James Bryce and St. Louis: A Bibliographic Introduction to the Writings of JamesBryce, May 10, 1988, Granite City IL 1988; ID., The James Bryce Collection at Washington University,St. Louis, October 22, 1988, Granite City IL 1988.19 Cfr. anche RODA, Il modello della repubblica cit., pp. 135-144.

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Sia Roma sia l’Inghilterra furono sospinte oltre nella via delle conquiste dall’esperienzache l’una implicava inevitabilmente l’altra; sia perché occorreva soggiogare inquietetribù di confine; sia perché dei vicini formidabili sembravano costituire un pericolocostante per la sicurezza delle province soggiogate sì, ma spesso scontente; sia perché glialleati, di potenza inferiore, passavano gradualmente in una posizione di dipendenza daprima, e di soggezione poi20.

Forse involontariamente e non senza qualche ingenua semplificazione, Brycecoglie in queste frasi uno dei princìpi fondamentali della filosofia della conquistaromana: l’espansione a scaglie sovrapposte, secondo un meccanismo d’induzione cheimpone la conquista a catena dei territori finitimi a quelli appena conquistati fino alraggiungimento di un confine sicuro, di un limite difendibile non tanto perchémunito naturalmente o attraverso opportuni interventi di fortificazione e d’inge-gneria militare di difesa, quanto perché asse di equilibrio di un sistema sufficiente-mente attrezzato verso l’interno e bilanciato verso l’esterno. Che la rincorsa alle con-quiste di Roma non fosse sempre motivata dalla ricerca di risorse o dall’acquisizionedi terre è cosa nota anche agli studenti del primo esame di storia romana: spesso, opiù spesso, «l’una [conquista] implica inevitabilmente l’altra»; popolazioni minac-ciose al confine delle nuove province consigliano di allargare il limite territoriale pereliminare il pericolo; il progresso dell’espansione avvicina nazioni potenti primaseparate da ampi cuscinetti protettivi e ora invece a diretto contatto confinario eperciò da annientare e annettere, o in quanto potenzialmente pericolose di per sé, oper scongiurare un loro eventuale intervento a fianco di province romane non ancorapacatae; il variare delle condizioni sociogiuridiche di dipendenza di popoli già con-quistati impone un perfezionamento del sistema di controllo, e così via, secondo unoschema di azione che collega ogni nuova (o rinnovata) acquisizione territoriale almantenimento dell’equilibrio interno ed esterno. Ogni conquista che si aggiunge, inaltri termini, può alterare l’equilibrio raggiunto: per questo le conquiste e le annes-sioni vanno graduate e misurate in funzione della possibilità di ricomposizione di unequilibrio inteso sia come riorganizzazione interna, sia, soprattutto, come capacitàdi confrontarsi, alle nuove condizioni, con i potenziali nemici esterni. Del resto, l’intelligenza politica romana elaborò rapidamente il principio – tanto

ovvio quanto spessissimo annebbiato e conculcato dalla cieca volontà di potenza –in base al quale non necessariamente ogni conquista e ogni ampliamento territorialesi traducono in un automatico rafforzamento dello stato conquistatore e in una cre-scita proporzionale del suo potere: talvolta, gli effetti di sbilanciamento rischianodi essere più deleteri di una mancata conquista. Se rileggiamo alla luce di tali con-siderazioni quanto Appiano afferma nell’undicesimo paragrafo della celebre Prae-fatio alla sua opera storica, ve ne troveremo indiretta conferma:

L’impero dei Romani per vastità e fortuna è insigne sopra tutti, grazie al senno e rispettoalla durata ed anche al valore, alla tenacia, all’energia e alla prudenza messe in opera perampliarlo: nelle quali doti i Romani superarono tutti senza inorgoglirsi per la prosperitàfino a che non si assicurarono salda potenza, né lasciandosi abbattere nelle avversità […].

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20 BRYCE, Imperialismo romano e britannico cit., p. 10.

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Più volte corse pericolo Roma stessa […]; finché dopo un travaglio di settecento anni eavere messa talvolta a rischio la loro stessa esistenza, i Romani giunsero gradatamentealla potenza attuale, e fruirono di una fortuna che si erano meritati con il senno21.

Pur attraverso la coloritura encomiastica e l’artificiosità dell’impianto lettera-rio, appare chiaro – anche in termini di iterazione semantica – come Appianointenda sottolineare soprattutto il senno e la prudenza che hanno sovrainteso allaconquista e sovraintendono al governo dell’impero di Roma: la potenza è fruttodella gradualità plurisecolare della conquista e la fortuna è effetto meritato dell’in-telligenza politica. La medietas che non fa inorgoglire per le conquiste provvisorie èla stessa che mira alla stabilità e alla saldezza del potere, le quali a loro volta si otten-gono gradatamente, preservando incessantemente gli equilibri raggiunti. Nulla ècasuale nelle scelte di espansione e conquista e, soprattutto, non esiste impulsivitàdi azione: ogni intervento si commisura o si corregge in relazione alle concrete, pre-meditate o esperite possibilità di riequilibrio degli assetti di sistema dopo aver per-seguito la variazione degli assetti territoriali e geopolitici22. In tempi non lontani, per diverse incombenze di munus loci, con Lellia Cracco

Ruggini23 e altri si è avuta l’opportunità di occuparci della romanizzazione dellaTranspadana nordoccidentale, della fondazione coloniaria e del ruolo della coloniadi Augusta Taurinorum all’interno della grande strategia dell’impero24. Ebbene, lacolonizzazione di quel lembo sperduto e poco importante dell’Italia settentrionalecostituisce uno degli inneschi di una fase della conquista romana quanto mai espli-cativa del modello romano d’espansione controllata e bilanciata, attento in primoluogo ai meccanismi di difesa attiva e passiva e pronto ad arrestarsi nel momento incui si appalesa la difficoltà di controllo degli equilibri di potenza.Non intendo ripetere dati storici da tempo acquisiti, ma è evidente che l’inte-

resse di Roma per un quadrante come quello cisalpino e alpino nordoccidentale nonsi giustificava in termini prevalentemente economici, dal momento che il territorionon presentava caratteristiche di specifica appetibilità da questo punto di vista, dopoil sostanziale esaurirsi dello sfruttamento (in stato peraltro di rigido controllo mili-tare e di inesistente integrazione sociale) delle aurifodinae della Bessa. Area di mon-tagna demograficamente e culturalmente depressa, il Piemonte transpadano doveva

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21 APP., Praef. 11, 43-44; cfr. E. GABBA, Appiano e la storia delle guerre civili, Firenze 1956, pp. 3-9; B. GOLDMANN, Einheitlichkeit und Eingenständigkeit der Historia Romana des Appian, Beiträge zurAltertumwissenschaft, 6, Hildesheim, Zürich, New York 1988.22 DESIDERI, La romanizzazione cit., pp. 577-587; E. GABBA, La prima guerra punica e gli inizi del-

l’espansione transmarina, in Storia di Roma, II, 1, Torino 1990, pp. 55-67; ID., Aspetti culturali dell’im-perialismo romano, Firenze 1993; RODA, Il modello della repubblica cit.23 L. CRACCO RUGGINI, Per la storia di una città «periferica»: Augusta Taurinorum, in «Studia et

Documenta. Historiae et Iuris» 60, 1996, pp. 19-48.24 S. RODA, La romanizzazione, in Storia di Torino, I: Dalla preistoria al comune medievale, Torino

1997, pp. 155-185; ID., Torino romana, ibid., pp. 189-220; ID., L’età tardoantica e il cristianesimo,ibid., pp. 233-246; ID., La fine dell’impero e i primi regni barbarici, ibid., pp. 297-315; cfr. pure E.CULASSO, I Taurini ai piedi delle Alpi, ibid., pp. 97-131; G. CRESCI MARRONE, La romanizzazione,ibid., pp. 135-155; F. BOLGIANI, L’età tardoantica e il cristianesimo, ibid., pp. 233-287; S. GIORCELLIBERSANI, S. RODA, «Iuxta fines Alpium». Studi sulla romanizzazione del Piemonte, Biblioteca StoricaSubalpina, CCXV, Torino 1999.

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inoltre evocare nell’immaginario collettivo romano sensi d’inquieta repulsa che nonne sollecitavano la piena conquista e assimilazione, nella convinzione che da quellazona impervia e abitata da bellicose e inaddomesticabili tribù poteva venire soltantouna preoccupante somma di problemi e una pericolosa scossa agli appena ridefinitiassetti giuridico-istituzionali dell’area padana e subalpina. Alla conquista sistema-tica, alla colonizzazione e alla romanizzazione si procedette con rapidità e intensitàsoltanto quando l’area divenne strategicamente indispensabile come fronte internodi supporto, nella prospettiva di intensa frequentazione militare e commerciale deiprincipali valichi alpino-occidentali prevista dal progetto di Augusto di spostamentodel confine centro-nordeuropeo dal Reno all’Elba. Salvo poi perdere con altrettantarapidità rilievo e importanza quando tale funzione sostanzialmente si esaurì, e cioèallorché, subito dopo il disastro di Teutoburgo, lo stesso Augusto definitivamenterinunciò a ogni velleità di espansione nella Germania transrenana25. Si intrecciano qui, con un rapporto di singolare interdipendenza causale, due fatti

della piccola e grande strategia dello stato romano che, pur nella loro incommensu-rabilità politica, appaiono sostanzialmente convergenti nel segno di quella filosofiadella conquista romana che potremmo definire – con ossimoro solo apparente – di«espansione difensiva». Il grande progetto augusteo di trasferimento del limesall’Elba viene accuratamente preparato nel minimi particolari, «pacificando» tra l’al-tro una zona la cui annessione/assimilazione negli equilibri precedenti poteva costi-tuire invece elemento di disarticolazione e creare problemi di difesa interna. I futuriequilibri previsti imponevano al contrario un controllo stretto e capillare e una con-versione funzionale della medesima area: donde il piano di conquista e fondazionecoloniaria, le guerre alpine, il patto con Cozio, l’organizzazione strutturale e di sup-porto al transito, il riassetto sociale, la dislocazione nelle città di una classe dirigentemagistratuale e funzionariale di matura esperienza proveniente dal Centro Italia odalla ben più romanizzata pianura padana orientale, l’educazione ideologica e cultu-rale delle popolazioni locali attraverso l’uso sistematico dell’apparato simbolico-evo-cativo della religione ufficiale e dei suoi cerimoniali26. Un significativo capitolo dipiccola storia che doveva concorrere a scrivere un ben più importante capitolo digrande storia secondo un copione precostituito. La trama di quel copione dovetteessere corretta sull’onda di una cocente sconfitta, di un tragico lutto, elaborato peròfacendo ampiamente ricorso a ciò che Appiano avrebbe definito prudenza, senno ecapacità di reagire con costrutto politico alle avversità che colpiscono gli stati al paridegli individui. E in questo caso il senno, l’intelligenza politica si tradusse nella presadi coscienza che lo spostamento del confine della repubblica imperiale avrebbe creatoesigenze di difesa così ardue e complesse, da mettere in discussione l’intero ordinestrutturale delle province occidentali, drenando forze talmente cospicue da provo-care contraccolpi su tutta la compagine dello stato romano. Con un facile gioco diparole, potremmo affermare che in questo caso senso del limes e senso del limite sisovrappongono: una grande potenza verifica i margini oltre i quali la propria bilan-cia del potere interno ed esterno cessa di equilibrarsi e rinuncia definitivamente

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25 RODA, La romanizzazione cit., pp. 155-167.26 S. GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indiziario: cultualità cisalpina occidentale in età romana, in

GIORCELLI BERSANI, RODA, «Iuxta fines Alpium» cit., pp. 5-130.

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(almeno per quell’importantissimo settore) a ogni ipotesi di ulteriore espansione,attribuendo al limes renano un valore anche simbolico di barriera ei)j a)ei/, di confinegeografico e politico ma anche in qualche misura etico-ideologico. Oltre non è pru-dente, non è saggio, non è opportuno, non è lecito andare: l’alterazione degli equili-bri di potenza s’identifica con la presunzione distruttiva degli imperi che, non avendoil senso del limite, crescono fino a implodere o a rimanere soffocati dalla loro stessainsaziabile avidità di conquista: guarda caso, si tratta della spiegazione/imputazioneche un Appiano, ma anche un Dionigi di Alicarnasso27, un Giuseppe Flavio28, un ElioAristide29 formulano rispetto al fallimento politico degli imperi universali che nellacontinuità storica precedettero cronologicamente l’impero di Roma30.Difficile dunque, anche alla luce di questa pur cursoria esemplificazione, non

attribuire alla fase di formazione e consolidamento dell’impero di Roma la sensibi-lità politica alle problematiche di balance of power nella duplice accezione di salva-guardia prioritaria degli assetti sociopolitici e socioistituzionali interni e di atten-zione costante al mantenimento degli equilibri difensivi verso l’esterno.La medesima sensibilità, in forme, modalità ed esiti del tutto diversi, conside-

rato il sostanziale rovesciamento dei presupposti storici, si riscontra a nostro avvisonella realtà tardoantica e in particolare nel tentativo, sempre più arduo in progressodi tempo, di proteggere la securitas Italiae garantendo contestualmente le principalisedi imperiali (Roma, Milano, Ravenna), la persona degli imperatori e la lorodomus, e l’intangibilità di quello che continuava a essere, in quanto antico territo-rio pomeriale di Roma, il centro ideologico e simbolico dell’impero, pur avendo per-duto da tempo centralità economica e pur conservando soltanto parziale e rapso-dica centralità politica31. Più che sulla rassegna dei dati – del resto ben noti – circa l’organizzazione difen-

siva militare del confine delle Alpi e del confine nordorientale in particolare, mi pareutile soffermarmi sulle linee concettuali lungo le quali tale strategia pare articolarsi. L’esame dell’abbondante letteratura storica e archeologica in merito dimostra

del resto come il quadro strutturale ed evenemenziale del sistema di difesa e dellevicende militari nel tardoantico italico settentrionale e nordorientale sia ormainoto, soprattutto dopo alcune documentatissime analisi di insieme che vanno dalladissertazione bernese di Degrassi del 195432 fino ai lavori di Lellia Cracco Ruggininelle storie di città padane e venete33, passando per contributi più riassuntivi ma

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27 DION. HAL., Ant. Rom. I, 2-3. 28 JOSEPH. FL., Bell. Jud. II, 345-401.29 ARISTID., Ei)j Rw/mhn 15-28. 30 RODA, Il modello della repubblica cit.31 Cfr. ad es. A. GIARDINA, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Roma, Bari 1997, pp.

265-321.32 A. DEGRASSI, Il confine nord-orientale dell’Italia romana. Ricerche storico-topografiche, Diss.

Bern., 6, Bernae 1954. 33 L. CRACCO RUGGINI, Ticinum: dal 476 d.C. alla fine del Regno Gotico, in Storia di Pavia, Milano

1984, pp. 271-312; EAD., Aquileia e Concordia: il duplice volto di una società urbana nel IV secolo d.C.,in «Antichità AltoAdriatiche» 29, 1987, pp. 57-95; EAD., Storia totale di una piccola città: Vicenzaromana, in Storia di Vicenza, I: Il territorio. La preistoria. L’età romana, a cura di L. CRACCO RUGGINI,A. BROGLIO, Vicenza 1987, pp. 205-303; EAD., Acque e lagune da periferia del mondo a fulcro di unanuova «civilitas», in Storia di Venezia, I, Roma 1992, pp. 11-102.

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quanto mai utili nella loro chiarezza espositiva come quelli di G. Clemente34;accanto a questi si collocano poi l’abbondantissima e spesso assai puntuale biblio-grafia sui claustra Alpium Iuliarum e sulla politica «di frontiera» attuata sul versanteorientale dell’arco alpino nei secoli tardi dell’impero e in seguito in età altomedie-vale romano-germanica35; i più specifici interventi archeologici, in alcuni casi conlegittime pretese di sintesi36; e infine la letteratura sul warfare romano e sulla sto-ria militare tardoantica (con particolare riferimento alle complesse modalità del con-fronto politico-militare con i «barbari») che ha ricevuto negli ultimi anni partico-lare impulso, divenendo oggetto di interesse scientifico ad altissimo livello edemancipandosi, forse definitivamente, dalle incrostazioni di tipo bellicistico e stra-tegico-acronico che ne facevano spesso poco più che un elegante hobby da reduci

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34 G. CLEMENTE, Problemi politico-militari dell’Italia settentrionale nel tardo impero, in«Athenaeum», fasc. spec. (Atti del Convegno in memoria di P. FRACCARO), 1976, pp. 162-185; ID.,Ticinum: da Diocleziano alla caduta dell’impero di Occidente, in Storia di Pavia, I: L’età antica, Pavia1984, pp. 162-185.35 S. STUCCHI, Le difese romane alla porta orientale d’Italia, in «Aevum» 19, 1945; J. ŠAŠEL, P.

PETRU, Claustra Alpium Iuliarum, I: Fontes, Ljubljana 1971; G. ALFÖLDY, Noricum, London 1974; Y.M. DUVAL, Aquilée sur la route des invasions (350-452), in «Antichità AltoAdriatiche» 9, 1976, pp.237-298; T. S. BURNS, The Alpine Frontier and Early Medieval Italy, in The Frontier Comparative Studies,II, Norman OK 1979, pp. 51-68; S. JOHNSON, Late Roman Fortifications, Batsford 1983; C. ZACCARIA,Le fortificazioni romane e tardoantiche, in T. MIOTTI (a cura di), Castelli del Friuli, Bologna 1981, pp.61-95; T. S. BURNS, The Germans and Roman Frontier Policy (ca. A.D. 350-378), in «Arheološki Vest-nik» 32, 1981, pp. 390-404; F. G. B. MILLAR, Emperors, Frontiers and Foreign Relations, 31 BC - AD378, in «Britannia» 13, 1982, pp. 1-23; S. L. DYSON, The Creation of the Roman Frontier, PrincetonNJ 1985, in particolare pp. 7-86; B. ISAAC, The Limits of Empire: The Roman Army in the East, Oxford1990; N. CHRISTIE, The Alps as a Frontier (AD 168-774), in «Journal of Roman Archaeology» 4, 1991,pp. 411-430; H. W. ELTON, The Defence of Gaul, in J. F. DRINKWATER, H. W. ELTON (a cura di),Fifth-Century Gaul: A Crisis of Identity, Cambridge 1992, pp. 167-176 (per le analogie problematiche);D. BREEZE, B. DOBSON, Roman Officers & Frontiers, MAVORS, 10, Stuttgart 1993; T. S. BURNS, Bar-barians within the Gates of Rome. A Study of Roman Military Policy and the Barbarians, ca. 375-425 A.D.,Bloomington, Indianapolis 1994; L. GATTO, Le frontiere orientali italiane e il Veneto nella politica esteradi Teodorico, in «Romanobarbarica» 14, 1996-1997, pp. 163-223; R. SEAGER, Perceptions of EasternFrontier Policy in Ammianus, Libanius and Julian, in «Classical Quarterly» 47, 1997, 253-268; C. R.WHITTAKER, Frontiers of the Roman Empire. A Social and Economic Study, Baltimora, London 1997.36 Penso al breve ma denso lavoro di CHRISTIE, The Alps as a Frontier cit., pp. 411-430, ma anche

ad es. STUCCHI, Le difese romane cit., pp. 342-356; J. FITZ, Zur Geschichte der Praetentura Italiae etAlpium im Laufe der Markomannenkriege, in «Arheološki Vestnik» 19, 1968, pp. 43-68; J. ŠAŠEL, ÜberUmfang und Dauer der Militärzone Praetentura Italiae zur Zeit Marcus Aurels, in «Museum Helveticum»31, 1974, pp. 225-233; H. BÖHME, Archäologische Zeugnisse zur Geschichte der Markomannenkriege(166-180 n. Chr.), in «Jahrbuch des Römisch-Germanischen Zentralmuseums Mainz» 22, 1975, pp.156-178; P. PETRU, Ricerche recenti sulle fortificazioni tardoantiche nelle Alpi Orientali, in «AntichitàAltoAdriatiche» 9, 1976, pp. 229-236; L. BOSIO, Le fortificazioni tardoantiche del territorio di Aquileia,in «Antichità AltoAdriatiche» 15, 1979, pp. 522-537; T. ULBERT, Zur Siedlungkontinuität im südöstli-chen Alpenraum (vom 2. bis 6. Jahrhundert n. Chr.), in J. WERNER, E. EWIG (a cura di), Von den spätan-tike zum frühen Mittelalter, München 1979, pp. 151-157; ID., Ad Pirum (Hrušica). Spätrömische Passbe-festigung in der julischen Alpen. Der deutsche Beitrag zu den slowenisch-deutschen Grabungen 1971-1973,München 1981; ZACCARIA, Le fortificazioni cit., pp. 61-95; G. LETTICH, Concordia e Aquileia: notesull’organizzazione difensiva del confine orientale d’Italia nel IV secolo, in «Antichità AltoAdriatiche» 22,1982, pp. 67-87; V. BIERBAUER, Invillino-Ibligo in Friaul I. Die römische Siedlung und das spätantik-frühemittelalteriche Castrum, München 1987; ID., Invillino-Ibligo in Friaul II. Die römische Siedlung unddas spätantik-frühemittelalteriche Kirchen, München 1988.

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(penso in particolare negli ultimi quindici-vent’anni, citando a caso, agli importantilavori complessivi o agli articoli mirati di Alföldy37, Birley38, Burns39, Maria Cesa40,Drinkwater41, Elton42, Gabba43, Hohlfelder44, Ibeji45, Le Bohec46, Nicasie47,Richardot48, Rollinger49, Scharf50, Speidel51, Vallet e Kazanski52, Campbell53,Goldsworthy54, Southern55, Roth56).Il sistema difensivo italico, la difesa arretrata o «in profondità» secondo le

diverse formulazioni correnti, si propone fin dall’epoca delle guerre marcomannichesecondo un assetto che, sfruttando la barriera naturale dell’arco alpino, costituiscenel contempo un retrofronte di appoggio al limes renano-danubiano e un estremobaluardo di attestazione militare nel caso il tradizionale confine non avesse dovutopiù reggere l’urto delle popolazioni ostili. L’istituzione marcaureliana della Prae-tentura Italiae et Alpium nel 168 d.C.57 muove appunto in questa prospettiva, cosìcome nella stessa logica si indirizzerà, poco più di due secoli dopo, l’istituzione –con il compito di presidiare il Tractus Italiae circa Alpes – del comes Italiae, sulla cui

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37 G. ALFÖLDY, Römische Heeresgeschichte, MAVORS, 3, Amsterdam 1987. 38 E. BIRLEY, The Roman Army, MAVORS, 4, Amsterdam 1988.39 BURNS, The Germans cit., pp. 390-404; ID., Barbarians cit. 40 M. CESA, H. SIVAN, Alarico in Italia: Pollenza e Verona, in «Historia» 39, 1990, pp. 361-374;

M. CESA, Impero tardoantico e barbari: la crisi militare da Adrianopoli al 418, Como 1994.41 J. F. DRINKWATER, The Usurpers Constantine III (407-411) and Jovinus (411-413), in «Britannia»

29, 1998, pp. 269-298.42 H. W. ELTON,Warfare in Roman Europe, AD 350-425, Oxford 1996. 43 GABBA, Per la storia cit.; ID., Le strategie militari. Le frontiere imperiali, in Storia di Roma, IV,

Torino 1989, pp. 487-513.44 R. L. HOHLFELDER, Marcian’s Gamble: A Reassessment of Eastern Imperial Policy toward Attila

AD 450-453, in «American Journal for Ancient History» 9, 1984, pp. 54-69. 45 M. C. IBEJI, The Evolution of the Roman Army during the Third Century, University of Birmin-

gham Diss., Birmingham 1991. 46 Y. LE BOHEC, L’armée romaine sous le Haut-Empire, Paris 1989 (trad. it. L’esercito romano. Le

armi imperiali da Augusto a Caracalla, Roma 1992).47M. NICASIE, Twilight of Empire: The Roman Army from the Reign of Diocletian until the Battle of

Adrianople, Amsterdam 1998. 48 P. RICHARDOT, La fin de l’armée romaine (284-476), Paris 1998.49 R. ROLLINGER, Zum Alamannen-feldzug Constantius’ II. an Bodensee und Rhein im Jahre 355 n.

Chr. und zu Julians erstem Aufenthalt in Italien. Überlegungen zu Ammianus Marcellinus 15,4, in «Klio»80, 1998, pp. 163-194.50 R. SCHARF, Der Juthungen Feldzug des Aetius, in «Tyche» 9, 1994, pp. 131-145.51M. P. SPEIDEL, Roman Army Studies, I, MAVORS, 1, Amsterdam 1984.52 F. VALLET, M. KAZANSKI (a cura di), L’Armée romaine et les barbares du IIIe au VIIe siècle, Rouen

1998.53 J. B. CAMPBELL, War and Society in Imperial Rome, New York 2002.54 A. GOLDSWORTHY, Roman Warfare, London 2000; ID., The Complete Roman Army, London

2003.55 P. SOUTHERN, The Roman Army: A Social and Istitutional History, Santa Barbara CA 2006.56 J. P. ROTH, Roman Warfare, Cambridge 2009.57 ALFÖLDY, Römische Heeresgeschichte cit., pp. 154-158; FITZ, Zur Geschichte cit., pp. 43-68;

ŠAŠEL, Über Umfang cit., pp. 225-233; BÖHME, Archäologische Zeugnisse cit., pp. 156-178; CHRISTIE,The Alps as a Frontier cit., pp. 412-413; AA.VV., Roma sul Danubio, a cura di M. BUORA, W. WOBST,Roma 2002; G. BIGLIARDI, La Praetentura Italiae et Alpium alla luce di nuove ricerche archeologiche, in«Aquileia Nostra» 78, 2007, pp. 297-312.

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precisa funzione, competenza, continuità di carica e organizzazione di officium tut-tora si discute, anche per la poca chiarezza in merito offerta dalla Notitia Dignita-tum per Occidentem58.Come ben è stato osservato, comunque, in tempi diversi, in fase di apertura di

quelle che si annunciavano come due crisi epocali di incerta e forse impossibile riso-luzione, le scelte della dirigenza imperiale andarono immediatamente nella dire-zione di costruire una sorta di sistema di equilibri minori e meglio difendibili all’in-terno del pur perdurante ma ormai precario sistema di equilibri maggiori. Si attuòinsomma una corsa in qualche misura eguale e contraria a quella che abbiamo vistoesplicarsi nella fase della conquista e della romanizzazione, una corsa cioè ad atte-starsi sul territorio minimo difendibile, che individuò nell’Italia la dimensioneanche simbolica di ultimo ridotto. Di qui l’edificazione – soprattutto nelle Alpiorientali, dalle quali comunque proveniva il pericolo reale o potenziale più consi-stente – di un sistema di fortificazioni, spesso integrato, restaurato e ampliato perfar fronte alla sua reiteratamente provata inadeguatezza, a cui si affiancò la sceltadi istituire unità militari mobili che assicurassero maggiore flessibilità di interventorispetto alle truppe attestate alla frontiera e costituissero un ulteriore baluardoumano di pronto intervento nel caso in cui il nemico superasse le linee fortificate.Va detto che il sistema per l’Italia nordorientale trova ulteriori supporti nella con-notazione militare e di servizio che assumono le città della Venetia et Histria, nellacreazione di una serie di opifici militari di rifornimento di armi, di abbigliamentoe di mezzi vari di sussistenza, e infine nell’istituzione di centri strategico-nevralgicidi transito (come Oderzo, Padova o Verona), all’interno di una rete di prefetturebarbariche meno fitta di quella simmetricamente istituita in Italia nordoccidentale(dove peraltro la presenza militare ufficiale di truppe regolari e ausiliarie apparivamolto più modesta, se non inesistente), ma investita di analoghi compiti di soste-gno difensivo di posizione59. Quest’ultimo espediente di istituire prefetture o pre-positure, prevalentemente costituite da truppe sarmatiche, rispose in una certamisura alle aspettative, offrendo un sistema sussidiario di difesa «leggero», specienell’occidente padano e subalpino, dove la presenza militare ufficiale di trupperegolari e ausiliarie apparve, nel corso di tutto il tardoantico e rispetto al settoreorientale, molto più modesta se non inconsistente. Eppure la medesima scelta, suun piano strategico più generale, denuncia il deleterio sovrapporsi e intrecciarsi didue criteri fra loro difficilmente conciliabili di recupero o ricostituzione attorno alterritorio italico di un qualsiasi equilibrio di potere.Da un lato – come appena detto – c’era il tentativo di ricomporre un assetto

difensivo forte, concentrando nel più esposto settore orientale un sistema integratodi fortificazioni e di truppe regolari mobili o stanziali all’interno di un adeguatoquadro socioistituzionale di supporto che rendesse l’Italia territorio di saldo con-trollo, fortino assediato ma sufficientemente solido, dotato di strumenti di difesa e

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58 Not. Dign. Occ. XXIV: in particolare N. CHRISTIE, The Alps as a Frontier (A.D. 168-774), in«Journal of Roman Archaeology» 78, 1991, pp. 411-430, in particolare pp. 418-420.59 Not. Dign. Occ. XLII, 52-54; CRACCO RUGGINI, Storia totale di una piccola città cit., pp. 205-

303, in particolare pp. 281-282.

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di offesa per contrastare (in termini ancora di balance of power) le velleità esternedi invasione e condizionamento. Dall’altro lato, però, c’era la variabile impazzitadell’estenuante ricerca di un secondo equilibrio interno, di natura istituzionale epolitica, attraverso l’assimilazione nei posti di potere decisionale politico-militari,o il coinvolgimento in compiti di sussidiarietà difensiva, o la semplice accoglienzain varietà di condizioni giuridiche, di sempre più numerosi individui e collettivitàdi etnia barbarica entro i confini.Tale seconda prospettiva, che è tratto connotante fondamentale del tardoantico

occidentale, appare evidentemente tesa a risolvere o a contrastare un problema dif-ficilmente eludibile. In un ambito politico-strategico generale, però, essa di fattocontrasta con l’esigenza primaria di arroccamento difensivo, contribuendo in pro-gresso di tempo a mettere sempre più in discussione l’idea stessa di una securitasItaliae affidata in larga misura a soggetti privi di qualsiasi riferimento politico eideologico tradizionale ai valori simbolico-evocativi di Roma e dell’Italia.Il perseguimento del doppio equilibrio, interno fra soggetti obiettivamente sem-

pre più in contrasto man mano che andavano indebolendosi le strutture di sostegnoistituzionale, ma anche socioculturale, della pars Occidentis, ed esterno rispetto anemici spesso indistinguibili – nell’intreccio perverso del potere tardoantico – dagliamici, conduce a una reciproca elisione di efficacia.In questo senso, poco stupisce la paradossale alternanza, tra IV e inizio V secolo,

testimoniata dalle fonti storiche e archeologiche, di passaggi facili e senza alcunaresistenza attraverso i claustra Alpium Iuliarum, di continuo abbandono o ricompo-sizione delle fortificazioni, di non ricostruzione di fortificazioni in rovina, di paleseinutilità di fortificazioni esistenti e nel contempo di edificazione di nuove barriere. Una storia apparentemente schizofrenica che, ad esempio, riduce spesso la for-

midabile linea fortificata di Vrhnika, Hrušica e Ajdovšcvina al ruolo di una Maginotante litteram. O che fa notare a un Giordane come Alarico entrò in Italia dal ver-sante destro, cioè da est, in un’area abbandonata e sguarnita, simile quasi a undeserto60.Forse però mancò la possibilità reale di scegliere politicamente e strategicamente

tra un assetto che privilegiasse del tutto l’integrazione e l’assimilazione, accelerandomagari la fine dell’impero occidentale ma risparmiando a esso molti sussulti di ago-nia, e un risoluto arroccamento militare-difensivo che espellesse però dal territorioe dalla società da tutelare (il «ridotto-Italia») ogni potenziale avversario, allo stessomodo in cui – ma in ben altra situazione storico-politica – l’impero orientale si eradefinitivamente liberato, all’alba del V secolo, della presenza barbarica.Molto probabilmente, sullo scorcio del V secolo nessun balance of power, comun-

que concepito, era ormai in grado di reggere e compensare il disastro istituzionale,politico, militare e culturale dell’impero d’Occidente, oppure è vero ciò che ebbe ascrivere Simone Weil nell’aprile del 1939, poco prima della seconda guerra mon-diale, e che è stato alcuni anni or sono opportunamente richiamato a proposito deldramma che si consumò negli anni Novanta del secolo scorso nella ex Jugoslavia:

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60 JORD., Ghotica XXIX: Mox ut ergo antefatus Alaricus creatus est rex […] sumptu exercitu per Pan-nonias, Stilicone et Aureliano consulibus, et per Firmium dextero latere quasi viris vacuam intravit Italiam.

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Ci sono, nella vita dei popoli, momenti tragici in cui le intelligenze rischiano di paraliz-zarsi, e di preferire il disastro della pace ai dolori della guerra. È così grande il fatalisticostupore, e così vasto lo stregamento suscitato dai despoti avversari, che persino la com-prensione degli eventi non è più di aiuto. Si comprendono i pericoli, ma si dà per scon-tata la propria impotenza a fronteggiarli. Si comprendono le mutanti figure del Male,ma il pensiero raziocinante resta come indietro: incespicante, affaticato nella rincorsadei fatti, smarrito nei meandri quasi sempre stanchi, pigri, di sorpassate cogitazionidiplomatiche. Si ha appetito di grandi virtù pacifiche, affratellanti, e si dimentica che lavirtù, pur essendo per sé una cosa atemporale, deve pur sempre essere esercitata nelcorso del tempo, della storia61.

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61Cfr. B. SPINELLI, in «La Stampa», 6 aprile 1999, p. 1: fonte in S. WEIL, Sulla guerra. Scritti 1933-1943, trad. it. di D. ZAZZI, Milano 1998; EAD., Oeuvres, a cura di F. DE LUSSY, Paris 1999.

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IV

Classi medie e società altoimperiale romana: appunti per una riflessione storiografica*

Ci sono in effetti tre classi di cittadini: in primo luogo i ricchi, gente inutile e sempreoccupata ad accrescere il proprio patrimonio, e poi i poveri, privi del necessario pervivere, che sono pericolosi perché invidiosi, sedotti dalle lingue di demagoghi perversi eperciò pronti ad assalire i possidenti, e infine la classe media. Delle tre classi è la classemedia che salva le città, che salvaguarda le istituzioni che lo stato si è dato1.

I grandi stati non sono per lo più sconvolti da fazioni proprio perché la classe media ènumerosa; invece nei piccoli stati è facile dividere tutta quanta la popolazione in due,cosicché niente rimane in mezzo, e tutti in sostanza o si collocano fra i ricchi o si collo-cano fra i poveri2.

È chiaro dunque che la comunità politica migliore è quella costituita dalle classi medie eche gli stati in grado di darsi una buona costituzione sono proprio quelli nei quali esisteuna classe media numerosa e possibilmente più forte di tutte e due le altre o quanto menodi una delle due: la sua azione fa pendere la bilancia e impedisce il prevalere di eccessicontrari3.

La celeberrima dottrina del me/tron a)/riston si traduce, nei versi di Euripide enella riflessione aristotelica (così come del resto in quella platonica)4, in enunciatodi pragmatica applicazione sociopolitica: il modello di riferimento etico-esistenziale5

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* Il testo di questo capitolo è stato aggiornato rispetto alla relazione di eguale titolo pubblicata inA. SARTORI, A. VALVO (a cura di), Ceti medi in Cisalpina. L’epigrafia dei ceti intermedi nell’Italia setten-trionale di età romana, Atti del Colloquio internazionale (Milano, 14-16 settembre 2000), Milano 2002,pp. 27-36.1 EURIP., Supp., vv. 238-245. Il passo, di sicura matrice euripidea, è però probabilmente interpolato.2 ARIST., Pol. IV, 11, 4, 1296 a. 3

4 Cfr. ad es. PLATO, Leg. V, 744 d. 5 Sulla scelta individuale della «vita intermedia» che fugge ogni eccesso come via privilegiata per

l’uomo per acquisire la massima felicità, cfr. PLATO, Rep. X, 619 a, mentre sulla connessione framedietà e virtù e sul rapporto relativo a ciascun individuo, e non assoluto inerente all’oggetto, del giu-sto mezzo: ARIST., Pol. IV, 11, 3, 1295 a; Eth. Nic. II, 5, 1106 a-b.

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ARIST., 11, 10, 1295 b.Pol. IV,

del me/son quale pa/ntwn a)/rista6, la migliore di tutte le cose, e quale sede dell’es-senza e della ragione7, sostanzia la teoria politica secondo cui il governo delle classimedie si configura non solo come la migliore fra tutte le politei=ai, il miglior sistemacostituzionale adattabile alla maggior parte degli stati, ma anche come criterio dimisura e valutazione di altri regimi di governo. Democrazia e oligarchia, infatti,appaiono migliori o peggiori nella misura in cui più si avvicinano o più si discostanodall’idealtipica costituzione «media», prodotta e gestita dalle fasce sociali di mezzo,né ricche né povere8. D’altra parte, alla prova della storia, le città che sono state ingrado di darsi una buona costituzione si identificherebbero con quelle in cui laclasse media è più numerosa e più forte delle altre due: il suo apporto farebbe pen-dere infatti opportunamente la bilancia del potere e impedirebbe il consolidarsidegli eccessi contrari della democrazia demagogica da una parte e dell’oligarchiaradicale dall’altra9. Se ne deduce che la classe media – la sola, in quanto fattore pri-mordiale di stabilità costituzionale, capace di interpretare un effettivo ruolo conci-liatore ed equilibrante fra le diverse componenti sociali – costituisce la vera e pro-pria spina dorsale su cui lo stato si regge10.Non è evidentemente questa la sede per discorrere sull’efficacia politica della

dottrina del me/tron a)/riston; tuttavia, così come in dettaglio Aristotele la esponenel IV libro della Politica, integrabile con le considerazioni del Platone della Repub-blica e delle Leggi, essa ci consente di formulare alcune osservazioni di fondo utilialla nostra riflessione. In primo luogo se ne deduce un’evidente e non elementarepercezione, già nel mondo classico, di quell’articolato e in parte ambiguo concettodi stratificazione sociale, sulla precisa fisionomia e sui limiti del quale la sociologiatuttora si interroga; in secondo luogo, altrettanto chiara appare la coscienza diquanto stretta sia l’interdipendenza fra natura e qualità della stratificazione socialee stabilità o instabilità sociale e politica; per quanto si riferisce, infine, ai tratti iden-tificativi dei me/soi, essi si connotano soprattutto in ragione della condizione eco-nomica, sufficientemente solida per assicurare loro il benessere senza oltrepassare ilimiti del «possesso moderato». I poveri, infatti, soffocati dal rancore per la loromisera condizione e pressati dalla necessità contingente di sopravvivere, sono inca-paci di governare e paiono soltanto in grado di sottomettersi a mo’ di schiavi a chidetiene il potere. L’eccesso di ricchezza e, per conseguenza, di forza, di amiciinfluenti e di altre cose simili determina invece una sorta di delirio di onnipotenzache rende insofferenti alle leggi e al governo di altri: i ricchi oltre il limite dellamoderazione, insomma, non sanno sottomettersi ad alcun governo o sanno gover-

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CLASSI MEDIE E SOCIETÀ ALTOIMPERIALE ROMANA

6 DIOG. LAERTIUS, I, 93 (a proposito di Cleobulo di Lindo); THEOGNIS, v. 335: mhd/e/n a)/gan speu-dei//n pa/ntwn me/s’a)/rista. 7 ARIST., De partibus animalium II, 7, 652 b 17 sgg.8 ARIST., Pol. XI, 19-21, 1296 a-b.9 ARIST., Pol. IV, 11, 10; A. RIKLIN, Aristoteles und die Mischverfassung, Vaduz 1988; G. J. D. AAL-

DERS, Die Mischverfassung und ihre historische Dokumentation in den Politica des Aristoteles, in La «Poli-tique» d’Aristote (Vandoeuvres-Genève 31/VIII - 5/IX 1964), Entretiens sur l’Antiquité Classique, XI,Genève 1995, pp. 199-244; A. RIKLIN, Machtteilung, Geschichte der Mischverfassung, Darmstadt 2006.10 PLATO, Leg. V, 744 d.

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nare soltanto in maniera dispotica11. Quindi è necessario, come afferma Platone inun’interpretazione singolare ed estrema delle problematiche del conflitto d’interessiin politica, è necessario che il grande capitale immobiliare e finanziario (coloro cioèche possiedono terre, case e denaro) continui a curare i suoi affari e sia inveceescluso dai compiti di governo, difesa e tutela dello stato12. La moderata quantosicura consistenza patrimoniale del ceto medio agisce psicologicamente nella for-mazione di un carattere del pari moderato, che si giova di un’esistenza garantita: ime/soi non bramano ossessivamente i beni altrui, né alcuno desidera i loro beni cosìcome i poveri bramano i beni dei ricchi, e poiché non sono né oggetto né causa dicomplotti la loro vita trascorre senza pericolo13. Forti di tale condizione garantitae sicura, essi non brigano per ottenere cariche di governo, ma nemmeno le rifiutanoquando sono loro offerte14.Il quadro delineato da Platone e Aristotele ci propone dunque una classe media

omogenea, economicamente definita dalla «non ricchezza» e dalla «non povertà»,socialmente e psicologicamente solida e stabile, pronta se necessario, ma senza ansiedi potere, ad assumere la guida dello stato, di cui costituisce l’ossatura portante, eauspicabilmente destinata ad ampliarsi sempre più a danno delle altre due classi,entrambe parimenti dannose per la società.Tale modello, indubbiamente il più lucido schema interpretativo di stratifica-

zione delle classi sociali all’interno delle società di ancien régime, pone evidenti pro-blemi di applicabilità e di analogia sia rispetto ad altre realtà sociali del mondoantico, sia rispetto ai parametri interpretativi più moderni. La sua pretesa adatta-bilità erga omnes, ribadita reiteratamente da Aristotele, è senza dubbio effettodistorto della presunzione di superiorità del sistema, politicamente complesso, masocialmente semplice, delle poleis greche, e in particolare di Atene, a cui sembra ineffetti più funzionale. La difficoltà si pone in particolare ove si faccia riferimento sia a società più com-

plesse e articolate dal punto di vista della molteplicità dei livelli sociali e delleopportunità di mobilità al loro interno, sia a società che contemplino nel loro senocategorie diverse e compresenti di aggregazione sociale, come classi, ceti od ordini.In simili contesti sociali, che potremmo genericamente definire più moderni, la sem-plificazione definitoria dei tre livelli non trova possibilità di applicazione, né apparelecito ricondurre le fasce sociali intermedie alle medesime categorie di identità uti-lizzate da Aristotele. Inevitabilmente il discorso scivola, a questo punto, sulla duplice necessità di

identificare la natura più profonda delle differenziazioni sociali nelle società anti-che e di verificare la liceità o meno di applicare a esse concezioni sociologichemoderne.Con la consueta incisiva chiarezza, recensendo nella «Rivista di Filologia e Istru-

zione Classica» gli atti del colloquio di Caen dell’aprile 1969, Recherches sur les

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11 PLATO, Leg. V, 728 d - 729 a; VIII, 791 d; ARIST., Pol. IV, 11, 4-7, 1295 b. 12 PLATO, Rep. III, 417 a. Cfr. M. VEGETTI, Il problema della giustizia nella Repubblica di Platone,

in G. M. CHIODI, R. GATTI (a cura di), La filosofia politica di Platone, Milano 2008, pp. 27-38.13 ARIST., Pol. IV, 11, 8-9, 1295 b.14 ARIST., Pol. IV, 11, 5, 1295 b.

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structures sociales dans l’Antiquité classique, Emilio Gabba notava15, in accordo conClaude Nicolet16, come l’identificazione nelle società antiche di classi socialisecondo la concezione moderna fosse altamente discutibile, dal momento che diffi-cilmente le stratificazioni secondo le quali paiono strutturate le società antiche sonodi natura sociale: spesso si tratta di strutture giuridiche che non si lasciano identi-ficare socialmente. Le stesse divisioni timocratiche e censitarie, sebbene differen-zino i cittadini in base alla capacità economica per una diversa ripartizione militaree fiscale, con un corrispettivo e progressivo potere politico, non coincidono semprecon le classi sociali né le creano. La presenza degli schiavi e la minore articolazione– in confronto a quella moderna – della vita economica contribuiscono in manieradeterminante ad attenuare le differenze nell’ambito dei liberi. A ciò possiamo aggiungere altri elementi rettificatori rispetto a una relazione fra

gruppi sociali fondata essenzialmente sulle diverse consistenze patrimoniali, adesempio la teorizzazione che collega il possesso dei beni alla capacità di armarsi perdifendere la patria e quindi all’amor patrio, donde una concezione di leadershipsociale in cui l’elemento psicoideologico e culturale fa premio sulla mera capacitàfinanziaria o sul mero controllo dei mezzi di produzione; oppure la non costantecoincidenza fra condizione sociale, condizione economica, condizione giuridica eleadership di governo: è il caso evidentemente nel mondo romano, soprattutto impe-riale, del rapporto fra liberi e schiavi, in cui la subordinazione giuridica può ribal-tarsi nella gerarchia economica o del prestigio sociale – un capovolgimento che, inaltre situazioni particolari, può assumere addirittura forme di macroscopica ecce-zionalità, come nel ben noto caso di Sparta, dove l’élite economicamente indiffe-renziata degli Spartiati domina la massa produttrice degli Iloti, i quali però, alla finedel III secolo a.C., denunciavano disponibilità economiche superiori a quelle dellamaggior parte dei loro padroni.Ma sussistono pure elementi di ulteriore messa a punto rispetto a tripartizioni

come quella indicata dai filosofi greci o come quella dei tre ordini funzionali deicavalieri/guerrieri, dei sacerdoti e dei contadini individuata da Bloch, Duby e LeGoff per la società feudale e spesso proposta come archetipo strutturale e simbolicodi molte società preindustriali: ad esempio, è del tutto evidente il forte peso modi-ficatore che nella società romana ebbero, rispetto alla costruzione della griglia delledifferenziazioni sociali, fattori come il patronato/clientela o il diritto di cittadi-nanza. Tutto ciò ha portato molti a sottolineare, facendo uso dell’apparato terminolo-

gico offerto dalla moderna sociologia, che alcune società antiche si configurereb-bero più propriamente come società di ordini che non come società di classi. In effetti, il ricorso alla precisazione definitoria delle moderne scienze sociali

risulta in questo caso non soltanto legittimo, ma indispensabile e illuminante

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15 E. GABBA, recensione a Recherches sur les structures sociales dans l’Antiquité classique, Atti delColloquio (Caen, 25-26 aprile 1969), Paris 1970, in «Rivista di Filologia e Istruzione Classica» 100,1972, pp. 183-187; cfr. pure C. NICOLET, Introduction, in Recherches sur les structures sociales cit., p.14; H. W. PLEKET, Sociale Stratificatie en Sociale Mobiliteit in de Romeinse Keizertijd, in «Tijdschriftvoor Geschiedenis» 84, 1971, pp. 215-251.16 NICOLET, Introduction cit., pp. 13-18.

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rispetto a schematismi troppo rigidi che, nel passato anche recente, hanno assolu-tizzato la diversità fra società pre- e postindustriali. È quasi ovvio pensare, in que-sto senso, alla dialettica che per molto tempo ha visto contrapporsi, circa la defini-zione del concetto di classe, da un lato l’interpretazione economicista e dall’altroquella organicistico-funzionalista. La prima, prendendo le mosse dalla distinzionefisiocratica tra classi produttive e classi sterili, dalla tripartizione smithiana del red-dito (salario, rendita, profitto), quindi dalla dicotomia marxiana operaio/capitali-sta, individua le classi in relazione alla proprietà dei mezzi di produzione e del sur-plus produttivo, proponendo un’immagine della società e del mutamento socialefondata sulle categorie del conflitto (verticale) e della rivoluzione17. La secondariconduce le classi alle diverse posizioni occupate da individui e gruppi ai fini delfunzionamento dell’organismo sociale; poiché in esso le funzioni sono di vario tipo(economiche, politiche, religiose e così via), le differenziazioni riflettono, per ori-gine e natura, la varietà delle funzioni. Status, reddito, prestigio e potere creanodivisioni non solo verticali ma anche orizzontali; l’equilibrio e la mobilità suben-trano alla nozione di conflitto18. A entrambe le interpretazioni vanno riconosciuti meriti non indifferenti ai fini

della comprensione dei grandi fenomeni storico-sociali, ma il loro comune vizio difondo appare appunto quello di volere ricondurre la pluralità delle tipologie costi-tutive dei gruppi sociali a un univoco concetto di classe19. Lo stesso limite mostra,mutatis mutandis, la storiografia francese quando sostituisce al concetto di classequello di ordine o di ceto, assolutizzandone però in egual misura la funzione descrit-tiva della società. In realtà, soltanto una più precisa distinzione della qualità e dellapluralità degli strati presenti all’interno delle società complesse può consentire unapiù corretta valutazione dei criteri di strutturazione delle diseguaglianze all’internodi esse, sia nell’aspetto distributivo, riguardante cioè l’ammontare delle ricompensemateriali e simboliche ottenute dagli individui e dai gruppi di una società, sia nel-l’aspetto relazionale, che pertiene invece ai rapporti di potere esistenti fra essi20.

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17 Per la storiografia di ispirazione marxista, come è ben noto, le classi nascono dall’espropriazionedel lavoro altrui da parte di ceti non produttivi, e tutta la storia è mossa da questo conflitto tra sfrut-tati e sfruttatori. Il passaggio da un modo di produzione-espropriazione all’altro (schiavismo, servitùfeudale, capitalismo) è segnato da crisi violente, interpretabili come esplosioni finali della contraddi-zione fondamentale: sono le ribellioni di schiavi dell’epoca romana, le rivolte contadine dei secoli XIV-XVI, le rivoluzioni proletarie del Novecento. 18 Le conseguenze di questo approccio sul lavoro degli storici sono rilevanti. Riguardo al problema

delle classi sociali nel feudalesimo e nella transizione al capitalismo, le interpretazioni marxiste di M.H. Dobb, R. Hilton, R. Brenner e altri sono state sottoposte a numerose critiche. Così, se alcuni sto-rici come M. M. Postan ed E. Le Roy Ladurie, particolarmente sensibili alle suggestioni del modellomalthusiano, tendono a diluire le classi nella categoria più ampia di popolazione, usando al massimounità di analisi più naturali che sociali, come la famiglia e la comunità contadina, altri studiosi di sto-ria economica, soprattutto britannici, propongono un’immagine più complessa e articolata della societàe delle classi: si vedano gli studi di L. Stone sull’aristocrazia inglese, le riserve di P. Deane sul ruolodelle «recinzioni» e della proletarizzazione contadina nel processo di formazione del capitalismo, leindagini di G. Bois sul mondo contadino francese.19 In generale sul concetto di classe risulta ancora molto utile J. SZACKI, Classi, in Enciclopedia

Einaudi, Torino 1978, vol. III, pp. 139-191.20 A. BAGNASCO, M. BARBAGLI, A. CAVALLI, Corso di sociologia, Bologna 1997, pp. 289-319.

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Il concetto di ordine ha trovato ad esempio più compiuto sviluppo nel noto sag-gio di Roland Mousnier sulle gerarchie sociali dal tardo medioevo a oggi21. SecondoMousnier, esisterebbero tre generi principali di stratificazione sociale: per ordini,per caste e per classi. Mentre la casta e la classe si definirebbero rispettivamente inrelazione all’ambito religioso e all’ambito economico, gli ordini sarebbero invecedefiniti da un privilegio giuridico e formerebbero una gerarchia graduata secondol’onore, il prestigio e la dignità attribuiti dal consenso sociale. Per Mousnier, lesocietà di ancien régime sarebbero prevalentemente formate da questi corpi separati– rappresentativi, amministrativi o produttivi che siano – e i conflitti che le attra-versavano non sarebbero più riconducibili alla struttura di classe: la Rivoluzionefrancese, per esempio, non ebbe come protagonisti né la borghesia né i contadini,bensì i «corpi» opposti alla monarchia assoluta. Dunque, solo nelle società indu-striali capitalistiche, caratterizzate dalla rottura dei vincoli corporativi, dalla vena-lità e mobilità dei fattori produttivi, dall’equiparazione giuridica degli individui edal trionfo del principio meritocratico-acquisitivo su quello ascrittivo, le classi sicostituiscono oggettivamente e soggettivamente, determinando la natura dei con-flitti sociali e politici, sebbene anche in queste società il fattore economico debbaessere integrato da elementi di tipo culturale.Il concetto di ordine di Mousnier tende a ricomporsi e parzialmente a sovrap-

porsi con i concetti di ceto o di status group quali si sono venuti chiarendo, sulla sciadi Max Weber22, per merito soprattutto di Gerhard Lenski e della sociologia ame-ricana23: il ceto o status group si identifica con una pluralità di persone accomunateda una specifica valutazione sociale positiva o negativa, da un comune senso del-l’onore, da caratteristici e peculiari stili di vita, da tipici modelli di consumo.Rispetto alla divisione in classi, la separazione in ordini e ceti si pone quindi nonnella dimensione economica, ma nella dimensione del prestigio riconosciuto. Afronte della posizione di Mousnier, quella di Lenski appare nella sostanza più ela-stica, prevedendo all’interno di ogni società una pluralità di gerarchie (di reddito,di potere, di cultura-istruzione, di prestigio), in ognuna delle quali ogni individuotrova collocazione. Allo stesso modo la disparità, e quindi il posizionamento nei gra-dini della scala sociale, deriva dalla combinazione di elementi diversi fra loro inte-ragenti, ove il reddito e il patrimonio – come sostiene R. Inglehart24 – appaionovoci equivalenti ad altre, rappresentate per esempio dai valori, materiali o immate-riali, e dallo stile di vita connesso o allo status «ascritto», cioè ereditato alla nascita,o allo status «acquisito» in base ai meriti, alle capacità o al caso/fortuna. Abbiamocosì il quadro di società complesse, non interpretabili attraverso un’unica stratifi-

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21 R. MOUSNIER, Les hiérarchies sociales de 1450 à nos jours, Paris 1969 (trad. it. Le gerarchie socialidal 1450 ai nostri giorni, Milano 1971).22 M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie, Tübingen 1922

(trad. it. Economia e società, Milano 1961, pp. 220-240).23G. LENSKI, Status Crystallization. A Non-vertical Dimension of Social Status, in «American Socio-

logical Review», 1954, pp. 405-413 (trad. it. La cristallizzazione dello status: una dimensione non verti-cale dello status sociale, in G. GIAMPAGLIA, G. RAGONE [a cura di], La teoria dello squilibrio di status,Napoli 1981, pp. 81-94); ID., Power and Privilege. A Theory of Social Stratification, New York 1966.24 R. INGLEHART, The Silent Revolution, London 1977 (trad. it. La rivoluzione silenziosa, Milano

1983).

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cazione, nelle quali convivono forme diverse e permeabili di aggregazione sociale:non è un caso che gli schemi di classificazione della società oggi fra i più usati nellaletteratura sociologica internazionale, e cioè quello di Paolo Sylos Labini25 e quellodi John Goldthorpe26, pur incentrati rispettivamente sul tipo di reddito percepitodall’individuo e sulla situazione di lavoro e di mercato, propongano per un versoun’amplissima articolazione di classi e sottoclassi e per l’altro colleghino il dato eco-nomico con numerosi altri elementi identificanti, non necessariamente a quest’ul-timo inerenti.Se una lezione si deve trarre da tutto ciò è che, pur permanendo nel rapporto

fra società antiche e società moderne una prevalenza di raggruppamenti di dirittonelle prime e di raggruppamenti di fatto nelle seconde, occorre rivolgersi allo stu-dio delle società di ancien régime con lo stesso occhio con cui si osservano le societàcontemporanee, usando cioè gli schemi generali di classificazione come utili sup-porti metodologici, ma non come gabbie chiuse in cui incasellare a forza ognidiversità ed eterogeneità.Lo stesso concetto di società di ordini, applicato alle realtà antiche, va recepito

con cautela e rivisto alla luce dei singoli contesti. Già si è detto come la semplifica-zione aristotelica sia difficile da applicare anche all’interno del sistema delle poleise risulti, ad esempio, del tutto improponibile in rapporto alla società spartana, senon altro per l’aspetto della non coincidenza fra gerarchia economica e gerarchia dipotere. Ancora più complesso il discorso per quanto attiene alla società romana,spesso identificata come il modello esemplare di società di ordini, nel senso di unasocietà in cui – come avverte E. Gabba – «la stima sociale, la dignità, gli onori e ilrango accordati per consenso, nonché i privilegi connessi con le origini gentilizie ele prerogative religiose determinano stratificazioni che talora possono anche assu-mere connotazioni di classi sociali, ma che più spesso distinguono il cittadinosecondo “funzioni”»27. Lo stesso Gabba, tuttavia, distingue con chiarezza la realtà repubblicana, più

assimilabile a tale modello, da quella altoimperiale, nella quale le strutture dellasocietà si andrebbero configurando con elementi di maggiore modernità, forse pro-prio a dispetto della cristallizzazione voluta dall’alto, che apparentemente costi-tuiva una società a classi rigide, immobilizzata dagli obblighi fiscali, dall’eredita-rietà delle funzioni e dalle differenziazioni nel campo del diritto penale28. L’utile schema di Benjamin Cohen sulla nozione di ordine nella Roma impe-

riale 29 va in qualche modo nella medesima direzione: per Cohen, le classi socioeco-nomiche esistenti a Roma non davano luogo a ordini distinti; gli ordini esistenti, a

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25 P. SYLOS LABINI, Saggio sulle classi sociali, Bari 1974; ID., Le classi sociali negli anni ’80, Roma,Bari 1986.26 J. H. GOLDTHORPE, Social Mobility and Class Structure in Modern Britain, Oxford 1980; ID., On

the Service Class. Its Formation and Future, in A. GIDDENS, G. MACKENZIE (a cura di), Social Class andthe Division of Labour. Essays in Honour of Ilya Neustadt, Cambridge 1982, pp. 162-185; ID., The Eco-nomic Basis of Social Class, London 2004.27 GABBA, recensione a Recherches sur les structures sociales cit., p. 185. 28 Ibid., p. 186.29 B. COHEN, La notion d’ordo dans la Rome antique, in «Bulletin de l’Association G. Budé» 2,

1975, pp. 259-282.

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loro volta, non necessariamente costituivano classi socioeconomiche distinte le unedalle altre; nella società romana, l’ordine era una classe in termini di rapporti civicie non di rapporti di produzione: ordo designa un gruppo stabile, definito dallostato, di cittadini la cui specificità collettiva attinge al livello di uno statuto civiconella società romana, in salda connessione (almeno in origine) con i diritti di citta-dinanza.Qualche anno appresso altri studiosi, come Géza Alföldy30 e Karl Christ31,

hanno proposto un’analisi della struttura sociale romano-imperiale ove si ricono-scono complessivamente cinque strati, tra superiori e inferiori: i tre strati superiori(Oberschichten) distinti dalle funzioni politiche e di potere, mentre per i due infe-riori (Mittelschichten e Unterschichten) la differenziazione sembra essere di tipo sola-mente economico.Pur nella diversa articolazione e complessità e pur nel permanere delle ambiguità

semantiche – è noto come Cohen e Nicolet32 identifichino ben 27 o 28 categoriesociali che in Roma legittimamente possono chiamarsi ordines –, queste e altre disa-mine della compagine sociale romano-imperiale convergono su un punto: la com-plessità polisemica e per così dire fluttuante della stratificazione di quella società.Non solo esiste in essa una pluralità di raggruppamenti sociali variamente e sicura-mente identificabili, ma tali raggruppamenti tendono a loro volta a scomporsi e ariaggregarsi secondo un’insiemistica complessa che fa riferimento ora al dato eco-nomico, ora a quello giuridico, ora a quello della legittimazione universale del ruolo,ora a quello del prestigio acquisito. Su alcuni ordini, come quello senatorio o quellodecurionale, convergono ad esempio istanze costituenti e identificanti plurime: perla maggior parte della storia di Roma l’ordo senatorio condivide caratteristiche diclasse dirigente politica e imprenditoriale, padrona dei suoli e dei mezzi di produ-zione, sostanzialmente omogenea al proprio interno in termini di interessi e diaspettative individuali e collettive, ma nello stesso tempo legittimata nelle sue pre-rogative da una tradizione gentilizia ideologico-religiosa da tutti accettata che leaccorda – in sostanziale comune consenso – onori, rango e dignità; d’altra parte imembri dell’ordine amplissimo (come un ceto o uno status group weberiano) si sen-tono accomunati, oltre che dal patrimonio della tradizione, da un particolare stiledi vita, da valori di riferimento specifici, da modelli peculiari di consumo. Ordine,ceto e classe socioeconomica a un tempo, dunque. Analogamente, su contesti e dimensioni evidentemente più modesti, le aristo-

crazie locali contemplano nella loro carta d’identità sociale una preminenza econo-mica giuridicamente sancita in sede locale dall’accesso censitario alla curia, ed essigodono, come i membri dell’ordine senatorio romano, di un avallo sociale di ruoloche reputa, appunto, legittimi i loro privilegi. Agisce rispetto a questi gruppi sociali

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30G. ALFÖLDY, Römische Sozialgeschichte, Wiesbaden 1975 (trad. it. Storia sociale dell’antica Roma,Bologna 1987), soprattutto pp. 139-225.31 K. CHRIST, Grundfragen der römischen Sozialstruktur, in Studien zur antiken Sozialgeschichte. Fest-

schrift Friedrich Vittinghoff, Köln, Wien 1980, pp. 197-228.32 C. NICOLET, Les ordres romains: définition, recrutement et fonctionnement, in ID., Des ordres à

Rome, Paris 1984, pp. 7-21.

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quel meccanismo, ben messo in rilievo da Paul Veyne33, secondo cui il loro poteree prestigio non è causa diretta dell’obbedienza, ma effetto di un’operazione men-tale, la legittimazione appunto, che è una sorta di messa in sincrono con il possibile;in questo senso i rapporti sociali non si stabilizzano sull’esatto punto di equilibrio deirapporti di forza, ma – a causa appunto dell’operazione mentale che si innesca –,vanno un po’ oltre o si arrestano prima: talvolta si protesta, talvolta si esagera conla sottomissione. Questa esagerazione rende possibili società in cui certi vantagginon sono solamente la «proprietà» di fatto di un gruppo, ma sono riconosciuti, for-malmente o informalmente, dal resto della comunità come un privilegio legittimodi quel gruppo: già nella società cittadina ellenistica, ma altrettanto nella per piùversi omologa società romana imperiale, la plebe urbana riconosce l’aristocraziadella città come espressione di un’essenza superiore. Ciò non significa però che taliordini siano impermeabili alla mobilità: vi si può accedere, come ben sappiamo, perraggiunta consistenza patrimoniale o attraverso altre forme legittime di coopta-zione. In altri termini, le caratteristiche fortemente connotanti di taluni gruppi noncostituiscono nella società romana ostacolo alla mobilità. E si tratterà pure, in molticasi – come ancora avverte Veyne34 –, di una mobilità che passa attraverso la clien-tela o la chance personale e che non si determina in funzione di criteri universali,ma certamente si tratta di un fenomeno la cui consistenza e la cui qualità costitui-sce, per l’età altoimperiale, uno degli elementi discriminanti rispetto alla maggiorparte delle altre società preindustriali.Prendendo a prestito la terminologia messa a punto dai più importanti studiosi

moderni di tali problematiche, da Pitirim Sorokin35 ai collaboratori della LondonSchools of Economics36, la mobilità sociale all’interno dell’impero di Roma appare:1) verticale; 2) di lungo raggio; 3) prevalentemente intragenerazionale; 4) conside-revole, sia sul piano assoluto, sia su quello relativo; essa si traduce cioè in uno spo-stamento di posizione in alto, o in basso, rispetto al sistema di stratificazionesociale; si verifica fra strati anche molto lontani fra loro; interessa per lo più lostesso individuo nel corso della propria esistenza; coinvolge un elevato numero com-plessivo di persone che scorrono da una fascia all’altra della griglia sociale; si carat-terizza per una forte fluidità e per l’alto livello di eguaglianza rispetto alle possibi-lità di movimento verso l’alto dei membri dei diversi gruppi sociali. Si tratta nelcomplesso delle qualità specifiche delle moderne società capitalistiche37, con talunicorrettivi tutto sommato di ridotta portata: la mobilità intragerazionale, per esem-pio, è stata indicata come tipica delle società d’antico regime, in connessione peròcon una altrettanto forte e correlata mobilità di ritorno38, nel senso che coloro che

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33 P. VEYNE, Le pain et le cirque. Sociologie historique d’un pluralisme politique, Paris 1976, pp. 327 sgg.34 Ibid.35 P. SOROKIN, Social Mobility, New York 1927.36 Cfr. ad es. D. GLASS (a cura di), Social Mobility in Britain, London 1954.37 Oltre al sopracitato volume a cura di D. GLASS, cfr. pure P. BLAU, O. D. DUNCAN, The Ameri-

can Occupational Structure, New York 1967; GOLDTHORPE, Social Mobility cit.; C. THÉLOT, Le poidsd’Anchise. La mobilité sociale en France, Paris 1980; A. COBALTI, A. SCHIZZEROTTO, La mobilità socialein Italia, Bologna 1994.38M. MITTERAUER, Sozialgeschichte der Jugend, Frankfurt am Main 1986 (trad. it. I giovani in Europa

dal Medioevo ad oggi, Roma, Bari 1991); ID., Servants and Youth, in «Continuity and Change» 5, 1999,pp. 11-38.

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abbandonavano la famiglia occupavano una posizione diversa, socialmente supe-riore a quella del padre, per il periodo in cui erano lontani, ma tale condizione eratemporanea: dopo un certo numero di anni, i figli inevitabilmente ritornavano acasa, ritrovandosi quindi sul piano sociale al punto da cui erano partiti. L’impero di Roma conosce invece una mobilità intragenerazionale con rari, e

comunque casuali, fenomeni di mobilità di ritorno. È evidente che nel mondoromano la fluidità sociale s’infrangeva parzialmente contro le barriere giuridichedella schiavitù o della condizione libertina; ma è altrettanto palese come tali bar-riere inibissero soltanto gli accessi alle carriere politiche, ma non certo alle scale delprestigio, dell’onorabilità sociale, della ricchezza e del potere economico. Come ha acutamente messo in evidenza William Harris39, una fonte di peculia-

rità e a un tempo di complessa anomalia della storia di Roma rispetto alle comuniforme di controllo e subordinazione sociale del mondo antico sta nel rapido muta-mento con cui le popolazioni «esterne» divenivano «interne», trasformandosi orain schiavi, ora in provinciali più o meno sottomessi, ma con la possibilità di diven-tare in seguito cittadini di Roma e di progredire ulteriormente e senza limiti nellagerarchia sociale, fino al livello di senatore o – addirittura – d’imperatore. D’altraparte, a determinare le condizioni di vita di un cittadino dell’impero intervenivauna composita molteplicità di fattori che andavano dalla solidità patrimoniale allostato giuridico, dalla cittadinanza al prestigio acquisito (il ceto), dallo status (l’ordodi appartenenza) alla posizione socioeconomica (la classe): tutti questi elementivariamente interagivano fra loro, collocandosi alternativamente nella funzione dicausa o di effetto e potendo rappresentare, singolarmente o in combinazione, oraun livello o una meta definitivi, socialmente agognati e raggiunti, ora una semplicepiattaforma di lancio verso ruoli sociali più elevati. Come si è già sottolineato, glisbarramenti che si frapponevano a una scalata sociale tendenzialmente senza limitepotevano essere soltanto di tipo giuridico (dal possesso della cittadinanza alla con-dizione di ingenuus, alla modulazione delle leggi e delle pene pro qualitate persona-rum) e potevano incidere sulle potenzialità di carriera politica ad alti livelli, ma talirestrizioni non avevano invece alcuna influenza, se non indiretta, sull’incrementopatrimoniale e soprattutto non erano avvertite nella collettività come motivi di svi-limento o di spregio della persona: l’acquisizione di quote di reddito ingenti e lacorrelata o conseguente crescita del prestigio in seno alla società poteva dunqueriguardare tutti, indipendentemente dalle condizioni di partenza. Le difficoltàerano presumibilmente maggiori per chi partiva da condizioni giuridicamente disa-giate, e certamente le percentuali di successo sociale erano più modeste presso lefasce giuridicamente più penalizzate, ma tutto ciò è irrilevante rispetto ai macro-meccanismi di una società ove il successo personale e l’acquisizione di posizioni dirilievo, autorevolezza e popolarità non erano impedite dalla condizione giuridica edi nascita, rispetto alle quali, anzi, per mentalità e assenso di massa, si ponevano innetta prevalenza. Se è vero inoltre – come ci hanno suggerito, peraltro con facile

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39W. V. HARRIS, On the Applicability of the Concept of Class in Roman History, in T. YUGE, M. DOI(a cura di), Forms of Control and Subordination in Antiquity, Proceedings of the International Sympo-sium for Studies on Ancient Worlds (Tokyo, January 1986), Tokyo, Leiden 1988, pp. 598-610.

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truismo, sia Peter Garnsey40 sia Géza Alföldy41 sulla scorta delle considerazioni diElio Aristide42 – che apparteneva veramente in senso pieno agli strati superiori dellasocietà soltanto chi soddisfaceva simultaneamente alla condizione di essere ricco, diesercitare funzioni superiori, di disporre di prestigio nella società e di essere mem-bro di un ordo dirigente, è altrettanto sicuro: 1) che tali condizioni risultano di fattoequivalenti e fra loro consequenziali; 2) che l’accesso a tale livello è caratterizzatoda forte fluidità sociale; 3) che il valore di riferimento del successo e quindi dellareputazione sociale si modula non solo sulla base dei parametri del massimo poterecentrale, ma trova traduzioni di diversa portata a seconda delle couches, dei conte-sti geografici, delle collettività in cui si applica: in altre parole, la misura del con-senso sociale può essere molto elevata anche rispetto a posizioni economiche o afunzioni non eccelse, se esercitate in contesti periferici minori, o entro comunità dimodesta ampiezza e consistenza, o presso ambiti collettivi specifici e connotati daidentità forte o esclusiva (si pensi in questo senso allo studio di Ramsay MacMul-len sulla legione as a society)43.Il principato, sul piano dei rapporti sociali e dei meccanismi prioritari di valore

comunemente accettati da tutti i membri della società, sembra contraddire dunquel’assunto della modernità mancata di Roma imperiale applicato qualche tempo fa, econ giustificati argomenti, da A. Schiavone alle forme economiche, ma esteso anumerosi altri aspetti e ruoli di quel mondo44. Il fantasma della modernità, la figurasenza corpo, la dimensione sospesa nel vuoto, la meteora incandescente nello spaziofreddo45, per quanto attiene almeno alla sensibilità sociale, alla natura e al tipo dellamobilità, alle opportunità e ai valori attribuiti ai passaggi di status, sembra perdereevanescenza e acquisire concretezza, e sembra ricomporre la frattura fra Roma anticae Occidente moderno, anticipando nel concreto modalità che siamo in grado didistinguere soltanto in rare esperienze assai recenti, come ad esempio – volendoindulgere per forza all’ansia comparativistica – gli Stati Uniti del progressivismo edella «nuova libertà», di Woodrow Wilson prima46 e del new deal rooseveltiano47 poi.

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40 P. GARNSEY, Social Status and Legal Privilege in the Roman Empire, Oxford 1970.41 ALFÖLDY, Römische Sozialgeschichte cit., pp. 153-154.42 AEL. ARIST., Or. XXVI, 29, 59.43 R. MACMULLEN, The Legion as a Society, in «Historia» 33, 1984, pp. 440-456, anche in ID.,

Changes in the Roman Empire. Essays in the Ordinary, Princeton 1990, pp. 225-235, 368-374; cfr. orain una prospettiva comparativista C. MURPHY, Are We Rome? The Fall of an Empire and the Fate ofAmerica, Boston, New York 2007, pp. 59-90 e in generale S. E. PHANG, Roman Military Service. Ideo-logies and Discipline in the Late Republic and Early Principate, Cambridge 2008.44 A. SCHIAVONE, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Roma, Bari 20022 (1996),

pp. 183-210.45 Le immagini sono ovviamente di SCHIAVONE, ibid., p. 210.46 A. S. LINK, Woodrow Wilson and the Progressive Era (1900-1917), New York 1954; G. E.

MOWRY, The Era of Theodore Roosevelt and the Birth of Modern America (1900-1912), New York 1958;B. FLEHINGER (a cura di), The 1912 Election and the Power of Progressivism: A Brief History with Docu-ments, Boston 2003; L. L. GOULD, Four Hats in the Ring: The 1912 Election and the Birth of ModernAmerican Politics, Kansas City 2008.47 A. M. SCHLESINGER JR., The Age of Roosevelt. 1.The Crisis of the Old Order. 2. The Coming of the

New Deal. 3. The Politics of Upheaval, Boston 1958-1960 (trad. it. L’età di Roosevelt, Bologna 1959-

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Di fronte a una simile struttura e a una macchina sociale così configuratadiviene, come è ovvio, ancor più difficile parlare di ceti o classi medie e indivi-duarne caratteri, connotati, funzioni e peculiarità. Lo schema platonico-aristotelicoda cui siamo partiti risulta evidentemente insufficiente per l’alto impero, se non perspiegare l’ovvia e indispensabile compartecipazione economica e ideologica dei cetinon dominanti ma variamente produttivi o attivi alla prosperità del sistema-impero,da Augusto al III secolo. Né si può identificare in seno alla società romana, comefarebbe la sociologia critica alla Charles Wright Mills48, un ceto medio corrispon-dente all’estesissima massa di tutti coloro che godono di una qualsiasi fonte di red-dito, ma che condividerebbero con i proletari una totale subordinazione all’élite dipotere. Neppure è individuabile in quella società una middle class intesa come bor-ghesia medio-alta di imprenditori, banchieri, commercianti, liberi professionisti sulmodello della seconda rivoluzione industriale inglese. Il mondo romano imperialenon esprime d’altra parte un ceto medio di tecnici, intellettuali e dirigenti numeri-camente prevalenti al punto da farne una reale, seppur occulta, classe dirigentesecondo il modello sociologico di John Kenneth Galbraith49; Jo-Ann Shelton, inol-tre, ci suggerisce50 la non comparabilità con la moderna American middle class, cheavrebbe uno standard di vita elevato e rappresenterebbe un segmento largo dellapopolazione e una amplissima gamma di occupazioni, mentre in Roma la maggiorparte della popolazione dovrebbe comunque essere classificata su livelli di esistenzarelativamente inferiori, mentre molte delle occupazioni oggi tipiche della middleclass sarebbero state invece svolte dalle classi inferiori: pur essendoci quindi inRoma, come nei moderni Stati Uniti, svariati gradi di reddito, tale articolazione si

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1965); W. D. LEUCHTENBURG, Franklin D. Roosevelt and the New Deal, New York 1963 (trad. it. Roo-sevelt e il New Deal, Bari 1968). Il confronto fra l’esperienza politica dell’alto impero romano e quellarecente degli Stati Uniti d’America ha sollecitato negli ultimi tempi viva attenzione da parte degli stu-diosi. Pur negli ovvi limiti e con la cautela che impone sul piano storico – più che su quello della scienzadella politica – una simile comparazione fra realtà cronologicamente così distanti, non v’è dubbio chevari elementi di coincidenza sono facilmente individuabili. Oltre che sul piano della struttura e deimeccanismi sociali, analogie si riscontrano in effetti sia nella durata (si tratta indubbiamente delle duesituazioni di più lunga stabilità politica e socioeconomica che la storia del mondo occidentale abbiaconosciuto), sia nella tecnica di organizzazione e controllo di un tanto vasto quanto complesso sistema-mondo, sia – più nello specifico – nella scelta maturata nel tempo di abbandonare l’isolazionismo regio-nalista per estendere la propria influenza egemonica su scala geografica tendenzialmente illimitata, siainfine nel proporsi entrambe (Roma e Stati Uniti) quali le uniche civiltà fiere di essere «civiltà di metic-ciato», formate cioè dai rébuts degli altri popoli: cfr. P. MARTIN, La tradition sur l’intégration des peu-ples vaincus aux origines de Rome et son utilisation politique, in Integrazione, mescolanza rifiuto. Incontridi popoli, lingue e culture in Europa dall’antichità all’Umanesimo, Atti del Convegno internazionale(Cividale del Friuli, 21-23 settembre 2000), Roma 2001, pp. 65-88 e più specificamente molti altri con-tributi compresi negli stessi Atti. 48 C. W. MILLS, The Power Elite, New York 1956 (trad. it. L’élite del potere, Milano 1959).49 J. K. GALBRAITH, The New Industrial State, London 1967 (trad. it. Il nuovo stato industriale,

Torino 1968).50 J.-A. SHELTON, As the Romans did. A Sourcebook in Roman Social History, Oxford 1998, pp. 7-

8. Sulla middle class americana cfr. soprattutto S. M. BLUMIN, The Emergence of the Middle Class. SocialExperience in the American City, 1760-1900, Cambridge, New York, Port Chester, Melbourne, Sydney1989, nonché da ultimo S. BECKERT, J. B. ROSENBAUM (a cura di), The American Bourgeoisie: Distinc-tion and Identity in the Nineteenth Century, New York 2010.

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dispiegherebbe comunque in prevalenza entro i limiti delle lower classes. E l’elen-cazione potrebbe improduttivamente continuare, secondo uno schema che apparetanto insoddisfacente quanto vago e incerto anche nella determinazione in nega-tivo, oltre che inficiato per taluni aspetti da quella confusione di categorie che soprasi denunciava. Una confusione che ha portato gli storici romani a identificare inmaniera fin troppo disinvolta la supposta classe media romana ora con l’ordineequestre, ora con le aristocrazie cittadine, ora con i liberti arricchiti, ora con i mer-canti e banchieri, ora con i semplici bottegai di città, e così via. In realtà una societàin progress come quella romana altoimperiale, ove la mobilità è forte ma ancora piùforte e psicologicamente più incidente nella mentalità di massa appare l’aspettativadi mobilità, il concetto di medietà di ceto si relativizza in misura esponenziale. Làdove, in altre parole, l’attenzione e l’interesse sociale di masse maggioritarie di cit-tadini, e quindi le energie e le speranze individuali, sono tutte proiettate alla legit-tima e plausibile modificazione del proprio status, la condizione media – così comeogni altro gradino della stratificazione sociale, con la sola eccezione degli ordini piùelevati – viene per un verso vista come reiteratamente transitoria e mai perma-nente, e per l’altro non è mai considerata su un piano complessivo globale, ma sem-pre rispetto a contesti specifici. Così un funzionario pubblico di modesto livello eretribuzione, che a Roma e in altri contesti metropolitani non potrebbe che esserericompreso nelle lower classes, in un contesto periferico può scalare rapidamente igradini della gerarchia sociale, fruendo anche degli effetti indotti da una sorta dipassaggio di ritorno – per dirla alla Ferdinand Tönnies – da un ambito di Gesell-schaft a una dimensione di Gemeinschaft 51: in funzione, infatti, dell’autorità e del

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51 F. TÖNNIES, Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig 1887 (trad. it. Comunità e società, Milano1963). La distinzione fra Gemeinschaft e Gesellschaft (comunità/società) costituisce un concetto dia-lettico (o modello dicotomico) fondamentale per la sociologia moderna. Secondo Tönnies, sulla cui lineasi pongono tutti i maggiori sociologi della fine del XIX secolo, da Maine a Weber, da Durkheim a Sim-mel, la Gemeinschaft, che caratterizzava la vita contadina tipo dell’epoca premoderna in Europa, con-sisteva in una fitta rete di rapporti personali, basati prevalentemente su legami di parentela e su stretticontatti diretti, assai comuni in un piccolo villaggio circoscritto. Le regole della comunità erano per lopiù non scritte e gli individui erano legati gli uni agli altri in una rete di rapporti di interdipendenzareciproca che riguardava tutti gli aspetti della vita: dalla famiglia, al lavoro, alle poche attività di svagodi cui tali comunità godevano. La Gesellschaft, invece, era contraddistinta da una struttura di leggi edi altre norme che caratterizzavano grandi società urbane. In questo contesto i rapporti sociali eranopiù formali e impersonali, e gli individui, poiché non dipendevano gli uni dagli altri nella stessa misura,si sentivano meno sottoposti a obblighi morali. «La teoria della società riguarda una costruzione arti-ficiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura incui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Tuttavia, mentre nellacomunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restanoessenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono» (ID., Comunità e società cit., p. 83). Cfr.in generale BAGNASCO, BARBAGLI, CAVALLI, Corso di sociologia cit., pp. 67-69. Su tale concetto e sullapresunta inevitabilità del passaggio da Gemeinschaft aGesellschaft è ritornato con nuove prospettive F.FUKUYAMA, The Great Disruption, New York 1999 (trad. it. La grande distruzione. La natura umana e laricostruzione di un nuovo ordine sociale, Milano 1999), soprattutto pp. 23-25. È ovvio che l’applicazionedel modello dicotomico Gemeinschaft/Gesellschaft alla realtà romana altoimperiale non può avvenireautomaticamente e richiede speciale cautela; essa può però tornare assai utile, anche nel senso che a noiqui particolarmente interessa, per la migliore comprensione delle differenze sociopsicologiche, oltreche sociali, economiche e giuridico-istituzionali, che separano le metropoli e le grandi comunità urbaneda un lato e, dall’altro, le comunità minori, o rurali, o vicane o marginali ed economicamente depresse.

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prestigio indotti dalla sua carica e dalla sua veste di rappresentanza in luoghi ove lavisibilità del potere è per forza modesta, e probabilmente anche in funzione dellasua consistenza patrimoniale, esaltata dai bassi redditi medi di quell’area, la suacondizione sociale ascende dai livelli bassi a quelli medi o decisamente medioalti ealti; analogamente, i ceti produttivi libertini possono essere a buon diritto annove-rati fra le fasce medie della stratificazione sociale cittadina, tenendo conto che allaloro disponibilità economica non fa riscontro un’analoga e diretta possibilità digestione di potere politico, ma è pur vero che in numerosi milieux urbani l’influenzaindiretta dei liberti, raccolti sotto gli status symbols riconosciuti e riconoscibili deicollegi sevirali, li pone più vicini alle élites gestionali e imprenditoriali che non alleclassi di mezzo. Non esiste dunque un ceto medio di riferimento, sentito comeblocco sociale organico e strutturato capace sia di agire in maniera coordinata neiconfronti del resto della società, sia di svolgere coerentemente e consapevolmenteun ruolo determinante sui processi di modernizzazione e sulla stabilità politica inquanto camera di compensazione del conflitto di classe, quel ruolo cioè che, in sin-golare accordo extratemporale, gli assegnano sia Aristotele, sia molti studiosi con-temporanei. Esistono semmai dieci, cento, mille ceti medi, variabile sociale disor-ganica e transeunte, ora in condizione di stand-by, ora in proiezione deformata eriposizionata per influsso di stati sociali diversi, inferiori o superiori. Come è statogiustamente sottolineato a proposito della difficoltà di definizione dei ceti dimezzo, per le classi medie più che per le altre la consapevolezza sociale della pro-pria collocazione è direttamente funzionale alla loro esistenza: il processo di auto-convinzione psicologica (un’operazione mentale alla Veyne, per intenderci) ha unpeso determinante nella costruzione dell’identità, altrimenti magmatica e informe,della classe media. Nella società altoimperiale, per le ragioni che siamo venuti enun-ciando, non si pongono i presupposti perché tale processo identitario si inneschi esi materializzi massicciamente e armonicamente nell’intera compagine statale: lostimolo individualistico della mobilità, che coinvolge amplissime fasce di cittadinicomprese fra gli estremi e meno numericamente consistenti strati sociali del prole-tariato urbano nullatenente da un lato, e delle classi dirigenti aristocratiche dall’al-tro, agisce in questo senso da freno inibitore autobloccante. La complessa e mul-tiforme articolazione delle figure e degli status sociali – che nel mondo romanoimperiale si distribuiscono in constante flusso modificatore tra gli estremi del pro-letariato cittadino estraneo alla sfera della produzione o del bracciantato agricolosalariato da una parte e degli ordini massimi di potere politico, economico e ammi-nistrativo dall’altra – non concorrono mai a formare una classe o un ceto omogeneo,coeso, consapevole della propria collocazione intermedia o, tanto meno, di un pro-prio eventuale ruolo sociale e politico. La dimensione della medietà, se sussiste, nonmatura mai in coscienza sociale e va di volta in volta ricercata in relazione non aparametri definiti e definitivi, ma a una contestualità specifica e precaria, poten-zialmente destinata a progressive, ripetute e continue ricollocazioni.

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CLASSI MEDIE E SOCIETÀ ALTOIMPERIALE ROMANA

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V

I pericoli di una storia senza memoria e senza verità*

Presentando il proprio volume dedicato al Sonno della memoria. L’Europa deitotalitarismi (uscito a metà settembre 2001, in singolare concomitanza con eventiche – forse per la prima volta nella storia – unanimemente si comprese essere desti-nati a divenire epocali nel momento stesso in cui si producevano), Barbara Spinellicosì enunciava i propri intenti programmatici:

In questo libro ho cercato di capire se fosse vero quel che si dice: che la storia è finita eche l’illusione è un moto dell’anima politica appartenente al passato. Nessuna delle dueaffermazioni pare pertinente. La storia, ciclica, tende a ripetersi, l’uomo resta il giuncofragile e credulo che è sempre stato. Ma giunco pensante che può avere il coraggio e nonil culto della memoria1.

Il tema centrale del saggio era dunque la storia e prima ancora la memoria. Lamadre Mnemosine, più della figlia Clio, è chiamata a un arduo compito, a risolverecioè un enigma di fondo che riguarda non solo l’utilità, ma la pratica della memo-ria: se cioè la memoria sia un’operazione feconda del pensiero, se procuri concretirimedi, e a quali condizioni. Se avessero ragione alcuni, i profeti – peraltro ripetu-tamente smentiti negli ultimi due decenni – della «fine della storia», quando soste-nevano che Mnemosine poteva risultare insignificante o addirittura dannosa nelmondo nuovo, che l’era informatica non meno che la caduta del muro di Berlinoavrebbero determinato2. Se avessero ragione cioè coloro che pensavano che lasocietà non avesse più bisogno della storia per definire se stessa e autorappresen-tarsi; coloro che, come Nicholas Negroponte, pensavano alla storia come «a unavaligia pesante e inutile», addirittura da «odiare»3; coloro che colgono nei segni che

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* I pericoli di una storia senza memoria e senza verità è stato edito in precedenza, con il sottotitoloL’epigrafia fra dogmatismo interpretativo e affabulazione incontrollata, in M. G. ANGELI BERTINELLI, A.DONATI (a cura di), Usi e abusi epigrafici, Atti del Colloquio internazionale di epigrafia latina (Genova,20-22 settembre 2001), Serta Antiqua et Mediaevalia, VI, Roma 2003, pp. 387-409. Il testo viene pre-sentato qui in forma riveduta e aggiornata.1 B. SPINELLI, Il sonno della memoria. L’Europa dei totalitarismi, Milano 2001, risvolto di copertina

e pp. 370-378.2 Ibid., pp. 12-38.3 La citazione è in F. COLOMBO, Confucio nel computer. Memoria occidentale del futuro, Milano

1995, pp. 89 e 92, ripresa da M. BRETONE, In difesa della storia, Roma, Bari 2000, pp. 54-55.

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ci circondano quella che Mario Bretone ha felicemente indicato come «la cadutadell’uomo in un puro presente» e considerano ormai irreversibile la comparsa sullascena di un nuovo analfabeta, sprovvisto di memoria e di concentrazione, duttile,capace di adeguarsi, bene informato, televisivo, indulgente verso tutte le mode,«buon tecnico», ma senza alcuna abitudine alla lettura – in particolare alle lettureformative di non immediata utilità pratica – e alla riflessione critica, per il quale l’i-gnoranza della storia si configura come caratteristica antropologica e strutturale4.Se abbiano infine ragione le giovani generazioni, quando, ad esempio, hanno l’im-pressione che la disputa sui mali del secolo trascorso sia un problema dei padri enon un loro problema, e si abbandonano perciò a un disinteresse cosciente e con-vinto che, annientando anche il passato più recente, distrugge definitivamente lamemoria più lontana, in un esasperato contemporaneismo ad escludendum per cuiciò che non è presente semplicemente non è, non fu, non importa, non ha peso, nonha valore, non ha interesse, non ha senso né significato. Quando il compianto Bronisl/aw Geremek, medievista e storico economico insi-

gne, assai apprezzato per il suo tratto umano oltre che per i meriti scientifici, anticooppositore del comunismo polacco dai tempi un po’ ingenui e non sospetti dellaprima Solidarnosc, giunse tra il 1997 e il 2000 a occupare la carica di ministro degliEsteri nel governo Buzek, ebbe pubblicamente a sottolineare5 come per lui e per isuoi coetanei fosse davvero «insopportabile» vedere archiviati i tempi andati,dimenticata la pur non lontana stagione gloriosa delle occupazioni operaie di Dan-zica e della sconfitta del potere totalitario, «violentata – è l’espressione di Gere-mek – la memoria delle sofferenze traversate». «Ma per la giovane generazione, loriconosco – è sempre Geremek che parla – tutte queste vicissitudini appartengonoal passato, come appartengono al passato Sparta e Atene». Per le giovani genera-zioni, Mnemosine e Clio sono entrate in un sonno accidioso e, nel velo di un oblioinerte, la disputa comunismo/anticomunismo può assumere gli stessi connotati delloscontro fra Orazi e Curiazi6; tramandare ai giovani le esperienze della secondaguerra mondiale, della resistenza al nazifascismo, della Shoah, ha lo stesso inutilesenso che narrare loro le vicende della guerra fra Roma e Alba Longa7; ieri, set-tant’anni fa, ventisei secoli or sono non fanno differenza nella regressione antisto-rica, e a-storica, che riporta alla preadolescenziale condizione di chi non percepisceil senso del tempo che scorre, come se le regole piagetiane della psicologia dell’etàevolutiva fossero improvvisamente cadute in desuetudine e non fossero più appli-cabili ai nuovi soggetti, sulla cui psiche la società ha agito darwinianamente, atro-fizzando per disuso gli ormai inutili centri neurali della memoria. Per questi e altri attenti investigatori e osservatori del tempo, l’attacco alla sto-

ria si è dunque già prodotto nei fatti, conseguendo successi decisivi: il modello

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4 BRETONE, In difesa cit.5 D. DHOMBRES, T. FERENCZI, La mémoire fait partie de la paix civile, intervista a B. Geremek, in

«Le Monde», 28 settembre 1999. Bronisl/aw Geremek è scomparso nel 2008 in un incidente stradalenei pressi di Poznam.6 Ibid.7 S. VASSALLI, Un mito effimero, in «Corriere della Sera», 15 maggio 2000; richiamato in SPINELLI,

Il sonno cit., pp. 12-13.

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sociale informatico-televisivo non gradisce né la storia né la memoria, perché sol-tanto la contemporaneità acronica che costantemente si consuma e si autoalimenta,il presente e il futuro immediato, sono funzionali al suo pieno e compiuto dispie-garsi. Da questa prospettiva ogni difesa della memoria del passato, e tanto più delpassato più antico, parrebbe non soltanto velleitaria, ma inutile, se non addiritturapatetica, e tutte le battaglie che si combattono, ad esempio per la sopravvivenzadella storia più antica nell’insegnamento scolastico secondario, sembrerebberodestinate a breve o media scadenza a essere irrimediabilmente perdute anche di làdalle contingenze burocratiche e dagli effetti più o meno perversi di questa o quellariforma8.In realtà, se è vero che l’insofferenza verso la storia dei guru della comunica-

zione digitale del Massachusetts Institute of Technology9 ha trovato supporto, frala fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, nel con-temporaneo accreditarsi della teoria della finis historiae, è altrettanto vero che ilrapido venir meno della fiducia e della convinzione in un mondo senza conflitti, inuna realtà globale statica dominata da un unico modello psicologico e socioecono-mico, ha alquanto depotenziato entrambi gli atteggiamenti. Francis Fukuyama10 ei suoi seguaci hanno dovuto rapidamente prendere atto che il crollo dell’UnioneSovietica non ha posto fine alla conflittualità internazionale e che la storia non è

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8 Sul tema dei giovani e la memoria storica in Italia, nell’ambito del più complesso dibattito sul-l’uso pubblico della storia avviato negli anni Ottanta da Jürgen Habermas contro il revisionismo storicotedesco e su cui si è innestata la riflessione sull’utilità civile del passato e sulla valenza etica che memo-ria e storia acquistano nel presente – cfr. per tutti N. GALLERANO (a cura di), L’uso pubblico della sto-ria, Milano 1995 –, storici e sociologi hanno prodotto in anni recenti utili e interessanti studi, che larga-mente confermano la realtà descritta. Cfr. ad es. T. MATTA (a cura di), Un percorso della memoria.Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Milano 1996; A. CAVALLI, I giovani e la memo-ria del fascismo e della Resistenza, in «Il Mulino» 1, 1996, pp. 51-57; R. SIEBERT, A proposito di memo-ria e responsabilità, ivi, pp. 58-66; A. CAVALLI, C. LECCARDI, Le culture giovanili, in Storia dell’Italiarepubblicana, III, 3, Torino 1997, pp. 87-102; D. BARAZZETTI, C. LECCARDI, Responsabilità e memo-ria, Roma 1997; A. ROSSI DORIA, Memoria e storia: il caso della deportazione, Soveria Mannelli 1998;T. TODOROV, Les abus de la mémoire, Paris 1998; A. CAVALLI, Educare la società civile, in C. LECCAR-DI (a cura di), Limiti della modernità, Roma 1999, pp. 87-102, e in particolare i contributi di T.GRANDE, Il passato come rappresentazione. Riflessioni sulle nozioni di memoria e rappresentazione sociale,Soveria Mannelli 1997; EAD., La sociologia della memoria. Una discussione, in «Comunicazioni sociali»3, 1999, pp. 300-314; EAD., I giovani e la memoria storica. Il caso del campo di concentramento fascistadi Ferramonti: fra senso comune, memoria e rappresentazioni sociali, in F. CRESPI (a cura di), Le rappre-sentazioni sociali dei giovani in Italia, Roma 2002, pp. 177-250. Cfr. pure la nota di N. TRANFAGLIA,Progetto di una storia senza memoria, in «Studi Storici» 41, 2000, pp. 31-36. In generale, sugli usi pub-blici e politici della storia passata, cfr. ora i numerosi contributi raccolti in F. HARTOG, J. RAVEL (a curadi), Les usages politiques du passé, Paris 2001, e in particolare S. CAUCANAS, R. CAZALS, P. PAYEN (acura di), Retrouver, imaginer, utiliser l’antiquité, Toulouse 2001, a proposito dell’«uso» dell’antichitàclassica greca e romana, e ancora L. CANFORA, La storia falsa, Milano 2008; ID., L’uso politico dei para-digmi storici, Roma, Bari 2010.9 Fondamentale in tal senso N. NEGROPONTE, Being Digital, New York 1995 (trad. it. Essere digi-

tali, Milano 1995).10 F. FUKUYAMA, The End of History?, in «The National Interest» 16, 1989, pp. 3-18; ID., The End

of History and the Last Man, New York 1992. È noto il debito che Fukuyama ha con Alexandre Kojèvee in particolare con le sue famose lezioni comprese in Introduction à la lecture de Hegel: leçons sur la Phé-nomenologie de l’Esprit professées de 1933 à 1939 à l’École des Hautes-Etudes, Paris 1947; sul ruolo del

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finita11; anzi, le sue dinamiche hanno continuato a mettersi in moto vorticosamentein diverse direzioni, secondo alcuni – come Samuel Huntington – verso un inevi-tabile e incontenibile clash of civilizations (scontro di civiltà)12, secondo altri, comelo stesso Fukuyama in un suo volume del 199913, verso un altrettanto fatale puntodi rottura (the great disruption) da cui potrà scaturire una società nuova fondata suregole morali condivise e non più sull’individualismo, che è stato sì fonte di inno-vazione e prosperità, ma anche di corruzione di ogni forma di autorità e di indebo-limento grave dei legami di famiglia, di vicinato, di nazione. Di fronte al mutamento di prospettiva dei teorici della end of history, anche

Nicholas Negroponte e l’intelligencija degli scienziati dell’elettronica e della comu-

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filosofo russo nell’elaborazione delle tematiche contemporanee sulla fine della storia, cfr. B. COOPER,The End of History: an Essay on Modern Hegelianism, Toronto, Buffalo 1984; S. B. DRURY, AlexandreKojève: The Roots of Postmodern Politics, New York 1994; B.-H. LÉVY, La pureté dangereuse, Paris1994; G. JARCZYK, P.-J. LABARRIÈRE, De Kojève à Hegel: 150 ans de pensée hégélienne en France, Paris1996; M. VEGETTI, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Milano 1999; D. AUF-FRET, Alexandre Kojève: la Philosophie, l’Etat, la fin de l’histoire, Paris 2002 (1990); G. BARBERIS, Ilregno della libertà. Diritto, politica e storia nel pensiero di Alexandre Kojève, Napoli 2003; J. H. NICHOLS,Alexandre Kojève: Wisdom at the End of History, 20th Century Political Thinkers, Lanham MD 2007;M. FILONI, Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève, Torino 2008; e cfr. in par-ticolare B.-H. LÉVY, Réflexions sur la Guerre, le Mal et la fin de l’Histoire, Paris 2001, pubblicato pro-prio all’indomani dell’11 settembre 2001 e, quindi, con ovvi ancorché lucidissimi riferimenti all’eventoshock di quel giorno e alle sue molteplici implicazioni anche rispetto all’affaire della fine della storia (cfr.p. 17: Et puis la Fin de l’Histoire. Je n’ai jamais trop cru à cette affaire de Fin d’Histoire. J’ai méme consa-cré un livre, la «Pureté dangereuse», à plaider que I’Histoire, comme dit Marx, a plus d’imagination que leshommes, y compris les kojèviens, et que, de même que la plus grande ruse du diable était, selon Baudelaire,de laisser croire qu’il n’existe pas, de méme la plus grande ruse de l’Histoire est peut-être de jouer la comédiede son propre épuisement).11 Cfr. già i contributi contenuti in T. BURNS (a cura di), After History? Francis Fukuyama and His

Critics, Lanham MD 1994, e le precisazioni dello stesso F. FUKUYAMA, Reflections on the End of theHistory, Five Years Later, in «History and Theory» 34, 1995, pp. 27-43. Interessanti le considerazionidi J.-CH. RUFIN, L’empire et les nouveaux barbares. Rupture Nord-Sud, Paris 1991, pp. 9-46, che conte-stando Fukuyama ricorda l’ironia di Catone («Che sarà Roma senza i suoi nemici?») rispetto a un’al-tra, altrettanto presunta ed illusoria, «fine della storia» all’indomani della distruzione di Cartagine,allorché Roma si scoprì all’improvviso priva di avversari, unica dominatrice del mondo, esattamentecome gli Stati Uniti dopo il crollo dell’Unione Sovietica.12 S. P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York 1996

(trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano 1997); cfr. pure B. LEWIS, WhatWent Wrong. Western Impact and Middle Eastern Response, Oxford 2002.13 F. FUKUYAMA, The Great Disruption. Human Nature and the Reconstitution of Social Order, New

York 1999 (trad. it. La grande distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale,Milano 1999), e inoltre ID., Our Posthuman Future, New York 2002 (trad. it. L’uomo oltre l’uomo. Leconseguenze della rivoluzione biotecnologica, Milano 2002). Cfr. in seguito per l’evoluzione del pensierodi Fukuyama, il suo abbandono delle posizioni neoconservative, l’endorsement per Obama, e le recentielaborazioni teoriche fra sociologia e biologia da cui – ferma restando la sua convinzione che il futuroappartenga alla democrazia liberale – si dedurrebbe che gli sviluppi della storia dell’uomo, dalla prei-storia all’età moderna, si fondano su una base evoluzionistica fino appunto alla nascita «casuale» dellademocrazia con la prevalenza della legge sul sovrano: ID., State-Building: Governance and World Orderin the 21st Century, Ithaca NY 2004; ID., America at the Crossroads: Democracy, Power, and the Neocon-servative Legacy, New Haven CT 2006 (trad. it. America al bivio. La democrazia, il potere e l’eredità deineoconservatori, Torino 2006), ID., The Origins of Political Order. From Prehuman Times to French Revo-lution, New York 2011.

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nicazione digitale hanno dovuto prendere atto di come l’imprevedibilità dell’evolu-zione storica sia in grado di sconvolgere anche gli automatismi perfetti e apparente-mente inattaccabili dell’era digitale, e come il to be digital, l’essere digitali, non col-lochi gli uomini in una dimensione metastorica protetta e inattaccabile, ove ciò checonta è soltanto il presente e il futuro progressivo14. In questo senso, quindi, poichésono ormai venute meno le cause dell’imprinting formativo che ha alimentato nellenuove generazioni, direttamente o indirettamente, la tendenza all’oblio della storiae della memoria, si può sperare legittimamente – e sintomi in tal senso negli ultimianni si sono per fortuna evidenziati – in una svolta culturale correttiva grazie allaquale venga curata quella sorta di malattia collettiva della mente che ha a lungoimpedito all’Occidente e alla sua cultura di apprendere le lezioni del passato; si puòinsomma sperare che l’uomo di oggi impari nuovamente a «cadere nel tempo e ariconoscerlo», a lavorare sulla memoria, ma anche a oltrepassarla per estenderne iconfini e costruire su di essa, a essere nuovamente nano che cammina sulle spalle deigiganti, che guarda lontano verso i successivi e contraddittori volti del suo passato,verso il vissuto personale e collettivo che ciascuno porta con sé come un bagaglio. Come osserva ancora Barbara Spinelli, risalendo sulle alte spalle dei giganti di

Bernardo di Chârtres noi nani possiamo nuovamente vedere un certo numero dicose in più, e un po’ più lontano; pur avendo la vista assai corta possiamo, conl’aiuto dei giganti, cioè delle nostre storie e della nostra storia, andare al di là dellamemoria e dell’oblio15.Il pericolo più grave per la storia però, paradossalmente, non viene né da chi ne

ha prematuramente e improvvidamente decretato la fine, né da coloro che hannocontribuito, nella presunzione di sgravare la nuova trionfante digital age dall’in-gombrante fardello, a eliminare il senso del tempo e della memoria dal patrimoniogenetico delle ultime generazioni. La minaccia più subdola e sottile – denunciatacon vigore già trent’anni or sono da un grande storico dell’antichità come ArnaldoMomigliano16, e in tempi più recenti (a dimostrazione della persistenza e forse del-l’aggravarsi del pericolo) da numerosi studiosi (cito, ad esempio, i due contributi,diversi nella struttura ma convergenti nel messaggio e accomunati dal medesimotitolo, In difesa della storia, di Mario Bretone17 e Richard J. Evans18) –, viene dal-l’interno stesso della storia e della storiografia e si identifica in buona sostanza conlo scetticismo circa il carattere oggettivo e la verità delle ricostruzioni storiche. Come ha osservato Luciano Canfora19, sull’attività storiografica si appuntano,

fin dall’antichità e quindi da sempre, due tipi di scetticismo: il primo nega alla sto-

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14 Cfr. su queste tematiche E. DYSON, Release 2.0: A Design for Living in the Digital Age, New York1999; EAD., Release 2.1: A Design for Living in the Digital Age, New York 2000.15 SPINELLI, Il sonno cit., p. 6.16 A. MOMIGLIANO, The Rhetoric of History and the History of Rhetoric. On Hayden White’s Tropes,

in E. SHEFFER (a cura di), Comparative Criticism. A Yearbook, Cambridge 1981, pp. 259-268 (trad. it.in A. MOMIGLIANO, Sui fondamenti della storia antica, Torino 1984, pp. 465-476 e, più in generale, ID.,Tra storia e storicismo, Pisa 1985).17 BRETONE, In difesa della storia cit.18 R. J. EVANS, In Defence of History, London 1997 (trad. it. In difesa della storia, Palermo 2001).19 L. CANFORA, Grandezze e miserie del «castello di cartone del professor N. N.». Introduzione, in

EVANS, In difesa della storia cit., pp. 9-20.

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ria quei caratteri di scientificità che sono propri delle scienze esatte; tale scettici-smo, di natura per così dire moderata, non esclude la possibilità che la storia possapervenire a una sua peculiare verità, la quale però nulla ha a che spartire con laverità oggettiva e comprovata delle scienze empiriche. Il secondo scetticismo, assaipiù profondo e che si configura come una vera e propria sentenza definitiva di con-danna, considera la storia niente altro che una menzogna o una giustificazione ditipo ideologico operata dai vincitori rispetto agli sconfitti; l’oggetto stesso delladisciplina (l’evento storico con i suoi indeterminati caratteri di possibilità, acci-dentalità, irripetibilità, eccezionalità e con le sue molteplici implicazioni di arbi-trarietà, di soggettività e variabilità di motivazioni) rende irraggiungibile l’obietti-vità di là da ogni infingimento retorico. Questo secondo tipo di scetticismo ha presoda alcuni anni le forme, articolate ma preoccupanti e robuste, del postmodernismoe del decostruttivismo, operando – dall’interno appunto della storiografia – unapesante azione di disintegrazione della storia. Il vigoroso magistero di Hayden V.White20 ha alimentato un movimento tanto complesso quanto vivace e agguerrito(da Frank R. Ankersmit21 ad Alun Muslow22, da Georg G. Iggers23 a Keith

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20 L’opera fondamentale è notoriamente H. V. WHITE, Metahistory: The Historical Imagination inNineteenth-Century Europe, Baltimore 1973 (trad. it. Retorica e storia, 2 voll., Napoli 1973); cfr. ancheID., The Historical Text as Literary Artifact, in ID., Tropics of Discourse. Essays in Cultural Criticism, Balti-more 1978, pp. 81-101; ID., The Content of the Form. Narrative Discourse and Historical Representation,Baltimore 1987; ID., Historical Employment and the Problem of Truth, in S. FRIEDLANDER (a cura di),Probing the Limits of Representation, Cambridge MA 1992, pp. 37-53. Dopo il Supplemento del 1980 (Bei-heft 19), dedicato dalla rivista «History and Theory» ad Hayden White (Metahistory: Six Critiques), nellastessa sede e allo stesso studioso (Twenty-five Years on, in «History and Theory» 38, 1998) sono stati con-sacrati più contributi: R. T. VANN, The Reception of Hayden White, pp. 143-161; N. PARTNER, HaydenWhite: The Form of the Content, pp. 162-172; E. DOMANSKA, Hayden White. Beyond Irony, pp. 173-181;F. R. ANKERSMIT, Hayden White’s Appeal to the Historians, pp. 182-193: fondamentali le contestazionimossegli da MOMIGLIANO, The Rhetoric of History cit., pp. 259-268 (trad. it. in ID., Sui fondamenti cit.,pp. 465-476); ID., Tra storia e storicismo cit. Si vedano ora H. V. WHITE, The Fiction of Narrative. Essayson History, Literature, and Theory 1957-2007, a cura di e con introduzione di R. DORAN, Baltimore 2010;e H. PAUL, Hayden White. The Historical Imagination, Cambridge, Malden MA 2011.21 F. R. ANKERSMIT, Narrative Logic. A Semantic Analysis of the Historian’s Language, Groningen

1981 (=The Hague 1983); ID., Denken over geschiedenis. Een overzicht van moderne geschiedfilosofischeopvattingen, Groningen 1984; ID., De navel van de geschiedenis. Over interpretatie, representatie en his-torische realiteit, Groningen 1990; ID., History and Tropology. The Rise and Fall of Metaphor, BerkeleyCA 1994; ID., De spiegel van het verleden. Exploraties deel I: Geschiedtheorie. De macht von representatie.Exploraties deel II: Cultuurfilosofie & esthetica, Kampen 1996; ID., Macht door representatie. Exploratiesdeel III: Politieke filosofie, Kampen 1997; ID., Aesthetic Politics: Political Philosophy beyond Fact andValue, Stanford 1998; ID., Sublime Historical Experience, Stanford, Cambridge 2005. Cfr. C. LORENZ,Can Histories be True? Narrativism, Positivism and the «Metaphorical Turn», in «History and Theory»37, 1998, pp. 309-329; M. JAY, History and Experience: Dilthey, Collingwood, Scott and Ankersmit, inID., Songs of Experience. Modern American and European Variations on a Universal Theme, Berkeley CA2005; H. SAARI, On Frank Ankersmit’s Post-Modernist Theory of Historical Narrativity, in «RethinkingHistory» 9, 2005, pp. 5-21; J. H. ZAMMITO, Ankersmit and Historical Representation, in «History andTheory» 44, 2005, pp. 155-181. 22A. MUNSLOW,Decostructing History, London, New York 1997; ID., The Routledge Companion to

Historical Studies, London, New York 2000; ID., Narrative and History, New York 2007; ID., The Futureof History, New York 2010.23 G. G. IGGERS, Historiography in the Twentieth Century. From Scientific Obiectivity to the Post-

modern Challenge, Hannover, London 1997, ampia revisione della precedente edizione tedesca del

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Jenkins24, da Peter Novick 25 a – su una posizione decisamente leftist – EllenSomekawa ed Elizabeth A. Smith26, da Sande Cohen27 a Linda Hutcheon28, da Eli-zabeth Deeds Ermarth29 a Beverley Sauthgate30, da H. Aram Veseer31 a CatherineGallagher e Stephen Greenblatt32, questi ultimi fra i caposcuola, sullo scorcio deglianni Ottanta, del nascente neostoricismo), che considera la storia soltanto un par-ticolare tipo di narrazione, non riconoscendo alcuna sensibile distinzione fra la sto-ria e la finzione letteraria, dal momento che la verità storica non è niente di più diciò che gli storici concordano debba essere.Decostruttivismo, postmodernismo e neostoricismo – contro cui negli ultimis-

simi anni si è alzato un salutare ed efficace fuoco di sbarramento da parte degli sto-rici che ancora si riconoscono nella lezione di Mommsen, di Bloch, di Chabod, di

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1993, su cui, criticamente, R. EVANS, From Historicism to Postmodernism. Historiography in the Twen-tieth Century, in «History and Theory» 41, 2002, pp. 79-87; poi ripreso successivamente fino all’edi-zione di Middletown CT 2005; cfr. pure R. EVANS, Q. E. WANG, A Global History of Modern Histori-ography, con un contributo di S. MUKHERJEE, Harlow 2008; si veda pure la riedizione con sua ampiaintroduzione di L. VON RANKE, The Theory and Practice of History, New York 2011.24K. JENKINS, Re-thinking History, con nuova prefazione e un’intervista all’autore di A. MUNSLOW,

London, New York 2003 (1991); ID., On «What is History?»: from Carr and Elton to Rorty and White,London, New York 1995; ID., Why History? Ethics and Postmodernity, London, New York 1999; ID.,Refiguring History: New Thoughts On an Old Discipline, London, New York 2003; K. JENKINS, A. MUN-SLOW, The Nature of History Reader, London, New York 2004; S. MORGAN, K. JENKINS, A. MUNSLOW,Manifestos for History, London, New York 2007; K. JENKINS, At the Limits of History. Essays in Theoryand Practice, London, New York 2009.25 P. NOVICK, That Noble Dream: The «Objectivity Question» and the American Historical Profession,

Cambridge 1988; cfr. T. L. HASKELL, Objectivity is not Neutrality: Rhetoric vs. Practice in Peter Novick’s«That Noble Dream», in «History and Theory» 29, 1990, pp. 129-156.26 E. SOMEKAWA, E. A. SMITH, Theorizing the Writing of History, or «I can’t think why it should be

so dull, for a great deal of it must be invention», in «Journal of Social History» 22, 1988, pp. 149-161.27 S. COHEN, Historical Culture. On the Recoding of an Academic Discipline, Berkeley CA 1986; ID.,

Passive Nihilism: Cultural Historiography and the Rhetorics of Scholarship, New York 1999; ID., HistoryOut of Joint: Essays on the Use and Abuse of History, Baltimore MD 2005.28 L. HUTCHEON, A Poetics of Postmodernism. History, Theory, Fiction, London 1988; EAD., The

Politics of Postmodernism, London, New York 2002 (1989).29 E. DEEDS ERMATH, Sequel to History. Postmodernism and the Crisis of Representational Time,

Princeton 1992; EAD., Beyond History, in «Rethinking History» 5, 2, 2001, pp. 195-216; EAD., TheTrouble with History, in S. DEINES, S. JAEGER, A. NÜNNING (a cura di), Historisierte Subjekte-Subjek-tivierte Historie: Zur Verfügbarkeit und Unverfügbarkeit von Geschichte, Historicized Subjects / Subjec-tivized History, Berlin, New York 2003, pp. 109-125.30 B. SOUTHGATE, History: What and Why? Ancient, Modern and Postmodern Perspectives, London

1996; ID., Postmodernism in History: Fear or Freedom?, London 2003; ID., What is History For?, Lon-don 2005; ID., History Meets Fiction, Harlow 2009; ID., Why Dryasdust?: Historians in Fiction, in «His-torically Speaking» 10, 2, 2009, pp. 12-13 = http://www.culturahistorica.es/southgate/dryasdust.pdf.31 H. ARAM VESEER (a cura di), The New Historicism, New York 1989.32 CH. GALLAGHER, S. GREENBLATT, Practicing New Historicism, Chicago 2000; gli orientamenti

di Greenblatt nella pratica storica trovano realizzazione fra l’altro in ID., Marvelous Possessions: TheWonder of the New World, Chicago 1991; ID., Learning to Curse: Essays in Early Modern Culture, NewYork 1992; ID., New World Encounters, Berkeley 1993; cfr. pure J. PIETERS (a cura di), Critical Self-Fashioning: Stephen Greenblatt and the New Historicism, Frankfurt am Main, New York 1999; ID.,Moments of Negotiation. The New Historicism of Stephen Greenblatt, Amsterdam 2001; ID., Speakingwith the Dead. Explorations in Literature and History, Edinburgh 2005.

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Carr e di Momigliano33 – mi pare possano trovare oggi un involontario e sicura-mente inconsapevole alleato anche in alcuni prodotti dell’indagine storica costruitaprevalentemente o esclusivamente sulle fonti epigrafiche.Già poco più di vent’anni or sono, in un noto e significativo articolo, prendendo

le mosse da due casi concreti di iscrizioni greche di recente pubblicazione relativealla storia di Filippo II e di Alessandro, E. Badian metteva in guardia (si badi,soprattutto gli storici più che gli epigrafisti) contro il più pernicioso degli epigraphicdangers per lo storico, quello di costruire argomentazioni sulla base di congetture tra-vestite da fatti, sottolineando in sostanza come uno dei pericoli principali sia colle-gato a quella che si potrebbe genericamente definire la sopravvalutazione dell’inte-

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33 Si veda in generale J. HABERMAS, Limiti del neostoricismo, intervista con J. FERRY, in ID., Dienachholende Revolution, Frankfurt am Main 1990 (trad. it. La rivoluzione in corso, Milano 1990, pp.149-155); e inoltre, ad es., in S. P. MOHANTY, Literary Theory and the Claims of History: Postmodernism,Obiectivity, Multicultural Politics, Ithaca NY, London 1997, le considerazioni possibiliste circa il con-seguimento di un kind of obiectivity, comunque da intendersi come non assoluto, non immutabile, nonpolarmente opposto alla soggettività (come nel razionalismo e nel positivismo classici), non semplice rif-lesso di un consenso acquisito (come nel pragmatismo), ma costantemente «revisionistico», in un con-tinuo processo cioè di rivalutazione e di riarticolazione alla luce delle nuove esperienze e delle nuoveprove documentarie (cfr. L. GOSSMAN, From Every Tongue a Several Tale?, in «History and Theory»40, 2001, pp. 267-271). Sulla stessa linea di difesa della storia contro la distruttività del postmo-dernismo più radicale, procedendo dalla storia della scienza, si pongono pure J. APPLEBY, L. HUNT, M.JAKOB, Telling the Truth about History, New York 1994. Un violento attacco a White e al postmo-dernismo in nome dello storicismo più tradizionale si legge in A. MARWICK, Two Approaches to His-torical Study: The Metaphysical (including Postmodernism) and the Historical, in «Journal of Contempo-rary History» 30, 1995, pp. 1-35, con risposta dello stesso White, ibid., pp. 233-245 (cfr. pureANKERSMIT, Hayden White’s Appeal cit., pp. 185-186); e ancora TH. L. HASKELL, Objectivity is notNeutrality: Explanatory Schemes in History, Baltimore, London 1998; sul dibattito cfr. inoltre D. LACAPRA, History and Criticism, Ithaca NY 1985; L. HUNT (a cura di), The New Cultural History, Berke-ley 1989; G. ELIOT, Return to the Essential: Some Reflections on the Present State of the Historical Stud-ies, Cambridge 1991; F. ANKERSMIT, H. KELLNER (a cura di), A New Philosophy of History, Chicago1995; D. ROBERTS, Nothing But History, Berkeley CA 1995; R. F. BERKHOPFER JR., Beyond the GreatHistory: History as Text and Discourse, Cambridge MA 1995; A. B. SPITZER, Historical Truth and Liesabout the Past, Chapel Hill NC 1996; gli importanti contributi in K. JENKINS (a cura di), The Postmod-ern History Reader, London, New York 1997; K. WINDSHUTTLE, The Killing of History: How LiteraryCritics and Social Theorists are Murdering Our Past, New York 1997; P. ZAGORIN, History, the Referent,and Narrative: Reflections on Postmodernism Now, in «History and Theory» 38, 1999, pp. 1-24 (delmedesimo autore già Historiography and Postmodernism: Reconsiderations, in «History and Theory» 29,1990, pp. 263-274); e inoltre con accenti talvolta assai polemici, EVANS, In difesa della storia cit., men-tre una sostanziale rilettura positiva di Hayden White e della sua opera si riscontra da ultimo in PAUL,Hayden White cit. Per uno sguardo più generale e complessivo circa le tendenze storiografiche degliultimi anni e la loro interazione dialettica, cfr. ad esempio le sintesi di A. D’ORSI, Alla ricerca della sto-ria. Teoria, metodo, storiografia, Torino 1999; F. DOSSE, L’histoire, Paris 2000; M. LEGNANI, Al mer-cato della storia. Il mestiere di storico tra scienza e consumo, a cura di L. BALDISSARA, S. BATTILOSSI, P.FERRARI, Roma 2000; M. HOWELL, W. PREVENIER, From Reliable Sources. An Introduction to Histor-ical Methods, Ithaca NY 2001. Infine una proficua ricerca online, for those interested in the intersectionof historiography with postmodernism, poststructuralism, and related varieties of theory/practice, può esserecondotta sulle buone bibliografie o sui riferimenti plurimi raccolti ad es. in http://cultural-politics.net/cultural_theory/historical; o in http://www.history.ac.uk/ihr/Focus/Whatishistory-/www.html; o in http://www.untimelypast.org/; si veda pure http://archive.episteme-links.com/Main/Topics.aspx?TopiCode=Post.

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grazione34. Là dove, cioè, l’integrazione (la storia «dalle parentesi quadre») – nonsufficientemente supportata né dalla consuetudine formulare, né dall’evidenza delcontesto, né dalla patente e non solo impressionistica analogia tipologico-testualecon attestazioni integre conosciute – assuma dimensioni eccessive, oppure si riferi-sca a testi anomali rispetto allo schematismo stereotipo, la debolezza e insieme l’au-dacia congetturale innescano talvolta fra studiosi e potenziali utenti del documentodiscussioni così profonde e articolate, da tradurre prima o poi le ipotesi in fattiacquisiti e imposti come indubitabili, al punto da proporsi, e imporsi, quale soste-gno solido e sicuro di nuove congetture. Si avvierebbe, in altri termini, un circolovizioso ed equivoco, la cui rimozione può avvenire poi soltanto a prezzo di un one-roso e defatigante riesame sistematico dell’intero contesto storico-epigrafico che,correndo a ritroso lungo la filiera delle deduzioni improprie, individui genesi e con-solidamento dell’errore. L’avvertimento di Badian è stato ripreso da John Bodel(dal 2003 W. Duncan MacMillan II Professor of Classics e Professor of Historypresso la Brown University, dopo precedenti esperienze alla Harvard University ealla Rutgers University, direttore dell’U.S. Epigraphy Project 35 e co-direttore conMichael Satlow del Center of Digital Epigraphy alla Brown University36), in unapprezzabile volume collettivo da lui curato, il cui scopo esplicito è quello di demi-stify epigraphic evidence, offrendo un’esplorazione a tutto campo circa significato eimportanza dei documenti iscritti per la conoscenza del mondo antico greco-romano, ma anche segnalando con forza rischi e limiti della loro utilizzazione comefonti storiche37.La difesa della specificità dell’epigrafia e della sua autonomia scientifica rispetto

alle altre discipline dell’antichità è proposito e obiettivo sacrosanto: si tratta di unadifesa che, pur fatte salve le giuste esigenze di visibilità e autonomia, nonché l’og-gettiva peculiarità delle tecniche di approccio e intervento da essa richieste38, non

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34 E. BADIAN, History from Square Brackets, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik» 79,1989, pp. 59-70: […] sometimes even discussed, with the conclusion that the supplement is «necessary» or«inevitable». As every epigraphist knows, and some historians as well, such a statement, especially in non-stoichedon texts and non-formulaic phrases, is often a warning that the wish has been father to the thought,and that scrutiny is needed.35 Lo scopo del progetto è to gather and distribute information about ancient (mainly but not only)

Greek and Latin inscriptions preserved in the United States of America: http://usepigraphy.brown.edu/.36 Sui cui fini cfr. http://www.brown.edu/Research/CoDE/.37 J. BODEL, Epigraphy and the Ancient Historian, in ID. (a cura di), Epigraphic Evidence. Ancient

History from Inscriptions, London, New York 2001, pp. 1-56. Dello stesso BODEL cfr. sul medesimoversante il recente Epigraphy, in A. BARCHIESI, W. SCHEIDEL (a cura di), The Oxford Handbook ofRoman Studies, Oxford 2010, pp. 107-122; e inoltre, Latin Epigraphy and the IT Revolution, in J. K.DAVIES, J. J. WILKES (a cura di), Proceedings of the XIII International Congress of L’Association Interna-tionale d’Épigraphie Grecque et Latine, Oxford, September 2007, Proceedings of the British Academy,London 2012, pp. 275-296.38 Oggi, d’altronde, la specificità epigrafica, sia – com’è ovvio – dal punto di vista della qualità

peculiare delle informazioni fornite dai testi iscritti (valutati singolarmente o in modo seriale), sia dalpunto di vista degli strumenti di indagine (da qualche anno soprattutto con riferimento all’apportodella rivoluzione digitale), rappresenta un dato ampiamente acquisito e visibilmente percepibile: cfr.C. TUPMAN, Contextual Epigraphy and XML: Digital Publication and Its Application to the Study of Inscri-bed Funerary Monuments, in G. BODARD, A. MAHONY (a cura di), Digital Research in the Study of Clas-

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può andare però disgiunta dalla salvaguardia del ruolo specifico e del rigore scienti-fico della storia antica e delle discipline storiche nel loro complesso (d’altra parte, osi sopravvive insieme o si muore insieme – tertium non datur –, in una realtà contin-gente che sembra culturalmente prima ancora che istituzionalmente condannaretutte le discipline umanistiche all’emarginazione, se non a una neppure troppo lentaagonia). Anche alla luce di tale difesa, a mio avviso, è venuto il momento di interrogarsi

tutti noi, come storici e come epigrafisti, su alcune inclinazioni (il termine abusosarebbe in questo senso, come vedremo, improprio oltre che eccessivo) verso cui siorienta, in misura per fortuna non cospicua ma potenzialmente e tendenzialmentecrescente, l’indagine storico-epigrafica e sui rischi a essa connessi. E non mi riferi-sco tanto ai casi, tutto sommato modesti e innocui, di tecnicismo esasperato o diattitudine prevalente alla mera catalogazione e schedatura archeologica (in ragionedi cui taluni epigrafisti sono indotti a trascurare e a porre in secondo piano ognitentativo di contestualizzazione e valutazione storica dei reperti), quanto piuttosto– e al contrario – alla più diffusa consuetudine di cimentarsi in una pluralità indif-ferenziata di alternative d’integrazione o di suggerire integrazioni di dimensioniincontrollate, anche procedendo da esigui frustuli superstiti di scrittura. I rischi diun simile modus operandi sarebbero comunque assai limitati, se esso non fosse unadelle cagioni principali di una serie di effetti collaterali di maggior peso: in partico-lare, come testé si accennava, l’avviamento di un processo perverso, nel quale con-getture azzardate si trasformano in certezze incontrovertibili e dogmatiche almomento del passaggio da un oggetto di indagine all’altro, in un gioco di specchi edi riflessi virtualmente infinito ma progressivamente deformante. Si manifestano inoltre sia un eccesso di attenzione, in qualche caso davvero fine

a se stesso e talora meramente autoreferenziale, per i minima epigraphica, sia – e puòrivelarsi più preoccupante – un’esasperata foga interpretativa che va talora degene-rando in narrazione e affabulazione: l’ampiezza, l’articolazione e la complessità eve-nemenziale di tali processi si presenta sovente attraente e non necessariamente inve-rosimile, ma poiché essa non appare giustificata, appunto in ragione o dell’esagerataestensione delle integrazioni o della discutibile e forzosa correlazione con altri docu-menti epigrafici, il risultato percepibile che ne consegue finisce per appartenere piùall’ambito della suggestione narrativa che a quello dell’argomentazione storica, siapure congetturale. Talvolta, in sostanza, avviene che la rincorsa alla concatenazionedelle supposizioni, nell’entusiasmo narrativo, si estenda indefinitamente come i cer-chi prodotti da un sasso lanciato in uno stagno, sì che a un certo punto il rapportologico fra i cerchi d’acqua più esterni e quelli più interni si allenta e sfuma, oppure,peggio, va smarrendosi ogni reale nesso logico con la fonte originaria.

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sical Antiquity, Farnham 2010, pp. 73-86; G. BODARD, EpiDoc: Epigraphic Documents in XML forPublication and Interchange, in F. FERAUDI-GRUÉNAIS (a cura di), Latin On Stone: Epigraphic Researchand Electronic Archives, Lanham MD 2010, pp. 101-118; J. BODEL, The U.S. Epigraphy Project, TEIP5, and Epidoc, con E. MYLONAS e H. WENDT, A Poster Presented at the Digital Humanities 2010International Conference (London, Kings College 7-10 July 2010). Si vedano pure http://epidoc.sour-ceforge.net/; http://usepigraphy.brown.edu/; http://www.brown.edu/Research/CoDE/;http://www.brown.edu/Research/CoDE/links.html.

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Il rapporto tra storia e narrazione, storia e retorica, storia e letteratura si giocadel resto su più piani, e fin dall’antichità si pone come uno degli assi prioritari dellasfida che lo storico lancia in senso oggettivo/soggettivo rispetto alla ricostruzionedella realtà. La rappresentazione storica si costruisce spesso anche sulla narrazionedegli avvenimenti proposta da storici e autori delle epoche passate, nei quali puòrisultare non agevole lo scioglimento dell’intreccio tra verità storica e immagina-zione letteraria, e d’altro canto la stessa ricostruzione degli eventi da parte di ognistorico – di ieri come di oggi – è esposta al rischio che l’articolazione del discorso,l’esigenza di esplicazione e di divulgazione, l’ansia eccessiva del farsi meglio com-prendere in tutte le sfumature del pensiero e dell’interpretazione inducano a uninvolontario incorrere nelle trappole della retorica e della narrazione, al punto chele logiche del linguaggio e del racconto prevalgano e in qualche modo soffochinofino ad alterarla la nuda verità dei fatti.In realtà, in senso oggettivo, come è stato autorevolmente ribadito alcuni anni

fa in un volume da questo punto di vista paradigmatico qual è Fiction as History:Nero to Julian di G. W. Bowersock39, il rapporto storiografia-narrativa non sempresi riconduce necessariamente a un deficit di verità, né la contraddizione in terminifra invenzione narrativa e storiografia è stata in ogni epoca sentita come tale. L’in-dagine di Bowersock ha messo in evidenza come, in età imperiale romana, scrittorigreci del II secolo composero opere palesemente di fantasia, ma che si presentavanocome storiche40; in quel contesto la letteratura di invenzione rientrerebbe così nel-l’ambito della storiografia, «nella provincia degli storici»41, mentre, correlativa-mente, la storia si presenterebbe in principio come fiction; i confini della storia sem-brano dilatarsi e confondersi con la letteratura di invenzione, la quale ambisce apresentarsi come storiografa, e la storiografia non esita ad assumere sempre più laforma della letteratura di invenzione. Il rapporto tra verità e menzogna, in altri ter-mini, si evolve verso livelli di meno netta contrapposizione, in una sorta di commi-stione di vero e falso che esclude ogni meccanica applicazione del principio di con-traddizione: la verità nella menzogna e nell’invenzione (truth in lying) si coglieindividuando nella fiction del romanzo greco tardoellenistico d’amore, di viaggio od’evasione comico-satirica quei tratti di verità storica (historical truth) che sono rin-chiusi nel bozzolo della verità romanzata (fictional truth) e che rimandano alla sto-ria sociale, alla mentalità, al quotidiano, all’immaginario collettivo del popolo edelle classi subalterne, consentendo così di ricostruire pagine altrimenti oscure dellarealtà sociale, culturale, materiale, psicologica del tempo. E non si tratta, eviden-temente, soltanto di una ricerca materiale di suggerimenti e dati testimoniali nasco-

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39 G. W. BOWERSOCK, Fiction as History: Nero to Julian, Berkeley 1994 (trad. it. La storia inven-tata. Immaginazione e sogno da Nerone a Giuliano, Roma 2000).40 Sul rapporto fra verità e menzogna nel mondo antico cfr. pure il volume collettivo C. GILL, T.

P. WISEMAN (a cura di), Lies and Fiction in Ancient World, Exeter 1993, e le considerazioni di K. HOP-KINS, Novel Evidence for Roman Slavery, in «Past and Present» 138, 1993, pp. 3-27, in particolare p.12. Cfr. anche, per uno specifico contesto ma con acute osservazioni generali, R. O’CONNOR, Historyor Fiction? Truth-claims and Defensive Narrators in Icelandic Romance-sagas, in «Mediaeval Scandinavia»15, 2005, pp. 101-169.41 Cfr. M. MAZZA, Presentazione a BOWERSOCK, La storia inventata cit., p. VIII.

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sti nelle pieghe di un testo letterario, che comunque inevitabilmente inserisce nellafinzione elementi realistici connessi al vissuto dell’autore: una simile operazione èscontato patrimonio comune del mestiere degli storici, i quali da sempre utilizzanotestimonianze non meramente e funzionalmente storico-documentarie per integrareil loro bagaglio informativo, specie per quanto si riferisce agli aspetti meno politico-evenemenziali o istituzionali della ricostruzione storica. Si tratta cioè di coglieresensazioni, pulsioni, inclinazioni comportamentali, sfondi ambientali e cultural-psi-cologici, fascinazioni collettive e condizionamenti individuali, che, di là dall’ogget-tività dell’informazione documentale, concorrono comunque, nel pieno di un eser-cizio di fantasia palesemente falso ma non ingannatore (untruthful, not deceptive), afornire un prezioso contributo di conoscenza storica. Si innesca insomma una dia-lettica a due facce fra una realtà antica che stenta a distinguere letteratura e storia,e una storiografia contemporanea che acquisisce la letteratura d’invenzione comefonte, ben oltre l’offerta accessoria e tutto sommato subordinata e marginale diopportunità informative. La letteratura di finzione può entrare dunque con paridignità e autonomia nel bagaglio delle fonti storiche principali, fornendo cono-scenze non solo meramente complementari o di sostegno asseverativo a verità altri-menti note, ma piuttosto alternative e fortemente integrative rispetto al potenzialedocumentario di tutte le altre fonti scritte. Procedendo ancora oltre sul cammino della fruibilità «scientifica» della narra-

zione storica, una studiosa come Ann Rigney ha messo ad esempio in evidenza ilmodo in cui l’analisi comparativa strutturale di tre differenti rappresentazioni diun medesimo evento (ad esempio tre celebri storie della Rivoluzione francese, com-poste nel XIX secolo da Lamartine, Michelet e Le Blanc) possa consentire di rag-giungere una maggiore comprensione dei tratti specifici della rappresentazione sto-rica42, anche se poi la stessa Rigney, approfondendo il discorso sulla relazione frastoria e letteratura, è portata a sottolineare quella che a suo avviso si configurerebbecome una sostanziale, inevitabile e persistente incongruità tra il desiderio dello sto-rico di ricostruire il passato «giusto» (the past «right») e l’altrettanto intenso desi-derio di coerenza logico-narrativa: in questo senso, l’imperfezione sembrerebbedivenire il tratto di fondo di ogni teoria della rappresentazione storica e l’insoddi-sfazione cronica si porrebbe alla base della pratica della storia, dal momento che ilconflitto ingaggiato dagli storici al fine di individuare quanto di davvero rilevantesi trova nel passato attraverso le informazioni e i modelli interpretativi a loro dispo-sizione si rivelerebbe insuperabile43.

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42 A. RIGNEY, The Rhetoric of Historical Representation. Three Narrative Histories of the French Rev-olution, Cambridge, New York, Port Chester, Melbourne, Sydney 20022 (1990).43 EAD., Imperfect Histories. The Elusive Past and the Legacy of Romantic Historicism, Ithaca NY,

London 2001; cfr. pure H. KELLNER, Language and Historical Representation: Getting The Story Crooked,Madison WI 1989; F. ANKERSMIT, H. KELLNER (a cura di), A New Philosophy of History, Chicago1995; J. LEERSSEN, Remembrance and Imagination: Patterns in the Historical and Literary Representationof Ireland in The Nineteenth Century, Notre Dame IN 1997; J. LEERSSEN, A. RIGNEY (a cura di), Histo-rians and Social Values, Amsterdam 2000; F. R. ANKERSMIT, The Sublime Dissociation of the Past: OrHow to Be(come) What One Is No Longer, in «History and Theory» 40, 2001, pp. 295-323; si vedapure la bibliografia relativa a rhetoric, poetics, narrativity, historiography as text in http://www.unti-

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Se dunque A. Rigney finisce per allinearsi così, nella sostanza, alle posizioni discetticismo moderato rispetto alla possibilità della storia di pervenire sempre allaverità44, il valore oggettivo della finzione letteraria per comprendere la storia o addi-rittura per suggerire allo storico chiavi interpretative circa la genesi di fenomeni dilunga durata è stato, sorprendentemente, messo in particolare rilievo da un filosofocome André Glucksmann45. Attribuendo – come già altri, seppure in diversa pro-spettiva46 – una genealogia europea al terrorismo di Al Qaeda e collegando i fattidell’11 settembre con le contraddizioni interne della stessa società occidentale,Glucksmann ne individua le tracce nel nichilismo e nella negazione del male qualisi definirono ideologicamente e materialmente nella Russia dell’Ottocento. PerGlucksmann, l’attentato alle Twin Towers non segna né l’ora di una «nuova» finedella storia, né l’episodio più traumatico di un ineluttabile scontro di civiltà inatto47; al contrario, dimostrerebbe che si vive nell’era del nichilismo trionfante.Protetto da alibi religiosi o ideologici, il terrorista nichilista colpisce («Io uccido,

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melypast.org/bibtxt.html; e ancora di A. RIGNEY, Plenitude, Scarcity and the Production of CulturalMemory, in «Journal of European Studies» 35, 2005, pp. 209-226; EAD., Divided Pasts: a PrematureMemorial and the Dynamics of Cultural Remembrance, in «Memory Studies» 1, 1, 2008, pp. 99-113.Un approccio per certi versi analogo a quello che Rigney e altri hanno tentato per definire la moltepli-cità non univoca e non scontata del rapporto fra rappresentazione storica, retorica, linguaggio e fin-zione letteraria si sta ora esperimentando sul terreno, molto più rischioso ma non meno affascinante,del rapporto fra linguaggio cinematografico e ricostruzione filmica degli eventi storici, con particolareriguardo alla storia dell’antica Roma, e ciò anche sulla base di suggestioni – tutto si tiene – che pro-vengono ancora una volta, in relazione anche a tale ambito di studi, da Hayden White e dalla suaMetahistory, nonché da S. BANN, The Clothing of Clio: A Study of the Representation of History in Nine-teenth-century Britain and France, Cambridge 1984; ID., The Invention of History: Essays on the Repre-sentation of the Past, Manchester 1990: cfr. l’opera collettiva M. M. WINKLER (a cura di), Classics andCinema, Lewisburg PA, London 1991; M. WYKE, Projecting the Past: Ancient Rome, Cinema, andHistory, New York 1997; e i più recenti contributi – apertamente influenzati tra l’altro dal successointernazionale del film di Ridley Scott, Gladiator (2000), che ha segnato la ripresa in grande stile di ungenere da alcuni anni dimenticato – di J. SALOMON, The Ancient World in the Cinema. Revised andExpanded Edition, New Haven 2001; M. M. WINKLER (a cura di), Classical Myth & Culture in theCinema, Oxford, New York 2001; S. R. JOSHEL, M. MALAMUD, D. T. MCGUIRE JR. (a cura di), Impe-rial Projections: Ancient Rome in Modern Popular Culture, Baltimore, London 2001; M. M. WINKLER (acura di), Gladiator. Film and History, Malden MA, Oxford, Carlton 2005; M. MALAMUD, Ancient Romeand Modern America, Malden MA, Oxford, Chichester 2009; M. S. CYRINO, Big Screen Rome,MaldenMA, Oxford, Carlton 20092.44 Cfr. CANFORA, Grandezze e miserie cit., pp. 9-20.45 A. GLUCKSMANN, Dostoïevski à Manhattan, Paris 2002.46 J. CH. BRISARD, G. DASQUIE, Ben Laden: la vérité interdite, Paris 2001 (trad. it. La verità negata,

Milano 2002); A. ROY, Ben Laden. Le secret de famille de l’Amérique, Paris 2001; J. BAUDRILLARD, L’e-sprit du terrorisme, Paris 2002 (trad. it. Lo spirito del terrorismo, Milano 2002); cfr. G. GENOSKO, The Spi-rit of Symbolic Exchange: Jean Baudrillard’s 9/11, 3, 1 2006 = http://www.ubishops.ca/baudrillardstu-dies/vol3_1/genosko.htm = P. CROWLEY, P. HEGARTY (a cura di), Formless: Ways In and Out of Form,Bern 2005, pp. 91-103 = http://www.peterlang.com/home.cfm?vLang-E&vScreenWidth=80); eanche M. FINI, Il volto oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità, Venezia 2002. In generale L.BONANATE, Il terrorismo come prospettiva simbolica, Torino 2006; ID., La crisi. Il sistema internazionaledopo la caduta del Muro di Berlino, Milano 2009; ID., Undicisettembre. Dieci anni dopo, Milano 2011.47 Il riferimento è ovviamente a HUNTINGTON, The Clash of Civilisations cit.; cfr. pure P. L. BER-

GER, S. P. HUNTINGTON (a cura di), Many Globalizations: Cultural Diversity in the Contemporary World,New York 2002.

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dunque sono») secondo una logica/illogica che dà luogo a eventi che nessun esperto,nessun analista avrebbe potuto prevedere o immaginare. Ma se storici, politologi,scienziati della politica non sono e non sarebbero stati in grado, con i loro stru-menti, di fare fronte all’imprevedibile, scrittori come Flaubert, Puškin, C

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echov eDostoevskij hanno da due secoli previsto e disvelato il rovesciamento di valori cheavrebbe portato agli eventi del settembre 2001 (nonché ai successivi episodi di ter-rorismo distruttivo). Grandi opere letterarie divengono in questo modo – secondoquanto si evince dal ragionamento di Glucksmann – fonti indispensabili e senzaalternative per percepire le radici di una trasformazione storica, preannunciata alunghissima distanza ma non avvertibile attraverso i comuni strumenti della nor-male indagine materiale e documentaria. Come è stato suggerito a margine dellavoro di Glucksmann, per far meglio comprendere quanto è avvenuto a LowerManhattan occorreva sottotitolare la CNN con Dostoevskij. Sull’abbrivio dell’attualitàpiù scottante, Glucksmann ripropone dunque un éloge de la littérature 48 quale pos-sibile, concreto sostituto della storia e non come occasionale ancella della ricostru-zione storica, che nella sostanza non si discosta da altre simili e ricorrenti prese diposizione: si pensi, per riferirci esclusivamente alla realtà italiana degli scorsidecenni, alle convinte valutazioni di Leonardo Sciascia a proposito della maggioreduttilità e funzionalità della forma letteraria per fare avanzare efficacemente illavoro di indagine e per acquisire maggiore cognizione di fenomeni storici complessi(come la «sicilianità», la natura e il ruolo della mafia nella società «storica» dell’i-sola ecc.)49.Fin qui, dunque, le tracce di una discussione che – a parte alcune esasperazioni

concettuali attribuibili (nei casi ad esempio di Glucksmann o di Sciascia) all’estroletterario o al gusto del paradosso filosofico – conferma come, in senso oggettivo, lacollaborazione «coordinata e continuativa» tra storia e narrazione letteraria appaiafatto acquisito e, pur se in misura variabile a seconda di epoche, situazioni e con-tingenze, costituisca in ogni caso un proficuo tramite di progresso di conoscenza. In maniera del tutto difforme si presenta invece la questione qualora il rapporto

si ribalti in senso soggettivo e sia la storia a invadere rischiosamente il campo dellafinzione letteraria: nel caso, cioè, non siano più i letterati e gli autori di opere di fan-tasia a offrire agli storici soccorso documentario integrativo o sostitutivo, ma sianogli storici stessi a costruire, sulla base delle conoscenze e delle (scarse o reticenti)fonti a loro disposizione, scenari tanto ipotetici da sconfinare, in parte o in toto,nella fantasia romanzesca. Un simile esito, anche portato alle estreme conseguenze, può peraltro essere

indotto da motivazioni legittime e ineccepibili lungo un cammino che conduce finoalla counterfactual history 50: di là dall’ironia e dal sarcasmo con cui talora si tende

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48 GLUCKSMANN, Dostoïevski cit., pp. 245-272.49 L. SCIASCIA, Fatti diversi di storia letteraria e civile, Palermo 1989.50 Cfr. ad es. N. FERGUSON (a cura di), Virtual History. Alternatives and Counterfactuals, London

1997; il fascicolo speciale del «Quarterly Journal of Military History», del febbraio 1998; R. COWLEY(a cura di), What if? The World’s Foremost Military Historians Imagine what Have Been, New York 1999;ID. (a cura di), What If? II: Eminent Historians Imagine What Might Have Been, New York 2001. Cfr.pure VON KAI BRODERSEN (a cura di), Virtuelle Antike: Wendepunkte der alten Geschichte, Darmstadt

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frettolosamente a liquidare un fenomeno non nuovo ma indubbiamente ancora oggimolto alla moda, magari trascinati pure da inconscia e malcelata invidia per i ricchiprofitti di chi la pratica: che cosa altro è, infatti, la storia virtuale se non un eserci-zio sperimentale, uno strumento utile di verifica e di conoscenza che impone allostorico di approfondire la riflessione, di non abbandonarsi all’inerzia delle veritàacquisite ei)j a)ei/, di mettere in discussione anche le convinzioni certe, rovesciandoi dati di fatto per provarne la tenuta attraverso il confronto con what if paradossalima concettualmente corretti? L’importante è che il gioco sia scoperto, che sidenunci l’intenzione a livello teorico e metodologico, così come fanno i cultori dellaimaginary history, della virtual history, della alternate history, o della vecchia ucroniapiù seri e scientificamente attrezzati.Di maggiore delicatezza appare il caso della ricostruzione di trame evenemen-

ziali proposte come attendibili e verosimili, che però, nella sproporzione tra l’esi-guità dei dati certi e l’ampiezza delle deduzioni relazionali e delle supposizionidescrittive, denunciano un’oggettiva debolezza e corrono il pericolo di varcare ilsottile confine che separa una plausibile, anche se ardita, ipotesi interpretativa dallasuggestione favolistica e dalla narrativa di fantasia. Esistono insomma frequenticontesti borderline in cui forte è il rischio di produrre scenari ricostruttivi montatia mo’ di scripts televisivi o cinematografici, esercizi non dichiarati di storia virtuale,what if ammissibili ma difficilmente dimostrabili, che man mano si allontanano dalcampo dell’attendibilità storica per entrare appunto in quelli della fiction, dell’im-maginazione creativa, dell’ars letteraria. Se poi il punto di partenza è fornito da fonti epigrafiche, si può generare il para-

dosso per cui la più tecnica delle discipline della storia – una delle poche che con-senta l’euforia di toccare con mano la memoria del passato, nella concretezza di unoggetto e di un messaggio condivisi da antichi e moderni, saldando nell’istantaneitàdel presente un gap di memoria di decine e decine di generazioni – si priva dellapropria identità più profonda, rinuncia inconsciamente alle proprie responsabilità

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2000; B. BONGIOVANNI, G. M. BRAVO (a cura di), Nell’anno 2000. Dall’Utopia all’Ucronia, VII Gior-nata Luigi Firpo, Atti del Convegno internazionale (Torino, 10 marzo 2000), Firenze 2001; R.POHANKA, Kein Denkmal für Maria Theresia. Eine alternative Geschichte Österreichs, Graz 2007; J.SCHIEL, Was wäre gewesen, wenn…? Vom Nutzen der kontrafaktischen Geschichtsschreibung, in «Via-tor» 41-42, 2010, pp. 211-231; P. CHESSA (a cura di), Se Garibaldi avesse perso. Storia controfattuale del-l’Unità d’Italia, Venezia 2011, e inoltre http://www.uchronia.net/ e http://www.johnreilly-.info/althis.htm. Come è noto, la «storia virtuale» ha un significativo e lontano precedente, all’iniziodegli anni Trenta, nell’antologia a cura di J. C. SQUIRE comparsa in Inghilterra con il titolo If It HadHappened Otherwise: Lapses into Imaginary History, London 1931, e poco dopo negli Stati Uniti con unasostituzione di un contributo e con il diverso titolo If: or, History Rewritten, New York 1931; l’edi-zione inglese fu ripubblicata due volte (London 1972 e New York 1974) con lo stesso titolo e con l’ag-giunta di due nuove ucronie (trad. it. Se la storia fosse andata diversamente. Saggi di storia virtuale, Milano1999, a cura di G. DE TURRIS, che è anche autore dell’utile e istruttiva Postfazione: Tutti i futuri delmondo. Le ragioni del possibile, pp. 291-326, sulle vicende e sulle problematiche della storia controfat-tuale). Procedendo dalla «grande» storia e passando per la storia alternativa si può approdare alla purafantasy: emblematico in questo senso il percorso di Harry Turtledove, bizantinista di valore, quindiprolifico autore di storia virtuale e alternativa, e oggi universalmente noto come autore di saghe fan-tastiche e fantascientifiche e di complessi What if, come i recenti cicli Worldwar (1994-1996) e Colo-nization (1999-2001), dove il virtuale sconfina decisamente nella science-fiction.

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di scienza-simbolo dell’oggettività storica e rischia, malgré soi, di farsi compliceinvolontaria dei furori decostruttivi e postmoderni di chi aspira ad annullare le dif-ferenze tra metodo, retorica e verità.Rispetto a rischi di questo tipo, sempre proditoriamente in agguato, nessuno di

noi che opera in questo settore di studi può dirsi al sicuro e permanentementeimmune: segnalo in questo senso, a mero titolo di esempio, scelto proprio in fun-zione dell’alto profilo scientifico degli autori (entrambi a tutti noti come studiosidi fama internazionale e che occupano una posizione di preminenza nella gerar-chia degli studi storico-epigrafici romani), un lavoro di Giovannella Cresci Mar-rone e Giovanni Mennella51. Nel breve articolo è pubblicata e commentata unadedica a Giove Ottimo Massimo, rinvenuta a Susa nel dicembre 1995 nel corso dilavori di ristrutturazione di una casa privata presso la chiesa di Santa Maria Mag-giore. Il monumento, reimpiegato come gradino e proveniente forse dall’area delCapitolium segusino, tra le attuali piazza Italia e piazza Santa Maria, risulta gra-vemente danneggiato, ma non al punto di non consentire la lettura del testo epi-grafico inciso sulla fronte, che è così reso da Mennella: Iovi/O(ptimo)M(aximo)/Vibiu[s]/ Marc[el]/lu[s]//v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito). Interessante, neltesto epigrafico, la nuova attestazione di un membro di famiglia Vibia e, per la pre-cisione, un Vibius Marcellus. Costui, pur con molte cautele, viene identificato daCresci e Mennella con il M. Vibius Marcellus ricordato in un titolo taurinense inonore del Genius di tal C. Ennius Vibianus e della Iuno di tale Lartidia Priscina52,nonché con il M. Vibius Marcellus dedicante della semplice ara a Ercole prove-niente dall’alta valle di Lanzo e oggi conservata a Usseglio, grappata alla paretesinistra della porta della chiesa parrocchiale53. Fin qui il nudo dato ipotetico, della cui plausibilità e, dirò di più, verosimi-

glianza risulta difficile dubitare. Pur in assenza di ulteriori riscontri, gli autori nonrinunciano tuttavia, in suggestiva affabulazione, a tracciare, sulla scorta delle trelaconiche e poco generose testimonianze epigrafiche, un ipotetico e ben più artico-lato percorso di ricostruzione storica, ricco di particolari e non avaro di complessisnodi situazionali ed evenemenziali. Secondo tale ricostruzione, Vibius Marcellussarebbe partito da Torino, dopo aver provveduto a indirizzare ai supposti familiariC. Ennius Vibianus e Lartidia Priscina (come dono di commiato o come presente perl’ospitalità?) un’erma con basamento iscritto; egli si sarebbe quindi per un certoperiodo di tempo trasferito nell’alta valle di Lanzo, dove avrebbe lasciato unadedica al dio topico, protettore dei mercanti, delle strade, ma anche dei pastori edei cavapietre. Trascorso tale periodo, Vibius avrebbe abbandonato Usseglio, pre-vio appunto innalzamento di un’ara ad Ercole, e – passando per il colle del Lys –sarebbe giunto a Segusio, dove avrebbe sciolto un voto alla massima autorità delpantheon locale come ringraziamento per il buon esito della sua intrapresa in queldelle valli di Lanzo. Un’intrapresa che potrebbe riguardare l’allevamento delbestiame (in questo caso Vibius avrebbe seguito le sue bestie in montagna per lo

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51 G. CRESCI MARRONE, G. MENELLA, Una dedica segusina a Iuppiter, in «Epigraphica» 61, 1999,pp. 51-65.52 CIL V, 6950.53 CIL V, 6947.

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sfruttamento stagionale dei pascoli), ma più probabilmente l’attività mineraria e inparticolare l’estrazione del ferro. Vibius sarebbe stato dunque un imprenditoreminerario che con la sua attività si sarebbe arricchito e avrebbe accumulato moltoprestigio, da spendersi poi, abbondantemente, nella comunità segusina. In tale rico-struzione, ove nulla appare inammissibile, tutto però si gioca sulla concatenazionecongetturale: dall’ipotesi identificativa, la più solida in quanto basata su un con-vincente se non del tutto dirimente dato onomastico, alla natura del rapporto traVibius e i due altrimenti ignoti personaggi torinesi; dalla causale del dono dell’erma,alla motivazione dell’eventuale spostamento di Vibius nelle valli di Lanzo; dalle sup-posizioni circa la durata del soggiorno in tali valli, a quelle sull’attività che ivi Vibiusavrebbe svolto, alle due congetture sul tipo di attività imprenditoriale esercitata,entrambe debolmente supportate. Se infatti appare piuttosto curioso il caso di unricco proprietario che percorre le strade dei suoi pastori verso gli alpeggi e ne con-divide le fatiche, ancora più incerto è il nesso con un’attività estrattiva del ferro,attestata nei documenti, in quel luogo, soltanto a partire dal basso medioevo finoall’Ottocento, da una molto recente tradizione di chiodaioli, da un toponimo iso-lato di incerta origine (Taja del Ferro), nonché dalla precaria testimonianza fornitada diligenti estensori, nel 1880, di una Guida delle Alpi Occidentali in Piemonte, iquali ebbero ad affermare, senza alcun riscontro, che presso il luogo dove fu rinve-nuta la dedica a Ercole vi erano miniere di ferro abbandonate «le quali forse eranogià conosciute e utilizzate dai Romani». Un analogo procedimento congetturale pare sottendere l’individuazione delle

ragioni che avrebbero spinto il supposto medesimo protagonista della vicenda a tra-sferirsi subito dopo direttamente a Susa, passando per un colle identificabilesecondo gli autori nel colle del Lys, e a dedicare ivi un’iscrizione pubblica, «ufficialee civica», al massimo dio della religione di stato romana, effetto evidente di un pre-stigio rapidamente acquisito in loco, o che già prima si estendeva su un vasto trian-golo geografico tra la pianura e le valli centro-pedemontane. Come si vede, l’intera ricostruzione, nella sua indubbia acutezza, procede da

una presunzione plausibile, ma indimostrabile (che cioè i M. Vibius Marcellus oVibius Marcellus di Torino, Usseglio e Susa siano la stessa persona), e si concretizzaattraverso una concatenazione di congetture molteplici, ciascuna di per sé ammis-sibile, anche se a diverso titolo di fondatezza e validità. Ciò che meno funziona è l’effetto di sostegno reciproco e di interconnessione

causale che dovrebbe determinarsi, allorché le singole supposizioni si coniugano fraloro nel tessuto di una vicenda biografica unitaria, percorsa nella lunga durata e inuna pluralità di situazioni, eventi, comportamenti e azioni. La somma di conget-ture che vanno a formare il racconto unitario, in altri termini, non produce un con-vincente risultato moltiplicatore rispetto alla credibilità complessiva della ricostru-zione, né esalta, attraverso la correlazione reciproca, il valore persuasivo di ognisingola supposizione. Le congetture rimangono, al contrario, isolate e giustappostenella loro non comprovabilità, come frammenti tenuti insieme soltanto dall’impal-catura esterna di un impianto narrativo, cosicché l’insieme smarrisce la solidità dellaricostruzione storica per assumere, invece, i tratti identificanti dell’opera di imma-ginazione letteraria.Un ulteriore esempio nella stessa direzione ci è offerto – per rimanere sempre

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nell’ambito dei più alti livelli di preminenza scientifica – da un altro contributo diG. Mennella, questa volta racchiuso sia nell’ambito della meritoria opera di pub-blicazione dei nuovi Supplementa Italica, sia in un contemporaneo contributo neiMélanges Le Glay. Aggiornando, in collaborazione con Giovannella Cresci Marroneed Emanuela Zanda, l’epigrafia di Industria 54, Mennella personalmente riedita unex voto55, inciso su una base scorniciata di grezzone grigio, mutila e abrasa in ognisua parte, di incerta origine (probabilmente da Montiglio)56, già pubblicato dalMommsen57 (che non lo vide e si affidò alla descrizione di Costanzo Gazzera) e dalPais58, e ora conservato nei depositi del Museo Archeologico di Torino. Il testo,nella ricostruzione di Mennella, così recita: Vitalis, Tertius / Quartus, Fir/mus Mari[i]/ L.f. fratres / Ma(rti) v(otum) s(olverunt) l(ibentes) l(aeti).Nell’ultima linea, Mennella individua un nesso MA (laddove Mommsen, sulla

scorta del Gazzera, leggeva M e proponeva uno scioglimento M(ercurio?), mentre ilPais leggeva soltanto A), giudicando evidenti sia la barra traversa della A, sia il ver-tice inferiore della M: di qui l’ipotesi che ci si trovi di fronte a una dedica a Marteda parte di quattro fratelli qualificati con quattro cognomina, tutti noti e diffusinella regione, seguiti dal gentilizio e dal patronimico. Fino a questo punto l’analisiprocede su dati di fatto indiscutibili, anche se l’individuazione in Marte del diobenefattore non appare scontata. La proposta di deduzione congetturale va peròoltre: secondo Mennella, la pluralità dei dedicanti e la loro appartenenza al mede-simo nucleo familiare suggeriscono che il dio li avesse preservati da un’infermità,presumibilmente di natura epidemica, che li avrebbe colpiti tutti insieme, in virtùdi proprietà salutifere che rimanderebbero a prerogative insite (tra le altre) nelMarte celtico59. Inoltre, poiché per tipologia e aspetto paleografico sembra propo-nibile una collocazione cronologica del monumento alla seconda metà del II secolo

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54G. CRESCIMARRONE, G. MENNELLA, E. ZANDA, Regio IX. Liguria. Industria, in Supplementa Ita-lica, n.s., n. 12, 1994, pp. 33-63; E. ZANDA, Industria. Città romana sacra a Iside. Studi e ricerche archeo-logiche 1981-2003, Torino 2012.55 CRESCI MARRONE, MENNELLA, ZANDA, Regio IX. Liguria. Industria cit., pp. 47-48, n. 1. Cfr.

pure G. MENNELLA, Marte per quattro fratelli, in L’Afrique, la Gaule, la religion à l’époque romaine:mélanges à la mémoire de M. Le Glay, Bruxelles 1994, pp. 598-602.56 Così il MOMMSEN, ad CIL V, 7463, p. 844, che la comprese fra le epigrafi della pertica di Var-

dacate, mentre nella definizione dell’agro industriese suggerita da CRESCI MARRONE, MENNELLA,ZANDA, Regio IX. Liguria. Industria cit., Montiglio viene appunto riassegnato alla città isiaca.57 CIL V, 7463.58 E. PAIS, Supplementa Italica, Roma 1888, n. 951.59 Sulla personalità complessa e multiforme del Marte alpino e cisalpino (su un centinaio di atte-

stazioni epigrafiche, la metà contengono epiteti indigeni illustranti le diverse qualità del dio), cfr. P.FINOCCHI, Dizionario delle divinità indigene della Gallia Narbonense, Roma 1994, p. 9, su cui già adesempio F. BENOIT, Mars et Mercure. Nouvelles recherches sur l’interprétation gauloise des divinités romai-nes, Aix-en-Provence 1959; A. FRESCHI, I culti preromani delle Alpi Occidentali e la Valle d’Aosta, in«Rivista di Studi Liguri» 41-42, 1975-1976, pp. 20-37; e in seguito, ampiamente, S. GIORCELLI BER-SANI, Un paradigma indiziario: cultualità cisalpina occidentale in età romana, in S. GIORCELLI BERSANI,S. RODA, «Iuxta fines Alpium». Uomini e dèi nel Piemonte romano, Torino 1999, pp. 108-111; e V.BROUQUIER-REDDE, E. BERTRAND, M.-B. CHARDENOUX, Mars en Occident, Actes du colloque inter-national “Autour d’Allones (Sarthe), les sanctuaires de Mars en Occident” (Le Mans, Université duMaine, 4-6 juin 2003), Rennes 2006.

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d.C., l’autore giudica legittimo aggiungere la presente attestazione ai documentirelativi alla «peste antonina» già oggetto di specifici studi60..Si dispiega anche qui con chiarezza il meccanismo di genesi di una trama narra-

tiva che, procedendo da dati certi, si autoalimenta, nell’accumulazione delle con-getture, fino ad assumere dignità di racconto articolato e autonomo. In particolareappare evidente il momento in cui, attraverso un risoluto salto logico, l’analisi e ilcommento testuale abbandonano il legame materiale con l’oggettività documenta-ria della fonte per imboccare strade diverse: l’appartenenza al medesimo nucleofamiliare dei quattro fratelli dedicanti, in assenza di altre specificazioni testuali,non è infatti di per sé né prova né indizio di una comune infermità da cui il dio liavrebbe preservati, né tanto meno, in funzione di quanto apprendiamo dall’epi-grafe, può definirsi la natura epidemica di tale presunta malattia da cui i quattro,tutti insieme, sarebbero stati colpiti, e tutti insieme risanati grazie all’interventosalutifero divino. Come si è visto, il plot narrativo tende poi a estendersi ancheall’individuazione della patologia da cui i fratelli sarebbero stati sanati, che vieneidentificata – in relazione a una possibile (per ragioni tipologico-paleografiche) seb-bene non certa collocazione cronologica della base alla seconda metà del II secolo –con la distruttiva pestilenza che i soldati di Lucio Vero diffusero dall’Oriente intutto l’Occidente al tempo delle guerre marcomanniche di Marco Aurelio. Non è qui luogo di soffermarsi sul valore di alcune ipotesi strettamente legate

all’analisi tecnico-epigrafica, su cui pure qualche osservazione è lecita e utile61,

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60 J. F. GILLIAM, in Roman Army Papers, Amsterdam 1986, pp. 227 sgg.; cfr. pure P. SALMON,Population et dépopulation dans l’Empire Romain, Bruxelles 1974, pp. 133-139; R. P. DUNCAN-JONES,The Impact of the Antonine Plague, in «Journal of Roman Archaeology» 9, 1996, pp. 108-136; C. P.JONES, Ten Dedications «To the Gods and Goddesses» and the Antonine Plague, in «Journal of RomanArchaeology» 18, 2005, pp. 293-301 (con addendum, in «Journal of Roman Archaeology» 19, 2006,pp. 368-369); CH. BRUUN, The Antonine Plague and the «Third-Century Crisis», in O. HEKSTER, G. DEKLEIJN, D. SLOOTJES (a cura di), Crises and the Roman Empire, Proceedings of the Seventh Workshopof the International Network Impact of Empire (Nijmegen, June 20-24, 2006), Leiden, Boston 2007,pp. 201-218; S. SABBATANI, S. FIORINO, La peste Antonina e il declino dell’impero romano, in «Infe-zioni in Medicina» 17, 4, 2009, pp. 261-275.61 La lettura di MA per Ma(rti), più che possibile, non è tuttavia sicura non essendo essa suppor-

tata né da altre testimonianze finitime (il riferimento al Marte celtico, attestato soprattutto in areaalpina, e alle sue virtù salutifere potrebbe equivalere ad esempio a un’identificazione con le Matrone,dotate di analoghe virtù protettrici e salvifiche e le cui attestazioni, in termini di riferimento territo-riale, si distribuiscono su una zona sostanzialmente coincidente a quella del Marte celtico: per il cultocisalpino e alpino delle Matrone cfr. F. LANDUCCI GATTINONI, Un culto celtico nella Gallia Cisalpina.Le Matrones-Iunones a sud delle Alpi, Milano 1986; GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indiziario cit.,pp. 73-79; A. G. GARMAN, The Cult of the Matronae in the Roman Rhineland: An Historical Evaluationof the Archaeological Evidence, Lewiston NY 2008, e neppure da una certezza inequivocabile della let-tura MA: non si può del tutto escludere infatti che il tratto orizzontale della A possa essere effetto diun maligno danneggiamento della superficie della pietra, tale da indurre in errore. Se così fosse ritor-nerebbero in gioco sia la mommseniana ipotesi M(ercurio), sia altre integrazioni possibili come M(iner-vae); quest’ultima potrebbe giovarsi anche del confronto con una pur controversa attestazione indu-striense, la dedica ex voto Minervae / pro salute offerta da alcuni membri della famiglia senatoria diorigine concordiese dei Desticii, la quale – fra l’altro – presenta forse non trascurabili analogie di strut-tura e impaginazione con la base di Montiglio: CIL V, 7373. Cfr. G. ALFÖLDY, Senatoren aus Nordita-

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quanto piuttosto sulla convenienza e sull’opportunità di soluzioni interpretativeampie, che dilatino l’arco delle ipotesi sino a comporre simulazioni narrative quantomeno sovradimensionate rispetto al nudo dato informativo della fonte. Ripetoancora una volta, a scanso di equivoco, che non si discute affatto della liceità di unsimile modo di procedere (come si è testé sottolineato, a nostro avviso, anche la vir-tual history e la storia controfattuale dichiarata hanno pieno diritto all’esistenza ealtrettanto rispettabile dignità scientifica), e meno che mai ci si permette di muo-vere obiezioni di correttezza di metodo. Ci si chiede soltanto se una tendenza aespandere le deduzioni congetturali verso limiti sempre più ampi e lontani dalnucleo della testimonianza certa e non discutibile, creando schemi narrativi sedu-centi ma inevitabilmente fragili, non rischi di confondere il piano della storia conil piano della produzione romanzesca, portando senza intenzione acqua al mulinodel relativismo decostruzionista e ai profeti del neoscetticismo postmoderno.È un sommesso segnale di allarme e un umile invito alla riflessione che propongo

– mi auguro si sia ben compreso – senza alcun disegno polemico, prima di tutto ame stesso e poi a tutti noi, in questi tempi difficili che credo tanto più impegninola nostra responsabilità civile di rigorosi indagatori della verità del passato e del pre-sente, attestati sulla non valicabile frontiera fra verità e fiction, fra il mestiere dellostorico e quello del narratore.«La memoria è vita», in quanto ci permette individualmente e collettivamente

di scrivere la nostra storia, di comunicarla e di essere consapevoli di ciò che siamo.Grazie alla memoria comprendiamo come il passato si traduca nel presente e gli diaforma. Attraverso il ricordo «veritiero» e il suo riconoscimento cogliamo il sensoche irrobustisce l’immanenza del presente e lo illumina, aiutandoci a non negare ilfuturo, a creare il senso di sé. La memoria e il tempo ci consentono di afferrare laverità dell’esperienza umana. Occorre però che non si dubiti, o involontariamentesi spinga a dubitare, della possibilità di costruire, riconoscere, e trasmettere cor-rettamente la memoria; che anche metodologicamente non si operi in un terrenoambiguo, dove fiction e realtà storica si confondono fino a non più distinguersi.Bisogna marcare e presidiare il confine fra due dimensioni della cultura e dell’uomoegualmente importanti e significative, ma non sovrapponibili né tanto meno inter-cambiabili. Soltanto l’inviolabilità di tale limes, che va difeso a oltranza con webe-riana etica della responsabilità, ci consente di preservare la memoria e ci dà il dirittodi difenderne la conservazione presso le generazioni a venire; esclusivamente suqueste basi possiamo con modestia tentare di aiutare noi stessi e gli altri a risalire,come i nani di Bernardo di Chârtres, sulle spalle dei giganti, «sì che possiamovedere e far vedere nuovamente un certo numero di cose in più e più lontano. E puressendo la nostra vista assai debole, con l’aiuto dei giganti, cioè delle nostre storie,della nostra storia che costruiamo in umile ricerca di verità, andare al di là dellamemoria e della dimenticanza»62.

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I PERICOLI DI UNA STORIA SENZA MEMORIA E SENZA VERITÀ

lien. Regiones IX, X und XI, in Atti del Colloquio internazionale AIEGL su Epigrafia e Ordine Senato-rio (Roma, 14-20 marzo 1981), Tituli, 5, Roma 1982, pp. 334-335.62 SPINELLI, Il sonno cit., p. 6.

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VI

Ammiano Marcellino storico contemporaneo*

Circa una dozzina di anni or sono, e precisamente a partire dal 1999, nell’am-bito di un programma interateneo cofinanziato dall’allora Ministero dell’Universitàe della Ricerca Scientifica e Tecnologica, quattro unità di ricerca facenti caporispettivamente alle Università di Firenze, Perugia, Milano-Cattolica e Torinoavviarono un’ampia indagine sull’«uso dei documenti nella storiografia antica».L’obiettivo della ricerca era quello di predisporre un corpus sistematico dei docu-menti di prima o di seconda mano utilizzati dagli storici antichi, greci e latini, com-presi coloro le cui opere si conservano soltanto in forma frammentaria, e – al finedi rendere meglio fruibile quello che si proponeva di diventare un prezioso stru-mento di lavoro per tutti i ricercatori impegnati nello studio della storiografia antica(ma anche in altri campi di approfondimento e riflessione sull’antichità classica) –di attribuire fin dall’inizio a tale corpus una configurazione informatica, trasferendoonline – in un apposito sito attrezzato per ricerche incrociate plurime – gli esiti del-l’analisi sistematica dei testi presi in considerazione. L’iniziativa del progetto prendeva le mosse dalla constatazione di come, nei pre-

cedenti cinquant’anni, assai scarsa attenzione fosse stata prestata dagli studiosi aquella che in realtà è, o dovrebbe essere, una componente essenziale della storio-grafia antica (come del resto di quella moderna): e cioè l’apparato documentario –scritto, materiale od orale – che gli storici classici avevano a disposizione, e checostituiva in ogni caso il principale punto di partenza del loro lavoro. In altreparole, l’attenzione preminente rivolta all’influenza della componente ideologico-politica nella costruzione del discorso storico ha relegato decisamente in secondopiano l’aspetto documentario; per lo più, anzi – fatte salve alcune isolate eccezioni1

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* Il testo di questo capitolo è la sintesi di due contributi: il primo, Polimorfismo ed eterogenesi dei fininell’uso dei documenti in Ammiano Marcellino, è comparso in A. M. BIRASCHI, P. DESIDERI, S. RODA, G.ZECCHINI (a cura di), L’uso dei documenti nella storiografia antica, Atti del Convegno (Gubbio, 22-24 mag-gio 2001), Incontri perugini di storia della storiografia, XII, Napoli 2003, pp. 659-668. Il secondo,Ammiano Marcellino «storico contemporaneo», si trova in R. UGLIONE (a cura di), Scrivere la storia nel mondoantico, Atti del Convegno nazionale di studi (Torino, 3-4 maggio 2004), Alessandria 2006, pp. 229-246. 1 L. DE CONINCK, Les sources documentaires de Suétone, «Les XII Césars»: 1900-1990, ANRW, II 33,

5, Berlin 1991, pp. 3675-3700; U. LAFFI, L’uso di epigrafi e di documenti formulari in Livio, in G. REGGI(a cura di), Storici latini e greci di età imperiale, Lugano 1993, pp. 15-35.

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– tale aspetto è stato esplicitamente negato, o quanto meno sottovalutato, anche dastudiosi di grande autorevolezza (come Moses Finley, o come lo stesso ArnaldoMomigliano), che hanno preferito porre in evidenza il ruolo che, in quel discorso,gioca la dimensione letteraria e retorica. In questo senso il progetto di ricerca intendeva, dunque, compiere una sorta di

inversione di tendenza rispetto a quello che appariva un indirizzo di studio conso-lidato. Nei proponimenti di chi a tale indagine collaborava risultava, quindi, prio-ritaria la volontà di fornire un contributo significativo alla rivalutazione delladimensione «scientifica» della storiografia antica, attraverso la sistematica ricogni-zione degli elementi documentari presenti – nella varietà delle loro tipologie – all’in-terno dei racconti degli storici antichi; attraverso l’analisi delle modalità del lorouso (ed eventualmente riuso, o abuso) dal punto di vista storiografico; attraverso,infine, la verifica e l’approfondimento delle teorizzazioni antiche – che pure esi-stono – a essi relative. Numerosi autori sono entrati (tramite schede compilate inappropriata maschera informatica) nel sito, intitolato DoStAn. I documenti nella sto-riografia antica 2: da Erodoto a Tucidide, da Polibio a Livio, da Tacito a Plutarco,da Svetonio ad Arriano, ad Ammiano Marcellino. L’unità di ricerca di Torino (for-mata da sette studiosi e ricercatori) si è assunta, all’interno del progetto, il compitodi occuparsi soprattutto delle fonti storiografiche latine della tarda età imperiale, equindi di procedere, in primo luogo, allo spoglio del testo di Ammiano Marcellino. Il lavoro condotto sulle Res gestae, di là dall’oggetto specifico della ricerca ma

in stretta correlazione causale con esso, è stata l’occasione per approfondire anchel’esame e la riflessione sulla «qualità» storiografica del testo ammianeo, e per ten-tare ulteriormente di decodificare l’anomalia socioculturale e ideologico-politicadi Ammiano Marcellino, un autore che, vissuto e operante in una complessa epocadi crisi/transizione che potremmo definire di reale «fine della storia», tra ansieepitomatrici, biografismi programmaticamente strumentalizzati e interpretazioniprovvidenzialistiche della storia nel progressivo trionfare della Kirchengeschichte,ripropose – pur tra reticenze, dubbi ed eccessi di moderazione, come già ebbe asottolineare Arnaldo Momigliano3 – un modello storiografico che si esprimeinnanzi tutto come sforzo di soddisfare la propria personale curiosità di fronte allepulsioni misteriose che attivano gli individui e, attraverso di essi, determinano gliavvenimenti della storia. Un modello che impone allo storico, come compito neces-sario e sufficiente, di narrare, senza velare la verità con alcuna menzogna, i fattipiù importanti e gli episodi più salienti, poiché sempre, senza eccezione, si ètenuti, nell’esporre la storia, a osservare un’assoluta veridicità (Sufficiet enim, veri-tate nullo velata mendacio, ipsas rerum digerere summitates, cum explicandae rerummemoriae ubique debeatur integritas fida: «Basterà infatti, non mai celando la veritàdietro il velo delle menzogne, esporre ordinatamente gli avvenimenti di maggiore

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2 Cfr. http://dostan.sns.it/Admin/home.htm; http://dostan.sns.it/public/index2.htm;http://dostan.sns.it/public/redazione.html.3 A. MOMIGLIANO, Storiografia pagana e cristiana nel secolo IV d.C., in ID. (a cura di), Il conflitto

tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino 1968, pp. 89-110, in particolare pp. 108-109.

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spicco, dal momento che per la narrazione storica in ogni suo punto si deve ritro-vare l’onestà fede degna»)4.

Si riassumono qui alcune osservazioni che l’indagine condotta mi pare ci con-senta oggi di formulare5.Dopo i lavori, fra gli altri, di A. Demandt6, di P. A. Camus7, R. Syme8, C. Sam-

berger9, E. A. Thompson10, R. Blockley11, G. Sabbah12, K. Rosen13, T. G.Elliott14, J. Matthews15; dopo l’importante colloquio di Amsterdam del 1991 sul-l’arte storiografica di Ammiano16, e dopo i più recenti contributi di T. D. Barnes17(da considerarsi in uno con l’ampia, interessante seppur inopportunamente astiosa

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4 AMM. XXXI, 5, 10. Traduzione di Italo Lana, in I. LANA, La storiografia latina del IV secolo d.C.,Torino 1990, p. 66. 5 Il punto complessivo sui risultati fino allora raggiunti dall’indagine è stato fatto in BIRASCHI,

DESIDERI, RODA, ZECCHINI (a cura di), L’uso dei documenti nella storiografia antica cit.; le conclusionipiù significative riscontrate sul testo di Ammiano sono state riferite da S. GIORCELLI BERSANI,«Quoad stare potuerunt monumenta»: epigrafi e scrittura epigrafica in Ammiano Marcellino (ibid., pp.625-643); da A. PELLIZZARI, «Haec ut antiquitatum peritus exposui» (AMM. XXII, 5, 21). Le cono-scenze e l’uso della storia romana antica in Ammiano (ibid., pp. 645-658); e da S. RODA, Polimorfismoed eterogenesi dei fini nell’uso dei documenti in Ammiano Marcellino (ibid., pp. 659-668).6 A. DEMANDT, Zeitkritik und Geschichtsbild im Werk Ammians, Bonn 1965.7 P. M. CAMUS, Ammien Marcellin témoin des courants culturels et religieux à la fin du IVe siècle,

Paris 1967.8 R. SYME, Ammianus and the Historia Augusta, Oxford 1968.9 C. SAMBERGER, Die «Kaiserbiographie» in den Res gestae des Ammianus Marcellinus. Eine Unter-

suchung zur Komposition der ammianeischen Geschichtsschreibung, in «Klio» 51, 1969, pp. 349-482.10 E. A. THOMPSON, The Historical Work of Ammianus Marcellinus, Groeningen 1969.11 R. BLOCKLEY, Ammianus Marcellinus. A Study of his Historiography and Political Thought, Coll.

Latomus 141, Bruxelles 1975; cfr. pure ID., Tacitean Influence on Ammianus Marcellinus, in «Latomus»32, 1973, pp. 63-78; ID., Ammianus Marcellinus on the Battle of Strasburg. Art and Analysis in the His-tory, in «Phoenix» 31, 1977, pp. 218-231; ID., Ammianus Marcellinus on the Persian Invasion of A.D.359, in «Phoenix» 42, 1988, pp. 244-260; ID., Ammianus Marcellinus’s Use of Exempla, in «Florile-gium» 13, 1994, pp. 53-64; ID., Ammianus and Cicero: the Epilogue of the History as a Literary Statement,in «Phoenix» 52, 1998, pp. 305-314; ID., Ammianus and Cicero on Truth in Historiography, in «TheAncient History Bulletin» 15, 2001, pp. 14-24.12 G. SABBAH, La méthode d’Ammien Marcellin. Recherches sur la construction du discours historique

dans les «Res gestae», Paris 1978.13 K. ROSEN, Ammianus Marcellinus, Ertäge der Forschung, 183, Darmstadt 1982, ma già ID., Stu-

dien zur Darstellungskunst und Glaubwürdigkeit des Ammianus Marcellinus, Mannheim 1968.14 T. G. ELLIOTT, Ammianus Marcellinus and Fourth Century History, Toronto 1983.15 J. MATTHEWS, The Roman Empire of Ammianus, Oxford 1989; si veda l’ed. it. a cura di A.

POLICHIETTI (con un saggio del curatore su Diritto ed economia in Ammiano Marcellino), L’imperoromano di Ammiano, Napoli 2006; cfr. anche ID., Ammianus’ Historical Evolution, in B. CROKE, A.EMMETT (a cura di), History and Historians in Late Antiquity, Sydney 1983, pp. 30-41.16 J. DEN BŒFT, D. DEN HENGST, H. C. TEITLER (a cura di), Cognitio Gestorum. The Historio-

graphic Art of Ammianus Marcellinus Colloquium, Proceedings of the Colloquium of Amsterdam (26-28agosto 1991), Amsterdam 1992.17 T. D. BARNES, Ammianus Marcellinus and the Representation of Historical Reality, Cornell Studies

in Classical Philology, 56, Ithaca, London 1998; cfr. pure G. CLARKE (a cura di), Reading the Past inLate Antiquity, Rushcutters Bay (New South Wales) 1990.

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recensione di F. Paschoud)18, di J. W. Drijvers e D. Hunt19, di F. Wittchow20, P.Riedl21, D. Rohrbacher22, G. Kelly23, D. Brodka24, S. Bocci25, nonché l’introdu-zione ancora di Sabbah all’ultimo tomo dell’edizione Belles Lettres riferita ai libriXXIX-XXXI dell’opera storica ammianea26, disponiamo oggi di una rappresenta-zione sufficientemente ampia e articolata, sia – in generale – delle regole e degliindirizzi del metodo storiografico di Ammiano, sia – in particolare – delle moda-lità di impiego dei documenti, intesi nel senso più lato del termine, all’interno dellasua opera.Per chiunque intenda ancora analizzare l’opera ammianea nel senso appena illu-

strato, si tratta quindi in primo luogo, attraverso una lettura sistematica e una sche-datura puntuale, di verificare ulteriormente, passo per passo e situazione per situa-zione, l’effettivo reiterarsi dei meccanismi di utilizzazione dei documenticonosciuti; in secondo luogo, di valutare l’applicazione, coerente o meno, diprincìpi metodologici quali quelli enunciati sia nelle due prefazioni programmaticheal libro XV e al libro XXVI delle Res gestae 27, sia in altre frequenti notazioni cur-sorie distribuite sull’intera opera; in terzo luogo, infine, di comprendere, attraversol’analisi delle scelte peculiari e predilette di fonti di riferimento, se Ammiano sta-bilisca rapporti di gerarchia e di qualità (e in tal caso, quali) fra le diverse tipologie

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18 F. PASCHOUD, A propos du nouveau livre de T. D. Barnes sur Ammien Marcellin, in «Antiquité Tar-dive» 7, 1999, pp. 353-363.19 J. W. DRIJVERS, D. HUNT, The Late Roman World and its Historians: Interpreting Ammianus Mar-

cellinus, London 1999; cfr. pure ora J. DEN BŒFT, J. W. DRIJVERS, D. DEN HENGST, H. C. TEITLER(a cura di), Ammianus after Julian. The Reign of Valentinian and Valens in Books 26-31 of the Res Gestae,Mnemosyne Supplementa, 289, Leiden 2007; agli stessi autori, in gruppo o singolarmente, si devonoi Philological and Historical Commentaries on Ammianus Marcellinus in vari volumi, dedicati ad alcunisingoli libri delle Res gestae, Leiden, Boston, Köln 1972-2011. 20 F. WITTCHOW, Exemplarisches Erzählen bei Ammanius Marcellinus – Episode, Exemplum, Anek-

dote, München, Leipzig 2001.21 P. RIEDL, Factoren des historischen Prozesses: eine vergleichende Untersuchung zu Tacitus und

Ammianus Marcellinus, Tübingen 2002.22 D. ROHRBACHER, The Historians in Late Antiquity, London, New York 2002, pp. 14-41.23 G. KELLY, Ammianus Marcellinus: The Allusive Historian, Cambridge, New York 2008.24 D. BRODKA, Ammianus Marcellinus. Studien zum Geschichtsdenken im vierten Jahrhundert n. Chr.,

Krakau 2009.25 S. BOCCI, Ammiano Marcellino XXVIII-XXIX. Problemi storici e storiografici, Roma 2013.26 AMMIEN MARCELLIN, Histoires, Livres XXIX-XXXI, Index général, a cura di G. SABBAH, Paris

1999, pp. VII-LXIII; cfr. pure G. SABBAH, Aspects de la démonstration historique chez Ammien Marcellin,in «Pallas» 69, 2005, pp. 377-394.27 Sul significato delle prefazioni metodologiche si veda C. FORNARA, The Prefaces of Ammianus Mar-

cellinus, in M. GRIFFITH, D. J. MASTRONARDE (a cura di), Cabinet of the Muses. Essays in Honor of T. G.Rosenmeyer, Atlanta 1990, pp. 163-172; e inoltre R. LIZZI, Ammiano e l’autocensura dello storico, in F.E. CONSOLINO (a cura di), Letteratura e propaganda nell’Occidente latino da Augusto ai regni romanobar-barici, Atti del Convegno internazionale (Arcavacata di Rende, 25-26 maggio 1998), Roma 2000, pp. 67-105; ID., Senatori, popolo, papi. Il governo di Roma al tempo dei Valentiniani, Bari 2004, in particolare pp.27-42; R. ROMAGNINO, Ammiano Marcellino. Res gestae XVI. Saggio di commento, tesi di dottorato, Uni-versità degli Studi di Sassari, a.a. 2009-2010 = http://eprints.uniss.it/5115/1/Romagnino_R_Ammiano_Marcellino_Res_gestae.pdf. In generale, su introduzioni e digressioni, si veda A.EMMETT, Introductions and Conclusions to Digressions in Ammianus Marcellinus, in «Museum Philologi-cum» 5, 1981, pp. 15-33.

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documentali in relazione all’affidabilità loro riconosciuta, alla loro valenza pro-bante, alla loro frequenza d’uso28.Il dato prioritario più ovvio, rispetto alle comunicazioni programmatiche, è la

connessione autopsia/verità dei fatti. La storia di Ammiano che noi leggiamo nonsoltanto risulta essere storia contemporanea, ma si tratta in larga misura di storia«vissuta», talora da protagonista o comprimario, talora da spettatore, talora dainterlocutore privilegiato di testimoni, attori e individui che avevano partecipatoagli eventi in prima persona, e quasi mai come semplici comparse. La connessione«ideologica» tra la verità dei fatti, che Ammiano narra, e quae videre licuit per aeta-tem vel perplexe interrogando versatos in medio scire 29 («[gli eventi] ai quali ho potutoassistere nel corso della mia esistenza, o che ho potuto conoscere interrogando accu-ratamente coloro che vi si trovarono coinvolti»), appare fondamento costante delsuo scrivere storia. Ecco quindi che la testimonianza oculare personale, o di per-sone conosciute come degne di fede, si fa di per sé fonte, in una narrazione che èinnanzi tutto cronaca del presente esposta in rigoroso ordine di successione degliavvenimenti (ordine casuum exposito diversorum)30; e si tratta di un presente deli-cato e pericoloso, in cui tanto più ci si accosta alla realtà del potere in atto (in un’e-poca come quella tardoantica, ove una pluralità singolare di poteri concorrenti –imperatore, senato, esercito, burocrazia, chiesa ecc. – e spesso in conflitto di com-petenza si contende i mille spazi di gestione dell’autorità pubblica), tanto più sirischia, e si tratta di rischi reali – i pericula veritati saepe contigua 31 –, sia perché siraccontano fatti a tutti noti non nel loro semplice essere, bensì nel loro determi-narsi e prodursi (che comunemente disvela azioni riprovevoli), sia anche perché, piùsemplicemente, nell’enunciazione degli eventi si operano fatalmente scelte discre-zionali od omissioni più o meno volontarie, e per questa ragione i protagonistiviventi possono sentirsi ignorati, sottovalutati, o non sufficientemente consideratirispetto alle molteplici e difformi gerarchie di valori attribuite al succedersi dei fattidai singoli attori di un’affollatissima, confusa e frenetica scena politica e sociale32. Di qui l’intenzione di Ammiano, più volte ribadita anche se non sempre rispet-

tata, di attenersi a un principio asettico di chiarezza, che rispetta in primo luogo lacollocazione geografica degli eventi (separando, in una ferrea logica geopolitica,Oriente da Occidente) e obbedisce poi alla più rigorosa sequenza cronologica, quasiche dal rispetto dell’ordine di successione dei fatti, inquadrati nella loro precisadimensione geografica, la garanzia di verità acquisisse ulteriore sostegno e vigore:

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28 Dopo i già citati lavori di E. A. Thompson e G. Sabbah, si veda anche l’Introduzione di M. CAL-TABIANO alle Storie, Milano 1989, soprattutto pp. 76-89. 29 AMM. XV, 1, 1. 30 Ibid.31 AMM. XXVI, 1, 1.32 Sui pericula veritati saepe contigua si veda A. MOMIGLIANO, The Lonely Historian Ammianus Mar-

cellinus, in «Annali della Scuola Normale di Pisa» 4, 1974, pp. 1393-1407 = Essays in Ancient andModern Historiography, Middletown 1977, pp. 127-140 = Sesto Contributo alla Storia degli Studi Clas-sici, I, Roma 1980, pp. 143-158, in particolare p. 153; LIZZI, Ammiano e l’autocensura cit., pp. 71 sgg.,e EAD., Senatori, popolo, papi cit., in particolare pp. 31, 42; H. AMIRAV, Ammianus Stoicus? Reflectionson Rulership, Tyranny, and Power in the Res Gestae, in H. AMIRAV, B. TER HAAR ROMENY (a cura di),From Rome to Constantinople. Studies in Honour of Averil Cameron, Leuven 2007, pp. 85-104.

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Poiché dunque proprio nel medesimo tempo, da tutte e due le parti [dell’impero] si sol-levarono tempeste disastrosissime, presenteremo i singoli eventi in modo dettagliato eopportuno, ora narreremo i fatti avvenuti in Oriente e poi delle guerre combattute coni barbari, dal momento che la maggior parte degli avvenimenti si produssero negli stessimesi sia nel settore occidentale sia in quello orientale, in modo da non creare confusionegenerale saltando rapidamente e incessantemente da un luogo all’altro, e da non offu-scare la serialità degli avvenimenti sotto un velo di estremo disordine33.

Nella stessa prospettiva si colloca la determinazione ammianea di procedere aun’esposizione ampia, minuziosa, dettagliata (ausführlich) ed esauriente degli avve-nimenti, per contrastare ed evitare il più possibile obiezioni circa assenze od omis-sioni, anche a prezzo delle critiche che potevano giungergli da una cultura storicacontemporanea nella quale la tendenza all’epitomazione, alla storia breve ed essen-ziale, alla cronologia e alla biografia facevano sempre più premio sulla narrazione dilargo respiro: residua quae secuturus aperiet textus, pro virium captu limatius absolve-mus, nihil obtrectatores longi (ut putant) operis formidantes. Tunc enim laudanda estbrevitas, cum moras rumpens intempestivas, nihil subtrahit cognitioni gestorum(«quanto illustrerà la narrazione che segue lo tratterò con accurata compiutezza perquanto le forze me lo permetteranno, senza temere la critica di chi reputi l’operatroppo lunga. La concisione infatti è degna di lode quando, eliminando le digres-sioni fuor di luogo, in nulla pregiudica la conoscenza degli avvenimenti»)34.La fonte privilegiata delle Res gestae ammianee non è dunque facilmente catalo-

gabile in un database quale è quello che è stato prodotto dal progetto di ricerca cuisi è fatto riferimento, dal momento che coincide e si identifica con lo stesso storico,con la sua esperienza personale, con il suo vissuto, con le sue autopsie e con le rela-zioni personali che egli intratteneva con i protagonisti delle vicende narrate.Ammiano racconta la storia che ha visto scorrere sotto i suoi occhi o materializzarsinei racconti dei contemporanei, trasformandosi quindi in documento di sé, fontepersonificata e spesso esclusiva. L’attendibilità del suo fare storia deriva dai suoiocchi o dagli occhi di persone che appaiono a suo giudizio credibili e affidabili, nontanto o non soltanto per virtù propria di testimoni probi e retti, ma perché spessoancora viventi e in quanto tali sottoposte a un controllo sociale forte, che impedi-sce la falsificazione o quanto meno giustappone a pari titolo la loro verità alla veritàdi altri testimoni: gli eventi riportati, insomma, quando non direttamente verificatida Ammiano, sono il prodotto di un gioco dialettico che o si risolve nell’omogeneitàtestimoniale, asseverando ulteriormente il dato storico, oppure fa rientrare l’even-

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33 AMM. XXVI, 5, 15: Quia igitur uno eodemque tempore utrubique turbines exarsere maestissimi,competenti loco singula digeremus, nunc partem in oriente gestorum, deinde bella barbarica narraturi, quo-niam pleraque et in occidentali et in eo orbe isdem mensibus sunt actitata, ne dum ex loco subinde saltua-tim redire festinamus in locum, omnia confundentes squaliditate maxima rerum ordines inplicemus; cfr.pure XV, 1, 1.34 AMM. XV, 1, 1. Sulla storia epitomata (o sull’enciclopedismo antiquario o sulla copiosa produ-

zione di materiale compilatorio) si veda ad es. R. LIZZI, La memoria selettiva, in G. CAVALLO, P.FEDELI, A. GIARDINA (a cura di), Lo spazio letterario di Roma antica, III, Roma 1999, pp. 647-676;cfr. pure L. BESSONE, La storia epitomata. Introduzione a Floro, Roma 1996, e A. BALDINI, Storie per-dute (III secolo d.C.), Bologna 2000.

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tuale discordanza dei testi nella polemica politica, nell’espressione di posizioni con-trapposte in quanto riferite a fronti ostili nella lotta continua, estenuante ed esa-sperata per il potere. Quando poi la contrapposizione delle verità si fa troppo netta,al punto che le interpretazioni dei fatti si elidono, non consentendo spazi di seppurminima comprensione del vero, allora ci si deve limitare all’esposizione delle opi-nioni senza prendere posizione, introducendo magari giustificazioni di tipo socio-logico e ardite motivazioni etico-politiche rispetto al rapporto fra il livello socialedelle persone coinvolte e l’importanza dei fatti da esporre o eventualmente da omet-tere: et quoniam existimo, forsitan aliquos haec lecturos, exquisite scrutando notare,strepentes id actum esse prius, non illud, aut ea quae viderint praetermissa: hactenusfaciendum est satis, quod non omnia narratu sunt digna, quae per squalidas transiere per-sonas («e poiché reputo che probabilmente alcuni che leggeranno questi miei scritti,avendoli analizzati con molta attenzione, contesteranno osservando che questo talfatto e non quell’altro è avvenuto prima o che sono stati esclusi intenzionalmenteepisodi di cui erano stati testimoni oculari, sarà sufficiente sottolineare che nontutto ciò che viene riferito tramite individui di infima condizione è meritevole diessere raccontato»)35. E se, nell’oscuro intrecciarsi degli intrighi di palazzo, fra con-giure vere o presunte, inganni e sostituzioni di ruolo, torture e uccisioni, la confu-sione diviene troppo grave e allo storico sfugge il senso degli eventi, allora ci silimita a narrare quanto si ricorda, con ampio beneficio di inventario: […] et quo-niam addici post cruciabiles poenas vidimus multos, ut in tenebrosis rebus confusionecuncta miscente, summatim quia nos penitissima gestorum memoria fugit, quae recolerepossumus, expeditius absolvemus («[…] e dal momento che fummo testimoni dellacondanna a morte dopo feroci torture di molti individui, mentre disordine e con-fusione regnavano sovrani, riferiremo sommariamente e in breve ciò che è avve-nuto e su cui recuperiamo memoria poiché il ricordo più puntuale degli eventi cisfugge»)36.Anche documenti, infine, apparentemente inattaccabili sul piano dell’attendibilità

– come gli atti processuali che si trovano negli archivi di stato, le instructiones nei tabu-laria publica37 – possono non essere in qualche circostanza, a giudizio di Ammiano, suf-ficienti ad attestare la veridicità dei fatti, giacché la degenerazione delle istituzioni, lafollia della lotta per il potere, il furor che sovverte le regole sociali di convivenza, tra-sforma la giustizia in ingiustizia, fa dei processi dei non processi e delle sentenze unospecchio deformante della realtà, sì che, se quegli atti fossero stati usati come docu-menti, essi avrebbero trasferito nella perennità della storia una sequenza di menzognee avrebbero consegnato ai posteri un falso potenzialmente eterno. È il caso, ad esem-pio, della documentazione relativa ai processi che coinvolsero molti senatori romanisotto Valentiniano, i cui atti non furono regolarmente registrati perché non celebrati inmodo corretto ed equo: […] nec si fieri fuisset necesse, instructiones vel ex ipsis tabulariissuppeterent publicis, tot calentibus malis, et novo furore, sine retinaculis imis summamiscente, cum iustitium esse, quod timebatur, non iudicium, aperte constaret («[…] e se

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35 AMM. XXVIII, 1, 15; cfr. pure XXX, 5, 10.36 AMM. XXIX, 1, 24.37 AMM. XXVIII, 1, 15; si veda anche XVI, 12, 69; cfr. SABBAH, La méthode cit., pp. 136 sgg.

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fosse stato necessario che si facesse ciò [cioè riferire anche fatti dubbi per inaffidabilitàdei testimoni] non potrebbero venirci in aiuto gli atti istruttori conservati negli archivipubblici, poiché nell’accanirsi di eventi tanto funesti e mentre un inaudito vento di fol-lia portava a confondere senza controllo alcuno le cose più importanti con le infime,risultava palese che non si trattava di un vero processo ma, come si paventava, di unatotale sospensione della giustizia»)38.Occorre quindi, in funzione del tempo presente – sul cui equilibrio e modera-

zione nonostante tutto Ammiano continua a contare (tamen praesentis temporis mode-stia fretus)39 –, modificare la tipologia documentaria cui di solito nel mestiere di sto-rico si fa riferimento, dal momento che chi fa storia non può venire meno al suodovere morale di scrivere anche dei fatti contemporanei. È quanto mai esplicita, inquesto senso, la citazione di una perduta lettera di Cicerone a Cornelio Nepote, nellaquale si sarebbe alluso al fatto che molti autori antichi preferirono non scrivere enon pubblicare durante la loro vita notizie di molti fatti, o vi accennarono soltantoin modo cursorio, sia per timore di non pervenire alla verità oggettiva, sia a causa deipericoli che la verità contemporanea rivelata poteva comportare: Haec quidam vete-rum formidantes, cognitiones actuum variorum, stilis uberibus explicatas, non elideresuperstites, ut in quidam ad Cornelium Nepotem epistola Tullius quoque testis reveren-dus affirmat («Temendo proprio questo tipo di disapprovazioni, alcuni degli antichi[scrittori] non pubblicarono finché furono in vita vari fatti di cui erano a conoscenzaraccontandoli con stile elegante, come afferma in una lettera inviata a CornelioNipote un teste degno di ogni considerazione quale Tullio [Cicerone]»)40. Giunto al momento cruciale di snodo in cui la narrazione dei fatti trascorsi si

conclude per lasciare spazio alla cronaca palpitante, viva e vissuta del presente,Ammiano non rinuncia però a proseguire nella narrazione, non ritrae l’attenzione,come forse sarebbe parso opportuno, dai fatti troppo noti (convenerat iam referre anotioribus pedem)41. Immune dai timori espressi da altri storici, inscitia vulgari con-tempta («spregiata l’insipienza del volgo»)42, egli si appresta a trattare ciò che ancorarimane nella sua memoria recente di osservatore, e in parte di protagonista, dellarealtà contemporanea, mutando però – come detto – la qualità, la forma e il conte-nuto della propria «cassetta degli attrezzi» storiografica. Si tratta, ora, ad esempio,di utilizzare prevalentemente, se non esclusivamente, fonti «controllabili» inquanto espressione diretta e immediata dell’azione. Vanno esclusi e rifiutati quindii documenti frutto di elaborazione successiva, mediati attraverso troppi testimoni,tanto più se letterari e indiretti, oppure filtrati attraverso gli scrinia della burocra-zia e le verbalizzazioni secretariali, in ogni modo sottoposte a strumentali revisioniprima di essere definitivamente destinate agli archivi43; al contrario, è d’uopo ricor-

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38 AMM. XXVIII, 1, 15.39 AMM. XXVIII, 1, 2.40 AMM. XXVI, 1, 2; S. ROTA, Citazioni ciceroniane in Ammiano Marcellino, in «Memorie dell’Ac-

cademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali» XX, 1996, pp. 3-55; BLOCKLEY, Ammia-nus and Cicero: the Epilogue cit., pp. 305-314; ID., Ammianus and Cicero on Truth cit., pp. 4-24. 41 AMM. XXVI, 1, 1.42 AMM. XXVI, 1, 2.43 CALTABIANO, Introduzione cit., pp. 76-87; cfr. A. SACHERS, Tabularium, in RE IV A 1 (1932),

coll. 1962-1969; G. CENCETTI, Tabularium Principis, in Studi di paleografia, diplomatica, storia ed aral-

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rere a documenti che registrano gli eventi in tempo reale oppure addirittura li deter-minano come agenti primari e protagonisti diretti e attivi. A questo proposito varrà forse la pena di fare riferimento ad alcuni dati per-

centuali che mi paiono indicativi, emersi dalla schedatura del testo di Ammianocompiuta negli anni scorsi dall’unità di ricerca di Torino. Circa il 30 per cento deidocumenti schedati si riferisce a lettere, relationes, ordini e disposizioni d’autoritàattraverso cui gli avvenimenti si innescano o si producono in tempo reale. Si trattadi missive ovviamente di vario genere e natura, delle quali viene data nel testoammianeo – per usare una delle definizioni di campo della maschera informaticautilizzata nella ricerca e schedatura – una descrizione sommaria del contenuto. Sonofonti talora sicuramente viste e lette da Ammiano; talora personalmente percepitenegli effetti prodotti; talora, infine, allo storico antiocheno riferite da testi autore-voli; tutte quante però accomunate dal fatto di attestare, più che eventi già acca-duti, azioni e contingenze ancora in fieri: si tratta, in altre parole, prima ancora chedi documenti, di strumenti dinamici e attivi del determinarsi degli accadimenti,passaggi chiave nella successione causale dei fatti. In questo calcolo percentuale – la cui approssimazione non ne vanifica il valore

indicativo – seguono, ponendosi attorno al 20-22 per cento, i riferimenti (implicitio espliciti, ma comunque inequivocabili) ad autori per lo più letterari (da Ciceronea Virgilio, da Ovidio a Plinio, a Plutarco) in larga prevalenza utilizzati non in fun-zione documentale, bensì come sostegno parenetico, come complemento culturale,come suggerimento erudito che conforta prese di posizione di tipo etico, morali-stico o descrittorio44. Rari, e non poteva che essere così in una storia che è – nellaparte superstite a noi pervenuta – in larghissima misura contemporanea, i riferi-menti agli storici; ma, alla luce di quanto sopra osservato, più che la scarsezza dicitazioni di storici tardoantichi, risulta sorprendente la modestissima presenza dirimandi ai classici della storiografia romana, Tacito compreso. In realtà, la rileva-zione statistica appare in questo caso in buona sostanza convergere con le piùrecenti valutazioni della critica sul significato effettivo della supposta dipendenzadi Ammiano da Tacito, e in particolare sulla misura in cui possa essere legittimoindicare in Ammiano Marcellino il vero successore di Tacito, di là dalla mera suturacronologica che la sua opera intese nei fatti stabilire rispetto al continuum delleHistoriae tacitiane. Le cautele espresse in proposito da Petra Riedl nel suo impor-tante saggio che analizza comparativamente la Geschichtskonzeption dei due sto-rici45, marcando anche una decisa differenziazione rispetto a molta della critica pre-cedente46, confermano la natura relativamente superficiale e generica di unacontinuità, del resto da Ammiano mai apertamente dichiarata.

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dica in onore di A. Manaresi, Milano 1953, pp. 133-166; A. CHASTAGNOL, La préfecture urbaine à Romesous le Bas-Empire, Paris 1960, pp. 12 sgg., in particolare sull’accesso di Ammiano agli Acta populi etsenatus (su cui peraltro già J. GIMAZANE, Ammien Marcellin, sa vie et son oeuvre, Toulouse 1889, pp.179-181); e più in generale E. POSNER, Archives in Ancient World, Cambridge, London 1972.44 CALTABIANO, Introduzione cit., pp. 76-89.45 P. RIEDL, Factoren des historischen Prozesses: eine vergleichende Untersuchung zu Tacitus und

Ammianus Marcellinus, Tübingen 2002; posizioni in parte concordanti in G. VIANSINO, Cornelio Tacitoe Ammiano Marcellino, in «Aevum» 78, 2004, pp. 109-135.46 Cfr. R. BLOCKLEY, Tacitean Influence upon Ammianus Marcellinus, in «Latomus» 32, 1973, pp.

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Ritornando alla scansione inversa delle nostre percentuali, al terzo posto fra idocumenti non materiali, con un dato del 16 per cento, si situano i discorsi, anchein questo caso decisivi all’interno della narrazione storica e direttamente influentirispetto a importanti raccordi nella scansione causale degli eventi; attorno all’8 percento si posizionano invece i riferimenti a trattati, leggi, editti imperiali, mentre supercentuali molto basse si collocano i cenni a iscrizioni, presagi e oracoli47. Risale,invece, al 20 per cento circa l’uso di quelle che potremmo indicare genericamente,senza volere procedere a ulteriori differenziazioni e specificazioni, come fontimonumentali. Tale tipologia di testimonianze documentali, oltre a soddisfare un’e-sigenza di precisione descrittiva di cose e di luoghi, sembra svolgere nella narra-zione ammianea una funzione in qualche misura rassicurante e confortante nei con-fronti del lettore, fornendogli uno sfondo certo e agevolmente riscontrabiliparametri paesaggistici di riferimento a una realtà contemporanea che si intendedescrivere con oggettività e veridicità. Se lo spettatore, cioè, è posto nella rassicu-rante condizione di riconoscere nella scena che gli si prospetta tracce sicure diquanto quotidianamente è abituato a vedere e di quanto funge da quinta solida epermanente alla materialità del suo esistere, sarà allora persuaso più facilmente aprestare fede a ciò che dicono e fanno gli attori sulla scena. La realtà riscontrabiledel paesaggio monumentale conferisce, in altre parole, attendibilità alle personenonché agli eventi che esse gestiscono e determinano.La polimorfia documentale a cui Ammiano fa riferimento, dunque, pare tutta (o

quasi) indirizzarsi coerentemente sulla strada della conferma diretta o indirettadella realtà contemporanea, riprodotta – di là dai noti casi di autocensura o reti-cenza – con minuziosa precisione e completezza di particolari. Riproporre narrativamente i fatti recenti è da sempre, per lo storico, opera dif-

ficile e delicata, che può compiersi soltanto alimentando e accreditando l’attendi-bilità dell’autopsia (dello storico medesimo, o di chi è a suo giudizio degno di fede)con fonti contemporanee che ripetutamente e insistentemente rimandino allo svol-gersi dei fatti. In questo senso, la fonte non ha tanto la funzione di attestare glieventi, quanto quella di indurre nel lettore la convinzione del coinvolgimento dellostorico nei fatti che narra; del suo essere a conoscenza delle vicende, degli accadi-menti e dei luoghi, perché egli è dentro alle vicende, agli accadimenti e ai luoghi;della sua affidabilità, misurata in funzione della quantità e della qualità delle coseche conosce. Il fine di provare i fatti, proprio del documento storico, si piega versoun altro scopo prioritario e prevalente, ossia quello di provare la buona fede e lacapacità dello storico di gestire e interpretare in modo veritiero quella realtà con-temporanea che, nel passato, storici e intellettuali avevano al contrario frequente-

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63-68; D. FLACH, Von Tacitus zu Ammian, in «Historia» 21, 1972, pp. 339-342; L. E. WILSHIRE, DidAmmianus Marcellinus Write a Continuation of Tacitus?, in «The Classical Journal» 68, 1972-1973, pp.221-227; A. MOMIGLIANO, Ammiano Marcellino e la Historia Augusta (a proposito del libro di RonaldSyme), Quinto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1975, pp. 93-100;L. ROSELLE, Tacitean Elements in Ammianus, Columbia Univ. Diss., New York 1976; per altri paral-lelismi si veda K. ROSEN, Studien zur Darstellungskunst und Glaubürdigkeit des Ammianus Marcellinus,Bonn 1970, e ID., Ammianus Marcellinus cit., pp. 6 sgg. 47 GIORCELLI BERSANI, «Quoad stare poterunt monumenta» cit.

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mente omesso o insegnato a omettere. È in questa prospettiva che si può verosi-milmente parlare, per quanto si riferisce appunto ad Ammiano, di una sorta di ete-rogenesi dei fini rispetto all’uso normale del documento storico48.Il discorso, per altro verso, si estende qui alle complesse e perduranti proble-

matiche del rapporto tra storia e narrazione, storia e retorica, storia e letteratura,storia e opera di finzione. L’opera di ricostruzione storica passa anche (e talora pre-valentemente) attraverso il ricorso a lavori di autori del passato, altri storici o altrinarratori di eventi, di cui non sempre è possibile provare in maniera risolutiva lacredibilità o la correttezza nel distinguere tra verità verificata e verosimiglianzaretorico-letteraria49. Ciò non soltanto perché in molti casi ci si può trovare di frontea una volontaria falsificazione dei fatti, imputabile a una molteplicità di ragionivariamente strumentali (politiche, ideologiche, di interesse, di ambizione o conve-nienza personale), ma anche perché in altrettanti casi è la stessa logica del linguag-gio e della narrazione ad alterare la nuda verità dei fatti, per involontaria conse-guenza dello stile retorico impiegato oppure a causa di mal gestite esigenze disemplificazione, di divulgazione e di chiarezza espositiva. D’altra parte, com’è statoampiamente dimostrato50, il rapporto fra mestiere dello storico e mestiere del nar-ratore/letterato non sempre appare in patente contraddizione, né si identificanecessariamente nell’antinomia fra verità e finzione. La finzione narrativa infattipuò anche essere una modalità attraverso la quale si racconta per riflesso, o perimmagine di reale somiglianza, la storia «vera»: e ciò non vale soltanto, ad esem-pio, per il romanzo storico, che specie nel XIX secolo interpretò la storia non solocon intenti di mero intrattenimento, ma spesso con la precisa volontà di accostarea essa un pubblico più vasto e meno culturalmente attrezzato di quello che era ingrado di leggere e comprendere le opere degli storici di professione. In epoche pas-sate, e in particolare nel mondo classico, la distinzione per noi ovvia, almeno alivello di lettori mediamente colti, fra storia e narrativa di fantasia non era sentitanei termini sostanzialmente antitetici con cui la percepisce il pubblico contempo-raneo: l’esempio di molte opere della letteratura greca del II secolo d.C. confermanel modo più evidente – come ha sottolineato Bowersock – tale dato di fatto51; in

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48 RODA, Polimorfismo ed eterogenesi cit. 49 Su queste tematiche si è a lungo ragionato in S. RODA, I pericoli di una storia senza memoria e senza

verità. L’epigrafia fra dogmatismo interpretativo e affabulazione incontrollata, in M. G. ANGELI BERTI-NELLI, A. DONATI (a cura di), Usi e abusi epigrafici, Atti del Colloquio internazionale di epigrafia latina(Genova, 20-22 settembre 2001), Serta Antiqua et Mediaevalia, VI, Roma 2003, pp. 387-409, ripresoe aggiornato in questo stesso volume (cap. V). 50 Fondamentale in tal senso il contributo di G. W. BOWERSOCK, Fiction as History. Nero to Julian,

Berkeley 1994 (trad. it. La storia inventata. Immaginazione e sogno da Nerone a Giuliano, Roma 2000),ora fruibile anche online all’indirizzo: http://publishing.cdlib.org/ucpressebooks/view?docId-=ft0489n6b4;brand=ucpress.51 G. W. BOWERSOCK, Erodoto, Alessandro, e Roma, in «Rivista Storica Italiana» 100, 1988, pp.

724-738; cfr. inoltre B. E. PERRY, The Ancient Romances: A Literary-Historical Account of Their Ori-gins, Berkeley, Los Angeles 1967; J. R. MORGAN, Romance, and Realism in the Aithiopika of Heliodo-rus, in «Classical Antiquity» 1, 1982, pp. 221-265; G. ANDERSON, The Novel in the Graeco-RomanWorld, London 1984; S. BARTSCH, Decoding the Ancient Novel, Princeton 1989; C. GILL, T. P. WISE-MAN (a cura di), Lies and Fiction in Ancient World, Exeter 1993; K. HOPKINS, Novel Evidence for RomanSlavery, in «Past & Present» 138, 1993, pp. 3-27; S. MERKLE, Telling the True Story of the Trojan War:

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questo caso specifico si è di fronte a storie romanzate che si proponevano comeopere storiche, mentre nel contempo la storiografia assumeva progressivamente itratti stilistici e formali della letteratura di invenzione. Il confine fra i due generisfuma fino a determinare una confusione/inversione di ruoli: fra il romanzo greco-ellenistico di età imperiale (che tocca temi di storia sociale, illustra la mentalità dif-fusa del tempo, racconta il quotidiano, delinea i tratti salienti e comuni dell’imma-ginario collettivo del popolo e delle classi subalterne), e opere storiche strettamenteintese finisce per non esserci altra differenza, nei contenuti di illustrazione docu-mentaria, se non ciò che rimanda ai fatti della grande politica e della più eclatantehistoire évenementielle. La letteratura d’evasione integra e in buona misura sisovrappone alla storiografia, contribuendo ampiamente a farci comprendere realtàaltrimenti sconosciute della dimensione materiale, psicologica, economica, socialee culturale del mondo romano imperiale. Un meccanismo che va oltre la pura ricercamateriale di suggerimenti e dati informativo-testimoniali nascosti nelle pieghe diqualsiasi testo letterario – operazione che da sempre gli storici avvertiti compionoe a fortiori dopo la rivoluzione delle Annales – e si estende a cogliere una variagamma di sentimenti, comportamenti, milieux e ambiti culturali e sociopsicologiciche la narrazione storica quasi mai è in grado o è interessata a cogliere52, ma checoncorrono a inserire nei quadri della conoscenza storica utili tessere di mosaicoaltrimenti non facilmente reperibili. È possibile accertare, in sostanza, una discri-minante fra una realtà antica che stenta a distinguere letteratura e storia, e una sto-riografia contemporanea che, mantenendo chiara la distinzione fra i due ambiti,acquisisce tuttavia la letteratura d’invenzione come fonte, ben al di là dell’offertaaccessoria e tutto sommato subordinata e marginale di occasionali opportunitàinformative. La letteratura di finzione in questo senso può legittimamente esserericompresa, con pressoché pari dignità e autonomia, nel bagaglio delle fonti stori-che, fornendo conoscenze non solo meramente complementari o di sostegno asse-verativo a verità altrimenti note, ma piuttosto alternative e integrative rispetto alpotenziale documentario di tutte le altre fonti scritte53. Va d’altra parte osservato come, attestandosi lungo tale linea (pur scientifica-

mente non scorretta) e quali che siano le cautele con cui si assume l’acquisizione alcampo storiografico della finzione letteraria, non si sia immuni dal rischio di scivo-lare su una china che tende fatalmente al relativismo storico e approda pericolosa-mente dalle parti dei furori decostruttivisti e postmoderni alla Hayden White54.

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The Eyewitness Account of Dictys of Crete, in J. TATUM (a cura di), The Search for the Ancient Novel,Baltimore 1994, pp. 183-196; J. A. FRANCIS, Truthful Fiction: New Questions to Old Answers on Philo-stratus’ «Life of Apollonius», in «The American Journal of Philology» 119, 1998, pp. 419-441. In gene-rale, vedi pure A. RIGNEY, The Rethoric of Historical Representation. Three Narrative Histories of theFrench Revolution, Cambridge, New York, Port Chester, Melbourne, Sydney 1990; EAD., ImperfectHistories. The Elusive Past and the Legacy of Romantic Historicism, Ithaca, London 2000; e quanto cur-soriamente annotato nel recente volume che raccoglie numerosi saggi dello stesso G. W. BOWERSOCK,From Gibbon to Auden. Essays on the Classical Tradition, Oxford 2009.52 RODA, I pericoli di una storia cit. (cap. V).53 Ibid. 54 Si rimanda qui soltanto al fondamentale H. V. WHITE, Metahistory: The Historical Imagination

in Nineteenth-Century Europe, Baltimore 1973: per un’ampia bibliografia di riferimento e una discus-

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Una china alla lettera «metastorica» che tende soprattutto ad accreditarsi in signi-ficativa e non casuale coincidenza con i momenti in cui risorge l’idea di trovarsi inpresenza di una presunta fine della storia. Se la storia finisce, tra storiografia e non-storia letteraria, tra fiction and history cade ogni barriera e il rapporto fra i duegeneri si confonde in una indeterminata e indistinta fiction as history o history as fic-tion. D’altra parte, come è stato ben sottolineato55, in età moderna ogni progressi-smo di destra e di sinistra, da Hegel a Marx, ha reiteratamente espresso la convin-zione che la storia umana abbia un fine e quindi, dovendo tale fine essere prima opoi raggiunto, anche una fine, e che esista una storia universale dell’umanità validaper tutti i popoli del mondo (e quindi narrabile allo stesso modo con gli strumentisia della storiografia sia della letteratura di finzione), che sarebbero tutti inevita-bilmente e inesorabilmente condotti dalla ferrea logica di questo disegno finalisticoverso terre promesse, Eden profani di tempo in tempo variamente configurati comepax Romana, o come costruzione della città di Dio, o come riscatto definitivo nellagiustizia sociale degli oppressi, o come diffusione e trionfo della democrazia uni-versalmente esportata e (per dirla alla Francis Fukuyama) come contestuale e paral-lela affermazione, incontrastata e incontrastabile, della cultura globale del liberomercato e libero consumo56. Il mondo romano conobbe due momenti, effettivi e nel contempo assai diversi

fra loro, di fine della storia nel senso kojèviano57 del termine: il trionfo della societàdel benessere altoimperiale e la convinzione diffusa che con il principato, da Augu-sto in poi, si fosse realizzato ei)j a)ei/ il migliore dei mondi possibili sanzionò la finedi una storia che si tradusse nei fatti, da Tacito in poi, nel lungo silenzio della sto-

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sione sui concetti ed effetti socioculturali di metastoria, decostruttivismo, postmodernismo e neosto-ricismo cfr. RODA, I pericoli di una storia cit. (cap. V).55M. FINI, Sudditi. Manifesto contro la democrazia, Venezia 2004, pp. 11-14.56 Cfr. F. FUKUYAMA, The End of the History and the Last Man, New York 1992 (discussione sul-

l’impatto della teoria della finis historiae e sulle successive correzioni di tiro dello stesso Fukuyama, inRODA, I pericoli di una storia cit., pp. 390-394, con gli aggiornamenti presenti in questo stesso volume);e inoltre soprattutto B. R. BARBER, Jihad vs. McWorld: How Globalism and Tribalism Are Reshaping theWorld, New York, Toronto 1995 (trad it. Guerra santa contro Mcmondo. La sfida del terrorismo allademocrazia, Milano 2002).57 A. KOJÈVE, Introduction à la lecture de Hegel: leçon sur la phénomenologie de l’Esprit professée de

1933 à 1939 à l’Ecole des Hautes-Etudes, Paris 1947 (si vedano ora i testi raccolti in ID., Il silenzio dellatirannide, Milano 2004, con l’acuta postfazione di A. GNOLI, Kojève, l’occulto maestro del ’900, pp.251-267); cfr. pure B. COOPER, The End of History. An Essay on Modern Hegelianism, Toronto 1984;P. ANDERSON,The Ends of History, in ID., A Zone of Engagement, New York 1992, pp. 279-375; L.NIETHAMMER, Posthistoire: Has History Come to an End?, New York 1992; M. LILLA, «AlexandreKojève», The Reckless Mind. Intellectuals in Politics, New York 2001; D. AUFFRET, Alexandre Kojève:la philosophie, l’Etat, la fin de l’histoire, Paris 2002 (1990); G. BARBERIS, Il regno della libertà. Diritto,politica e storia nel pensiero di Alexandre Kojève, Napoli 2003; F. R. DEVLIN, Alexandre Kojève and theOutcome of Modern Thought, Lanham 2004; R. HOWSE, Kojève’s Latin Empire. «From the End of His-tory» to the «Epoch of Empires», in «Policy Review» 126, August 1, 2004, Hoover Institution. Stan-ford University = http://www.hoover.org/publications/policy-review/article/7118; A. SINGH, ErosTurannos: Leo Strauss & Alexandre Kojève Debate on Tyranny, Lanham 2005; J. H. NICHOLS, AlexandreKojève: Wisdom at the End of History, Lanham 2007; M. FILONI, Il filosofo della domenica: la vita e ilpensiero di Alexandre Kojève, Torino 2008; G. RÖSCH, Philosophie und Selbstbeschreibung: Kojève, Hei-degger, Berlin 2010; M. FILONI, Kojève mon ami, Torino 2013.

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riografia, a malapena sostituito, ma non compensato, dall’invenzione pseudostoricadella letteratura d’evasione. Circa trecento anni dopo, crollate con la crisi del III secolo le certezze politiche

e psicologiche di eterna stabilità di Roma, una nuova fine attendeva la storia, con-sumata nell’illusione millenarista e provvidenziale dell’impero cristiano: contro talevagheggiamento si pone e si frappone la scelta contemporaneista e realista diAmmiano, che intende innanzi tutto accreditare se stesso come testimone fedede-gno dei fatti, affinché la realtà e la veridicità degli eventi che narra si imponga nellettore come naturale esito dell’affidabilità dello storico. L’antica lezione di Eforo,secondo cui l’accumulo di particolari è direttamente proporzionale alla credibilitàdello storico degli eventi contemporanei58, trova in particolare nell’Ammiano deilibri XXVI-XXXI un inconsapevole quanto diligente allievo. Ma vi è a mio avviso un elemento in più: Ammiano storico contemporaneo, che

interpreta in modo veritiero la realtà degli accadimenti da lui stesso vissuti, sembrareagire ai relativismi storici del suo tempo, sembra imporre e riproporre, controogni distorsione storica che palesemente strumentalizza in funzione ideologica odottrinale uomini ed evenienze, il metodo della integritas fida, della verità totale efededegna come fondamento della storiografia. Comprovando, attraverso la con-trollabilità dei fatti contemporanei, la sincerità e l’onestà di applicazione di talemetodo, egli si rende credibile anche come storico del passato, in una continuitàmetodologica e ideologica a ritroso che è essa stessa scienza della storia; e ribadendola continuità di questo tipo di storia e di verità storica, in buona misura, Ammianoriafferma anche la continuità, se non l’eternità, del mondo romano in un’epoca dievidente difficoltà. L’immaginario imperatore Adriano di Marguerite Yourcenar,giunto alla fine della sua esperienza di vita e di governo, lamentava:

Roma non è più Roma. Dovrà riconoscersi nella metà del mondo o perire. I tetti, le ter-razze, gli isolati che il sole al tramonto colora di rosa e d’oro non sono più, come al tempodei re, timorosamente circondati di mura: queste, le ho ricostruite in gran parte io stessolungo le foreste della Germania, nelle lande della Britannia. Tutte le volte che, alla svoltad’una strada assolata, ho levato lo sguardo da lunge su un’acropoli greca, sulla sua città,perfetta come un fiore, unita alla sua collina come il calice allo stelo, ho sentito che quellapianta incomparabile trovava un limite nella sua stessa perfezione […]. Come quella dellepiante, l’unica sua possibilità di espandersi consiste nel seme: quel germe di ideemediante le quali la Grecia ha fecondato il mondo. Ma Roma, più opulenta, più informe,[…] si disponeva verso sviluppi più vasti: la città è divenuta lo Stato. Avrei voluto chelo Stato si ampliasse ancora, divenisse ordine del mondo, ordine delle cose. Le virtù cheerano sufficienti per la piccola città dei sette colli avrebbero dovuto farsi duttili, varie,per adeguarsi a tutta la terra. […] Ma qualsiasi creazione umana che pretenda all’eter-nità è costretta ad adattarsi al ritmo mutevole dei grandi eventi della natura, conformarsial mutare degli astri59.

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AMMIANO MARCELLINO STORICO CONTEMPORANEO

58 Cfr. L. CANFORA, Scrivere la storia in Grecia e a Roma, in R. UGLIONE (a cura di), Scrivere la sto-ria nel mondo antico, Atti del Convegno nazionale di studi (Torino, 3-4 maggio 2004), Alessandria2006, pp. 31-38.59M. YOURCENAR, Memorie di Adriano, traduzione di L. STORONIMAZZOLANI, Torino 1963, p. 106.

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Così il grande principe esprimeva il suo stoico scetticismo circa la possibilitàche le creazioni umane potessero aspirare all’eternità. Il limite che egli stesso avevaimposto all’impero con la lungimirante scelta di interrompere le guerre di espan-sione, di abbandonare le ultime conquiste del suo predecessore Traiano, e di dedi-carsi esclusivamente al consolidamento militare e amministrativo dell’amplissimodominio romano60, non poteva non indurre, come effetto collaterale, un sensoincombente di decadenza. Tale percezione dolorosa investiva anche la grandeRoma, della cui aeternitas anche Adriano in passato era stato persuaso, ma la finedel processo di espansione verso lo Stato Universale (l’Urbs-Orbs che doveva dareordine al mondo) dimostrava che si era raggiunto l’apogeo della curva di crescita,oltre il quale si preannunciava ineluttabile la discesa, la crisi, la decadenza. Ma forsela dimensione materiale e reale della storia, vissuta da Ammiano nella concretezzadella contemporaneità e nell’autenticità della narrazione dei fatti del presente e delpassato, poteva costituire un efficace antidoto al pensiero depressivo del decadi-mento; poteva aiutare a coltivare l’illusione che nonostante tutto la storia di Romae del mondo classico proseguisse indefinitamente, quanto meno nel banale ma con-creto affollarsi dei fatti e degli eventi della cronaca politica, sociale e militare quo-tidiana; poteva dare una mano a contrastare il trionfo della non-storia che irrepa-rabilmente rinnegava, insieme a un metodo storico, la persistenza e l’utilità delmondo che tale metodo aveva prodotto e che attraverso tale metodo si era auto-rappresentato.

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60 Cfr. da ultimi D. DANZIGER, N. PURCELL, Hadrian’s Empire: When Rome Ruled the World, Lon-don 2006; A. GALIMBERTI, Adriano e l’ideologia del principato, Roma 2007; J. M. BLÁZQUEZ, Adriano,Barcelona 2008; Y. ROMAN, Hadrien. L’empereur virtuose, Paris 2008 (trad. it. Adriano, Roma 2001);J. GONZALEZ, P. PAVON TORREON (a cura di), Adriano emperador de Roma, Roma 2009; A. EVERITT,Hadrian and the Triumph of Rome, New York 2009; T. OPPER, Hadrian: Machtmensch und Mäzen,Darmstadt 2009; M. ZAHRNT, Hadrian, in M. CLAUSS (a cura di), Die römischen Kaiser. 55 historischePortraits von Caesar bis Iustinian, München 2010, pp. 124-136.

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VII

L’imperialismo romano soft della cultualità condivisa: la via religiosa all’integrazione e all’identità multiculturale *

Le credenze dogmatiche sono più o meno numerose, secondo i tempi. Nascono in diversomodo e possono cambiare forma e oggetto, ma non è possibile fare in modo che non vi sianocredenze dogmatiche, ossia opinioni che gli uomini accettano per fede e senza discutere. Seciascuno tentasse di formarsi da solo le proprie opinioni e di perseguire isolatamente la veritàper vie aperte unicamente da lui, sarebbe improbabile che un gran numero di uomini potesseraccogliersi intorno a qualche credenza comune.

Ora, è facile vedere che non esiste società in grado di prosperare senza simili credenze, opiuttosto non ve ne sono che sussistano in questo modo; perché, senza idee comuni non c’èazione comune e, senza azione comune, esistono ancora degli uomini, ma non un corpo sociale.Perché vi sia società e, a più forte ragione, perché questa società prosperi, bisogna dunque chetutti gli animi dei cittadini siano uniti e tenuti insieme da qualche idea principale; e ciò non sidà quando ciascuno di loro non attinga a volte le proprie opinioni da una medesima fonte enon acconsenta a ricevere un certo numero di credenze già esistenti.

Se adesso considero a parte l’uomo, trovo che le credenze dogmatiche non gli sono menoindispensabili per vivere da solo che per agire insieme a tutti gli uomini […]. Non c’è almondo filosofo così grande che non creda a un milione di cose sulla fede altrui e che nonammetta molte più verità di quante egli stesso abbia stabilito. Ciò non solo è necessario, maè desiderabile1.

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*Le considerazioni presentate in questo capitolo sono state in parte anticipate nella relazione I san-tuari pagani, tenuta in occasione del Convegno “Luoghi di culto, santuari, sacralità politiche in area subal-pina tra mondo pagano e mondo cristiano”, a cura dell’AIRS – Associazione internazionale per le ricerchesui santuari (Torino, Archivio di Stato, 11-12 aprile 2002), i cui atti non sono mai stati pubblicati.1 A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, II, 2, 2 (Della principale fonte delle credenze nei

popoli democratici), a cura di C. VIVANTI, trad. it. di A. VIVANTI SALMON, Torino 2006, pp. 468-469.Cfr. A. B. BATTISTA, Lo spirito liberale e lo spirito religioso; Tocqueville nel dibattito sulla scuola, Milano1976; EAD., Studi su Tocqueville, Firenze 1986; N. URBINATI, Individualismo democratico: Emerson,Dewey e la cultura politica americana, Roma 1997, pp. 95-128, in particolare pp. 95-102; P. SERRA,Americanismo senza America: intellettuali e identità collettive dal 1960 ad oggi, Bari 2002, pp. 158-159,nota 57; P. ERCOLANI (saggio introduttivo e cura di), A. de Tocqueville. Un ateo liberale. Religione, poli-tica e società, Bari 2008; A. VALDAMBRINI, Religione e democrazia in America. A proposito degli «studiamericani» di Emilio Gentile, in «Sintesi dialettica per l’identità democratica. Rivista on line a carat-tere scientifico» 4 dicembre 2008 = www.sintesidialettica.it/leggi_articolo.php?AUTH=-138&ID=256; A. M. JELLAMO, Verità politica e verità religiosa. Rileggendo «La democrazia in America»,2009, pp. 1-16 = http://www.sifp.it/pdf/TOCQUEVILLE%20per%20SIFP.pdf; EAD., Religione epolitica in Tocqueville, Atti del Convegno “Tocqueville e l’Occidente” (Arcavacata di Rende, Cs, 12-13 ottobre 2006), Soveria Mannelli 2012, pp. 121-142.

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Così Alexis de Tocqueville sottolineava il valore fondamentale e irrinunciabi-le delle credenze dogmatiche, di una fede solida e strumentale, di una religionecivile o politica che attraverso assiomi ideologici condivisi, anche e soprattutto infunzione della loro indimostrabilità logica, agisse a un tempo da efficace collantesociale e da indispensabile supporto per lo sviluppo armonioso e florido di unaqualsiasi comunità di cittadini. Un simile principio ha trovato preciso riscontro,com’è ben noto e com’è stato opportunamente e ampiamente richiamato daEmilio Gentile in un suo fondamentale saggio sulla sacralizzazione della politica2,nella durkheimiana teoria funzionalista della religione, secondo cui le religioni siconfigurano come sistemi coerenti di credenze e di pratiche relative alle cosesacre, cioè separate, interdette; credenze e pratiche che uniscono in una medesi-ma comunità morale, che si suole sovente chiamare «chiesa», tutti quelli che viaderiscono3. Per Durkheim la religione è, in altri termini, la condizione nellaquale l’individuo trascende se stesso, immergendosi nella comunità cui appartie-ne attraverso la fede nelle credenze e nelle tradizioni comuni: in questo senso essaprescinde dalla presenza o meno di un essere soprannaturale, perché la religionenon è altro che l’espressione della totalità della vita collettiva, il divino è la societàstessa che contempla e mitizza, quasi adora, se stessa. Le rappresentazioni reli-giose sono rappresentazioni collettive che esprimono realtà collettive; i riti sonomodi di agire che non sorgono che da gruppi riuniti insieme e sono destinati asuscitare, conservare o rinnovare determinati stati mentali di questi gruppi4. Gliindividui che costituiscono una comunità si sentono e rimangono uniti finché con-dividono un complesso di credenze e praticano riti che le comunità stesse, in fun-zione delle credenze comuni, prescrivono. La forza religiosa è il sentimento che lacollettività ispira ai suoi membri, ma proiettato al di fuori delle coscienze che lo pro-vano e quindi reso oggettivo. Per oggettivarsi, esso si fissa su un oggetto che in talmodo diviene sacro5. Come sottolinea ancora E. Gentile: «Le credenze religiose

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2E. GENTILE, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Roma, Bari 2001, pp. 13-16.3 E. DURKHEIM, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris 1912, p. 65; cfr. pure ID., De la

définition des phénomènes religieux, in «Année Sociologique» 2, 1897-1898, pp. 1-28 (testo riprodottoin ID., Journal sociologique, Paris 1969, pp. 140-165). In proposito si vedano W. F. S. PICKERING,Durkheim’s Sociology of Religion: Themes and Theories, London 1984; ID., The Origins of ConceptualThinking in Durkheim. Social or Religious?, in S. P. TURNER (a cura di), Emile Durkheim Sociologist andMoralist, New York, London 1993, pp. 51-132; N. J. ALLEN, W. F. S. PICKERING, W. W. MILLER (acura di), On Durkheim’s Elementary Form of Religious Life, New York, London 1998; J. ROMEROMOÑIVAS, Science and Religion in the Sociology of Emile Durkheim, in «European Journal of Science andTheology» 3, 1, 2007, pp. 17-30; A. MARYANSKI, Why Were Totems so Crucial to Emile’s Durkheim’sTheory on the Origin of Religion?, relazione presentata al convegno annuale della American Sociologi-cal Association (Sheraton Boston e Boston Marriott Copley Place, Boston MA, 31 luglio 2008) =http://citation.allacademic.com//meta/p_mla_apa_research_citation/2/4/2/6/7/pages242670/p242670-1.php. 4 DuRKHEIM, Les formes élémentaires cit., pp. 11-13. Cfr. C. T. ALTAN, M. MASSENZIO, Religioni,

simboli, società. Sul fondamento umano dell’esperienza religiosa, Milano 1998, pp. 35-39; M. ROSATI, A.SANTAMBROGIO, Il rituale come pratica sociale. Note sulla nozione di rituale in Durkheim, contributi peruna rilettura critica, Roma 2002; R. CIPRIANI, La formazione delle rappresentazioni collettive, inhttp://host.uniroma3.it/docenti/cipriani/rappresentanze.htm (2005).5 DURKHEIM, Les formes élémentaires cit., p. 327.

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esprimono l’unità e l’identità di una collettività, mentre i riti sono forme di azio-ne che servono a suscitare, preservare e innovare l’unità e l’identità di un grupposociale attraverso il riferimento a entità sacre, che possono essere oggetti, anima-li, persone, idee. Le credenze comuni relative a oggetti sacralizzati, come la ban-diera, la patria, una forma di organizzazione politica, un eroe o un avvenimentostorico, sono credenze obbligatorie»6 in altri termini esse si propongono comeindiscutibili, assolute e dogmatiche, come dimostra il fatto che la comunità nonpuò tollerare che esse siano apertamente offese, profanate o negate; oppure – pos-siamo aggiungere –, se la profanazione o la negazione si verifica, è perché altrecredenze del pari e più obbligatorie si sono imposte in sostituzione alle prime e lacomunità ha modificato la sua prospettiva identitaria, non riconoscendosi più inuna collettività allargata, ma avendo ritagliato all’interno di essa una nuova aggre-gazione comunitaria e un diverso spazio ideologico, rappresentato da nuovi sim-boli e da nuovi oggetti ai quali è stato attribuito un valore sacralealternativo/sostitutivo (poco importa se effetto di una più o meno articolata«invenzione della tradizione»)7, e attorno ai quali ci si arrocca con un’intransi-genza fondamentalista che può anche sfociare nel conflitto civile. La casistica storica è in questo senso ingente e molteplice: si pensi, per fare

soltanto alcuni ovvi esempi, alle vicende annose del conflitto irlandese, o a quel-le della disgregazione drammatica dell’ex Jugoslavia, o al fenomeno, meno trau-matico ma non meno rilevante sul piano ideologico, politico e sociale, della LegaNord in Italia8. Una simile prospettiva fa perno sugli effetti delle ideologie, delle convinzioni

religiose, delle simbologie comuni – anche all’apparenza «laiche» 9, ma in realtà

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6 GENTILE, Le religioni cit., pp. 14-15.7 Il riferimento d’obbligo per il senso dell’espressione, divenuta ormai proverbiale, è a E. J. HOB-

SBAWM, T. RANGER (a cura di), The Invention of Tradition, Cambridge 1983 (trad. it. L’invenzione dellatradizione, Torino 1987).8 Cfr. da ultimi M. GOMEZ-REINO CACHAFEIRO, Ethnicity and Nationalism in Italian Politics. Inven-

ting the Padania: Lega Nord and the Northern Question, Ashgate 2002; V. LOCATELLI, La Lega contro l’I-talia. La storia del Carroccio nelle parole di Umberto Bossi, Roma 2004; M. HUYSSEUNE, Modernità esecessione. Le scienze sociali e il discorso politico della Lega Nord, Roma 2004; G. SCALIATI, Dove va laLega Nord. Radici ed evoluzione politica di un movimento populista, Milano 2006; D. ALBERTAZZI, «Backto our Roots», or Self-Confessed Manipulation? The Uses of the Past in the Lega Nord’s Positing of Pada-nia, in «National Identities» 8, 1, 2006, pp. 21-39; L. DEMATTEO, L’idiotie en politique. Subversion etnéo-populisme en Italie, Paris 2007; A. TROCINO, A. SIGNORE, Razza padana, Milano 2008; G. PASSA-LACQUA, Il vento della Padania. Storia della Lega Nord 1984-2009, Milano 2009; D. PARENZO, D.ROMANO, Romanzo padano. Da Bossi a Bossi. Storia della Lega, Milano 2009; P. STEFANINI, Avanti Po.La Lega Nord alla riscossa nelle regioni rosse, Milano 2010; F. BONASERA, D. ROMANO, Inganno Padano.La vera storia della Lega Nord, Palermo 2010; R. BIORCIO, La rivincita del Nord. La Lega dalla contesta-zione al governo, Roma, Bari 2010; P. BERTAZZOLO, Padroni a Chiesa nostra. Vent’anni di politica reli-giosa della Lega Nord, Bologna 2011; L. DEMATTEO, L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord,Milano 2011.9 Durkheim ad esempio si riferiva, nel caso della Francia, a entità sacre come la patria, la Rivolu-

zione francese, Giovanna d’Arco, che nessun francese, a suo dire, avrebbe potuto tollerare fossero vili-pese (DURKHEIM, De la définition des phénomènes religieux cit., p. 20; cfr. GENTILE, Le religioni cit., p.15); è evidente che, se invece ci riferissimo alla realtà italiana di oggi, potremmo rilevare una contrap-posizione di simboli-entità sacre, acuita dalla recente celebrazione del centocinquantenario dell’Unitàd’Italia, ove al rinnovato (anche se talvolta artificioso) culto per la patria e per il tricolore si sono con-

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sacralizzate e, in quanto tali, percepite come assiomatiche e irrinunciabili – cheproducono aggregazione e autorappresentazione collettiva di unità e identità,dando forza e sostanza obiettiva alle comunità organizzate di individui. È dunque irrilevante, ai fini del conseguimento sociopolitico dell’obiettivo,

che il complesso delle credenze, dei sentimenti e delle idee in cui la collettività siriconosce e gelosamente s’identifica appartenga alla sfera di una religione rivelata(e assunta come propria da un popolo o da una nazione), oppure all’ambito di unareligione secolare o laica che riassegna a una dimensione sacrale simboli, mitolo-gie o icone politiche, oppure ancora a costruzioni assurdamente derivate da unastoria inventata, la quale tuttavia, nel momento in cui viene accolta senza riservecome verità incontrovertibile da un’ampia e coesa fascia popolare, assume valoreintrinseco, politicamente e socialmente ragguardevole quanto ideologie ben piùradicate e fondate su princìpi ed evidenze storiche non posticce. Si attiva, infatti, in questi ultimi casi un processo di sacralizzazione della poli-

tica che, come ha ben sottolineato appunto Emilio Gentile, ha luogo ogni voltache un’entità o un principio politico – la nazione, la democrazia, lo stato, la sovra-nità del popolo (o la «volontà popolare»), l’identità etnica, la razza, la classe, ilpartito, il movimento, l’organizzazione, il mercato – vengono trasformati, anchee soprattutto attraverso il ricorso a tattiche populistiche, appunto in entità sacre,in oggetti indiscutibili e inconfutabili di devozione e di culto, e sono collocati alcentro di un sistema di credenze, di valori, di comandamenti, di simboli e di ritiche definiscono il significato e il fine dell’esistenza umana individuale e colletti-va in questa terra10.

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trapposti, al Nord, atteggiamenti di rifiuto e di esaltazione di altri simboli alternativi e diversamentesignificanti (ad esempio il «sole delle Alpi» o le bandiere verdi di una supposta identità padana, diversae separata dall’identità italiana; il tutto sullo sfondo di mitologie parareligiose – la cerimonia dell’am-polla con l’acqua del Po raccolta alla sorgente e riversata alla foce, o i «matrimoni celtici» – le quali peròconvivono, in palese seppur negata contraddizione, con la difesa politicamente e pervicacemente riba-dita dei «valori cristiani»). Il discorso in questo senso si allarga altresì all’utilizzo disinvolto sia del con-troverso concetto di identità nazionale italiana, sul quale si aprì, già una dozzina di anni or sono, unarticolato dibattito (cfr. A. SCHIAVONE, Italiani senza Italia, Torino 1998; R. BODEI, Il Noi diviso,Torino 1998; E. GALLI DELLA LOGGIA, L’identità italiana, Bologna 1998, ripubblicato con aggiorna-menti nel 2010) che prosegue tuttora – cfr. ad es. W. BARBERIS, Il bisogno di patria, Torino 2004; ID.,Italiani, un’identità di lungo periodo, in Verso i 150 anni dell’Unità d’Italia. Nazione e cittadinanza, Attidel Convegno di studi (Torino, Scuola di Applicazione - Fondazione Filippo Burzio, 3 dicembre 2009),Torino 2010, pp. 1-16; S. PATRIARCA, Italiani. La costruzione del carattere nazionale, Roma, Bari 2010;F. CARDINI, L’identità italiana, 19 gennaio 2010 = http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=30103 –, sia del concetto in sé di identità dei popoli, contro cui si sono schieraticon articolate e convincenti argomentazioni, ad esempio, antropologi del calibro di U. FABIETTI, L’i-dentità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Roma 1995, e di F. REMOTTI, Contro l’identità,Roma, Bari 2001; e, più di recente, ID., L’ossessione identitaria, Roma, Bari 2010. Sulla «costruzionedelle identità» cfr. i contributi di M. C. D’ERCOLE, di W. POHL e di S. BARGAOUI, in «Annales.Histoire, Sciences Sociales» 60, 1, 2005, pp. 165-228. Sugli stereotipi identitari e sul loro imporsi inmaniera enfatica e pervicacemente insistita nel caso di catastrofi che investono un’intera comunità,come in occasione del disastroso terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009, cfr. C. FELICE, Le trappole del-l’identità. L’Abruzzo, le catastrofi, l’Italia di oggi, Roma 2010.10 Sempre a Emilio Gentile si deve l’analisi degli Stati Uniti nel loro rapporto con la, o le religioni,

cioè del caso più singolare e potente nella storia – dopo l’esempio di Roma imperiale – di culto della

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Le religioni della politica, a differenza delle religioni tradizionali, appaionoovviamente più flessibili e plurime, avendo la capacità di identificarsi con tipolo-gie diverse di regimi e di ideologie: esse infatti, in maniera del tutto autonoma,oppure in più o meno stretta connessione sinergica con una religione tradiziona-le, possono conferire dimensione religiosa a democrazia o autocrazia, uguaglianzao disuguaglianza, nazione o collettività plurietnica, comunità o classe, popolo oumanità. In ogni caso, religioni tradizionali o politiche, rivelate o secolari, con-fessionali o civili, perseguono una medesima finalità nella misura in cui rappre-sentano il veicolo principale di riaffermazione e di eventuale rinnovamento deisentimenti e delle idee collettive che plasmano l’unità e la personalità identitariae individuante di una società di uomini: ma tale finalità nella concretezza dei fattinon può essere conseguita – è ancora Durkheim che ce lo ricorda – se non permezzo di riunioni, di assemblee, di congregazioni, di compresenze collettive dovegli individui, strettamente prossimi gli uni agli altri, riaffermano in comune i lorosentimenti, il loro idem sentire in rapporto a un apparato mitologico che nessunopuò o vuole mettere in discussione; da qui, le cerimonie, che, per il loro oggetto,per i risultati che producono, per le procedure con cui si svolgono, non sono dif-ferenti dalle funzioni propriamente religiose. Quale sostanziale differenza vi è,infatti, fra un’assemblea di cristiani che celebrano le principali date della vita diCristo, o di ebrei che festeggiano l’uscita dall’Egitto e la promulgazione del deca-logo sul monte Sinai, o di musulmani che nella Íd al-adha–, la Festa del Sacrificio,ricordano il sacrificio di Abramo, e una riunione di cittadini che commemoranol’istituzione di una nuova carta morale o qualche grande avvenimento della vitanazionale, oppure che eseguono un rito pseudoceltico raccogliendo in un’ampollal’acqua della sorgente del «dio» Po per trasportarla fino all’Adriatico e ivi river-sarla nel nome dell’unità e dell’identità dei «padani», o ancora che si radunanoannualmente nel campo di Pontida per rievocare, traducendola al presente, l’epi-ca del Carroccio e rinnovare il giuramento che ivi si sarebbe celebrato, indipen-dentemente dalla sua contestata realtà storica11?

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nazione ravvivato dalla convinzione di essere stati scelti da Dio per redimere l’umanità riconducendolain toto al proprio modello di democrazia e di vita, che si considera indiscutibilmente il migliore maiprodotto nel corso dei secoli dell’avventura umana; un caso, tra l’altro, di sovrapposizione/identifica-zione fra la religione rivelata (un cristianesimo spesso declinato nei termini di esasperato fondamenta-lismo) e la religione civile della Sacra America imperiale: E. GENTILE, La democrazia di Dio. La religioneamericana nell’era dell’impero e del terrore, Roma, Bari 2006; cfr. pure il coevo saggio di J.-F. COLO-SIMO, Dieu est américain. De la théodémocratie aux Etats-Unis, Paris 2006; e inoltre B. CASALINI, Reli-gione e democrazia negli Stati Uniti d’America: la sfida della destra «fondamentalista», in S. MATTARELLI,Frontiere del repubblicanesimo, Milano 2007, pp. 215-236; CH. BUCK, Religious Myths and Visions ofAmerica: How Minority Faiths Redefined America’s World Role, Westport CN 2009; R. D. PUTNAM, D.E. CAMPBELL, American Grace: How Religion Divides and Unites Us, New York 2010; V. VALENTINI,Gli Stati Uniti e la religione: separatismo e libertà religiosa nella democrazia americana, Milano 2010.11 DURKHEIM, Les formes élémentaires cit., pp. 17-29, analizzato in GENTILE, Le religioni cit., pp.

19-20, e più in generale pp. 25-67. Su Pontida, Alberto da Giussano e la non storicità della leggenda acui tali eventi e personaggi – con ogni probabilità di assoluta fantasia – si ricollegano, con i noti effettiprolungati e strumentali sulla realtà della competizione politica italiana contemporanea, cfr. ad es. F.CARDINI, Omaggio a Federico I di Hohenstaufen, il «Barbarossa», 5 ottobre 2009, = http://www.francocardini.net/Archivio/2009/Barbarossa.pdf, pp. 1-20, contributo nato in occasione della prima al

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Un simile quadro d’analisi, verso il quale oggi convergono – in sostanzialeaccordo pur se da ottiche interpretative distinte – storici, studiosi della scienza digoverno, filosofi della storia, sociologi della religione, della politica e dei processiculturali, poggia su due presupposti che ne costituiscono il fondamento e, insie-me, il meccanismo propulsore: in primo luogo, appare ribadita quella che in ter-mini crociani potremmo definire la necessità di una religione quale insostituibilestrumento di soddisfazione del «bisogno di orientamento circa la realtà e la vita»,senza il quale gli uomini, individualmente o collettivamente, «o non possono vive-re o vivono con animo diviso e perplesso, infelicemente»12; d’altra parte però, conaltrettanto vigore, viene sottolineato come a tale ruolo di costruzione, se non dellafelicità quanto meno dell’idem sentire e dell’armonia di una comunità – premessaindispensabile per una convivenza sociale pacifica e serena – concorrano non sol-tanto religioni tradizionali, ma anche religioni laiche e secolari. L’indispensabilitàstrumentale crociana della religione si coniuga, in sostanza, con un principio diintercambiabilità: ai fini sociopolitici, efficaci e mirati processi di sacralizzazionedella politica svolgono un’azione equivalente a quella dell’insieme delle credenzeproposte da una religione tradizionale strutturata, sia essa «coincidente», perusare ancora le parole di Benedetto Croce, «con la verità filosofica o sia una qual-siasi religione mitologica che è poca cosa ma pur sempre meglio», nel disegno stru-mentale prioritario, «di nessuna religione»13.In secondo luogo, appare chiaro come il processo virtuoso non possa innescar-

si e alimentarsi senza ambiti comunitari di scambio e identificazione: soltanto lafrequenza reiterata delle occasioni d’incontro e la moltiplicazione dei luoghi edelle opportunità cerimoniali, cultuali, assembleari e aggregative consentono dirinsaldare i legami comunitari, di ribadire il riconoscimento dell’identità colletti-va (comunque presupposta o intesa), di rafforzare l’unità sociale e politica nelsenso più pregnante del termine.Lungo la prospettiva «religiosa» che abbiamo finora sommariamente illustra-

to, anche lo straordinario fenomeno sociopolitico della romanizzazione presenta,di là da ogni controversia storiografica circa la dimensione e la sostanza storicadel processo di diffusione della romanità in tutti i suoi tratti distintivi, caratteridi peculiare emblematicità e originalità14.

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Castello Sforzesco di Milano dello sfortunato (e poco apprezzato da critica e pubblico) film-kolossaldel regista Renzo Martinelli, Barbarossa, coprodotto dalla Rai e fortemente voluto e sponsorizzato dallaLega Nord e dal suo leader, che vi compare fra l’altro in un cameo. In generale cfr. G. RACCAGNI, TheLombard League 1167-1225, Oxford 2010.12 B. CROCE, Per la rinascita dell’idealismo, in ID., Cultura e vita morale, Bari 1914, nuova ed. Napoli

1993, pp. 34-35. Cfr. anche M. MAGGI, La formazione della classe dirigente. Studi sulla filosofia italianadel Novecento, Roma 2003, pp. 65-86, e più in generale A. DIMAURO, Il problema religioso nel pensierodi Benedetto Croce, Milano 20072; su tematiche per molti versi consimili o tangenti cfr. pure M. VIROLI,Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia, Roma, Bari 2005. 13 CROCE, Per la rinascita cit. Cfr. ora gli importanti contributi in A. FERRARA (a cura di), Religione

e politica nella società postsecolare, Atti del Convegno (Roma, 13 settembre 2007), Roma 2009.14 Sul tema della romanizzazione, spesso intrecciato a quello dell’imperialismo romano, non sol-

tanto la bibliografia è ovviamente sterminata, ma appare spesso condizionata nel tempo da ondatericorrenti e alternate di svalutazione/rivalutazione del fenomeno. Per un quadro storiografico generalecfr. R. CHEVALLIER, La romanisation de la Celtique du Pô. Essai d’histoire provinciale, Roma 1983; E.

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La vera grande innovazione romana sul terreno sociale, politico e culturale consi-ste nel fatto di avere elaborato e applicato, fin dall’epoca delle guerre per il predo-minio sull’Italia, un meccanismo di conquista basato, da una parte, su uno spettrocomposito e differenziato di modalità di colonizzazione e, dall’altra, su forme mol-teplici di cooptazione politica, anch’esse socialmente e politicamente diversificate. Nell’attuazione di tale processo, e quale presupposto tra i principali della sua

riuscita sulla strada dell’acquisizione e della conservazione del consenso, va anno-verato appunto l’utilizzo della leva religiosa: nel caso specifico trasferendo nellaperiferia, con modalità opportunamente modulate a seconda delle situazioni etno-culturali preesistenti, i meccanismi di interrelazione tra religione e politica checostituiscono il tratto distintivo delle istituzioni romane fin dalle origini storica-mente verificabili15.

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GABBA, Problemi della romanizzazione della Gallia Cisalpina in età triumvirale ed augustea, in M. G. VAC-CHINA (a cura di), Problemi di politica augustea, Quart (Aosta) 1986 = ID., L’Italia romana, Como 1994,pp. 237-246; M. MILLET, Romanization: Historical Issues and Archaeological Interpretation, in T. BLAGG,M. MILLETT (a cura di), The Early Roman Empire in the West, Oxford 1990, pp. 35-44; E. GABBA,L’imperialismo romano, in Storia di Roma, II: L’impero mediterraneo, 1: La repubblica imperiale, Torino1990, pp. 189-233; ID., Il processo di integrazione dell’Italia nel II secolo, ibid., pp. 267-283; P. DESIDERI,La romanizzazione dell’impero, in Storia di Roma, II: L’impero mediterraneo, 2: I principi e il mondo,Torino 1991, pp. 577-626; E. GABBA, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Firenze 1993; M.TORELLI, Le forme dell’integrazione. Colonizzazione, integrazione economica e politica, stati etnici e statiinteretnici, in Storia d’Europa, II, 2, Torino 1994, pp. 843-890; D. J. MATTINGLY (a cura di), Dialoguesin Roman Imperialism. Power, Discourse, and Discrepant Experience in the Roman Empire, Portsmouth1997; G. WOOLF, Becoming Roman. The Origins of Provincial Civilization in Gaul, Cambridge 1998; S.RODA, Roma antica e il mondo occidentale moderno: criteri di interpretazione e ipotesi di continuità,Torino 1999; S. KEAY, N. TERRENATO (a cura di), Italy and the West. Comparative Issues in Romaniza-tion, Oxford 2001; D. KRAUSSE, «Farewell to Romanization?», in «Archaeological Dialogues» 8, 2,2001, pp. 108-115; S. RODA, La romanizzazione: teoria e prassi di uno straordinario fenomeno sociopoli-tico, in ID., Profilo di storia romana. Dalle origini alla caduta dell’impero d’Occidente, Roma 2001, pp.127-141; D. J. MATTINGLY, Vulgar and Weak «Romanization», or Time for a Paradigm Shift?, in «Jour-nal of Roman Archaelogy» 15, 2002, pp. 536-540; L. A. CURCHIN, The Romanization of Central Spain:Complexity, Diversity, and Change in a Provincial Hinterland, London, New York 2004; C. B. CHAMPION(a cura di), Roman Imperialism: Readings and Sources, Malden, London, Carlton 2004; P. LE ROUX, Laromanisation en question, in «Annales. Histores Sciences Sociales» 59, 2, 2004, pp. 287-311; J.-B. YON,La romanisation de Palmyre et des villes de l’Euphrate, ibid., pp. 313-336; O. BUCHSENSCHUTZ, Les Cel-tes et la formation de l’Empire romain, ibid., pp. 337-362; D. ROUSSET, La cité et son territoire dans la pro-vince d’Achaïe et la notion de «Grèce romaine», ibid., pp. 363-385; P. MATYSZAK, The Enemies of Rome,London 2004; H. BOTERMANN, Wie aus Galliern Römer wurden. Leben im Römischen Reich, Stuttgart2005; D. KRAUSSE, Das Phänomen Romanisierung. Antiker Vorläufer der Globalisierung?, in S. SCH-MIDT, M. KEMPA, A.WAIS (a cura di), Imperium Romanum. Roms Provinzen an Neckar, Rhein undDonau, Katalog zur große Landesausstellung Baden Wurttenberg, Esslingen am Neckar 2005, pp. 56-62; e i numerosi, utili contributi raccolti sia in G. URSO (a cura di), Patria diversis gentibus una? Unitàpolitica e identità etnica nell’Italia antica, Atti del Convegno internazionale (Cividale del Friuli, 20-22settembre 2007), Pisa 2008, sia in G. CUSCITO (a cura di),Aspetti e problemi della romanizzazione. Vene-tia, Histria e arco alpino orientale, Atti della XXXIX Settimana di studi aquileiesi (in «Antichità AltoA-driatiche», LXVIII), Trieste 2009; N. MORLEY, The Roman Empire: Roots of Imperialism, London2010; S. RODA, Il modello della repubblica imperiale romana fra mondo antico e mondo moderno. «Feci-sti patriam diversis gentibus una», Bologna 2011.15 Cfr. in generale S. GIORCELLI BERSANI, S. RODA, «Iuxta fines Alpium». Uomini e dèi nel Pie-

monte romano, Torino 1999; S. GIORCELLI BERSANI, Il laboratorio dell’integrazione. Bilinguismo e con-fronto multiculturale nell’Italia della prima romanità, Torino 2002.

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In effetti, la bipartizione tra religione tradizionale e religione politica, cheabbiamo visto dispiegarsi nella riflessione di coloro che ripercorrono l’evolversistorico dei rapporti fra istituzioni, credenze dogmatiche condivise e cittadini diuna comunità statuale comunque definita (dalla regalità sacra alla polis, dagliimperi sovranazionali e multietnici fino alle moderne compagini statali e ai siste-mi complessi e bilanciati di alleanze egemonizzate da un’unica potenza) non trova,nella realtà costituzionale della repubblica romana e successivamente, in formediverse, nell’impero augusteo, ragione di essere16. L’intreccio inscindibile, perse-guito e realizzato, fra religione ufficiale e apparato simbolico-operativo del pote-re laico assume in tale realtà profili ed espressioni sconosciute ai sistemi politiciprecedenti e successivi: esso si allontana, infatti, superandoli, ma nel contempo inbuona misura compendia in un unicum straordinario per singolarità ed efficaciafunzionale, sia il modello della sovrapposizione identificante fra sovranità e divi-no (che trova espressione nella lunga durata dagli antichi imperi vicino-orientalifino alle odierne teocrazie fondamentaliste o alle prefigurate «democrazie diDio»), sia il modello laico della subordinazione dei segni di una religiosità tradi-zionale alla sacralizzazione della politica (che ha possibili riscontri nella democra-zia ateniese così come nella Francia postrivoluzionaria e in numerose contempo-ranee strutture statuali sia democratiche, sia totalitarie).In quanto elemento fondante e assimilante della coesione fra i cittadini non-

ché fra cittadini e istituzioni pubbliche, l’intreccio fra religione ufficiale e poli-tica si manifesta nel concreto di una cerimonialità iterata e multiforme che ilcalendario romano attesta in modo patente e inequivocabile17. Nelle cerimoniepubbliche e in particolare, nei luoghi sacri santuariali della religione e dello statosi instaura, in effetti, un processo di identificazione e un circuito di comunica-zione privo di distinzioni percepibili: identificazione delle proprie radici e comu-nicazione con gli altri. Il luogo sacro di fruizione condivisa e collettiva, il san-tuario di devozione alla divinità, che è comunque devozione agli ordinamentidell’autorità e del governo, costituisce pertanto un polo di aggregazione e insie-me un centro in cui si realizza un interscambio virtuoso e autorappresentativo,teso a consolidare la coscienza del cittadino di fare orgogliosamente parte di unacomunità politica forte e decisa ad assicurare il benessere e la piena soddisfazio-

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16 Cfr. ad es. M. DOGLIANI, Introduzione al diritto costituzionale, Bologna 1994, pp. 73-109; J.-M.DAVID, La romanisation de l’Italie, Paris 1997; M. PANI, La politica in Roma antica. Cultura e prassi,Roma 1997; A. GIARDINA, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Roma, Bari 2000; M. PANI,E. TODISCO, Società e istituzioni di Roma antica, Roma 2005; M. PANI, Il costituzionalismo di Romaantica, Roma, Bari 2010; P. Desideri, Punti di vista greci e romani su religione e politica in Roma repub-blicana, in «Politica Antica» 1, 2011, pp. 25-38.17 E. J. BICKERMAN, Chronology of the Ancient World, London 1980 (1969); P. BRIND’AMOUR, Le

Calendrier romain: recherches chronologiques, Ottawa 1983; J. RÜPKE, Kalender und Öffentlichkeit: DieGeschichte der Repräsentation und religiösen Qualifikation von Zeit in Rom, Berlin 1995; N. DONATI, P.STEFANETTI (a cura di), Dies natalis: i calendari romani e gli anniversari dei culti, Roma 2006; D. C. FEE-NEY, Caesar’s Calendar: Ancient Times and the Beginnings of History, Berkeley 2007; A. WOLKENHAUER,Sonne und Mond, Kalender und Uhr. Studien zur Darstellung und poetischen Reflexion der Zeitordnung inder römischen Literatur, Berlin 2011.

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ne dei bisogni comuni18. Il percorso dell’integrazione e della cooptazione, cheRoma persegue di pari passo con l’espansione coloniale, si giova dunque dellapositiva esperienza di tale approccio istituzionale e politico-religioso, per indivi-duare e sviluppare di volta in volta, nelle nuove realtà territoriali, sociali ed etno-culturali conquistate, modi e metodi per il trasferimento e l’innesto di analoghetecniche di cattura e di controllo del consenso. In questo senso, ad esempio, lo studio della realtà cultuale della Cisalpina, e

della Cisalpina occidentale in particolare, dalla romanizzazione alla romanità19 con-sente di esplorare un vero e proprio laboratorio dell’integrazione, ove è possibileosservare in fieri le fasi dell’omogeneizzazione duttile al modello romano, perse-guite in primo luogo attraverso quella che potremmo definire «la via sacrale all’o-mologazione»20. L’emergenza cultuale e santuariale nordoccidentale romana, cosìcome ce la restituiscono le fonti archeologico-epigrafiche, presenta, in effetti,caratteri di multiformità e variabilità ascrivibili a fasi diverse della penetrazioneculturale romana, offrendo ai nostri occhi: 1) tracce di residualità religiose localisopravviventi; 2) momenti diversi di processi assimilativi in corso; 3) testimonian-ze di uso della religione come strumento comune di accordo paritario fra diversi edi ricerca del consenso integrato; 4) prove del ricorso a pratiche di sociologia reli-giosa per rinsaldare il consenso già acquisito di élites e di comunità locali; 5) docu-menti diffusi della devozione all’imperatore e alla sua domus che esprimono la rica-duta in sede locale, con specifiche peculiarità (si pensi alla sacralizzazione dei per-corsi stradali di valico studiata nello specifico alcuni anni or sono)21, del grandeprogetto augusteo di legittimazione «religiosa» del nuovo ordinamento imperiale.

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Sui luoghi del sacro in Roma cfr. A. FRASCHETTI, Roma e il principe, Roma, Bari 20052.19Nella vastissima e articolata bibliografia cfr. C. B. PASCAL, The Cults of Cisalpine Gaul, Bruxelles

1964; I. CHIRASSI COLOMBO, Acculturazione e morfologia di culti alpini, in Atti del Convegno interna-zionale sulla comunità alpina nell’antichità (Gargnano del Garda, 19-25 maggio 1974), Atti CeSDIR(Centro Studi e Documentazione sull’Italia Romana), VII, Milano 1975-1976, pp. 157-189; EAD., Iculti locali nelle regioni alpine, in Aquileia e l’arco alpino occidentale, Antichità Altoadriatiche, IX,Udine 1976, pp. 173-206; A. MASTROCINQUE, Culti di origine preromana nell’Italia settentrionale, in W.ECK, H. GALSTERER (a cura di), Die Stadt in Oberitalien und in der Nordwestlichen Provinzen des Römi-schen Reiches, Deutsch-Italienisches Kolloquium (Italienischen Kulturinstitut, Köln, 18-20 maggio1989), Mainz am Rhein 1991, pp. 215-226; F. FONTANA, I culti di Aquileia repubblicana. Aspetti dellapolitica in Gallia cisalpina tra III e II secolo a.C., Roma 1997; S. GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indi-ziario: cultualità alpine occidentale in età romana, in GIORCELLI BERSANI, RODA, «Iuxta Fines Alpium»cit., pp. 13-130; G. MENNELLA, Culti ufficiali ed élite in Cisalpina: appunti da un database epigrafico, inM. CEBEILLAC-GERVASONI, L. LAMOINE (dir.), Les élites et leurs facettes: les élites locales dans le mondehellénistique et romain, Collection de l’Ecole française de Rome, 309, Rome 2003, pp. 481-502; A. SAR-TORI, Religione e potere nelle realtà locali cisalpine, in A. VIGOURT, X. LORIOT, A. BERENGER-BADEL,B. KLEIN (a cura di), Pouvoir et religion dans le monde romain en hommage à J.-P. Martin, Paris 2006,pp. 357-366; ID., Culti celtici in Cisalpina: questioni irrisolte (a partire dalle divinità delle acque), in J.D’ENCARNAÇÃO (coord.), Divindades indígenas em análise: divinités pré-romaines - bilan et perspectives daune recherche, Actas do VII workshop FERCAN (Fontes Epigraphici Religionis Celiticae Antiquae), (Cas-cais, 25-27 maggio 2006), Coimbra, Porto 2008, pp. 173-187.20 GIORCELLI BERSANI, Il laboratorio dell’integrazione cit.21 EAD., La montagna violata: il sistema alpino in età romana come barriera geografica e ideologica, in

«Bollettino Storico-bibliografico Subalpino» 98, 2000, pp. 425-499; EAD., Il sacro e il sacrilego nellamontagna antica: aspetti del divino nelle testimonianze letterarie e nelle fonti epigrafiche, in EAD. (a cura

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Questa straordinaria officina del consenso – fotografata in sequenza logica ecronologica e proposta in vivido reportage alla nostra memoria dalle fonti a cui sifa qui riferimento, di là dall’ambizione velleitaria di delineare una lunga ed esau-stiva rassegna di dati documentari sulla cultualità pagana – ha trovato da tempoesauriente e aggiornata messa a punto in molteplici lavori. Richiameremo quindil’attenzione soltanto sulle principali problematiche, sollecitate dalla documenta-zione, che meglio illustrano lo schema tipologico appena richiamato. Come oggi sappiamo, anche rispetto a una diffusa e non sempre opportuna-

mente motivata sopravvalutazione della cultualità indigena sopravvivente in etàromana, il complesso della documentazione sacra relativa all’area subalpina occi-dentale denuncia una prevalenza significativa di culti ufficiali che si collocanosoprattutto nel coerente programma di utilizzazione della religione come suppor-to, anche in zone periferiche, per la nuova organizzazione augustea del «sistemaimpero». L’età augustea si connota d’altra parte come il momento formativo perla definizione della mappa poleografica dell’area, per l’adeguamento giuridico-isti-tuzionale delle strutture di potere e di governo, per la promozione sociale, per l’e-laborazione locale degli stimoli culturali romani: nella stessa epoca occorre ricer-care le premesse della specificità cultuale della regione. L’insieme delle testimo-nianze devozionali consente di costruire il quadro di una religiosità assai ordina-ria, che concede molto al conformismo dei culti ufficiali e che si proietta partico-larmente verso quello imperiale (lo dimostra la grande diffusione – accanto ai cultiprincipali del pantheon ufficiale, come quello di Jupiter Optimus Maximus – del-l’appellativo Augustus/Augusta attribuito a divinità diverse, romane o assimilate);tutto ciò, peraltro, in sintonia con quanto accade in altri contesti cisalpini. Siriscontra altresì con chiarezza un compiuto adeguamento dell’orizzonte spiritualeal modello religioso genericamente ispirato dallo stato romano, che non sembrainteressato in modo programmatico a orientare i contenuti teologici e rituali deiculti indigeni: lo sfruttamento in senso politico-ideologico di tali culti avvennesoprattutto per assicurare un unanime consenso intorno al culto imperiale, lascian-do sostanzialmente in vita i singoli culti locali che apparivano compatibili con lareligione romana. Pare confermata l’opinione che nell’applicazione dell’interpreta-tio abbiano giocato un ruolo preminente gli aristocratici locali, in quanto promo-tori di ristrutturazioni edilizie, di dediche nei santuari (emblematica in questosenso la realtà di Industria)22 e in vari luoghi pubblici, coerentemente con la loro

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di), Gli antichi e la montagna. Ecologia, religione, economia e politica del territorio, Atti del Convegnointernazionale (Aosta, 21-23 settembre 1999), Torino 2001, pp. 27-44; A. GIARDINA, Conclusioni,ibid., pp. 277-282; S. GIORCELLI BERSANI, Le Alpi nella panegiristica tardo antica tra propaganda e sacro,in «Preistoria Alpina» 39, 2003, pp. 299-305; EAD., «Mountain microecologies»: riflessioni suambiente, insediamenti ed economia in area alpina (IV sec. a.C. - I sec. d.C.), in «Mediterraneo Antico»8, 2005, pp. 223-264.22M. ZORAT, La gens Lollia ed il culto di Ammone ad Industria, in «Quaderni della Soprintendenza

Archeologica del Piemonte» 11, 1993, pp. 55-63; G. CRESCI MARRONE, Gens Avil(l)ia e commerciodei metalli in valle di Cogne, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Antiquité» 105, 1993, pp.33-37; EAD., Famiglie isiache a Industria, in Culti pagani nell’Italia settentrionale, Atti dell’Incontro distudio (Trento, 11 marzo 1992), Trento 1994, pp. 41-51; G. CRESCI MARRONE, G. MENNELLA, E.ZANDA, Regio IX, Liguria. Industria, in Suppl. Ital., 12, Roma 1994, pp. 31-63; E. ZANDA, L’area sacra

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veste ufficiale di magistrati della comunità e in accordo con il clero locale. In altritermini, uno degli stimoli principali che spinse le élites delle singole comunità aadattare il proprio pantheon originario a quello romano fu il desiderio di dare pre-stigio alla propria comunità attraendo il riconoscimento del principe e l’ossequiodei Romani all’interno della comunità stessa, e portando a compimento un pro-cesso stimolato dai colonizzatori fin dalle prime fasi della romanizzazione. All’interno di questo quadro complessivamente coerente di ufficialità reli-

gioso-politica, che Augusto suggellò attraverso l’impegno a tutto campo nell’or-ganizzazione definitiva del territorio subalpino e alpino in funzione delle suenote strategie di controllo ed espansione centroeuropea dell’imper023, sopravvi-vono comunque alcuni fenomeni di cultualità la cui interpretazione richiede l’ap-

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di Industria, in N. BONACASA, A. DI VITA (a cura di), Alessandria e il mondo ellenistico-romano: studiin onore di Achille Adriani, Atti del II Congresso internazionale italo-egiziano, Roma 1995, pp. 241-250; L. MERCANDO, E. ZANDA, Bronzi da Industria, Roma 1998; E. ZANDA, Il santuario isiaco di Indu-stria, in E. A. ARSLAN (a cura di), Iside. Il mito, il mistero, la magia, Catalogo della Mostra (Milano,Palazzo Reale, 22 febbraio - 1° giugno 1997), Milano 1999, pp. 352-357; E. PANERO, La città romanain Piemonte. Realtà e simbologia della forma urbis nella Cisalpina occidentale, Cavallermaggiore 2000,pp. 105-115; E. ZANDA, Industria. Città romana sacra a Iside. Studi e ricerche archeologiche 1981-2003,Torino 2012.23 A. H. M. JONES, Augusto, Roma, Bari 1973 (1970); F. FABBRINI, L’impero di Augusto come ordi-

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plicazione di categorie analitiche più articolate, che tengano conto della diversanatura e genesi di certe manifestazioni isolate di culto24. La religiosità al di fuori dell’ufficialità romana, in effetti, è stata per molto

tempo generalmente valutata in modo indifferenziato, e al generico concetto di«religiosità locale preromana» sono stati ricondotti fenomeni di natura e di qua-lità molto diversa. Ciò è in qualche misura comprensibile, se si tiene conto chel’approccio storico-antichistico prevalente rispetto a zone marginali della romanitàha generato una maggior sensibilità verso testimonianze documentarie che riman-dano in qualsivoglia misura alla cultura indigena preromana: talora, infatti, l’uni-cità di una testimonianza è stata di per sé assunta come base sufficiente per deli-neare scenari complessi circa la sopravvivenza e la persistenza della cultura localedi età preromana, e in certe circostanze si è fatto ricorso alla giustapposizione dielementi non omogenei al solo fine di predisporre una base documentaria suffi-cientemente ampia e solida su cui edificare discorsi, in qualche misura compiuti,sulla religiosità dell’area. Inoltre, i presunti culti indigeni sono stati troppo spes-so impropriamente e superficialmente giudicati come espressione di «resistenza»culturale consapevole, con implicazioni anche di tipo ideologico e politico.Il panorama cultuale non direttamente innestato nell’ufficialità presenta

comunque caratteristiche non passibili di interpretazioni univoche: troviamoinfatti sia attestazioni di divinità prive di interpretatio e altrove sconosciute, non-ché estranee a contesti definiti e non riconducibili ad alcuna precisa funzione; siacasi di concentrazione, su porzioni territoriali circoscritte, di culti con una preci-sa valenza funzionale ma riportati all’ufficialità attraverso l’associazione con divi-nità del pantheon romano; sia fenomeni di devozione organizzata intorno a un san-tuario, che possono avere origini esterne al territorio o essere radicati in unristretto ambito geografico ed esprimere una devozione locale che prosegue, informe diverse, anche a romanizzazione avvenuta. In altre parole, alla luce di talesituazione, appare evidente l’impossibilità di studiare con gli stessi criteri, e all’in-terno degli stessi parametri storici, fenomeni di culto così diversi sul piano del-l’evidenza documentaria e della funzionalità specifica.

L’area cisalpina occidentale, per le particolari condizioni di eterogeneità geo-grafica, sociale ed economica che presenta, è in effetti un osservatorio privilegia-to per valutare diversi aspetti di cultualità «locale» e specifiche modalità di assi-milazione di culti indigeni celto-liguri all’interno del pantheon romano: il caratte-re di attardamento culturale di alcune aree, come quelle alpine – che ha evidentiragioni di tipo politico e che si manifestò nella gradualità con cui tali aree furonoinquadrate giuridicamente – trova riscontro nella sopravvivenza di espressioni cul-tuali ancora in parte legate al mondo religioso celto-ligure, fortemente connessocon le forze spontanee e molteplici della natura25. Così, talvolta le divinità roma-

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24 GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indiziario cit., in particolare pp. 85-115.25 Cfr. in generale S. RODA, Il territorio cuneese nell’età romana: stato degli studi e prospettive di

ricerca, in A. A. MOLA (a cura di), Mezzo secolo di studi cuneesi, Atti del Convegno per il cinquantena-rio della Società Studi Storici Archeologici e Artistici della Provincia di Cuneo (Cuneo, 6-7 ottobre1979), Cuneo 1981, pp. 51-66; ID., Stratificazione sociale e ceti produttivi nel Piemonte sud-occidentaleromano, in Agricoltura e mondo rurale nella storia della provincia di Cuneo, Atti del Convegno (Fossano,

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ne tradizionali sono accompagnate da epiteti che le caratterizzano come divinitàindigene, celtiche o anche preceltiche: è in questi casi evidente che il nome lati-no nasconde una divinità locale assimilata più o meno arbitrariamente a una dellefigure del pantheon tradizionale romano. Se questo è indubbiamente vero, non sipuò tuttavia ignorare che la presenza in epoca romana di testimonianze cultualiriconducibili al precedente sostrato etnico è quantitativamente assai limitata,anche in rapporto ad aree contermini: ciò può forse essere l’effetto prodotto dal-l’incidenza di una cultura egemone, quale quella dei conquistatori romani, dispie-gata su un territorio a debole resistenza etnica, demografica, socioculturale; mapuò essere altresì il risultato di un forte e spontaneo adeguamento della cultualitàindigena al sistema religioso romano, che dunque non avrebbe scardinato un insie-me prima coerente e organico, ma, al contrario, avrebbe fornito alla religiositàindigena mezzi nuovi e più ricchi di espressione. Poste queste indispensabili premesse, l’area alpina occidentale subito di là

dalla linea confinaria della Quadragesima Galliarum 26 appare emblematica sia del-l’articolazione complessa di espressioni cultuali, sia dell’inadeguatezza delle pro-

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23-24 maggio 1981) = «Bollettino della Società di Studi Storici, Archeologici e Artistici della Pro-vincia di Cuneo» 85, 1981, pp. 301-313 e tavv. XXV-XXVIII; ID., La collezione epigrafica del MuseoCivico di Cuneo, in Dal territorio al museo, Atti delle Giornate di studio (Cuneo, 10-11 gennaio 1981),Torino s.d. (ma 1982), pp. 96-116; ID., Le iscrizioni di Pollentia, in «Mélanges de l’Ecole française deRome - Antiquité» 97, 1985, pp. 477-494; ID., Economia e società nelle città dell’Italia nord-occidentaleromana, in ECK, GALSTERER (a cura di), Die Stadt in Oberitalien cit., pp. 105-119; L. CRACCO RUG-GINI, Per la storia di una città periferica: Augusta Taurinorum, in «Studia et Documenta Histriae et Iuris»60, 1994, pp. 19-48; S. RODA, La romanità periferica del Piemonte imperiale: un disinteresse motivato, inStoria di Torino, I:Dalla preistoria al comune medievale, Torino 1997, pp. 155-167; ID., Città e agri nellaregione subalpina romana, ibid., pp. 167-185; ID., La città altoimperiale, ibid., pp. 189-202; ID., L’ari-stocrazia urbana, ibid., pp. 202-214; ID., La vita e la società civile fra città e agro, ibid., pp. 214-220; G.MENNELLA, Itinerari di culto nel Piemonte romano, in Archeologia in Piemonte, II: L’età romana, a curadi L. MERCANDO, Torino 1998, pp. 167-179; ID., Il santuario rurale di Suno, in M. PANI (a cura di), Epi-grafia e territorio, politica e società: temi di antichità romane, Bari 1999, vol. V, pp. 97-116; L. CRACCORUGGINI, Città e campagne del Norditalia: una «storia spezzata»?, in G. CRIFÒ (a cura di), Atti del XIIIConvegno internazionale in memoria di André Chastagnol (Perugia, 1-4 ottobre 1997), Napoli 2001, pp.477-503; S. RODA, Lo studio recente della romanità del Piemonte subpadano: appunti per una riflessionestoriografica e metodologica, in R. COMBA (a cura di), I primi mille anni di Augusta Bagiennorum, Atti delConvegno (Bene Vagienna, 2 settembre 2000), Cuneo 2001, pp. 21-37; GIORCELLI BERSANI, Il sacro eil sacrilego nella montagna antica cit., pp. 27-44; S. RODA, Introduzione, in M. G. ANGELI BERTINELLI(a cura di), La Liguria nell’impero romano: gli imperatori liguri, Atti del Convegno (Genova, 30 novem-bre 2000), Genova 2002, pp. 9-22; S. GIORCELLI BERSANI, Segni e simboli dell’integrazione: documentiscritti del passaggio alla romanità nell’Italia nord-occidentale, in E. MIGLIARIO, L. TROIANI, G. ZECCHINI(a cura di), Società indigene e cultura greco-romana, Atti del Convegno internazionale (Trento, 7-8 giu-gno 2007), Roma 2010, pp. 161-182; E. MIGLIARIO, Ai confini di due culture: bilinguismo e romanizza-zione nella Cisalpina, in G. CANTINOWATAGHIN (a cura di), Finem dare: il confine tra sacro, profano eimmaginario. A margine della stele bilingue del Museo Leone di Vercelli, Atti del Convegno internazio-nale (Vercelli, 22-24 maggio 2008), Vercelli 2011, pp. 97-107.26 G. MENNELLA, La Quadragesima Galliarum nelle Alpes Maritimae, in «Mélanges de l’Ecole

française de Rome - Antiquité» 104, 1992, pp. 209-232; PANERO, La città romana cit.; J. FRANCE, Qua-dragesima Galliarum. L’organisation douanière des provinces alpestres, gauloises et germaniques de l’Empireromain (Ier siècle av. J.-C.- IIIe siècle ap. J.-C.), Collection de l’Ecole française de Rome, 278, Rome 2002;G. MENNELLA, A. BETORI, La «Quadragesima Galliarum» ad Fines Cotti, in «Quaderni della Soprin-tendenza Archelogica del Piemonte» 19, 2002, pp. 13-28.

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poste interpretative finora applicate. In queste zone montane, le manifestazionireligiose e il quadro dell’interpretatio romana dei culti si definirono in modalitàpeculiari in rapporto alla specificità del processo di romanizzazione e di accultu-razione. È fuori di dubbio che gli ambienti montani, in quanto più chiusi e imper-meabili, abbiano mantenuto più a lungo nel tempo alcune caratteristiche religio-se indigene che s’ispirano alla teologia celtica e/o ligure; ma, nel caso dell’arcoalpino occidentale, fattori più complessi della semplice conservatività delle areemarginali concorrono a delineare una casistica eterogenea di culti, complessiva-mente non riconducibili alla stessa matrice e alla stessa funzionalità. Non vadimenticato, d’altra parte, che la conquista romana dell’arco alpino occidentale,se da un lato procedette in modo traumatico, dall’altro, per esigenze sia di tipostrategico, militare e commerciale, sia di tipo antropologico e psicologic027, si con-centrò prevalentemente sulle principali direttrici di transito, finendo per trascu-rare alcuni contesti antropizzati che su tali direttrici non insistevano. In ogni modo, accanto ad attestazioni isolate di singole divinità, le quali com-

paiono per lo più come hapax epigrafici in situazioni contestuali poco significati-ve, si impongono ben note aggregazioni documentarie che rimandano inveceall’indubbia e prolungata presenza di luoghi di culto noti e condivisi. Se nel primocaso ci troviamo di fronte, infatti, a realtà prive di riscontri omogenei, non ricol-legabili a precisi ambiti etnici, tribali o santuariali, e perciò di difficilissima defi-nizione funzionale e sociologica, per i quali sarebbe assolutamente scorretto pre-sumere – come talora è stato fatt028 – la sussistenza di strutture fisse di culto; nelsecondo caso appare evidente la dimensione del santuario nella sua più compiutae pregnante valenza, almeno per quanto si riferisce alla misura della frequenta-zione e all’ampiezza della risonanza territoriale. Alcuni sono probabilmente cen-tri che potrebbero avere coagulato la devozione locale fin dall’epoca preromana,altri appartengono invece all’evoluzione di una fenomenologia cultuale più recen-te: d’altra parte, come è noto, le realtà santuariali pagane antiche presentanogenesi e caratteri diversi. Esistono luoghi di culto ove il collegamento con il feno-meno naturale è cogente e rapportabile a valenze terapeutiche o a manifestazionioracolari; santuari di montagna o di valico ove la funzione itineraria è prevalen-te; santuari ubicati in ambienti geografici chiusi, destinati a soddisfare abitudinicultuali da tempo consolidate, e santuari che esercitano soprattutto un costanteruolo di osmosi tra realtà culturali diverse e potenzialmente conciliabili. Tenendoconto, dunque, di tali parametri metodologici e facendo riferimento a quel che ladocumentazione epigrafica e archeologica consente di conoscere, l’area subalpinaromanizzata presenta appunto alcune concentrazioni cultuali, che è possibile gene-ricamente definire «santuariali», assai diverse fra loro per consistenza, organizza-zione, funzionalità e tipicità devozionale. Un caso da più tempo ipotizzato è quello di Diana, che presenta un gruppo di

testimonianze comprese nella zona fra Pollentia e Augusta Bagiennorum. La fre-

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27 Cfr. i contributi in GIORCELLI BERSANI (a cura di), Gli antichi e la montagna cit. 28 Cfr. ad esempio il caso relativo alle citazioni di Albiorix incise nei vasi votivi scoperti in località

Richardet di Sauze d’Oulx denunciato e illustrato da GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indiziario cit.,pp. 102-104.

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quenza di queste testimonianze in un ambito geografico circoscritto ha indotto apensare a un luogo di culto che in età romana avrebbe forse concentrato attornoa sé esperienze devozionali più antiche e fissate negli aspetti più strettamentelegati al rituale propiziatorio della fertilità della terra. D’altronde, l’uso dell’ag-gettivazione Augusta che accompagna più volte il nome della dea sottolinea lapiena collocazione di questo culto nell’ambito di una religiosità ufficiale di ispi-razione augustea. Il carattere variamente eterogeneo della spiritualità connessa aDiana e la base devozionale che attingeva nelle fasce sociali subalterne i propriadepti sono probabilmente all’origine della lunga durata del culto, che, in quantopaganesimo di rustici, giunse forse a coesistere con un cristianesimo di rustici atte-stato alla fine del IV secolo d.C.29.Diverso e più articolato e interessante il caso di Jupiter Poeninus, adorato sul

colle del Gran San Bernardo e attestato grazie a un’abbondante documentazione.Il culto è dedicato espressamente a Poeninus, nella metà almeno delle iscrizioni,ma pure a Summus Poeninus o Jupiter Optimus Maximus Poeninus 30. Di probabile

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29 CIL V, 7633 = Inscr.It. IX, 175; I.It. 176, 177, 178; CIL V, 7645 = I.It. 186; CIL V, 7493 =ILS 5401 = Suppl. It. VIII, Roma 1991, pp. 124-125, 1; in generale PASCAL, The Cults of Cisalpine cit.,pp. 144-150; S. RODA, Religiosità nell’Italia nord-occidentale attraverso le epigrafi cristiane nei secoli IV-VI, in Religiosità popolare nel cristianesimo antico, Atti del IX Incontro di studiosi dell’antichità cristia-na (Roma, 2-3 maggio 1980) = «Augustinianum» 21, 1981, pp. 243-257; ID., Stratificazione socialecit., pp. 301-313, in particolare pp. 312-313; S. RODA, G. FILORAMO, Religione popolare e imperoromano, in «Studi Storici» 24, 1982, pp. 101-118; GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indiziario cit.,pp. 112-117. Sulla persistenza del culto di Diana in area pedemontana celto-ligure anche in avanzataepoca cristiana cfr. le reprimende di MAX. TAUR., Sermo 107, 2 (CC, Ser. Lat. 23, p. 420), su cui D.DEVOTI, Massimo di Torino e il suo pubblico, in Religiosità popolare cit., pp. 153-167; F. BOLGIANI, Lapenetrazione del cristianesimo in Piemonte, in Atti del V Congresso nazionale di archeologia cristiana(Torino, Valle di Susa, Cuneo, Asti, Valle d’Aosta, Novara, 22-29 settembre 1979), Roma 1982, pp.31-77, in particolare pp. 48-52; R. LIZZI, Vescovi e strutture ecclesiastiche nella città tardo antica (l’Italiaannonaria nel IV-V sec. d.C.), Como 1989, pp. 195-199; S. GIORCELLI BERSANI, Augusta Bagiennorum eil Piemonte meridionale in età romana: un laboratorio di romanizzazione, in M. C. PREACCO (a cura di),Augusta Bagiennorum. Storia e archeologia di una città augustea, Torino 2013.30G. WALSER, Summus Poeninus. Beiträge zur Geschichte des Grossen St. Bernhard-Passes in römischer

Zeit, Historia Einzelschriften, 46, Wiesbaden 1984; ID., Via per Alpes Graias. Beiträge zur Geschichtedes Kleinen St. Bernhard-Passes in römischer Zeit, Historia Einzelschriften, 48, Wiesbaden 1986; F.WIBLÉ, La permanence des croyances religieuses indigènes pendant l’époque romaine, in A. GALLAY, G.KAENEL, F. WIBLÉ ET AL., Le Valais avant l’histoire, 14.000 av. J.-C. - 47 apr. J.-C., Catalogue de l’Ex-position, Musées Cantonaux du Valais, Sion 1986, pp. 158-160; A. M. CAVALLARO, P. FRAMARIN, Ilnuovo museo dell’Ospizio del Gran S. Bernardo. Problemi di riordino e proposta di fruizione di una raccoltaantiquaria in un piccolo museo del territorio, in «Epigraphica» 50, 1988, pp. 264-272; F. LANDUCCIGAT-TINONI, I Salassi e il culto di Jupiter Poeninus, in «Caesarodunum» 1991, pp. 127-136; F. CENERINI,Scritture di santuari extraurbani tra le Alpi e gli Appennini, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome -Antiquité» 104, 1992, pp. 91-107; G. WALSER, Studien zur Alpengeschichte in antiker Zeit, Stuttgart1994, in particolare pp. 101-104; GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indiziario cit., pp. 94-97, 100-102; S. RODA, Il colle del Sommo Pennino, in «Alp. Vita e avventura in montagna» 7, luglio 1994, pp.121-123; P. HUNT, Summus Poeninus on the Grand St. Bernard Pass, in «Journal of Roman Archaeo-logy» 11, 1998, pp. 265-274; F. WIBLÉ, Dieux et sanctuaires du Valais romain, in GIORCELLI BERSANI(a cura di), Gli antichi e la montagna cit., pp. 45-64; L. APPOLONIA, F. WIBLÉ, P. FRAMARIN (dir.), Unevoie à travers l’Europe: Alpis Poenina, Grand Saint-Bernard, Atti del Seminario conclusivo del progetto

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origine preceltica, Poeninus è certamente una divinità topica tutelare delle vette:rappresentava probabilmente la personificazione stessa della montagna, sullaquale era venerato già prima delle invasioni romane e il culto del quale forse eraancora praticato dalla residua popolazione indigena anche dopo la costruzione deltempio romano. In virtù di tali caratteristiche, la devozione a Poeninus rientranella fenomenologia, concettualizzata e variamente interpretata, dei culti natura-listici, manifestazione di un rituale di elevazione verso una divinità uranica supre-ma alla quale le cime dei monti sarebbero più vicine. Pur avendo indubbie origini indigene, connesse a una specifica situazione

corografico-ambientale, in epoca romana soltanto apparentemente il dio conservòi tratti teologici di «divinità montana»: in realtà, il dio venerato nel sacello delSan Bernardo manifestava chiaramente il carattere di culto totalmente romano,costruito (o meglio, riadattato) con precisi intenti politici in età augustea. Leragioni sono evidenti: nell’ambito di un progetto teso a recuperare le zone di fron-tiera liberandole dal controllo indigeno, a rendere accessibili e sicure strade epassi, a sottoporre gli scambi a un disciplinato regime fiscale, la trasformazionedel culto locale ratificò e suggellò anche sacralmente il controllo politico. Il pro-cesso di assimilazione, che normalmente investiva le divinità autoctone dopo laconquista e l’avvio della romanizzazione, agì anche nel caso di Poeninus: non pernulla il dio è attestato in associazione con Giove Ottimo Massimo. Più che di unavera assimilazione, si trattò in realtà di una traduzione in senso romano di unadivinità delle montagne preesistente, determinata in parte dal profondo radica-mento del culto nello spirito religioso locale – e dalla mancanza nel pantheon roma-no di una divinità equivalente –, ma in parte sollecitata anche da specifici inte-ressi contingenti. È stato, in effetti, correttamente osservat031 che la continuità dell’antico dio

epicorio con lo Jupiter romano è soltanto apparente, non essendo la massima divi-nità romana sostenuta da una comunità esistente in loco in grado di attuare unprocesso autonomo di interpretatio rispetto alla cultura egemone. In tale prospet-tiva, il culto di Poeninus, coerentemente collocato accanto a quello di Jupiter o a

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Interreg IIIA Italia-Svizzera 2000-2006 (Fort de Bard, Aoste, 11-12 aprile 2008) Aoste 2008; cfr. puregli esiti della tavola rotonda guidata da P. Hunt, il 4 novembre 2009, sul tema “Medieval Spolia in theGrand-St-Bernard: Continuing Sacrality from Jupiter Poeninus to Mont Joux to Bourg-St-Pierre”,presso l’UCLA Center for Medieval and Renaissance Studies = www.cmrs.ucla.edu/archive/events_091104_hunt, nonché http://traumwerk.stanford.edu/archaeolog/2006/01/sourcing_stone_provenancing_pe.html.31 CHIRASSI COLOMBO, Acculturazione e morfologia cit., p. 167; GIORCELLI BERSANI, Un paradigma

indiziario cit., pp. 96-98; sui meccanismi dell’interpretatio religiosa romana cfr. C. ANDO, «Interpreta-tio Romana», in «Classical Philology» 100, 2005, pp. 41-51, ripreso con aggiunte in L. DE BLOIS, P.FUNKE, J. HAHN (a cura di), The Impact of Imperial Rome on Religious Ritual and Religious Life in theRoman Empire, Proceedings of the fifth workshop of the international network “Impact of Empire(Roman Empire, 200 B.C. - A.D. 476)” (Münster, June 30 - July 4, 2004) Leiden 2005, pp. 51-65; C.ANDO, B. ASFAW, The Matter of the Gods: Religion of the Roman Empire, Berkeley, Los Angeles, Lon-don 2008, in particolare pp. 43-63; F. SINI, Peregrina sacra, evocatio, interpretatio Romana, in «Dirittoe Storia» 10, 2011-2012 = http://www.dirittoestoria.it/10/D&Innovazione/Sini-Peregrina-sacra-evo-catio-interpretatio-Romana.htm. All’interpretatio religiosa sono dedicati ora numerosissimi contributiin una sezione monografica della rivista «Mediterraneo Antico: economie, società, culture» 15, 2012.

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epiclesi del medesimo, denuncia una forte volontà di assimilazione di un cultolocale al massimo dio del pantheon tradizionale romano, esprimendone una sfu-matura, quella di protettore delle montagne, che coincide con le scelte politichedell’imperatore: il culto al passo è un «culto di stato» romano, che suggella l’esi-stenza di un confine finalmente aperto. La rilevanza del percorso, soprattutto inchiave politico-militare, e la forte monumentalità del sito, oltre alla specificità deiculti ivi praticati, rivelano l’interesse imperiale di presidiare il tracciato e tradi-scono l’intenzione – in chiave decisamente propagandistica – di controllare un’a-rea nodale, sia in relazione alla storia locale, sia nei confronti delle comunicazio-ni tracciate fra Nord e Sud d’Europa.Un processo analogo, diffuso su tutto il territorio alpino ma con una singolare

concentrazione (forse parasantuariale) in ambito segusino, investì pure l’anticoculto celtico delle Matres/Matronae 32. Jupiter Poeninus e le Matronae denunciano evi-dentemente un processo di sincretismo religioso sulla cui formazione dovette averequalche incidenza la realtà degli ambienti di montagna, geograficamente chiusi econcettualmente avulsi da un sistema sociale collettivamente inteso, ma cultural-mente non lontani dai luoghi d’irradiazione della cultura ellenistico-romana, esoprattutto strategicamente ed economicamente fondamentali: culti di sostrato,come quello delle Matronae o di Poeninus, non sembrano del resto protrarsi in etàromana in virtù di un meccanico procedimento d’interpretatio, ma possono essereutilizzati come nuovi culti; così, è verosimile che genti italiche, presenti in manie-ra considerevole nelle aree cisalpine da poco romanizzate, abbiano costituito il tra-mite attraverso il quale si avviarono forme e modalità varie di assimilazione fra iculti delle divinità di area centro-meridionale italica con quelli delle divinità cel-tiche o preceltiche venerate nell’Italia settentrionale e in particolare in area alpi-na e subalpina. Su un ben diverso piano di ufficialità religiosa romana sovrapposta a identità

cultuali omologhe indigene si pongono la sensibile concentrazione di attestazionidedicate alla Vittoria nel distretto delle Alpi Marittime, e il presunto o presumi-bile tempio a essa consacrato nella zona pollentina, mentre del tutto anomalo nelpanorama cultuale dell’intera Cisalpina si configura il complesso isiaco di Industria,che costituisce, all’ampia evidenza archeologica, un caso unico di «città-santuario»,incentrata su un’area sacra dedicata a divinità di ascendenza egizia, la cui conti-nuità si colloca all’interno di un arco cronologico che va dalla prima età imperialefino al IV secolo. La datazione accertata all’età augusteo-tiberiana del primo nucleo

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32 O. MANINI CALDERINI, I Celti e le «Dee Matronae» nel Novarese e nel Biellese, in «BollettinoStorico per la Provincia di Novara» 63, 1972, pp. 47-65; F. LANDUCCI GATTINONI, Un culto celticonella Gallia Cisalpina. Le Matronae-Iunones a sud delle Alpi, Milano 1986; GIORCELLI BERSANI, Un para-digma indiziario cit., pp. 73-79, 81-87; A. G. GARMAN, The Cult of the Matronae in the RomanRhineland: An Historical Evaluation of the Archaeological Evidence, Lewinston NY 2008; S. A. TAKACS,Vestals Virgins, Sibyls, and Matrons. Women in Roman Religion, Austin 2008; L. LASTRICO, G. MEN-NELLA, Le Matronae Iunones nell’Italia settentrionale: anatomia delle dediche, in R. HAUSSLER, A. C.KING (a cura di), Continuity and Innovation in Religion in the Roman West, vol. 2, Porthsmouth 2008,pp. 119-130; C. TOMMASI, Matres/matronae, in The Encyclopedia of Ancient History, 26 ottobre 2012= http://onlinelibrary.wiley.com-/doi/10.1002/9781444338386.wbeah17262/full.

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di edifici sacri rimanda a una precoce introduzione del culto di Iside a Industria,che alcuni studiosi collegano alla presenza e all’attività di alcune famiglie, la cuidevozione alla dea egizia era nota. La prosopografia industriense evidenzia infatti,all’interno della comunità, il ruolo primario esercitato dai membri di alcune fami-glie (Avillii e Lollii, mercanti di origine italica forse dediti all’importazione dischiavi) che conobbero un momento di decisiva affermazione in età augustea. Nelsantuario si praticava il culto alle principali divinità della cerchia isiaca: tali prati-che di devozione, nonostante la forza d’impatto esercitata dalle strutture templarimonumentali, convivevano con una devozione collettiva che continuava a indiriz-zarsi verso le divinità tradizionali, ben attestate nell’epigrafia cittadina, per lo piùcoeva al momento della ristrutturazione monumentale dell’area sacra e che, signi-ficativamente, ignora la cultualità isiaca. Una simile situazione si può spiegare siain relazione all’artificioso impianto di tale culto in un contesto non preparato adaccoglierlo collettivamente, sia in relazione al persistere del rapporto privilegiatofra pochi clan familiari dirigenti ivi insediati e le consuetudini devozionali a essocollegate. Si può pensare, in altri termini, che se per un verso il culto isiaco, purnon smarrendo mai del tutto il proprio carattere egizio, andò componendosi armo-niosamente e sincretisticamente con le devozioni a Serapide (creazione greco-egi-zia di età ellenistica), ad Ammone (la cui immagine ebbe ampio spazio nel reper-torio iconografico altoimperiale in forza del collegamento con Giove) e a Mitra –in forme forse più confacenti alla sensibilità greco-romana del II secolo e in inten-so trend proselitistico, specie in ambito militare –, per l’altro esso rimase comun-que appannaggio di settori limitati della società industriense, nelle caratteristichedi una sorta di culto «privato» o comunque elitario, anche nel passaggio dalla devo-zione monopolistica gentilizia su ricordata a quella altrettanto esclusiva dell’asso-ciazionismo dei pastophori, cioè del collegio sacerdotale dei ministri del culto delledivinità egizie attestato da un’iscrizione su tavoletta bronzea33.Tutto considerato, di più suggestivo interesse storico appare il sito novarese di

Suno, fra Terdoppio e Agogna, ubicato in posizione baricentrica ai territori gra-vitanti fra Ticino e Sesia, ove cospicui ritrovamenti epigrafici hanno fatto pensa-re alla possibile esistenza di santuari o recinti sacri dedicati a più divinità delpantheon roman034: sono infatti attestate numerose dediche a Giove Ottimo

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33 CIL V, 7468 = ILS 6745; cfr. ZORAT, La gens Lollia cit., pp. 55-63; CRESCI MARRONE, GensAvil(l)ia e commercio cit., pp. 33-37; EAD., Famiglie isiache cit., pp. 41-51; CRESCI MARRONE, MEN-NELLA, ZANDA, Regio IX, Liguria. Industria cit., pp. 31-63; ZANDA, L’area sacra di Industria cit., pp.241-250; MERCANDO, ZANDA, Bronzi da Industria cit.; ZANDA, Il santuario isiaco di Industria cit., pp.352-357; GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indiziario cit., pp. 118-125; ZANDA, Industria. Città romanacit.; CIL V 7468 = ILS 6745.34 MENNELLA, Il santuario rurale di Suno cit., pp. 97-116; ID., Il lapidario novarese: un’epigrafia sulle

pietre «povere», in D. BIANCOLINI, L. PEJRANI BARICCO, G. SPAGNUOLO GARZOLI (a cura di), Epigrafi aNovara. Il Lapidario della Canonica di Santa Maria, Torino 1999, pp. 149-232, in particolare Appendice I: Imonumenti epigrafici del Broletto, pp. 205-213, iscrizioni nn. 1-12, 18; GIORCELLI BERSANI, Un paradigmaindiziario cit., pp. 85, 118; S. BOCCIONI, Fortune in Cisalpina, in «ACME. Annali della Facoltà di Letteree Filosofia dell’Università degli Studi di Milano» 59, 2, 2006, pp. 71-92; G. MENNELLA, Culti e divinitàfra eredità celtica e innovazione romana in area ligure-piemontese, in R. C. DEMARINIS, G. SPADEA (a curadi), Ancora su I Liguri. Un antico popolo europeo tra Alpi e Mediterraneo, Genova 2007, pp. 195-198.

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Massim035, alla Vittoria36, a Ercole37, a Mercuri038, alle Matrone39. Le ragioni ditale singolare concentrazione di testimonianze cultuali sono da mettere in rela-zione a più fattori: l’area dell’alto Novarese presenta un tipo di insediamento pernuclei sparsi che, pur essendo caratteristico del popolamento celtico, prosegue lar-gamente anche nell’età romana. Poche strutture insediative possono qualificarsiquali centri rustici, rari appaiono i documenti archeologici di natura abitativa,assenti gli impianti architettonici di un certo respiro, mentre le numerose aggre-gazioni abitative, vicanico-pagane, denunciano una frammentazione del tessutorurale che sembra strettamente legata a una piccola economia di sussistenza. Sitratta di una dimensione insediativa non depressa, ma ancora legata alla tradizio-ne epicoria, che potrebbe aver condizionato anche le espressioni cultuali, sia neitermini di una sopravvivenza di culti indigeni assorbiti nel pantheon romano o dispecifiche divinità ancor prive di interpretatio, sia nel persistere di fenomeni didevozione in aree santuariali che avrebbero, più o meno consapevolmente, eser-citato un ruolo di osmosi tra realtà etniche, politiche e culturali diverse. In que-sta prospettiva, può non essere un caso che – accanto ai culti «ufficiali» politico-ideologici della romanità come Jupiter Optimus Maximus e la Victoria Augusta – letre più attestate divinità del Novarese siano Mercurio, Ercole e le Matrone, con-siderate in genere quelle maggiormente rappresentative del sostrato celtico. E nonè un caso che le divinità citate continuino anche in età romana a tutelare i luoghidi passaggio e gli empori: le preoccupazioni per la buona riuscita di un viaggio odi una transazione commerciale rimangono in qualche misura costanti e costitui-scono un elemento trasversale facilmente assimilabile nell’ambito devozionale di

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35 CIL V, 6572 add., p. 1087.36 CIL V, 6579 add., pp. 1087, 8932. Cfr. S. RODA, Una nuova arula alla Vittoria e altre epigrafi e

frammenti inediti del museo «F. Eusebio» di Alba, in «Bollettino Storico-bibliografico Subalpino» 78,1980, pp. 571-592; J. R. FEARS, The Theology of Victory at Rome: Approaches and Problems, ANRW, II,17.1, Berlin, New York 1981, pp. 3-14; G. MENNELLA, Le «are con figura teomorfa sospesa» tra Pedonae Segusium: proposte per una definizione tipologica, in Caraglio e l’arco alpino occidentale tra antichità emedioevo, Atti del Centro Studi Cultura e Territorio, Caraglio 1989, vol. I, pp. 23-34; ID., Dalla DeaVictoria alla Victoria Augusti (la metamorfosi di un’iscrizione piemontese), in M. PANI (a cura di), Epigra-fia e territorio, politica e società: temi di antichità romane, Bari 1994, vol. III, pp. 189-200; ID., Itineraridi culto nel Piemonte romano, in Archeologia in Piemonte, II: L’età romana, a cura di L. MERCANDO,Torino 1998, pp. 167-179; GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indiziario cit., pp. 55-65, 86, 112-118.37 CIL V, 6581 add., pp. 1087, 8930, 8931. Cfr. R. CHEVALLIER, Un aspect de la personalité de

l’Hercule alpin, in Atti del Convegno internazionale sulla comunita alpina nell’antichità (Gargnano delGarda, 19-25 maggio 1974), Atti CeSDIR, VII, Milano 1975-1976, pp. 137-155; M. JACZYNOWSKA,Le culte de l’Hercule romain au temps du Haut-Empire, ANRW, II, 17.2, Berlin, New York 1981, pp.631-661; C. JOURDAIN-ANNEQUIN, Héraclès en Occident. Mythe et histoire, in «Dialogues d’HistoireAncienne» 8, 1982, pp. 227-282; GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indiziario cit., pp. 86-87, 95-100.38 CIL V, 6576 add., p. 1087; 6578 add., p. 1087. Cfr. B. COMBET FARNOUX, Mercure romain. Le

culte public de Mercure et la fonction mercantile à Rome de la Republique archaïque à l’époque augustéenne,Rome 1980; P. CONTI, Per una localizzazione del culto di Mercurio nella Regio XI, in «Bollettino Sto-rico per la Provincia di Novara» 85, 1994, pp. 97-224; GIORCELLI BERSANI, Un paradigma indiziariocit., pp. 55, 78, 83-87, 111.39 CIL V, 6575 add., p. 1087. Si veda sopra, nota 32. Di incerta attribuzione alle Matrone o a Mer-

curio è inoltre CIL V, 6574.

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una nuova religione. Siamo dunque in presenza di un’articolazione santuarialecomplessa, che suggerisce la persistenza, in un’area dell’impero di Roma periferi-ca ma attiva e vitale, di un profilo cultuale antico preromano che coesiste in armo-nia con la nuova dimensione della romanità. In questo senso, il santuario polisemico di Suno fissa nell’immagine documen-

taria un fotogramma appena successivo a quello che sembra emergere dalla recen-temente attestata40 esistenza, in area vercellese, di un impianto cultuale condivi-so da Romani e indigeni, le cui caratteristiche rimandano plausibilmente a unrecinto sacro del tipo celtico dei Viereckschanzen 41, un luogo privilegiato di unavita civica fondata su una doppia interazione che da una parte associava gli uomi-ni alle divinità e dall’altra legava gli uomini tra loro, forse un antico luogo di cultoindigeno ma in via di romanizzazione, uno spazio di aggregazione per le due com-ponenti della società vercellese, e contestualmente di confronto culturale, even-tualmente (ma non necessariamente) deputato ad accogliere edifici con una dop-pia destinazione religiosa e civile. In quel sito l’evidenza epigrafica, risalente apartire da un’epoca collocabile attorno all’89 a.C., mostra il momento topico dellacondivisione di uno spazio sacro sollecitata dai colonizzatori romani e significati-vamente voluta dall’élite locale. È il momento in cui Romani e indigeni scelgonodi portare a compimento il processo di integrazione condividendo il medesimoluogo di culto; intorno a uno spazio santuariale si rende possibile l’unione di dueentità etniche ancora indipendenti, ma avviate all’omologazione, che trovano unaprima fondamentale coesione nel comune esercizio della pratica religiosa. Quellospazio da religioso si trasforma in politico, le valenze cultuali si compongono e sfu-mano nelle valenze istituzionali, culturali e comunitarie; all’interno di quell’areasacra offerta a entrambi i popoli, senza distinzione fra conquistato e conquistato-re, si forma e si organizza la coscienza di appartenere allo stesso ethnos; il pro-cesso morbido dell’assimilazione romana procede attraverso lo strumento del san-tuario condiviso, nucleo fondamentale in cui si recita, si apprezza e si ribadiscel’autorappresentazione della comunità, presto non più bina ma una nell’identità enel comune sentire. La recente, straordinaria documentazione del sito santuaria-le vercellese illustra, probabilmente per la prima volta in maniera così evidente, il

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40 GIORCELLI BERSANI, Il laboratorio dell’integrazione cit.; cfr. EAD., Ai confini di due culture cit.,pp. 97-107; e i numerosi contributi compresi in G. BEJOR, E. PANERO (a cura di), Terre di frontiera.Uomini e scambi nella periferia dell’impero, Atti della Giornata di studi (La Morra, Cuneo, 17 novem-bre 2007), Quaderni del centro internazionale di ricerca sui beni culturali, 3, La Morra (Cn) 2008.41 K. BITTEL, S. SCHIEK, D. R. MÜLLER, Die keltischen Viereckschanzen. Atlas archäologischer

Geländedenkmäler in Baden-Württemberg, 2 voll., Stuttgart 1990; G. WIELAND, Keltische Viereck-schanzen. Einem Ratsel auf der Spur, Stuttgart 1999; GIORCELLI BERSANI, Il laboratorio dell’integrazionecit., pp. 70-84; S. JANSON, Keltische Viereckschanzen, Vorgeschichtliche Kult- und Opferplätze? Argu-mente Pro und Contra, München 2000; G. WIELAND, K. SCHWARZ, Die Ausgrabung in der Viereck-schanze 2 von Holzhausen, Leidorf 2005; P. NEUMANN-EISELE (a cura di), Viereckschanzen - rätselhafteBauwerke der Kelten (Stand der Viereckschanzenforschung in Bayern und Baden-Württemberg, Kol-loquium Kelheim, in Zusammenarbeit mit dem Bayerischen Landesamt für Denkmalpflege), Kelheim2005; K. SCHWARZ, Atlas der spätkeltischen Viereckschanzen Bayerns - Textband, München 2007; R.AMBS, Die keltische Viereckschanze bei Beuren, Marktgem. Pfaffenhofen a. d. Roth, Lkrs. Neu-Ulm,Bayern, Berichte zur Archäologie im Landkreis Neu-Ulm, 4, Neu-Ulm 2011.

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processo di integrazione romano-indigeno nella fase dinamica del suo concretodispiegarsi. Per la prima volta probabilmente osserviamo nella realtà del vissutoquotidiano manifestarsi, per dirla alla maniera di Pierre Bourdieu, «un nuovomodo di dominazione, che sostituisce la seduzione alla repressione, le relazionipubbliche alla forza, la pubblicità all’autorità e ottiene l’integrazione delle classidominate più imponendo bisogni che inculcando norme»42. Vi è certo una coe-rente e corretta connotazione negativa nelle parole del grande sociologo scompar-so poco più di dieci anni or sono, e una connotazione negativa merita certamen-te, sul piano etico più che politico, ogni tipologia di conquista, anche se soft esostanzialmente vantaggiosa negli esiti materiali della garanzia di una qualità divita pubblica e privata migliore di quella precedente: il che, come è risaputo,avvenne per lo più nel caso della romanizzazione tanto verso Occidente (ove ilmodello di Roma si impose per le sue caratteristiche progressive rispetto ai gradidi civiltà dei popoli conquistati), quanto verso Oriente (ove il meccanismo roma-no dell’autonomia cittadina e della pur imperfetta «democrazia» della civitasaumentò il tasso di opportunità di affermazione e di successo individuale a piùlivelli rispetto agli standard sociopolitici assicurati dai regni ellenistici postales-sandrini, sia per le classi dirigenti sia per i cittadini comuni). Uno dei terreni privilegiati, su cui la conquista si perfezionò nell’omogeneiz-

zazione religioso-politica-culturale e nella costruzione di identità condivise, fuappunto il terreno di una sacralità laica e religiosa, politica e ideologica a untempo. Lo strumento santuariale, nella sua declinazione polifunzionale, multireli-giosa e politico-religiosa, si piegò in questo caso a una funzionalità comunque posi-tiva in quanto luogo di riconoscimento reciproco e di comunanza, zona di inter-scambio e di partecipazione, polo di aggregazione e di pacificazione, motore disuperamento delle piccole identità locali verso una sovraordinata identità mul-tietnica e multiculturale. Una modalità che, a distanza di più di due millenni, sembra riprodursi – pur

nella diversità degli scopi contingenti o secondari – nelle «stanze del silenzio»,vale a dire negli spazi interreligiosi aperti ai seguaci di tutte le confessioni reli-giose inaugurati ad esempio (per citare un caso italiano) nell’aprile 2009 – sullafalsariga di analoghe iniziative già da anni presenti in paesi come l’Inghilterra odegli spazi collocati presso le sedi delle organizzazioni internazionali – alleMolinette di Torino43, primo tra i grandi ospedali pubblici italiani a dotarsi di un

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42 P. BOURDIEU, La Distinction. Critique sociale du jugement, Paris 1979 (trad. it. La distinzione. Cri-tica sociale del gusto, Bologna 1983), pp. 158-159. Cfr. G. PATELLA, Estetica culturale: oltre il multicul-turalismo, Roma 2005, pp. 118-119; A. DE SIMONE, Viandanti di Cosmopolis. Tra società del riconosci-mento e società postdeontica: percorsi dell’universalismo, in L. TUNDO FERENTE (a cura di),Cosmopolitismo contemporaneo: moralità, politica, economia, Perugia 2009; G. PAOLUCCI, Pierre Bour-dieu. Strutturalismo costruttivista e sguardo relazionale, in M. GHISLENI, W. PRIVITERA (a cura di), Socio-logie Contemporanee. Bauman, Beck, Bourdieu, Giddens, Touraine, Torino 2009, pp. 77-115; EAD. (acura di), Bourdieu dopo Bourdieu, Torino 2010.43 Cfr. ad es. V. SCHIAVAZZI, Molinette, uno spazio dove pregare e raccogliersi senza distinzione di

credo, in «la Repubblica», 2 aprile 2009 = http://torino.repubblica.it/dettaglio/molinette-uno-spazio-dove-pregare-e-raccogliersi-senza-distinzione-di-credo/1612765.

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luogo per raccogliersi, meditare, pregare e convivere meglio, senza separazione fracredenze e senza simboli identificanti ma differenzianti. Dietro una scelta di que-sto tipo appare evidente l’esigenza – indotta e imposta dalla globalizzazione e dal-l’intensificarsi dei flussi migratori – dell’integrazione interetnica, di cui l’aspettoreligioso è parte fondamentale. Sulla stessa linea si pongono fenomeni di analogamatrice, come ad esempio la richiesta da parte islamica di poter celebrare funzio-ni religiose musulmane nella Mezquita di Cordoba, l’antica grandiosa moscheaconvertita in cattedrale di Santa Maria nel 1236 dopo la reconquista, con le rela-tive polemiche seguite al rifiuto della chiesa cattolica e i reiterati tentativi, che sisusseguono da diversi anni a questa parte, di alcuni gruppi islamici di opporsi e diignorare tale diviet044. Altrettanto significativo il dibattito acceso in Belgio sul-l’opportunità di utilizzare gli spazi di insegnamento religioso nella scuola comeluoghi e momenti di educazione interconfessionale, dal momento che «la globa-lizzazione esige che l’educazione risponda alle sfide inerenti alla crescita delladiversità culturale e religiosa in modo da formare dei cittadini che siano capaci divivere insieme pacificamente»45. La ricerca del consenso attorno alle linee di indirizzo politico-sociale degli stati

e, soprattutto, la salvaguardia della concordia politica, sociale e religiosa nellesocietà globalizzate, multietniche e multiculturali, accomuna il mondo occidenta-le contemporaneo con il mondo della repubblica imperiale romana, uno dei pochialtri esempi che la storia ci offre di comunità globale obbligata al pluralismo etni-co e confessionale: di qui le prospettive comuni, seppur coniugate in forme ete-rogenee e spesso faticosamente proposte e accreditate, di uno sfruttamento «vir-tuoso» di quel tipo di leva religiosa che tenta di comporre le differenze attraver-so la comunanza e la compartecipazione ai riti, o quanto meno attraverso la con-divisione degli spazi di devozione.

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44 B. SILLS, Cathedrals may see return of Muslims, in «The Guardian», 19 aprile 2004; D. FUCHS,Pope asked to let Muslims pray in cathedral, in «The Guardian», 28 dicembre 2006; G. KEELEY, Muslimsarrested for trying to pray in Córdoba’s former Great Mosque, in «The Times», 3 aprile 2010; cfr. pure D.FAIRCHILD RUGGLES, The Stratigraphy of Forgetting: The Great Mosque of Córdoba and Its ContestedLegacy, in H. SILVERMAN (a cura di), Contested Cultural Heritage, New York 2011, pp. 51-67.45 J.-P. VERNANT, Enseigner le «fait religieux », oui… mais par qui?, in «Science et Vie» 1033,

octobre 2003, p. 45; M. MILOT, The Religious Dimension in Intercultural Education, in J. KEAST (a curadi), Religious Diversity and Intercultural Education: a Reference Book for Schools, Strasbourg 2007, p. 19;H. DERROITTE, A. JOIN-LAMBERT (a cura di), Enseignement de la religion et expérience spirituelle,Bruxelles 2007, pp. 63-84 (cfr. http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/allegati/10338/Derroit.pdf); ID., Donner cours de religion catholique. Comprendre le «Programme» du secondaire, Louvain-la-Neuve 2009.

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VIII

Strategie imperiali*

Quante vittime ci sono state? Tremila all’incirca? In termini storici è relativamente insi-gnificante. Dunque, tanto per fare un esempio che riguarda gli Stati Uniti, sono mortecinquantamila persone nella battaglia di Gettysburg. Per contro, ciò che è significativo,come direbbero i miei vecchi professori dell’Università, è che il cuore dell’impero è statotoccato. In occasione dei conflitti precedenti, la Corea, il Vietnam, la guerra del Golfo,l’impero era sempre riuscito ad arginare i barbari, ben di là dai suoi confini, dalle sue fron-tiere. Ne consegue, in questo senso, che ci si ricorderà forse, e sottolineo forse, dell’11settembre 2001 come del giorno in cui ebbero inizio le grandi invasioni barbariche.

Così, in un brano apparentemente accessorio ma in realtà decisivo nell’im-pianto tematico del film Les Invasions barbares (premio Oscar come miglior film inlingua straniera nel 2004), del regista canadese Denys Arcand1, un commentato-re televisivo chiosa le immagini sconvolgenti dell’attacco alle Twin Towers.Arcand – che già diciassette anni prima, in Le Déclin de l’empire américain, avevacon intelligenza delineato alcuni tratti della debolezza ideologico-comportamenta-le e dell’affaticamento «strutturale» del sistema socioculturale degli USA, marcan-do non a caso il titolo del suo film di palesi echi gibboniani2 – sembra dunque sug-gerire un ideale confronto tra l’impero americano, colpito al cuore dal terrorismoislamico, e l’antico impero di Roma: in entrambi i casi, le prime invasioni barba-riche che violano i confini ritenuti intangibili per convinzione diffusa e indiscus-sa annunciano l’inizio di un’irreversibile decadenza. Il trauma dell’11 settembre

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* Il testo di questo capitolo è il risultato della somma di alcune considerazioni e analisi presenti inS. RODA, Strategie imperiali, in M. PANI (a cura di), Storia antica e storia moderna. Fasi in prospettiva,Atti dell’Incontro di studi (Bari, 8 aprile 2003), Roma, Bari, 2004, pp. 1-18, con altre tratte da ID., Ilproblema della rilegittimazione degli iperpoteri in crisi: il caso dell’impero tardoantico, relazione presentataal Convegno internazionale di studi, a cura di M. Ciliberto e P. Desideri, “Scrittori antichi e imperimoderni – Ancient Writers and Modern Empires” (Firenze, 9-11 ottobre 2008), i cui atti non sonostati pubblicati; nonché da due interventi di alcuni anni prima sul tema Il concetto di impero tra mondoantico e mondo contemporaneo, presentati rispettivamente all’Università di Udine (2005) e al TeatroCivico di Tortona (2006).1 D. ARCAND, Les Invasions barbares (sceneggiatura), Montréal 2003; cfr. in generale R. LA

ROCHELLE, Denys Arcand. L’ange exterminateur, Montréal 2004.2D. ARCAND, Le Déclin de l’empire américain (sceneggiatura), Le Chesnay 1987; cfr. A. LOISELLE, Denys

Arcand’s Le Déclin de l’empire américain and Les Invasions Barbares, Toronto, Buffalo, London 2008.

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sarebbe in questo senso simile, nei suoi effetti psicologici e politici, al trauma chel’impero romano subì con le invasioni marcomanniche e quadiche dell’età diMarco Aurelio, quando il limes renano-danubiano – ritenuto baluardo sicuro insenso materiale e ideologico, limite fra lo stato romano e le genti germanico-slave,ma anche frontiera fra la civiltà e la barbarie, linea di separazione invalicabile frail mondo della civilizzazione e il mondo dell’incultura semibelluina – fu inopina-tamente infranto, e da allora in poi nulla sarebbe più stato come prima: l’insicu-rezza avrebbe contagiato la psicologia delle masse; il crollo della fiducia nell’eter-nità di Roma avrebbe provocato un senso diffuso d’angoscia, tradottosi spessonell’adesione a religioni e credenze de facto alternative rispetto alla cultualità uffi-ciale e all’ordine costituito romano; le necessità della difesa avrebbero aumentatoenormemente le spese militari, con pesantissime conseguenze sull’economia com-plessiva dell’impero; l’indispensabilità dell’esercito ne avrebbe accresciuto in parimisura il potere contrattuale fino a farne la principale forza condizionante dellapolitica, vero e proprio arbitro e artefice delle successioni imperiali; l’imperoavrebbe rischiato la definitiva disgregazione, che soltanto la svolta autoritaria diDiocleziano e l’alleanza con la chiesa conclusa da Costantino avrebbero ritardato,in Occidente, ancora di un paio di secoli. Nella visione non soltanto di artisti, cineasti e letterati, ma di molti intellet-

tuali, scienziati della politica, filosofi della storia o politici tout court, l’11 set-tembre avrebbe potuto dare avvio, per gli Stati Uniti e per il mondo occidentale,a un processo in tutto simile a quello che portò l’impero romano alla crisi e alladecadenza definitiva. Michael Ignatieff, anch’egli canadese, noto politologo euomo politico (fino al 2011 leader del Liberal Party of Canada), commentatoredella televisione inglese, docente al King’s College di Cambridge e all’HarvardKennedy School, intellettuale poliedrico, così esordisce nell’Introduzione a un suofortunato saggio del 20033: «viviamo in un mondo che non ha precedenti storicise non nel tardo impero romano» e prosegue:

Non si tratta soltanto del dominio militare esercitato sul mondo da un’unica potenza, eneanche della fenomenale portata di tale potere [...]. Non si tratta nemmeno di una sem-plice ostentazione di fermezza [...]. Il nuovo impero non è come quelli dei tempi passati,fondati sulle colonie e sulla conquista. È un impero «light», leggero, un’egemonia senzacolonie, una sfera d’influenza globale senza il fardello dell’amministrazione diretta e irischi della sorveglianza quotidiana. [...] Se l’America è la nuova Roma, se l’impero lightè la nuova immagine di impero, sussiste un parallelo anche più inquietante con l’anti-chità: la schiacciante superiorità militare non è sinonimo di sicurezza. Gli Stati Unitihanno appena provato il fremito di terrore che il mondo antico deve aver conosciutoquando Roma fu saccheggiata per la prima volta. [...] L’impero più spensierato della sto-ria si trova oggi di fronte allo spiacevole dubbio riguardo alla possibilità di sottrarsi aldestino ultimo di Roma. All’inizio del primo volume di Declino e caduta dell’Imperoromano, pubblicato nel 1776, Edward Gibbon osservava che [...] i fieri Romani si abban-donarono al fatale errore di «confondere la monarchia romana con il globo terrestre».

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3 M. IGNATIEFF, Empire Lite. Nation-Building in Bosnia, Kosovo and Afghanistan, London 2003(trad. it. Impero Light. Dalla periferia al centro del nuovo ordine mondiale, Roma 2003, pp. 11-36). Latraduzione dei passi riportati è di F. PAGANO.

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Questa illusione tipica del potere imperiale, in cui sarebbero ricaduti a loro volta anchegli imperialisti britannici, induce nell’errore di confondere il potere globale con l’ege-monia globale. Gli statunitensi avranno pure il primo, ma non posseggono la seconda, ilche vale a dire che non possono controllare con certezza gli esiti di tutto il mondo, equanto più ci provano, tanto più si espongono agli stessi rischi.

L’illusione del potere imperiale, dunque, quella che porta erroneamente a«confondere», come afferma Ignatieff, «il potere globale con l’egemonia globale»,si sostanzia dell’intima convinzione – per lo più in buona fede, almeno a livellodi massa – di essere fruitori e diffusori di un modello di vita (oltre che di stato)insuperato e insuperabile, di valersi di un livello di civiltà superiore, di avere pro-dotto un sistema statale e sociale difficilmente migliorabile. Di qui l’ulteriore con-vincimento di essere legittimati a esportare tali modelli di vita, di società, di statoe di civiltà, e di compiere un’azione comunque positiva, seppure in prospettivacronologica più o meno lunga, anche nell’imporli a popoli che ancora non ne godo-no per loro deficit di crescita, di sviluppo, di cultura e di preparazione. Ogni azio-ne imperialista e colonialista, dalle più brutali alle meno violente, sia che si con-cretizzi come reazione a reali o presunte aggressioni esterne cui dare doverosarisposta (la «guerra giusta»), sia che si manifesti secondo un preciso e patente pro-getto espansionista, pretende di giustificarsi in funzione di un proponimentocostruttivo e fondamentalmente generoso di diffusione della civiltà, di redenzio-ne dei popoli dalla barbarie, di cooptazione di nuove genti all’interno del miglio-re e meglio governato dei mondi possibile.Tale tendenza, che ha accomunato nel tempo imperi «pesanti» e «leggeri», ha

avuto nell’impero romano – come confermano anche le testimonianze del film diArcand e del saggio di Ignatieff, distinte nella loro diversa motivazione culturalema convergenti nella sostanza – un solido e necessario punto di riferimento, inpositivo o in negativo: la circostanza di un impero «mondiale», multietnico e mul-tinazionale, il cui successo politico si estese per secoli godendo di un consensointerno, se non unanime, ampiamente e saldamente diffuso, e subendo modestepressioni o pericoli esterni, non poteva non costituire, per un verso, un esempioper tutti coloro che in epoche diverse hanno inteso riprodurre i fasti di un domi-nio tendenzialmente universale, e, per l’altro, imporsi come modello da respinge-re per chi invece rivendica i princìpi di libertà e di autodeterminazione e il dirit-to di tutti i popoli a un autonomo sviluppo.Il mondo romano e l’impero di Roma come modello politico, sociale e cultu-

rale da imitare o da ripudiare secondo determinate categorie pragmatiche o eticheappartengono alla riflessione costante di intellettuali e politici, almeno da GiustoLipsio fino ai giorni nostri4. Tale comparazione ha trovato però, nel tempo, diver-

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STRATEGIE IMPERIALI

4 Cfr. in generale P. DESIDERI, La romanizzazione dell’impero, in Storia di Roma, II, 2: I principi eil mondo, Torino 1991, pp. 577-626; S. RODA, Il modello della repubblica imperiale romana fra mondoantico e mondo moderno. «Fecisti patriam diversis gentibus unam», Bologna 2011. Sugli imperialismi anti-chi in generale cfr. P.-D. GARNSEY, C. R. WHITTAKER (a cura di), Imperialism in the Ancient World,Cambridge 1878; M. I. FINLEY, Empire in the Greco-Roman World, in «Greece & Rome» 25, 1978,pp. 1-15; P. A. BRUNT, Roman Imperial Themes, Oxford 1990; E. GABBA, Aspetti culturali dell’impe-

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si momenti topici di diffusione e intensità: il primo si colloca – come ha ampia-mente dimostrato ad esempio D. A. Lupher – al tempo della conquista spagnoladel Nuovo Mondo, allorché il miraggio deduttivo dell’impero romano fu baseideologica, ma anche termine di contraddizione delle imprese coloniali ispanichein terra d’America5. Lo stesso miraggio imperiale, corroborato da componenti messianico-dinasti-

che, si ripropone nello stesso torno di tempo in Francia, prolungandosi fino all’al-ba del XVIII secolo, da Carlo VI a Luigi XV, sullo sfondo di un’Europa tesa a por-tare a compimento gli obiettivi ultimi a cui aspirava la cristianità dopo il IX seco-lo: l’unità religiosa e politica del mondo attraverso l’instaurazione di una monar-chia universale, la vittoria sull’Islam e la costituzione sulla terra di un’età dell’o-ro e della prosperità che sarebbe durata fino alla fine dei tempi; un compito esca-tologico e di biblico rilievo, che soltanto i cristianissimi 6 re di Francia, in quantostrumenti privilegiati della Provvidenza, avrebbero potuto portare a termine, per-fezionando quella missione di incivilimento, di annientamento della barbarie e dicristianizzazione per la quale l’impero romano aveva posto le basi, che l’imperocarolingio aveva avviato e che la nazione francese, dalla Renaissance al GrandSiècle – assumendo la guida della cristianità e del rinnovato impero mondiale –avrebbe condotto a definitivo compimento7.Ben più presente all’attenzione degli studiosi appare il parallelo fra Roma e

l’impero coloniale inglese. Evelyn Baring, conte di Cromer8, James Bryce9 e lo

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rialismo romano, Firenze 1993; D. FORABOSCHI, Guerra, rivolta, egemonia. Aspetti dell’imperialismoromano, Milano 1998; C. ANDO, Imperial Ideology and Provincial Loyalty in the Roman Empire, Berke-ley, Los Angeles, London 2000; L. REVELL, Roman Imperialism and Local Identities, Cambridge MA,New York 2009; D. MATTINGLY, Imperialism, Power and Identity: Experiencing the Roman Empire, Prin-ceton NJ 2010. Sulla liceità di applicare (o meno) concetti come «imperialismo» indifferentemente almondo antico e al mondo moderno cfr. M. I. FINLEY, E. LEPORE, Le colonie degli antichi e dei moderni,Roma 2000; J. E. LENDON, Primitivism and Ancient Foreign Relations, in «Classical Journal» 97, 2002,pp. 375-384. Si veda pure, in generale, P. W. ROSE, «The Conquest Continues»: Towards Denaturali-zing Greek and Roman Imperialisms, in «Classical World» 96, 2003, pp. 409-415.5 D. A. LUPHER, Romans in a New World. Classical Models in Sixteenth-Century Spanish America,

Ann Arbor 2003; cfr. J. ELLIOT, Empires of the Atlantic World: Britain and Spain in America 1492-1830,New Haven, London 2006; J. FRADERA, Spain: The Genealogy of Modern Colonialism, in R. ALDRICH(a cura di), The Age of Empires, London 2007, pp. 44-67; W. S. MALTBY, The Rise and Fall of the SpanishEmpire, Basingstoke 2009; H. THOMAS, The Golden Empire: Spain, Charles V, and the Creation ofAmerica, New York, London 2010.6 Sul titolo di re cristianissimo (roi très chrétien), attribuito dai papi ai sovani francesi, cfr. J. DE

PANGE, Le Roi très chrétien. Essai sur la nature du pouvoir royal en France, Paris 1949; H. PINOTEAU, Lasymbolique royale française, Ve-XVIIIe siècle, Paris 2004.7 Cfr. soprattutto A. Y. HARAN, Le lys et le globe. Messianisme dynastique et rêve impérial en France

aux XVIe et XVIIe siècles, Seyssel 2000; J. FRÉMEAUX, France: Empire and the Mère-Patrie, in ALDRICH (acura di), The Age of Empires cit., pp. 152-175.8 E. BARING (EARL OF CROMER), Ancient and Modern Imperialism, London 1910. Cfr. R. OWEN,

Lord Cromer: Victorian Imperialist, Edwardian Proconsul, Oxford 2004; T. HARRISON, Through BritishEyes: the Athenian Empire and Modern Historiography, in B. GOFF (a cura di), Classics and Colonialism,London 2005, pp. 25-37; P. VASUNIA, Greater Rome and Greater Britain, ibid., pp. 38-64; K. E. MEYER,S. B. BRYSAC, Kingmakers: the Invention of the Modern Middle East, New York, London 2008.9 J. BRYCE, The Ancient Roman Empire and the British Empire in India, in ID., Studies in History and

Jurisprudence, New York 1901, pp. 1-84 (trad. it. Imperialismo romano e britannico, Torino 1907, pp.

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stesso Winston Churchill10 stabiliscono una sorta di continuità ideale fra l’operacolonizzatrice/civilizzatrice di Roma e quella dell’Inghilterra. Spetterebbe anzi aibritannici l’onore di aver appreso la lezione di Roma e di avere corretto gli erro-ri di quell’esperienza paradigmatica, perfezionando un modello già di per sé fun-zionante con una più accorta, incisiva e nello stesso tempo prudente azione dicivilizzazione, assai più contenuta di Roma, ad esempio, nel concedere cittadi-nanza e diritti civili a popolazioni culturalmente e antropologicamente imprepa-rate e quindi pericolose, in quanto fattori di potenziale disgregazione dello statomultietnico11.Due gli elementi che costituiscono (o hanno costituito fino a pochi anni or

sono, prima che la crisi mondiale alterasse fatalmente le prospettive economico-finanziarie e, di conseguenza, geopolitiche) il fil rouge dell’analisi comparativa:1) la qualità della conquista imperiale romana e la sua capacità di applicare stra-tegie efficaci di rapida integrazione dei popoli conquistati; 2) l’estensione cro-nologica della repubblica imperiale romana, che – come ricorda JohnMearsheimer12, uno dei maggiori politologi americani, teorico nell’ultimo decen-nio del cosiddetto realismo offensivo13 – si estende sostanzialmente, nella suadimensione storico-politica più concreta e pragmatica, dall’età dei Gracchi alla

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1-95). Cfr. il classico H. A. L. FISHER, Viscount Bryce of Dechmont, O. M., 2 voll., London, New York1927 (rist. anast. Norwood MA 2007); T. KLEINKNECHT, James Bryce imperiale und internationale Ord-nung. Eine Untersuchung zum anglo-amerikanischen Gelehrtenliberalismus am Beispiel von James Bryce(1838-1922), Göttingen 1985; E. S. IONS, James Bryce and American Democracy: 1870-1922, London1968; F. L. VIANO, Una democrazia imperiale: l’America di James Bryce, Firenze 2003; P. VASUNIA,Greater Rome and Greater Britain cit.; J. T. SEAMAN JR., A Citizen of the World: The Life of James Bryce,London, New York 2006; G. SCATENA, Impero, nazione e democrazia nell’opera di James Bryce, Roma2010. Sulle medesime tematiche cfr. P. BRUNT, Reflections on British and Roman Imperialism, in «Com-parative Studies in Society and History» 7, 1965, pp. 267-288 = ID., Roman Imperial Themes, Oxford1990; DESIDERI, La romanizzazione cit., pp. 577-626; J. WEBSTER, N. COOPER (a cura di), RomanImperialism: Post-Colonial Perspectives, Leicester Archaeology Monographs, 3, Leicester 1996; D. J.MATTINGLY (a cura di), Dialogues in Roman Imperialism. Power, Discourse, and Discrepant Experience inthe Roman Empire, in «Journal of Roman Archaeology», suppl. series, 23, 1997; N. FERGUSON, Empire.The Rise and Demise of the British World Order and the Lessons for Global Power, London 2002; K.MCKENZIE, Britain: Ruling the Waves, in ALDRICH (a cura di), The Age of Empires cit., pp. 128-151;RODA, Il modello della repubblica cit., pp. 77-80, anche per ulteriori riferimenti bibliografici. 10W. S. CHURCHILL, The River War: An Historical Account of the Re-Conquest of the Soudan, Lon-

don 1899, pp. 18-19; cfr. P. A. RAHE, The River War: Nature’s Provision, Man’s Desire to Prevail, andthe Prospects for Peace, in J. W. MULLER (a cura di), Churchill as Peacemaker, Cambridge 1997; R. D.KAPLAN, Warrior Politics. Why Leadership Demands a Pagan Ethos, New York 2002, pp. 17-27.11 BARING (EARL OF CROMER), Ancient and Modern cit.; BRYCE, Imperialismo romano cit., pp. 37-

38 e 47-64.12 J. J. MEARSHEIMER, The Tragedy of the Great Power Politics, New York, London 2001 (trad. it. La

logica di potenza. L’America, le guerre, il controllo del mondo, Milano 2003, p. 212). Cfr. ora anche ilrecente ID., Why Leaders Lie: The Truth About Lying in International Politics, Oxford, New York 2011.13 W. YUAN-KANG, Offensive Realism and the Rise of China, in «Issues & Studies» 40, 2004, pp.

173-201; P. TOFT, John J. Mearsheimer: An Offensive Realist between Geopolitics and Power, in «Jour-nal of International Relations and Development» 8, 2005, pp. 381-408; J. KIRSHNER, The Tragedy ofOffensive Realism: Classical Realism and the Rise of China, in «European Journal of International Rela-tions» 18, 2012, pp. 53-75.

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fine dell’impero dei Severi, rappresentando in questo senso la più lunga espe-rienza di egemonismo continuato e pervasivo (in sostanziale e pacifica stabilità)che la storia abbia conosciuto.Imperialismo, integrazione rapida e consensuale, durata dell’esperienza sta-

tuale e imperiale romana si sono a lungo intrecciati come soggetti di un’analisiche, anche procedendo da posizioni antitotalitarie, libertarie e antimperialiste, hadovuto prendere atto di un successo politico confortato da una prosperità diffu-sa, da un consenso infrequentemente estorto con i soli metodi repressivi, da unastraordinaria capacità di diffondere l’orgoglio della cittadinanza, dalla convintacondivisione di un sistema giuridico, di un impianto istituzionale e di una gammadi valori in cui pressoché tutti i cittadini dell’impero si riconoscevano. Anche chiha tentato con consapevole passione – e a fini etico-politici senza dubbio lodevo-li, oltre che comprensibili nella loro motivazione profonda e nella contingenza cro-nologica del loro esprimersi – di rilevare il lato oscuro di tale realtà, interpretan-do in senso opposto l’azione conquistatrice di Roma, ha finito per riproporne unanuova unicità, per delineare un monstrum negativo tutto volto al male ma finoallora non ancora riprodotto né imitato con eguale buon risultato14.Da alcuni anni, tuttavia, il discorso e l’analisi sull’impero romano come termi-

ne di confronto per le esperienze politiche successive si è spostato – sul pianoetico e giuridico – dalle tematiche della conquista e delle strategie di integrazio-ne del più grande e stabile impero multietnico e multiculturale della storia, alletematiche dell’unipolarismo e della sua legittimità, e – sul piano della riflessionepolitologica o della politica tout court – alle problematiche connesse ai meccani-smi di conservazione nel tempo di una leadership mondiale unipolare: tutto ciò,ovviamente, come conseguenza della svolta epocale del 1989-1990, della cadutadel muro di Berlino, del crollo dell’Unione Sovietica e della fine dell’equilibriobipolare a vantaggio degli Stati Uniti. La riflessione si è avviata dapprima lungo il vicolo, rivelatosi ben presto teo-

ricamente e sostanzialmente cieco, della finis historiae; la teoria fondata sulla fidu-cia in un mondo ormai senza conflitti, in una situazione globale statica dominatada un unico modello politico, psicologico e socioeconomico, formulata in partico-lare da Francis Fukuyama15, ha infatti dovuto molto rapidamente fare i conti conuna realtà di segno assolutamente contrario. Lo stesso Francis Fukuyama e i suoinumerosi seguaci sono stati costretti a prendere atto che la conclusione della guer-ra fredda non aveva posto fine alla conflittualità internazionale e che la storia nonera affatto finita16; anzi, le dinamiche della storia hanno continuato ad agire vor-ticosamente in diverse direzioni: secondo alcuni studiosi, come Samuel

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14 Si pensi soprattutto, in questa prospettiva, a S. WEIL, Réflexions sur l’origine de l’hitlerisme, inEAD., Ecrits historiques et politiques, Paris 1960 (1940), vol. III, pp. 168-219 (trad. it. Sulla Germaniatotalitaria, Milano 1990, pp. 199-279); cfr. pure EAD., Réflexions sur la barbarie, in EAD., Oeuvres(1939), édition établie sous la direction de F. DE LUSSY, Paris 1999, pp. 503-507. Per una modernaposizione «antiromana» cfr. MATTINGLY, Imperialism cit.15 F. FUKUYAMA, The End of History?, in «The National Interest» 16, 1989, pp. 3-18; ID., The End

of History and the Last Man, New York 1992.16 Cfr. già i contributi contenuti in T. BURNS (a cura di), After History? Francis Fukuyama and His

Critics, Lanham 1994, e le precisazioni dello stesso F. FUKUYAMA in Reflections on the End of History,Five Years Later, in «History and Theory» 34, 1995, pp. 27-43.

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Huntington, si è passati dalle tematiche della conquista e delle strategie di inte-grazione di uno dei più grandi e stabili imperi multietnici e multiculturali dellastoria verso un inevitabile e incontenibile scontro di civiltà (Clash ofCivilizations)17; secondo altri, come lo stesso Fukuyama nel suo volume del 199918,ci si è celermente incamminati lungo una strada che porta a un altrettanto fatalepunto di rottura (The Great Disruption), da cui però – si ipotizza – trarrà origineuna società nuova fondata su regole morali condivise e non più sull’individuali-smo, che è stato senz’altro fonte di innovazione e prosperità, ma anche di corru-zione per ogni forma di autorità e di indebolimento grave dei legami di famiglia,vicinato, nazione. La ripresa decisa e costante delle concezioni dell’impero e del confronto tra

imperi nelle forme proprie di stagioni storiche passate (che parevano in qualchemodo definitivamente superate) appare comunque un dato evidente, che ha con-trassegnato l’ultimo quarto del secolo scorso e i primi anni del nuovo millennio eche ha percorso le strade del confronto ideologico sia a livello di classi dirigentipolitiche e intellettuali, sia a livello di divulgazione massmediatica e di opinionediffusa; tutto ciò, quanto meno, prima che la crisi globale investisse l’intera realtàeconomico-politica dei rapporti internazionali e, pur senza trascurarle, ponesse insecondo piano o affrontasse con ottica diversa tutte le problematiche connesse allagestione della leadership mondiale. Tale fenomeno, se da un lato riflette pragmaticamente il rapido mutamento

intervenuto nel mondo contemporaneo a cavallo fra XX e XXI secolo, dall’altroriaccredita e diffonde in prospettiva storica durevole la convinzione antica emoderna che i destini del mondo si giochino in prevalenza sulla capacità di ege-monia o di dominio di pochi stati o, meglio ancora, di un singolo stato su tutti glialtri; alla sua radice sta evidentemente l’evoluzione dell’equilibrio mondiale insenso unipolare dopo la caduta del muro di Berlino e la fine repentina dell’UnioneSovietica tra il 1989 e il 1990. La bipolarità Stati Uniti / Unione Sovietica, purnell’equilibrio cosiddetto del terrore assicurato nel mondo dalla MAD (MutualAssured Destruction, ovvero Mutua Distruzione Garantita)19, aveva salvaguarda-

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17 S. P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York 1999(trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano 1999); e inoltre ID., What WentWrong. Western Impact and Middle Eastern Response, Oxford 2002. Cfr. V. CORALLUZZO, Oltre il bipo-larismo. Scenari e interpretazioni della politica mondiale a confronto, Perugia 2007; R. BONNEY, FalseProphets: The Clash of Civilizations and the Global War on Terror, Long Hanborough, Witney 2008; C.BOTTICI, B. CHALLAND, The Myth of the Clash of Civilizations, New York, London 2010; P. LUBJUHN,A Response to Huntington’s Clash of Civilizations: Civilizations vs Nation State, Norderstedt 20102; J. F.HOGE JR. (a cura di), The Clash of Civilizations? The Debate, New York 2010; M. WA BAILE, Beyondthe Clash of Civilizations. A New Cultural Synthesis for Muslims in the West, Bloomington IN 2011; J.HAYNES, Twenty Years after Huntington’s «Clash of Civilizations», in «e-International Relations»February 10, 2013 = http://www.e-ir.info/2013/02/10/twenty-years-after-huntingtons-clash-of-civili-sations/. Cfr. anche, per una recente riproposizione dei temi dello scontro delle civiltà in un’ottica dirinnovato realismo politico, A. CHAUPRADE, Chronique du choc des civilisations, Paris 2011.18 F. FUKUYAMA, The Great Disruption: Human Nature and the Reconstitution of Social Order, New

York 1999 (trad. it. La grande distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale,Milano 2001); ID., Our Posthuman Future, New York 2002. 19 Cfr. ad es. J. J. MEARSHEIMER, The Tragedy of Great Power Politics, New York, London 2001,

p. 130: A MAD world is highly stable at the nuclear level, because there is no incentive for any great power

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to, da un lato, poco meno di mezzo secolo di sostanziale stabilità politica, men-tre, dall’altro, il dipanarsi di conflitti locali anche aspri e prolungati (come la guer-ra del Viet Nam) e di azioni repressive di movimenti di autodeterminazione e ditentativi di affrancamento dai due blocchi contrapposti (Ungheria, Germania Est,Cecoslovacchia, Grenada), nonché le crisi più violente, come la crisi di Cuba del1962 che portò le due superpotenze a un passo dal conflitto, o erano stati conte-nuti all’interno di una logica di non interferenza nelle rispettive sfere di influenza(rispettata da entrambe le superpotenze nei fatti, anche se non nella propagandaufficiale), o si erano risolti nel momento in cui il reciproco annientamento appari-va ipotesi non più teorica ma assolutamente concreta. Il balance of power del bipo-larismo quasi perfetto, mascherato negli stilemi della guerra fredda, oltre ad auto-sostenersi, garantiva ai due imperi mondiali una sorta di reciproca legittimazione,che andava ben oltre l’aspra polemica politico-ideologica, la quale era a sua voltanecessaria a compattare i blocchi e a giustificare la corsa agli armamenti, la com-petizione tecnologica scientifica e spaziale, e la liceità dell’organizzazione di dife-sa contro il nemico. Il confronto fra i due imperi si presentava dunque bloccato inuna dimensione in cui l’impossibilità di superare i limiti imposti dalla certezzadella vicendevole distruzione dava al sistema l’immagine di una realtà immutabilee permanente, che soltanto una lenta evoluzione avrebbe potuto modificare nellalunga durata. Anche il famoso discorso tenuto da Ronald Reagan l’8 marzo 1983in occasione della 41° Convention annuale della National Association ofEvangelicals a Orlando (Florida), che delinea la distinzione fra impero del bene eimpero del male (evil empire) e quindi la missione «religiosa» del primo, cui com-pete di vincere la lotta sul secondo – ad esempio attraverso la costruzione delloscudo stellare e la non sospensione della corsa al nucleare20 –, aprì certamente una

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to start a nuclear war that it could not win; indeed, such a war would probably lead to its destruction as afunctioning society (cfr. pure pp. 131-133 e 224-231); cfr. H. D. SOKOLSKI (a cura di), Getting MAD:Nuclear Mutual Assured Destruction, Its Origins And Practice, Carlisle Barracks PA 2004 =http://www.strategicstudiesinstitute.army.mil/pubs/display.cfm?pubid=585; K. WALTZ, Realism andInternational Politics, New York 2008; K. L. SHIMKO, International Relations: Perspectives and Contro-versies, Boston 2009.20 […] Yes, let us pray for the salvation of all of those who live in that totalitarian darkness. Pray they will

discover the joy of knowing God. But until they do, let us be aware that while they preach the supremacy ofthe State, declare its omnipotence over individual man, and predict its eventual domination of all peoples onthe earth, they are the focus of evil in the modern world. […] But if history teaches anything, it teaches thatsimpleminded appeasement or wishful thinking about our adversaries is folly. It means the betrayal of our past,the squandering of our freedom. […] So, I urge you to speak out against those who would place the UnitedStates in a position of military and moral inferiority. You know, I’ve always believed that old Screw Tapereserved his best efforts for those of you in the Church. So, in your discussions of the nuclear freeze proposals,I urge you to beware the temptation of pride – the temptation of blithely declaring yourselves above it all andlabel both sides equally at fault, to ignore the facts of history and the aggressive impulses of an evil empire, tosimply call the arms race a giant misunderstanding and thereby remove yourself from the struggle between rightand wrong and good and evil. Fra i numerosissimi siti che riportano il testo completo del discorso, segna-liamo ad es. http://www.hbci.com/~tgort/empire.htm, oppure http://www.americanrhetoric.com/spee-ches/ronaldreaganevilempire.htm, che contiene anche la registrazione audio. Una traduzione completadel discorso si trova in M. RESPINTI (a cura di), Ronald W. Reagan: un americano alla Casa Bianca, Sove-ria Mannelli 2005. Sull’interpretazione e sugli effetti dell’orazione del presidente sull’Evil Empire, ipareri sono ovviamente discordanti e talora opposti. Cfr., a puro titolo di esempio e su fronti diver-

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fase nuova, sospingendo l’URSS sulla strada di una competizione economicamen-te e tecnologicamente insostenibile che sarebbe stata sicuramente una delle causeprincipali del futuro, repentino crollo21, ma non appare affatto alimentata dallaconvinzione di una fine imminente del sistema bipolare. Al contrario, essa segna-la la necessità di intraprendere un nuovo percorso, supportato nel suo concretodipanarsi da una missione di fede declinata in senso fortemente «evangelica-le»/conservatore, ma non per questo necessariamente rapido e agevole.Una piccola, ma assai significativa, spia di quanto l’opinione di una continuità

ineluttabilmente lunga del bipolarismo fosse diffusa (e non soltanto per inerziamentale) fino almeno allo scorcio degli anni Ottanta, è costituita ad esempio dagliinnumerevoli film di fantapolitica prodotti in quegli anni e ambientati nel futuro,che proiettavano la confrontation USA-URSS fino ai decenni più avanzati del XXIsecolo e oltre, e che prevedevano semmai, a più o meno lunga scadenza, una rot-tura traumatica dell’equilibrio attraverso un olocausto nucleare e una regressionea un’età barbarica, preindustriale e presociale. Dalla saldezza di un simile convin-cimento derivarono la grande sorpresa e il disorientamento per gli eventi inattesi checondussero alla crisi e allo scioglimento del blocco sovietico, nonché la sostanzialeimpreparazione degli Stati Uniti a fare adeguatamente fronte al nuovo ruolo di unicasuperpotenza mondiale. L’ottimismo della «fine della storia», che come abbiamoricordato si ipotizzò da parte di alcuni, nell’illusione che la caduta dell’«impero delmale» si traducesse prontamente nel trionfo planetario dell’«impero del bene», dellalibertà e della democrazia, interrompendo il dipanarsi della vicenda storica sul tra-guardo ormai conseguito del migliore dei mondi possibili, dovette ben presto correg-gersi di fronte al moltiplicarsi dei conflitti locali, all’insorgere virulento del terrori-smo, allo scatenarsi dei fondamentalismi religiosi, alla difficoltà immane, per il siste-ma-mondo, di recuperare un equilibrio stabile e soddisfacente, e – più avanti neltempo – al moltiplicatore destabilizzante della grande crisi economico-finanziaria glo-bale22. Sta di fatto comunque che, nel breve volgere di mesi piuttosto che di anni,temi come quello del significato, del peso politico-ideologico, delle modalità di gestio-ne e conservazione del dominio o dell’egemonia di un unico stato superiore per poten-za a tutti gli altri – della legittimità del potere unipolare insomma – tornarono all’im-provviso di attualità, entrando vigorosamente sia nel dibattito politologico, sia nelladiscussione comune, ai più diversi livelli. È sufficiente, per rendersene conto, far rife-rimento a quella sorta di moderna summa dello scibile e del sapere comune online cheè Wikipedia, la quale – alla voce List of empires / Lista di imperi 23 – compila un

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genti, A. R. DOLAN, Undoing the Evil Empire: How Reagan Won the Cold War, Washington 1992; M.P. LAGON, The Reagan Doctrine: Sources of American Conduct in the Cold War’s Last Charter, WestportCT 1994; B. CUMINGS, E. ABRAHAMIAN, M. MA’OZ, Inventing the Axis of Evil: The Truth About NorthKorea, Iran, and Syria, New York 2004 (trad. it. Inventare l’asse del male. La verità su Iran, Siria e Coreadel Nord, Bologna 2005). 21 Su tali problematiche si veda ad es. E. DI NOLFO, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La

politica internazionale nel XX secolo, Roma, Bari 2002.22 Per queste tematiche si rimanda, in questo stesso volume, al cap. V, I pericoli di una storia senza

memoria e senza verità.23 Si veda http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_empires; http://it.wikipedia.org/wiki/Lista_

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singolare elenco di tutti gli imperi reali (o autoproclamatisi tali, o assimilabili intermini di durata, estensione, inclusività) della storia, che assommano a oltre cen-tocinquanta: dall’impero accadico fino all’impero americano (concetto di cui nellastessa sede si sottolinea l’uso ormai consueto anche se da taluni contestato)24, pas-sando per imperi anche improbabili, nella loro inconsistenza politica, e la cui clas-sificazione appare mera conseguenza della megalomania di grotteschi capi di stato,come per esempio l’effimero «impero centro-africano» di Jean-Bédel Bokassa(1977-1979). Sempre in Wikipedia, nel sito linkabile http://it.wikipedia.org/wiki/Impero, si propone anche una soddisfacente precisazione della nozionedi impero, definito come «convenzionalmente un’entità statale costituita da unesteso insieme di territori e popoli, a volte anche molto diversi e lontani, sotto-posti a un’unica autorità, normalmente ma non necessariamente personificatanella figura dell’imperatore»; e ancora si sottolinea come, fra tutti, l’impero roma-no sia quello che «visibilmente ha impressionato di più l’immaginario collettivo,in particolare nella cultura occidentale»25. Nell’omologo sito in lingua inglesehttp://en.wikipedia.org/wiki/Empire appare ancor più puntuale la precisazionedescrittoria, sia circa l’uso lato del termine impero attribuito all’azione pervasivaed egemone delle multinazionali, sia circa la distinzione fra imperi territoriali(rappresentati esemplificativamente dall’impero mongolo e da quello persiano) etalassocrazie egemoniche (come Atene o l’impero britannico)26.Ritornando, tuttavia, al tema del modello imperiale, mentre il mondo bipola-

re delle due superpotenze egemoni, USA e URSS, assicurando una sostanziale sta-

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di_imperi. Cfr. anche http://en.wikipedia.org/wiki/List_of_historical_countries_and_empires_spanning_more_than_one_continent, con la lista degli stati e degli imperi che nel corso dellastoria si sono estesi su territori appartenenti a più di un continente.24 Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Impero, p. 2 di 4: «Una parte dell’opinione pubblica, ormai

da anni, usa il concetto di impero con riferimento agli Stati Uniti del XXI secolo, per quanto tale asso-ciazione non sia da tutti condivisa». Cfr. ad es. S. ŽIžEK, Iraq: The Borrowed Kettle, London, NewYork 2004 (trad. it. Iraq. Il paiolo in prestito, Milano 2004).25 Ibid., p. 1 di 4, ove si rimarca altresì che «pur essendo indicate come impero strutture statali

anche estremamente diverse tra loro […] un impero presenta quasi sempre spiccate caratteristiche dimulticulturalità e multietnicità, accompagnate però da una marcata distinzione tra i territori metropo-litani e i territori periferici, normalmente indicati come province […], e tra l’etnia dominante e i popoliassoggettati. L’impero è inoltre in genere caratterizzato da un’ideologia imperiale […] spesso conno-tata da caratteri di egemonismo ed universalità, sulla base della quale si modellano i meccanismi di con-trollo politico, sociale, religioso ed economico del gruppo dominante sui gruppi dominati». 26 The term empire derives from the Latin imperium (power, authority). Politically, an empire is a

geographically extensive group of states and peoples […] united and ruled either by a monarch […] or anoligarchy. Aside from the traditional usage, the term empire can be used in an extended sense to denote alarge-scale business enterprise (e.g. a transnational corporation), or a political organisation of either national,regional- or city scale, controlled either by a person […] or a group authority […]. An imperial politicalstructure is established and maintained in two ways: (1) as a territorial empire of direct conquest and controlwith force […], and (2) as a coercive, hegemonic empire of indirect conquest and control with power […].The former provides greater tribute and direct political control, yet limits further expansion because it absorbsmilitary forces to fixed garrisons. The latter provides less tribute and indirect control, but avails military forcesfor further expansion. Territorial empires (e.g. the Mongol Empire, the Median Empire) tended to becontiguous areas. The term on occasion has been applied to maritime empires or thalassocracies (e.g. theAthenian and British Empires) with looser structures and more scattered territories.

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bilità, costituiva di per sé argomento sufficiente di autoriconoscimento anche dilà dai presupposti teorici del sistema comunismo / democrazia popolare, da unaparte, e della democrazia rappresentativa / capitalismo, dall’altra, la nuova realtàunipolare post 1989-1990 determinò modalità diverse di ricerca di legittimazionedella leadership globale. Se cioè da sempre la presenza sulla scena politica di unimpero multinazionale richiede una conferma di legittimità, il potere unico glo-bale comporta una necessità di legittimazione proporzionalmente più ardua e soli-da: il principio della legittimità si somma e si confonde con il concetto stesso d’im-pero, ma altresì si misura e si delinea diversamente in funzione di esso. Più in generale, si trattava di trovare adeguata risposta ad alcune domande

chiave rispetto alle quali si articola l’intera problematica imperiale e che nessunadefinizione di dizionario o di enciclopedia sembra soddisfare appieno, dal puntodi vista soprattutto delle dinamiche e delle prospettive politiche e culturali. Inprimo luogo, come abbiamo appena visto in riferimento a precisazioni nozionisti-che che dall’universalità della rete traggono peso e consistenza (anche se non intermini di reale esaustività definitoria): che cos’è e che cosa si intende per impe-ro? L’unicità, o l’universalità dell’impero sono condizioni dirimenti rispetto alladefinizione piena e corretta di impero (in altre parole, l’impero è unico e univer-sale oppure non è)? Dunque è opportuno e utile l’impero, e la sua sopravvivenzaè di per sé un bene? Come si preserva l’impero e quali sono i suoi nemici mate-riali e politico-ideologici? Quali sono i modelli di riferimento storici di impero,che si possono ritenere tali soprattutto in quanto premiati dal successo politico edalla lunga durata? Quale relazione esiste, in termini etico-politici, fra impero eimperialismo27?A tali quesiti è possibile ovviamente tentare di dare soluzione sia seguendo i

livelli «alti», teorici, della filosofia o della scienza della politica, sia ponendosi su unpiano più pragmatico e constatativo, che fa ricorso alla lezione della storia e ai raf-fronti con le esperienze politiche e statuali del passato. Altrettanto chiara è la con-nessione fra impero e potere politico gestito a titolo personale od oligarchico; fra lediverse forme e modalità di conduzione di dominio personale o di pochi che la sto-ria delle istituzioni conosce (dalla monarchia al principato, dalla signoria alla ditta-tura ecc.), l’impero sembrerebbe anzi costituire il modello più compiuto ed evolu-to: anche se va detto che esperienze più recenti di impero prescindono da una strut-tura istituzionale a base totalitaria od oligopolistica, mentre le ragioni della defini-zione del modello tendono a spostarsi più sull’oggetto, sull’ampiezza e sulla mul-tietnicità/multiculturalità del dominio che non sulla forma del governo centrale.

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27 Si veda in questa prospettiva la lucida disamina di F. CARDINI, L’impero e gli imperi, in «Diritto@ Storia» 8, 2009, Memorie XXIX, Roma Terza Roma = http://www.dirittoestoria.it/8/Memorie/Roma_Terza_Roma/Cardini-Impero-Imperi.htm, che pone cinque condizioni perché si possa par-lare di impero; in sintesi, per Cardini sono necessari: 1) l’autocoscienza diffusa e legittimata, da partedi chi costituisce il centro dell’impero e ne sta al vertice, di una missione universalistica che si perse-gue nella pace garantita dalla giustizia; 2) l’autoconsiderazione, da parte del centro, di se stesso comedetentore di pienezza di potere; 3) una forza militare adeguata; 4) la capacità di concepire un sistemadi relazioni diversificate; 5) la capacità del centro di selezionare le élites, in grado di governare l’impero,fedeli e consapevolmente compartecipi della Weltanschauung imperiale.

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Gli studiosi paiono d’altra parte concordi nel riconoscere all’impero di Romail ruolo di una sorta di Idealtypus della struttura-impero, un modello che per formae contenuto riassume gli elementi di identificazione e di estrinsecazione più spe-cifici e peculiari di tale forma di governo, nonché di organizzazione e di tenden-ziale dominio unico del mondo nella sua globalità. È per questa ragione che l’im-pero romano, assai più e meglio di imperi precedenti, ha rappresentato – comebene osserva Paolo Colliva – «una suggestione permanente su tutti quei regimi eordinamenti che, giunti a un determinato, critico momento di sviluppo, si sonovolti alla ricerca e alla definizione di un superpotere legale e accentrante al pro-prio interno, in vista di superare le loro difficoltà»28; difficoltà intrinseche indot-te, evidentemente, da fattori collegati all’eccessiva estensione raggiunta e quindialle necessità di controllo territoriale/amministrativo e di difesa dei confini29, alleproblematiche della multietnicità e della multiculturalità, ai costi di gestione, allasalvaguardia del gettito fiscale. Anche perché, in termini più generali, the rise andfall of the Roman empire, especially in Edward Gibbon’s eighteenth-century rendi-tion, became a mainstay of historical study 30.La scelta dell’impero non è stata sempre il risultato scontato di una conquista

territoriale ampia, perseguita per preciso disegno politico e ottenuta con la forzaoppure con la semplice minaccia delle armi, ma di volta in volta è stata l’esito isti-tuzionale scelto per sanare contrapposizioni crescenti, altrimenti inconciliabili, frasoggetti politici e sociali interni allo stato; oppure lo strumento per operare unasuperiore forma di organizzazione e unificazione rispetto a numerose entità sta-tuali o parastatuali monarchiche, principesche o signorili in reiterata conflittualitàe incapaci di procedere autonomamente, senza un’autorità superiore e terza rico-nosciuta, a un processo di unificazione reciprocamente vantaggioso; oppure, anco-ra, non la conseguenza bensì la premessa di un progetto di acquisizione di nuoviterritori, cui un’organizzazione di potere tendenzialmente illimitato e incondizio-nato meglio di altre poteva offrire garanzie di successo e coesione, tanto più se ilprogetto di conquista mirava a costruire un’unità universale di terre e popoli sottoun’unica conduzione.Quali che siano le motivazioni all’origine della costituzione di un impero, è

evidente che, subito dopo l’instaurazione, si pone un problema di stabilizzazionee di conservazione dell’impero stesso, e quindi la necessità per il nuovo potere dilegittimarsi nel consenso, o – se si preferisce – di legittimarsi per ottenere il con-senso. L’esperienza storica dimostra, infatti, come la sola repressione violentaattuata per mezzo degli eserciti e degli strumenti coercitivi di polizia siano suffi-

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28 P. COLLIVA, Impero, in N. BOBBIO, N. MATTEUCCI, G. PASQUINO (a cura di), Dizionario di poli-tica, nuova edizione, Roma 2006 (1976), vol. II, pp. 242-251.29 Sulle problematiche dell’imperial overstretch, cioè appunto del superamento dei limiti territoriali

e socioeconomici gestibili da parte di un grande impero e sulle conseguenze relative, cfr. M. DOYLE,Empires, Ithaca NY 1986, e più recentemente R. BURBACH, T. TARBELL, Imperial Overstretch. GeorgeW. Bush and the Hubris of Empire, Nova Scotia, Bangalore, Beirut, Kuala Lumpur, Cape Town, Lon-don, New York 2004, nonché, per il caso emblematico dell’impero di Roma, I. BENJAMIN, The Limitsof Empire: the Roman Army in the East, Oxford 1997; cfr. anche, in questo stesso volume, il cap. XII,Ai margini dell’impero nell’età dell’angoscia, in particolare la nota 9.30 ALDRICH, Introduction, in ID. (a cura di), The Age of Empires cit., p. 8.

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cienti ad assicurare un controllo territoriale e sociale nel breve termine, ma noncerto nel medio o lungo periodo: occorre dunque rivolgersi a più complesse e arti-colate azioni di assimilazione politico-culturale e di costruzione di un sentire con-corde e diffuso di accettazione del nuovo potere presso le popolazioni conquista-te/assoggettate. La cattura del consenso e l’efficacia legittimante traggono forzapressoché costantemente per un verso dalla religione e per l’altro dalla legge e daldiritto, seppur coniugati secondo una molteplicità di combinazioni di elementi esfumature. Gli antichi imperi del vicino Oriente sopravvissero e prosperaronosulla base di una legittimazione sostanzialmente religiosa: la regalità sacra propriadel modello imperiale vicino-orientale mesopotamico/egizio vide nel sovrano ouna divinità al pari di altre, o un rappresentante privilegiato in terra delle divi-nità, l’unico in grado di colloquiare con esse e di comprenderne intenzioni, pro-positi, volontà. La legittimità si sosteneva dunque sul ruolo «altro» del sovrano,il solo che poteva governare su tutti perché il solo che partecipava, direttamenteo indirettamente, della sostanza divina. Già con l’impero persiano, tuttavia, conprecisa scelta teorica si introdusse, accanto alla legalizzazione religiosa del potere,la promozione «laica» del modello cosmopolita, che, mallevadore il Gran Re,garantiva buona amministrazione, salvaguardia delle culture locali, autonomia digestione regionale e perciò armonia fra le etnie diverse che componevano il mul-tiforme mosaico di quel grande stato: mancava a tale prospettiva soltanto un soli-do supporto filosofico, che non avrebbe fatto difetto in seguito ad AlessandroMagno, con il quale avrebbe preso forma e sostanza l’idea dell’impero universalecome migliore dei regimi per l’intera umanità. Nel frattempo però si era andata delineando una nuova tipologia di impero, a

quasi esclusiva legittimazione laica e costruito sull’anomalia di un’assenza di quel-la territorialità che aveva caratterizzato tutti gli imperi finora considerati, per lomeno nel senso di controllo diretto sui territori: gli imperi talassocratici ateniesee (seppure con qualche differenza) fenicio-punico/cartaginese esercitarono un’ege-monia economica su aree assai vaste, la cui forza condizionante, talora sorretta daun adeguato sostegno militare, equivalse a un controllo territoriale soft che nonrifuggiva peraltro, quando lo si reputasse necessario, da interventi duramentecostrittivi o addirittura da forme ammonitrici di terrorismo di stato (è sufficien-te in questo senso il riferimento emblematico alla tragica vicenda di Atene e del-l’isola di Melo, che Tucidide racconta con precisione e icastica lucidità)31. Alle diverse forme di impero citate succedette, in senso cronologico e logico,

proponendo una sorta di sintesi di modelli, la repubblica imperiale romana, anda-ta man mano strutturandosi negli ultimi due secoli dell’era precristiana per giun-gere a compiuta realizzazione ideologica, politica e istituzionale con la riforma diAugusto. La sintesi istituzionale a cui si allude appare alquanto articolata: Roma operò

dal punto di vista dell’edificazione dell’impero un processo complesso, sostanzia-to da una pluralità di aspetti che ne giustificò l’assunzione a modello storico e che

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31 Cfr. in particolare, nella vasta bibliografia, L. CANFORA, Tucidide e l’Impero. La presa di Melo,Roma, Bari 20002.

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ha comportato nella concezione del potere imperiale precise conseguenze, comu-ni alle realtà politico-statuali succedutesi fino a oggi. Per meglio comprendere le modalità, le quote di recupero di esperienze pre-

gresse e le caratteristiche paradigmatiche dell’impero e della sua concezione qualisi identificarono e si plasmarono nella repubblica imperiale romana, è opportunoinnanzi tutto soffermarsi ancora brevemente su alcune fra le più recenti defini-zioni di impero, che aiutano a meglio comprendere sia la natura peculiare del-l’impero romano (in particolare nella fase augustea, ma per non pochi versi anchenell’accezione tardoantica, dioclezianeo/costantiniana), sia il significato del ripe-tuto riferimento contemporaneo al modello imperiale quale chiave di compren-sione del nuovo mondo unipolare.Come è noto, con il termine imperium i Romani indicavano in origine il pote-

re in sé, che si identificava con la facoltà estrema di comminare la pena di mortee quindi poteva essere prerogativa soltanto di coloro i quali, come i patres, pos-sedevano l’auspicium, la virtù di interpretare attraverso segni naturali la volontàdegli dèi; per delega dei patres, l’imperium venne esercitato dai re e, in seguito,dai supremi magistrati della repubblica (consoli e pretori, coloro cioè che necostituivano il vertice gerarchico politico, militare e giurisdizionale), dai procon-soli-governatori di provincia, e, infine, dal princeps (attraverso sia l’istituto del-l’imperium proconsolare massimo, sia la sua funzione di giudice di ultima istan-za). Il termine imperium si estendeva però anche a definire il territorio giurisdi-zionale su cui il potere massimo veniva esercitato. Quello di imperium/impero èinsomma concetto complesso e pregnante, che può trovare sostanza in una plu-ralità di implicazioni – storiche, ideologiche, politiche, istituzionali, giuridiche,socioeconomiche, ma anche religiose, mitologiche, logico-filosofiche, linguistichee antropologiche. Alcuni anni fa, nella sua critica durissima nei confronti degli Stati Uniti –

potenza bifronte che a suo avviso avrebbe unito in un mix paradossale gli ele-menti positivi della repubblica e quelli negativi dell’impero e che, a causa dellecontraddizioni implicite in tale modello, gli appare destinata a inevitabile decli-no (per lo meno nei suoi aspetti imperiali/imperialistici) entro il 2020 –, un intel-lettuale di punta come Johan Galtung ebbe a definire l’impero come un insiemearticolato di conquiste militari, di dominio politico, di sfruttamento economico edi penetrazione e assimilazione culturale32. La complessità semantica del concet-to è dunque il riflesso concreto della complessità politica che caratterizza le verecompagini statali imperiali, di là dalle caratteristiche negative o positive a esseattribuibili, che pertengono soprattutto a valutazioni etiche. In questo senso,

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32 J. GALTUNG, On the Coming Decline and Fall of the US Empire, in «Transnational Foundation forPeace and Future Research (TFF)», January 28, 2004 = http://www.thiswayupezine.com/-index.php/war-and-peace/429-279; cfr. già ID., Structural Theory of Imperialism, in «Journal of PeaceResearch» 8, 2, 1971, pp. 81-117, e J. GALTUNG, T. HEIESTAD, E. RUG, On the Decline and Fall ofEmpires: The Roman Empire and Western Imperialism Compared, paper presented at the Goals, Proces-ses and Indicators of Development (GPID) III Meeting (Geneva, 2-8 October 1978), The UnitedNations University, 1979 = http://www.transcend-nordic.org/doc/10%20GPID-UNU%20Working%20Papers/-HSDR-GPID01-On%20the%20decline%20and%20fall%20of%20empi-res.pdf.

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ovviamente, si riducono decisamente di numero le esperienze «autenticamente»imperiali che la storia ha prodotto e conosciuto. Prima di Galtung, già altri, come Michael Hardt e Toni Negri, ebbero a pro-

porre un’interpretazione dell’impero tutta proiettata in funzione di quella che essiindividuavano come la controparte dell’impero stesso, ovvero la moltitudine 33. Sitratta di un ritorno a un concetto premoderno di masse disorganizzate e non inqua-drate, né inquadrabili, che si contrappongono appunto al potere imperiale e, limi-tandolo, tautologicamente lo definiscono. Nell’impianto imperiale unipolare siannullerebbero popoli e stati e, di fronte a un unico potere mondiale/globale, si(op)pongono moltitudini trasversali (nell’ottica di inizio millennio, pre-11 settem-bre e pre-crescita tumultuosa della Cina, ad esempio, è questo il ruolo dei no- onew-global rispetto all’impero americano, così come a suo tempo sarebbe stato ilruolo delle masse cristiane rispetto all’impero di Roma). Gli imperi unipolari, nelloro processo di costruzione ingloberebbero stati e popoli, sopprimendoli, oppurene svuoterebbero comunque l’autorità e il profilo nazionale identitario e indivi-duante. Scompaiono i popoli, ma possono tornare ad affacciarsi sulla scena dellastoria le moltitudini, secondo uno schema marxiano rivisitato alla luce del nuovoordine della globalizzazione e del nuovo mondo unificato sotto la guida di un’u-nica potenza leader. Uno schema che interpretava il presente sullo scorcio del tra-scorso millennio e degli albori del XXI secolo: si trattava peraltro di un presentequanto mai provvisorio, come gli eventi del decennio successivo hanno dimostrato,ma le cui caratteristiche è possibile proiettare a comprensione di quella che è pro-babilmente l’unica altra compiuta esperienza di globalizzazione culturale, giuridica,economica, linguistica, valoriale e psicosociale della storia, e cioè l’impero romano.L’impero, tanto più se globale e unipolare nel senso che abbiamo indicato, scava

un solco profondo fra partecipazione democratica, autonomia, indipendenza, autode-terminazione, e il potere. In molti casi trasforma i cittadini in sudditi; elimina le formeeventualmente preesistenti di sovranità popolare; mette in contrapposizione dialettical’ordine mondiale e la pace (pax Romana, pax Hispanica, pax Britannica, pax Ameri-cana), per un verso con la libertà, per l’altro con la democrazia; impone o condiziona,dall’alto o dall’esterno, le forme e i modelli di governo locale; assimila e omogeneizzain forme non sempre rispettose di identità e specificità locali, o comunque nellamigliore delle ipotesi tali identità e specificità subordina all’ordine superiore delsistema. La contraddizione di fondo fra impero e libertà, fra impero e democrazia, fra

impero e meccanismi di partecipazione, rappresentatività e sovranità popolare èstata da sempre motivo di riflessione e di discussione nelle più diverse sedi (politi-che, politologiche, storiografiche, filosofiche, ideologiche), ove si è accertata lacomplessità di una relazione non rubricabile secondo costanti semplici e invariabili.Tale complessità si accentua, evidentemente, allorché entrano in campo elementi

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33 M. HARDT, A. NEGRI, Empire, Cambridge MA 2000 (trad. it. Impero. Il nuovo ordine della glo-balizzazione, Milano 2001); la riflessione dei due intellettuali marxisti è proseguita e si è evoluta in altridue volumi: IDD., Multitude: War and Democracy in The Age of Empire, New York 2004 (trad. it. Mol-titudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Milano 2004) e IDD., Commonwealth, Cam-bridge MA 2009 (trad it. Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano 2010).

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correttivi rispetto a quello che si propone come il volto più repressivo e totalitariodell’impero. Ossia, allorché le caratteristiche di estrinsecazione e di istituzionaliz-zazione del potere imperiale disegnano, ad esempio, un modello comune di convi-venza positiva fra individui e comunità, cui si accompagna una qualità di vita dif-fusamente soddisfacente e una condizione economica di benessere o di appropriatadistribuzione della ricchezza in un quadro stabile e certo di diritti e di garanzie dilegge, nonché in una dimensione di consolidata sicurezza rispetto a minacce e peri-coli interni ed esterni. Tali elementi distintivi sono evidentemente quelli che caratterizzano l’impero di

Roma, dalla sua formazione preaugustea fino almeno al III secolo e per molti aspettianche oltre, e sono altresì quelli che sono stati assunti a paradigma storico-politicodi una struttura di tipo imperiale, la quale, dopo la conquista di nuovi popoli e ter-ritori – nella maggior parte dei casi inevitabilmente violenta –, provvede rapida-mente a consolidare il proprio dominio attraverso una confirmatio di potere basataessenzialmente sull’acquisizione di un coeso e diffuso consenso popolare, primaancora che sull’ingegneria costituzionale e sull’autorità delle istituzioni. La repub-blica imperiale romana fin dalla sua prima fase si autolegittimò ottenendo l’adesioneconvinta e interessata delle élites locali, e concependo efficaci strumenti di espres-sione della rappresentanza popolare (e a un tempo di identificazione nel sistema)quali furono l’autonomia cittadina e l’istituto della doppia cittadinanza locale eromana. L’esercizio dei diritti in sede cittadina – là dove si apriva, svolgeva e con-cludeva la vita attiva della stragrande maggioranza dei residenti nello stato di Roma– soddisfaceva le esigenze di partecipazione, tanto più se alla cittadinanza locale sisommava la cittadinanza romana, con il conseguente bagaglio di opportunità cheessa implicava. Tutto ciò trovò forti e coerenti sostegni nell’unicità del diritto, nel-l’unificazione linguistica greco-latina, nell’omogeneità culturale, peraltro non con-traddittoria né tanto meno conflittuale rispetto alla conservazione di tradizioni eusanze locali, e – per un lungo periodo – nella prosperità economica e nelle oppor-tunità di mobilità ampiamente estese all’intera, articolata scala sociale. Nella fasetardoantica dell’impero, le fondamenta legittimanti trovarono integrazione e com-pensazione attraverso l’alleanza, sancita da Costantino nel concilio di Nicea del325, con il cristianesimo ortodosso e le gerarchie strutturate della chiesa34.L’esperienza dell’impero di Roma traccia dunque sia i presupposti teorico-pra-

tici che sostanziano l’effettivo potere imperiale, sia i tratti caratterizzanti cui com-pete tradurre in positivo e condurre al successo tale forma estrema, tendenzial-mente universale, di gestione dell’autorità politica e di governo, degli uomini e delmondo. Le principali e indispensabili caratteristiche di tale sistema sono state cor-rettamente individuate nell’unicità, nella perennità e nella sublimità35. Ogni impero,da Roma in poi, ha inteso imporsi come unicum, come centro coordinatore esclu-sivo di tutta l’umanità o, almeno, di tutta quella parte di umanità che progressiva-mente andava riferendosi a identiche motivazioni etniche e/o politiche, sociali eculturali, in una sintesi di mentalità e sentire comuni, di condivisi valori di riferi-

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34 Su tale rapporto cfr. da ultimo G. FILORAMO, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecu-tori, Roma, Bari 2011.35 COLLIVA, Impero cit., pp. 242-245.

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mento, di consenso ampio e generalizzato verso le istituzioni. L’unicità dell’imperosi esprime e s’identifica anche nella persona di chi lo guida, autorità unica esuprema il cui prestigio morale, prima ancora che politico, incarna la perfezione delmigliore dei sistemi istituzionali, che, nella prospettiva medievale (ma non solo),sarà accreditato quale specchio terrestre dell’ordine cosmico divino36; ma pure, neitermini sostanzialmente «laici» della riflessione contemporanea riguardo all’imperoe in particolare all’impero di Roma, chi è al vertice del sistema identifica il princi-pio dell’impero inteso come il migliore dei mondi possibili, sintesi sublime e perfe-zionante di tutte le tipologie di governo precedenti, guidato appunto da un princepsdall’indiscussa auctoritas, che si propone come cardine della legittimazione e dell’e-saltazione politico-ideologica di un modello imperfettibile37. L’imperfettibilità delsistema-impero è presupposto e condizione della sua perennità. La fiducia nell’e-ternità di Roma, sancita già nell’immaginario monarchico-repubblicano, si corro-bora nella concezione del mondo postaugustea e si perpetua nell’impero cristiano inquanto funzionale al disegno provvidenziale della storia, di cui l’accordo fra imperoe cristianesimo rappresenterebbe un passaggio fondamentale e definitivo. L’impero,in quanto strumento indispensabile di salvazione del mondo su cui si estendeva ein quanto tramite essenziale ed esclusivo di benessere materiale e di pace universale,doveva durare in eterno: una sua eventuale caduta non poteva, quindi, che corri-spondere alla fine dei tempi, o quanto meno all’annientamento della civiltà e alritorno a una barbarica e tragica età del ferro. Il princeps augusteo prima e il domi-nus dioclezianeo/costantiniano poi sono circonfusi – nella simbologia che rappre-senta segno e sostanza della politica – dallo splendore e dalla dignità viva, sostan-ziale e sublime dell’imperium populi Romani. La giustificazione, prima laica e poianche religiosa, della perennità dell’impero «contiene in sé la somma dignitas di uffi-cio e funzione di chi quella carica rivestiva. Concetto che si accrebbe piuttosto cheaffievolirsi con il passare del tempo»38, investendo in misura sempre maggiore isovrani imperiali (bizantino, romano-germanico ecc.) delle successive esperienze diimpero. Titolare di un potere unico ed esclusivo, l’imperatore era anche innalzatoalla dignità più alta sulla terra: poiché ogni potere deriva da Dio o dagli dèi, da Dioo dagli dèi derivava anche il primo dei poteri nel mondo, e come il principe augu-steo era il padre della patria – di volta in volta dominus noster, providentissimus, per-petuus, invictus, bono rei publicae natus, rector orbis, fundator pacis aeternae, totiusorbis restitutor, e così di seguito in una fantastica elaborazione linguistica di innu-merevoli attributi, tutti tesi a illustrarne la figura sublime –, così gli imperatori cri-stiani, che nella logica della translatio imperii ne raccolsero l’eredità fino all’etàmoderna, perpetuarono il principio, talora di fatto soltanto formale (specie nella

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36 Riferimenti d’obbligo in questo senso sono naturalmente il Convivio e il De Monarchia danteschi.37 Per tutti l’Ei)j Rw/mhn di Elio Aristide: cfr. ELIOARISTIDE, A Roma, a cura di F. FONTANELLA, intro-

duzione di P. DESIDERI, Pisa 2007; W. V. HARRIS, B. HOLMES (a cura di), Aelius Aristides between Greece,Rome, and the Gods, Leiden, Boston 2008; RODA, Il modello della repubblica imperiale cit., pp. 11-39; P.DESIDERI, F. FONTANELLA (a cura di), Elio Aristide e la legittimazione greca dell’impero di Roma, Bologna2013. Si veda pure l’esauriente bibliografia che compare nei sito dedicato dell’Università di Strasburgo:http://www.classicalsace.unistra.fr/index.php?option=com_content&view=article&id=90&Ite-mid=59.38 COLLIVA, Impero cit., pp. 244-245.

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complessità e nella dinamica del gioco politico tardomedievale e moderno frapotenze europee), della superiorità assoluta del sovrano imperiale, la cui corona«era preordinata alla salus et bonum animarum di tutti i cristiani»39. Le peculiarità individuanti del modello imperiale e la loro adattabilità nella per-

sistenza, attraverso il continuo aggiornamento delle diverse motivazioni temporalie/o sacrali che l’evoluzione delle vicende storiche di volta in volta a esso forniva, nehanno costituito la forza e la solidità. Il modello imperiale si è in questo modo pro-posto, dall’età romana fino all’età moderna attraverso il medioevo, come lo stru-mento più idoneo a organizzare (o a tendere a organizzare, in prospettiva medio-lunga) l’intero mondo. Il discrimine sei-settecentesco e l’evolversi di societàcomplesse che avevano perduto l’unicità e la precisione semplificante dei contenuticulturali e sociali impedirono che tale strumento istituzionale si perpetuasse neltempo. Gli imperi coloniali da un lato e, dall’altro, le tentazioni imperialistiche glo-balizzanti di alcune potenze fra il XVIII e il XX secolo continuarono tuttavia a decli-nare, seppur in forme e modalità diverse, il concetto di impero. Ne sono una provasia i giustificazionismi che pretesero di nascondere i fini meramente imperialistico-economici dell’espansione coloniale con l’esportazione della civiltà (o guerre recenticon l’esportazione della democrazia), sia il trionfo nel secolo scorso di ideologieassolutiste che si proponevano di unificare e uniformare il mondo secondo modellitotalizzanti, sia negli ultimi anni le tentazioni «imperiali» degli Stati Uniti, atipi-che e contestate ma in ogni caso entrate prepotentemente tanto nel dibattito poli-tico-teorico a tutti i livelli, quanto nella realtà contingente della congiuntura geo-politica degli ultimi due decenni40. Il confronto tra Roma, il grande impero del passato – con i suoi meriti sociopo-

litici e i suoi possibili demeriti etici, con il suo modello di sviluppo e di conserva-zione e con i suoi errori strategici che, insieme alle concause esterne lo avrebberoportato al declino e alla crisi – e il grande e controverso impero contemporaneo, invi-schiato in un analogo intreccio di antinomie tra volontà unilaterale di potenza e ivincoli di uno scenario mondiale che non consente il dispiegarsi indolore e vincentedi un unipolarismo indiscusso e che cova i germi di un disordine crescente proprionel momento in cui pareva perfezionarsi l’ordine definitivo della democrazia trion-fante, appare non soltanto inevitabile, ma voluto e insistito, sia al fine di una sortadi reciproca legittimazione, sia nella ricerca di differenze rassicuranti, sia ancora perapprendere meglio una lezione antica comunque utile a orientare scelte contempo-ranee. Storia antica e storia contemporanea si riflettono così in uno specchio, taloraprobabilmente deformante, ma non per questo meno limpido, secondo coordinatedi sorprendente impatto sociale, giacché confronti, paragoni e analogie, in questocaso specifico, non si sono proposti come appannaggio esclusivo della politica, dellapolitologia o della filosofia della storia, ma per la prima volta si sono offerti qualepatrimonio comune e acquisito dei media, della rete e dei social networks, e, attra-verso tali nuovi strumenti, della più ampia e variegata opinione pubblica.

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39 Ibid.40 F. SCHUMACHER, The United States: Empire as a Way of Life?, in ALDRICH (a cura di), The Age of

Empires cit., pp. 278-303, 313-314.

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IX

L’immagine del barbaro tra mondo antico e mondo contemporaneo*

È passato un po’ più di un secolo da quando Konstantinos Kavafis lanciava il suogrido ossessivo, iterato, sarcastico e a un tempo inquietante nella sua vana e assurdaillusione liberatoria: Giati/ oi ba/rbaroi qa fqa/soun sh/mera qa «oggi arrivano i bar-bari»1, i barbari temuti e attesi, minaccia e auspicio, pericolosi ma provvidenziali,diversi ma eguali, lato oscuro di una realtà concreta immanente, viva seppur negatao ipocritamente ignorata, Doppelgänger complementare, Mr. Hyde di un Dr. Jekyllin reciproco e perpetuo scambio di ruoli, soluzione possibile di un dramma esisten-ziale personale e collettivo. I barbari, dunque, da accogliere con curiosità e congioia, con entusiasmo e ostentazione di cultura, di lusso, di ricchezza, di simboli diun potere perduto, gusci vuoti da offrire a un nuovo padrone ingenuo ed entusia-sta nella speranza che ne possa rivitalizzare l’estenuata debolezza. Ma i barbari diKavafis non cadono nell’inganno, non accettano il dono avvelenato: semplicementescompaiono, se ne vanno, o si confondono mimetizzandosi abilmente e senzatroppa fatica in un mondo che non conosce più distinzioni, dove più nessuno èpuro, dove più nessuno vuole farsi carico delle deficienze del sistema, dove tutti silimitano a sfruttare fino all’esaurimento i beni materiali che la società, ancora perqualche tempo, sarà in grado di offrire. I barbari potevano essere una soluzione, madi barbari non ce ne sono più e quindi tw/ra ti/ qa ge/noume xwri/j barba/rouj: eadesso, senza barbari, che ne sarà di noi?Circa ottant’anni dopo Kavafis, John Maxwell Coetzee riproponeva, nel titolo

di uno dei suoi libri più noti – Waiting for the Barbarians 2 – il senso della paura, dellacuriosità, dell’attesa del diverso che preme alle frontiere geografiche, ideologiche epsicologiche: il magistrato bianco, che si occupa da decenni del piccolo insedia-mento di frontiera in cui vive, venuto a contatto con la guerra tra impero e barbari,

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* L’immagine del barbaro tra mondo antico e mondo contemporaneo nella prima versione è comparsocon il titolo Giati/ oi ba/rbaroi qa fqa/soun sh/mera. L’immagine del barbaro tra mondo antico e mondocontemporaneo, in S. GIORCELLI BERSANI (a cura di), Romani e barbari: incontro e scontro di culture,Atti del Convegno internazionale di studi in occasione del XVI centenario della battaglia di Pollenzo(402 d.C.) (Bra, 11-13 aprile 2003), Torino 2004, pp. 11-24.1 La poesia è del 1904. Il testo di Perime/nontaj touj barba/rouj è tratto da K. KAVAFIS, Poesie

(Poihmata), a cura di F. M. PONTANI, Milano 1972, pp. 18-21, 229.2 J. M. COETZEE, Waiting for the Barbarians, New York 1980 (trad. it. di M. BAIOCCHI, Aspettando

i barbari, Torino 2000).

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si trova a doversi confrontare con una realtà che mette in discussione le sue cer-tezze, pigramente coltivate nell’inerzia nel tempo. La violenza dell’impero siabbatte preventivamente sui barbari prima che la minaccia dell’invasione si con-cretizzi: due prigionieri torturati e una donna altrettanto maltrattata di cui s’inna-mora gli fanno capire, per un verso, che i barbari sono fra noi, simili a noi, debolie umani come noi e, per l’altro, che il potere dell’impero strumentalizza il rischioquanto meno incerto del nemico alle frontiere per mostrare il suo vero volto, auto-ritario e repressivo, violento e intollerante. Ecco allora che il magistrato da sudditodell’impero si trasforma in nemico, da giudice in imputato, senza peraltro maiacquisire l’assoluta intima convinzione di essere nel giusto, di avere intrapreso l’im-pervia ma retta via della coscienza e abbandonato per sempre il sentiero facile maangoscioso dell’ingiustizia. Il contatto traumatico con l’esercito dei barbari, dram-maticamente (e forse inutilmente) attesi e temuti, a un tempo Tartari e Godot, nonavverrà probabilmente mai, ma sarà sufficiente per il magistrato il contatto ravvi-cinato e speciale con alcuni individui dell’etnia avversa per rendersi conto del signi-ficato strumentale e pregiudiziale di una contrapposizione esasperata e per sma-scherare, con il progressivo insinuarsi delle crepe del dubbio nel muro delle suecertezze, il volto repressivo e ipocrita dell’impero.La nuova/antica barbaritas di Kavafis si dissolveva nel male remoto del mondo

imperiale corrotto di Roma e Bisanzio, così come nel male attuale della società occi-dentale macchiata dall’opulenza, con una differenza: i barbari (=popoli fanciulli diherderiana memoria)3, contribuendo a distruggere l’impero antico di Roma, ave-vano in qualche maniera salvato l’umanità offrendole una nuova opportunità di svi-luppo, un rebirth nella purezza e nell’ingenuità dimessa, vergine e incorrotta, chepoteva riportare il mondo sul retto cammino germogliando su una nuova incolpe-vole infanzia. Il magistrato di Coeetze conquistava un seppur parziale riscatto dal-l’incoscienza apatica del suo agire individuando, pur fra mille incertezze, alcuneverità elementari che sarebbero alla base del vivere civile: la disponibilità verso ildiverso, la non necessaria equazione diverso = barbaro = nemico, l’impostura delpotere che per difendersi alimenta la paura di un nemico purchessia o, addirittura,ingigantisce o inventa pericoli inesistenti o immaginari.

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3 J. G. HERDER, Auch eine Philosophie der Geschichte der Menschheit, Leipzig 1774 (trad. it., conrelativa Introduzione alle pp. IX-XXVII, di F. VENTURI, Ancora una filosofia della storia per l’educazionedell’umanità, Torino 1951); cfr. P. DESIDERI, La romanizzazione dell’impero, in Storia di Roma, II, 2: Iprincipi e il mondo, Torino 1991, pp. 577-626; J. WEBSTER, N. COOPER (a cura di),Roman Imperialism:Post-Colonial Perspectives, Leicester Archeology Monographs, 3, Leicester 1996; D. J. MATTINGLY (acura di), Dialogues in Roman Imperialism. Power, Discourse, and Discrepant Experience in the RomanEmpire, in «Journal of Roman Archaeology», Suppl. Series, n. 23, 1997; R. OTTO, J. H. ZAMMITO (acura di), Vom Selbstdenken: Aufklärung und Aufklärungskritik in Herders «Ideen zur Philosophie derGeschichte der Menschheit», Heidelberg 2001; F. M. BARNARD, Herder on Nationality, Humanity, andHistory, Montreal 2003; F. J. CONTRERAS PELÁEZ, La filosofía de la historia de Johann G. Herder, Sevilla2004; S. GROSCURTH, Geschichtsphilosophie als Basis für Kulturkritik? Herder, Schiller, Adorno. Struk-turelle und inhaltliche Untersuchung für eine neue Beschäftigung mit der Geschichtsphilosophie, Bochum2005; S. PICKFORD, Does the End of Herder’s «Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Men-schheit» Represent a Conclusion?, in «German Life and Letters» 58, 3, 2005, pp. 235-246; S. RODA, Ilmodello della repubblica imperiale romana fra mondo antico e mondo moderno. «Fecisti patriam diversisgentibus unam», Torino 2011, pp. 123-128.

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Certo, i barbari della prima decade del terzo millennio non vogliono o non sonoin grado di concedere le stesse opportunità che Herder pensava avessero offertoall’impero di Roma in crisi. Agli imperi di oggi, tale last chance è inesorabilmentepreclusa. Ma l’immaginario di Kavafis e l’affabulazione di Coetzee si saldano per-fettamente e profeticamente – è dei poeti la profezia4 – con una realtà come quelladi oggi, in cui le tematiche della nouvelle barbarisation hanno trovato una nuovadrammatica ripresa sia sul piano sociale, sia sul piano storico-politico. Sullo sfondodi uno scontro di civiltà imminente o già in atto, un nuovo modello di barbarie sem-bra prendere corpo, in perfetta sintonia e proporzionalità con il crescere dei dubbisull’irreversibilità delle conquiste della Western civilization. Inopinatamente, perdirla con Brink Lindsey, the nightmare has returned e i new barbarians sono at thegates, again 5. Nuovamente alle porte. La fenomenologia della regressione s’imponea livello sociologico e a livello politico, e la risposta della civiltà spesso gareggia inbarbarie con la stessa minaccia a cui si oppone.Soprattutto in Francia, nell’ultimo ventennio, saggi come La barbarie di Michel

Henry6,o La barbarie intérieure. Essai sur l’immonde moderne, di François Mattéi7, einterventi come quello di Guy Coq, Petits pas vers la barbarie 8, hanno indagato ilversante psicosociale della nuova deriva barbarica che avrebbe segnato tutti i per-corsi intrapresi dall’umanità, e in particolare dalla civiltà occidentale dal dopo-guerra a oggi: l’indifferenza progressiva verso i valori reali della democrazia piùdeclamata, ribadita al punto di chiederne, in contraddizione di termini, l’esporta-zione imposta piuttosto che realmente praticata, la fuga rispetto all’impegno nella

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4 Cfr. il noto Frammento di Novalis intitolato Poesia e irrazionale: «II sentimento per la poesia hamolto in comune col senso mistico. È il senso per ciò che è proprio, personale, ignoto, misterioso, darivelare, necessario-casuale. Esso rappresenta l’irrappresentabile, vede l’invisibile, sente il non-sensi-bile, ecc. La critica della poesia è un assurdo. È già difficile distinguere (eppure è la sola distinzione pos-sibile) se qualcosa sia poesia o no. Il poeta è veramente rapito fuori dei sensi; in compenso tutto accadedentro di lui. Egli rappresenta in senso vero e proprio il soggetto-oggetto, anima e mondo. Di qui l’in-finità di una buona poesia. Il sentimento per la poesia ha una vicina affinità col senso della profezia ecol sentimento religioso, col sentimento dell’infinito in genere. Il poeta ordina, unisce, sceglie, inventaed è incomprensibile a lui stesso perché accada proprio così e non altrimenti. Poeta e sacerdote eranoin principio una cosa sola, e soltanto più tardi li hanno distinti. Ma il vero poeta è sempre rimasto sacer-dote, così come il vero sacerdote è sempre rimasto poeta. E non dovrebbe l’avvenire ricondurre l’an-tico stato di cose?» (NOVALIS, Frammenti, intr. di E. PACI, trad. it. di E. POCAR, Milano 19765). Ingenerale cfr. F. VERCELLONE, Nature del tempo. Novalis e la forma poetica del romanticismo tedesco,Milano 1998.5 B. LINDSEY, At the Gates, Again. A New Barbarism, in «National Review On Line», 19 novembre

2002 (http://www.cato.org/pub_display.php?pub_id=4150): come senior fellow e vice presidenteper la ricerca del conservatore Cato Institute, Lindsey esprimeva allora posizioni filorepubblicane diforte appoggio alle iniziative militari «antiterroriste» di G. W. Bush; più recentemente, Brink Lind-sey è stato protagonista di un endorsement a favore di Barack Obama nella campagna presidenziale del2008, soprattutto in aperta polemica con il suo antico partito di riferimento, considerato da lui non piùin grado di esprimere una convincente politica. Cfr. pure, per alcune analogie interpretative, A. JOXE,Barbarisation moderne des guerres dans l’empire global: le paradigme de la guerre de banlieue, in «Astérion»[online] 2, 2004, mis en ligne le 5 avril 2005 = http://asterion.revues.org/101.6M. HENRY, La barbarie, Paris 1987.7 F. MATTÉI, La barbarie intérieure. Essai sur l’immonde moderne, Paris 1999.8 G. COQ, Petits pas vers la barbarie, Paris 2002.

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polis, il disinteresse crescente se non l’insofferenza per ogni orizzonte comunitario,la dilagante volgarità del confronto sociale. Secondo un acuto intervento di EnzoBianchi9, a margine appunto del lavoro di Coq, «sembra che in certi ambienti,soprattutto politici, si sia arrestato ogni cammino di umanizzazione: come è possi-bile che questo sia avvenuto? Com’è possibile il sistematico insulto, l’ostentatodisprezzo verso l’altro, lo straniero, l’immigrato presente in mezzo a noi? Com’èpossibile la continua demonizzazione del diverso, come se fosse l’incarnazione delmale? Com’è possibile la violenta aggressività che ogni giorno ci viene presentatadagli schermi televisivi e che finisce per contagiare persino i rapporti familiari?»Nella premessa alla riedizione del suo saggio, M. Henry coglie la novità dell’im-barbarimento contemporaneo rispetto ad altre epoche oscure della storia, nell’e-mergere di una tecnica finora sconosciuta che sembra agire sotto la spinta soltantodi una specie di voto satanico: tutto ciò che può essere fatto nell’universo cieco dellecose, deve essere fatto, senza nessun’altra considerazione tranne forse quella delprofitto, rendendo così il nostro mondo inumano nel suo stesso principio. Nellostesso tempo, l’ipersviluppo di un ipersapere determina la rottura completa con leconoscenze tradizionali dell’umanità e con quell’equilibrio in cui il sapere produ-ceva il bene, il quale a sua volta produceva il bello, mentre il sacro illuminava ognicosa10. Secondo Mattéi, invece, la separazione dalla trascendenza del senso com-piuta dall’uomo ha determinato lo sviluppo delle forme più aberranti di frammen-tazione psicologica e sociale. La barbarie che avanza – come il deserto di Nietzsche– segna il fallimento universale dell’im/mondo moderno ed è identificabile da quat-tro elementi: il misconoscimento della bellezza di un’opera, cioè l’ignoranza; ildiniego di ciò che è elevato, cioè la pretesa; l’incapacità di compiere un gesto crea-tore, cioè l’impotenza; la volontà confusa di distruzione, cioè la regressione11. Que-ste analisi, come sottolinea intelligentemente Bianchi12, oltre che cupe perché privedi sbocchi, non sono schermaglie di idee al di sopra delle nostre teste e del nostrovissuto quotidiano, ma la lettura di realtà che viviamo giorno dopo giorno e delmodo in cui le affrontiamo, e sono esse che determinano la vitalità o meno dellanostra cultura e della nostra convivenza sociale; barbarie è infatti ciò che non èancora o non è più «coltivato», ciò che rimane o ritorna allo stadio della pura emo-tività, dell’istinto animale, ciò che degenera e inselvatichisce per mancanza di cri-teri e di valori che consentano di discernere che cosa è bello e buono per il singoloe per l’umanità intera. Si domanda Bianchi: si può essere membri di una societàsenza coltivare un certo senso dell’appartenenza, senza cercare anche un’identitàcollettiva? Soltanto con una memoria comune e un’appartenenza plurale ma con-divisa si può edificare un avvenire comune. Invece sembriamo incapaci di una poli-tica, di una memoria, giusta, elaborata nel confronto: l’esempio della barbarie mani-festatasi sullo scorcio del secolo passato nel disfacimento della Jugoslavia (maaltrettanto – possiamo aggiungere – il moltiplicarsi esponenziale delle espressioni dibarbarie dall’11 settembre in poi) dovrebbe farci capire che memoria non è fissa-

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9 E. BIANCHI, Piccoli passi verso la barbarie, in «La Stampa», 28 febbraio 2003, p. 29.10 HENRY, La barbarie cit., pp. 4-10.11MATTÉI, La barbarie cit., pp. 6-7.12 BIANCHI, Piccoli passi cit.

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zione sui torti, reali o presunti, subiti nel passato, né deformazione di eventi, marielaborazione condivisa delle ferite ricevute e inferte nella lunga durata del tempostorico. Sono invece la caricatura della memoria, la ghettizzazione della storia cheforniscono gli alibi alla barbarie: assistiamo così al ritorno delle tribù, ai miti delsangue e della razza, all’esaltazione di identità posticce costruite su un’invenzionebecera e ignorante della tradizione, alla tirannia di gruppi chiusi in se stessi che siautodefiniscono in totale e proterva autoreferenzialità con l’unità della società edella nazione13. In questo senso, xenofobie tribali e feticismo delle etnie, identitàarroganti e complessi ostentati di superiorità genetica o caratteriale, graduatorie diciviltà e riproposizioni di pseudoculture non si propongono allora come amenecuriosità folkloristiche, bensì rappresentano una reale minaccia per il futuro del-l’Europa e del mondo e una premessa ideologica alle pulizie etniche nei loro varigradi, comunque efferati, di barbarie reale. Per questa ragione assumono partico-lare importanza i piccoli passi su cui concentra la propria attenzione G. Coq: gestiall’apparenza insignificanti, compiuti senza pensarci troppo o, magari, nella con-vinzione che si tratti di gesti non poi così gravi, ma che, di fatto, avvelenano lanostra convivenza civile, svuotano la democrazia, favoriscono la violenza privata eistituzionale, logorano il concetto stesso di giustizia, deformano la libertà, rischianodi fare scivolare verso una progressiva insensibilità che può farci credere che sonogli altri, e non noi, a poter cadere nella barbarie. Gli ambiti di questa lotta tra bar-barie e civiltà vanno dal personale al collettivo, dal locale all’universale e investonoi rapporti familiari come il sistema scolastico, l’erosione della democrazia come labioetica, i diritti dell’uomo e la pace, la risposta al terrorismo e la ricerca di una spe-ranza non utopica di una società migliore. Ed è evidente – conclude Bianchi –come, in società culturalmente così indebolite e sempre più individualiste, siabbiano meno anticorpi contro il ritorno del «capo», dell’«uomo della Provvi-denza»: scomparse le mediazioni sociali e intellettuali, il fascino mediatico esercitaun dolce dispotismo, una dittatura morbida che favorisce il bisogno e il culto delleader. Eliminato il faticoso progetto politico comune e condiviso, nell’immagina-rio resta spazio soltanto per il dolce tiranno14.Sotto più angoli di visuale, dunque, il nuovo pericolo barbarico, superato il

primo decennio del terzo millennio, va connotandosi nel segno della politica. È aquesto punto, ad esempio, che the New Rome meets the new barbarians, come ha acu-tamente intuito Joseph Nye, uno dei più attenti politologi americani, già chairmandel National Intelligence Council nonché assistant secretary of Defense for Internatio-nal Security Affairs nell’amministrazione Clinton e oggi University distinguished ser-vice professor presso l’Università di Harvard, dopo aver a lungo retto la Harvard Uni-versity’s John F. Kennedy School of Government15. Il discorso sulla nuova barbarie

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13 Sui «pericoli dell’identità» cfr. già S. RODA, S. GIORCELLI BERSANI, «Iuxta fines Alpium».Uomini e dèi nel Piemonte romano, Torino 1999, pp. 229-251; più in generale, F. REMOTTI, Contro l’i-dentità, Roma, Bari 2007; Identità italiana tra Europa e società multiculturale, Atti del Convegno (Siena,dicembre 2008), Colle Val d’Elsa 2009; C. FELICE, Le trappole dell’identità. L’Abruzzo, le catastrofi, l’I-talia di oggi, Roma 2010; M. BETTINI, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Bologna 2011. 14 BIANCHI, Piccoli passi cit.15 J. NYE, The New Rome Meets the New Barbarians, in «The Economist», 23 marzo 2002, pp. 23-25

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s’innesta cioè sul ben più ampio, complesso e cruciale discorso della legittimità edella dimensione etico-politica del mondo unipolare uscito dalla fine della guerrafredda e dalla caduta del muro di Berlino, e la tematica della nuova barbarie ispiraun capitolo non secondario del dibattito degli ultimi due decenni sul ruolo degli StatiUniti nel mondo contemporaneo e del confronto con l’unica altra precedente espe-rienza di sostanziale unipolarità che la storia ricordi, quella dell’impero di Roma16. Il dibattito, ovviamente ravvivatosi e intensificatosi dopo l’11 settembre 2001,

ha trovato una sorta di avvio in un libro in qualche misura premonitore, pubblicatonel 1991 con non eccessiva risonanza, come spesso avviene per i lavori che precor-rono i tempi, ma poi ripreso e ampliato nel 2001 appunto sull’onda della più pres-sante attualità: mi riferisco al saggio di Jean-Christophe Rufin – singolare figura dimedico, intellettuale e narratore, prix Goncourt 2001, fondatore e uno dei massimidirigenti dell’organizzazione umanitaria Médecins Sans Frontières, ambasciatorefrancese in Senegal (2007-2010), accademico di Francia dal 2008 – intitolato L’em-pire et les nouveaux barbares17. Secondo Rufin, dopo il 1989-1990 le democrazie occi-dentali, come Roma dopo la distruzione definitiva di Cartagine, hanno perso il loroultimo avversario. Esse si sono trovate così di fronte all’inquietante nebulosa deipaesi del terzo mondo e al pericolo di ricreare una nuova frattura mondiale, ben piùgrave della precedente perché non corretta da quella che i moderni politologi chia-mano MAD (mutual assured destruction), che è stata alla base della deterrenza tra StatiUniti e Unione Sovietica, impedendo la trasformazione della guerra fredda in con-flitto aperto e armato. La nuova frattura separerebbe da una parte il Nord riunifi-cato e depositario dei valori del diritto sotto la guida dell’America (analogo al mondocivilizzato dell’impero di Roma) e dall’altra il Sud caotico e incontrollabile dei nuovibarbari: islamici, africani e latinoamericani. Il rischio unipolare è insomma, perRufin, il rischio di un nuovo show down come quello che per secoli contrapposeRoma ai barbari e che portò alla disgregazione definitiva del suo impero.La medesima tematica, ripresa da diversa angolazione, compare in un articolo

che ha conosciuto rapida e ampia circolazione, pubblicato il 29 settembre 2002sull’«Atlanta Journal-Constitution» con il titolo The President’s Real Goal in Iraq,ove uno dei più noti columnists americani, Jay Bookman18, riproponeva il raffronto(poi da lui ripreso in forma ancor più articolata intervenendo, nel dicembre dellostesso anno, come guest speaker presso l’influente Capital City Club della capitalegeorgiana) fra la strategia imperiale messa in atto dalla politica di G. W. Bush e teo-rizzata dalla lobby neo-conservative riunita attorno al PNAC (Project for the New Ame-rican Century), e la grande strategia dell’impero di Roma19. Secondo Jay Bookman,

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(http://belfercenter.ksg.harvard.edu/publication/1172/new_rome_meets_the_new_barbarians.html).16 Cfr. ad es. M. BERMAN, Waiting the Barbarians, in «The Guardian», 6 ottobre 2001

(http://www.guardian.co.uk/books/2001/oct/06/books.guardianreview5).17 J.-CH. RUFIN, L’empire et les nouveaux barbares. Rupture Nord-Sud, Paris 1991; nuova edizione

rivista e ampliata, Paris 2001.18 J. BOOKMAN, The President’s Real Goal in Iraq, in «The Atlanta Journal-Constitution», 20 set-

tembre 2002 (http://www.socqrl.niu.edu/forest/peace/JBookman.html). 19 Per un’utile panoramica sulle posizioni neoconservative nell’America dell’ultimo ventennio, cfr.

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dopo la fine dell’equilibrio bipolare e la sanzione de facto di una leadershipmondialeunica – e prima ovviamente della sempre più consistente ascesa economico-politicadella Cina e della grande crisi economica avviatasi tra il 2007 e il 2008 – si aprivanoper gli Stati Uniti due strade possibili in politica estera o, più specificamente, nelrapporto con le altre nazioni, in ogni caso collocate in posizione di subordine oppurein stato di disequilibrio svantaggioso rispetto alla sola superpotenza. La prima èquella di una leadership che onorasse i trattati stipulati con le altre nazioni, consen-tendo loro di avere parte attiva nella discussione politica e nell’applicazione praticadelle decisioni; la seconda, quella di una mera affermazione del proprio potere, chenon intendesse essere vincolato dai trattati internazionali, che giudicasse irrilevanteil ruolo degli organismi internazionali ormai considerati obsoleti, che rifiutasse diascoltare le opinioni e gli interessi delle less powerful nations. Inutile dire che lescelte politiche dell’amministrazione Bush siano andate nella seconda delle due dire-zioni indicate20. Ma ciò che preme in particolare a Bookman è sottolineare come unsimile riorientamento della politica americana, che spezzava the traditional ways ofconducting itself on the international stage, non avesse origine dalla strategia difen-siva antiterrorismo successiva alla data fatidica dell’11 settembre, ma si fosse impo-sta assai prima, trovando la sua più completa e determinata elaborazione teorica nelsettembre 2000, un anno esatto prima delle due torri, nel Report del PNAC dal titoloRebuilding America’s Defenses. Strategy, Forces and Resources for a New Century 21, acui collaborarono una trentina fra intellettuali e politici di punta del movimentoneoconservatore, e in particolare Thomas Donnelly come principale autore e i dueco-chairmen del PNAC, Donald Kagan e Gary Schmitt. Proprio in tale rapporto,secondo Bookman, si delinea fin dalle prime battute una concezione «imperiale»che rimanda a scenari antichi, primo fra tutti l’impero di Roma. Secondo gli autoridel Report, che come si è detto in larga misura coincidono con gli estensori delloStatement of Principles a fondamento del PNAC, dopo la fine della guerra fredda, sulloscorcio del XX secolo che aveva sancito la supremazia americana come most premi-nent power del mondo, si aprivano per gli Stati Uniti un’opportunità e una sfida:l’opportunità era quella di ricostruire, rimodellare e uniformare il mondo ai princìpidella Costituzione del 1791 e successivi emendamenti; la sfida, strettamente intrec-

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L’IMMAGINE DEL BARBARO TRA MONDO ANTICO E MONDO CONTEMPORANEO

P. HASSNER, J. VAISSE, Washington et le monde. Dilemmes d’une superpuissance, Paris 2003; G. DAS-QUIE, Les nouveaux pouvoirs, Paris 2003; A. SPAVENTA, F. SAULINI, Divide et impera. La strategia deineoconservatori per spaccare l’Europa, Roma 2003; F. FUKUYAMA, After the Neo Cons: Where the RightWent Wrong, London 2006; ID., America at the Crossroads: Democracy, Power, and the NeoconservativeLegacy, New Haven CT 2006; Neocons tra reinvenzione della storia e prassi, Atti del 1° Convegno nazio-nale di studi (Servigliano, Ap, 27 settembre 2006), Rimini 2007; J. HEILBRUNN, They Knew They WereRight: The Rise of the Neocons, New York 2008; J. VAISSE, Histoire du néoconservatisme aux États-Unis:le triomphe de l’idéologie, Paris 2008; M.-C. NAVES, La fin des néoconservateurs?, Paris 2009.20 J.-F. LEGARE-TREMBLAY, L’Idéologie néo-conservatrice et la politique étrangère sous George W.

Bush, Chaire Raoul-Dandurand en études stratégiques et diplomatiques, Études Raoul-Dandurand,Montréal 2005 = http://www.dandurand.uqam.ca/uploads/files/publications/etudes_raoul_dandu-rand/etude_rd_09_jflegare_c.pdf.21 Cfr. PNAC, Rebuilding America’s Defenses: Strategy, Forces and Resources For a New Century. A

Report of the Project for the New American Century, settembre 2000 (http://www.newamericancen-tury.org/RebuildingAmericasDefenses.pdf).

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ciata con l’opportunità, consisteva nel verificare se gli Stati Uniti sarebbero stati ingrado di disegnare nel nuovo secolo uno scenario mondiale che coniugasse in per-fetta coerenza e armonia i princìpi e gli interessi dell’America. In questa prospet-tiva, che escludeva a priori come eventualità politica il ritorno a un sistema mon-diale multipolare e tendeva anzi a confermare a medio e lungo termine (l’intero XXIsecolo) il potere incontrastato degli USA, era necessario che lo stato leader si dotassedi un apparato militare in grado di affrontare qualunque insidia presente e futura,in qualunque parte del mondo; che praticasse una politica internazionale che confermezza e risolutezza promuovesse all’estero i princìpi americani, e che mantenesseun governo nazionale in grado di farsi carico di tutte le responsabilità globali chetale ruolo comportava per gli Stati Uniti. Prima fra tutte, quella di frenare la minac-cia dei nuovi barbari rappresentati dai terroristi e dagli stati-canaglia (roguenations)22 che li appoggiavano e li finanziavano, nonché di operare in modo tale dacondurre, o ricondurre, la barbaritas nei confini della civiltà attraverso il trasferi-mento sistematico del modello di democrazia americano e occidentale. La politica estera degli Stati Uniti d’America veniva identificata nel loro ruolo

vitale e insostituibile per il mantenimento della pace e della sicurezza in Europa, inAsia e nel Medio Oriente. Se gli USA avessero evitato le nuove responsabilità, avreb-bero messo in pericolo, esponendoli a sfide plurime, i loro specifici e fondamentaliinteressi. La storia del XX secolo ha insegnato agli Stati Uniti che la cosa più impor-tante è far fronte con energia alle circostanze prima che le crisi emergano, e affron-tare le minacce prima che esse divengano atroci. La storia del secolo scorso hainsomma insegnato che gli Stati Uniti dovrebbero sposare compiutamente la causadella conservazione e della difesa attiva, previdente e preventiva della leadershipamericana. I princìpi espressi nel Report, ad avviso di Jay Bookman, riproponevano,a due millenni esatti di distanza, una sorta di logica imperiale di tipo romano-augu-steo; come l’America all’affacciarsi del terzo millennio, Roma, conclusa l’espan-sione imperialistica, eliminati o ridotti a ruolo non competitivo i concorrenti sullascena del potere «mondiale» (da Cartagine ai regni ellenistici, al regno partico), ridi-segna la carta geopolitica del mondo occidentale e vicino-orientale e si appresta agovernare il mondo in prospettiva acronica, tendenzialmente in aeternum, come lecompete e conviene, in una sorta di diritto/dovere che salda convinzioni etico-poli-tiche a più concreti interessi economici e di potere. Con un esercito forte attrezzala difesa dei confini; attraverso il processo di romanizzazione unifica i popoli con-quistati in un idem-sentire veicolato attraverso la lingua e il diritto, rafforzato e cor-roborato dal consenso acquisito delle élites locali, che fungono a loro volta da tra-mite di diffusione della mentalità romana presso le classi subalterne; attrae sia ipopoli conquistati di più modesta tradizione civile, sia i popoli educati ai più evo-luti modelli di civiltà ellenistica e orientale con una cultura forte e penetrante, chesi traduce in una way of life competitiva e individualista, ma aperta a opportunitàdi mobilità sociale e di autopromozione personale (in discreta misura indipendenti

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22 Cfr. C. PRESTOWITZ, Rogue Nation: American Unilateralism and the Failure of Good Intentions,New York 2003; R. ROTBERG (a cura di), Worst of the Worst: Dealing with Repressive and Rogue Nations,Washington DC 2007; J. ROSE, Defining the Rogue State: A Definitional Comparative Analysis Withinthe Rationalist, Culturalist and Structural Traditions, in «Journal of Political Inquiry» 4, 2011, pp. 1-36.

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dalle condizioni sociali e giuridiche di origine) fino allora sconosciute. Il tutto – equi l’analogia America-Roma si farebbe ancora più evidente – in una dimensione dicertezza di avere costruito il migliore dei mondi possibili e di avere realizzato ilsistema di organizzazione della collettività a livello politico e individuale più per-fetto e vivibile dell’intera storia precedente (e perciò potenzialmente esportabilecon piena soddisfazione degli eventuali futuri fruitori).L’articolo di Bookman ricevette risposta già la settimana dopo, sullo stesso gior-

nale23 e contemporaneamente sul sito del PNAC, da parte del co-chairman DonaldKagan, professore emerito of Classics and History della Yale University e autore disaggi significativi sul pensiero politico greco, sull’impero ateniese, sulla pace diNicia, sulla spedizione in Sicilia e sulla guerra del Peloponneso, su Tucidide24, non-ché, in asse con il suo rinnovato impegno politico in area neoconservatrice, sull’o-rigine della guerra e sulla conservazione della pace nei sistemi complessi unipolari25.In particolare, di grande impatto ideologico – e a posteriori considerato in qualchemisura (per taluni fin troppo) premonitore dell’11 settembre – è stato il volume dal-l’eloquente titolo While America Sleeps: Self-Delusion, Military Weakness, and theThreat to Peace Today 26, da lui pubblicato alla fine del 2000 in collaborazione conil figlio Frederick, allora professore di storia militare all’Accademia di West Pointe ora componente attivo del think tank conservatore American Enterprise Institutefor Public Policy Research (AEI) nonché assunto nel 2010 dal generale David H.Petraeus, capo delle forze internazionali in Afghanistan, come uno dei due espertiper la lotta alla corruzione in quel paese. Il libro dei due Kagan riproponeva leragioni del PNAC, sulla base soprattutto di una fitta esemplificazione tratta dalla sto-ria politico-militare del XX secolo, non senza rimandi alle logiche imperiali di piùantica data, da Atene all’impero coloniale inglese. Per gli autori, ogni paragone frail ruolo sostenuto dall’America nel mondo d’oggi e qualunque realtà sia legittima-mente definibile impero nella storia del passato rivelerebbe ignoranza e confusionerispetto a una precisa definizione e al corretto significato del concetto di impero:tale confusione e ignoranza caratterizzerebbero in particolare proprio la compara-zione compiuta da Bookman con l’impero di Roma, e questo perché i Romani, agiudizio di Kagan, diversamente dagli americani, acquisirono la maggior parte delloro potere in seguito a conquiste militari dirette, assoggettarono i popoli conqui-stati alle leggi romane, imposero tasse e il servizio militare obbligatorio sotto ilcomando di Roma, privando i loro sudditi della libertà e dell’autonomia. Tale com-portamento del resto avrebbe caratterizzato la maggior parte degli imperi succedu-tisi nel corso dei secoli, mentre gli Stati Uniti non possiedono territori al di fuori

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23 D. KAGAN, Reaction to «Bush’s Real Goal in Iraq», in «The Atlanta Journal-Constitution», 6ottobre 2002 = http://www.newamericancentury.org/defense-20021006.htm.24 ID., The Great Dialogue: A History of Greek Political Thought from Homer to Polybius, New York

1965, e – tutti dello stesso autore – The Outbreak of the Peloponnesian War, Ithaca NY 1969; The Archi-damian War, Ithaca NY 1974; The Peace of Nicias and the Sicilian Expedition, Ithaca NY 1981; The Fallof the Athenian Empire, Ithaca NY 1987; The Peloponnesian War, New York 2003; Thucydides: TheReinvention of History, New York 2009.25 ID., On the Origins of War and the Preservation of Peace, New York 1995.26 D. KAGAN, F. KAGAN, While America Sleeps: Self-Delusion, Military Weakness, and the Threat to

Peace Today, New York 2000.

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dei cinquanta stati dell’Unione, salvo che popoli esterni non ne richiedano sponta-neamente l’intervento, l’aiuto e la protezione. Vittoriosi nella prima guerra mon-diale, gli americani si allontanarono da tutta quanta l’Europa; vittoriosi nellaseconda, essi occuparono la Germania sconfitta soltanto fino all’instaurazione dellademocrazia, e invece di ricavare denaro dalla vittoria offrirono enormi somme agliantichi nemici affinché questi conseguissero una prosperità mai fino allora cono-sciuta. Invitati a prendere la guida della difesa delle democrazie contro la minacciadell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti spesero il loro denaro e impiegarono le loroforze lontano dalla patria, non per la conquista ma per la protezione dei loro alleati;inoltre, essi diedero il benvenuto alla formazione dell’Unione Europea, che è deltutto indipendente dagli Stati Uniti e ne rappresenta anzi un formidabile concor-rente nell’economia mondiale; gli europei si sentono completamente liberi di criti-care gli Stati Uniti, rimangono spesso indifferenti o addirittura ostili alle scelte poli-tiche americane e ciò senza alcun timore di rappresaglie militari americane. Questonon è il modo, concludevano Donald e Frederick Kagan, in cui si comportano gliimperi, e segna l’incolmabile distanza tra l’impero di Roma e gli Stati Uniti d’A-merica.

A prescindere dall’aspetto indubbiamente inquietante di alcune affermazioni,che non riescono a nascondere un risentimento a stento represso verso popoli«ingrati» che non riconoscono il sacrificio a loro favore di un partner più potente edeterminato e lo ripagano con la concorrenza economica e la critica politica, i con-cetti espressi appaiono – sorprendentemente, per uno storico antichista quale èKagan – oggettivamente semplificatori e imprecisi, là dove propongono un’imma-gine sostanzialmente acritica, e costruita soltanto su categorie «contemporanee» epost ancien régime, di un impero romano totalitario, accentratore, oppressore enemico di ogni libertà e autonomia, ed elencano invece una serie di virtù storicheamericane, molte delle quali, con opportuni parametri di compensazione e di cor-rezione ideologica e cronologica, potrebbero facilmente riscontrarsi anche per l’im-pero di Roma. Per esempio – com’è stato di recente rilevato, forse con qualcheeccesso d’opposta natura – l’autonomia cittadina garantita da Roma, che offriva aicittadini dell’impero l’opportunità di autogovernarsi in sostanziale libertà in ambitolocale (pur non potendo ovviamente agire in contrasto rispetto alla politica diRoma) non è molto diversa, per misura e consistenza, dalla libertà di autogovernoche – come i Kagan vantano – gli Stati Uniti hanno a lungo concesso all’Europa,indirizzandone e guidandone però la politica estera e controbilanciando la pretesaincapacità, ignavia o codardia militar-difensiva degli stati europei; inoltre, le paroledei Kagan delineano, forse involontariamente, i tratti di un rapporto fra Stati Unitie Unione Europea in cui è difficile non riconoscere le caratteristiche della relazioneegemonica. Le affermazioni sulla diversità e sull’anomalia storica del non-impero degli Stati

Uniti (we do not believe in an American Empire), e quindi sul carattere ridicolo (ludi-crous) dei confronti con Roma o con altri imperi, appaiono contraddette da altreprese di posizione provenienti dal medesimo ambito politico-ideologico. ThomasDonnelly (il già citato deputy executive director del PNAC, fellow dell’AmericanEnterprise Institute, analista di affari militari ed esperto di problemi di difesa, sicu-rezza nazionale e politica estera), in un contributo del 2002 sull’autorevole rivista

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«Foreign Affairs» elaborato quale recensione del libro di Max Boot The SavageWars of Peace: Small Wars and the Rise of American Power 27 rilevava, al pari diKagan, un’oggettiva «diversità» della condizione geopolitica degli USA rispetto aogni altra realtà politica del passato, ma si tratta in questo caso di una diversità inlevare piuttosto che in calare: nel senso che Donnelly, al contrario di Kagan, nonnega affatto la vocazione imperiale degli Stati Uniti, anzi – in pieno accordo con latesi di fondo del libro che recensiva – egli sottolinea come tutta la storia degli StatiUniti, dall’indipendenza fino alle guerre mondiali, mostrasse come la repubblicaavesse avuto un lungo e sottostimato passato imperiale, testimoniato prima da unaserie ininterrotta di piccole ma significative guerre tra Ottocento e inizio Nove-cento, seguite poi dai due grandi conflitti del secolo scorso, dalla guerra fredda e daaltre numerose guerre calde fino a oggi. Tutto ciò ha determinato un percorso cheha portato a quello che si può definire l’unipolarismo perfetto. Tale unipolarismo,nel quale storici importanti come Paul Kennedy28 – a detta di Donnelly allora rav-veduti – avevano paventato si celasse un rischio di imperial overstretch, durava, almomento dell’analisi di Donnelly, ormai da dieci anni e sembrava destinato, conun po’ di sforzo, di saggezza e di abilità politica, a mantenersi molto a lungo, poten-zialmente all’infinito. La sua forza deriverebbe, a detta di Donnelly, proprio dallasua unicità storica: la pax Americana appare cosa ben diversa e ben più fondata dellapax Britannica o della pax Romana, poiché si fonderebbe su un potere ben più fortee ben più incontrastato. Nothing has ever existed like this disparity of power; nothing.L’Inghilterra dominò al risparmio (on the cheap), avendo un esercito molto inferioreper numero ad altri eserciti europei e disponendo di una marina da guerra pari sol-tanto alla somma delle due marine dei due paesi più vicini; l’America possiedevainvece, all’inizio degli anni 2000, una marina superiore alla somma delle marine daguerra di tutti gli altri paesi del mondo. L’Inghilterra esercitò la sua egemonia suimari avendo però in Europa e in America antagonisti validi, e allo stesso modo, inepoche diverse, Napoleone o Filippo II di Spagna dovettero affrontare nemicipotenti. Carlo Magno costruì un impero che nella sostanza comprendeva soltantol’Europa occidentale. Tutti costoro operarono però in un sistema multipolare. Sol-tanto l’impero romano può essere, per estensione e potenza, paragonato agli StatiUniti, ma anche Roma non fu in grado di organizzare il mondo sotto un dominiounipolare, dal momento che coesistette con almeno due altri potenti imperi, quellodella Persia e quello della Cina. There is no comparison, afferma anche Donnelly, manel senso che nessuno mai, neanche Roma – e qui ovviamente si ricade nell’erroredi un’attualizzante prospettiva globale che ai tempi dell’impero dei Cesari nonpoteva sussistere –, lasciando i barbari fuori dall’impero e non impegnandosi pro-grammaticamente nella loro civilizzazione, concentrò tanto potere. L’impero ame-ricano è il primo vero impero mondiale della storia, nel senso pieno e anche geo-grafico del termine, e la pax Americana è la prima vera pax universalis che il mondo

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27 T. DONNELLY, The Past as Prologue: An Imperial Manual, in «Foreign Affairs», luglio-agosto 2002(http://www.foreignaffairs.com/articles/58069/thomas-donnelly/the-past-as-prologue-an-imperial-man-ual); M. BOOT, The Savage Wars of Peace: Small Wars and the Rise of American Power, New York 2002.28 P. KENNEDY, The Rise and Fall of the Great Powers, New York 1987; ID., Preparing for the

Twenty-first Century, New York 1993; ID., Global Trends and Global Governance, New York 2002.

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abbia conosciuto. Si può discutere sulle modalità di conquista di tale impero: acqui-sito in buona misura in seguito a una sorta d’imperialismo accidentale – che in qual-che modo ripropone il concetto di espansione difensiva per bella iusta con cui si giu-stificò e legittimò giuridicamente e religiosamente gran parte della conquistaromana –, oppure acquisito intenzionalmente attraverso operazioni oggettivamenteimperialistiche anche se mascherate da interventi umanitari, o difensivi, o preven-tivi di possibili attacchi nemici29. Ma che gli Stati Uniti con la loro politica bisecolare intendessero o meno acqui-

sire l’impero del mondo appare sostanzialmente e politicamente irrilevante: ora –sostiene Donnelly – tale impero esiste e occorre assumersi la responsabilità di con-servarlo per il più lungo tempo possibile; e per conservarlo, per conservare ed esten-dere la pax che ne deriva, e che consiste nell’uniformare il mondo ai princìpi dellademocrazia, occorre – come al tempo dei Romani – non ritirarsi dal presidio dellefrontiere (not to retreat from policing the imperial frontier). La rilassatezza dell’eser-cito romano, a dispetto delle opere di difesa, fece a un certo punto abbassare laguardia lungo il confine renano-danubiano, e da lì penetrò, dilagando nel cuore del-

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29 Sul concetto di bellum iustum che percorre la cultura ideologico-religiosa ed etico-politica romanadall’età arcaica a Cicerone fino ad Agostino, cfr. S. ALBERT, Bellum iustum. Die Theorie des gerechtenKrieges und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischerZeit, Kallmünz 1980; M. MANTOVANI, Bellum iustum. Die Idee des gerechten Krieges in der römischenKaiserzei, Bern 1990; M. SORDI (a cura di), Guerra e diritto nel mondo greco e romano, Milano 2002; A.CALORE (a cura di), «Guerra giusta»? La metamorfosi di un concetto antico, Milano 2003; ID., Le formegiuridiche del «bellum iustum», Milano 2003; P. W. ROSE, «The Conquest Continues»: Towards Dena-turalizing Greek and Roman Imperialisms, in «Classical World» 96, 2003, pp. 409-415; F. SINI, «Ut ius-tum conciperetur bellum»: guerra «giusta» e sistema giuridico-religioso romano, in «Diritto @ Storia» 2,marzo 2003 = http://eprints.uniss.it/148/1/Sini_F_Articolo_2003_Ut.pdf; F. ZUCCOTTI, Bellumiustum o del buon uso del diritto romano, in «Rivista di diritto romano» IV, 2004, pp. 1-64 =http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano04zuccotti.pdf; T. J. WEISSEN-BERG, Die Friedenslehre des Augustinus. Theologische Grundlagen und ethische Entfaltung, Stuttgart 2005;A. ZACK, Studien zum ‘Römischen Völkerrecht’. Kriegserklärung, Kriegsbeschluß, Beeidigung und Ratifi-kation zwischenstaatlicher Verträge, internationale Freundschaft und Feindschaft während der römischenRepublik bis zum Beginn des Prinzipats, Göttingen 2007; E. STOLFI, Configurazioni della guerra e con-cetto di «dikaios polemos» nell’esperienza antica: alcune osservazioni, in Studi in onore di Remo Martini,III, Milano 2009, pp. 641-688; contro cui con veemenza F. ZUCCOTTI, Vivagni. X, in «Rivista di dirittoromano» X, 2010, pp. 1-32 = http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoro-mano10ZuccottiVivagni.pdf. Inoltre più in generale, M. WALZER, Just and Unjust Wars: A Moral Argu-ment with Historical Illustrations, New York 19774 (trad. it. Guerre giuste e ingiuste, Napoli 1997); L.BONANATE, La Guerra, Roma, Bari 1998; C. J. N. DE PAULO, Augustinian Just War Theory and the Warsin Afghanistan and Iraq: Confessions, Contentions and the Lust for Power, Frankfurt am Main 2001; A.ASOR ROSA, La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Torino 2002; O. O’DONOVAN, TheJust War Revisited, Cambridge 2003; A. D’ORSI (a cura di), Guerre globali. Capire i conflitti del XXIsecolo, Roma 2003; L. BONANATE, La politica internazionale fra terrorismo e guerra, Roma, Bari 2004;M. EVANS, Just War Theory: A Reappraisal, Edinburgh 2005; D. ZOLO, La giustizia dei vincitori. DaNorinberga a Baghdad, Roma, Bari 2006; M. W. BROUGH, J. W. LANGO, H. VAN DER LINDEN (a curadi), Rethinking the Just War Tradition, Albany NY 2007; CH. V. STARCK (a cura di), Kann es heute nochgerechte Kriege geben?, Göttingen 2008; D. LIEBS, Bellum iustum in Theorie und Praxis, in M. AVENA-RIUS (a cura di), Ars iuris: Festschrift für Okko Behrends zum 70. Geburtstag, Göttingen 2009, pp. 305-318 = http://www.freidok.uni-freiburg.de/volltexte/6863/pdf/Liebs_Bellum_iustum.pdf; C.EILERS (a cura di), Diplomats and Diplomacy in the Roman World, Mnemosyne. Supplements Historyand Archaeology of Classical Antiquity, 304, Leiden, Boston 2009.

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l’impero di Roma, un pericolo mortale per il più grande predecessore dell’imperoamericano; di lì passò la strada che avrebbe portato inesorabilmente alla fine dellapax Romana. Gli USA non devono ripetere lo stesso errore: il problema è che lanuova frontiera dell’unica potenza mondiale non si presenta come un sistema geo-graficamente definito di valli, castella, oppida e palizzate dal Mare del Nord al MarNero, ma s’identifica con il mondo. I barbari non sono oltre il limes ma entro il ter-ritorio. Per gli Stati Uniti, la frontiera da difendere e da presidiare è ovunque: sonol’Iraq e l’Afghanistan come il 38° parallelo, ma è anche Manhattan, all’incrocio fraVesey Street e Church Street, dove in un giorno di settembre del 2001 la frontierafu violata perché la guardia era stata abbassata e lo shock fu simile a quello provo-cato da Marcomanni e Quadi che tra il 166 e il 167 dilagarono in Rezia, in Norico,in Pannonia, fino alla pianura padana orientale. Ciò non deve più verificarsi: chigestisce un impero ha la responsabilità di controllarlo con forza e determinazione.Non si può essere umili egemoni; l’egemonia si garantisce con la forza.Sulla medesima linea si poneva il più recente intervento di Robert Kagan, figlio

di Donald e fratello di Frederick, altro intellettuale di punta del PNAC nonché coau-tore del progetto US Leadership del Carnegie Endowment for International Peace:il suo volume Of Paradise and Power: America and Europe in the New World Order 30è stato per un certo periodo una sorta di summa dottrinale riconosciuta da chi teo-rizzava il divorzio politico-ideologico fra America ed Europa. L’incipit del libro èinequivocabile: It is time to stop pretending that Europeans and Americans share a com-mon view of the world; su tutte le più importanti questioni legate al potere – la suaefficacia, la sua moralità e desiderabilità –, le prospettive americana ed europeadivergono. L’Europa ha scelto di allontanarsi dal potere, o meglio si è mossa oltreil potere, costringendolo in un mondo autocontrollato di leggi e regole e di nego-ziazione e cooperazione transnazionale. È entrata in un post-storico paradiso dipace e relativa prosperità che corrisponde alla realizzazione dell’utopia kantianadella «pace perpetua»31. Al contrario, gli Stati Uniti hanno continuato a rimanereimpantanati nel fango della storia, non rifiutandosi di esercitare il potere in unmondo anarchico e hobbesiano dove leggi e regole internazionali appaiono ormaiirrilevanti e dove la vera sicurezza, come la difesa e la promozione dell’ordine libe-rale, dipendono dal possesso e dall’uso della forza militare. È questa la ragione percui, nelle maggiori questioni strategiche e internazionali, gli americani si compor-tano come «figli di Marte», forti e maschi, mentre gli europei si comportano come

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30 R. KAGAN, Of Paradise and Power: America and Europe in the New World Order, New York 2003(trad. it. Paradiso e potere, Milano 2003).31 I. KANT, Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf, Erlangen 1795. Cfr. G. VOLKER,

Immanuel Kants Entwurf «Zum ewigen Frieden»: eine Theorie der Politik, Darmstadt 1995; J. BOHMAN,Perpetual Peace: Essays on Kant’s Cosmopolitan Ideal, Cambridge MA 1997; e, più recentemente, R. R.TERRA, G. A. DE ALMEIDA (a cura di), Recht und Frieden in der Philosophie Kants, Akten des X. Inter-nationalen Kant-Kongresses, Berlin 2008, vol. 4, pp. 601-612; B. TERMINSKI, The Evolution of theConcept of Perpetual Peace in the History of Political-Legal Thought, in «Perspectivas internacionales:Revista de ciencia política y relaciones internacionales» 6, 2010, pp. 277-291. Si veda inoltre, per altreconsiderazioni sull’applicazione della filosofia kantiana alle realtà di guerra contemporanee, J.LENHARD, Kant and the Liberal Democratic Peace Theory: The Cases of Kosovo, Iraq and Afghanistan,Munich 2010.

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«figli di Venere», deboli e femminei32. Con un’aggravante: oltre a essere deboli efemminei, gli europei, rimproverando agli americani – caricaturalmente, secondoRobert Kagan – di essere dominati da una cultura di morte, tentano subdolamentedi irretire i forti e maschi americani nelle trappole della diplomazia, del diritto edelle istituzioni internazionali. Amore di verità e di giustizia suggeriscono inveceche gli europei accettino quel ruolo subordinato agli Stati Uniti che la loro debo-lezza impone. Soltanto tale condiscendenza alla soggezione rispetto all’unicapotenza mondiale, che si fa carico senza complessi codardi del lavoro sporco di chideve controllare il mondo intero, potrà riportare fra le due sponde dell’Atlanticouna nuova collaborazione, nella rinnovata chiarezza di ruoli fra chi guida il gioco echi deve essere guidato perché incapace di raccogliere e sostenere la sfida del NewWorld Order. Il farsi carico del potere, in un quadro di realismo politico peraltro assai lontano

dagli schemi classici alla Hans Morgenthau33 in quanto riferito non a un mondo inbalance of power, bensì a un inedito mondo unipolare quale quello che si prospet-tava fino ai primi anni del XXI secolo, alimentato ideologicamente dai neoconser-vatori e dalla cosiddetta dottrina Bush 34, avvicina gli Stati Uniti d’America allaRoma imperiale: anche allora, figli di Marte forti e maschi non ebbero paura dimuoversi nel fango del potere per preservare un modello di pax per i tempi tantoavanzato quanto avanzato si mostrerebbe oggi il modello della pax Americana. Dueimperi determinati quanto benevolent, cioè dominanti nel sistema internazionale,ma al fine di diffondere un modello positivo di governo e di preservare un livelloragionevole di pace e prosperità. Una differenza però li separa: a un certo punto ifigli di Marte/Romani fecero l’errore di trasformarsi in figli di Venere e furonoannientati dai nuovi figli di Marte, maschi e puri, giunti d’oltre Danubio. Non è stato questo, tuttavia, l’unico scenario prospettato dall’analisi politica

contemporanea per il futuro del mondo, e il riferimento all’impero di Roma nel con-fronto a distanza con l’impero americano non è stato patrimonio soltanto della

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32 Il paragone «mitologico» di Kagan ha avuto enorme fortuna: è sufficiente consultare la rete peranalizzare la quantità di contributi che, da allora fino a oggi, sono stati prodotti e che si sono molti-plicati anche in riferimento alla grande crisi economica globale innescatasi tra 2007 e 2008. Proprio inriferimento alla contingenza economico-finanziaria degli ultimi anni, si è assistito a un’ulteriore decli-nazione del concetto, in termini non più di prevenzione/reazione bellica, ma di comportamenti diversifra USA ed Europa circa le risposte economiche alla crisi: cfr. ad es., fra i tanti contributi, C. REIER-MANN, M. SAUGA, T. SCHULZ, America Is from Mars, Europe Is from Venus, in «Bloomberg Busines-sweek» March 18, 2009 = http://www.businessweek.com/globalbiz/content/mar2009/gb20090-318_406188.htm.33 Il riferimento d’obbligo è ovviamente al fondamentale H. MORGENTHAU, Politics among Nations.

The Struggle for Power and Peace, New York 1985 (trad. it. Politica tra le nazioni. La lotta per il potere ela pace, Bologna 1997).34 B. WOODWARD, Plan of Attack, New York 2004; A. J. BACEVICH, The New American Militarism:

How Americans are Seduced by War, New York, London 2005; S. HAYES, The Brain: Paul Wolfowitzand the Making of the Bush Doctrine, New York 2005; T. DONNELLY, The Military We Need: The DefenseRequirements of the Bush Doctrine, Washington DC 2005; C. DOLAN, In War We Trust: The Bush Doc-trine And The Pursuit Of Just War, Farnham 2005; I. CHERNUS, Monsters To Destroy: The Neoconserva-tive War on Terror and Sin, Boulder CO 2006; E. A. KOLODZIEJ, R. E. KANET (a cura di), From Super-power to Besieged Global Power: Restoring World Order after the Failure of the Bush Doctrine, Athens GA2008; J. WEISBERG,The Bush Tragedy, New York, London 2008.

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destra neoconservatrice statunitense. Altri studiosi, parimenti autorevoli, hannodelineato una realtà meno inquietante, dove la crescita della potenza unipolare nonsignificava necessariamente subordinazione di fatto di tutti gli altri soggetti politici.Charles Kupchan, professor of International Affairs presso la School of Foreign Ser-vice and Government Department alla Georgetown University, già stretto colla-boratore dell’amministrazione Clinton nel National Security Council, nel suovolume The End of American Era 35 delineava, ad esempio, la possibile fine dell’u-nipolarismo e un inevitabile divorzio Europa / Stati Uniti, che avrebbe portato perònon a un nuovo ordine di subordinazione della prima ai secondi, bensì a una futuraconfrontation bipolare sul piano economico, militare e politico: il futuro vero avver-sario dell’America – secondo un’interpretazione che si rivela oggi, sotto il peso dellacrisi mondiale, quanto mai problematica – avrebbe dovuto essere appunto l’Europae non la Cina, ancora lontana, quando Kupchan scriveva, da livelli di competitivitàadeguati e destinata a essere frenata dalle due future superpotenze, né tanto menoun mondo islamico diviso e rissoso. A prescindere dall’errore di prospettiva storicache gli anni successivi al 2002-2003 hanno palesato, costringendo molti analisti escienziati politici conservatori o liberal a rivedere le loro posizioni36, il punto di rife-rimento storico costante e privilegiato anche per Kupchan era ancora una volta l’im-pero di Roma, con la sua capacità di mantenere a lungo l’unipolarità del potere, maanche con le sue trasformazioni premonitrici: la nascita di Costantinopoli e del-l’impero bizantino per Kupchan rappresentano, ad esempio, un modello tipico dievoluzione dall’unipolarismo alla bipolarità: Bisanzio sta a Roma così come l’Eu-ropa sarebbe dovuta stare nel medio-breve termine agli USA. Considerazionidiverse, ma analogamente orientate in senso positivo rispetto ai pericoli o alle con-traddizioni o quanto meno alle oggettive problematicità di un ordine mondialegestito da un’unica potenza, è possibile ritrovare ad esempio nel pensiero di JohnMearsheimer 37 come in quello di Joseph Nye Jr.38 e di numerosi altri politologi e

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35 CH. A. KUPCHAN, The End of American Era. US Forein Policy and the Geopolitics of the Twenty-first Century, New York 2002 (trad. it. La fine dell’Era Americana. Politica estera americana e geopoli-tica nel ventunesimo secolo, Milano 2003).36 Fondamentale in questo senso l’articolo di F. FUKUYAMA, After Neoconservatism, in «The New

York Times», February 19, 2006 (=http://zfacts.com/metaPage/lib/Fukuyama-2006-After-Neocon-servatism.pdf), poi ulteriormente argomentato in ID., America at the Crossroads: Democracy, Power, andthe Neoconservative Legacy, New Haven CT 2006 (trad. it. America al bivio. La democrazia, il potere el’eredità dei neoconservatori, Torino 2006), e ora, in una visione storica globale, ID., The Origins of Polit-ical Order: From Prehuman Times to the French Revolution, London 2011; anche R. KAGAN, del resto,ha rivisto, sia pure in maniera meno decisa, le proprie posizioni in American Power and the Crisis ofLegitimacy, New York 2004, e in The Return of History and the End of Dreams, New York 2008. Cfr.pure M. C. NAVES, La fin des néoconservateurs?, Paris 2009; C. B. THOMPSON, Neoconservatism: AnObituary for an Idea, with Y. BROOK, Boulder CO 2010.37 J. J. MEARSHEIMER, The Tragedy of the Great Power Politics, New York, London 2001 (trad. it. La

logica di potenza. L’America, le guerre, il controllo del mondo, Milano 2003), e ora pure ID., The GatheringStorm: China’s Challenge to US Power in Asia, in «The Chinese Journal of International Politics» 3, 4 (Win-ter 2010), pp. 381-396; ID., Imperial by Design, in «The National Interest» 111 (January/February2010), pp. 16-34; ID., Why Leaders Lie: The Truth About Lying in International Politics, New York2011.38 J. S. NYE JR., The Paradox of American Power. Why the World’s only Superpower Can’t Go it

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scienziati della politica che, specie dopo l’11 settembre e le drammatiche conse-guenze che ne sono derivate, hanno riflettuto sull’evoluzione progressiva del ruolodell’America e del suo supposto o negato «impero» nel contesto mondiale39.Ogni analisi, comunque ideologicamente orientata, insomma, non può non con-

statare il dato di fatto che gli Stati Uniti, dopo il crollo dell’Unione Sovietica,abbiano accumulato un potere e un’influenza culturale così ampi e pervasivi da tro-vare ben pochi paragoni storici. In termini politici, economici, militari e culturaliappare, anzi, sostanzialmente appropriata soltanto la comparazione con l’impero diRoma. Nella previsione di Kupchan e di Nye all’indomani dell’11 settembre, tut-tavia, poiché i problemi globali del terrorismo, del degrado ambientale, della proli-ferazione degli armamenti di distruzione di massa non sono risolvibili senza il con-corso delle altre nazioni e degli altri popoli, si sarebbe determinato un singolareparadosso, per cui più fosse cresciuta la dimensione del potere americano, piùsarebbe aumentata la necessità della cooperazione e della condivisione delle respon-sabilità e delle decisioni. Dall’unipolarità, quindi, finita l’Era Americana, si sarebbedovuti passare a una nuova realtà di multiporalismo concorde e solidale: l’incontrodella Nuova Roma e dei nuovi barbari, superata forse definitivamente la fase delloscontro delle civiltà, avrebbe potuto allora tradursi da fattore disgregante e di crisiin principio di aggregazione e sviluppo. Sappiamo che così non è stato: da un latola crescita imponente dei paesi del cosiddetto BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e

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Alone, Oxford 2002; e, in seguito, ID., Soft Power. The Means to Success in World Politics, New York2004; ID., The Powers to Lead, Oxford 2008.39 CH. JOHNSON, Blowback. The Costs and Consequences of American Empire, New York 2000; E.

TODD, Après l’empire. Essai sur la décomposition du système américain, Paris 2002; R. MURRAY, TheDecline and Fall of the American Empire, Reno NV 2002; A. J. BACEVICH, American Empire. The Reali-ties and Consequences of U.S. Diplomacy, Cambridge MA, London 2002; ID. (a cura di), The ImperialTense. Prospects and Problems of American Empire, Chicago 2003; B. R. BARBER, Fear’s Empire. War,Terrorism, and Democracy in an Age of Interdependence, New York 2003; P. BENDER, WeltmachtAmerika – Das Neue Rom, Stuttgart 2003; A. JOXE, L’empire du chaos, Paris 2003; M. IGNATIEFF,Empire Lite. Nation Building in Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Toronto 2003; S. ROMANO, Il rischio ame-ricano. L’America imperiale, l’Europa irrilevante, Milano 2003; F. ZAKARIA, The Future of Freedom. Illib-eral Democracy of Home and Abroad, London, New York 2003; E. MEIKSINSWOOD, Empire of Capi-tal, London, New York 2003; M. MANN, Incoherent Empire, London, New York 2003; I.WALLERSTEIN, The Decline of American Power, New York, London 2003; R. BURBACH, J. TARBELL,Imperial Overstretch. George W. Bush and the Hubris of Empire, Black Point-Nova Scotia, Bangalore,Beirut, Kuala Lampur, Cape Town, London, New York 2004; N. FERGUSON, Colossus. The Rise andFall of the American Empire, New York 2004; CH. JOHNSON, The Sorrows of Empire. Militarism, Secrecy,and the End of the Republic, New York 2004; J. GARRISON, America as Empire. Global Leader or RoguePower?, San Francisco 2004; M. MANDELBAUM, The Case for Goliath. How America Acts as the World’sGovernment in the 21st Century, New York 2005; G. J. IKENBERRY, Liberal Order and Imperial Ambition.Essays on American Power and World Politics, Cambridge 2006; CH. JOHNSON, Nemesis. The Last Daysof the American Republic, New York 2006; B.-H. LÉVY, American Vertigo, Paris 2006; J. JOFFE, Über-power. The Imperial Temptation of America, New York, London 2006; C. MURPHY, Are We Rome? TheFall of an Empire and the Fate of America, Boston, New York 2007; CH. LAYNE, B. A. THAYER, Amer-ican Empire. A Debate, New York, London 2007; T. G. CARPENTER, Smart Power. Toward a PrudentForeign Policy for America, Washington DC 2008; M. DEL PERO, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e ilmondo 1776-2006, Roma, Bari 2008; F. ZAKARIA, The Post-American World, New York, London2008; A. J. BACEVICH, The Limits of Power. The End of American Exceptionalism, New York 2009.

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di altre realtà in progresso dell’ex secondo o terzo mondo; dall’altro la crisi globaleche ha investito pesantemente prima (dal 2007) gli Stati Uniti e poi l’Europa e l’in-tero mondo occidentale, hanno determinato un sostanziale ridimensionamentodella leadership mondiale statunitense. I politologi liberal dei primissimi anni delsecolo si auguravano che l’impero della Nuova Roma dimostrasse di avere appresoin positivo la lezione della Vecchia Roma, correggendone gli errori e portando acompimento quel processo di integrazione paritaria dei barbari che la Vecchia Romanon era stata in grado di definire e condurre a termine. I nuovi equilibri globali delXXI secolo invertono di fatto il rapporto: i nuovi soggetti leader della politica e del-l’economia lentamente corrodono il potere unipolare USA e si propongono, se noncome alternativa, come cogestori dell’ordine mondiale. Kupchan nel 2002 propo-neva un paragone con il IV secolo d.C., allorché l’impero romano si divise in due conla scissione dell’impero d’Oriente con capitale Costantinopoli/Bisanzio, centro cheavrebbe rapidamente sorpassato la pars Occidentis da ogni punto di vista condan-nandola al declino e alla caduta. Allo stesso modo, l’incapacità degli Stati Uniti dimantenere unito l’Occidente avrebbe presto determinato l’instaurarsi di una diar-chia Europa / Stati Uniti, ove gli stati della UE si sarebbero posti gradualmente incondizione di parità, se non di superiorità economica rispetto agli Stati Uniti. Glieventi storici si sono finora incaricati di contraddire la profezia di Kupchan: men-tre, infatti, prolifera presso intellettuali, storici e politologi un esercizio spesso nonbanale di comparazione degli imperi, che analizza il ruolo degli Stati Uniti comeultima, o più spesso penultima, tappa di una translatio risalente all’antichità, e cheapprofondisce soprattutto le tematiche del decline and fall dei sistemi multinazio-nali40, vi è chi ha creduto di individuare la caratteristica ineunte del nostro temponel passaggio progressivo dall’unipolarità americana all’architettura di un ordineinternazionale basato sulla convivenza concorrenziale di tre imperi: gli stessi StatiUniti, l’Unione Europea e la Cina41. La crisi economica che tuttora imperversa hariaperto, tuttavia, ancora una volta i giochi sullo scacchiere mondiale, così come ilruolo del fondo sovrano cinese, che dal 2008 è protagonista del mercato globalecontrollando in particolare il debito statunitense, dà alla potenza asiatica unafacoltà di condizionamento fino a qualche anno fa impensabile42. La crisi ha poi

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40H. MÜNKLER, Imperien. Die Logik der Weltherrschaft, vom Alten Rom bis zu den Vereinigten Staa-ten, Berlin 2005; C. S. MAIER, Among Empires. American Ascendancy and Its Predecessors, CambridgeMA, London 2006; A. CHUA, Day of Empire. How the Hyperpowers Rise to Global Dominance and WhyThey Fall, New York, London, Toronto, Sydney, Auckland 2007; R. BEN-GHIAT (a cura di), Gli imperi.Dall’antichità all’età contemporanea, Bologna 2009; R. ROMANELLI (a cura di), Impero, imperi. Unaconversazione, Napoli, Roma 2010; T. H. PARSONS, The Rule of Empires. Those who Built Them, ThoseWho Endured Them, and Why They Always Fall, Oxford 2010; J. BYIBANK, F. COOPER, Empires inWorld History. Power and Politics of Difference, Princeton, Oxford 2010.41 P. KHANNA, The Second World. Empires and Influence in the New Global Order, New York 2008

(trad. it. I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo, Roma 2009).42 S. ZHAO, China and the United States: Cooperation and Competition in Northeast Asia,

Basingstoke 2008; A. ARDUINO, Il fondo sovrano cinese, Milano 2009; F. LENGLET, La guerre desempires: Chine contre Etats-Unis, Paris 2010; J.-P. CABESTAN, La politique internationale de la Chine.Entre intégration et volonté de puissance, Paris 2010; P. COHEN, L. RICHARD, Le Vampire du milieu:Comment la Chine nous dicte sa loi, Paris 2010; MEARSHEIMER, The Gathering Storm cit., pp. 381-396;

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altresì ridimensionato fortemente l’ipotesi di un consolidamento progressivo del-l’Unione Europea, oggi in forte crisi d’identità e incapace di compiere quel salto diqualità sul piano politico ed economico che gli analisti le accreditavano. Insomma,il gioco della «successione imperiale» appare a oggi del tutto aperto, mentre defi-nitivamente tramontata è l’ipotesi di riedizione di un modello romano di organiz-zazione del mondo secondo un’unica, omogenea e condivisa tipologia di governance:in questo senso, e in tutt’altra prospettiva rispetto a Kupchan, può riproporsi sem-mai il paragone con l’età tardoantica, almeno dal punto di vista della coesistenza dipoteri forti impegnati nell’incerto gioco della leadership mondiale fino al momentodel crollo dell’impero occidentale, per poi cedere lo scettro del dominio ai barbaritransrenani e transdanubiani. Un avvicendamento ovest-est che anche oggi rischiadi prodursi con analoghi esiti, sebbene indotti non dalle regole della superioritàmilitare, ma da quelle, altrettanto irresistibili, delle leggi economiche.

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A. BRUNET, J.-P. GUICHARD, La visée hégémonique de la Chine – L’impérialisme économique, Paris2011; R. FOOT, A. WALTER, China, the United States, and Global Order, New York 2011; E.IZRAELEWICZ, L’arrogance chinoise, Paris 2011; A. L. FRIEDBERG, A Contest for Supremacy. China,America, and the Struggle for Mastery in Asia, New York, London 2011; M. D. SWAINE, America’sChallenge. Engaging a Rising China in the Twenty-First Century, Washington DC, Moscow, Beijing,Beirut, Brussels 2011; H. KISSINGER, On China, New York 2011; D. CUCINO, Tra poco la Cina. Gliequilibri del mondo prossimo venturo, Torino 2012.

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«Soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Modelli di comunicazione mediatica fra mondo

contemporaneo e mondo romano*

Gli studi recenti sull’impatto sociale prodotto nel secolo scorso dai principalimedia, radio e televisione, in relazione alla loro progressiva diffusione fino alla lorofruizione universale e di massa, hanno consentito di pervenire a risultati sorpren-denti1. Quando ad esempio negli anni Venti e Trenta, prima in America2 e poi in

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* Il testo di questo capitolo è un contributo inedito che riprende, aggiornandole, alcune tematichedi fondo trattate in S. RODA, Comunicazione epigrafica e società romana tra alto e tardo impero, relazionepresentata in occasione della LII Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo,“Comunicare e significare nell’alto medioevo” (Spoleto, 15-20 aprile 2004), e per diverse ragioni nonconsegnata al momento della pubblicazione degli atti. L’espressione, fra virgolette nel titolo, che ci èparso potesse sintetizzare perfettamente la sostanza di quanto si intendeva qui esporre, è ovviamentedi U. BECK, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Berlin 1986, pp. 133-137 (trad. it.La società del rischio: verso una seconda modernità, Roma 2000), in seguito ripetutamente ripresa – cfr.Z. BAUMAN, Liquid Modernity, Cambridge 2000; M. ARCANGELI, Lingua e società nell’era globale,Milano 2005, p. 108; Z. BAUMAN, Wasted Lives, Oxford 2004 (trad. it. Vite di scarto, Roma, Bari2007); N. DOLBY, F. RIZVI, Youth Moves: Identities and Education in Global Perspective, New York,Abingdon 2008, pp. 117-119; M. P. SO/RENSEN, A. CHRISTIANSEN, Ulrich Beck: An Introduction to theTheory of Second Modernity and the Risk Society, New York, Abingdon 2013, pp. 49-50.1 Cfr. P. ORTOLEVA, La radio e il suo pubblico: verso una storia degli ascoltatori, in F. MONTELEONE

(a cura di), La radio: storia di sessant’anni 1924-1984, Catalogo della Mostra (Torino, 10 dicembre 1984- 31 gennaio 1985), Torino 1984, pp. 54-59, puntuale e acuta disamina tuttora pienamente valida e acui siamo debitori per l’impostazione iniziale del presente contributo; A. BELLOTTO, Cinquant’anni diradio in Italia 1924-1940: URI ed EIAR, in «Vita e Pensiero» 4, 1974, pp. 317-325; G. ISOLA, Abbassa latua radio per favore. Storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista, Firenze 1990; ID., L’immagine delsuono. I primi vent’anni della radio italiana, Firenze 1991; F. MONTELEONE, Storia della radio e della tele-visione in Italia. Società, politica, strategie, programmi 1922-1992, Venezia 2003 (1992), pp. 39-194. Piùin generale, P. ORTOLEVA, B. SCARAMUCCI (a cura di), Enciclopedia della Radio, Milano 2003; G.GOLA, Tra pubblico e privato. Breve storia della radio in Italia, Cantalupa (To) 2003; G. CORDONI, P.ORTOLEVA, N. VERNA, Le onde del futuro. Presente e tendenze della radio in Italia, Milano 2006; P.ORTOLEVA, Il secolo dei media. Riti credenze abitudini, Milano 2009; A. SANGIOVANNI, Le parole e le fi-gure. Storia dei media in Italia dall’età liberale alla seconda guerra mondiale, Roma 2012.2 E. BARNOUW, A History of Broadcasting in the United States, New York 1966; S. J. DOUGLAS,

Inventing American Broadcasting, 1899-1922, Baltimore 1987; G. L. JACKAWAY, Media at War: Radio’sChallenge to the Newspapers, 1924-1939, Westport 1995; M. HILMES, Radio Voices: American Broad-casting, 1922-1952, Minneapolis 1997; R. J. BROWN, Manipulating the Ether: The Power of BroadcastRadio in Thirties America, Jefferson 1998; G. NACHMAN, Raised on Radio, New York 1998; C. SCOTT,History of the Radio Industry in the United States to 1940, in EH.Net Encyclopedia, 26 marzo 2008 =http://eh.net/encyclopedia/article/scott.radio.industry.history.

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Europa3, si registrò il trionfo sociale e politico di un modello di radiofonia basatosull’ascolto massificato, supportato dalle nuove dimensioni industriali assunte dalla«parola elettrica»4 da un lato, e sulla gestione autoritaria dell’emittenza portavocedi regime5 dall’altro, la vittoria fu però – secondo gli studiosi6 – tutt’altro che com-pleta: in prima istanza perché, una volta affermatosi il principio della radiofonia dimassa contro la tradizione amatoriale del puro divertimento domestico che aveva alungo caratterizzato la radio delle origini, restava ancora interamente da costruireun effettivo pubblico di massa. Occorreva cioè allargare, e non solo per i regimitotalitari, i confini e le dimensioni sociali del consenso, coinvolgendo quei cetipopolari che all’inizio degli anni Trenta erano ancora quasi del tutto esclusi dallaradio7. In seconda istanza perché, come ci hanno ben dimostrato le testimonianzeorali raccolte nella seconda metà del Novecento, «la diffusione della radio verso iceti più poveri avrebbe riproposto, nel corso degli anni Trenta, quella dialettica trala radio come hobby e la radio come strumento di ascolto passivo che, nella bor-ghesia medio-alta, appariva già risolta alla fine degli anni Venti»8. Nel corso deldecennio successivo, la radio avrebbe fatto breccia presso i ceti operai «soprattuttocome hobby, portandosi spesso dietro aspetti di rifiuto della programmazione domi-nante, di attenzione alla programmazione estera, di curiosità pura e semplice, chenon possono essere dimenticati se si vuole ricostruire bene una storia dell’ascoltodelle radio estere, e di quelle clandestine, nell’Italia tra il 1935 ed il 1943. Dopo di

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3W. B. LERG, Die Rundfunkpolitik der Weimarer Republik, in H. BAUSCH (a cura di), Rundfunk inDeutschland, vol. I, München 1980; A. DILLER, Rundfunkpolitik im Dritten Reich; ibid., vol. II; W.KLINGER, Nazionalsozialistische Rundfunkpolitik, Mannheim 1983; J.-F. REMONTÉ, Les Années Radio,Paris 1989; P. SCANNELL, D. CARDIFF, A Social History of British Broadcasting, 1922-1939, London1991; C. MEADEL, Histoire de la radio des années trente. Du sans-filiste à l’auditeur, Paris 1994; I. MARS-SOLEK, A. VON SALDEM (a cura di), Zuhören und Gehörtwerden, vol. I: Radio im Nationalsozialismus.Zwischen Lenkung und Ablenkung, under mitarbeit von D. MÜNKEL, M. PATER, U. C. SCHMIDT,Tübingen 1998; F. D’ALMEIDA, C. DELPORTE, Histoire des médias en France, de la Grande Guerre à nosjours, Paris 2003; K. DUSSEL, Deutsche Rundfunkgeschichte, Uni-Taschenbücher UTB, 2573, Konstanz20042.4 L. MATTEUCCI (a cura di), La Parola elettrica, Roma 1982; MONTELEONE, Storia della radio cit.,

pp. 45-80; R. DAVANZO, R. A. RUSSO, D’onde radio: dai cursori al web: storia di una rivoluzione italiana,Milano 2000, p. 128.5 Cfr. in generale P. V. CANNISTRARO, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma, Bari

1975, pp. 225-234; A. MONTICONE, Il fascismo al microfono: radio e politica in Italia, 1924-1945, Roma1978; C. CAPPADONNA, L’uso dei mezzi di comunicazione di massa ai fini di propaganda durante il fasci-smo, con particolare riferimento alla radio, Milano 1990; D. THOMPSON, State Control in Fascist Italy:Culture and Conformity, 1925-1943, Manchester, New York 1991; E. GENTILE, Il culto del littorio,Roma, Bari 1993; ISOLA, Abbassa la tua radio, per favore cit.; ID., L’ha scritto la radio: storia e testi dellaradio durante il fascismo (1924-1944), Milano 1998; M. GRILLI, La propaganda radiofonica del fascismo.Il nuovo mass media al servizio del regime, in «InStoria, rivista online di storia & informazione», 25 giu-gno 2007 = http://www.instoria.it/home/propaganda_radiofonica_fascismo.htm; più in generale,S. LANARO, Retorica e politica. Alle origini dell’Italia contemporanea, Roma 2011.6 ORTOLEVA, La radio cit., p. 57.7MONTELEONE, Storia della radio cit., pp. 27-80.8 ORTOLEVA, La radio cit., p. 57; per il caso peculiare della Francia cfr. C. MÉADEL, Programmes

en masse, programmes de masses? La diffusion de la radio en France pendant les années trente, in R. ROBIN(sous la direction de),Masses et culture de masse dans les années 30, Paris 1991, pp. 51-68; EAD., Histoirede la radio des années trente, Paris 1994; CH. BROCHAND, L’histoire générale de la radio et de la télévisionen France, tome I: 1921-1944, Paris 1994.

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allora, completandosi la diffusione della radio in tutti gli stati e in tutte le regioni,il dilettantismo radiofonico avrebbe intrapreso una propria via, totalmente sepa-rata rispetto al broadcasting»9.I meccanismi di diffusione della comunicazione, la proiezione strumentale e la

qualità sociale della ricezione della stessa, dunque, non sempre obbediscono a para-metri preordinati o rispondono a logiche prevedibili e scontate.Sempre l’esempio della diffusione della radiofonia nell’Italia fascista riconduce

ad altre considerazioni di fondo, di validità non contingente ma tendenzialmenteuniversale, anche di là dalle contingenze temporali e dai contesti storici, sul com-plesso e spesso anomalo funzionamento delle connessioni sociocomunicative. Nel 1933 – con l’avvio dell’Ente Radio Rurale, costituito «al fine di contribuire

alla elevazione morale e culturale delle popolazioni rurali»10, attraverso l’iniziativadei «pionieri dell’EIAR», autentici agit-prop della radiofonia secondo l’efficace defi-nizione di Peppino Ortoleva11 – con la prima Mostra Nazionale della Radio, il fasci-smo italiano intraprese una meditata operazione di utilizzo, promozione e stru-mentalizzazione politica del nuovo medium di comunicazione12. Fu anche in seguitoa tale indirizzo dato all’azione di acquisizione del consenso che negli anni Trenta laradiofonia assunse rapidamente i tratti di un fenomeno di massa, come dimostra lacrescita degli abbonamenti, da meno di 100.000 nel 1929 fino a oltre 1.300.000 nel1940, all’alba del conflitto mondiale. Lo stimolo propagandistico a fini dichiaratamente politici messo in atto per

diffondere l’uso del nuovo strumento anche presso i ceti meno abbienti trovòindubbiamente sostegno nell’intrinseca attrazione che la radio esercitava – e di cuiè nello stesso tempo prova e riflesso la popolarità di molti programmi, divenuti neglianni Trenta veri e propri fenomeni di seduzione collettiva13 –, mentre contribui-vano alla sua diffusione (dato questo, evidentemente, non solo italiano ma univer-sale) il progressivo calo dei costi degli apparecchi e la loro semplicità in termini diutilizzo e gestione dell’ascolto. Come ogni fenomeno di massa, la diffusione dellaradio trovò un moltiplicatore nel processo di imitazione e nel fatto che divennepressoché indispensabile possederla, ove si intendesse mantenere o acquisire accet-tabilità e prestigio sociale.

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«SOLUZIONI BIOGRAFICHE A CONTRADDIZIONI SISTEMICHE»

9 ORTOLEVA, La radio cit., p. 57.10 S. ZAMBOTTI, La scuola sintonizzata. Pratiche di ascolto e immaginario tecnologico nei programmi

dell’Ente Radio Rurale (1933-1940), Torino 2007.11 ORTOLEVA, La radio cit., p. 57.12 GRILLI, La propaganda radiofonica del fascismo cit.13 Si pensi ad esempio alla rivista radiofonica musical-umoristica di Angelo Nizza e Riccardo Mor-

belli, I Quattro Moschettieri, andata in onda dal 1934 al 1937, primo caso tra l’altro di mirata sponso-rizzazione di emissioni radio, dal momento che la trasmissione era abbinata a un concorso a premi delladitta Buitoni-Perugina, a sua volta basato su una raccolta di figurine, alcune delle quali particolarmenterare e difficili da trovare (emblematica in questo senso la rarità e, di conseguenza, la ricerca spasmo-dica della figurina rappresentante Il Feroce Saladino), cfr. F. CHIAPPARONO, R. COVINO, Consumi eindustria alimentare in Italia dall’Unità a oggi, Perugia 2002; C. PRINCIPATO, «Siamo dignitosamente fieredi avere vissuto così». Memoria della Resistenza e difesa della Costituzione. Scritti e discorsi, a cura di M.CASTOLDI, Ravenna 2010, pp. 23-24; SANGIOVANNI, Le parole e le figure cit., pp. 200-228. La ripro-duzione di tutte le figurine del concorso è reperibile in http://www.cartesio-episteme.net/calcio/peru-gina/perugina.htm (cfr. A. FAETI, Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l’infanzia, Roma20112, pp. 323-330).

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Ma, come sottolinea ancora Ortoleva, tra il progetto fascista di promozione dellaradio e le tendenze spontanee che portarono al suo sviluppo vi fu non soltanto pienaconvergenza, ma anche tensione e contraddizione14. Il regime comprese come, unavolta verificato il potenziale carattere di massa del nuovo mezzo, fosse indispensabileeducare il pubblico fino a plasmare quella che poteva esser definita come una inedita«coscienza radiofonica»15; tale operazione avrebbe consentito di utilizzare la radiocome uno degli strumenti più efficaci per la costruzione fascista della società. Mus-solini, che aveva ben compreso le potenzialità pedagogiche e propagandistiche delmezzo e intendeva invertire il trend elitario (ed eccessivamente esterofilo-libertario)che l’ascolto radiofonico aveva fino allora seguito, lanciò la campagna «Il villaggiodeve avere la radio» (per l’ascolto di massa), in concomitanza con lo slogan di matricee conio hitleriano «La radio in ogni casa» (per l’ascolto individuale)16. La nascita del-l’Ente Radio Rurale, organo rivolto principalmente agli studenti nel corso della setti-mana e agli agricoltori la domenica, va indubbiamente in questa direzione, così comealtrettanto significativa, nella medesima ottica, fu l’imposizione all’industria dicostruire un apparecchio radio a basso costo, il RadioRurale, diffuso presso le fami-glie, ma che in particolare tutte le scuole – peraltro non senza sforzi economici talorasorretti da espedienti fantasiosi (come lotterie, donazioni sollecitate, collette fra lefamiglie e i maggiorenti locali) – si affrettarono ad acquistare per promuovere l’ascoltocollettivo da parte di insegnanti e allievi dei programmi, in particolare quelli, comeallora si sottolineava, «dall’impronta vigorosa, fascista e guerriera»17.

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14 ORTOLEVA, La radio cit., p. 57.15 Annuario EIAR, Roma 1929, p. 35: qui Raoul Chiodelli, direttore generale dell’EIAR, dichiarava:

«Abbiamo a disposizione il mezzo più potente di cultura, di moralizzazione, di diletto, che esista; man-cheremmo in pieno alla nostra missione, se non usassimo tutti i nostri sforzi per utilizzarlo nel modomigliore e più vasto. Ma contemporaneamente occorre creare una coscienza radiofonica in Italia». Cfr.A. L. NATALE, La radio. Usi e funzioni di un medium eclettico, in A. CAVICCHIA SCALAMONTI, G. PEC-CHINENDA (a cura di), Sociologia della comunicazione. Media e processi culturali, Napoli 2001, pp. 219-236, in particolare pp. 225-226.16 GRILLI, La propaganda radiofonica del fascismo cit.; SANGIOVANNI, Le parole e le figure cit., pp.

164-227; M. LUCCHETTI, 101 Storie su Mussolini che non ti hanno mai raccontato, Roma 2012, p. 42;sulla politica nazista di radiodiffusione e sulla propaganda della «radio in ogni casa» anche attraversola diffusione del famoso apparecchio Volksempfänger detto anche VE 301 in onore del giorno, 30 gen-naio, in cui Hitler salì al potere, cfr. U. C. SCHMIDT, Der Volksempfänger. Tabernakel moderner Mas-senkultur, in I. MARßOLEK, A. VON SALDERN (a cura di), Radiozeiten. Herrschaft, Alltag, Gesellschaft(1924-1960), Potsdam 1999, pp. 136-159; W. KÖNIG, Der Volksempfänger und die Radioindustrie. EinBeitrag zum Verhältnis von Wirtschaft und Politik im Nationalsozialismus, in «Vierteljahreshefte fürSozial- und Wirtschaftsgeschichte» 90, 2003, pp. 269-289; ID.,Mythen um den Volksempfänger. Revi-sionistische Untersuchungen zur nationalsozialistischen Rundfunkpolitik, in «Technikgeschichte» 70,2003, pp. 73-102; ID., Volkswagen, Volksempfänger, Volksgemeinschaft. «Volksprodukte» im DrittenReich: vom Scheitern einer nationalsozialistischen Konsumgesellschaft, Paderborn 2004; D. MÜHLENFELD,Joseph Goebbels und die Grundlagen der NS-Rundfunkpolitik, in «Zeitschrift fürGeschichtswissenschaft» 54, 2006, pp. 442-467; A.-G. POLLEX, Rundfunk im Dritten Reich – derVolksempfänger als Sprachrohr der nationalsozialistischen Propaganda, Norderstedt 2010. Interessante laricostruzione del clima e del contesto in cui maturò nella Germania nazista il progetto «una radio inogni casa» e la scelta della denominazione Volksempfänger - VE 301 per l’apparecchio base destinato adare vita concreta al progetto, che compare nel bestseller della scrittrice australiana A. FUNDER, AllThat I Am, London 2011 (trad. it. Tutto ciò che sono, Milano 2012).17 Cfr. Relazione del comitato superiore di vigilanza sulle radiodiffusioni del 31 ottobre 1931, Roma

1932, p. 7; in generale MONTICONE, Il fascismo al microfono cit., pp. 87-93, 382; E. D’AMBROSIO, A

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Si trattò insomma, da parte del regime, di uno sforzo – ben calcolato e ben modu-lato nella struttura, nell’articolazione e nei contenuti del palinsesto delle trasmissioni– di plasmare un pubblico secondo le direttive ideologiche fondamentali del fascismo;il che naturalmente implicava una sottolineatura specifica dell’aspetto di formazione,aggregazione e conferma del consenso affidato all’efficacia dei messaggi divulgati dallaradio, trascurando qualsiasi attenzione per una verifica effettiva dei gusti e delle esi-genze del pubblico. Lo scopo era quello, attraverso la radio, di costruire un idem sen-tire che poteva emergere soltanto da un ascolto non solo imbevuto di significati e temipropagandistici, ma mediato attraverso «luoghi d’ascolto compatti, controllabili,omogenei: da un lato le organizzazioni collettive, dall’altro il focolare domesticointeso come sede di una specifica, e fondamentale, istituzione, la famiglia»18. La sintesi degli obiettivi e della funzione che il fascismo attribuiva alla radio e al

suo ascolto collettivo o domestico, che poteva raggiungere ambiti geografici e sociali(compresa l’alta percentuale di italiani analfabeti) difficilmente raggiungibili dallapolitica della parola o della stampa, era dunque sostanzialmente quella di unificare ilpaese, di là dalle enormi differenze di livelli culturali e di ceto, attorno non solo alleparole d’ordine ma anche ai modelli di vita e alla way of life che il regime proponevae imponeva. Il presidente dell’EIAR Chiodelli affermava in effetti nel 1939, con unacerta esagerazione che precorreva più che illustrare la realtà, come la radio avesse resopossibile la trasformazione di tutto il paese in «un colossale arengo» e avesse con-sentito il contatto diretto «del Capo/Duce con la folla»19. La radio adempiva anchea un compito complementare ma non meno significativo per il regime, e cioè la ricom-posizione di momenti lunghi di unità famigliare, che, ristabilendo «il focolare nellacasa che gli sports, i teatri, i passatempi e tutte le altre diavolerie avevano resodeserta»20, riproponevano modelli patriarcali di comportamento domestico: talimodelli apparivano fortemente funzionali all’organizzazione del consenso, sia perchéla saldatura del nucleo famigliare intorno ai messaggi di esaltazione del regime e dellevirtù classiche della domus (mutuate in una pretesa continuità dall’antico passatoromano fino all’era fascista) fungeva da moltiplicatore alla forza penetrante dei mede-simi contenuti, sia perché distraeva le masse da passatempi collettivi «esterni», peri-

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scuola col duce: l’istruzione primaria nel ventennio fascista, Como 2001, pp. 72-75; MONTELEONE, Sto-ria della radio cit., pp. 61-62; E. MATARAZZO, La Rai che non vedrai. Idee e progetti sul servizio pubblicoradiotelevisivo, Milano 2007, pp. 24-35; SANGIOVANNI, Le parole e le figure cit., pp. 200-227; G. VAN-NUCCHI, F. VISINTIN, Radiofonia e televisione: era analogica, in V. CANTONI, G. FALCIASECCA, G.PELOSI (a cura di), Storia delle telecomunicazioni, Firenze 2011, vol. I, pp. 472-473.18 ORTOLEVA, La radio cit., p. 58.19 Annuario EIAR, Roma 1940; cfr. R. CHIODELLI, La radio nel ventennale, Torino 1942; NATALE,

La radio cit., pp. 229-230.20 L’affermazione compare nel primo numero del 1930 dell’organo ufficiale dell’EIAR, il «Radio-

corriere», p. 9: «La Radio dovrebbero benedire tutti gli uomini e tutte le donne. La Radio ha ristabi-lito il focolare nella casa che gli sports, i teatri, i passatempi e tutte le altre diavolerie avevano resodeserta [...]. Essa ha già ridestato buone usanze antiche e famigliari: le riunioni patriarcali di un tempo:il culto della casa, insomma». Il concetto viene ribadito nella stessa sede due numeri dopo («Radio-corriere» 3, 1930, p. 5) dal senatore Giovanni Agnelli, che ivi interpellato ebbe ad affermare: «L’e-norme portata morale della radio è dimostrata dal fatto che essa riunisce intorno a sé i membri dellafamiglia, anima giocondamente la casa intera, fonde nelle sue armonie quelle asprezze e disuguaglianzedi umore e di abitudini, che nella casa silenziosa allontanano i giovani dai vecchi», citato in M. EMA-NUELLI, 50 anni di storia della televisione attraverso la stampa settimanale, Milano 2004, pp. 11-34.

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colosi non tanto perché «diavolerie» del tempo, quanto perché (si pensi al teatro o alcinema) potenziali veicoli di proposte ideologiche alternative non del tutto control-labili dall’occhio censorio. Ma le aspettative del regime erano destinate a essere inparte deluse, se è vero che il «referendum EIAR» del 1940, il solo vero «sondaggio»effettuato in epoca fascista21, diede risultati sorprendenti in tal senso: i condiziona-menti ovvii che un sondaggio proposto da un regime autoritario dovette certamentesubire non furono infatti sufficienti a celare la realtà di un pubblico radiofonico – inmaggioranza appartenente alla piccola borghesia, al ceto impiegatizio pubblico e pri-vato e al ceto artigiano, e in seconda battuta al ceto dei professionisti e dei dirigenti,mentre pochi risultavano gli ascoltatori delle classi operaia e contadina, ma anche deilivelli più elevati e abbienti della società – che gradiva il giornale radio e le rubrichededicate al mondo del lavoro (in particolare Radio sociale), apprezzava i programmidi intrattenimento e quelli comici e musicali leggeri, preferendo le canzonette all’o-peretta fino allora premiata dai consensi, ma non amava affatto né i programmi poli-tici né quelli religiosi. Scarsa pareva dunque la permeabilità all’indottrinamento, siadiretto sia indiretto, e nella radio si cercava soprattutto, per un verso, la pura eva-sione e il disimpegno distraente, e, per l’altro, la cronaca quotidiana, mentre il pro-getto di unificazione social-nazionale e familiare attorno al nuovo mezzo e alle paroled’ordine da esso trasmesse si scontrava e soccombeva di fronte al permanere delledivisioni sociali, delle differenze generazionali e della ricerca della soddisfazione indi-viduale, certo prioritaria rispetto agli interessi collettivi del regime22.La diffusione della radio, nuovo strumento comunicativo, inedito per forza di

penetrazione e per potenzialità informativa, si traduce dunque in un effetto socialedai connotati quasi sovvertitori: essa contribuisce in buona misura a innescare ecomunque ad alimentare fortemente un fenomeno di trasformazione dai tratti epo-

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21 Referendum EIAR 1940-18. Organizzazione e risultati statistici, Torino 1940; A. PAPA, Storia poli-tica della radio in Italia, II, Napoli 1978, p. 80; ORTOLEVA, La radio cit., p. 58; D. FORGACS, S.GUNDLE, Cultura di massa e società italiana, 1936-1954, Bologna 2007, pp. 88-91.22 A. L. NATALE, Il referendum radiofonico del 1940, in «Problemi dell’informazione», 1981, pp.

243-267; R. BONATO, La commissione di ascolto della Rai. Musica e radiotelevisione in Italia dal fascismoalla fine del monopolio Rai, tesi di laurea, Università di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007-2008, pp. 40-41 = www.francofabbri.net/files/Testi_per_Studenti/TesiBonato.pdf. Il referendum,cui era abbinato un concorso a premi per il cospicuo ammontare di settecentomila lire (evidentementeal fine di incoraggiare gli abbonati alla radio a rispondere), fu indetto nel novembre 1939: cfr.http://portale.italradio.org/index.php?set_albumName=Storia&id=Eiar1939&name=gallery&include=view_photo.php. Si può anche osservare che in questa dimensione, testimoniata con chiarezzaanche dalle interviste orali degli ascoltatori/abbonati radio, si coglievano forti differenziazioni: le sceltedi ascolto femminili, ben presto numericamente prevalenti insieme a quelle adolescenziali e infantili,apparivano profondamente diverse rispetto alle scelte, minoritarie, maschili. In altri termini, se l’ascoltocollettivo in famiglia o in luoghi diversi di ritrovo e pretesa socializzazione può far pensare ad un’omo-geneizzazione di preferenze e ad un’unificazione di propensioni, in realtà la radio degli anni Trenta, adispetto delle speranze e del dispositivo propagandistico, organizzava la differenza in senso sia genera-zionale sia di genere, riproducendo una fenomenologia già esperimentata a livello sociologico ad esem-pio negli Stati Uniti, e anticipandone per l’Italia gli effetti ben più marcati delle epoche seguenti (siaancora in riferimento alla radio sia, successivamente, alla televisione). Un processo di frantumazionedei gusti e delle modalità di ascolto e di ricezione-memorizzazione dei programmi che appare, inoltre,direttamente proporzionale sia al prolungarsi delle ore di trasmissione, sia all’allargarsi dell’offerta diprogrammi e al tentativo di accrescere progressivamente il numero degli utenti del nuovo medium.

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cali dei rapporti fra individui (diversificati per fasce di età e per genere) e nucleo fami-gliare, e fra individui, nucleo famigliare e società23. Se per un verso la radio richia-mava al coinvolgimento nella vita pubblica ambiti sociali che ne erano in precedenzaesclusi (dalle casalinghe agli anziani, dai bambini ai non alfabetizzati, dai contadiniai montanari), per l’altro, invece di promuovere un identico sentire all’interno dellafamiglia e collettivamente all’interno della società, suggeriva ed eccitava, attraversouna proposta sempre più diversificata di modelli comportamentali e di riferimentoprima sconosciuti, la presa di coscienza delle differenze, delle contrapposizioni e delledissonanti esigenze dei giovani rispetto agli anziani, delle donne rispetto agli uomini,dei figli rispetto ai genitori, dei mariti rispetto alle mogli, e così via. Sullo sfondo diun’apparente massificazione e omogeneizzazione culturale si ponevano, al contrario,le basi di quello sgretolamento della cultura di massa che si sarebbe annunciato nelcorso degli anni Cinquanta-Sessanta24, e che avrebbe trovato in seguito nella televi-sione e nel web globalizzato e globalizzante gli strumenti di definitiva «diversifica-zione nell’omogenità», in una realtà in cui la condivisione globale dei mezzi di comu-nicazione e l’uniformità delle loro modalità di utilizzo, di linguaggio e di scambio intempo reale di informazioni e messaggi si confronta e si scontra con l’individualismosempre più esasperato dell’interrelazione comunicativa, con la moltiplicazione infi-nita e disordinata di profili sociali eterogenei che dissolvono lentamente dall’internomolti dei tradizionali nuclei di aggregazione sociale. Una fitta rete di rapporti biuni-voci o multilaterali, plurimi e precari, si sostituisce (o almeno si giustappone) ai legamisociologici di base come la famiglia, il gruppo di amici, la cerchia delle conoscenzeabituali frequentate; social networks che, escludendo la fisicità del contatto, prendonoil posto della frequentazione materiale delle aggregazioni parentali o amicali25. Ma questi sono passi successivi, che ci portano fin troppo rapidamente verso gli

scenari attuali del networking e della comunicazione rivoluzionata dalla rete e daglistrumenti sempre più pervasivi e pratici che ne permettono l’accesso e la frequen-tazione continua. Tornando al periodo (il ventennio 1920-1940) in cui il mezzoradiofonico irrompe nella quotidianità di gran parte delle famiglie, prima statuni-tensi e poco dopo europee e italiane, ciò che dal punto di vista della storia dellacomunicazione più sorprende è l’effetto di ribaltamento della dialettica consuetapubblico/privato, anche – come si è visto – di là dalle intenzioni strumentalizzantidei regimi totalitari e dai loro disegni propagandistici, affidati alla radio con unasorta di ingenuità positivista in apparente contraddizione con il modello tradizio-nalista e conservatore che si intendeva diffondere e consolidare a livello di massa.

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23 In generale cfr. E. MENDUNI, Televisione e società italiana 1975-2000, Milano 2000; F. ANANIA,Breve storia della radio e della televisione italiana, Roma 2004; ID., I linguaggi della radio e della televisione.Teorie, tecniche, formati, Roma, Bari 2008.24 ORTOLEVA, La radio cit., p. 58.25 C. PHILLIPSON, G. A. ALLAN, D. H. J. MORGAN (a cura di), Social Networks and Social

Exclusion: Sociological and Policy Perspectives, Aldershot, Burlington VT 2004; E. MAZZONI, Retisociali e reti virtuali: la Social Network Analysis applicata alle interazioni su web, in A. SALVINI (a curadi), Analisi delle reti sociali. Teorie, metodi, applicazioni, Milano 2007, pp. 383-413; F. GUSMANO,Dimensione Wireless. Internet, agire comunicativo e cosmologie del quotidiano, Trento 2008; S. CALIC-CHIO, Il fattore Network. Utilizzare le reti umane e sociali per migliorarsi in ambito personale, profes-sionale e finanziario, Roma 2010; C. KADUSHIN, Understanding Social Networks: Theories, Concepts,and Findings, Oxford 2012.

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Fino all’avvento del nuovo medium, la famiglia aveva rappresentato il luogochiuso e impenetrabile del privato, un mondo separato nel quale la realtà pubblicaesterna non entrava, se non mediata attraverso mille passaggi orali, inevitabilmentedeformanti, e rispetto alla quale si provava un sostanziale disinteresse. La separa-tezza comunicativa configurava la famiglia come nucleo chiuso, protetto e protet-tivo, dove si esaurivano i discorsi e gli atti «altri» del privato e del personale e dovesi riproducevano di generazione in generazione i meccanismi consueti delle dina-miche interpersonali parentali, non significativamente alterate dai condizionamentie dalle influenze della società esterna, del paese, della città, della nazione, delmondo. Ora, attraverso la radio e poi, più tardi, attraverso strumenti mediaticiancora più sofisticati e pervasivi, come la televisione o – oggi – il web e il web 2.0,la comunicazione esterna del paese, della città, della nazione, del mondo irrompevaall’interno del nucleo famigliare a coinvolgere o a sconvolgere, quale fattore di com-plicazione spesso disgregante, sempre e definitivamente modificante. Il privato sfumava progressivamente nel pubblico, annullando confini di privacy

e di intimità fino allora considerati naturalmente inviolabili, trasformando dall’in-terno e riducendo a metafora non più corrispondente al vero l’immagine rassicu-rante della famiglia come nucleo autosufficiente che nel privato risolve se stessa etrova la soluzione ai propri problemi. Se è vero infatti, come affermò Ludwig Wittgenstein, che non può esistere alcun

linguaggio privato se per privato si intende l’impossibilità di essere comunicato26, èaltrettanto vero che prima della radio e dei successivi mass media di diretta fruizioneesisteva una doppia comunicazione: quella del privato, conchiusa nella famiglia, equella del pubblico, esterna alla nuclearità infrangibile famigliare. Ora invece talicomunicazioni rompono le loro frontiere, si mescolano e si confondono in un unicolinguaggio pubblico-privato che non conosce zone franche di non comunicabilità. Nel suo importante saggio Society under Siege, Zygmunt Bauman ha affrontato27

la questione della confusione privato-pubblico – anzi, come egli dice, del privatoversus il pubblico – nella società contemporanea della comunicazione, richiamandole considerazioni di un altro grande sociologo contemporaneo, Alain Ehrenberg. Come Bauman ricorda28, Ehrenberg ha indicato29 in un mercoledì di ottobre del

1985 la data di quella che egli definisce una grande conquista culturale, quantomeno nella storia francese, ma che marca emblematicamente un momento epocaledi svolta nella dialettica sociale della comunicazione pubblica e/o privata in gene-

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26 L. WITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen, a cura di G. E. M. ANSCOMBE, R. RHEES,Oxford 1953 (trad. it. Ricerche filosofiche, a cura di R. PIOVESAN, M. TRINCHERO, Torino 1967, pp.189-421, in particolare p. 243); cfr. ad es. S. KRIPKE, Wittgenstein su regole e linguaggio privato, Torino1984; D. MARCONI, Guida a Wittgenstein: il «Tractatus», dal «Tractatus» alle «Ricerche», matematica,regole e linguaggio privato, psicologia, certezza, forme di vita, Roma, Bari 1997; L. PERISSINOTTO (a curadi), Un filosofo senza trampoli. Saggi sulla filosofia di Ludwig Wittgenstein, Milano 2010; A. BONCOM-PAGNI, Wittgenstein. Lo sguardo e il limite, Milano, Udine 2011, pp. 96-115.27 Z. BAUMAN, Society under Siege, Oxford 2002 (trad. it. di S. MINUCCI, La società sotto assedio,

Roma, Bari 2003), pp. 158-179.28 Il medesimo episodio compariva già in ID., In Search of Politics, Stanford, Cambridge 1999 (trad.

it. La solitudine del cittadino globale, Milano 20047, pp. 69-70).29 A. EHRENBERG, L’individu incertain, Paris 1995, pp. 125-166.

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rale. Quel giorno una certa Viviane, che non era una celebrità né una persona sottoi riflettori per un qualche motivo, bensì una «comune» donna francese uguale aimilioni di altre donne che la guardavano, apparve in televisione per annunciare chesuo marito, Michel, soffriva di eiaculazione precoce e che per tale motivo Vivianenon aveva mai provato piacere nel fare l’amore con lui. Quell’evento – secondoEhrenberg, che riprende qui in buona misura le considerazioni di Anthony Gid-dens30 – fu davvero una grande e autentica conquista culturale: il connubio tra latelevisione, l’incarnazione ultima della vita pubblica, e l’intimità della camera daletto, massimo emblema della vita privata. L’annuncio di Viviane poté forse scioccare i telespettatori e per qualche tempo

ebbe vasta eco su tutti i mass media francesi, ma le migliaia di Viviane e di Michelche sono seguiti a ruota hanno smesso da tempo di destare scalpore. Da allora, i talkshows, le confessioni pubbliche di esperienze vissute privatamente, e la loro subli-mazione nei reality shows (in cui si traduce in spettacolo una pseudoverità del pri-vato, esposto in pubblico come soggetto/trama di un intrattenimento a bassissimocosto che si esaurisce nell’osservazione, letteralmente dal buco della serratura, del-l’artificioso vivere quotidiano di individui diversi costretti alla forzata convi-venza)31, sono diventati i più comuni, banali e prevedibili degli svaghi televisivi,nonché quelli che registrano invariabilmente il maggiore indice di ascolto. Oggi –sottolinea Zygmunt Bauman – viviamo in una società confessionale: l’era dellamodernità liquida è quella delle pubbliche confessioni di sentimenti privati, chetrova la propria rappresentazione nell’attuale modello televisivo. La televisione èlo specchio della società corrente: è una Tv carica di ostentazione che non esita autilizzare drammi, passioni impetuose, confessioni scandalose anche masochistica-mente espresse, per apparire e/o per vincere la gara dello share; allo stesso modol’individuo (non il cittadino) è sempre pronto a mostrare la propria intimità, in unmondo dedito a negoziare, non a svelare, il proprio io.La scatola mediatica replica, così, lo stile di vita moderno: è una società modello

talk show, quella che si sta progressivamente plasmando32. «Abbiamo installatomicrofoni nei confessionali e li abbiamo collegati alla rete di indirizzi pubblici, e losbandierare in pubblico i propri fatti intimi è diventato un dovere di ogni perso-naggio pubblico e la compulsiva ossessione di tutti gli altri»33. Come il grande attoree umorista britannico Peter Ustinov, a proposito di quell’epocale trasmissione, ebbe

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30 A. GIDDENS, The Transformation of Intimacy: Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies,Cambridge 1992 (trad. it. La trasformazione dell’intimità: sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne,Bologna 1995); cfr. pure ID., Modernity and Self-Identity. Self and Society in the Late Modern Age, Cam-bridge 1991; e D. GAUNTLETT, Media Gender and Identity, New York 2002, pp. 99-124; D. R. SHUMWAY,Modern Love: Romance, Intimacy, and the Marriage Crisis, New York, London 2003, pp. 131-213.31 A. GRASSO, Radio e televisione: teorie, analisi, storie, esercizi, Milano 2000, pp. 99-105; A. HILL,

Reality TV: Audiences and Popular Factual Television, London, New York 2003; S. MURRAY, L. OUEL-LETTE (a cura di), Reality TV: Remaking Television Culture, New York 2004.32 Z. BAUMAN, The Individualized Society, Cambridge, Malden, s.d. ma 2001 (trad. it. La società

individualizzata, Bologna 2002, pp. 111-127); ID., Vite in confessionale. Il Grande Fratello, l’11 settem-bre e la corsa libera dei poteri economici, intervista a cura di F. SACCÀ, in «Il Dubbio» 4, 1, 2003 = spa-zioinwind.libero.it/ildubbio/numero1_03/bauman.33 BAUMAN, La società sotto assedio cit., p. 189.

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ad affermare: This is a free country, madam. We have a right to share your privacy ina public place 34. Giornalisti meno arguti vestono i panni di guardiani dell’interessepubblico, difendendo il «diritto di sapere della gente». Quel mercoledì sera fu dav-vero un momento di rivoluzione culturale, per la Francia e, in senso simbolico lato– prescindendo da eventuali modalità e tempi diversi –, per l’intero mondo occi-dentale, e ciò in ragione di motivi differenti ma strettamente correlati.Il primo motivo è stato già menzionato: i varchi tra pubblico e privato nella

comunicazione erano stati definitivamente forzati, la linea che un tempo demar-cava i due spazi era stata cancellata e si era avviato il lungo, inconcludente processodella sua rinegoziazione. Non si trattava soltanto di un’abrogazione del tradizio-nale divieto di esibire le emozioni in pubblico; oggi la scrupolosa disamina e la sfre-nata esibizione di sentimenti, sogni e ossessioni private vengono incoraggiate e rin-vigorite attraverso il premio dell’applauso degli spettatori, tanto più calorosoquanto più sfrenate e tempestose sono le passioni confessate. Quasi ogni giorno,presentatori e intrattenitori invitano il pubblico presente in studio (e, per esten-sione, i telespettatori incollati alla Tv) ad «aprirsi», ad abbandonare ogni difesa ea lasciarsi andare, a non fermarsi dinanzi a nulla e a sbarazzarsi delle ormai anti-quate idee di decoro e decenza. Il messaggio che s’intende trasmettere è che non esi-stono pensieri e sentimenti tanto privati da non poter essere espressi e comunicatiin pubblico, tendenzialmente erga omnes 35.Il secondo motivo per parlare di una rivoluzione culturale guidata dalla televi-

sione e dai mass media (o piuttosto da essi coadiuvata) è la nascita e il rapido svi-luppo di un linguaggio che consente ai sentimenti privati di essere pubblicamentecondivisi e raffrontati. Il «soggettivo» soleva essere un sinonimo di ineffabile: ladifficoltà, forse addirittura l’impossibilità di un’espressione compiuta che tradu-cesse letteralmente e fedelmente il sentire privato per un pubblico multiforme ecomposito era il principale ostacolo alla possibilità di valicare il confine fra privatoe pubblico. In questo senso i talk shows, per un verso, e i realities, per un altro, sonouna sorta di «pubbliche lezioni» tenute in un nuovo linguaggio, che – attraversandolo spartiacque tra il comunicabile e l’incomunicabile (nel senso di non articolabilein proposizioni adeguate) – abbatte la barriera tra pubblico e privato. L’apparizionedi tale linguaggio opera in una dimensione che non consente soltanto agli attori(improvvisati o semiprofessionisti) e alla massa degli spettatori coinvolti di espri-mere i loro sentimenti. Secondo Bauman, «una volta che tale linguaggio è apparsoe la soggettiva esperienza delle cose ha acquisito dei nomi e si è quindi trasformatain oggetti che possono essere cercati, trovati, esaminati e discussi (trasferiti, comedirebbe Martin Heidegger, dal mondo invisibile della Zuhandenheit al fin troppotangibile territorio della Vorhandenheit 36), i soli sentimenti e affetti riconoscibiliper ciò che sono appaiono quelli comunicabili: il linguaggio crea il proprio pubblicoe il proprio spazio pubblico»37.

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34 Ibid., p. 190.35 Ibid.36 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit (trad. it. Essere e tempo, a cura di P. CHIODI, Milano 1969, pp.

180-184); A. GIORDANI, Il problema della verità. Heidegger vs Aristotele, Milano 2001, pp. 119-123; F.VOLPI, Heidegger, Aristotele, i Greci, in «Enrahonar» 34, 2002, pp. 73-92.37 BAUMAN, La società sotto assedio cit., p. 191.

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Il terzo motivo è l’intrinseca propensione dei talk e dei reality shows a rappre-sentare la vita dell’uomo, la sua essenza «come un aggregato di problemi vissutiindividualmente che chiedono una soluzione individuale e l’impiego a tal fine dirisorse possedute a livello individuale»38, nonché a proporsi come strumento disoluzione privilegiato di difficoltà esistenziali e sociali, che prescinde dalle vie isti-tuzionali e dalle rivendicazioni collettive. Anche in questo caso, sempre secondoBauman, è quasi impossibile affermare se questa impressionante svolta possa esseremeglio descritta come guidata oppure indotta, coadiuvata dalla televisione. È certoche qualsiasi cosa «appare in Tv» corrisponde all’esperienza fornita sette giorni susette e ventiquattro ore al giorno dal «mondo reale», ma è altrettanto vero che ciòche non appare in Tv rischia di uscire dalla realtà, come un non-esistente che nonha diritto di vedere i propri problemi discussi, sviscerati ed eventualmente, seppurmagari contraddittoriamente, risolti da esperti e tuttologi variamente improvvisati.Ciò che non appare sul piccolo schermo semplicemente «non è» e, non essendo, ilprivato dell’individuo che non è catturato dalla televisione sfuma fino a divenireinsignificante, fino ad annullarsi, così come vano è il fantasma a cui appartiene.Come Ulrich Beck ha incisivamente commentato, le nostre vite sono ormai diven-tate «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche»39. Si può affermare chetrovare tale soluzione sia un’impresa impossibile, e che cioè è impossibile risolverele contraddizioni sistemiche indirizzando la vita individuale lungo specifiche edefficaci politiche le quali possano ovviare alla situazione generale in cui viviamo, néesistono strumenti agevoli che consentano di attuare una «politica della vita» ingrado di ricomporre e dirimere le medesime contraddizioni di sistema40. Una simile realtà, che storici e analisti dei media hanno via via documentato e

che i sociologi hanno analizzato nelle più profonde valenze sia identificanti, siamodificanti della società e degli individui, è del tutto nuova? Si tratta di un feno-meno che nelle sue caratteristiche sociologicamente individuanti coincide soltanto,nel corso della storia, con l’età contemporanea, dalla fine del XIX secolo a oggi, gra-

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38 Ibid.39 BECK, Risikogesellschaft cit., pp. 133-137; cfr. pure R. V. ERICSON, K. HAGGERTY, Policing the

Risk Society, Toronto 1997; A. NASSEHI, Risikogesellschaft, in G. KNEER, A. NASSEHI, M. SCHROER(a cura di), Soziologische Gegenwartsbegriffe. Konzepte moderner Zeitdiagnosen, München 1997; A. GID-DENS, Risk and Responsibility, in «Modern Law Review» 62, 1999, pp. 1-10; ID., Runaway World:How Globalization is Reshaping Our Lives, London 1999. La definizione e la teoria che Beck e Baumandelineano sono state ultimamente riproposte, anche per spiegare recenti fenomeni italiani di cosiddetta«antipolitica» come il «grillismo» e il cosiddetto «V-day» dell’8 settembre 2007, prima clamorosamanifestazione della sua esistenza politica (cfr. E. MAURO, Antipolitica, per chi suona la campana, in«la Repubblica», 27 settembre 2007), oppure per definire il disagio contemporaneo delle nuove gene-razioni, incapaci di trovare soluzioni individuali ai problemi sociali e rassegnati nella loro sensazionedi fallimento (S. BENTIVEGNA, Giovani e nomadismo politico nella società 2.0, in «Italianieuropei» 6,2011 = http://www.italianieuropei.it/it/italianieuropei-6-2011/item/2189-giovani-e-nomadismo-poli-tico-nella-societa-20.html; http://www.scordiademocratica.it/index_file/Page6361.htm). Su temati-che analoghe, a proposito della comunicazione/propaganda politica contemporanea in Italia, in unadimensione di più ampio e articolato respiro e in prospettiva futuribile, cfr. C. A. MARLETTI, La repub-blica dei media. L’Italia dal politichese alla politica iperreale, Bologna 2010.40 BAUMAN, In Search of Politics cit., pp. 69-70; si veda inoltre ID., La società sotto assedio cit., pp.

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zie all’innovazione tecnologica dei nuovi media (dalla radio, alla televisione, al webe alla multimedialità plurima dei nostri giorni)? O è possibile rilevare le caratteri-stiche che si sono fin qui menzionate anche in epoche più lontane e in differenticontesti storici? In realtà, la pur superficiale analisi di un fenomeno moderno e con-temporaneo – benché importante al punto da connotare per eponimia un’epocacome società della comunicazione e dell’informazione di massa – che abbiamo finoraproposto appare estremamente utile proprio per meglio comprendere un’analogafenomenologia antica e i processi di metamorfosi che essa subì nel corso dei secoli,con le relative, concrete e tangibili implicazioni sociali. Mi riferisco soprattutto alla realtà del mondo romano e in particolare dell’alto

impero di Roma, dalla sua costituzione in epoca cesariana e augustea fino al IIIsecolo d.C.: quel periodo fu contrassegnato, fra l’altro, dal grandioso fenomeno cul-turale della comunicazione epigrafica, che nella sua globale pervasività, in sensofisico, geografico e contenutistico, ne costituisce una sorta di caratteristica indivi-duante e definitoria41. Alla fine dell’ultimo secolo della repubblica, in stretta coin-cidenza con la transizione delle istituzioni repubblicane verso l’autocrazia, con larivoluzione culturale romana e il periodo formativo delle culture provinciali in tuttolo stato, si registra in Italia e in tutte le regioni dell’impero un vero e proprio boomepigrafico; pur con qualche variante in termini di scala, di cronologia, di rapidità emole di diffusione, il fenomeno si presenta come omogeneo e generale, interessandocon sostanziale uniformità tutto il territorio imperiale, come se fosse andato for-mandosi nel tempo – lungo i secoli della repubblica – per poi esplodere d’un trattoin quello che Ramsay MacMullen chiama un epigraphic habit 42, o che altri preferi-sce definire una epigraphic culture 43, ovvero una disposizione culturale alla comuni-cazione diffusa di messaggi iscritti, all’esternazione in scrittura esposta44 di infor-

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41 G. WOLF, Monumental Writing and the Expansion of Roman Society in the Early Empire, in «TheJournal of Roman Studies» 86, 1996, pp. 22-39; S. RODA, Le fonti epigrafiche latine, in L. CRACCORUGGINI (a cura di), Storia antica. Come leggere le fonti, Bologna 2000, pp. 241-285; J. DESMULLIEZ, C.HOËT-VAN CAUWENBERGHE (a cura di), Le monde romain à travers l’épigraphie: méthodes et pratiques,Actes du XXIVe Colloque international de Lille (8-10 novembre 2001), Lille 2005. Fondamentale, ora,per tutte le problematiche della comunicazione in generale (e di quella epigrafica in particolare) nelmondo romano, M. CORBIER, Donner à voir, donner à lire. Mémoire et communication dans la Romeancienne, Paris 2006; utili anche W. V. HARRIS, Lettura e istruzione nel mondo antico, Roma, Bari 1991;G. CAVALLO, Segni e voci di una cultura urbana, in A. GIARDINA (a cura di), Roma antica, Roma, Bari2000, pp. 247-279; A. DONATI, Epigrafia romana. La comunicazione nell’antichità, Bologna 2002; S.GIORCELLI BERSANI, Epigrafia e storia di Roma, Roma 2004, pp. 11-45; J.-M. LASSÈRE, Manuel d’épi-graphie romaine, 2 voll., Paris 2005; M. CÉBEILLAC-GERVASONI, M. L. CALDELLI, F. ZEVI, Épigraphielatine, Paris 2006; A. BUONOPANE, Manuale di epigrafia latina, Roma 2009; J. ANDREU (a cura di), Fun-damentos de Epigrafia Latina, Madrid 2009; A. E. COOLEY (a cura di),The Cambridge Manual of LatinEpigraphy, Cambridge 2012.42 R. MACMULLEN, The Epigraphic Habit in the Roman Empire, in «The American Journal of Philol-

ogy» 103, 1982, pp. 233-246.43 R. GORDON ET AL., Roman Inscriptions 1986-1990, in «The Journal of Roman Studies» 83, 1993,

pp. 131-158.44 La definizione è di G. SUSINI, Le scritture esposte, in G. CAVALLO, P. FEDELI, A. GIARDINA (a

cura di), Lo spazio letterario di Roma antica. La circolazione del testo, III, Roma 1989, pp. 271-305; cfr.pure ID., La scrittura e le pietre, in A. CARANDINI, L. CRACCO RUGGINI, A. GIARDINA (a cura di), Sto-

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mazioni di ogni tipo, stimolate da un comune sense of audience, in funzione delquale l’epigrafia si impone e si manifesta a tutti i livelli (geografici, sociali, conte-nutistici). La fenomenologia della diffusione epigrafica, generalista e globale, sisalda strettamente con la nuova realtà sociale che l’epocale trasformazione dellaconquista, della romanizzazione e dell’instaurazione del principato aveva contri-buito a determinare e a modellare45: il rapido processo di romanizzazione, accom-pagnato dall’estensione progressiva della cittadinanza, ha significato in particolaretrasmissione e condivisione di valori di riferimento, di mentalità, di parametri diidentità e riconoscibilità reciproca, di là e oltre le varianti multietniche e multina-zionali. L’epigrafia è a un tempo prodotto e motore di tale processo, fattore iden-titario ma insieme aggregante, peculiarità e anomalia rispetto al passato e al futurodi una società peculiare e anomala quale fu quella altoimperiale. In quella società, l’epigrafia fornisce a ogni individuo uno strumento attraverso

il quale trasferire nella storia la propria pubblica identità, fissando in permanenzasulla pietra la storiografia dei propri successi, della propria carriera, delle propriebuone riuscite, nonché la sostanza del proprio rapporto con gli dèi, con gli uomini,con la respublica imperiale e le istituzioni, con la città, con l’ambito sociale in cuiopera, agisce e interagisce, lavora, costruisce il senso del suo percorso esistenziale.Ogni cosa, fatto, realtà, sentimento, attraverso il mezzo della parola iscritta edesposta alla vista in una comunicazione tendenzialmente rivolta a tutti, nel presentee nel futuro, diviene fatto pubblico. Il confine con il privato svanisce, assorbito dalvalore prevalente della comunicazione diffusa; la volontà di far circolare notizia disé agli altri e l’urgenza pressante di divulgare la propria immagine fanno premio suqualsiasi senso dell’intimità e della riservatezza, secondo uno schema che riproduceda una pluralità di aspetti e prospettive quanto abbiamo ricordato a proposito deimedia contemporanei; il desiderio di far parlare di sé, di lasciare nell’opinione pub-blica una traccia visibile del proprio esistere viene soddisfatto – così come avvieneoggi sulle molteplici ribalte televisive o attraverso la rete – anche a prezzo di met-tere in piazza tramite le iscrizioni pubbliche non solo i propri meriti e le proprieaffermazioni, ma anche le proprie personali sconfitte: così, accanto a cursus presti-giosi o a epitaffi lusinghieri, le epigrafi comunicano pubblicamente anche fallimentifinanziari e amorosi, tradimenti e sconfitte, incidenti e malattie. Sulle lapidi,ognuno può pubblicamente leggere di letti coniugali profanati, di patrimoni sper-perati, di sofferenze devastanti, di vendette assaporate, di maledizioni scagliate, disolitudini sconsolate, di fobie e odi sociali o personali irrisolti. E così, in una scon-volgente, pubblica e impudente eterogenesi dei fini, epitaffi dedicati ai familiari piùcari vengono utilizzati come strumenti di autopromozione e come occasioni perdare slancio alla propria carriera attraverso mirate tecniche adulatorie; dedichesacre dimenticano il fine devozionale e si piegano al più spudorato ossequio del-l’autorità costituita; iscrizioni monumentali, ufficiali ed encomiastiche divengono

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ria di Roma, III: L’età tardoantica, 2: I luoghi e le culture, Torino 1993, pp. 865-896; J. BODEL, Epigra-phy and the Ancient Historian, in ID. (a cura di), Epigraphic Evidence. Ancient History from Inscriptions,London, New York 2001.45 Cfr. ad es. E. A. MEYER, Explaining the Epigraphic Habit in the Roman Empire: the Evidence of

Epitaphs, in «The Journal of Roman Studies» 80, 1990, pp. 74-96.

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occasione di privati giochi di potere, oppure di orientamento del consenso versodirezioni accessorie (o divergenti) rispetto all’oggetto della celebrazione. Può acca-dere quindi – e volutamente cito esempi arcinoti e ampiamente analizzati in sedescientifica – che un modesto funzionario di periferia utilizzi l’iscrizione funerariadella moglie subordinandone la funzione affettiva e memoriale all’esaltazione delnome e della figura del proprio capoufficio46; come può accadere che una grandetarga, che a Rimini commemora l’impresa di lastricatura delle strade per iniziativadi Giulio Cesare, venga impaginata e organizzata, con opportuna scelta di caratterie abbreviazioni, in modo tale da indurre nel lettore, attraverso strategie accorte dicomunicazione subliminale, sentimenti di orgoglio e di compiacimento per la pic-cola patria riminese e per la sua antica storia preromana47. L’esposizione pubblica del privato, l’utilizzazione personale e anomala di stru-

menti di comunicazione finalizzati ad altro scopo, l’impiego di tecniche sofisticatedi trasmissione di messaggi a più piani (che si servono spesso della scrittura solo comestrumento complementare e accessorio, da coniugarsi, in un’unità comunicativainscindibile, pregnante e polisemica, con le immagini che l’accompagnano, o con ilmonumento che la supporta, o con il ductus, i caratteri, le abbreviazioni, l’impagi-natura che la interpretano) connettono direttamente, in rapporto correlato e biuni-voco di causa ed effetto, la cultura epigrafica con la società urbana altoimperiale. Una simile proliferazione della scrittura esposta e del «visibile parlare»48 rivolto

a una pluralità di scopi, in complessa e spesso manipolante dialettica con il lettore,e una simile interpretazione valoriale del rapporto pubblico e privato con la pro-gressiva contrazione del secondo a totale favore del primo non si spiega, per unverso, se non considerando la qualità della vita metropolitana dell’alto impero, tuttaproiettata fisicamente – e non solo per le oggettive condizioni di scarsa vivibilitàdella maggior parte delle case – all’esterno e organizzata secondo una scansione psi-cologica e cronologica ove i momenti di frequentazione collettiva e di socializza-zione interpersonale pubblica di gran lunga superano i momenti di isolamento per-sonale o di intimità familiare. Ma, per altro verso, ancor più strettamente la culturae l’abito epigrafico si legano e perfettamente si proporzionano con una società a for-tissima fluidità di ruoli, con un basso grado di ascrizione sociale, e un diffuso efermo senso di fiducia nella solidità e quindi nella durata del sistema sociopoliticonel suo insieme, piuttosto che sulla stabilità di collocazione di ciascun individuoall’interno di esso. La società altoimperiale romana, per la prima volta nel corso del-l’antichità e anticipando modelli che si riproporranno con altrettanta compiutezzasoltanto nella realtà contemporanea successiva alla rivoluzione industriale e capita-

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46 CIL V, 7852 = ILS 1854, cfr. RODA, Le fonti epigrafiche cit., pp. 267-270; si veda pure G. MEN-NELLA, La «Quadragesima Galliarum» nelle «Alpes Maritimae», in «Mélanges de l’Ecole Française deRome - Antiquité» 104, 1992, pp. 209-232.47 CIL XI, 366 = ILS 133; cfr. G. SUSINI, Compitare per via. Antropologia del lettore antico: meglio,

del lettore romano, in «Alma Mater Studiorum» 1, 1, 1988, pp. 112-113; RODA, Le fonti epigrafichecit., pp. 273-274.48 Cfr. ad es. da ultimo N. CRINITI, Il «visibile parlare»: precedenti classici della «memoria» e della

morte nel mondo occidentale, in A. SETTI, «Tu che ti soffermi e leggi...». Il cimitero della Villetta e le sue«memoriae» nella Parma di Maria Luigia, Parma 2010, pp. 11-53; cfr. pure ID., Monumenti, iscrizioni eluoghi di sepoltura nel mondo occidentale: bibliografia storica recente, ibid., pp. 303-318.

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listica, si presenta come una società non fissa, non statica, non ingabbiata e noncostretta da ruoli prescrittivi che assegnano una collocazione sociale immutabile aciascuno dei suoi membri; una società inoltre sostanzialmente agnostica, non con-dizionata se non in misura ridotta da precetti religiosi strutturati e dogmatici o daautoritarismi sacerdotali; una società il cui tratto più individuante va riconosciutoin una grande spinta propulsiva, che si concretizza in senso generale nello sviluppoeconomico costante fino all’avanzato II secolo d.C., e in senso individuale nel mol-tiplicarsi delle opportunità di mobilità sociale. La mobilità sociale che caratterizzail principato – come rilevava Paul Veyne49 – si sviluppava spesso attraverso la clien-tela o la chance personale e non si determinava in funzione di criteri universali, macon altrettanta certezza si può affermare che si trattò di un fenomeno la cui consi-stenza e la cui qualità costituisce per l’età altoimperiale uno degli elementi discri-minanti rispetto alle altre società preindustriali50.Prendendo a prestito la terminologia messa a punto dai più importanti studiosi

moderni di tali problematiche, da Pitirim Sorokin51 alla London School of Econo-mics52, la mobilità sociale all’interno dell’impero di Roma appare: verticale; diamplissimo raggio; prevalentemente intragenerazionale più che intergenerazionale;notevole sia sul piano assoluto sia su quello relativo: essa si traduce cioè in uno spo-stamento talora molto accentuato di posizione in alto, o in basso, rispetto al sistemadi stratificazione sociale; si verifica fra livelli anche molto lontani fra loro; interessaspesso lo stesso individuo nel corso della sua esistenza; coinvolge un elevato numerocomplessivo di persone che «scorrono» da una fascia all’altra della griglia sociale; sicaratterizza per una forte fluidità e per l’alto livello di eguaglianza rispetto alle pos-sibilità di movimento verso l’alto dei membri dei diversi gruppi sociali. Nel com-plesso, presenta insomma qualità specifiche delle moderne società capitalistiche,con taluni correttivi, tutto sommato però di non primaria portata53.

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49 P. VEYNE, Le pain et le cirque. Sociologie historique d’un pluralisme politique, Paris 1976, pp.327 sgg.50 Su queste problematiche cfr. S. RODA, Classi medie e società altoimperiale romana: appunti per una

riflessione storiografica, in A. SARTORI, A. VALVO (a cura di), Ceti medi in Cisalpina, Atti del Colloquiointernazionale (Milano, 14-16 settembre 2000), Milano 2002, pp. 27-36, ripreso in questo stesso vo-lume (cap. IV).51 P. SOROKIN, Social Mobility, New York 1927.52 Cfr. ad es. D. GLASS (a cura di), Social Mobility in Britain, London 1954; J. H. GOLDTHORPE,

Social Mobility and Class Structure in Modern Britain, New York, Oxford 1987.53 La mobilità intragenerazionale, ad esempio, è stata indicata come tipica delle società d’antico

regime, in connessione però con un’altrettanto forte e correlata mobilità di ritorno (cfr. M. MIT-TERHAUER, Sozialgeschichte der Jugend, Frankfurt am Main 1986 [trad. it. I giovani in Europa dalMedioevo ad oggi, Roma, Bari 1991]; ID., Servants and Youth, in «Continuity and Change», 1990, pp.11-38), nel senso che coloro che abbandonavano la famiglia occupavano una posizione diversa, social-mente superiore a quella del padre, per il periodo in cui erano lontani, ma tale condizione era tempo-ranea: dopo un certo numero di anni, i figli inevitabilmente ritornavano a casa e quindi al punto di par-tenza sotto l’aspetto sociale. In generale GLASS (a cura di), Social Mobility in Britain cit., e inoltre P.BLAU, O. D. DUNCAN, The American Occupational Structure, New York 1967; P. BOURDIEU, La distinc-tion. Critique sociale du Jugement, Paris 1979; C. THÉLOT, Le poids d’Anchise. La mobilité sociale enFrance, Paris 1980; H. KAELBLE, Soziale Mobilität und Chancengleichheit im 19. und 20. Jahrhundert,Göttingen 1983; J. H. GOLDTHORPE, The Constant Flux: A Study of Class Mobility in Industrial Soci-

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Sul piano dei rapporti sociali e dei meccanismi prioritari di valore comunementeaccettati da tutti i membri della società, il principato sembra contraddire, insostanza, l’assunto della «modernità mancata» di Roma imperiale applicato alcunianni or sono da Aldo Schiavone in un fortunato saggio alle forme economiche, maanche a numerosi altri aspetti e ruoli di quel mondo54. Il fantasma della modernità,la figura senza corpo, la dimensione sospesa nel vuoto, la meteora incandescentenello spazio freddo – tutte immagini schiavoniane55 –, per quanto si riferiscealmeno alla sensibilità sociale, alla natura e al tipo della mobilità, alle opportunitàe ai valori attribuiti ai passaggi di status sembra perdere evanescenza acquisendoconcretezza, sembra ricomporre la frattura fra Roma antica e Occidente modernoe anticipare nel concreto modalità che siamo in grado di distinguere soltanto in rareesperienze assai recenti, come ad esempio, volendo indulgere allo stimolo compa-rativistico, gli Stati Uniti del progressivismo e della «nuova libertà» prima56 e delnew deal rooseveltiano57 poi. Nella società altoimperiale – scrive U. Beck – «la storia si riduce all’(eterno) pre-

sente, e tutto gira intorno all’asse del proprio io personale e della propria vita per-sonale […]. II fuori è stato trasformato in dentro e privatizzato [...]. L’individuodovrà “pagare” per le conseguenze di decisioni non prese da lui […]. Per sopravvi-vere, occorre sviluppare una visione del mondo centrata sull’ego che ribalti, per cosìdire, il rapporto tra il proprio ego e il mondo, rendendo entrambi utili al fine di pla-smare una biografia individuale»58. La citazione è riferita alla Risikogesellschaft, la

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eties, Oxford 1992; A. COBALTI, A. SCHIZZEROTTO, La mobilità sociale in Italia, Bologna 1994; R. I.ROTBERG, Social Mobility and Modernization: A Journal of Interdisciplinary History Reader, CambridgeMA 2000; M. PISATI, La mobilità sociale, Bologna 2000; M. PISATI, A. SCHIZZEROTTO, The ItalianMobility Regime: 1985-1997, in R. BREEN (a cura di), Social Mobility in Europe, Oxford 2004, pp. 149-174; J. BOURDIEU, G. POSTEL-VINAY, A. SUWA-EISENMANN, Mobilité intergénérationnelle du patrimoineen France aux XIXe et XXe siècles, in «Économie et Statistique» 417-418, 2008 [ma 2009], pp. 173-189.54 A. SCHIAVONE, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Roma, Bari 1996, pp. 183-210.55 Ibid., p. 210.56W. WILSON, The New Freedom: A Call for the Emancipation of the Generous Energies of a People,

New York 1913 (trad. it. La nuova libertà. Invito di liberazione alle generose forze di un popolo, Milano1914); A. S. LINK, Woodrow Wilson and the Progressive Era (1900-1917), New York 1954; E. MOWRY,The Era of Theodore Roosevelt and the Birth of Modern America (1900-1912), New York 1958; N. A.THORSEN, The Political Thought of Woodrow Wilson, 1875-1910, Princeton 1988; G. BOTTARO, Lanuova libertà di Woodrow Wilson, in D. CARONITI (a cura di), Persona, società, e stato, Roma 2005; ID.,Pace, libertà e leadership. il pensiero politico di Woodrow Wilson, Soveria Mannelli 2007.57 A. M. SCHLESINGER JR., The Age of Roosevelt, voll. I-III, Boston 1958-1960 (trad. it. L’età di

Roosevelt, Bologna 1959-1965); W. D. LEUCHTENBURG, Franklin D. Roosevelt and the New Deal, NewYork 1963 (trad. it. Roosevelt e il New Deal, Bari 1968); R. NATE, Amerikanische Träume. Die Kulturder Vereinigten Staaten in der Zeit des New Deal, Würzburg 2003; S. FITZGERALD, D. SHOUBA, K. VANSLUYS, The New Deal: Rebuilding America, Minneapolis 2006; K. FLYNN, R. POLESE, The New Deal.A 75th Anniversary Celebration, Layton UT 2008; M. HILTZIK, The New Deal: A Modern History, NewYork 2011; I. KATZNELSON, Fear Itself: The New Deal and the Origins of Our Time, New York, London2013.58 BECK, Risikogesellschaft cit., pp. 133-137; cfr. pure ERICSON, HAGGERTY, Policing the Risk Soci-

ety cit.; NASSEHI, Risikogesellschaft cit.; GIDDENS, Risk and Responsibility cit.; ID., Runaway Worldcit.; U. BECK, Macht und Gegenmacht im globalen Zeitalter. Neue weltpolitische Ökonomie, Frankfurt amMain 2002.

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società a rischio della seconda modernità tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo,ma si adatta con sorprendente precisione alla facies storico-sociologica dell’affluentsociety 59 dell’alto impero di Roma.La struttura di quella società, nella quale l’individualismo esasperato, che è con-

dizione per tentare l’aggancio alla macchina in corsa della mobilità, si associa allanecessità correlata di apparire, di imporre se stessi e la propria immagine, di perse-guire una dimensione pubblica di sé che sacrifica il privato in quanto inutile eimproduttivo, non solo, al pari della società mediatica contemporanea, non può pre-scindere dalla comunicazione, ma nella comunicazione ritrova il proprio principalee irrinunciabile alimento, il veicolo indispensabile per tentare di pervenire alla rea-lizzazione delle proprie ambizioni. E come nella società contemporanea il mero farsi sentire e riconoscere attraverso

i media, e non necessariamente per meriti particolari – anzi, senza che sia necessa-rio proiettare di sé un’immagine per forza positiva –, costituisce il primo gradinoconcreto di affermazione, così il proporsi comunque attraverso l’iscrizione e l’ap-parato monumentale (che ne rappresenta sovente parte integrante, nonché il mol-tiplicatore contestuale di comunicazione) significa di per sé acquisizione di unaquota significativa di prestigio pubblico, poi variamente spendibile lungo le vie mol-teplici che portano al successo o alla modificazione in positivo della propria condi-zione sociale.L’interdipendenza fra l’esplosione atipica del fenomeno epigrafico altoimperiale

e la straordinaria «dissomiglianza» rispetto al passato e rispetto al futuro di quellasocietà si pone dunque come una verità difficilmente contestabile: ne è riprova ilmutamento epocale che anche lo strumento della comunicazione epigrafica subì inetà tardoantica. Da tempo ormai sono state delineate in modo articolato eapprofondito le caratteristiche della «terza età dell’epigrafia», quella che prende lemosse dal III secolo d.C. e copre l’intera età tardoimperiale per prolungarsi in partenell’alto medioevo. Si tratta di una fase contraddistinta, da un lato, dalla comparsadell’epigrafia cristiana, con il suo ribaltamento di prospettiva rispetto al significatoattribuito alla vita terrena e con la sua fede in un aldilà prima ignorato o escluso,ma anche da una serie di fattori non meno rilevanti, quali: il venir meno di unamemoria storica, con il ricambio o la caduta dei ceti dirigenti che stravolge ilsistema valoriale tradizionale e sottovaluta il peso sociale della storiografia perso-nale; l’arretramento culturale, che modifica i parametri percentuali di alfabetizza-zione e allontana masse sempre più consistenti dalla capacità di lettura e percezionedei testi iscritti; la crisi economica, che fortemente penalizza il mercato epigraficoin generale e rende in particolare sempre più problematica la realizzazione di quelconnubio monumento/iscrizione, della cui fondamentale pregnanza simbolico-comunicativa sopra si è detto; infine, la disgregazione politica e la decadenza

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59 J. K. GALBRAITH, The Affluent Society, New York 1958 (cfr. l’edizione per il quarantesimoanniversario, New York 1998); un riferimento alla Roma del III secolo come crisi dell’affluent societyin J. FENNER, To What Extent Were Economic Factors to Blame for the Deterioration of the RomanEmpire in the Third Century A.D?, University of Manchester (UK), in www.roman-empire.net/arti-cles/article-018.

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urbana, che innestano fenomeni correlati di polverizzazione culturale e di disarti-colazione sociale, non più funzionali all’abito epigrafico precedente60. Tutti aspetti reali di una complessa fenomenologia, ma tutti quanti riconducibili

a una grande trasformazione sociale che modifica nel profondo la dimensione indi-viduale e collettiva del vivere e dell’agire. La società individualistico-capitalistica,fluida e non ascrittiva, mobile e autoreferenziale, proiettata con fiducia nel futuroe priva di angosce, laica e propulsiva, cede il passo a una società progressivamentesempre più chiusa, statica, ingabbiata in ruoli fissi, preoccupata del proprio avve-nire, afflitta da ansie economiche ed esistenziali, incerta sulla durata di un sistematroppo confuso e disarticolato per garantire stabilità e sviluppo. In questa nuovasocietà, uscita dal caos logorante e disgregante del III secolo, lo stimolo individualealla promozione di sé si affievolisce fino ad annullarsi, e, disperando nel muta-mento, l’individuo cerca conforto in ideologie e credenze che annullano la spinta

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SERGIO RODA

60 Cfr. A. PETRUCCI, Le scritture ultime. Ideologia della morte e strategie dello scrivere nella tradizioneoccidentale, Torino 1995; C. CARLETTI, «Un mondo nuovo». Epigrafia funeraria dei cristiani a Roma inetà postcostantiniana, in «Vetera Christianorum» 5, 1998, pp. 39-67; A. DONATI (a cura di), La terzaetà dell’epigrafia, Atti del Colloquio AIEGL-Borghesi (Bologna, ottobre 1986), Faenza 1988, e ivi in par-ticolare C. CARLETTI, «Epigrafia cristiana», «epigrafia dei cristiani». Alle origini della terza età dell’epi-grafia, pp. 115-135, e A. SARTORI, Formulari funerarii cristiani: la tradizione innovata, pp. 158-168; C.CARLETTI, Nascita e sviluppo del formulario epigrafico cristiano: prassi e ideologia, in I. DI STEFANOMAN-ZELLA (a cura di), Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano. Materiali e contributi scientifici per una mostra epi-grafica, Città del Vaticano 1997, pp. 143-164; ID., Spazio e parola: l’epigrafia dei cristiani a Roma tra tra-dizione e innovazione, in L. PANI ERMINI (a cura di), Christiana loca. Lo spazio cristiano nella Roma delprimo millennio, Roma 2000, pp. 81-88; ID., L’epigrafia di apparato negli edifici di culto da Costantino aGregorio Magno, in L. PANI ERMINI, P. SINISCALCO (a cura di), La comunità cristiana di Roma: la sua vitae la sua cultura dalle origini all’alto medioevo, Città del Vaticano 2000, pp. 439-459; ID., L’epigrafia deicristiani: prassi e ideologia tra tradizione e innovazione, in S. ENSOLI, E. LA ROCCA (a cura di), AureaRoma: dalla città pagana alla città cristiana, Roma 2000, pp. 323-329; ID., Dalla «pratica aperta» alla«pratica chiusa»: produzione epigrafica a Roma tra V e VIII secolo, in Roma nell’alto medioevo, Atti dellaXLVIII Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo (Spoleto, 27 aprile - 1° mag-gio 2000), Spoleto 2001, pp. 325-392; F. DE RUBEIS, Epigrafi a Roma dall’età classica all’alto Medioevo,in M. S. ARENA ET AL. (a cura di), Roma dall’antichità al medioevo: archeologia e storia nel Museo nazio-nale romano Crypta Balbi, Milano 2001, pp. 104-121; C. CARLETTI, «Scrivere i santi»: epigrafia del pel-legrinaggio a Roma nei secoli VII-IX, in Roma fra Oriente e Occidente, Atti della XLIX Settimana di stu-dio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo (Spoleto, 19-24 aprile 2001), Spoleto 2002, pp.323-360; D. MAZZOLENI, Epigrafi del mondo cristiano antico, Roma 2002; M. KAJAVA, Epigrafia latinatra antichità e medioevo, in F. DE RUBEIS, W. POHL (a cura di), Le scritture dai monasteri, Atti del IISeminario internazionale di studio “I monasteri nell’alto medioevo” (Roma, 9-10 maggio 2002), Roma2003, pp. 9-14; C. CARLETTI, Epigrafia dei cristiani in Occidente dal III al VII secolo. Ideologia e prassi, Bari2008; L. CARDIN, Epigrafia a Roma nel primo Medioevo (secoli IV-X), Roma 2008; ID., Le scritture delricordo. Forme e funzioni dell’epigrafia funeraria a Roma tra tarda antichità e alto medioevo (IV-VII secolo),in «Studi Tanatologici» 4, 2008, pp. 163-199; nonché i contributi in M. G. ANGELI BERTINELLI, A.DONATI (a cura di), La comunicazione nella storia antica: fantasia e realtà, Atti del III Incontro interna-zionale di storia antica (Genova, 23-24 novembre 2006), Roma 2008; e in M. G. ANGELI BERTINELLI,A. DONATI (a cura di), Opinione pubblica e forme di comunicazione a Roma: il linguaggio dell’epigrafia,Atti del Colloquio AIEGL-Borghesi (Bertinoro, 21-23 giugno 2007), Faenza 2009. Su un particolareaspetto della comunicazione tardoantica in relazione al fenomeno della progressiva cristianizzazionenel caso, emblematico e per molti versi paradigmatico, del rapporto fra Giovanni Crisostomo e la comu-nità antiochena cfr. pure J. L. MAXWELL, Christianization and Communication in Late Antiquity. JohnChrysostom and his Congregation in Antioch, Cambridge, New York 2006.

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vitalistica traducendola in ricerca post mortem di un benessere che l’esistenza ter-rena non ammette61. La comunicazione epigrafica in un simile contesto perde del tutto il significato

fondamentale dell’epoca precedente: le iscrizioni rientrano nell’ambito della casa, imuri non parlano più alla collettività e se le parlano lo fanno saltuariamente e consupporti scrittori che denunciano, nella loro conformazione e struttura, la perdita del-l’illusione nella diffusione globale dei messaggi. Il pubblico ritorna privato, la domuse la famiglia si riappropriano della comunicazione, che abbandona i circuiti generali-sti e sociali per riscoprire l’intimità afasica della fruizione privata. L’inutilità dell’ap-parire, rispetto a una realtà sociale che non consente più mobilità né miglioramenticonsistenti della propria condizione, si traduce nell’inutilità della comunicazionetotale di se stessi, e la comunicazione si rivolge semmai, come nell’epigrafia cristiana,verso profondità ultraterrene, che prescindono dalla dimensione del pubblico, desti-nato comunque a recepire messaggi soltanto entro i limiti di una riconoscibilità quasiiniziatica della comunità religiosa di riferimento. I carmina epigraphica, solitamenteincisi nel corpo dello specchio epigrafico in caratteri minori e che spesso imponevanoaddirittura di ripetere letture prosodiche o metriche, nonché di ricercare e decodifi-care veri e propri acrostici, sono forse il simbolo più eloquente di questo nuovo generedi comunicazione «privata» ed escludente, elitaria e a-sociale62. La grande stagione del privato pubblicizzato, dell’individualismo rampante che

affidava alla comunicazione di sé il proprio successo e la propria realizzazione, dellalimitazione strumentale e voluta dell’intimità famigliare vissuta come impedimentoal libero esprimersi delle potenzialità di crescita sociale, si concludeva così defini-tivamente per riaprirsi in analoga, totalizzante e onnicomprensiva dimensione forsesoltanto 1500 anni dopo, nella Risikogesellschaft contemporanea della comunica-zione mediatica di massa, avviata dalla radiofonia ed esaltata successivamente dallatelevisione e dal web.

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«SOLUZIONI BIOGRAFICHE A CONTRADDIZIONI SISTEMICHE»

61 Cfr. in generale G. SANDERS, Les chrétiens face à l’épigraphie funéraire latine, in Assimilation et rési-stence à la culture gréco-romaine dans le monde ancien, Travaux du VIe Congrès international d’Étudesclassiques (Madrid, septembre 1974), Bucuresti, Paris 1976, pp. 283-289; C. PIETRI, La mort en Occi-dent dans l’épigraphie latine. De l’épigraphie païenne à l’épitaphe chrétienne, IIIe-VIe siècles, in «La Maison-Dieu» 144, 1980, pp. 25-48; G. SANDERS, Lapides memores. Païens et chrétiens face à la mort: le témoi-nage de l’épigraphie, Faenza 1991; G. FILORAMO, S. RODA, Cristianesimo e società antica, Roma, Bari1992, pp. 231-227; S. RODA, Messaggi di vita nelle pietre di morte: la funzione dell’epigrafia sepolcraleromana tra paganesimo e cristianesimo, in U. MATTIOLI (a cura di), Senectus. La vecchiaia nell’antichitàebraica e cristiana, III: Ebraismo e cristianesimo, a cura di U. MATTIOLI, con la collab. di A. CACCIARI eV. NERI, vol. III, Bologna 2007, pp. 787-808, in questo volume ripreso e aggiornato (cap. II).62 E. GALLETIER, Etude sur la poésie funéraire romaine d’après les inscriptions, Paris 1922; G. SANDERS,

Bijdrage tot de studie der metriche latijnse grafschriften van het heidens, Rome, Brussel 1960; P. COLAFRANCE-SCO, F. BUCHELER, Carmina latina epigraphica, Bari 1986; L. GAMBERALE, Letteratura minima. I «Carminalatina epigraphica», in B. AMATA (a cura di), Cultura e lingue classiche, III, Atti del Convegno di aggiorna-mento e di didattica (Palermo, 29 ottobre - 1° novembre 1989), Roma 1993, pp. 379-403; P. CUGUSI,Aspetti letterari dei «Carmina latina epigraphica», Bologna 1996; N. CRINITI (a cura di), Vita e morte nei «Car-mina latina epigraphica» della Padania centrale, Parma 1998; J. GÓMEZ PALLARÈS, Towards a Study of Ele-venth Century’s Carmina Latina Epigraphica: The Renewal of an Ancient Tradition, Universitat Autònoma deBarcelona, 23 ottobre 1998 = www.hottopos.com.br/rih1/carmina; P. CUGUSI, Per un nuovo corpus dei«Carmina Latina Epigraphica». Materiali e discussioni. Con un’appendice sul Lusus anfibiologico sugli idionimi,Memorie lincee. Scienze morali, storiche e filologiche, IX, Roma 2007.

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XI

Pluralismo religioso in una società a-religiosa:l’età imperiale romana*

L’8 novembre 2005 Ahmad Rafat, portavoce dell’Iniziativa per la libertà d’e-spressione in Iran, pubblicava da Roma un accorato appello a favore di AkbarGanji1, illustre giornalista e scrittore iraniano, già membro delle guardie rivoluzio-narie islamiche al tempo della rivoluzione khomeinista e collaboratore di punta delMinistero della Cultura e della Guida Islamica, poi divenuto oppositore del regimee imprigionato, nell’aprile del 2000, con l’accusa di avere attentato, con i suoi arti-coli, le sue conferenze e i suoi interventi televisivi in Occidente, alla sicurezzanazionale rendendo pubbliche informazioni confidenziali e facendo propagandacontro il sistema islamico. L’appello per la liberazione di Ganji, della cui vita allorasi temeva a causa di uno sciopero della fame durato settanta giorni, avveniva in unmomento particolare non tanto per la contingenza dell’attribuzione a Ganji del Pre-mio internazionale per la libertà di stampa che gli sarebbe stato assegnato – ovvia-mente in absentia – quattro giorni dopo a Siena, quanto per il clima particolare cheallora si respirava anche a Roma dopo che Mahmud Ahmadinejad, di recente elettoalla presidenza dell’Iran, durante una conferenza studentesca a Teheran sul temaeloquente Il mondo senza sionismo, pochi giorni prima dell’appello di Ahmad Rafat,aveva invocato la distruzione di Israele e la sua cancellazione dalla mappa geogra-fica. La condanna senza riserve delle dichiarazioni del presidente Ahmadinejadaccomunò allora tutte le forze democratiche, consentendo manifestazioni comuni,ad esempio, di islamici ed ebrei. In particolare, il 3 novembre 2005 si svolse a Romauna grande fiaccolata di solidarietà con Israele a margine della quale presero la

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* Il testo di questo capitolo si rifà al contributo con lo stesso titolo pubblicato in P. DESIDERI, M.MOGGI, M. PANI (a cura di), con la collaborazione di A. LAZZARETTI, Antidoron. Studi in onore di Bar-bara Scardigli Forster, Pisa 2007, pp. 367-386.1 Sulla carcerazione di Akbar Ganji, sulle motivazioni del provvedimento e sugli sviluppi della

vicenda fino alla sua liberazione nel marzo 2006, nonché sulla sua attività successiva, segnata fra l’al-tro da numerosi attestati internazionali – dal senese Premio internazionale per la libertà di stampa(2005) al successivo conseguimento nel 2010 sia del prestigioso Milton Friedman Prize assegnato dalCato Institute (famoso think tank di orientamento conservatore libertarian) «per avere dato un contri-buto significativo all’avanzamento verso la libertà», sia dell’altrettanto importante riconoscimentoWorld Press Freedom Heroes. Symbols of courage in global journalism, dell’International Press Instu-tute –, cfr. in rete i siti http://www.pen.org/page.php/prmID/423, http://news.bbc.co.uk/2/hi/-middle_east/4715439.stm e http://en.wikipedia.org/wiki/Akbar_Ganji. Cfr. pure il suo libro: A.GANJI, The Road of Democracy in Iran, Boston 2008.

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parola, fra gli altri, il rabbino capo di Roma e il rappresentante dell’opposizione ira-niana2; ebbene, in entrambi i discorsi echeggiò ovviamente un forte richiamo aivalori, fra l’altro, della libertà religiosa e della pacifica convivenza fra culture, tra-dizioni e religioni diverse. Il dato su cui intendo però qui sollecitare l’attenzione èche tale richiamo, in entrambi i casi, si espresse facendo riferimento a un solomodello storico positivo e compiuto di pluralismo e convivenza religiosa: quello diRoma antica. Tanto più sorprendenti risultano, se si pensa all’approccio eccezio-nalmente imperialistico e duramente repressivo che Roma esercitò nei confronti delpopolo giudaico, le parole che il rabbino capo usò in quella circostanza, invitandotutti i romani a riflettere sul fatto che «siamo nati nell’antica città della tolleranzareligiosa, della pacifica convivenza fra credenze diverse e a quella tradizione noidobbiamo ora riferirci per riallacciare il filo del reciproco rispetto fra fedeli di fedidiverse».Qualche anno prima, e precisamente l’8 giugno 2000, quando aveva già da

alcuni mesi varcato l’invidiabile soglia dei cent’anni, il grande filosofo Hans GeorgGadamer rilasciò un’intervista al quotidiano della Conferenza episcopale italiana,«Avvenire»3; nel corso della quale, dopo aver svolto alcune considerazioni sul risor-gere massiccio su più fronti del fanatismo e del fondamentalismo religioso, tantopiù imprevisto e quindi tanto più pericoloso in un’epoca di universalizzazione dellacultura, alla domanda dell’intervistatrice: «Professore, quale futuro per l’umanitàcon l’acuirsi di tanti conflitti locali?», così ebbe a rispondere: «È veramente straor-dinario che nonostante la guerra dei Trent’anni nel XVII secolo, le due guerre mon-diali e gli anni terribili del XX secolo che hanno avvilito le culture, sia proprio Romaantica a offrire ai popoli di oggi un esempio decisivo sul piano della storia e dellaciviltà, un punto di riferimento, un monito, un orientamento di come tante diver-sità possano coesistere e unirsi in un processo di arricchimento universale qualel’antica civiltà greco-romana aveva saputo creare».Questi due esempi casuali, molto dissimili fra loro per contesto culturale, circo-

stanze di evento, matrice intellettuale e radici ideologiche, sono assimilati da unacommunis opinio tanto salda e radicata da reggere anche, come nel caso del rabbinodi Roma, al riscontro di una realtà storica nello specifico poco coerente con l’asser-zione proposta e, come nel caso della risposta di Gadamer, al sottile filtro criticodell’ermeneutica. In altre parole, l’idea di Roma antica come luogo privilegiato del pluralismo reli-

gioso e della cultura della tolleranza – con la pretesa, unica e macroscopica ecce-zione (da interpretarsi però in termini esclusivamente politici e di salvaguardia del-l’autorità e dell’assetto costituiti) del rapporto con il cristianesimo o, in termini piùdefiniti e circoscritti nelle dimensioni e nello spazio, con il mondo giudaico – è unodi quegli assunti capaci di attraversare quali presupposti a priori le contraddizionidel tempo e di giungere fino a noi con i tratti di una convinzione diffusa, sia a livellodi opinione popolare, sia spesso anche a livello di pensiero storico-ideologico alto.

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PLURALISMO RELIGIOSO IN UNA SOCIETÀ A-RELIGIOSA: L’ETÀ IMPERIALE ROMANA

2 Si veda ad es. http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/politica/fiafoglio/fiacasad/fiacasad.html.3 I. ARNALDI, Torniamo a Roma antica. Oltre il dominio della tecnologia, occorre un nuovo modello

di convivenza. Parla il filosofo Gadamer, in «Avvenire», 8 giugno 2000 (http://www.swif.uniba.it-/lei/rassegna/000608b.htm).

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In fondo, la forza del convincimento in tal senso sembra corroborarsi nel pas-sato, grazie alla stessa immagine di sé che il mondo romano amava accreditare: sipensi soltanto al celeberrimo passo del De Iside et Osiride di Plutarco, là dove il bio-grafo e moralista di Cheronea sottolinea come «non ci sono dèi diversi per popolidiversi, né dèi barbari e dèi greci, né tanto meno dèi settentrionali e dèi meridio-nali. Come il sole e la luna e il cielo e la terra e il mare sono di tutti, anche se pren-dono nomi diversi, così anche le religioni e i modi di chiamare le divinità sonodiversi da popolo a popolo a seconda delle singole tradizioni, e però tutti si riferi-scono a una sola ragione prima, quella che ha dato origine a questo mondo, e a unasola provvidenza che lo dirige»4. Si tratta di un ragionamento che Plutarco considera condiviso dalla mentalità

prevalente nell’impero in cui vive, e non tanto o non soltanto perché imposto dauna leadership politica e ideologico-culturale illuminata, quanto piuttosto perchéesito evolutivo scontato di quella civiltà di cui l’impero di Roma pare rappresentareapice e sintesi, insuperata e probabilmente insuperabile. Sul filo dell’asserzione plutarchea corre anche la gloriosa e perigliosa storia del

concetto di tolleranza e di difesa della libertà religiosa e della parallela libertas phi-losophandi quale andò manifestandosi tra XVI e XVIII secolo: in particolare, la quasicontemporanea composizione dell’Essay Concerning Toleration di John Locke (del1667) e del Tractatus theologico-politicus di Baruch Spinoza (uscito anonimo nel1670) riconferma la validità universale del principio e individua in Roma il luogofisico e ideologico in cui tale principio aveva trovato in passato la più compiutaapplicazione. Si ricordino le esplicite parole di Locke:

E se l’esempio dell’antica Roma (dove così numerose opinioni diverse, gli dèi, e formedi culto furono tollerati gli uni accanto agli altri) è di qualche valore, abbiamo ragione dipensare che nessuna religione può diventare sospetta allo stato di cattivi propositi neisuoi confronti, finché non è un governo che per primo, con un atteggiamento parziale,diverso da quello messo in atto con gli altri sudditi dichiara di porsi in atteggiamentoostile rispetto a coloro che professano una religione e fa di ciò una questione di stato. Ese qualche individuo razionale può immaginare che la forza e la costrizione possono inqualsiasi momento essere il modo giusto per escludere dal mondo un’opinione o una reli-gione, o per disperdere un gruppo di uomini uniti nel professare tale opinione o religione,questo io oso affermare: […] si tratta delle azioni peggiori, le più pericolose e che si deveavere cura di evitare assolutamente, perché quelle che si compiono sotto speciose sem-bianze e sotto la maschera del diritto sono le azioni che Dio punirà nel modo più severo5.

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SERGIO RODA

4 PLUT., De Iside et Osiride, 67, 377-378 f (trad. e note di M. CAVALLI), Milano 1985, p. 134. 5 J. LOCKE, An Essay Concerning Toleration. A Letter Concerning Toleration and Other Writings, a

cura di M. GOLDIE, Indianapolis 2010 = http://oll.libertyfund.org/title/2375/224902 (traduzione del-l’autore). Al termine del brano, dopo la frase «questo io oso affermare», una lunga aggiunta di Lockestesso a manoscritto precede la ripresa del concetto e l’affermazione annunciata di cui, di seguito, siesplicitano le ragioni. Le riflessioni dell’Essay Concerning Toleration anticipano – come è noto – le piùampie considerazioni svolte anni dopo nella Epistula de Tolerantia (A Letter Concerning Toleration) del1685-1686 (ma pubblicata nel 1689). Cfr. J. MARSHALL, John Locke, Toleration and Early EnlightenmentCulture, Cambridge 2006.

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Tali espressioni ripropongono il paradigma di Roma tollerante, distinguendo laragionevolezza naturale della libertà di culto, di idee e di pensiero dal possibile, perquanto sconsiderato, intervento in senso opposto dei governi contro i seguaci diquesta o quella fede per pretesa o presunta ragione di stato. Ancor più netto, e senza apparenti riserve in negativo, il giudizio sulla tolleranza

dei Romani che, poco meno di un secolo dopo, Voltaire formulò nel capitolo VIII delTraité sur la Tolérance, intitolato appunto Si les Romains ont été tolérants. In unaprosa fatta di periodi brevi e di enunciazioni definitive, Voltaire afferma ad esem-pio fin dalle prime, apodittiche frasi.

Tra gli antichi Romani, da Romolo fino ai tempi in cui i cristiani entrarono in contrastocon i sacerdoti dell’impero voi non troverete un solo uomo perseguitato per i suoi senti-menti [religiosi]. Cicerone dubitò di tutto, Lucrezio negò tutto; eppure non vennerivolto loro nemmeno il più bonario rimprovero. La stessa tolleranza giunse sino al puntoche Plinio il Naturalista inizia la sua opera negando un Dio, e sostenendo che se ce n’èuno, esso è il sole. Cicerone affermò, parlando degli inferi «Non est anus tam excorsquae credat: non c’è neppure una vecchia imbecille che ci creda» 6. Giovenale dice «Necpueri credunt (Sat. II, v. 152): neppure i bambini lo credono»7. Al teatro di Roma si can-tava «Post mortem nihil est, ipsaque mors nihil (SEN., Troades, coro alla fine del secondoatto): nulla v’è dopo la morte, la morte stessa non è nulla»8. Detestiamo queste massime,e, al più, perdoniamone l’uso a un popolo che non era illuminato dai vangeli: sono mas-sime false, sono massime empie; ma in sostanza i Romani erano molto tolleranti, poichéesse non incitavano mai alla minima protesta. Il principio fondamentale del senato e del popolo romano era: «Deorum offensae diiscurae: tocca soltanto agli dèi preoccuparsi delle offese rivolte agli dèi»9. Questo popolo

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PLURALISMO RELIGIOSO IN UNA SOCIETÀ A-RELIGIOSA: L’ETÀ IMPERIALE ROMANA

6 Il testo di CIC., De nat. deor. II, 5 così recita in realtà: Quis enim hippocentaurum fuisse aut Chi-maeram putat, quaeve anus tam excors inveniri potest, quae illa, quae quondam credebantur apud inferos,portenta extimescat? («Chi crede ormai che un tempo esistessero l’ippocentauro o Chimera, o è ancorapossibile trovare una vecchia così imbecille da aver paura di quei mostri che una volta si credeva abi-tassero gli inferi?»).7 IUV., Sat. II, 149-152: esse aliquos manes et subterranea regna, Cocytum et Stygio ranas in gurgite

nigras, atque una transire uadum tot milia cumba nec pueri credunt, nisi qui nondum aere lauantur («nep-pure i bambini, se non quelli che [sono così piccoli] che possono entrare alle terme senza pagare, cre-dono che esistano i cosiddetti Mani e i regni dell’oltretomba, Cocito e le rane nere della palude Stigia,e che [tali acque] guaderebbero migliaia e migliaia [di anime] su un’unica barca»). Sulle problematichetestuali e interpretative del passo cfr. P. CHIESA, Congettura o tradizione? A proposito di Giovenale 2,150, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici» 37, 1996, pp. 271-279.8 Il riferimento è ai versi del secondo coro di SEN., Throades II, 398-399: Post mortem nihil est, ipsa-

que mors nihil: velocis spatii meta novissima («Nulla v’è dopo la morte, la morte stessa non è nulla: lameta estrema di una corsa veloce»). Cfr. G. G. BIONDI, Il filosofo e il poeta, Seneca contro Seneca? (Conuna postilla sul monologo di Amleto e il De Providentia), in P. FEDELI (a cura di), Scienza, cultura, moralein Seneca, Atti del Convegno di Monte Sant’Angelo (27-30 settembre1999), Santo Spirito (Ba) 2001,pp. 17-34; A. J. KEULEN, L. Annaeus Seneca Troades: Introduction, Text, and Commentary, Leiden 2001,pp. 7-36, 268-288.9 La medesima massima, così come il concetto enunciato nel coro senechiano, appaiono anche, com-

mentati, in VOLTAIRE, Commentaire sur le livre des délits et des peines, par un avocat de province, VI,Genève 1766, dove si loda e si addita a esempio l’indulgenza dei Romani nei confronti di atti empi odi offese alla religione che non comportassero, però, alcun danno per le persone o per le loro cose o perl’integrità della religione ufficiale, rimanendo quindi nei limiti della libera espressione del pensiero:

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sovrano non pensava ad altro che a conquistare, a governare e a organizzare l’universo.Essi sono stati i nostri legislatori, come nostri vincitori; e mai Cesare, che ci diede dellearmi, delle leggi e dei giochi, volle costringerci ad abbandonare i nostri druidi per lui, egliche era il pontefice massimo di una nazione nostra sovrana. I Romani non professavano tutti i culti, essi non davano a tutti i culti pubblica sanzione;ma essi permisero che tutti fossero professati10.

E così via proseguendo e sottolineando la coesistenza a Roma di innumerevoliculti stranieri, rimarcando la presenza delle sinagoghe, contestando che i cristianisiano stati perseguitati fin dal loro comparire, adombrando una responsabilità giu-daica nelle accuse contro Paolo e la prima comunità cristiana di Roma, negandomotivazioni religiose nella supposta persecuzione di Nerone, suggerendo una spie-gazione altra, non religiosa, delle ragioni che durante l’impero di Roma avrebberoportato alla condanna di molti poi indicati dalla chiesa come martiri cristiani, mini-mizzando infine anche l’intenzione persecutoria di Diocleziano. I limiti storico-ideologici della ricostruzione volteriana11 e le motivazioni

profonde del suo atteggiamento sono tanto ovvii quanto ripetutamente sottolineatiin sedi prestigiose di analisi critica: non v’è quindi, evidentemente, nulla da aggiun-gere in merito; preme però sottolineare come il suo messaggio di tolleranza, depu-rato dalle punte più violente di polemica anticattolica e antigiudaica, colga mag-giormente nel segno proprio nel momento in cui delinea un modello di riferimentoa tutto tondo di società da questo punto di vista ideale, quale quella romana: l’i-dentificazione fra Roma e la tolleranza, fra Roma e la libertà di professione reli-giosa, fra Roma e il rispetto della cultualità anche dei vinti e dei conquistati, fraRoma e la libera circolazione delle idee, delle opinioni e delle fedi, fra Roma e laconvivenza pacifica di ideologie e culture diverse – di là della quota di strumenta-lità in certa misura a-storica che la ispira – finisce per fissarsi in una sorta di postu-lato a prescindere, che esclude ulteriori dimostrazioni o nuovi approfondimenti. Di qui il passaggio di tale identificazione nell’immaginario collettivo delle gene-

razioni successive, fino ai nostri giorni. Di qui, anche, la difficoltà di andare oltreil presupposto assiomatico e tentare di verificare l’effettiva realtà del modello e,ove se ne accerti entro margini più o meno ampi l’ammissibilità storica, compren-derne senso e motivazioni politico-sociali e culturali, specie a fronte della patentecontraddizione fra un atteggiamento generale di tolleranza e la repressione di pra-tiche cultuali e di fedi giudicate a vario titolo potenzialmente eversive.Qualche spunto di riflessione in tal senso ci viene offerto da un’altra singolare

lettura. Nel «Bill of Rights in Action» – una significativa pubblicazione periodica(per la precisione una newsletter a cadenza trimestrale) della potente Constitutional

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Or, si dans une impiété il ne s’est pas volé un mouchoir, si personne n’a reçu la moindre injure, si les rites reli-gieux n’ont pas été troublés, punirons-nous (il faut le dire encore) cette impiété comme un parricide? («Ora,se nel compiere un atto empio non si è rubato neppure un fazzoletto, se nessuno ha subito la minimaoffesa, se i riti religiosi non sono stati turbati, dovremmo noi punire – è necessario ripeterlo ancora –questo atto di empietà come se fosse un parricidio?»). 10 VOLTAIRE, Traité sur la tolerance. A l’occasion de la mort de Jean Calas, notes et bibliographie par

R. POMEAU, Paris 2008 (Genève 1763), VIII, pp. 361-365 (traduzione dell’autore). 11 Cfr. anche, ovviamente, la voce Tolérance nel Dictionnaire Philosophique, Paris 1764.

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Rights Foundation 12, sorta più di mezzo secolo fa in California con lo scopo diinfondere nei giovani americani un più profondo senso della cittadinanza attraversoi valori espressi dalla Costituzione degli Stati Uniti e dalla Carta dei Diritti e di coa-diuvarli a divenire soggetti attivi e responsabili nella società democratica statuni-tense –, un lungo capitolo è dedicato al confronto fra Stati Uniti e impero romano,sullo specifico banco di prova della creazione di una società multietnica e multicul-turale. Per gli estensori del documento, di cui va sicuramente apprezzata la sostan-ziale correttezza storico-antichistica, la sfida di forgiare un’unica società dall’u-nione di diversi popoli non è prerogativa unica degli Stati Uniti d’America, ma giàduemila anni or sono l’impero di Roma si estese su tre continenti e governò più diun quinto dell’intera popolazione della terra. Roma permise ai diversi popoli del-l’impero di praticare la loro religione, a patto che non rifiutassero anche i cerimo-niali ufficiali della religione dello stato. La maggior parte dei popoli acconsentì atale compromesso, in funzione del bene comune rappresentato dalla convivenzapacifica; soltanto gli ebrei e poi i cristiani ebbero difficoltà ad accettarlo. Roma con-quistò il suo impero in larga misura con la forza, ma il controllo dell’impero fu pos-sibile grazie a una rapida acquisizione del consenso e della collaborazione dei popoliconquistati: consenso e collaborazione che fu possibile ottenere perché Roma si assi-curò il favore delle élites locali, trattò le popolazioni sottomesse come alleati, le inco-raggiò a godere parte della gloria e delle ricchezze dell’impero in costruzione. Offrìinoltre alle più primitive popolazioni della Gallia, della Britannia e della Spagna, ein generale dell’Occidente europeo, una civiltà avanzata con una lingua comune,leggi scritte, un impianto cittadino produttivo ed efficiente, mentre nell’Orienteellenizzato Roma accettò di condividere i canoni della way of life greca di cui inbuona misura riconobbe addirittura la superiorità culturale. Dovunque, infine,Roma garantì rispetto per i culti locali, favorendo ma non imponendo processi diassimilazione religiosa, ampliando in alcuni casi il proprio pantheon tradizionale, etollerando anche cultualità per loro natura intrinseca non assimilabili o non asso-ciabili a pratiche della religione romana, a patto che esse non entrassero in apertocontrasto con la legittimità del diritto, attentando all’ordine pubblico o al principiodi autorità dello stato. È il caso politicamente meno significativo, per un verso, deiculti dionisiaci o di altre attività parareligiose, magico-astrologiche o stregonesche,dai contenuti potenzialmente sovversivi a causa del loro impatto profondo sullefasce sociali più deboli e influenzabili, ed è il caso, ben più complesso, delle reli-gioni monoteistiche come il giudaismo e il cristianesimo, che pongono a Roma arduiproblemi di accettazione e di autorizzazione, because these religions believed therewas just one god, they prohibited worshipping other gods. Their members refused tomake offerings to Roman gods or take part in Roman religious festivals, which Romeconsidered a matter of showing loyalty 13: perché cioè queste religioni, avendo fede

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12 CONSTITUTIONAL RIGHTS FOUNDATION, Separating Church and State, II: Religious Tolerance andPersecution in the Roman Empire, in «Bill of Rights in Action», 13, 2 (autunno 1997; http://www.crf-usa.org/bill-of-rights-in-action/bria-13-4-a-separating-church-and-state; http://www.crf-usa.org/bill-of-rights-in-action/bria-13-4-b-religious-tolerance-and-persecution-in-the-roman-empire). Cfr. anche il sitoufficiale della Fondazione: http://www.crf-usa.org/about-constitutional-rights-foundation.html. 13 Ibid.

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nell’unicità del vero dio, proibivano di adorare in qualsiasi forma altri dèi e perciòi loro seguaci rifiutavano di compiere quelle cerimonie di pubblico lealismo verso ilpotere dello stato in cui risiedeva il significato primario dei protocolli pubblici disacrificio/offerta alle divinità e di celebrazione della religione ufficiale romana. Ilrifiuto in tale senso poteva configurarsi dunque come un atto destabilizzante di con-testazione dell’autorità legittima di Roma. Fin qui la ricostruzione storica del «Bill of Rights in Action», che prosegue poi

analiticamente ripercorrendo le vicende delle relazioni fra potere imperiale e cri-stianesimo sino alla svolta costantiniana, con l’intento precipuo di sottolinearecome anche la Costituzione degli Stati Uniti impedisca l’interferenza del governonegli affari religiosi, consentendo così a tutte le religioni di diffondersi e svilup-parsi, in America, al riparo da ogni persecuzione. Partendo insomma da una basecomune di garanzia del pluralismo religioso, del multilateralismo e della convivenzapacifica tra fedi e ideologie, Roma e gli Stati Uniti, unici due imperi della storiaveramente multietnici e multiculturali per convinta scelta istituzionale, si distin-guono e si differenziano fra loro per una più netta separazione fra stato e religioni,che impedisce, negli Stati Uniti, derive persecutorie come quella provocata in piùfasi contro i cristiani nella storia imperiale romana precostantiniana. In altreparole, gli Stati Uniti si sono posti un passo avanti a Roma sul cammino della civiltàe della tolleranza, spezzando ogni legame tra istituzioni e chiese, e disgiungendo lareligione da ogni processo, ancorché simbolico, di legittimazione «religiosa» delpotere statuale. Si può certo discutere su una simile impostazione, specie alla luce di quanto

avvenuto nella società e nella politica americane nei decenni recenti, con la diffu-sione dei fondamentalismi evangelici e la progressiva – strumentale o meno – inter-relazione tra fede religiosa e scelte di governo14, ma evidentemente non è questa lasede appropriata per approfondire tale discorso, né ciò costituisce qui l’oggettoprincipale del nostro interesse. Singolare invece, e preme sottolinearlo, come, inuna sorta di involontaria eterogenesi dei fini, il documento che abbiamo breve-mente illustrato tocchi i temi fondamentali di discussione a proposito dell’imma-gine di Roma quale esempio decisivo – per riprendere Gadamer –, sul piano dellastoria e della civiltà, del modo in cui le diversità possano coesistere e unirsi in unprocesso di arricchimento universale: e cioè il tema della qualità della relazione trastato e religione e dei suoi effetti sull’atteggiamento verso le credenze altre; il tema

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14 J.-F. COLOSIMO, Dieu est Américain. De la Théodémocratie aux Etats-Unis, Paris 2006; K.PHILLIPS, American Theocracy. The Peril and Politics of Radical Religion, Oil, and Borrowed Money in the21st Century, New York, London, Toronto, Sydney 2007; per un panorama delle numerose organiz-zazioni, associazioni e pubblicazioni che rappresentano l’ideologia di quanti cercano di «trasformarel’America in una teocrazia» e a proposito del problema della legittimità religiosa e politica della destracristiana americana cresciuta sull’onda delle affermazioni dei cosiddetti radio- and televangelists, che daalmeno tre decenni pretendono che la missione degli Stati Uniti sia quella di ricostruire un impero glo-bale cristiano, si veda B. GOURLEY, American Theocracy. Who is Trying to Turn America Into a Theoc-racy?, in http://www.brucegourley.com/christiannation/theocracy.htm. Per le più recenti evoluzionidella galassia conservatrice cristiana negli USA, cfr. anche C. HEDGES, American Fascists: The ChristianRight and the War On America, New York, London, Toronto, Sydney 2007; R. DOUTHAT, AmericanTheocracy Revisited, in «The New York Times», 28 agosto 2011.

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della tolleranza religiosa nel rapporto fra politeismi e monoteismi; il tema dellemotivazioni principali e accessorie che favoriscono – in uno stato multietnico e mul-tireligioso – integrazione, coesistenza o convivenza non conflittuale fra credenti diconfessioni e fedi differenti.A proposito del primo punto, e cioè dell’interrelazione fra stato romano e reli-

gione, come è stato acutamente osservato15, fin dalle origini ideologico-istitutivedello stato romano un rapporto imprescindibile legava l’esistenza stessa dell’UrbsRoma e la crescita del populus Romanus (la civitas augescens dei giuristi) alla religio.L’analisi di alcune delle più pregnanti definizioni di Cicerone, dove religio è sem-pre intesa nel senso di «culto degli dèi», lascia infatti intravedere, con grande chia-rezza, la giustificazione teologica (e dunque, giuridica) dell’egemonia romana, chegli antichi attribuivano naturalmente al favore degli dèi, ma non senza merito daparte dei Romani; i quali, per sensibilità e cautela verso la religio, superavano digran lunga tutti gli altri popoli. Particolarmente significativi, a questo proposito, sipresentano due passi del De natura deorum, nel primo dei quali (De nat. deor. II, 8)Cicerone afferma che il neglegere la religio determina sempre intollerabili vulnera alpopolo romano; mentre l’osservanza della religio non può che determinare, nelladinamica della storia, la costante amplificatio della res publica, almeno finché iRomani continueranno a essere religione, id est cultu deorum, multo superiores. Nelsecondo (De nat. deor. III, 5) vengono delineati invece i principali campi della reli-gio, e cioè sacra e auspicia (l’insieme dei cerimoniali e della ritualità, per un verso, eper l’altro la capacità di interpretare attraverso i segni naturali il volere degli dèi,prerogativa questa soltanto dei patres e da questi delegata di volta in volta, aseconda delle epoche di Roma, a re, magistrati supremi quali consoli e pretori, oimperatori). Nel medesimo testo si sottolinea che sacra e auspicia non costituisconosoltanto i due principali campi della religio, ma sono da considerare come gli stessifundamenta originari (riferibili, infatti, alle origini dell’Urbe di Romolo e di NumaPompilio) della civitas romana; della quale, secondo Cicerone, sarebbe del tuttoinspiegabile l’elevato potere conseguito nella sua storia sine summa placatione deo-

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15 F. SINI, Religione e sistema giuridico in Roma repubblicana. Organizzare l’ordinamento. Federalismoe statalismo. Forme di stato e forme di governo, Atti del Colloquio internazionale (Sassari, 6-8 novembre1997), in «Diritto e storia» 3, maggio 2004 (http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordi-namento/Sini-Religione-e-sistema-giuridico.htm); ID., «Sua cuique civitati religione». Religione e diritto inRoma antica, Torino 2001; ID., Uomini e Dèi nel sistema giuridico-religioso romano: Pax deorum, tempodegli Dèi, sacrifici, Atti dell’VIII Colloquio dei romanisti dell’Europa centro-orientale e d’Italia “Studioe insegnamento del diritto romano. La persona nel sistema del diritto romano. La difesa dei debitori”(Vladivostok, 5-7 ottobre 2000), in «Ius Antiquum - Drevnee Pravo» 8, 2001, pp. 8-30 (in russo) =«Archivio storico e giuridico sardo di Sassari» n.s., 6, 1999 (2002), pp. 31-76 (in italiano), ripreso nuo-vamente in «Diritto e storia» 1, maggio 2002 (http://www.dirittoestoria.it/tradizione/F.%20Sini%20-%20Uomini%20e%20D%E8i%20%20nel%20sistema%20giuridico-religioso%20roman.htm); e in gene-rale cfr. H.-C. PUECH, Histoire des religions, 3 voll., Paris 1970 (trad. it. Storia delle religioni, I.2.:L’Oriente e l’Europa nell’antichità, Roma, Bari 1976); M. SORDI, «Pax deorum» e libertà religiosa nellastoria di Roma, in ID. (a cura di), La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 150-177; C. ANDO, J.RÜPKE (a cura di), Religion and Law in Classical and Christian Rome, con la collaborazione di S. BLAKEe M. HOLBAN, Stuttgart 2006; J. RÜPKE, Historische Religionswissenschaft. Eine Einführung, Stuttgart2007; C. ANDO, The Matter of the Gods, Berkeley 2008.

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rum immortalium, senza cioè l’assoluto favore degli dèi immortali16. Siamo di frontea una visione provvidenziale dello stato romano – definita fin dalle origini monar-chiche e repubblicane, poi ampiamente ripresa quale sostegno ideologico non secon-dario del progetto istituzionale augusteo – in funzione della quale le conquiste cheportarono Roma alla costruzione del suo impero vengono interpretate come il pre-mio attribuito al popolo romano per avere saputo superare in religiosità tutti ipopoli. La medesima prospettiva si ritrova anche in numerosi altri luoghi dell’operaciceroniana; così si legge ad esempio nell’orazione De haruspicum responsis: pietateac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique per-speximus, omnis gentis nationesque superavimus 17, a sottolineare l’assoluta superio-rità di Roma e dei Romani rispetto a tutti gli altri popoli e nazioni nella percezionee comprensione di tutto ciò che dipende ed è governato dal potere degli dèi; oppurenella Pro Milone, ove la imperi nostri magnitudo, la grandezza del dominio romano,viene presentata in strettissimo collegamento con la maiorum nostrorum sapientia,qui sacra, qui caerimonias, qui auspicia et ipsi sanctissime coluerunt et nobis suis poste-ris prodiderunt 18, cioè con la saggezza degli antenati i quali per un verso avevanopraticato i riti sacri, le cerimonie religiose e gli auspici, e per l’altro li avevano tra-smessi ai posteri. Con altrettanta esplicita chiarezza, il ruolo della religio nell’edifi-cazione dello stato imperiale viene d’altra parte ribadito in Sallustio come in Livio,in Valerio Massimo come in Virgilio; o più tardi, nei termini rovesciati di condannadella presunzione del popolo romano nel credere che il dominio del mondo sia statoloro concesso dagli dèi in quanto il più devoto dei popoli, in un autore cristianocome Tertulliano. Come ha di recente sottolineato acutamente Francesco Sini:

Quella affermata dagli autori antichi costituisce una concezione quasi originaria nell’e-sperienza giuridica e religiosa romana, profondamente connaturata con la più antica teo-logia sacerdotale. Già in epoca assai risalente, i sacerdotes (che non per caso si identifi-cavano con la classe dirigente senatoria dei patres) avevano nei fatti teorizzato l’esistenzadi un legame indissolubile tra la vita del popolo romano e la sua religio, al punto da fina-lizzarne tutta l’attività al conseguimento (e conservazione) della «pace con gli dèi»: cioèal permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e divinità, inteseanch’esse però pur sempre come parte fondante del sistema giuridico-religioso19.

In quest’ottica, che su un’apparenza di esaltazione panreligiosa del rapportopopolo/divinità/respublica di fatto subordina la religio al ruolo di sovrastruttura, osottostruttura, strumentale al sostegno delle istituzioni e, ancor più, alla legittima-zione sia della politica di espansione sia del modello sociogiuridico di romanizza-zione, si giustifica il progetto di impero universale, di quell’imperium sine fine chelo Jupiter del primo canto dell’Eneide aveva promesso ai Romani subito dopo la fon-dazione romulea20 e che doveva essere governato in eterno dall’Urbe: si operava

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16 CIC., De nat. deor. III, 5. 17 CIC., De har. resp. 19. 18 CIC., Pro Mil. 83. 19 SINI, Religione e sistema giuridico cit., p. 68.20 VERG.,Aen. I, 275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus excipiet gentem et Mavor-

tia condet / moenia Romanosque suo de nomine dicet. / His ego nec metas rerum nec tempora pono, / impe-

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così una fusione di spazio (impero senza confini) e di tempo (eternità di Roma) cheinverava in terra la sintesi armonica spazio-temporale del divino, vanificandoneparadossalmente – in prospettiva escatologica – senso e funzione.Sulla stessa base ideologica, sostanziata dal diritto e dall’autorità degli istituti di

governo, si pone l’idea diffusa, propagandata e accolta con larghissimo consensonella repubblica imperiale, che la costruzione statuale di Roma abbia dato luogo allamigliore delle società possibili e abbia offerto ai popoli conquistati una condizionedi libertà, benessere, ordine e legalità non soltanto mai goduta da nessuno in pre-cedenza, ma altresì non migliorabile né ulteriormente perfettibile. Ancora in taleprospettiva si può comprendere come siano del tutto compatibili e non contraddit-torie con le affermazioni sulla religio che abbiamo appena ricordato anche le espli-cite dichiarazioni di incredulità e di ateismo che i medesimi autori, ovviamente intutt’altri contesti meno istituzionali e prescrittivi, non si premurano di evitare. Masu quest’ultimo punto torneremo fra breve.La dimensione certo storicamente unica ed esclusiva della religione politeistica

ufficiale romana, il suo valore strutturale di costante supporto alle prime tre fasidella lunga vicenda statale di Roma (monarchia, repubblica, principato), cui fa dacontrappeso un modesto impatto partecipativo ed emotivo presso le masse, impe-disce comunque di applicare a essa strumenti moderni di comprensione concettuale.In particolare – come ancora dimostra F. Sini – non è metodologicamente correttoassumere a parametri d’indagine della religione di Roma categorie quali «tolle-ranza» o «intolleranza», nonostante l’opinione comune (corroborata anche dalladottrina più recente) sostenga, pressoché all’unanimità e, come abbiamo visto, daangolazioni in tutti i sensi diverse, la tesi che la religione romana sia stata nel com-plesso una religione tollerante, capace di consentire un oggettivo pluralismo dottri-nale e di assicurare la convivenza pacifica della maggior parte delle fedi professatenell’impero21. Ciò perché in realtà era piuttosto la concezione teologica (e giuridica) di pax deo-

rum a garantire di fatto la «libertà religiosa»: dovendosi salvaguardare il diritto diciascun dio ad avere il proprio culto, si legittimava contestualmente il diritto delsingolo di adorare la divinità secondo la propria coscienza e nelle forme che a luisembravano necessarie. Grazie a questa peculiare concezione della pax deorum, la religione politeista

romana fu così in grado di far coesistere nel suo ambito sia le esigenze cultuali par-ticolaristiche del popolo romano (legate, cioè, a tempi e luoghi determinati), sia letensioni universalistiche della teologia sacerdotale e dello ius divinum della tradi-zione aristocratico-senatoria. Una volta salvaguardato, quindi, il significato e ilvalore pressoché esclusivamente «politico» della religio di Roma, che la coincidenzafisica fra vertici istituzionali e religiosi tutelava sia simbolicamente sia concreta-

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rium sine fine dedi («E poi sotto il fulvo manto della lupa nutrice, con gioia Romolo accoglierà su di séil governo del popolo ed edificherà le mura della città di Marte, dando il suo nome ai Romani. Percostoro io non fisso limiti né di potere né di tempo, gli ho destinato un impero che non avrà fine»). Siveda anche SINI, Religione e sistema giuridico cit., pp. 54-67.21 Ibid., pp. 44-54.

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mente22, il rispetto degli dèi di tutti i popoli del mondo non solo non appariva disdi-cevole, ma addirittura vantaggioso, perché consentiva di rafforzare la pax deorum,la «pace con gli dèi», concetto – come abbiamo testé visto – giuridico e istituzio-nale «laico» prima che religioso. Tale atteggiamento è altresì espressione, da un lato, della sostanza complessiva-

mente conservativa della cultura e della religione romana, in termini peraltro diversi– come è stato intelligentemente suggerito – rispetto al concetto di conservazionequale noi oggi l’intendiamo: si tratta piuttosto della capacità, tipica delle società inno-vative, di rappresentare innovazioni anche radicali in forma di conservazione, nelsenso che ogni riforma – il caso di Augusto è sotto questo punto di vista macroscopi-camente emblematico, ma non certo unico – veniva rappresentata come un ritornoalla tradizione più antica o come una restaurazione della tradizione più pura. Di quianche la difficoltà di rapporto di Roma con le tradizioni religiose altre che non si pre-sentano con i caratteri di una lunga «tradizione» o che addirittura, come il cristiane-simo, enfatizzano la loro «novità» quale dato strutturale e dottrinale individuante23. Ma non era soltanto la tradizione in senso cronologico che contava; le radici geo-

grafiche erano altrettanto importanti: l’idea diffusa e convinta era che diverse reli-gioni appartenessero a diversi popoli secondo il noto principio sua cuique civitatireligio, e che le diverse divinità si legittimassero in relazione alla loro natura tradi-zionale, territoriale e nazionale e come tali soprattutto andassero rispettate. Unodei problemi del cristianesimo era di non poter essere effettivamente identificatocon alcuna città, gente o gruppo etnico, trascendendo così pericolosamente l’idearomana di come le differenti religioni andassero classificate.Nell’articolata questione del pluralismo e della convivenza religiosa nel mondo

romano, tuttavia, almeno altri due temi appaiono centrali.L’approccio alla comprensione del modello romano circa i rapporti fra credenti

di diverse religioni difficilmente può prescindere, ad esempio, dal discorso ben piùcomplesso dell’intreccio causale che sembra stabilirsi fra monoteismo e politeismoe fra tolleranza e intolleranza, o per meglio dire della potenziale tendenza dei mono-teismi all’intolleranza, che sarebbe speculare rispetto alla maggior facilità dei poli-teismi ad accettare e ad accogliere credenze diverse24. Sempre significativo in que-sto senso – anche se talora abusato in contesti interpretativi non corretti – ilcontraddittorio (384 d.C.) fra il prefetto di Roma e massimo rappresentante del-l’ordine senatorio, Simmaco, e il vescovo di Milano e «uomo forte» dell’imperoAmbrogio, nella disputa sull’altare della Vittoria; la discussione, originata da una

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22 Si ricordi a questo proposito un altro celebre passo di Cicerone opportunamente citato da F. Sini(De domo sua ad pontifices oratio, 1): Cum multa divinitus, pontifices, a maioribus nostris inventa atqueinstituta sunt, tum nihil praeclarius quam quod eosdem et religionibus deorum immortalium et summae reipublicae praeesse voluerunt, ut amplissimi et clarissimi cives rem publicam bene gerendo religiones, religio-nes sapienter interpretando rem publicam conservarent. Quod si ullo tempore magna causa in sacerdotumpopuli Romani iudicio ac potestate versata est, haec profecto tanta est ut omnis rei publicae dignitas, omniumcivium salus, vita, libertas, arae, foci, di penates, bona, fortunae, domicilia vestrae sapientiae, fidei, potestaticommissa creditaque esse videantur. 23 SINI, Religione e sistema giuridico cit.; ID., «Sua cuique civitati religio» cit.; ID., Uomini e Dèi cit.24 Fondamentale, in tal senso, ovviamente M. AUGÉ, Génie du paganisme, Paris 1982 (trad. it.

Genio del paganesimo, Torino 2002).

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serie di provvedimenti antipagani dell’imperatore Graziano, segna simbolicamenteuna sorta di showdown fra il paganesimo declinante e il cristianesimo trionfante, chesullo scorcio del IV secolo d.C. si accingeva a divenire religione di stato, in una defi-nitiva inversione di ruoli rispetto all’ultramillenaria religione ufficiale/tradizionale diRoma. L’affermazione celeberrima di Simmaco, Quid interest qua quisque prudentiaverum requirat? Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum («Che importacon quale ideologia ciascuno cerchi il vero? Non si può giungere per una sola via a unmistero così grande»)25, che implica evidentemente una predisposizione alla disponi-bilità verso qualsiasi percorso di fede religiosa, si scontra con l’intransigenza diAmbrogio, che afferma non potervi essere salvezza se non nell’adorazione dell’unicovero dio che è il dio dei cristiani: chi difende come un soldato (militat) la vera fedenon può avere alcun cedimento o alcuna tolleranza verso altre credenze26. Nella questione specifica, il dato di fede si coniuga ovviamente con la congiun-

tura politica e da questa trae un vigore particolare, che si traduce in un’evidenteaccentuazione di toni; né in generale l’episodio può di per sé essere assunto a para-digma di un meccanismo costante di relazione che ponga sempre il monoteismo sulversante dell’intolleranza e il politeismo sulla sponda opposta. E neppure in questosenso si può accogliere in toto l’affermazione di un controverso scrittore francese disuccesso come Michel Houellebecq, ripreso da Ramón Teja27, secondo cui «a frontedei fanatici cristiani, ebrei e mussulmani che aspirano a uccidere, a Gerusalemmecome in molte altre parti del mondo, in difesa della loro personale idea di Verità,

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PLURALISMO RELIGIOSO IN UNA SOCIETÀ A-RELIGIOSA: L’ETÀ IMPERIALE ROMANA

25 SYMM., Rel. III, 10; cfr. S. MAZZARINO, Tolleranza e intolleranza: la polemica sull’ara della Vit-toria, in ID., Il basso impero. Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, Bari 1974, pp. 339-377; D.VERA, Commento storico alle Relationes di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa 1981, pp. 12-53; F. CANFORA(a cura di), Simmaco. Ambrogio. L’altare della Vittoria, con una nota di L. CANFORA, Palermo 1991; I.DIONIGI, M. CACCIARI (a cura di), Dissimulatio. Pagani e cristiani: la disputa sulla tolleranza. Nel segnodella parola, Centro Studi La Permanenza del Classico – Ricerche, 5, Bologna 2004 =http://www2.classics.unibo.it/Permanenza/2003-2004/segno_parola.htm; D. LASSANDRO, La contro-versia de ara Victoriae del 384 d.C. nell’età sua e nella riflessione dei moderni, in F. BESSONE, E. MALA-SPINA (a cura di), Politica e cultura in Roma antica, Atti dell’Incontro di studio in ricordo di I. Lana(Torino, 16-17 ottobre 2003), Bologna 2005, pp. 157-171; I. DIONIGI, A. TRAINA (a cura di), Lamaschera della tolleranza. Ambrogio, Epistole 17 e 18. Simmaco, Terza Relazione, intr. di I. DIONIGI,trad. it. di A. TRAINA, con un saggio di M. CACCIARI, Milano 2006; F. HUBEÑAK, El affaire del altar dela Victoria. Uno de los últimos estertores de la romanidad pre-cristiana, in Atti della XX Semana de Estu-dios Romanos (ottobre 2002), Instituto de Historia de la Universidad Católica de Valparaíso, 13, Val-paraíso 2006, pp. 223-254. Su analogie e differenze tra la posizione di Simmaco e quelle di Giuliano odi Temistio cfr. A. MARCONE, L’ecumenismo in Giuliano e i problemi dell’impero tardoantico, in L.AIGNER FORESTI ET AL. (a cura di), L’ecumenismo politico nella coscienza dell’Occidente, Atti del Con-vegno (Bergamo, 18-21 settembre 1995), in Alle radici della casa comune europea, 2, Roma 1998, pp.371-381; M. PESCE, I Giudei, i Romani e la tolleranza religiosa. La rappresentazione di Flavio Giuseppe,in «Annali di Storia dell’Esegesi» 17, 2000, pp. 355-382.26 AMBR., Ep. XVII ad imp. Valentinianum 2: Huic igitur vero deo quisque militat et, qui intimo colen-

dum recipit affectu, non dissimulationem, non conniventiam, sed fidei studium et devotionis impendit(«Chiunque è agli ordini di questo vero dio e chi lo accoglie per adorarlo nei suoi più profondi senti-menti, gli deve non permissività, non indulgenza ma fervore di fede e devozione»).27 R. TEJA, Monotheism and Intolerance, discorso inaugurale della 4th Conference of the European

Association for the Study of Religions (Santander, 8-11 settembre 2004), in «Palaestra: Studi on linesull’Antichità Classica della Fondazione Canussio», 27 giugno 2005, http://www.fondazionecanus-sio.org/palaestra/Monotheism.pdf.

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non si può non ricordare con nostalgia l’antico e tollerante politeismo greco-romanoda cui la democrazia ha tratto origine». È indubitabile però che la diffusione del cristianesimo monoteista mise in crisi

l’edificio giuridico-religioso romano della pax deorum e dell’intreccio fra istituzionie sacra, su cui si basava anche, come abbiamo visto, il modello della tolleranza edella convivenza religiosa nel pluralismo28. Non solo, ma il successo del proselitismo cristiano – non a caso coincidente con

l’«età dell’angoscia» successiva alla crisi di fine II secolo d.C. – fornì, nel momentodel disorientamento e dello smarrimento di secolari certezze, una prospettiva sal-vifica a una popolazione da alcuni secoli proiettata totalmente su di un universovaloriale terreno, sostanzialmente incredula in un aldilà positivo, emotivamenteinsensibile, per un verso, alla religione ufficiale romana, e poco attratta, per l’altro,da differenti sistemi religiosi complessi. Come intuì a suo tempo Voltaire, là doveuna mentalità collettiva concordi sulla negazione di una concreta speranza disopravvivenza (qualitativamente superiore) nell’aldilà, la società che una similementalità esprime può dirsi di fatto atea. Tale forse non fu la società romana primadella grande crisi e dell’avvento del cristianesimo, ma l’assenza di un impianto col-lettivo religioso forte, non garantito dalla religione tradizionale nella quale lavalenza giuridico-politica aveva da tempo annichilito il valore di fede, la paralleladispersione poliforme di cultualità minori, il ricorso a pratiche compensative disuperstizione sono altrettanti tratti di un mondo a-religioso, che può consentire –come rammenta polemicamente Voltaire – a Cicerone di affermare «non c’è vecchiacosì imbecille da credere nell’aldilà», o a Seneca di ribadire, nel coro del secondoatto della Troades, «non c’è nulla dopo la morte, la morte stessa è nulla», ma soprat-tutto può consentire a migliaia di individui, la cui voce è giunta direttamente finoa noi attraverso l’immenso patrimonio epigrafico funerario latino, di imprecare con-tro l’essenza negativa della morte, di piangerne la definitività, di esaltare la vita madi maledirne la natura di passaggio dal niente al niente, di urlare la propria dispe-razione per l’assoluta ingiustizia del trapasso29. È evidente che un tale tessuto di valori di riferimento, che tende a restringere lo

spazio del divino nell’esistenza o a limitarne gli effetti alla sola vita sulla terra, diffi-cilmente può essere contagiato dai germi del conflitto religioso: al contrario, il relati-vismo estremo in termini di credenze religiose si tradusse pressoché naturalmente, neisecoli centrali di Roma, in pluralismo indifferente e tollerante, come se (indipenden-temente dalle credenze di ciascuno) la cognizione di vivere un’esistenza che altro nonera se non – per dirla alla Oscar Wilde – una «breve parentesi fra due nulla» cemen-tasse una solidarietà spontanea che assecondava a sua volta la pacifica convivenza.

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28 Cfr. ora in generale G. CECCONI, C. GABRIELLI (a cura di), Politiche religiose nel mondo antico etardoantico. Poteri e indirizzi, forme del controllo, idee e prassi di tolleranza, Bari 2011.29 S. RODA, Corpo morto e corpo vivo nelle iscrizioni funerarie latine pagane, in F. HINARD (a cura di),

La mort au quotidien dans le monde romain, Actes du Colloque organisé par l’Université de Paris IV (Paris-Sorbonne, 7-9 octobre 1993), présentés par F. HINARD (†) avec la collaboration de M.-F. LAMBERT, Paris1995, pp. 81-99; ID., Messaggi di vita nelle pietre di morte: la funzione dell’epigrafia sepolcrale romana trapaganesimo e cristianesimo, in U. MATTIOLI (a cura di), Senectus, III: Ebraismo e Cristianesimo. La vecchiaianell’antichità ebraica e cristiana, a cura di U. MATTIOLI, con la collaborazione di A. CACCIARI e V. NERI,Bologna 2007, pp. 787-808, ripreso e aggiornato in questo stesso volume (cap. II).

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XII

Ai margini dell’impero nell’età dell’angoscia*

Il 10 marzo 1687, nella cattedrale di Notre-Dame de Paris, Jacques-BenigneBossuet pronunciava quella che sarebbe stata l’ultima delle sue formidabili ora-zioni funebri, dedicata al defunto très haut et très puissant prince Louis de Bourbon,prince de Condé 1.Il grande predicatore, celebrando in una prosa maestosa ed epica le straordi-

narie gesta di un condottiero non propriamente devoto a Santa Romana Chiesa,ma le cui grandiose imprese militari avevano esercitato considerevole fascinoanche sul gesuita fustigatore delle umane vanità, sottolineava come una delle piùnote massime del principe guerriero recitasse qu’il fallait craindre les ennemis deloin pour ne les plus craindre de près, et se réjouir à leur approche, che bisognasse,cioè, temere il nemico da lontano per non temerlo più da vicino, e anzi rallegrarsial suo approssimarsi.Secondo Jean-Christophe Rufin, un intellettuale decisivo nel formulare fin dalla

fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso il concetto –oggi ampiamente condiviso – della fine del miracolo americano e dei pericoli cheun grande impero corre nel momento in cui raggiunge una potenza tale da deter-minare gravi difficoltà di gestione e di controllo, in questa massima riportata daBossuet è racchiusa l’essenza dell’ideologia del limes 2, che si riallaccia al tema difondo della decadenza, nonché dei segnali di declino che si avvertono già neimomenti di massimo sviluppo e che proprio in quei frangenti vanno colti per pre-disporre difese appropriate, per mettere in atto opportune contromisure, per porreun freno alla crisi di crescenza che, sotto l’apparente immagine di prosperità,nasconde i germi della corruzione e dello sgretolamento incipiente dei fondamentisu cui l’edificio politico, sociale, economico e culturale di un impero si fonda. Tanto

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* Il testo di questo capitolo rielabora l’omonima relazione, pubblicata con il sottotitoloAlba e il Pie-monte romano al tempo di Pertinace, in S. FOX, M. POMPONI (a cura di), Publio Elvio Pertinace, impera-tore romano, Alba Pompeia 126 - Roma 193 d.C., Atti della Giornata di studi su Publio Elvio Pertinace(Alba, Fondazione Ferrero, 1° giugno 2007), Alba 2010, pp. 29-48.1 J.-B. BOSSUET, Oraison funèbre de très haut et très puissant prince Louis de Bourbon, prince de Condé,

premier du sang: prononcée dans l’église de Notre-Dame de Paris, Paris 1687, p. 623. Il testo completodell’orazione è anche reperibile in http://www.abbaye-saint-benoit.ch/bossuet/volume012/029.htm.2 J.-C. RUFIN, L’Empire et les nouveaux barbares, Paris 2001, in particolare Deuxième partie. L’idéo-

logie du limes, pp. 139-227.

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più, poi, se tale impero gestisce un potere globale, come superpotenza unica o pre-valente in contesti mondiali o transcontinentali, come accadde in passato alla Romaimperiale o in tempi più recenti, sullo scorcio del Novecento exeunte, agli StatiUniti. Un tema, questo, su cui negli ultimi decenni si è andata accumulando unasterminata letteratura3 le cui suggestioni e riflessioni si sono trasferite dall’ambito

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3 Cfr. ad es. R. VAN ALSTYNE, The Rising American Empire, New York 1974; G. LISKA, ImperialAmerica: the International Politics of Primacy, Baltimore 1967; E. LUTTWAK, The Great Strategy of theRoman Empire: From the First Century A.D. to the Third, Cambridge 1976; R. GILPIN, War and Changein World Politics, Cambridge 1981; M. W. DOYLE, Empires, Ithaca, London 1986; M. H. HUNT, Ide-ology of U.S. Foreign Policy, New Haven 1987; P. KENNEDY, The Rise and Fall of the Great Powers.Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York 1987; Z. BRZEZINSKI, The GrandChessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives, New York 1997; P. J. BUCHANAN, ARepublic, Not an Empire: Reclaiming America’s Destiny, Washington DC 1999; M. HARDT, A. NEGRI,Empire, Cambridge MA 2000; J. J. MEARSHEIMER, The Tragedy of the Great Power Politics, New York,London 2001; G. VIDAL, The Last Empire, Essays 1992-2000, New York 2001; ID., Perpetual War forPerpetual Peace, New York 2002; A. JOXE, Empire of Disorder, intr. di P. VIRILIO, Paris 2002; ID.,L’Empire du chaos, Paris 2002; G. J. IKENBERRY, America Unrivaled: The Future of the Balance ofPower, Ithaca NY 2002; A. ADLER, J’ai vu finir le monde ancien, Paris 2002; R. MURRAY, The Declineand Fall of the American Empire, New York 2002; C. A. KUPCHAN, The End of the American Era. U.S.Foreign Policy and the Geopolitics of the Twenty-first Century, New York 2002; A. J. BACEVICH, Amer-ican Empire: the Realities and Consequences of U.S. Diplomacy, Cambridge MA, London 2002; I.WALLERSTEIN, The Eagle Has Crash Landed, in «Foreign Policy» 131, 2002, pp. 60-68; ID., The Declineof American Power: The U.S. in a Chaotic World, New York 2003; G. VIDAL, Dreaming War: Blood forOil and the Cheney-Bush Junta, New York 2003; F. ZAKARIA, The Future of Freedom. Illiberal Democ-racy of Home and Abroad, New York, London 2003; B. R. BARBER, Fear’s Empire: War, Terrorism, andDemocracy, New York 2003; E. MEIKSINS WOOD, Empire of Capital, London, New York 2003; G.SOROS, The Bubble of American Supremacy: Correcting the Misuse of American Power, New York 2003;M. MANN, Incoherent Empire, London, New York 2003; P. HASSNER, J. VAÏSSE, Washington et lemonde. Dilemmes d’une superpuissance, Paris 2003; P. BENDER, Weltmacht Amerika. Das Neue Rom,Stuttgart 2003; N. CHOMSKY, Hegemony or Survival: America’s Quest for Global Dominance (The Amer-ican Empire Project), New York 2004; G. J. IKENBERRY, Illusions of Empire: Defining the New Ame r -i c a n O r d e r , in «Foreign Affairs» 83, 2004, pp. 144-154; C. S. GRAY, The Sheriff: America’s Defenseof the New World Order, Lexington 2004; J. J. HENTZ, The Obligations of Empire: United States’ GrandStrategy for a New Century, Lexington 2004; C. JOHNSON, Blowback: The Costs and Consequences ofAmerican Empire, New York 20042; ID., The Sorrows of Empire. Militarism, Secrecy, and the End of theRepublic, New York 2004; M. C. RUPPERT, C. AUSTIN FITTS, Crossing the Rubicon: The Decline of theAmerican Empire at the End of the Age of Oil, Gabriola Island 2004; J. GARRISON, America as Empire.Global Leader or Rogue Power?, San Francisco 2004; I. ELAND, The Empire Has no Clothes: U.S. For-eign Policy Exposed, Oakland 2004; E. TODD, Après l’empire: essai sur la décomposition du système améri-cain, Paris 2004; M. WIEVIORKA (a cura di), L’Empire américain?, Paris 2004; A. ADLER, L’Odysséeaméricaine, Paris 2004; W. R. MEAD, Power, Terror, Peace and War: America’s Grand Strategy in a Worldat Risk, New York 2004; W. E. ODOM, R. DUJARRIC, America’s Inadvertent Empire, New Haven 2004;S. P. HUNTINGTON, Who Are We? The Challenges to America’s National Identity, New York 2004; G.ADHIKARI, The End of Unipolarity. The Notion of the U.S. as Solitary «Hyperpower» is Outmoded inToday’s Globalized World, in «Yale Global Online», September 17, 2004 = http://yaleglobal.yale.edu/ur/node/1984; V. DEGRAZIA, Irresistible Empire: America’s Advance Through Twentieth-Cen-tury Europe, Cambridge MA 2005 (trad. it. L’impero irresistibile. La società dei consumi americana allaconquista del mondo, Torino 2006); W. COHEN, America’s Failing Empire: U.S. Foreign Relations sincethe Cold War, Baltimore 2005; M. MANDELBAUM, The Case of Goliath: How America Acts as the World’sGovernment in the Twenty-First Century, New York 2005; J. RUFUS FEARS, The Lessons of the RomanEmpire for America Today, Heritage Lectures 917, The Heritage Foundation, December 19, 2005 =http://www.heritage.org/Research/PoliticalPhilosophy/hl917.cfm, oppure http://www.heritage.org/research/lecture/the-lessons-of-the-roman-empire-for-america-today; P. POMPER, The History and The-

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storico-scientifico e politico-culturale a quello giornalistico-divulgativo, satirico emediatico-popolare4. Nell’ambito di tale dibattito, accanto alle considerazioni di tipo comparatistico

fra il destino storico dell’impero romano e quello presumibile o prevedibiledell’«impero americano» – oggi in crisi non soltanto per l’imporsi sulla scena poli-tico-economica dei competitori asiatici5 o per le gravi tensioni prodotte dai conflitti

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AI MARGINI DELL’IMPERO NELL’ETÀ DELL’ANGOSCIA

ory of Empires, in «History and Theory» 44, 2005, pp. 1-27; J. N. ROSENAU, Illusions of Power andEmpire, ivi, pp. 73-87; H. MÜNKLER, Imperien. Die Logik der Weltherrschaft, vom Alten Rom bis zu denVereinigten Staaten, Berlin 2005 (trad. it. Imperi. Il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti,Bologna 2008); D. LAL, In Defense of Empires, Henry Wendt Lecture, Cambridge MA 2004 (trad. it. Indifesa degli imperi, Torino 2005); H. JAMES, The Roman Predicament: How the Rules of InternationalOrder Create the Politics of Empire, Princeton 2006; B.-H. LÉVY, American Vertigo, Paris 2006; F.COLOSIMO, Dieu est américain: de la théodémocratie aux Etats-Unis, Paris 2006; C. S. MAIER, AmongEmpires: American Ascendancy and Its Predecessors, Cambridge MA 2006; C. LAYNE, The Peace of Illu-sions: American Grand Strategy from 1940 to the Present, Ithaca NY 2006; N. CHOMSKY, Failed States: TheAbuse of Power and the Assault on Democracy, Orlando FL 2007; C. HEDGES, American Fascists: TheChristian Right and the War on America, Northampton MA, Washington DC 2007; J. CULLEN MURPHY

JR., Are We Rome? The Fall of an Empire and the Fate of America, Boston 2007; C. LAYNE, B. A.THAYER, American Empire. A Debate, New York, London 2007; A. CHUA, Day of Empire. How theHyperpowers Rise to Global Dominance and Why They Fall, New York, London, Toronto, Sydney,Auckland 2007; P. KHANNA, The Second World. Empires and Influence in the New Global Order, NewYork 2008 (trad. it. I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo, Roma 2009); AA.VV., Imperi eimperialismo. Modelli e realtà imperiali nel mondo occidentale, XIV Giornata Luigi Firpo, Atti del Con-vegno internazionale (Torino, 26-28 settembre 2007), a cura di G. M. BRAVO, Roma 2009; A. PAR-CHAMI, Hegemonic Peace and Empire. The Pax Romana, Britannica and Americana, New York 2009; R.BEN-GHIAT (a cura di), Gli imperi. Dall’antichità all’età contemporanea, Bologna 2009; R. ROMANELLI(a cura di), Impero, imperi. Una conversazione, Napoli, Roma 2010; T. H. PARSONS, The Rule ofEmpires. Those who Built them, Those who Endured them, and Why they Always Fall, Oxford 2010; J.BURBANK, F. COOPER, Empires in World History. Power and Politics of Difference, Princeton, Oxford2010; A. J. BACEVICH,Washington Rules: America’s Path to Permanent War (American Empire Project),New York 2010; C. JOHNSON, Dismantling the Empire. America’s Last Best Hope, New York 2010; M.BERMAN, Why America Failed: The Roots of Imperial Decline, Hoboken NJ 2011; A. L. FRIEDBERG, AContest for Supremacy: China, America, and the Struggle for Mastery in Asia, New York 2012; A. J. BACE-VICH (a cura di), The Short American Century: A Postmortem, Cambridge MA, London 2012; N. CHOM-SKY, D. BARSAMIAN, Power Systems: Conversations on Global Democratic Uprisings and the New Chal-lenges to U.S. Empire, New York 2013; S. RODA, Il problema della rilegittimazione degli iperpoteri in crisi:il caso dell’impero tardoantico, in Scrittori antichi e imperi moderni. Ancient Writers and Modern Empires,Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 9-11 ottobre 2008), in corso di pubblicazione.4 Cfr. ad es., per non citare che due casi emblematici di satira di alto livello, del premio Pulitzer

D. HORSEY, From Hanging Chad to Baghdad, tratto dalle strisce pubblicate sul «Seattle Post-Intelli-gencer» nel 2003 (e ivi soprattutto Empire Rising. A Satirical History, pp. 11-18); e un grande maestrodella strip satirica come G. B. TRUDEAU, The War Within, ID., Heckuva Job, Bushie, Kansas City MO2006, e inoltre anche l’ottimo H. ZINN, P. BUHLE, M. KONOPACKI, A People’s History of AmericanEmpire, London 2008.5W. H. OVERHOLT, China: the Next Economic Superpower, London 1993; T. C. FISHMAN, China

Inc.: How the Rise of the Next Superpower Challenges America and the World, New York 2005; O.SHENKAR, The Chinese Century: the Rising Chinese Economy and its Impact on the Global Economy; theBalance of Power, and Your Job, Upper Saddle River NJ 2005; R. MITTER, Modern China: A Very ShortIntroduction, Oxford, New York 2008; A. ARDUINO, Il fondo sovrano cinese, Milano 2009; F. CAVA-LERA, Repubblica impopolare cinese. I principi-padroni della nuova Cina, Milano 2009; G. SAMARANI,Cina, ventunesimo secolo, Torino 2010; A. BRUNET, J.-P. GUICHARD, La visée hégémonique de la Chine.L’imperialisme économique, Paris 2011; H. KISSINGER, On China, New York 2011.

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mediorientali e centroasiatici, ma anche e soprattutto per la gravissima congiunturaeconomica innescatasi nel 2008 –, altrettanto interessante appare la valutazionedelle ragioni e delle modalità d’avvio e di esplosione della crisi quale si determinòa partire dalla seconda metà del II secolo d.C., per poi maturare in forme diverseoltre la restaurazione tardoantica, tra IV e V secolo. E ritorniamo qui al fondamentale concetto di limes che abbiamo visto enunciare

nella massima attribuita al principe di Condé. Che cosa rappresenta e, primaancora, come e perché nasce il limes? L’origine è nota: nella data storico-epocaledel 9 d.C., la tragica sconfitta delle legioni XVII, XVIII e XIX condotte da Quin-tilio Varo nella foresta di Teutoburgo, distrutte dalle tribù germaniche di Armi-nio 6, modificò la scelta espansionistica di Augusto, fino allora intenzionato a por-tare il confine europeo orientale dell’impero alla riva sinistra dell’Elba. Verificata,o presunta, l’insostenibilità di un ulteriore spostamento del confine centroeuropeocon conseguente annessione dei territori germanici transrenani, Augusto iniziòquell’opera di fortificazione del confine del Reno che sarebbe poi proseguita inmaniera sistematica in età flavia e avrebbe determinato l’edificazione di un sistemadi protezioni militari e di presidi fortificati esteso dal Mare del Nord fino al MarNero, seguendo gli opposti corsi del Reno e del Danubio. Tale sistema avrebbesegnato il limite orientale europeo dell’impero, connettendosi poi idealmente, nelprogetto difensivo dello stato romano, all’incerto limes orientale partico a sud-est,all’ancor più vago confine subsahariano in Africa, e – da Adriano in poi – al solidovallo britannico ancor oggi noto con il nome del grande imperatore ispanico7.

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6 Cfr. J. HARNECKER, Arminius, Varus und das Schlachtfeld von Kalkriese. Eine Einführung in diearchäologischen Arbeiten und ihre Ergebnisse, Bramsche 2002; P. S. WELLS, The Battle That StoppedRome: Emperor Augustus, Arminius, and the Slaughter of the Legions in the Teutoburg Forest, reprintedition, New York 2004; R. WIEGELS (a cura di), Die Varusschlacht. Wendepunkt der Geschichte?(= Archäologie in Deutschland, Sonderheft), Stuttgart 2007; R. WOLTERS, Die Schlacht im TeutoburgerWald. Arminius, Varus und das römische Germanien, München 2008; Y. LE BOHEC, La bataille du Teu-toburg, 9 ap. J.-C., Nantes 2008; R.-P. MÄRTIN, Die Varusschlacht. Rom und die Germanen, Frankfurtam Main 2008; M. SOMMER, Die Arminiusschlacht. Spurensuche im Teutoburger Wald, Stuttgart 2009;B. DREYER, Arminius und der Untergang des Varus. Warum die Germanen keine Römer wurden, Stuttgart2009; A. MURDOCH, Rome’s Greatest Defeat: Massacre in the Teutoburg Forest, Stroud 2009; T. CLUNN,The Quest for the Lost Roman Legions, New York, El Dorado Hills CA 2009; M. MCNALLY, TeutoburgForest AD 9: The Destruction of Varus and His Legions, Campaign, 228, Oxford 2011.7 In generale, ma soprattutto sulle implicazioni socioeconomiche del sistema del limes e delle fron-

tiere dell’impero, cfr. G. W. BOWERSOCK, Limes Arabicus, in «Harvard Studies in Classical Philology»80, 1976, pp. 219-229; C. R. WHITTAKER, Trade and Frontiers of the Roman Empire, in P. GARNSEY,C. R. WHITTAKER (a cura di), Trade and Famine in Classical Antiquity, Cambridge 1983, pp. 110-127;S. L. DYSON, The Creation of the Roman Frontier, Princeton 1985; J. WAGNER, Die Römer an Euphratund Tigris. Geschichte und Denkmäler des Limes im Orient, Mainz 1985; C. R. WHITTAKER, Les frontiè-res de l’Empire romain, Besançon 1989 (trad. ingl. Frontiers of the Roman Empire: A Social and Econo-mic Study, Baltimore, London 1994); F. G. B. MILLAR, Emperors, Frontiers and Foreign Relations, 31 BC- AD 378, in «Britannia» 13, 1993, pp. 1-23; P. BRUN, S. VAN DER LEEUW, C. R. WHITTAKER (dir.),Frontières d’empire: nature et signification des frontières romaines, Atti della Tavola rotonda internazio-nale (Nemours, 21-23 maggio 1992), Nemours 1993; C. R. WHITTAKER, Le frontiere imperiali, in Sto-ria di Roma, III: L’età tardoantica, 1: Crisi e trasformazioni, Torino 1993, pp. 369-423; D. BAATZ, DerRömische Limes. Archäologische Ausflüge zwischen Rhein und Donau, Berlin 2000; S. JOHNSON,Hadrian’s Wall, London 2000; P. GALLIOU, Le mur d’Hadrien: ultime frontière de l’Empire romain, Cro-zon 2001; P. LAEDERICH, Les limites de l’Empire. Les stratégies de l’impérialisme romain dans l’oeuvre de

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Augusto, in sostanza, quasi contemporaneamente alla nascita della nuova repub-blica imperiale comincia a determinare confini, rispetto ai quali si fissa, più ancoradi un baluardo protettivo passivo, il limite attivo della sostenibilità di governo daparte dello stato romano: oltre quella barriera, marcata da Reno e Danubio, non viera tanto un pericolo insormontabile rappresentato da popolazioni militarmentetemibili (che le legioni di Roma – superato lo shock di Teutoburgo – avrebberopotuto comunque facilmente domare)8, quanto piuttosto un’estensione territorialela cui gestione avrebbe rischiato di determinare un carico eccessivo di impegno digoverno, né economicamente né politicamente sopportabile. Una scelta fondamen-tale di moderazione, dunque, quella di Augusto, per non cadere in quel «sovracca-rico» di impero9, che è appunto causa prima del declino di numerosi stati imperiali

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Tacite, Paris 2001; A. K. BOWMAN, Life and Letters on the Roman Frontier. Vindolanda and its People,London 20033; M. KEMKES, Der Limes. Grenze Roms zu den Barbaren, Ostfildern 2006; I. SCHMALE,Der Hadrian’s Wall Path, Roxheim 2007; M. KLEE, Grenzen des Imperiums. Leben am römischen Limes,Stuttgart 2006; A. MOFFAT, The Wall: Rome’s Greatest Frontier, Edinburgh 2008; D. PLANCK, A.THIEL, Das Limes-Lexikon. Roms Grenzen von A bis Z, München 2009. Sugli aspetti più squisitamentemilitari del limes, Y. LE BOHEC, Les marches de l’empire romain (Ier-IIe siècle), in J.-C. ROMER (a cura di),Face aux barbares. Marches et confins d’empires de la Grande Muraille de Chine au Rideau de Fer, Paris2004, pp. 17-30; M. J. HIDALGO DE LA VEGA, Algunas reflexiones sobre los limites del oikoumene en elImperio Romano, in «Gerion» 23, 2005, pp. 271-285; S. GIORCELLI, Frontiere alpine e dominio romano:geografia, politica e religione nella definizione del confine, in D. DAUDRY (par les soins de), Actes du XIIeColloque international sur les Alpes dans l’Antiquité (Yenne, Savoie, 2-4 octobre 2009), Aoste 2010,pp. 283-290; D. BREEZE, The Frontiers of Imperial Rome, Barnsley 2011; E. SCHALLMAYER, Der Limes:Geschichte einer Grenze, München 2011; R. COLLINS, Hadrian’s Wall and the End of Empire: The RomanFrontier in the 4th and 5th Centuries, New York, London 2012; H. ELTON, Frontiers of the Roman Empire,New York, London 2012. Utili contributi in queste e altre direzioni d’indagine sono altresì venuti dalciclo di lezioni promosso dalla Fondazione Collegio San Carlo di Modena, fra l’ottobre 2003 e il gen-naio 2004, sul tema “Frontiere. Politiche e mitologie dei confini europei”, e in particolare dalla lezionedi A. SCHIAVONE, Limes. La politica dei confini dell’Impero romano, del 24 ottobre 2003 (ragguagli sonoreperibili nel sito: http://cc.fondazionesancarlo.it/fsc/Viewer?cmd=ciclidettaglio&id =260 e, speci-ficamente per l’intervento di Schiavone: http://cc.fondazionesancarlo.it/fsc/ Viewer?cmd=attivita-dettaglio&id=1604); nonché, ovviamente, dagli innumerevoli contributi dei periodici InternationalCongress of Roman Frontier Studies che si tengono a partire dal 1952.8 Eloquente in questo senso il celebre passo di TAC., Ann. I, 3: bellum ea tempestate nullum nisi

adversus Germanos supererat, abolendae magis infamiae ob amissum cum Quintilio Varo exercitum quamcupidine proferendi imperii aut dignum ob praemium. Cfr. J.-M. RODDAZ, Augusto o el arte de lo posible,in XXI Semanas de Estudios Romanos, Instituto de Historia, Vice-Rectoria de Investigacion y EstudiosAvanzados, Pontificia Universidad Catolica de Valparaìso, XIII, Valparaìso 2006, pp. 129-147.9 Il concetto di sovraccarico di impero, o imperial overstretch, sottolineato in età contemporanea

soprattutto da KENNEDY, The Rise and Fall cit., ha incontrato nuova e specifica attenzione in riferi-mento al «declino» degli Stati Uniti dopo la pubblicazione del volume di R. BURBACH, J. TARBELL,Imperial Overstretch. George W. Bush and the Hubris of Empire, Nova Scotia, Bangalore, Beirut, KualaLampur, Cape Town, London, New York 2004, preceduto da un intervento (altrettanto significativoal punto da diventare quasi proverbiale e riscontrare nel tempo infinite citazioni) dello scrittore e gior-nalista R. HARRIS, Does Rome’s fate await the US?, in «Sunday Mail», 12 ottobre 2003, in cui si leggefra l’altro: Might Washington, like Rome, fall victim to imperial overstretch? Could military force abroadeventually have to be withdrawn because of bankruptcy at home? Might the whole idea of America eventu-ally be challenged and destroyed by some charismatic new faith: some fundamentalist variant on Christian-ity? Or will nature disrupt America’s new world order?; vedi anche recentemente lo stesso P. KENNEDY,American Power Is on the Wane, in «The Wall Street Journal», 14 gennaio 2009 (=http://online.wsj.com/article/SB123189377673479433.html); J. LAZZARO, Imperial Overstretch: Is a Bloated Defense

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incapaci di frenare al momento opportuno le proprie mire espansionistiche e le pro-prie effettive possibilità di ulteriore ampliamento del territorio da governare. Con un curioso ma perspicace nesso ideologico, un non storico come Umberto

Eco ha ricollegato la scelta augustea ai celeberrimi versi della I Satira di Orazio: Estmodus in rebus, sunt certi denique fines, / quos ultra citraque nequit consistere rectum(«Esiste nelle cose una misura: esistono in definitiva confini ben precisi, di là e diqua dei quali non può più reggere l’equilibrio»)10. Seppur scritti circa quarantacin-que anni prima delle decisioni post-Teutoburgo, questi versi oraziani, secondo Eco«possono essere assunti come una massima di comportamento, e tali certamentesono, ma anche in quanto tali sono meno ovvi di quanto sembri. Infatti, per direche l’ideale etico è tenersi entro ragionevoli confini, occorre avere una nozione diconfine, come qualcosa che è bene non oltrepassare. È su questa nozione che sifonda la civiltà latina»11. Per affermare, insomma, che la medietas intesa nel sensofisico e ideologico di capacità di contenersi entro ragionevoli confini è un principiomorale di sobrietà comportamentale e di saggezza / razionalità / realismo politico,occorre avere geneticamente introiettata una precisa nozione di confine, di limes,di limite, appunto, come «qualcosa che è bene non oltrepassare». Secondo Eco lamentalità latina, ben prima delle decisioni autolimitanti di Augusto, appare quasiossessionata dal tema del confine, e questa idea assillante dai tratti angosciosi nasce-rebbe con la leggenda stessa della fondazione, incentrata sul dispositivo chiave rap-presentato dal solco romuleo; il mito sacrale delle origini tradotto in intangibiledemarcazione istituzionale, subito violata e la cui violazione viene immediatamentepunita con il castigo fratricida; la sacrosanctitas del pomerium che nel tempo pro-gressivamente si allarga fino ai piedi delle Alpi, conservando comunque la sua ecce-zionale valenza evocativa12, contengono una norma di inviolabilità che è la traspo-

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Budget Weakening the U.S.?, in «International Business Times», 20 novembre 2011(=http://www.ibtimes.com/articles/252813/20111120/imperial-overstretch-bloated-defense-budget-weakening-u.htm). Cfr. pure – ma in relazione soprattutto al collasso dell’Unione Sovietica – H.ADOMEIT, Imperial Overstretch: Germany in Soviet Policy from Stalin to Gorbachev: An Analysis Based onNew Archival Evidence, Memoirs and Interviews, Baden-Baden 1998, o l’analisi «anti-europea» com-parsa sul «Financial Times» del 18 maggio 2012 a firma di A. ROBERTS, Europe’s Hubristic ImperialOverstretch (=http://www.ft.com/intl/cms/s/0/595fe1ec-9f69-11e1-8b8400144feabdc0.html#axzz27JPFJNnA).10HOR., Sat. I, vv. 106-107; ovviamente in perfetta armonia concettuale con l’aurea mediocritas di

Odi II, 10, 5.11 U. ECO, Prefazione. I nostri incerti confini, in A. CALABRÒ (a cura di), Frontiere, Milano 2001 =

«Alto Adige», 6 marzo 2001. 12 Cfr. A. MAGDELAIN, Le pomerium archaïque et le mundus, in «Revue des Etudes Latines» 59,

1971, pp. 103-139 = ID., Jus Imperium Auctoritas. Etudes de droit romain, Rome 1990, pp. 155-191;ID., L’inauguration de l’«Urbs» et l’«imperium», in «Mélanges de l’École française de Rome - Anti-quité» 89, 1977, pp. 11-29 = ID., Jus cit., pp. 209-228; A. GRANDAZZI, «Roma quadrata»: mythe ouréalité?, in «Mélanges de l’École française de Rome - Antiquité» 105, 1993, pp. 493-545; B. LIOU-GILLE, Le pomerium, in «Museum Helveticum» 50, 1993, pp. 94-98; A. CARANDINI, La nascita diRoma. Dèi, lari, eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino 1997; A. MASTROCINQUE, «Roma quadrata»,in «Mélanges de l’École française de Rome - Antiquité» 110, 1998, pp. 681-697; A. ANDREUSSI, Pome-rium, in Lexicon topographicum urbis Romae, IV, Roma 1999, pp. 96-105; A. SIMONELLI, Considerazionisull’origine, la natura e l’evoluzione del «pomerium», in «Aevum» 75, 2001, pp. 19-162; A. FRASCHETTI,Romolo il fondatore, Roma, Bari 2002; A. CARANDINI, Archeologia del mito. Emozione e ragione fra pri-

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sizione in termini geopolitici e culturali di un principio sintetizzato in età contem-poranea – forse meglio che da ogni altro – da Martin Heidegger quando afferma:«La delimitazione non è ciò su cui una cosa si arresta ma, come già i Greci rico-nobbero, è ciò da cui una cosa inizia la sua presenza»13. «Se non si riconosce un confine oltre – ribadisce Eco – o al di là del quale non è

lecito andare, non può esserci né civitas né cultura»14. Se per i Greci i barbari sonocoloro che non parlano la lingua greca, ritenuta unica pur nella grande varietà deidialetti, e la barbarie inizia là dove non risuona più il linguaggio ellenico sì che lalingua si pone come prima discriminante di un’identità forte, per i Romani il discri-mine è insieme amministrativo e giuridico: la barbarie è là dove la cittadinanzaromana non arriva, dove cessano gli agri e le limitationes delle città, dove lo iusromano cessa di organizzare la società e gli individui. L’unificazione e l’unità lin-guistica latino-greca dell’impero non sono il principale connotato identitario, masostanziano e corroborano un’identità che è in primo luogo giuridica. Le leggi e ildiritto agiscono entro un ben preciso confine territoriale, che è lo stesso confineentro il quale si estende la cittadinanza, perché la cittadinanza, la civitas Romana,è appunto la somma normata di diritti e doveri che si esercitano e si assolvono entroun limite dato. Per questo i miti dell’origine, costruiti a posteriori, obbediscono in

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mitivi e moderni, Torino 2002; ID., Remo e Romolo. Dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani (775/750- 700/675 a.C.), Torino 2006; ID., Roma. Il primo giorno, Roma, Bari 2007; ID. (a cura di), La leggendadi Roma, I:Dalla nascita dei gemelli alla fondazione della città; II:Dal ratto delle donne al regno di Romoloe Tito Tazio; III: La costituzione,Milano 2006-2011; F. K. DROGULA, Imperium, Potestas, and the Pome-rium in the Roman Republic, in «Historia» 56, 2007, pp. 419-452; G. DE SANCTIS, Il salto proibito. Lamorte di Remo e il primo comandamento della città, in Città pagana - città cristiana, in «Studi e Materialidi Storia delle Religioni» 75/1, 2009, pp. 65-88; A. CARANDINI, La fondazione di Roma raccontata daAndrea Carandini, Roma, Bari 2011; e più in generale A. GIARDINA, L’Italia romana. Storie di un’iden-tità incompiuta, Roma, Bari 1997, pp. 117-138; ID., Perimetri, in ID. (a cura di), Storia di Roma dal-l’antichità a oggi. Roma antica, Roma, Bari 2000, pp. 23-34. Per un’interpretazione psicoanalitica delmito romuleo, cfr. ora G. MARGHERITA, L’insieme multistrato: gruppi, masse, istituzioni tra caos e psi-coanalisi, Roma 2012, p. 368: «Nel mito di Romolo e Remo, Romolo che traccia il solco ha il senso dicostruire un’entità-Io separata da tutto ciò che è altro da sé. Il mito di Romolo e Remo è il mito di fon-dazione delle mura di una città-istituzione che si individua con la costruzione dei confini, e perde, conl’uccisione di Remo, l’Altro da sé». Sugli aspetti antropologici del mito cfr. G. DE SANCTIS, Solco,muro, pomerio, in «Mélanges de l’École française de Rome - Antiquité» 119, 2007, pp. 503-526; ID.,Il salto proibito cit., pp. 63-85; ID., «Urbigonia». Sulle tracce di Romolo e del suo aratro, in F. MARZARI

(a cura di), Per un atlante antropologico della mitologia greca e romana, in «I Quaderni del Ramo d’oro.Rivista on-line del Centro AMA - Antropologia del mondo antico», numero speciale, 2012, pp. 105-135= http://www.qro.unisi.it/frontend/sites/default/files/De_Sanctis_Urbigonia.pdf.13M. HEIDEGGER, Bauen Wohnen Denken, in ID., Vorträge und Aufsätze, Stuttgart 1954 (trad. it.

Costruire Abitare Pensare, in M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi, a cura di G. VATTIMO, Milano 1991, p.103); cfr. P. ZANINI, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Milano 1997; A. GROS-SATO, Il «Confine» tra idea e realtà. Memorie storiche, momentanea ratio e immaginazioni ostili nello spa-zio geopolitico= http://www.reocities.com/CapitolHill/senate/5976/confine.htm; S. COSENTINO, Sulconcetto di confine e di frontiera, in «Direonline» (periodico del Dipartimento di Ricerche Europee del-l’Università degli Studi di Genova), 2004. Sul confine come atto sacrilego, come magia, come rappre-sentazione simbolica di un patto sociale, e sul rapporto fra confine pubblico, istituzionale, e confiniindividuali psicologici, virtuali o materiali cfr. A. MARSON, Archetipi di territorio, Firenze 2008, in par-ticolare pp. 185-200.14 ECO, Prefazione cit.

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primo luogo alla logica del perimetro15, dello spazio delimitato che marca il territo-rio, ma nello stesso tempo distingue gli individui in funzione della loro identitàromana, li connota, li riconosce e li accredita dentro, separandoli giuridicamente eculturalmente da chi è fuori. L’istituto del censimento, noto e praticato fin da epocaassai risalente, è in questo senso emblematico: fondamento pragmatico della«scienza di governo» romana, il censimento consentiva a coloro che guidavano lostato di Roma di conoscere non soltanto l’estensione e i limiti, nell’ambito dell’e-cumene, dello spazio che dovevano controllare, ma di prenderne anche realmentepossesso attraverso la precisa misura dei cittadini che entro quello spazio legitti-mamente risiedevano16. Se dunque i miti dell’origine insistono sull’identificazione e sulla difesa di un

confine è perché il limite spaziale coincide con un principio di individuazione, infunzione del quale il civis romano riconosce se stesso come membro di una comunitàe di una civiltà dai tratti peculiari e non fungibili. Difendere il confine significaquindi difendere un territorio, ma prima ancora un’identità e una cultura, e ciòappare tanto più vero nel momento delle origini, allorquando tale identità va ancoracostruita e precisata nelle sue specificità qualificanti, mentre in parallelo crescono esi consolidano un nuovo stato e un nuovo popolo. La simbologia del «peccato origi-nale» di Remo, subito sanzionato con la morte17, così come quella dell’eroismo diOrazio Coclite che trattiene il nemico sul ponte di confine impedendogli di entrarein territorio romano, testimoniano con concreta chiarezza l’ideologia del perimetronel senso che abbiamo indicato. Leggende sull’origine, elaborate ex post secondo unpreciso fine legittimante, si collegano nella propaganda augustea con la concezionegeopolitica del principato, in cui un centro – la Roma allargata all’intera Italia penin-sulare fino alle pendici della cerchia alpina – definisce un’ampia periferia che com-prende tutte le province del nuovo stato romano amministrativamente ridisegnato. Entro confini precisi e certi si estende l’area della ritrovata – da Augusto in poi

– pax Romana, garantita dalla civilitas che è somma di tradizione, mos maiorum,diritto e identità, alimentata dalla forza organizzatrice e coordinatrice del centro,e protetta dalle legioni acquartierate in grande prevalenza sui confini, nelle pro-vince non pacatae. La dialettica centro/periferia nel disegno costituzionale e ideologico augusteo si

ricompone in reciproca interdipendenza, perché, se senza centro la periferia divieneincerta, senza la periferia l’impero, gestito e diretto dal centro, non ha ragione némodo di esistere: l’impero trova la sua forza e la sua saldezza nell’interrelazionecentro/periferia, che si giustifica anche nella consapevolezza dei suoi limiti geogra-fici, politici e culturali. Oltre i limites o stanno popoli «diversi», organizzati in regni con i quali si pos-

sono anche intrattenere rapporti di forza e di sostanziale signoria, ma che non èopportuno conquistare; oppure stanno imperi solidi, con i quali la relazione èassimilabile alle caratteristiche del balance of power (come nel caso dell’impero

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15 GIARDINA, Perimetri cit., pp. 23-34.16 C. NICOLET, L’inventaire du monde. Géographie et politique aux origines de l’Empire romain, Paris

1988 (trad. it. L’inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell'’impero romano, Roma, Bari1989, in particolare pp. 123-150).17 FRASCHETTI, Romolo cit., pp. 30-74.

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partico)18; oppure ancora tribù prive di strutture salde di governo o al più colle-gate fra loro da deboli forme di vincolo confederale, barbari nomadi o semino-madi forti militarmente, ma ancora molto lontani dal raggiungere livelli di matu-razione politica e culturale che consentano di ascriverli all’ambito della civiltà. L’impero dunque, grazie al limes, misura se stesso, la sua estensione geopolitica,

ma anche l’ampiezza della sua penetrazione culturale e della diffusione sostenibiledella way of life romana: frontiera politica, amministrativa, antropologico-culturaleche ha profondamente inciso nel tempo, marcando una secolare cesura, la più rile-vante, forse, di quelle numerose – così sono state acutamente definite19 – fagliepolitiche le quali (al pari della faglia geologica californiana di San Andreas) hannoper millenni attraversato l’Europa, separandola in varie parti. Ma la frontiera perantonomasia, quella renano-danubiana, si riflette anche all’interno dell’impero, inaltri limiti che separano l’Italia dalle province, o che articolano il territorio penin-sulare in regiones, o che (soprattutto) perimetrano gli agri cittadini: limiti, questiultimi, attraverso i quali si definisce l’area di pertinenza e di espressione dell’auto-nomia cittadina e dell’esercizio dei diritti/doveri locali dei cives. Il tessuto connet-tivo senza soluzione di continuità delle perticae urbane, che copre l’intero territo-rio dell’impero, certifica, nella materialità topografica, il principio della doppiacittadinanza, una delle chiavi di volta del consenso generalizzato su cui si fondanola stabilità e la lunga durata dello stato romano. Così come il modello macrocosmicodell’Urbs si riproduce all’infinito nell’omogenea pluralità microcosmica delle civita-

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18 Cfr. A. D. LEE, Informations and Frontiers. Roman Foreign Relations in Late Antiquity, Cambridge1993; S. RODA, I problemi militari al confine nordorientale, in Aquileia romana e cristiana fra II e V secolo.Omaggio a M. Mirabella Roberti, Atti della XXX Settimana di Studi aquileiesi (Aquileia, 19-22 maggio1999), Antichità Altoadriatiche XLVII, Trieste 2000, pp. 71-90, ripreso e aggiornato in questo stessovolume con il titolo: I problemi militari al confine nordorientale (l’equilibrio di potenza tra mondo anticoe mondo moderno), cap. III.19 R. BODEI, Le faglie politiche dell’Europa, intervento presentato a Mezzogiorno. Risorsa per l’Ita-

lia, il Mediterraneo, l’Europa, seminario della Winter School – Scuola di formazione politica promossodalla Fondazione Italianieuropei (Monte Sant’Angelo, Foggia, 7 dicembre 2005). Cfr. la risposta dellostesso R. Bodei a una domanda sull’allargamento a est dell’Unione Europea, in «Corriere della Sera»,25 aprile 2004: «L’Europa è attraversata da faglie politiche, simili a quelle geologiche, rappresentatedal punto di vista storico dal limes romano e germanico-retico che andava dall’Olanda fino all’attualeAustria. Queste “zolle” separate lungo il Reno hanno segnato differenze di civiltà, per cui da una partesi beve il vino e dall’altra la birra, da una parte c’è il barocco e dall’altra il gotico; queste faglie hannoprodotto zone di frattura e di scontro. Un’altra faglia è rappresentata dal confine della Bosnia e delKosovo, che un tempo delimitava l’Impero d’Occidente e l’Impero d’Oriente, poi l’Impero austroun-garico e l’Impero ottomano: un confine attorno al quale ci sono la religione islamica, quella greco-orto-dossa e quella cattolica, l’alfabeto cirillico e quello latino. E dopo Yalta, con la cortina di ferro, si èaggiunta un’altra frontiera artificiale. Ecco, a distanza di quasi sessant’anni l’Europa ha oggi l’occa-sione di riunirsi. È un enorme potere economico, che va sostenuto da un analogo potere politico e mili-tare»; si veda anche un intervento analogo dello stesso autore ne «Il Secolo XIX» del 14 settembre2009. Sul continuum storico generato dalla valenza ideologica del confine romano che dall’antichitàtransita, attraverso il medioevo, fino all’età moderna e contemporanea, stabilendo una duratura fron-tiera politica, economica e culturale tra civiltà europea e non europea, cfr. già W. L. WINTER, TheInfluence of Rome and of the Frontier upon Medieval West European Institutions: Feudalism, the Frontier,and the Church, in «American Journal of Economics and Sociology» 25, 1966, pp. 201-211. Curiose leconsiderazioni storico-«matematiche» sul limes di R. D’ALEMBERT, A. RIDDLE, P. R. SILVERBRAHMS,Tre (verdi) foreste, in «Rudi Matematici» 78, VII, luglio 2005, pp. 3-11.

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tes e delle res publicae cittadine, il confine dello stato controllato da Roma trasferi-sce, per analogia e conformità, i propri valori funzionali e ideologici e la dinamicaindotta centro/periferia nelle limitationes delle città. La centralità del limes pertiene dunque al fondamento stesso della struttura costitu-

zionale e concettuale del principato augusteo, in una dimensione che va ben oltre la fina-lità geografica della frontiera, ispirando le modalità e la prassi del rapporto con il mondostraniero, informando i meccanismi della convivenza civile all’interno dello stato e dellesue istituzioni amministrative, nonché contraddistinguendo specificità politiche, costitu-zionali, giurisdizionali e identitarie20.In questa prospettiva assume, ovviamente, contorni più complessi e pregnanti anche

la decisione di Augusto di individuare, e rendere stabile, la demarcazione orientale del-l’impero sulla linea Reno-Danubio: le ragioni difensive e di contenimento si coniugano –come sopra già illustrato – con il più profondo significato di ossequio al valore della medie-tas, al senso consapevole della misura, che in termini strettamente politici – antichi emoderni – equivale a evitare quell’imperial overstretch e quell’imperial hubris (sovrabbon-danza di impero o presunzione di impero) che molti oggi imputano, ad esempio, al cosid-detto «impero americano»21.La durata secolare dell’impero di Roma è determinata anche e soprattutto dal limes,

dalla modestia e «umiltà» politica che è inerente alla scelta di Augusto; dalla sicurezza delmodus in rebus che assicura controllo, pace, consenso, che separa civiltà da inciviltà, chetiene lontano i nemici per poterli poi eventualmente meglio accogliere, assimilare, omo-geneizzare nella civilitas secondo le consolidate tecniche giuridiche e politiche romane adincludendum.

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20 Sulla polisemia e sulla pluralità di implicazioni, ai più diversi livelli, del concetto di confine e difrontiere e sulla molteplicità tematica dei border studies, cfr. ZANINI, Significati del confine cit.; COSEN-TINO, Sul concetto cit.; S. MEZZADRA, Confini, migrazioni, cittadinanza, in «Scienza & Politica» 30,2004, pp. 83-92 = S. SALVATICI (a cura di), Confini. Costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Attidel Convegno “Confini/Grenzen” (Bolzano, 23-25 settembre 2004), Società Italiana per lo Studio dellaStoria Contemporanea – SISSCO e Gruppo di lavoro per la storia regionale / Arbeitsgruppe Regional-geschichte, Soveria Mannelli 2005 = http://www.sissco.it/fileadmin/user_upload/Pubblicazioni/col-lanasissco/confini/confini_mezzadra.pdf.21 Oltre alla bibliografia già citata (cfr. nota 9), con specifico e prevalente riferimento agli Stati

Uniti d’America cfr. pure R. J. MCMAHON, The Limits of Empire: The United States and Southeast Asiasince World War II, New York 1999; P. KENNEDY, Empire without «Overstretch», in «Wilson Quar-terly» 26 (3), estate 2002, pp. 62-64; ID., The Perils of Empire. This Looks Like America’s Moment. His-tory Should Give Us Pause, in «Washington Post», 20 aprile 2003; R. M. SCHEUER, Imperial Hubris.Why the West Is Losing the War on Terror, Washington DC 2004; D. ISENBERG, The Costs of Empire,parte 1: Starting With a Solid Base; The Costs of Empire, e parte 2: Counting the Dollars and Cents, in«Asia Times», 12-13 febbraio 2004 = http://www.globalpolicy.org/empire/interven-tion/2004/0213dollarscents.htm; e http://www.globalpolicy.org/empire/intervention/2004/0212solid-base.htm; N. FERGUSON, Colossus: The Rise and Fall of the American Empire, London 2004; ID., TheUnconscious Colossus: Limits of (& Alternatives to) American Empire, in «Dedalus» 134, primavera 2005,pp. 18-33; P. RICHARDOT, Les Etats Unis hyperpuissance militaire, Paris 2005; J. JOFFE, Überpower. TheImperial Temptation of America, New York, London 2006; C. JOHNSON, Nemesis: The Last Days of theAmerican Republic (American Empire Project), New York 2006; MURPHY, Are We Rome? cit.; CHUA,Day of Empire cit.; D. E. SANGER, The Inheritance. The World Obama Confronts and the Challenges toAmerican Power, New York 2009; BURBANK, COOPER, Empires in World History cit.; PARSONS, TheRule of Empires cit.; B. FEIN, American Empire Before the Fall, Springfield VA 2010; J. FREEMAN, Amer-ican Empire: The Rise of a Global Power, the Democratic Revolution at Home 1945-2000, New York2012; E. COBBS HOFFMAN, American Umpire, Cambridge MA, London 2013.

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La sicurezza attiva e non soltanto passiva indotta dal limes, insieme con la capa-cità attrattiva e assimilativa «entro i confini» e all’esercizio morbido del potere,sono altrettanti pilastri della forza e della continuità dello stato imperiale di Roma.Poco esercito e pressoché tutto schierato lungo le frontiere, tolleranza antropologicae religiosa22, unificazione linguistica, istituzionale e giuridica, autonomia cittadina,doppia cittadinanza, e – sulla base di tali princìpi, tradotti in prassi di gestione delpotere – perizia nel catturare, rinvigorire e perpetuare il consenso nel corso dellegenerazioni: lungo tali linee di comportamento Roma opera nella lunga fase del suosuccesso come esperimento vincente di governo e in funzione di esse diviene neltempo modello storico applicato, sperimentato e riuscito di impero, paradigma diriferimento per gli imperi successivi – territoriali, egemonici, o coloniali, comun-que tesi a estendere la propria influenza e a controllare direttamente o indiretta-mente una pluralità di nazioni, popoli ed etnie. Dagli imperi coloniali spagnolo eportoghese23, a quello britannico24, a quello francese25, fino all’attuale impero ame-ricano, controverso nei suoi prospettati o pretesi tratti definitori ma oggettiva-

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22 S. RODA, Pluralismo religioso in una società a-religiosa: l’età imperiale romana, in Antidoron. Studiin onore di Barbara Scardigli Forster, a cura di P. DESIDERI, M. MOGGI, M. PANI, con la collaborazionedi A. LAZZARETTI, Pisa 2007, pp. 367-386, ripreso e aggiornato in questo stesso volume (cap. XI). Sullatolleranza e l’abilità di assimilazione come chiave per la conquista dei domini imperiali cfr. il lucido sag-gio di CHUA, Day of Empire cit., e inoltre in generale M. MARCOS, R. TEJA (a cura di), Tolerancia eintolerancia religiosa en el Mediterráneo antiguo: temas y problemas, in «Bandue. Revista de la SociedadEspañola de Ciencias de las Religiones» 11, 2008, numero monografico; G. ZECCHINI, Religione pub-blica e libertà religiosa nell’impero romano, in G. A. CECCONI, C. GABRIELLI (a cura di), Politiche reli-giose nel mondo antico e tardoantico, Bari 2011, pp. 187-198; G. FILORAMO, La croce e il potere. I cri-stiani da martiri a persecutori, Roma, Bari 2011.23 A. J. R. RUSSELL-WOOD, The Portuguese Empire, 1415-1808: A World on the Move, Baltimore

MD 1998; H. KAMEN, Empire: How Spain Became a World Power, 1492-1763, New York 2003; D. A.LUPHER, Romans in a New World: Classical Models in Sixteenth-Century Spanish America (History, Lan-guages, and Cultures of the Spanish and Portuguese Worlds), Ann Arbor MI 2006; S. MACCORMACK, Onthe Wings of Time: Rome, the Incas, Spain, and Peru, Princeton 2006; W. S. MALTBY, The Rise and Fallof the Spanish Empire, Basingstoke 2009; A. R. DISNEY, A History of Portugal and the Portuguese Empire,vol. I: From Beginnings to 1807, Cambridge 2009.24 J. BRYCE, The Ancient Roman Empire and the British Empire in India, in ID., Studies in History and

Jurisprudence, New York 1901, pp. 1-84 (trad. it. Imperialismo romano e britannico, Torino 1907, pp. 1-95);E. BARING (EARL OF CROMER), Ancient and Modern Imperialism, London 1910; P. BRUNT, Reflections onBritish and Roman Imperialism, in «Comparative Studies in Society and History» 7, 1965, pp. 267-288 =ID., Roman Imperial Themes, Oxford 1990; P. DESIDERI, La romanizzazione dell’impero, in Storia di Roma,II, 2: I principi e il mondo, Torino 1991, pp. 577-626; J. WEBSTER, N. COOPER (a cura di), Roman Imperi-alism: Post-Colonial Perspectives, Leicester Archaeology Monographs, 3, Leicester 1996; D. J. MATTINGLY

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mente tale in quanto (dal momento del collasso dell’Unione Sovietica fino alle ripe-tute e devastanti crisi militari ed economiche del nuovo millennio) unica superpo-tenza mondiale, tutti hanno trovato o trovano in Roma un termine di confronto daimitare o comunque da prendere in seria considerazione quale esempio di politichevirtuose, funzionali alla complessa gestione di uno stato che si origina dalla sommadi etnie, culture, tradizioni, tipologie comportamentali e universi valoriali diversi ein qualche caso contrastanti, o del tutto divergenti. La chiave del successo è indi-viduata nei diversi fattori che abbiamo già elencato: dall’omologazione culturale,ottenuta nel consenso generalizzato, alla solidità dei confini; dal benessere diffusoall’economia sostanzialmente solida pur nella sua specificità «antica»; dall’egua-glianza del diritto alle libertà cittadine e dei cittadini; dalle opportunità di mobilitàsociale a un esercizio per lo più moderato e – entro certi limiti – non violentementerepressivo del potere. Sembrano applicarsi esattamente all’impero di Roma queiprincìpi di impero lite e di soft power che due fra i maggiori politologi contempora-nei, Joseph S. Nye e Michael Ignatieff, avrebbero desiderato (e in parte temuto)fossero espressi coerentemente e pervasivamente dalla politica americana contem-poranea, al fine di vincere l’improba sfida dell’unipolarità che la sola superioritàmilitare non era in grado di far superare – e che altri studiosi individuano (e/opaventano) invece come caratteristica vincente della politica cinese contemporaneae del suo all’apparenza irresistibile progresso26.

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siècles, Seyssel 2000; K. J. BANKS, Communications and «Imperial Overstretch»: Lessons from the Eigh-teenth-Century French Atlantic, in «French Colonial History» 6, 2005, pp. 17-32; e, in generale, per itre principali imperi coloniali, A. PAGDEN, Lords of All the World. Ideologies of Empire in Spain, Britainand France c. 1500 - c. 1800, London 1995; ID., The Struggle for Legitimacy and the Image of Empire inthe Atlantic to c. 1700, in L. W. ROGER (a cura di),The Oxford History of the British Empire, I: The Ori-gins of Empire, a cura di N. CANNY, Oxford 1998, pp. 34-54; D. B. ABERNHETY, The Dynamics of Glo-bal Dominance: European Overseas Empires. 1415-1980, New Haven 2000; F. QUINN, The French Over-seas Empire, Santa Barbara CA 2001; A. PAGDEN, Fellow Citizens and Imperial Subjects: Conquest andSovereignty in Europe’s Overseas Empires, in «History and Theory», Theme Issue, 44, dicembre 2005,pp. 28-46. Cfr. pure L. NORCI CAGIANO (a cura di), Roma Triumphans? L’attualità dell’antico nellaFrancia del Settecento, Atti del Convegno internazionale di studi (Roma, 9-11 marzo 2006), Roma 2007.26 J. S. NYE JR., Bound to Lead: The Changing Nature of American Power, New York 1990; ID., The

New Rome Meets the New Barbarians, in «The Economist», 23 marzo 2002, pp. 23-25 = www.ksg.har-vard.ed/news/opeds/2002/nye_USpower_ecomist_032302; ID., The Paradox of American Power.Why the World’s only Superpower Can’t Go it Alone, Oxford 2002; M. IGNATIEFF, Empire Lite. Nation-Building in Bosnia, Kosovo and Afghanistan, London 2003; J. MEARSHEIMER, Why China’s Rise Will NotBe Peaceful, settembre 2004 (=http://mearsheimer.uchicago.edu/pdfs/A0034b.pdf); J. S. NYE JR., SoftPower: The Means to Success in World Politics, Washington DC 2005; J. GARRISON, China’s Prudent Cul-tivation of «Soft» Power and Implications for U.S. Policy in East Asia, in «Asian Affairs» 32, 2005, pp.25-30; M. FRASER, Weapons of Mass Distraction: Soft Power and American Empire, New York 2005; T.MATSUDA, Soft Power and Its Perils: U.S. Cultural Policy in Early Postwar Japan and Permanent Depen-dency, Stanford 2007; J. KURLANTZICK, Charm Offensive: How China’s Soft Power is Transforming theWorld, Bighamton NY 2007; J. S. NYE JR., The Powers to Lead, Oxford 2008; ID., Public Diplomacyand Soft Power, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», 616, 1, marzo2008, pp. 94-109; T. G. CARPENTER, Smart Power. Toward a Prudent Foreign Policy for America, Wash-ington DC 2008; Y. N. CHO, J. H. JEONG, China’s «Soft Power», in «Asia Survey» 48, 2008, pp. 453-472; Y. WANG, Public Diplomacy and the Rise of Chinese Soft Power, in «Annals of the American Acad-emy of Political and Social Science», 616, 1, marzo 2008, pp. 257-273; D. SHENG, The Dragon’s HiddenWings: How China Rises with Its Soft Power (Challenges Facing Chinese Political Development), LanhamMD 2008; G. GALLAROTTI, The Power Curse: Influence and Illusion in World Politics, Boulder CO 2010;

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Considerati dunque l’importanza culturale, politica e psicologica del limes, il suosignificato e valore (che travalica decisamente i termini di mera barriera fisica), econsiderata la sua bisecolare inviolabilità, che si sommava alla ben più duraturainviolabilità del sacro terreno italico, pomerio difeso dalla cerchia delle Alpi27, sicomprende bene perché, nella tarda primavera del 167 d.C., il superamento del con-fine fortificato retico, norico, pannonico e dacico da parte di Marcomanni, Quadi,Jazigi e di altre tribù germaniche e slave (così come l’ulteriore penetrazione bar-bara, circa un anno e mezzo dopo, nella pianura padana orientale fin sotto le muradi Aquileia) abbia rappresentato uno shock collettivo dalle conseguenze ben piùgravi del peso militare dell’evento, a cui – con spargimento di sangue, con moltosforzo ma con altrettanto vigore – si riuscì nel giro di alcuni anni a porre rimedio.La sensazione devastante della perdita di sicurezza che l’invasione barbara avevaindotto innescò complessi e concatenati processi mentali, oltre che politici, econo-mici e sociali, attraverso i quali si pervenne a quella che – per usare una celebreespressione coniata a metà degli anni Sessanta dal grecista e antropologo irlandeseEric R. Dodds28 – sarebbe stata una lunga «età dell’angoscia».L’inopinata violazione «al di qua del confine» di un territorio ritenuto intangi-

bile (e in parte considerevole addirittura non profanabile, perché protetto da sacro-sanctitas) determinò un trauma psicologico di proporzioni inusitate: un nemico inci-vile aveva osato valicare in armi il limes senza che fosse stato preventivamenteattivato alcun meccanismo giuridico di accoglienza e, quindi, in totale disconosci-

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W. MANZENREITER, The Beijing Games in the Western Imagination of China: The Weak Power of SoftPower, in «Journal of Sport and Social Issues» 34, 2010, pp. 29-48; I. PARMAR, M. COX (a cura di),Soft Power and U.S. Foreign Policy: Theoretical, Historical and Contemporary Perspectives, New York2010; G. GALLAROTTI, Soft Power: What it is, Why it’s Important, and the Conditions for its EffectiveUse, in «Journal of Political Power» 4, 2011, pp. 25-47; S. BRESLIN, The Soft Notion of China’s «SoftPower», Chatham House Asia Programme’s paper, ASP PP 2011/03 (= http://www.chatham-house.org/sites/default/files/public/Research/Asia/0211pp_breslin.pdf).27 Sulla funzione di «confine» delle Alpi cfr. N. CHRISTIE, The Alps as a Frontier (a.d. 168-774), in

«Journal of Roman Archaeology» 4, 1991, pp. 411-430; RODA, I problemi militari al confine nordorien-tale cit.; A. DE LAURENZI, Il confine d’Italia in età augustea: considerazioni storico-topografiche, in«Rivista di Studi Liguri» 67-68, 2001-2002, pp. 5-42; E. MIGLIARIO, Confini di comunità e comunitàdi confine in area alpina centro-orientale in età romana, in «Archeologia delle Alpi» 6, 1, 2002, pp. 57-74; A. MARCONE, L’Illirico e la frontiera nordorientale dell’Italia nel IV secolo d.C., in L’Illirico nell’etàgreca e romana, Atti del Convegno (Cividale del Friuli, 25-27 settembre 2003), Pisa 2004, pp. 343-359;M. VANNESSE, I Claustra Alpium Iuliarum: un riesame della questione circa la difesa del confine nord-orien-tale dell’Italia in epoca tardoromana, in «Aquileia Nostra» 78, 2007, pp. 313-340; S. GIORCELLI, LeAlpi in età romana: l’identità duale di un sistema economico, Atti del Convegno (Cogne, settembre 2003),in «Bulletins d’Etudes Préhistoriques et Arqueologiques Alpines» 15, 2005, pp. 253-259; EAD.,«Mountain microecologies»: riflessioni su ambiente, insediamenti ed economia in area alpina (IV sec. a.C. -I sec. d.C., in «Mediterraneo Antico» 8, 1, 2005 (ma 2007), pp. 223-264; EAD., Frontiere alpine e domi-nio romano: geografia, politica e religione nella definizione del confine, in Actes du XIIe Colloque interna-tional sur les Alpes dans l’Antiquité (Yenne, 2-4 octobre 2009), Aoste 2010, pp. 283-290.28 E. R. DODDS, Pagan and Christian in an Age of Anxiety. Some Aspects of Religious Experience from

Marcus Aurelius to Constantine, Cambridge 1965. Cfr. D. A. F. M. RUSSELL, Eric Robertson Dodds,1893-1979, Oxford 1983. Di particolare interesse culturale, seppur in prospettiva del tutto diversa, le

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mento dell’autorità e della forza superiore di Roma, portando con sé la fine dellapax interna instaurata da Augusto e il dramma della guerra, a cui si sarebbe prestoaggiunta la tragedia ancora più violenta di una devastante pandemia. Donde la con-trazione, progressivamente sempre più accentuata e dolorosa, di quel benessere dif-fuso che, insieme alla sicurezza, alla pace e all’autonomia cittadina, aveva costituitoun’altra ragione fondamentale di adesione consensuale generalizzata dei cittadinial sistema imperiale. Fu così che un atto di aggressione e di guerra, che in altri contesti avrebbe avuto

conseguenze certo drammatiche ma limitate alla contingenza dell’evento e valutateesclusivamente in relazione alla loro natura militare e politica, dilatò i propri effettifino all’innesco di un mutamento epocale che, comunque lo si voglia valutare in ter-mini di «decadenza» o di semplice trasformazione, avrebbe trasfigurato il volto del-l’impero. Non è certo un caso, né una bizzarria mediatica, che l’invasione marco-mannica e quadica e il trauma che ne derivò siano stati assunti come uno dei piùappropriati ed efficaci termini di paragone storico per descrivere le conseguenzepsicologiche e politiche sugli americani (e sul mondo occidentale in generale) degliattentati dell’11 settembre 2001: analoga la violazione di un’intangibilità che si sti-mava assoluta, analoga la perdita di un radicato senso di sicurezza entro confinireputati insuperabili, analogo l’innesco di conseguenze a catena destinate a modifi-care la realtà del mondo sul piano non solo politico, ma anche economico, sociale,culturale, valoriale, giuridico, e dei rapporti fra i popoli e gli individui29.In età imperiale romana la mutazione, innestandosi sullo sfondo descritto,

avrebbe coinvolto soprattutto la parte occidentale europea dell’impero fino allasecessione dell’Imperium Galliarum (e alla tripartizione de facto dello stato di Romacon il parallelo distacco, a oriente, dell’impero «palmireno») e a quella che MarioMazza, in un suo celebre volume, ebbe correttamente a definire la «restaurazioneautoritaria» di fine III secolo d.C.30.Le conseguenze degli avvenimenti di quegli anni si risentirono in modo partico-

lare lungo altri confini, diversi dal limes per antonomasia che separava il mondocivile romano dal mondo senza civiltà, non urbanizzato, dell’Oriente europeo, o dalmondo diversamente civilizzato e urbanizzato dell’Oriente asiatico; in «terre di

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connessioni fra l’esperienza di Marco Aurelio nell’età dell’angoscia e quanto si trova espresso in un sin-golare romanzo di W. SOMERSETMAUGHAM, The Narrow Corner, London 1932 (trad. it. Acque morte,Milano 2001): cfr. M. TAUFER, Acque morte = http://www.spmconsulting.it/index.php?option=com_docman&task=search_result&Itemid=92&lang=it. 29 Cfr. S. RODA, Strategie imperiali, in M. PANI (a cura di), Storia romana e storia moderna. Fasi in

prospettiva, Atti dell’Incontro di studio (Bari, 8 aprile 2003), Bari 2005, pp. 115-132, parzialmenteripreso in questo stesso volume (cap. VIII); cfr. http://pauperclass.myblog.it/archive/2010/08/26/feno-meni-storici-di-antagonismo-nel-mondo-antico-la-crisi-ro.html; J. W. JEROME, Barbarian Tenacity &Imperial Hubris: the Challenge of a Superpower, Boston 2006 (= http://www.joejerome.com/docu-ments/TheThesis.pdf).30 M. MAZZA, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d.C., Roma, Bari 1973 (Catania

1970); in generale cfr. Storia di Roma, III: L’età tardoantica, 1: Crisi e trasformazioni, Torino 1993; X.LORIOT, D. NONY, La crise de l’Empire romain 235-285, Paris 1997; M. BATS, S. BENOIST, S. LEFEBVRE,L’empire romain au IIIe siècle. De la mort de Commode au Concile de Nicée, Tournai 1997; M. CHRISTOL,L’Empire romain du IIIe siècle. Histoire politique (de 192, mort de Commode, à 325, concile de Nicée), Paris

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confine» interne, periferie perfettamente integrate nel sistema romano ma indub-biamente votate a una funzione strumentale e sussidiaria di secondo livello nell’or-ganizzazione istituzionale ed economica dell’impero, e quindi oggettivamente piùdeboli e più esposte a subire i contraccolpi del mutamento. Si tratta di fili più fra-gili e meno determinanti nella trama da cui era costituito il tessuto dell’impero: laregione subalpina occidentale e con essa città come Alba Pompeia costituiscono unadi queste zone meno robuste nel canovaccio di una stoffa solida, che fino allo scor-cio del II secolo d. C. aveva retto perfettamente, assolvendo in modo egregio ai pro-pri compiti. L’area in cui Alba Pompeia insisteva era situata alla convergenza di itinerari stra-

dali di notevole importanza, sia sul piano strategico sia sul piano economico-com-merciale: e in effetti il triangolo urbanizzato Pollentia, Alba Pompeia, AugustaBagiennorum incarna, scandendolo nell’arco di più di un secolo – dalla seconda metàdel II secolo a.C. all’età augustea – il progresso socioeconomico di un’area in via dicompleta romanizzazione: qui s’incrociavano assi viari essenziali per il collegamentotra il centro-sud della penisola, la pianura cis- e transpadana e i valichi dell’arcoalpino occidentale; qui esistevano condizioni sicuramente favorevoli allo sviluppodi un’agricoltura paralatifondistica fiorente, e quindi di un’imprenditoria terrieradi rango sociale elevato e non soltanto di estrazione locale, e qui l’economia deltransito commerciale e militare diretto a ovest e a nord conviveva con lo sfrutta-mento agricolo del territorio (che forniva prodotti – in particolare vinicoli – direttinon soltanto al mercato indigeno), nonché con attività artigianali e manifatturieredi discreto rilievo31. Non si intende qui riprendere l’annoso, e per molti versi ozioso, discorso sulle

ragioni ab origine dell’interesse di Roma per il lembo più occidentale della pianuradel Po e, ancor più specificamente, del probabile diverso approccio alla zona subal-pina a sud del Po rispetto alla zona subalpina a nord del fiume: se per un verso è

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1997; C. BADEL, A. BERENGER, L’Empire romain au IIIe siècle après J.-C., Condé-sur-Noireau 1998; J.-M.CARRIE, A. ROUSSELLE, L’Empire romain en mutation des Sévères à Constantin. 192-337, Paris 1999, che– sulla base soprattutto delle riflessioni di M. FINLEY, Ancient Slavery and Modern Ideology, New York1979 – respingono la visione tradizionale di una crisi irreversibile, preludio della fine dell’impero; A.K. BOWMAN, P. GARNSEY, A. CAMERON (a cura di), The Cambridge Ancient History, XII: The Crisis ofEmpire, a.D. 193-337, Cambridge 20052, con ampie riflessioni sul dibattito storiografico relativo allacrisi e trasformazione dell’impero e alla pluralità di interpretazioni, anche divergenti, che di essa sonostate elaborate nel tempo; K.-P. JOHNE, T. GERHARDT, U. HARTMANN (a cura di), Deleto paene impe-rio Romano. Transformationsprozesse des Römischen Reiches im 3. Jahrhundert und ihre Rezeption in derNeuzeit, Stuttgart 2006; M.-H. QUET (a cura di), La «crise» de l’Empire romain de Marc Aurèle à Con-stantin, Paris 2006, e in particolare le considerazioni-quadro di A. GIARDINA, Préface, pp. 11-18; O.HEKSTER, G. DE KLEIJN, D. SLOOTJES (a cura di), Crises and the Roman Empire, Proceedings of theVIIthWorkshop on the International Network Impact of Empire (Nijmegen, June 20-24, 2006), Lei-den 2007; K.-P. JOHNE, Die Zeit der Soldatenkaiser. Krise und Transformation des Römischen Reiches im3. Jahrhundert n. Chr. (235-284), 2 voll., Berlin 2008; O. HEKSTER, Rome and its Empire, AD 193-284,Edinburgh 2008; C. KÖRNER, Transformationsprozesse im Römischen Reich des 3. Jahrhunderts n. Chr.,in «Millennium» 8, 2011, pp. 87-123; C. ANDO, Imperial Rome AD 193 to 284. The Critical Century,Edinburgh 2012.31 S. RODA, Il territorio cuneese in età romana; stato degli studi e prospettive di ricerca, in A. A. MOLA

(a cura di), Mezzo secolo di studi cuneesi, Atti del Convegno (Cuneo, 6-7 ottobre 1979), Cuneo 1981,pp. 51-64; ID., Stratificazione sociale e ceti produttivi nel Piemonte sud-occidentale romano, in Agricoltura

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infatti evidente come, nel quadro di un’ampia azione di espansione territorialequale quella che si esercitò tra la prima e (soprattutto) la seconda metà del II secoloa.C., ai fattori di carattere strategico generale si sommarono, di volta in volta, pecu-liari motivazioni di carattere locale (le quali determinarono, ad esempio, la sceltadei luoghi di maggiore concentrazione urbana), è altrettanto logico che ogni grande

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e mondo rurale nella storia della provincia di Cuneo, Atti del Convegno (Fossano, 23-24 maggio 1981)= «Bollettino della Società per gli Studi Storici, Archeologici e Artistici della Provincia di Cuneo» 85,1981, pp. 301-313, tavv. 25-28, figg. 1-4; ID., Economia e società nelle città dell’Italia nord-occidentaleromana, in W. ECK, H. GALSTERER (a cura di), Die Stadt in Oberitalien und in den nordwestlichen Pro-vinzen des Römischen Reiches, Deutsch-Italienisches Kolloquium in italienischen Kulturinstitut Köln,Mainz-am-Rhein 1991, pp. 105-119; E. CULASSO GASTALDI, G. CRESCI MARRONE, I Taurini ai piedidelle Alpi, in Storia di Torino, I, a cura di G. SERGI, Torino 1997, pp. 95-131; G. CRESCI MARRONE,S. RODA, La romanizzazione, ibid., pp. 135-185; S. RODA, G. CANTINO WATAGHIN, Torino romana,ibid., pp. 189-230; S. RODA, F. BOLGIANI, G. CANTINOWATAGHIN, L’età tardoantica e il cristianesimo,ibid., pp. 233-291; S. RODA, F. BOLGIANI, M. GALLINA, La fine dell’impero e i primi regni barbarici,ibid., pp. 297-347; G. MENNELLA, S. BARBIERI, La città e il territorio nella testimonianza delle fontiscritte, in F. FILIPPI (a cura di), Studi per una Storia di Alba. Alba Pompeia. Archeologia della città dallafondazione alla tarda antichità, Alba 1997, vol. II, pp. 17-29; F. FILIPPI, La documentazione archeolo-gica della città, ibid., pp. 103-257; EAD., La documentazione archeologica suburbana, ibid., pp. 258-293;G. MENNELLA, S. BARBIERI, La documentazione epigrafica della città e del territorio, ibid, pp. 569-609;L. MERCANDO (a cura di), Archeologia in Piemonte, II: L’età romana, Torino 1998; S. GIORCELLI BER-SANI, Alla periferia dell’impero. Autonomie cittadine nel Piemonte sud-orientale romano, Torino 19972;EAD., Regio IX. Liguria. Alba Pompeia, in Supplementa Italica, 17, Roma 1999, pp. 37-117; S. GIOR-CELLI BERSANI, S. RODA, Iuxta fines Alpium. Uomini e dèi nel Piemonte romano, Torino 1999; L.MANINO, La fondazione di Augusta Taurinorum, in M. BARRA BAGNASCO, M. C. CONTI (a cura di),Studi di archeologia classica dedicati a Giorgio Gullini per i quarant’anni di insegnamento, Alessandria1999, pp. 79-85; D. VOTA, I tempi di Cozio. La Valle di Susa e il mondo romano dall’incontro alla primaintegrazione, Condove 1999; M. P. PAVESE, Territorio, diritto e organizzazione fondiaria nella valle delBelbo in età romana, Canelli 2000; S. GIORCELLI BERSANI, Il laboratorio dell’integrazione. Bilinguismo econfronto multiculturale nell’Italia della prima romanità, Torino 2002; L. CRACCO RUGGINI, Torino fraAntichità e Alto Medioevo, in L. MERCANDO (a cura di), Archeologia a Torino. Dall’età preromanaall’Alto Medioevo, Torino 2003, pp. 11-35; G. PACI, Linee di storia di Torino romana dalle origini al prin-cipato, ibid., pp. 107-131; S. GIORCELLI BERSANI, Tracce di tardoantico nell’Italia nord-occidentale: l’i-dentità di un territorio tra universalità e particolarismo, in EAD. (a cura di), Romani e barbari. Incontro escontro di culture, Atti del Convegno (Bra, 11-13 aprile 2003), Torino 2004, pp. 105-124; L. CRACCORUGGINI, Generali barbari ed «élites» palatine, municipali e senatorie nel Nord-Ovest d’Italia (IV-V secolo),in GIORCELLI BERSANI (a cura di), Romani e barbari cit., pp. 173-186; M. C. PREACCO, Pollentia. Unacittà romana della Regio IX, in G. CARITÀ (a cura di), Pollenzo. Una città romana per una «real villeggia-tura» romantica, Savigliano 2004, pp. 353-378; A. RAVOTTO, Considerazioni sul popolamento dell’AltaVal Tanaro in età romana, in «Rivista di Studi Liguri» 70, 2004, pp. 17-44; D. VOTA, L’occupazioneromana delle Alpi Cozie. Ipotesi sul processo d’intervento, in Romanità valsusina, La biblioteca di Segu-sium, 2, Susa 2004, pp. 15-50; G. MENNELLA, Aggiornamenti epigrafici nella Liguria padana (1999-2003), in «Epigraphica» 66, 2004, pp. 350-359; G. CRESCI MARRONE, Segusio e il processo di integra-zione nella romanità, in Romanità valsusina cit., pp. 51-62; S. GIORCELLI BERSANI, Nuovi documentiepigrafici dalla Valle Sesia (VC) per la storia della romanizzazione della Cisalpina, in «Epigraphica» 69,2007, pp. 118-147; L. BRECCIAROLI TABORELLI (a cura di), Forme e tempi dell’urbanizzazione nella Cisal-pina (II secolo a. C. - I secolo d. C.), Atti delle Giornate di studio (Torino, 4-6 maggio 2006), Borgo SanLorenzo 2007; S. GIORCELLI BERSANI, Segni e simboli dell’integrazione: documenti scritti del passaggio allaromanità nell’Italia nord-occidentale, in E. MIGLIARIO, L. TROIANI e G. ZECCHINI (a cura di), Societàindigene e cultura greco-romana, Atti del Convegno internazionale (Trento, 7-8 giugno 2007), Roma2010, pp. 161-182; L. BRECCIAROLI TABORELLI (a cura di), Oro, pane e scrittura. Memorie di una comu-nità «inter Vercellas et Eporediam», Roma 2011; S. GIORCELLI BERSANI, Aggiornamenti storico-epigra-fici nella Regio IX (Liguria), in «Historikà» 1, 2011, pp. 283-300.

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progetto espansionistico si sia alimentato di nuove giustificazioni e nuovi stimoli amisura del suo stesso crescere e del suo progressivo affermarsi con successo. Perquanto si riferisce alla zona albese, l’impulso alla romanizzazione fu conseguenzadel piano di conquista della regione cispadana, intrapresa dai Romani fin dallo scor-cio del III secolo, tra il primo e il secondo conflitto punico, e terminata più di unsecolo dopo. È possibile – ma qui si entra nell’ambito dell’ammissibilità storica piùche in quello dell’evidenza documentaria32 – che un foedus sia stato stipulato con lepopolazioni indigene, o in occasione delle distribuzioni viritarie del 179, o a seguitodelle vittoriose guerre contro i Liguri del graccano M. Fulvio Flacco, con la corre-lata occupazione del Piemonte meridionale nel periodo 125-122 a.C.33. Da qui l’al-trettanto probabile inizio di uno sfruttamento agricolo sistematico dell’area e di unconsolidamento dei tessuti urbani in via di romanizzazione, che – come nel caso diAlba Pompeia, ma anche di Pollentia, di Aquae Statiellae e, più avanti in età augu-stea, di Augusta Bagiennorum 34 – risultano tutti innestati su esperienze insediativeindigene preesistenti e quindi risultato di un processo di equilibrata fusione fra ilmodello cittadino romano e la tradizione pre- o protourbana locale. Tale sfrutta-mento delle risorse agricole è molto probabilmente all’origine di una solida pre-senza, in quest’area, di numerosi membri degli ordines più elevati della gerarchiasociale e politica romana: in particolare sono stati enumerati, nel quadrilatero cheha i vertici in Pollentia, Augusta Bagiennorum, Forum Vibii Caburrum e appuntoAlba Pompeia, venti appartenenti al massimo ordine su trentotto variamente atte-

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32 Così concordano, ad esempio, MENNELLA, BARBIERI, La città e il territorio cit., pp. 20-21 e GIOR-CELLI BERSANI, Regio IX. Liguria. Alba Pompeia cit., pp. 47-50.33 G. CRESCI MARRONE, Il Piemonte in età romana, in Museo archeologico di Chieri. Contributi alla

conoscenza del territorio in età romana, Catalogo della Mostra, Mombello di Torino 1987, pp. 11-26;GIORCELLI BERSANI, Alla periferia dell’impero cit., pp. 175-187.34 Oltre alla bibliografia generale e specifica già segnalata, cfr. anche A. T. SARTORI, Pollentia e

Augusta Bagiennorum. Studi sulla romanizzazione del Piemonte, Torino 1967; L. GONELLA, D. RON-CHETTA BUSSOLATI, Pollentia romana. Note sull’organizzazione urbanistica e territoriale, in Studi diarcheologia dedicati a P. Barocelli, Torino 1980, pp. 96-108; S. RODA, Le iscrizioni di Pollentia, in«Mélanges de l’École française de Rome - Antiquité» 97, 1985, pp. 477-494; ID., Le iscrizioni di Pol-lenzo, in Celebranda Pollentia, Atti del Convegno “Pollenzo: tutela e valorizzazione dei beni culturalie naturalistici” (Bra, 14 maggio 1984), Bra 1989, pp. 21-35; S. GIORCELLI BERSANI, Aquae Statiellae:strategie di sopravvivenza e inversioni funzionali di una città romana, in «Bollettino Storico-bibliograficoSubalpino» 95, 1997, pp. 377-421; F. FILIPPI, Nuovi dati e considerazioni sull’impianto urbano e la necro-poli di Pollentia (Regio IX-Liguria), in BARRA BAGNASCO, CONTI (a cura di), Studi di archeologia classicadedicati a Giorgio Gullini cit., pp. 49-67; E. PANERO, La città romana in Piemonte. Realtà e simbologiadella «forma urbis» nella Cisalpina occidentale, Cavallermaggiore 2000; S. GIORCELLI BERSANI, L’ideo-logia contro la crisi: due città della Liguria interna tardoantica: Aquae Statiellae o il coraggio del cambia-mento, in Centralismo e autonomie nella tarda antichità, Atti del XIII Convegno internazionale in memo-ria di A. Chastagnol (Perugia, 1-4 ottobre 1997), Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana,Napoli 2001, pp. 505-522; S. RODA, L’ideologia contro la crisi: due città della Liguria interna tardoantica:Forum Iulii Iriensium o la fiducia in un modello antico, ibid., pp. 523-536; E. GABBA, I tipi della colo-nizzazione augustea con particolare riferimento all’Italia occidentale, in R. COMBA (a cura di), I primi milleanni di Augusta Bagiennorum, Atti del Convegno (Bene Vagienna, 2 settembre 2000), Cuneo 2001, pp.13-19; S. RODA, Lo studio recente della romanità del Piemonte subpadano: appunti per una riflessione sto-riografica e metodologica, in COMBA (a cura di), I primi mille anni cit., pp. 23-37.

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stati per l’intera Regio Liguria 35, i quali evidentemente possedevano nella zona ren-dite fondiarie consistenti e aziende latifondistiche floride, sia nel settore cereali-colo, sia, soprattutto, in quello vitivinicolo36. Fin dalla romanizzazione, l’area pede-montana a sud del Po, e più specificamente il bacino del Tanaro, mostranoun’indubbia capacità attrattiva di forze imprenditoriali, che trovano qui terrenofavorevole allo sviluppo di imprese economiche redditizie, mentre lo sviluppopoleografico e urbanistico del territorio consente il successo sociale ed economico(e in qualche caso anche politico, e non soltanto nell’ovvio livello delle ammini-

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35 RODA, Stratificazione sociale cit., pp. 301-313; G. ALFÖLDY, Senatoren aus Norditalien. RegionesIX, X und XI, in S. PANCIERA (a cura di), Epigrafia e ordine senatorio, Atti del Colloquio internazionaleAIEGL (Roma, 14-20 maggio 1981), Roma 1982, vol. II, pp. 309-368, in particolare pp. 323-329; RODA,Economia e società cit., pp. 105-119; G. MENNELLA, E. ZANDA, Hasta, in Supplementa Italica, X, Roma1992, pp. 63-98; L. BOFFO, D. AMBAGLIO, Ticinum - Laumellum et vicinia, ibid., pp. 213-347; G. MEN-NELLA, Cristianesimo e latifondi tra Augusta Bagiennorum e Forum Vibii Caburrum, in «Rivista di Archeo-logia Cristiana» 79, 1993, pp. 205-222; ID., Gli Helvii di Alba Pompeia, in «Rivista di Studi Liguri»59-60, 1993-1994, pp. 135-147; G. CRESCI MARRONE, G. MENNELLA, E. ZANDA, Industria, in Sup-plementa Italica, XII, Roma 1994, pp. 33-63; G. MENNELLA, Romanizzazione ed epigrafia in Liguria (ori-ginalità, trasformazioni e adattamenti), in F. BELTRÀN LLORIS (a cura di), Roma y el nascimiento de la cul-tura epigrafica en Occidente, Atti del Convegno (Zaragoza, 4-6 novembre 1992), Zaragoza 1995, pp.17-29; G. MENNELLA, G. COCCOLUTO, Liguria reliqua trans et cis Appenninum, in Inscriptiones Chri-stianae Italiae VII saeculo antiquiores, IX, Bari 1995; S. RODA, Cisalpini in Lusitania: grandi famiglie sena-torie norditaliche nell’alto impero romano, in E. GABBA, P. DESIDERI, S. RODA (a cura di), Italia sul Betis.Studi di storia romana in memoria di Fernando Gascó, Torino 1996, pp. 32-50; G. MENNELLA, E.ZANDA, Vardacate, in Supplementa Italica, XIII, Roma 1996, pp. 231-249; E. CULASSO GASTALDI, G.MENNELLA, Forum Germa - Pedona, ibid., pp. 251-328; G. CRESCI MARRONE, S. RODA, La romaniz-zazione, in Storia di Torino cit., vol. I, pp. 135-185; S. RODA, Città e agri nella regione subalpina romana,ibid., pp. 167-185; MENNELLA, BARBIERI, La città e il territorio cit., pp. 23-25; A. M. ANDERMAHR,Totus in praediis. Senatorischer Grundbesitz in Italien in den Fruhen und Hohen Kaiserzeit, Bonn 1998; G.CRESCI MARRONE, F. FILIPPI, Forum Vibi - Caburrum, in Supplementa Italica, XVI, Roma 1998, pp.369-398, nn. 1-17; G. ALFÖLDY, Die Eliten im romischen Norditalien: Senatoren aus den regiones IX, Xund XI, in ID. (a cura di), Städte, Eliten und Gesellschaft in der Gallia Cisalpina. Epigraphisch-historischeUntersuchungen, Stuttgart 1999, pp. 257-291, in particolare pp. 274-283; GIORCELLI BERSANI, RegioIX. Liguria. Alba Pompeia cit., pp. 47-50; G. MENNELLA, E. ZANDA, Forum Fulvi - Valentia, in Sup-plementa Italica, XVII, Roma 1999, pp. 11-36; E. SALOMONE GAGGERO, Istituzioni politiche e figurepubbliche nella Liguria di età imperiale, in M. G. ANGELI BERTINELLI (a cura di), La Liguria nell’imperoromano: gli imperatori liguri, Atti del Convegno (Genova, 30 novembre 2000), Genova 2002, pp. 71-97; G. MENNELLA, E. BERNARDINI, Regio IX. Liguria. Pollentia. Augusta Bagiennorum, in SupplementaItalica, XIX, Roma 2002, pp. 131-235; G. MENNELLA, I Caesii di Pollentia, in A. M. CORDA (a curadi), Cultus splendore. Studi in onore di Giovanna Sotgiu, Senorbì 2003, vol. II, pp. 719-731; L. BOFFO,Regio IX. Liguria. Forum Iulii Iriensium, in Supplementa Italica, XXI, Roma 2004, pp. 13-58; G. MEN-NELLA, Regio IX. Liguria. Vallis Tanari Superior, ibid., pp. 189-195; ID., Aggiornamenti epigrafici nellaLiguria padana (1999-2003), in «Epigraphica» 66, 2004, pp. 350-359; V. E. PISTARINO, Aquae Statiel-lae, in Supplementa Italica, XXV, Roma 2010, pp. 71-137.36 R. COMBA (a cura di), Vigne e vini nel Piemonte antico, Atti del Convegno (Alba, 23 aprile 1994),

Alba 1994, in particolare i contributi di F. FILIPPI, Le anfore vinarie di Alba Pompeia (fine I sec. a.C. - Isec. d.C.), pp. 63-111, e di L. CRACCO RUGGINI, La vite nel Piemonte romano: produzioni e commerci,pp. 161-169. Cfr. pure RODA, Stratificazione sociale cit., pp. 301-313; E. CULASSO GASTALDI, Il casodi Scarnafigi e l’«ager saluzzensis» nella romanizzazione della Cispadana occidentale, in A. A. MOLA (acura di), Scarnafigi nella storia, Atti del Convegno di studi (Scarnafigi, 29 ottobre 1989), Cuneo 1992,pp. 11-41; G. MENNELLA, Cristianesimo e latifondi tra Augusta Bagiennorum e Forum Vibii Caburrum,in «Rivista di Archeologia Cristiana» 69, 1993, pp. 205-222; ANDERMAHR, Totus in praediis cit., pp.287-295; GIORCELLI BERSANI, Tracce di tardoantico cit., pp. 108-112.

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strazioni cittadine locali) di taluni elementi indigeni: la parabola del successo di unpersonaggio come Publio Elvio Pertinace e della sua famiglia37 appare in questosenso rappresentativa e paradigmatica di una fenomenologia di rilevante mobilitàsociale, di tipo verticale, di lungo raggio, intragenerazionale, che interessa il conte-sto urbano-rurale albese (così come pollentino, bagienno, e, a più largo raggio,acquense, astense, taurino ecc.). Tale mobilità risulta a sua volta perfettamente coe-rente con le modalità di sviluppo che tra I secolo a.C. e II secolo d.C. paiono carat-terizzare l’intera società opulenta – nell’autentico senso galbraithiano del termine38– del mondo romano, riportando anche in questo senso il Pedemonte romano delmedesimo periodo storico in sintonia con i meccanismi generalizzati di crescita econ i modelli prevalenti di evoluzione socioeconomica dell’impero39. La spinta pro-pulsiva della zona alla romanizzazione, prima, e al rapido decollo economico, poi,trae alimento d’altra parte non soltanto dalla sfruttabilità dei suoli in senso agricolo

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37 Cfr. H.-G. PFLAUM, Les carrières procuratoriennes équestres sous le Haut-Empire romain, Paris1960, vol. I, pp. 451-454, n. 179; A. BIRLEY, The Coups d’état of the Year 193, in «Bonner Jahrbucher»169, 1969, pp. 247-280; F. CASSOLA, Pertinace durante il principato di Commodo, in «La parola del pas-sato» 20, 1965, pp. 451-477; G. PIGNATA, Cenni sulla carriera militare e politica di Publio Elvio Perti-nace, in «Atti e Memorie della Società Savonese di Storia Patria», n.s., XI, 1977, pp. 7-18; A. LIPPOLD,Zur Laufbahn des P. Helvius Pertinax, in J. STRAUB (a cura di), Bonner Historia-Augusta Colloquium.1979/1981, Bonn 1983, pp. 173-191; R. SORACI, L’opera legislativa di Pertinace, in «Quaderni Catanesidi Studi Classici e Medievali» 6, 1984, pp. 315-354; J. A. GARZÓN, El emperador Publio Helvio Pérti-nax en las fuentes. Estado de la cuestión, in «Betica» 1984, pp. 195-210; F. MILAZZO, Pertinacis «nata-lis imperii», in Studi in onore di C. Sanfilippo, VII, Milano 1987, pp. 437-461; G. ALFÖLDY, P. HelviusPertinax und M. Valerius Maximianus, in ID., Römische Heeresgeschichte. Beiträge 1962-1985, Amster-dam 1987, pp. 326-348; H. DEVIJVER, Les militiae equestres de P. Helvius Pertinax, in «Zeitschrift furPapirologie und Epigraphik» 75, 1988, pp. 207-214; A. BIRLEY, The African Emperor Septimius Seve-rus, London 19882; J. A. GARZÓN, El emperador Publio Helvio Pértinax y la transformación política delaño 193, Málaga 1990; L. CRACCO RUGGINI, Publio Elvio Pertinace o il governo delle buone intenzioni,in «Alba Pompeia», n.s., 15, 1994, pp. 5-20; GIORCELLI BERSANI, Regio IX. Liguria. Alba Pompeia cit.,pp. 54-55; E. LO CASCIO, Gli alimenta e la «politica economica» di Pertinace, in ID., Il princeps e il suoimpero. Studi di storia amministrativa e finanziaria romana, Bari 2000, pp. 293-311; S. RODA, Introdu-zione, in ANGELI BERTINELLI (a cura di), La Liguria nell’impero romano cit., pp. 9-22; A. DONATI, Unimperatore ligure: Pertinace di Alba Pompeia, ibid., pp. 23-28; K. STROBEL, Commodus und Pertinax.«Perversion der Macht» und «Restauration des Guten»?, in H. HEFTNER, K. TOMASCHITZ (a cura di), AdFontes! Festschrift für Gerhard Dobesch zum 65. Geburtstag, Wien 2004, pp. 519-532; R. G. FERNÁNDEZ,M. S. GÓMEZ, Pautas para el estudio de la relación emperadores – senado (197-251), in E. CONDE GUERRI,R. GONZÁLEZ FERNÁNDEZ, A. EGEAVIVANCOS (a cura di),Espacio y tiempo en la percepción de la Antigüe-dad Tardía: homenaje al profesor Antonino González Blanco, «In maturitate aetatis ad prudentiam» =«Antigüedad Cristiana. (Murcia)» 22, 2006, pp. 57-77; M. MAZZA, Il breve regno (in)felice di Publio ElvioPertinace: considerazioni sull’impero romano alla svolta dell’età Severiana, in FOX, POMPONI (a cura di),Publio Elvio Pertinace. Imperatore Romano cit., pp. 11-28, e tutti gli altri contributi in tali Atti contenuti.38 J.-K. GALBRAITH, The Affluent Society, New York 1958 (trad. it. a cura di G. BADIALI, S. COTTA,

Economia e benessere, Milano 1959; poi come La società opulenta, Milano 19632, Torino 1969).39 Sulle tematiche della mobilità sociale, specie intragenerazionale, dell’impero cfr. M. CORBIER,

Les comportaments familiaux de l’aristocratie romaine (IIe avant J.-C. - IIe après J.-C.), in «Annales ESC» 42,1987, pp. 1267-1286; C. SETTIPANI, Continuité gentilice et continuité familiale dans les familles sénato-riales romaines a l’époque impériale. Mythe et réalité, Oxford 2000; S. RODA, Classi medie e società altoim-periale romana: appunti per una riflessione storiografica, in A. SARTORI, A. VALVO (a cura di), Ceti mediin Cisalpina, Atti del Colloquio internazionale (Milano, 14-16 settembre 2000), Milano 2002, pp. 27-36, ripreso e aggiornato in questo volume (cap. V); L. GAGLIARDI, Mobilità e integrazione delle personenei centri cittadini romani. Aspetti giuridici, I: La classificazione degli incolae, Milano 2006.

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e da una serie di attività artigianali più o meno correlate40, ma anche dalla neces-sità, che interviene nel corso del I secolo a.C., di organizzare un sicuro fronte equi-paggiato di supporto per l’espansione in Gallia e nel centro-nord europeo: è in que-sta prospettiva che il sistema viario subalpino e la trama delle città economicamenteprospere e imprenditorialmente attrezzate della regio IX nordoccidentale, così comequelli della regio XI occidentale, divengono strategicamente nodali, rispetto al tran-sito degli eserciti verso i passi alpini e rispetto alle complesse esigenze di vettova-gliamento e di sostegno alle truppe, nonché all’articolato indotto economico che taligrandiose operazioni generavano. A riprova della dimensione invero considerevoledelle azioni a cui il territorio subalpino doveva fornire base essenziale d’appoggiovi è la rinnovata attività di fondazione cittadina, che si manifesta nell’epoca augu-stea (con prodromi in età cesariana) attraverso la nascita di civitates Augustae (Augu-sta Bagiennorum, Augusta Taurinorum, Augusta Praetoria): le nuove, o rinnovate,definizioni urbane, che vanno a perfezionare il disegno poleografico del Piemonteromano, trovano la loro principale ragione d’essere appunto in relazione alle esi-genze strategiche di cui si è detto41. La combinazione di un’apprezzabile attività agricola a medio-alto reddito –

destinata prevalentemente, ma non solo, al mercato locale e che non interessavaesclusivamente imprenditori indigeni – con l’importante e fruttuoso ruolo strate-gico assunto grazie al progressivo incremento della frequenza dei transiti militari ecommerciali verso l’oltralpe determinò la discreta fortuna di un’area che per alcunidecenni condivise, da posizioni di periferia ma non scollegate, il trend positivo delbenessere imperiale.

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40MENNELLA, BARBIERI, La città e il territorio cit., pp. 25-27; FILIPPI, La documentazione archeolo-gica cit., pp. 103-293; GIORCELLI BERSANI, Regio IX. Liguria. Alba Pompeia cit., pp. 57-58; S. SAN-DRONE, La produzione artigianale di età romana nella Cispadana occidentale, in «Rivista di Studi Liguri»69, 2003, pp. 119-164.41 E. GABBA, Il sistema degli insediamenti cittadini in rapporto al territorio nell’ambito delle zone subal-

pina e alpina in età romana, in Il sistema alpino. Uomini e territorio, Bari 1975, vol. II, pp. 87-108 = L’I-talia romana, Como 1994, pp. 275-289; G. BANDELLI, Ricerche sulla romanizzazione della Gallia Cisal-pina, Roma 1988; G. CRESCIMARRONE, E. CULASSO GASTALDI, Per pagos vicosque. Torino romana fraOrco e Stura, Padova 1988; M. DENTI, I Romani a nord del Po. Archeologia e cultura in età repubblicanae augustea, Milano 1991; CASSOLA, La colonizzazione romana della Transpadana, in ECK, GALSTERER (acura di), Die Stadt in Oberitalien cit., pp. 17-44; S. RODA, Torino colonia romana, in V. CASTRONOVO(a cura di), Storia di Torino illustrata, I: Torino antica e medioevale, Milano 1992, pp. 1-20; L. CRACCORUGGINI, Per la storia di una città «periferica»: Augusta Taurinorum, in Studi in memoria di G. Lombardi= «Studia et Documenta Historiae et Iuris» 60, 1994 (1996), pp. 19-48; G. CRESCI MARRONE, Ilritardo nella romanizzazione e le prime esperienze di vita municipale, in Storia di Torino cit., I, pp. 135-143; EAD., La fondazione della colonia, ibid., pp. 144-155; S. RODA, La romanità periferica del Piemonteimperiale: un disinteresse motivato, ibid., pp. 155-167; ID., Città e agri nella regione subalpina romana,ibid., pp. 167-185; ID., La città altoimperiale, ibid., pp. 189-202; ID., L’aristocrazia urbana, ibid., pp.202-214; ID., La vita e la società civile fra città e agro, ibid., pp. 214-230; S. GIORCELLI BERSANI, Unparadigma indiziario: cultualità cisalpina occidentale in età romana, in GIORCELLI BERSANI, RODA, Iuxtafines Alpium cit., pp. 19-130, in particolare pp. 28-49; EAD., Storia di Bra dalle origini alla rivoluzionefrancese, I: Le origini di Bra. Il Medioevo, a cura di F. PANERO, Savigliano 2007, pp. 35-56, 88-97, 132-138; EAD., Ai confini di due culture: bilinguismo e romanizzazione nella Cisalpina, in G. CANTINOWATA-GHIN (a cura di), Finem dare: il confine tra sacro, profano e immaginario. A margine della stele bilingue delMuseo Leone di Vercelli, Atti del Convegno internazionale (Vercelli, 22-24 maggio 2008), Vercelli 2011,pp. 97-107.

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A partire dalla metà del I secolo a.C., l’economia del transito dovette in effettiassumere un peso sempre maggiore nel bilancio delle realtà cittadine pedemontanecome Alba Pompeia (uno degli insediamenti più rappresentativi dell’area subpadanaoccidentale): ciò indubbiamente contribuì – come abbiamo appena visto – al lorosviluppo, diversificando le fonti di reddito e favorendo una molteplicità di impresee nuove attività di lavoro; ma è altrettanto vero che ne alterò profondamente il pro-filo socioeconomico, rendendole in larga misura dipendenti da processi strategicialtrove elaborati e controllati, e proiettandole in una fragile (perché strumentale)dimensione di «frontiera interna», più esposta agli effetti che le mutazioni contin-genti delle prospettive politiche dell’impero potevano generare. In questo senso, unduro colpo all’assetto economico e sociale dell’area subalpina venne sicuramente dalmutamento di strategia politica imposto da Augusto dopo il disastro germanico del9 d.C., che fatalmente contrasse i volumi del transito e del supporto logistico, conovvi effetti negativi su un tessuto imprenditoriale terziario e di servizio da qualchetempo sviluppatosi per provvedere a esigenze ben più rilevanti rispetto a quelle delnormale traffico mercantile e militare, in una realtà di confini definitivamente trac-ciati e di pace interna stabile42. Il consolidamento del limes renano-danubiano, in altri termini, riportò l’area alle

dimensioni di marginalità che le erano fatalmente proprie nel sistema economicointegrato dell’impero43: una marginalità che si può considerare «aurea», fino aquando la compagine socioeconomica dell’alto impero mantenne livelli alti di pro-duzione del reddito e una distribuzione ampia (e diffusa, senza gravi e nocive

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42 WELLS, The Battle That Stopped Rome cit.; SOMMER, Die Arminiusschlacht cit.; F. M. BORDE-WICH, The Ambush that Changed History, in «Smithsonian Magazine», settembre 2005, pp. 74-81;DREYER, Arminius und der Untergang des Varus cit.; MURDOCH, Rome’s Greatest Defeat cit.; CLUNN, TheQuest for the Lost Roman Legions cit.; G. MOOSBAUER, Die Varusschlacht, München 2009; MCNALLY,Teutoburg Forest AD 9 cit.; D. TIMPE, Die «Varusschlacht» in ihren Kontexten. Eine kritische Nachlesezum Bimillennium 2009, in «Historische Zeitschrift» 293, 2012, pp. 593-652.43 A. SCHIAVONE, La storia spezzata. Roma antica e occidente moderno, Roma, Bari 1996; J.-M.

CARRIÉ, L’economia e le finanze, in Storia di Roma, IV, Torino 1993, pp. 751-787; GIARDINA, L’Ita-lia romana cit.; R. DUNCAN-JONES, Structure and Scale in the Roman Economy, nuova ed., Cambridge2002; H.-J. DREXHAGE, H. C. KONEN, K. RUFFING, Die Wirtschaft des Römischen Reiches, Berlin2002; E. LO CASCIO, L’economia dell’Italia romana nella testimonianza di Plinio, in L. CASTAGNA, E.LEFÈVRE (a cura di), Plinius der Jünger und seine Zeit, München-Leipzig 2003, pp. 281-302; ID., La«New Institutional Economics» e l’economia imperiale romana, in PANI (a cura di), Storia romana e sto-ria moderna cit., pp. 69-83; ID., The Emperor and his Administration, in A. K. BOWMAN, P. GARNSEY,A. CAMERON (a cura di), Cambridge Ancient History, 2, Cambridge 2005, vol. XII, pp. 131-183; T.LEWIT, Villas, Farms and the Late Roman Rural Economy (third to fifth Centuries AD), BAR, 568, Oxford2005; E. LO CASCIO, La dimensione finanziaria, in L. CAPOGROSSI COLOGNESI, E. GABBA (a cura di),Gli statuti municipali, Pavia 2006, pp. 672-699; P. TEMIN, Estimating GDP in the Early Roman Empire,in E. LO CASCIO (a cura di), Innovazione tecnica e progresso economico nel mondo romano, Bari 2006,pp. 31-54; ID., The Economy of the Early Roman Empire, in «The Journal of Economic Perspectives»20, 2006, pp. 133-151; U. FELLMETH, Pecunia non olet. Die Wirtschaft der antiken Welt, Darmstadt2008; W. SCHEIDEL, S. FRIESEN, The Size of the Economy and the Distribution of Income in the RomanEmpire, in «The Journal of Roman Studies» 99, 2009, pp. 61-91; P. F. BANG, The Ancient Economyand New Institutional Economics, ibid., pp. 194-206; E. LO CASCIO, P. MALANIMA, GDP in Pre-Modern Agrarian Economies (1-1820 AD): A Revision of the Estimates, in «Rivista di storia economica»25, 2009, pp. 387-415; A. FLECKNER, Antike Kapitalvereinigungen. Ein Beitrag zu den konzeptionellenund historischen Grundlagen der Aktiengesellschaft, Köln 2010; J. ANDREAU, L’économie du monderomain, Paris 2010; A. MARCONE, F. CARLÀ, Economia e finanza a Roma, Bologna 2011.

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discontinuità in senso sociale verticale o in senso geografico orizzontale) della ric-chezza e del benessere; ma quando – in seguito alle vicende dell’avanzato II secolo– l’intero assetto su cui si fondava il principato augusteo cominciò a mostrare evi-denti segni di indebolimento e di recessione, l’area più occidentale della pianurapadana ne risentì particolarmente, mostrando non solo di avere esaurito la propriaspinta propulsiva, da tempo indebolita, ma anche di non possedere adeguate risorseper attuare politiche economiche anticicliche che facessero fronte alla crisi. Proprio mentre un personaggio simbolicamente e concretamente rappresenta-

tivo dell’occidente cispadano come Publio Elvio Pertinace percorreva una brillantecarriera militare, amministrativa e politica, ottenendo l’adlectio senatoriale, altis-simi incarichi di comando, numerosi e prestigiosi governatorati, la prefettura diRoma, il consolato e, infine, seppur per soli tre mesi, la porpora imperiale, cittàcome Alba Pompeia erano già ampiamente transitate da quella condizione di pro-sperità che i materiali archeologici ed epigrafici e le testimonianze di attività eco-nomiche e commerciali certificano44, a una situazione di regresso economico evi-dente e per molti aspetti non reversibile, nonostante una (peraltro controversa enon ancora del tutto valutata) ripresa di vitalità e attività che si sarebbe verificataattorno alla metà del IV secolo. La crisi, del resto, doveva avere toccato punte preoc-cupanti già tra l’ultimo quarto del I e la prima metà del II secolo d. C., se ad esem-pio l’attestazione di una nota iscrizione (CIL V, 7603: M(arco) Carsio M(ani) [f(ilio)]/ Cam(ilia) Secundo / praef(ecto) fabrum / iudic(i) ex V dec(uriis) / curatori […]) davveropuò essere riferita a una curatela della res publica di Alba Pompeia e non ad altroincarico amministrativo locale privo delle specifiche valenze di commissariamentostatale45; ma d’altro canto un sicuro cur(ator) r(ei) pub(licae) Alb(ensium Pompeiano-rum), nella persona dell’eques taurinense T. Vennonius Aebutianus, è ricordato inun’iscrizione romana di metà II secolo46. È certo che, tra la seconda metà del IIsecolo d.C. e l’inizio del III, il profondo silenzio delle fonti, la fine dell’uso dellanecropoli, l’interruzione generalizzata dell’attività di produzione epigrafica (noncerto compensata dal ritrovamento in tempi non lontani di un frammento di incerta

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44 FILIPPI, La documentazione archeologica della città cit., pp. 103-257; EAD., La documentazionearcheologica suburbana cit., pp. 258-293, nonché tutta la sezione de I Materiali, in FILIPPI (a cura di),Studi per una Storia di Alba cit., con i contributi di M. C. PREACCO, P. LEVATI, M. VOLONTÉ, F. FILIPPI,A. GABUCCI, A. DEODATO, A. QUERCIA, B. BRUNO, L. VASCHETTI, C. DE MARCHI, F. BARELLO, G.MENNELLA e S. BARBIERI; G. MENNELLA, Percorsi e percorrenze dei mercanti romani tra il Po e il mondotransalpino: tre tipologie a confronto, in G. CRESCIMARRONE, M. TIRELLI (a cura di), Produzioni, mercie commerci in Altino preromana e romana, Atti del Convegno (Venezia, 12-14 dicembre 2001), Roma2003, pp. 389-399.45 MENNELLA, BARBIERI, La documentazione epigrafica cit., pp. 576-577, n. 13; GIORCELLI BER-

SANI, Regio IX. Liguria. Alba Pompeia cit., pp. 66-67.46 CIL VI, 1635 = XI, 3940 = ILS 5006; G. CAMODECA, Ricerche sui curatores rei publicae, ANRW,

II, 13, 1980, pp. 518-519; F. JACQUES, Les curateurs des cités dans l’Occident romain de Trajan à Gallien.Etudes prosopographiques, Paris 1983, pp. 338-340; RODA, L’aristocrazia urbana cit., pp. 202-214; MEN-NELLA, BARBIERI, La città e il territorio cit., p. 25; GIORCELLI BERSANI, Regio IX. Liguria. Alba Pom-peia cit., p. 56; J. RÜPKE, A. GLOCK, Fasti sacerdotum. Die Mitglieder der Priesterschaften und das sakraleFunktionspersonal römischer, griechischer, orientalischer und jüdisch-christlicher Kulte in der Stadt Rom von300 v. Chr. bis 499 n. Chr., II: Biographien, Potsdamer Altertumswissenschaftliche Beiträge, 12, 2,Stuttgart 2005, p. 1359.

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origine, ricostruito in maniera dubbia e interlocutoria, e senza disporre di «pun-tuali riferimenti cronologici»47), la mancata ricostruzione di edifici abitativi crollatiprima del III secolo e gli scarsi riscontri monetali48 forniscono, complessivamente,più prove che indizi del crepuscolo – neppure troppo dolce e lento – di un insedia-mento urbano che, come polo forse più significativo della zona, aveva svolto unruolo rilevante per il controllo del territorio e quale propulsore di attività agricolee commerciali soprattutto legate al transito, secondo la vocazione strutturale, manel contempo limitante, della Cisalpina occidentale romana. Il declino che conclude una stagione contrassegnata, specie nella fase iniziale

fino al I secolo d.C., da periodi anche di notevole benessere (attestato dalla tipolo-gia dei manufatti, dalla circolazione dei beni e dalla qualità/quantità dei consumi)è del resto legato – a partire dalla seconda metà del II secolo e come avvenne peraltre realtà finitime o poco discoste, come Augusta Taurinorum – all’ulteriore dra-stica riduzione dei flussi di traffico da e per le Gallie, e dal progressivo spostarsi delbaricentro economico dell’impero verso ovest e verso sud. Venuta gradualmente meno la funzionalità principale assunta dalle città ai piedi

delle Alpi occidentali in età cesariano-augustea, e non potendosi compensare senon assai parzialmente tale funzionalità con attività artigianali e agricole, comun-que di supporto e sempre più secondarie in un’età di decremento generalizzatodella produzione nella parte occidentale dell’impero, l’impianto socioeconomicosu cui insediamenti come quello albese si reggevano si sfaldò rapidamente, con-dannando la città a una decadenza che neppure la fondazione diocesana di duesecoli più avanti avrebbe potuto correggere, se non in termini comunque modestirispetto alla fioritura trascorsa49. Se nell’avanzato III secolo anche Alba conobbe un timidissimo barlume di

ripresa, come qualche tenue indizio sembra suggerire, fu forse perché, al pari di

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47 G. MENNELLA, S. BARBIERI, Caracalla ad Alba Pompeia, in «Rivista di Studi Liguri» 63-64,1997-1998 = D. GANDOLFI (a cura di), Atti del Convegno nel ricordo di Nino Lamboglia. Studi di storia,toponomastica, epigrafia, archeologia, storia dell’arte e restauro, pp. 193-199. Degli stessi autori, La docu-mentazione epigrafica cit., pp. 575, n. 9; M. G. ANGELI BERTINELLI, Conclusioni, in EAD. (a cura di),La Liguria nell’impero romano cit., pp. 98-128, in particolare p. 115. 48 FILIPPI, Per la conoscenza di Alba Pompeia, in EAD. (a cura di), Studi per una Storia di Alba cit.,

pp. 13-16; F. BARELLO, La documentazione numismatica, ibid., pp. 549-568; più in generale L. CRACCORUGGINI, Milano nella circolazione monetaria del tardo impero: esigenze politiche e risposte socioeconomi-che, in G. GORINI (a cura di), La Zecca di Milano, Atti del Convegno internazionale di studio (Milano,9-14 maggio 1983), Milano 1984, pp. 13-58; L. MERCANDO, Testimonianze tardoantiche nell’odiernoPiemonte, in G. SENA CHIESA, E. A. ARSLAN (a cura di), Felix temporis reparatio, Atti del Convegnoarcheologico internazionale “Milano capitale dell’impero romano” (Milano, 8-11 marzo 1990), Milano1992, pp. 241-271; S. RODA, La trasformazione del III e IV secolo: tesaurizzazione e nuovo ruolo politico-strategico della Cisalpina occidentale, in Storia di Torino cit., I, pp. 233-246; GIORCELLI BERSANI, Traccedi tardoantico cit., pp. 105-124; S. BALBI DE CARO, Publio Elvio Pertinace e la moneta, in FOX, POM-PONI (a cura di), Publio Elvio Pertinace. Imperatore Romano cit., pp. 65-78.49G. CONTERNO, Pievi e chiese dell’antica diocesi di Alba, in «Bollettino della Società per gli Studi

Storici, Archeologici e Artistici della Provincia di Cuneo» 80, 1979, pp. 55-88; F. BOLGIANI, La pene-trazione del cristianesimo in Piemonte, in Atti del V Congresso nazionale di archeologia cristiana, Roma1982, vol. I, pp. 37-61; L. CRACCO RUGGINI, La cristianizzazione delle città dell’Italia settentrionale, inECK, GALSTERER (a cura di), Die Stadt in Oberitalien cit., pp. 235-249; MENNELLA, COCCOLUTO, Ligu-ria reliqua trans et cis Appenninum cit., pp. 21-24; MENNELLA, BARBIERI, La documentazione epigrafica

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Augusta Taurinorum e di altri centri urbani subalpini, la città si avvantaggiò mode-ratamente della nascita del secessionista Imperium Galliarum 50. Nella breve sta-gione della tripartizione dello stato imperiale e della sopravvivenza dell’autonomoimpero occidentale, le città romane pedemontane – o quel che di esse rimaneva –videro improvvisamente tradotta la loro condizione di marginalità relativa rispettoalle aree economicamente, strategicamente e demograficamente più forti dello statoromano, in condizione di perifericità effettiva e concreta. Il limes virtuale si tra-mutava all’improvviso in limes reale, confine materiale fra ciò che restava dell’im-pero legittimo e il nuovo stato autoproclamatosi indipendente dal governo diRoma51. Quell’effimero recupero, in forme nuove e per molti aspetti inusitate, diutilità e funzionalità strategica portò un sottile raggio di luce nel buio della crisi,ridestando parzialmente attività di supporto militare e di iniziativa commerciale.Pochi anni dopo, tuttavia, la ricomposizione dell’unità dell’impero fece imboccaread Alba Pompeia e alle altre civitates subalpine un percorso di non ritorno rispettoalla passata prosperità, che nemmeno la forza perdurante dell’ideologia cittadina,né il rinnovato ruolo strategico della via per le Gallie tra IV e V secolo52 sarebberoriusciti adeguatamente a rivitalizzare53. Si avviava così all’epilogo una storia vissuta nel segno del confine e dei confini:

da una frontiera interna (le Alpi occidentali, con i loro valichi insostituibili) le città

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cit., p. 606, n. 86; GIORCELLI BERSANI, Regio IX. Liguria. Alba Pompeia cit., pp. 49-50, 106-108, nn.42-44; EAD., Tracce di tardoantico cit., pp. 105-124; EAD., La cristianizzazione del Piemonte sud-occi-dentale: le antiche diocesi di Alba e di Asti, in E. LUSSO, F. PANERO (a cura di), Insediamenti umani eluoghi di culto nelle diocesi di Alba, Mondovì e Cuneo, Atti del Convegno (La Morra, 7 maggio 2011),La Morra 2011, pp. 15-30.50 RODA, La trasformazione del III e IV secolo cit., pp. 233-246.51 J. LAFAURIE, L’Empire gaulois. Apport de la numismatique, ANRW, II, 2, Berlin, New York 1975,

pp. 853-1012; J. F. DRINKWATER, The Gallic Empire. Separatism and Continuity in the North-WesternProvinces of the Roman Empire A.D. 260-274, Historia. Historia Einzelschriften, 52, Stuttgart 1987; H.-J. SCHULZKI, Die Antoninianenprägung der gallischen Kaiser von Postumus bis Tetricus (AGK). Typenkata-log der regulären und nachgeprägten Münzen, Bonn 1996; CHRISTOL, L’Empire romain du IIIe siècle cit.52 S. RODA, Presenze barbariche in Cisalpina occidentale tra IV e V secolo: la difesa e la paura, in Storia

di Torino cit., I, pp. 297-315; E. BANZI, I miliari come fonte topografica e storica. L’esempio della RegioXI (Transpadana) e delle Alpes Cottiae, Roma 1999; E. SALOMONEGAGGERO, La manutenzione delle stradenella Liguria romana: la testimonianza dei miliari, in M. POZZAR (a cura di), Insediamenti e territorio. Via-bilità in Liguria tra il I e il VII secolo d.C., Atti del Convegno (Bordighera, 30 novembre - 1° dicembre2000), Bordighera 2004, pp. 91-111; GIORCELLI BERSANI, Tracce di tardoantico cit., pp. 105-124.53GIORCELLI BERSANI, L’ideologia contro la crisi cit., pp. 505-522; RODA, L’ideologia contro la crisi

cit., pp. 523-536; ID., La decadenza «attiva» del tardoantico pedemontano, in GIORCELLI BERSANI,RODA, Iuxta fines Alpium cit., pp. 131-225; più in generale L. CRACCO RUGGINI, G. CRACCO, Chan-ging Fortunes of the Italian City from the Late Antiquity to the Early Middle Ages, in «Rivista di Filologiae Istruzione Classica» 105, 1977, pp. 448-475; L. CRACCO RUGGINI, La città nel mondo antico, in G.WIRTH (a cura di), Romanitas-Christianitas. Untersuchungen zur Geschichte und Literatur der romischenKaiserzeit, Johannes Straub zum 70. Geburtstag am 18. Oktober 1982 gewidmet, Berlin, New York 1982,pp. 61-81; EAD., La città romana nell’età imperiale, in P. ROSSI (a cura di), Modelli di città. Strutture efunzioni politiche, Torino 1987, pp. 127-152; EAD., La città imperiale, in Storia di Roma, IV: Caratterie morfologie, Torino 1989, pp. 201-266; EAD., La cristianizzazione delle città dell’Italia settentrionale, inECK, GALSTERER (a cura di), Die Stadt in Oberitalien cit., pp. 235-249; S. RODA, Forum et Basilica. Glispazi della vita collettiva e l’identità cittadina, in M. MIRABELLA ROBERTI (a cura di), «Forum et Basilica»in Aquileia e nella Cisalpina romana, Atti della XXV Settimana di Studi aquileiesi (Aquileia, 23-28aprile 1994), in «Antichità AltoAdriatiche» XLII, 1995, pp. 15-46; ID., La polis ellenistica e la civitas

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subalpine avevano tratto impulso per il proprio decollo economico e sociale, men-tre dalla definizione stabile di una grande frontiera esterna (il limes renano-danu-biano) avevano invece ricevuto un deciso freno a ogni ulteriore sviluppo, e ora un’e-poca storica si concludeva sulle soglie di un limes inaspettato e fortuito, che sisarebbe dimostrato fragile come un arcobaleno fra due temporali e che, con la stessarapidità con cui era comparso, si sarebbe inesorabilmente dissolto. Le sorti delle città cisalpine e cispadane occidentali appaiono in questo senso un

effetto collaterale emblematico dei complessi e per molti aspetti misteriosi mecca-nismi che sovrintendono alla gestione e alle tecniche di sopravvivenza dei grandiimperi globalizzati, ove scelte cruciali a largo raggio, così come l’innesco di processistrategici a dimensione totale, possono determinare conseguenze a catena impon-derabili su aree marginali o decentrate. Può accadere, cioè, che provvedimenti coneffetto globale positivo per l’insieme di un impero, come ad esempio la decisione diAugusto di abbandonare la conquista dell’Europa centrale, sicuramente salutare perl’equilibrio dello stato romano, si rivelino dannosi per aree che sulle ricadute eco-nomiche dell’azione espansionistica avevano fino allora lucrato (e avrebbero potutocontinuare a lucrare, con il proseguimento di una simile politica); e può succedere,al contrario, che eventi globalmente infausti come la disgregazione dello statoromano nel corso del III secolo e la nascita di entità politiche secessioniste, come ilcosiddetto impero delle Gallie, offrano temporanee opportunità locali di ripresaeconomica, in deciso contrasto con un trend generalizzato di recessione. In questaprospettiva, la vicenda di una piccola città come Alba Pompeia, incastonata comealtre civitates subalpine in un’area periferica nell’immensità dell’impero, apparedavvero rappresentativa di una realtà del mondo romano che, dal punto di vistadella geografia economica del suo territorio, era punteggiata da un pulviscolo dimicrosistemi in buona misura chiusi e isolati, la cui estensione e composizionedemografica variavano in rapporto alla configurazione dei luoghi e alla storia degli

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romana: gli spazi della civiltà, in E. FALQUE, F. GASCÒ (a cura di), Graecia capta. De la conquista de Gre-cia a la helenizacion de Roma, Atti del Seminario de la Universidad Internacional Menendez y Pelayo(Universidad de Sevilla, 25-29 ottobre 1993), Huelva 1996, pp. 83-103; L. CRACCO RUGGINI, Città ecampagne del Norditalia: una «storia spezzata»?, in Centralismo e Autonomie locali nella Tarda Antichità.Categorie concettuali e realtà concrete, Atti del XIII Convegno internazionale in memoria di A. Cha-stagnol (Perugia, 1-4 ottobre 1997), Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, XIII, Napoli2001, pp. 477-503. Sul tardoantico subalpino in aree finitime all’albese cfr. pure GIORCELLI BERSANI,Alla periferia cit., pp. 202-221; RODA, La trasformazione del III e IV secolo cit., pp. 233-246; ID., Presenzebarbariche cit.; E. MICHELETTO, Augusta Bagiennorum e Pollentia: trasformazioni, abbandoni, continuitàdell’insediamento tra V e XI secolo. Una rilettura archeologica, in COMBA (a cura di), I primi mille anni cit.,pp. 67-88; CRACCO RUGGINI, Torino fra Antichità e Alto Medioevo cit., pp. 11-35; G. MENNELLA, E.MICHELETTO, M. C. PREACCO, Bra. Frazione di Pollenzo. Piazza Vittorio Emanuele. Necropoli romana,tardo antica e insediamento medioevale: i documenti epigrafici, in «Quaderni della SoprintendenzaArcheologica del Piemonte» 20, 2004, pp. 184-191; GIORCELLI BERSANI, Tracce di tardoantico cit., pp.105-124; E. MICHELETTO, Pollenzo e il Piemonte meridionale in età gota, in GIORCELLI BERSANI (a curadi), Romani e barbari cit., pp. 226-242; EAD., Il contributo delle recenti indagini archeologiche per la sto-ria di Pollenzo dall’età paleocristiana al XIV secolo, in CARITÀ (a cura di), Pollenzo. Una città romana cit.,pp. 379-403; E. MIGLIARIO, La civilitas minacciata: romanizzazione alpina superstite fra V e VI secolo, inAtti dell’Accademia Roveretana degli Agiati. Classe di Scienze Umane, Lettere ed Arti, – Giornata di studistorico-archeologici in memoria di A. Rigotti, v. 255, v. 5, n. 2.a (2005), pp. 49-63.

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insediamenti54, e che quindi reagivano alle dinamiche globali dell’impero in modospesso anomalo o contrastante. Non solo, ma la stessa vicenda è altrettanto rappresentativa di quella dialettica

fra locale e globale nella storia dei grandi modelli di imperi-mondo politicamente edeconomicamente integrati, ove l’incontro reciproco di culture più o meno locali(una sorta di clash of localities) si dovrebbe tradurre in una ridefinizione continuadei contenuti e dei tratti economico-identitari di ciascuna area, per quanto margi-nale essa possa essere. In altri termini, gli imperi globalizzati del presente e del pas-sato hanno la necessità di agire sul piano politico, economico e culturale secondoprocessi che oggi si sogliono definire di glocalizzazione, in cui elementi contraddit-tori vengono compresi e decifrati nella loro unità, in una logica che deve rifiutareogni pretesa di unicità, limitando il globale in funzione della capacità di valutare leesigenze del locale55. Se ciò non avviene, se fra locale e globale esplodono e si mol-tiplicano i contrasti, allora il rischio è che la stabilità stessa del sistema entri in crisi,così come la sua legittimità a sostenere una leadership unitaria. Questa prospettiva,

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54 SCHIAVONE, La storia spezzata cit., p. 74.55 Su queste tematiche cfr. ad es. R. ROBERTSON, Globalization: Social Theory and Global Culture,

London 1992; ID., Glocalization: Time-Space and Homogeneity-Heterogeneity, in M. FEATHERSTONE,S. LASH, R. ROBERTSON (a cura di), Global Modernities, Thousand Oaks CA 1995, pp. 25-44; Z. BAU-MAN, Globalization: The Human Consequences, Cambridge 1998 (trad. it. Dentro la globalizzazione: leconseguenze sulle persone, Roma, Bari 1999); U. BECK, Che cos’è la globalizzazione, Roma 1999; R.ROBERTSON, Globalization theory 2000+: Major Problematics, in G. RITZER, B. SMART (a cura di),Handbook of Social Theory, London 2001, pp. 458-471; Z. BAUMAN, Liquid Modernity, Cambridge2000 (trad. it. Modernità liquida, Roma, Bari 2002); ID., The Individualized Society, Cambridge 2001;ID., The Bauman Reader, Oxford 2001 (trad. it. Globalizzazione e Glocalizzazione, Roma 2005); J. N.ROSENAU, Distant Proximities: Dynamics Beyond Globalization, Princeton 2003; D. D’ANDREA, E. PUL-CINI (a cura di), Filosofie della globalizzazione, Pisa 20032; F. SEDDA (a cura di), Glocal. Sul presente avenire, Roma 2004; R. ROBERTSON, La necessità di fare mente glocale, in «Il Manifesto», 1° giugno2004; H. H. KHONDKER, Glocalization as Globalization: Evolution of a Sociological Concept, in «Ban-gladesh e-Journal of Sociology» 1, 2, 2004, pp. 12-20; E. SWYNGEDOUW, Globalisation or ‘Glocalisa-tion’? Networks, Territories and Rescaling, in «Cambridge Review of International Affairs» 17, 2004,pp. 25-48; P. MALIZIA, Tracce di società. Sull’azione sociale contemporanea, Milano 2005, in particolarepp. 13-29; R. ROBERTSON, Glocalization, in R. ROBERTSON, J. A. SCHOLTE (a cura di), Encyclopediaof Globalization, New York 2007, pp. 524-552; AA.VV., Globus et Locus. Dieci anni di Idee e Prati-che (1998-2008), Lugano 2008; F. MUSA BOAKARI, R. K. HOPSON, C. CAMP YEAKEY (a cura di),Power, Voice and the Public Good: Schooling and Education in Global Societies, Bingley 2008; W. HAL-LER, The Cosmopolitan-Local Continuum in Cross-National Perspective, in «Journal of Sociology» 46,2010, pp. 277-297; F. PICHLER, Cosmopolitanism in a Global Perspective: An International Comparisonof Open-minded Orientations and Identity in Relation to Globalization, in «International Sociology» 27,2012, pp. 21-50; R. ROBERTSON, Globalisation or Glocalisation?, in «Journal of International Com-munication» 18, 2, 2012, pp. 191-208 (=http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/13216597.2012.709925#.UYEseKJQbTo). Assai interessanti osservazioni sulle tensioni contraddittorie che inve-stono i grandi sistemi politici, spesso in bilico tra coerenza e collasso (donde il concetto di chaord =chaos + order), in D. W. HOCK, Birth of the Chaordic Age, San Francisco 1999; R. COOPER, TheBreaking of Nations: Order and Chaos in Twenty-first Century, New York 2003. Sulla interazionecostante negli stessi sistemi dei processi di integrazione e frammentazione, J. N. ROSENAU, Along theDomestic-Foreign Frontier: Exploring Governance in a Turbulent World, Cambridge 1997; T. L. FRIED-MANN, The World is Flat: a Brief History of the Twenty-first Century, New York 2005. In relazione allarealtà romana, da un particolare quanto significativo punto di vista, si veda ora GIORCELLI BERSANI,«Mountain microecologies» cit., pp. 223-264.

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evidentemente, in larga misura coincideva con le strategie di cattura del consensoe si identificava con una politica che salvaguardasse l’unità (non l’unicità!) dell’im-pero su alcuni princìpi fondamentali di convivenza e condivisione di valori, dandospazio alle specificità locali o sovvenendo alle necessità peculiari là dove si manife-stavano. E in questa prospettiva si mosse costantemente l’azione di governo diRoma, fino a quando le contingenze generali lo consentirono: un difficile equilibriofra la necessità di un idem sentire, quale irrinunciabile sostegno a una pacifica vitain comune che permettesse l’esercizio pieno ed effettivo del potere, e la tolleranzarispetto non solo alle tradizioni o alle identità culturali specifiche delle diecimilacittà dell’impero, ma anche rispetto alla libertà di iniziativa economica locale, inuna misura ovviamente compatibile con il sistema56. L’avventura storica di Alba romana e delle città che costituivano il tessuto

poleografico della romanità occidentale subpadana si dipana insomma, ancora unavolta, nel segno di un confine; un confine in questo caso virtuale, ma non menopoliticamente cruciale: quello che congiunge la legittimità condivisa dell’impero diRoma con la sua capacità di interpretare le esigenze di ogni cantone, anche il piùremoto, del proprio territorio. Ai margini dell’impero, nell’età dell’angoscia, la microstoria di Alba Pompeia e

delle civitates subpadane occidentali riflette dunque in continuità sul lungo periodo,come uno specchio fedele, le linee di indirizzo della grande strategia dello statoromano, registrandone nel proprio microcosmo le contraddizioni così come neaveva registrato in precedenza la spinta propulsiva, la vitalità, la forza assimilatricee organizzatrice, la capacità di sintesi politica, economica e culturale, il senso del-l’equilibrio e la percezione dei limiti della sostenibilità di governo.

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AI MARGINI DELL’IMPERO NELL’ETÀ DELL’ANGOSCIA

56 Alcuni meccanismi analoghi di penetrazione culturale, sociale ed economica in un contesto glo-balizzato e le relative difficoltà di contemperamento rispetto a usi, costumi, rapporto stato/mercato fragli Stati Uniti e le diverse aree/anime del loro «impero» sono stati studiati con profondità e acumealcuni anni fa da DE GRAZIA, L’impero irresistibile cit., Torino 2006, che costituisce tra l’altro un uti-lissimo strumento di raffronto metodologico e storico; cfr. R. SASSATELLI, E. SCALPELLINI, Discussionisu «L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo» di Victoria de Gra-zia, in «Paragrafo» 3, 2007, pp. 7-27; M. SALVATI, Come l’America conquistò l’Europa. Un libro di Vic-toria De Grazia mostra l’altra faccia dell’Impero americano (recensione di: V. DEGRAZIA, L’impero irre-sistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Torino 2006), in «Italiacontemporanea» 247, 2007, pp. 225-232.

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XIII

Legioni perdute, leggende ritrovate, lungo le strade dell’impero e oltre*

In tempi recenti, una trilogia narrativa di buon successo ha riacceso l’interessesu una leggenda che periodicamente si riaffaccia all’attenzione dei media nonchéalla valutazione critica o quanto meno perplessa della maggior parte degli studiosi,con alcune singolari eccezioni che tendono invece ad accreditarne, se non la veri-dicità, quanto meno la plausibilità in funzione di più complesse dinamiche storiche,di cui essa potrebbe costituire indiretta convalida o metaforica espressione. La leggenda è quella dei militi della legione «perduta», o «dimenticata», che in

seguito all’umiliante sconfitta subìta da Marco Licinio Crasso a Carre nel 53 a.C.,a opera dei Parti1, sarebbero stati catturati dai vincitori e avrebbero – secondo unadelle diverse versioni del racconto – accettato, per evitare la morte, di servire nel-l’esercito orientale in numero di diecimila unità. Di qui l’ulteriore capitolo, che oggiriscuote anch’esso rinnovata fortuna, di un incontro/scontro, o comunque di unarelazione fra i legionari perduti e la Cina Han, che avrebbe costituito, nei secoli acavallo dell’era cristiana, il primo significativo contatto fra i due più grandi imperidel mondo. Prendendo spunto da tale racconto nel 2008 il quarantenne Ben Kane, roman-

ziere irlandese d’incidentale nascita keniota, ha pubblicato per i tipi della RandomHouse The Forgotten Legion, a cui ha fatto seguito l’anno successivo The Silver Eagle,entrambi tradotti in italiano a circa un anno di distanza per le edizioni Piemme2. Latrilogia si è completata con Road to Rome, uscito nell’agosto 2010 in edizione elet-tronica e in formato per Amazon Kindle, mentre – e anche questo è segno dei tempi– l’edizione cartacea ha visto la luce solo nel marzo 20113. L’autore, singolare figuradi medico veterinario prestato alla letteratura e al romanzo storico passando attra-

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* Il testo qui presentato e aggiornato è recentemente comparso in «Historiká» 1, 2011, pp. 187-230.1 Su cui ora cfr. soprattutto G. C. SAMPSON, The Defeat of Rome in the East. Crassus, the Parthians,

and the Disastrous Battle of Carrhae, 53 BC, Barnsley 2008, e G. TRAINA, La resa di Roma. 9 giugno 53a.C., battaglia a Carre, Roma, Bari 2010.2 B. KANE, The Forgotten Legion, London 2008; ID., The Silver Eagle, New York 2009 (trad. it.,

rispettivamente, La legione dimenticata, Casale Monferrato 2009, e L’aquila d’Oriente, Casale Mon-ferrato 2010).3 ID., Road to Rome, Kindle Edition, Amazon Digital Service (19 agosto 2010); Road to Rome,

New York 2011; la traduzione italiana del terzo volume, con il titolo I figli di Roma, è del maggio dellostesso anno (Casale Monferrato 2011).

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verso la curiosità antiquaria e la passione per i viaggi in aree dall’importante e fasci-noso passato storico, confessa di avere avuto l’idea di scrivere The Forgotten Legionappunto durante una sua spedizione lungo la Via della seta, visitando le rovine anti-che di Merv, città-oasi nel deserto del Karakum, situata nella satrapia achemenidee – in seguito – nella provincia seleucide e partico-sasanide di Margiana, nota perbreve tempo come Alessandria e poi (per volontà di Antioco I Seleucide) comeAntiochia Margiana. Questa antica città, oggi identificabile con la città turkmenadi Mary, sorge in una posizione dallo straordinario valore strategico, rimasto immu-tato attraverso i secoli, e si segnala quale importantissimo centro di scambio cultu-rale e politico4. Appunto nella Margiana orientale, secondo la notazione pliniana,sarebbero stati condotti i Romani catturati in seguito alla sconfitta di Crasso, e inquesta regione B. Kane ambienta la vicenda dell’aruspice etrusco Tarquinio, delbarbaro gladiatore Brenno e dello schiavo Romolo; i tre (si consideri la scelta deinomi, a un tempo improbabili e banalmente evocativi), divenuti presto amici, sisarebbero arruolati nelle legioni di Crasso impegnate nella campagna partica e neavrebbero condiviso la penosa sorte nella disfatta di Carre. Catturati dai vincitoriinsieme a diecimila compagni, avrebbero accettato tutti quanti di militare nelle filadell’esercito partico per evitare la morte. Dopo mille peripezie, Tarquinio, Brennoe Romolo sarebbero infine riusciti a fuggire e avrebbero iniziato la difficile avven-tura del ritorno a Roma (la road to Rome dell’ultimo romanzo della trilogia). Facendo concessione alla fantasia del romanziere per il numero considerevole

d’incongruenze, anacronismi ed errori storici (uno per tutti, l’inverosimile arruola-mento nei ranghi «ufficiali» della legione di uno schiavo e di un gladiatore barbaro),ciò che appare interessante è appunto la ripresa, come sfondo vivo e interagentedella vicenda avventurosa, della leggenda di un’intera legione prigioniera dei Partivittoriosi e della sua rocambolesca sorte successiva alla cattura. La lezione dellefonti da questo punto di vista appare assai vaga, e in ogni caso molto meno espli-cita di quel che affermano gli innumerevoli siti oggi disponibili in rete e dedicati atale tanto avvincente quanto paradossale vicenda. Plinio il Vecchio, indicato damolti come fonte primaria sia della cattura dei legionari sconfitti, sia delle loro sus-seguenti relazioni – su cui ritorneremo – con la Cina, in realtà accenna soltanto allacattura a opera del re parto Orode, dopo la Crassiana clades 5, di un imprecisatonumero di prigionieri romani6: non quindi di diecimila, come taluno afferma attri-buendo proprio a Plinio tale notazione numerica7, la quale risale invece a Plutarco

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4 Cfr. soprattutto i Reports dell’International Merv Project Turkmenistan, poi Ancient Merv Project =http://www.ucl.ac.uk/mud/research/projects/merv/index.html; cfr. pure Y. UZTINOVA, Naskal’niyeLatinskiye i Grecheskaya Napidisi iz Kara-Kamara, in «Vestnik Drevnej Istorii» 4, 1990, pp. 145-147.5 Sul giudizio critico e sull’«antipatia» di Plinio nei confronti di Crasso cfr. L. COTTA RAMOSINO,

Plinio il Vecchio e la tradizione storica nella «Naturalis Historia», Alessandria 2004, pp. 330-332.6 PLIN. SR., Nat. Hist. 6, 18, 46-47: citra id amnes Maziris, Strator, omnia ex Caucaso. sequitur regio

Margiane apricitatis inclutae, sola in eo tractu vitifera, undique inclusa montibus amoenis, ambitu stadiorumM·D, difficilis aditu propter harenosas solitudines per CXX p., et ipsa contra Parthiae tractum sita. in quaAlexander Alexandriam condiderat, qua diruta a barbaris Antiochus Seleuci filius eodem loco restituit Syria-nam interfluente Margo, qui corrivatur in Zotha lacu; maluerat illam Antiochiam appellari. urbis amplitudocircumitur stadiis LXX. in hanc Orodes Romanos Crassiana clade captos deduxit.7 Così, erroneamente, per esempio in http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Carre, ma anche,

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e alla sua Vita di Crasso, ove si parla, a proposito dell’esito disastroso della battagliadi Carre, di ventimila Romani uccisi e, appunto, di diecimila fatti prigionieri8. Nel-l’amplisssima trattazione della spedizione partica di Crasso redatta da CassioDione9 si accenna a una prima fase dello scontro nella quale nessun soldato romanosarebbe stato catturato vivo10, mentre nella seconda fase, la più tragica per iRomani, la maggior parte degli sconfitti superstiti sarebbe riuscita a fuggire attra-verso i monti «in un paese amico», mentre soltanto «alcuni» sarebbero stati cattu-rati dai Parti11.Nell’elaborazione romanzesca dunque, sia nella recentissima versione di Bob

Kane, sia in più datate versioni – variamente scorrette – di analisi pseudostorica, ilracconto della presunta legione romana fatta prigioniera dai Parti non si discostamolto dai clichés della «legione perduta» o dell’«ultima legione» che hanno varia-mente attratto la fantasia degli scrittori, spesso in delicato equilibrio tra mero fan-tasy, senza alcuna pretesa di ammissibilità storica, e narrazione con qualche ambi-zione, se non di veridicità, quanto meno di verosimiglianza e aderenza alla realtàaccertata. Non è quest’ultimo il caso di un maestro dell’ucronia e della controfat-tualità storica come Harry Turtledove, che con The Misplaced Legion (La legione per-duta), del 1987, inaugurò la saga di Videssos, proponendo il racconto di una legioneoperante in Gallia al tempo della conquista cesariana che viene, per magia druidica,trasportata attraverso un viaggio spazio-temporale nell’impero Videssiano, unacreazione fantastica elaborata sul modello dell’impero bizantino, realtà storica dicui peraltro Turtledove è particolarmente esperto in ragione dei propri personalistudi universitari12.

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ad esempio, in http://it.wikipedia.org/wiki/Liquian; e in http://utenti.multimania.it/focomge/ legio-nari_romani_in_cina1.htm.8 PLUT., Crass. 17-33, e in particolare 31.9 DIO CASS., 40, 12-30.10 ID., 40, 24.11 ID., 40, 27. In generale cfr. G. BRIZZI, Note sulla battaglia di Carre, in ID., Studi militari romani,

Bologna 1983, pp. 9-30; è nota anche la testimonianza poetica di Orazio, che tratta i soldati di Crassosuperstiti da veri e propri indegni disertori (HOR., Carm. III, 5, vv. 5-12).12 H. TURTLEDOVE, The Misplaced Legion, New York 1987. Il ciclo di Videssos prosegue con altri

tre volumi, pubblicati tutti nel medesimo anno 1987 (rispettivamente: An Emperor for the Legion; TheLegion of Videssos; e Swords of the Legio). Turtledove è autore anche di un recente romanzo storico sullasconfitta di Teutoburgo (ID., Give Me Back My Legions!, New York 2009; trad. it. La battaglia di Teu-toburgo, Roma 2009). Sulla complessa relazione fra storia e ucronia, storia controfattuale, virtual, alter-nate o imaginary history nel contesto più ampio della riflessione sul rapporto fra storia e narrativa e sullosfondo articolato del dibattito su decostruttivismo, postmodernismo e neostoricismo avviato negli anniSettanta da Metahistory di H. WHITE (Metahistory: The Historical Imagination in Nineteenth-CenturyEurope, Baltimore MD 1973; trad. it. Retorica e storia, Napoli 1978), cfr. S. RODA, I pericoli di una sto-ria senza memoria e senza verità. L’epigrafia tra dogmatismo interpretativo e affabulazione incontrollata, inM. G. ANGELI BERTINELLI, A. DONATI (a cura di), Usi e abusi epigrafici, Atti del Colloquio inter-nazionale di epigrafia latina (Genova, 20-22 settembre 2001), Serta Antiqua et Mediaevalia, VI, Roma2003, pp. 387-409, ripreso e aggiornato in questo stesso volume (cap. V). Si veda inoltre, ad esempio,A. MOMIGLIANO, The Rethoric of History and the History of Rethoric: On Hayden White’s Tropes, in E.SHEFFER (a cura di), Comparative Criticism: A Yearbook, Cambridge 1981, pp. 259-268 = Secondo con-tributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1984, pp. 49-59; R. J. EVANS, In Defenceof History, London 1997; M. BRETONE, In difesa della storia, Roma, Bari 2000; B. BONGIOVANNI, G.M. BRAVO (a cura di), Nell’anno 2000. Dall’utopia all’ucronia, Atti del Convegno internazionale

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Elaborazioni leggendarie hanno riguardato anche le legioni di Varo, distrutte daArminio, ma – secondo taluni – non del tutto, e forse parzialmente dileguatesi negliinestricabili labirinti delle foreste teutoniche, dove nemmeno Germanico fu ingrado di ritrovarle e dove – chissà – forse ancora si aggirano come fantasmi/non-morti in cerca di rivincita e di vendetta, sotto l’ombra minacciosa e beffarda del-l’Hermannsdenkmal 13. Una misteriosa scomparsa è pure stata attribuita alla Legio IX Hispana, che

sarebbe svanita nel nulla dopo il 120 d.C. nelle lande scozzesi. Su tale vicenda, di

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(Torino, 10 marzo 2000), Firenze 2001; F. R. ANKERSMIT, Historical Representation, Stanford CA 2001;F. R. ANKERSMIT, E. DOMANSKA, H. KELLNER (a cura di), Re-Figuring Hayden White, Stanford CA2009; H. PAUL, Hayden White. The Historical Imagination, Cambridge, Malden MA 2011. Si veda pureH. WHITE, The Fiction of Narrative. Essays on History, Literature, and Theory 1957-2007, a cura di R.DORAN, Baltimore MD 2010. Specificamente sulla storia controfattuale J. COLLINGS SQUIRE (a cura di),If It Had Happened Otherwise, London 1931; N. FERGUSON (a cura di), Virtual History. Alternatives andCounterfactuals, London 1997; R. COWLEY (a cura di), What If? The World’s Foremost Military Histo-rians Imagine What Might Have Been, New York 1999 (trad. it. La storia fatta con i se, Milano 2001); K.BRODERSEN (a cura di), Virtuelle Antike. Wendepunkte der Alten Geschichte, Darmstadt 2000; R.COWLEY (a cura di), What If? 2: Eminent Historians Imagine What Might Have Been, New York 2001(trad. it. Se Lenin non avesse fatto la rivoluzione. Nuove ipotesi di storia fatta con i se, Milano 2002); K.HELLEKSON, The Alternate History: Refiguring Historical Time, Kent OH 2001; H. TURTLEDOVE, WhatIf? Introduction, in H. TURTLEDOVE, M. H. GREENBERG (a cura di), The Best Alternate History Storiesof the 20th Century, New York 2001; G. D. ROSENFELD, Why Do We Ask «What If?». Reflections onthe Function of Alternate History, in «History and Theory» 41, Theme Issue 41, 2002, pp. 90-103; P.E. TETLOCK, R. NED LEBOW, G. PARKER (a cura di), Unmaking the West: «What-If?» Scenarios ThatRewrite World History, Ann Arbor 2006; C. CORDELLA, Tutta un’altra storia. Ucronia da «La svasticasul sole» dell’americano Philip K. Dick al nipponico «Full Metal Alchemist», in «Living Force Maga-zine» 5, n. 19, June 2008, pp. 53-62; A. G. KEEN, Alternate Histories of the Roman Empire in StephenBaxter, Robert Silverberg and Sophia McDougall, in «Foundation: The International Review of ScienceFiction» 102, Spring 2008, pp. 71-86; S. T. KAYE, Challenging Certainty: The Utility and History ofCounterfactualism, in «History and Theory» 49, 2010, pp. 38-57; J. SCHIEL, Was wäre gewesen,wenn…? Vom Nutzen der kontrafaktischen Geschichtsschreibung, in «Viator» 41, 2010, pp. 211-231;C. B. SMITH, In Development of the Reimaginative and Reconstructive in Historiographic Metafiction:1960-2007, Ph.D. Dissertation, The Ohio State University, 2010 (DAI-A 72(1), July 2011); P. CHESSA(a cura di), Se Garibaldi avesse perso. Storia controfattuale dell’Unità d’Italia, I Libri di Reset, Venezia2011; K. K. RUSCH, Alternate History: Worlds of What If, in K. BROOKE (a cura di), Strange Divisionsand Alien Territories: the Sub-genres of Science Fiction, New York 2012, pp. 83-96.13 Si veda il sito www.fighttimes.com/magazine/magazine.asp?article=719 (J. WICKEN, Ancient

Warfare: The Lost Legions of Rome - Part 1) e www.fighttimes.com/magazine/magazine.asp?article=720(J. WICKEN, Ancient Warfare: The Lost Legions of Rome - Part 2). Cfr. da ultimi P. S. WELLS, The Bat-tle That Stopped Rome: Emperor Augustus, Arminius, and the Slaughter of the Legions in the TeutoburgForest, New York 2004; R. WIEGELS (a cura di), Die Varusschlacht. Wendepunkt der Geschichte?, Stutt-gart 2007; R. P. MÄRTIN,Die Varusschlacht. Rom und die Germanen, Frankfurt am Main 2008; R. WOL-TERS, Die Schlacht im Teutoburger Wald. Arminius, Varus und das römische Germanien, München 2008;B. DREYER, Arminius und der Untergang des Varus. Warum die Germanen keine Römer wurden, Stuttgart2009; G. MOOSBAUER, Die Varusschlacht, München 2009; M. SOMMER, Die Arminius Schlacht. Spuren-suche im Teutoburger Wald, Stuttgart 2009; A. MURDOCH, Rome’s Greatest Defeat: Massacre in the Teu-toburg Forest, Stroud 2009; T. CLUNN, The Quest for the Lost Roman Legions, New York, El DoradoHills CA 2009; M. MCNALLY, Teutoburg Forest AD 9: The Destruction of Varus and His Legions, Cam-paign, Oxford 2011; anche le legioni di Varo e la sconfitta di Teutoburgo, così come non si sono sot-tratte all’elaborazione leggendaria, non sono neppure sfuggite all’esercizio del What if?: cfr. L. H.LAPHAM, Furor Teutonicus: The Teutoburg Forest, AD 9, in COWLEY (a cura di), What if? cit., pp. 57-69.

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cui alcuni ritrovamenti archeologici avrebbero confermato la totale infondatezza (oquanto meno la casualità storica e la derubricazione da mistero affascinante a sem-plice risultato di carenza documentaria)14, si sono intrecciate narrazioni fantasticheche variano dal romanzo storico alla fantastoria vera e propria, facendone una sortadi reiterato topos della cultura popolare contemporanea. Ne sono espressione sva-riati romanzi, a partire dal più famoso, The Eagle of the Ninth, opera di RosemarySutcliff15 e prevalentemente indirizzato a un pubblico adolescente: pubblicato nel1954, tale lavoro è divenuto presto, superando ampiamente il milione di copie, unodei romanzi per giovani più letti nel secolo scorso, ed è stato anche oggetto di un’o-monima riduzione televisiva a cura della BBC nel 1977, mentre è di recente pro-grammazione il film The Eagle di Kevin MacDonald, ove viene ripreso il medesimoplot narrativo. Sempre la «perduta» Legione IX compare, a vario titolo e in diversacollocazione, nella trama dei romanzi Red Shift 16, di Alan Garner; Legion from theShadows 17, di Karl Edward Wagner; Warriors of Alavna 18, di Nicky MatthewsBrowne; Engine City 19, di Ken McLeod; La IX Legione 20, di Giorgio Cafasso. Inol-tre, nel romanzo fantasy Ghost King. The Stones of Power, di David Gemmell21, sidescrive una Legione IX intrappolata per quattrocento anni nel Limbo prima diessere liberata addirittura da Uther Pendragon, donde l’ovvio collegamento con ilciclo arturiano. È poi del 2009 il film (distribuito in Italia nel 2012, soltanto in DVD)di Neil Marshall, Centurion, che ci presenta in Britannia, nell’anno 117 d.C., il cen-turione Quintus Dias, unico superstite dopo un’incursione di Pitti, marciare versoil nord dell’isola con il generale Virilus della leggendaria Legio IX, allo scopo diannientare appunto la confederazione celtica dei Picti, bellicoso popolo della futuraScozia, noto per i tatuaggi e le pitture di cui si fregiava22. A dimostrazione, infine,

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14 Cfr. E. B. BIRLEY, The Fate of the Ninth Legio, in R. M. BUTLER, Soldier and Civilian in RomanYorkshire. Essays to Commemorate the Nineteenth Centenary of the Foundation of York, Leicester 1971,pp. 71-80; W. ECK, Zum Ende der Legio IX Hispana, in «Chiron» 2, 1972, pp. 459-462; L. KEPPIE, TheFate of the Ninth Legion: A Problem for the Eastern Provinces?, in D. H. FRENCH, C. S. LIGHTFOOT,The Eastern Frontier of the Roman Empire, Proceedings of the International Colloquium (Ankara, Sep-tember 1988), BAR, 553, Oxford 1989, pp. 247-255; P. J. SIJPESTEIJN, Die Legio Nona Hispana inNimwegen, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik» 111, 1996, pp. 281-282; J. K. HAALEBOS,Römische Truppen in Nijmegen, in Y. LE BOHEC, Les légions de Rome sous le Haut-Empire, Lyon 2000,pp. 465-489; M. OLLY, J. ASPIN, The Disappearing Ninth Legion: A Popular History, New Alresford2011; M. RUSSELL, La misteriosa scomparsa della Nona Legione, in «Il Fatto Storico. Quotidiano on-linedi Storia e Archeologia», 23 aprile 2011 = http://ilfattostorico.com/2011/04/23/la-misteriosa-scom-parsa-della-nona-legione/. Si veda anche la limpida seppur giornalistica sintesi di D. MESSINA, I soldatiinvincibili svaniti nel nulla. Roma e il mistero della IX legione, in «Corriere della Sera», 22 febbraio 2011,p. 29.15 R. SUTCLIFF, The Eagle of the Ninth, Oxford 1954 (trad. it. La legione scomparsa, Milano 2011).16 A. GARNER, Red Shift, London 1973.17 K. E. WAGNER, Legion from the Shadows, New York 1976.18 N. M. BROWNE, Warriors of Alavna, London 2000.19 K. MCLEOD, Engine City, New York 2002.20 G. CAFASSO, La IX Legione, Milano 2003.21 D. GEMMELL, Ghost King. The Stones of Power, New York 1988.22 Sui Pitti cfr. W. A. CUMMINS, The Age of the Picts, Stroud 1998; ID., Decoding the Pictish Sym-

bols, Stroud 2010; si veda anche il recente romanzo storico di J. DIXON, The Pict, Bloomington IN2007.

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della popolarità del mito della Legione IX, è da segnalare come la band folk-metaltedesca Suidakra abbia inciso nel 2006 una canzone dal titolo The IXth Legion, chedescrive appunto la lotta della Hispana in Britannia contro i Pitti23. Lungo la strada perigliosa della mescolanza di dati storici, di spunti leggendari

e di audaci salti temporali si pone poi Valerio Massimo Manfredi con L’ultimalegione 24, immaginando un gruppo di legionari impegnati nella strenua difesa del-l’ultimo imperatore Romolo Augustolo, dopo la sua deposizione nel fatidico 476d.C. Anche questo romanzo ha conosciuto nel 2007 una trasposizione cinemato-grafica di discreto successo che riprende, con talune varianti, la trama originale. LaBritannia diviene, in questo caso e improbabilmente, l’ultimo baluardo di unaromanità25 che si fonde e si confonde letteralmente con la nuova vicenda del ciclodi re Artù, a cui dà vita nei fatti e nei personaggi: il precettore di Romolo AugustoloMeridius Ambrosinus, dotato di magici poteri, altri non è che il mago Merlino, per-sonaggio chiave del ciclo bretone e delle leggende dei cavalieri della tavolarotonda, richiamando qui Valerio M. Manfredi il complesso intreccio che nell’o-pera di Goffredo di Monmouth collegava le vicende di Myrddin Wyllt con quelledi Ambrosius Aurelianus da lui accorpati appunto nella figura di Merlinus Ambro-sius, o semplicemente Merlinus, Merlin the Wizard della saga arturiana. La spada diCesare, usata da Romolo per uccidere il barbaro nemico, si pianta nella roccia dopola vittoria romana, mentre l’iscrizione che vi è incisa, «Cai. Iul. Caes. Ensis Cali-burnus», viene parzialmente coperta da incrostazioni e da licheni, tanto da potersisolamente leggere nelle lettere superstiti «E S CALIBUR», cioè EXCALIBUR, la miticaspada nella roccia che solo Artù seppe estrarre. Romolo Augustolo si farà saggio re,assumendo il nome di Uther Pendragon, e grazie a un incantesimo di Merlino siunirà con Lady Ygraine, figlia del comandante della Legio XII, e darà alla luce unerede – destinato a gloriosissima storia – di nome appunto Artù. È del 2010 poi il caso estremo, narrato in un romanzo originale di Roberto

Genovesi26, di una Legio Occulta, una legione segreta e senza nome, fondata daGiulio Cesare ma operante anche al tempo di Augusto. Dotati di poteri sopranna-

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23 Testo e musica reperibili in http://www.lyricstime.com/suidakra-the-ixth-legion-lyrics.html.24 V. M. MANFREDI, L’ultima legione, Milano 2003. Dello stesso autore è pure L’impero dei draghi,

Milano 2005, che narra la vicenda di Marco Metello Aquila, comandante della Legio II, catturato daiPersiani a Edessa nel 260 d.C. e ridotto in schiavitù insieme ai suoi commilitoni. Metello e i suoi, riu-sciti a fuggire, iniziano una rocambolesca fuga verso Oriente fino alla Cina ove Metello ritroverà le glo-riose vestigia proprio della fatidica Legione perduta al tempo di Crasso, la quale aveva combattuto inCina e aveva tra l’altro trasmesso ai cinesi la tecnologia di guerra dei Romani. Metello s’inserirebbe conun ruolo decisivo di combattente/vittorioso nelle complesse e contorte vicende dell’impero cinese post-Han, tra il periodo dei Tre Regni e l’avvento della dinastia Jin, per poi tornare a Edessa in un imperoromano ancora forte e potente.25 Che vede, fra l’altro, come protagonista una legione romana insediatasi in Britannia, che recu-

pera l’orgoglio militare perduto per difendere l’ultimo imperatore. Nel film viene ripreso il richiamoalla Legio IX, denominata però non Hispana bensì Draco, che nel libro veniva invece definita Legio XIIDraco.26 R. GENOVESI, La legione occulta dell’impero romano, Roma 2010. Genovesi, giornalista profes-

sionista, scrittore, sceneggiatore, dirigente Rai, esperto di videogiochi e realizzatore di biografie afumetti, docente universitario di teorie e tecniche dei linguaggi multimediali interattivi, è stato autoredieci anni fa di un interessante cyber-romanzo fantascientifico, Inferi On Net (Milano 2000).

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turali, i militi di questo fantastico corpo – come avverte la presentazione delromanzo – «non sono addestrati a combattere, ma a leggere e interpretare i segnidegli dèi […] o a intervenire quando la forza delle armi lascia il posto al potere deltrascendente. Indossano armature bianche come la neve e tuniche nere come lanotte. Veggenti, auguri, negromanti, aruspici […] raccontano che siano guidati daun generale padrone di un misterioso linguaggio dei gesti. Si muovono sui campi dibattaglia come spettri […]. Vigiles in tenebris è il loro motto e il nero destriero diPlutone il loro simbolo. Sono i soldati della Legio Occulta». Guidata dal prefectusVictor Iulius Felix, la «legione senza nome» per la storia non è mai esistita, ma l’im-pero romano dovrebbe avere nei suoi confronti un inestimabile debito di ricono-scenza, dal momento che il suo intervento avrebbe consentito di realizzare strate-gie impensabili, di vincere battaglie altrimenti impossibili, di affrontare pericolitanto estremi quanto oscuri. Elaborato in un linguaggio evocativo a tratti assai coin-volgente27, il romanzo si pone ovviamente al di fuori di ogni attendibilità, pur nellosforzo di proporre riferimenti storici documentati, indulgendo altresì ad anacroni-smi e ad attualizzazioni che lo allontanano decisamente dal cliché del romanzo «sto-rico» in senso stretto, e del resto qui non ci troviamo di fronte a «legioni perdute»che procedono comunque da contesti storici reali e la cui vicenda si dipanaseguendo eventi noti e attestati, ma a una pura invenzione fantastica, per la qualel’ambientazione romana funge soltanto da suggestivo sfondo scenografico e dachiaro riferimento di contesto a tutti comprensibile28. In prospettiva completamente diversa e in un ambito di fiction con una certa

ambizione di ammissibilità storica si colloca, invece, The Lost Legion di Harold War-ner Munn, scrittore statunitense di fantasy e horror nonché poeta ed epigono di unmaestro insuperato della narrativa fantastica quale fu H. P. Lovecraft29. In The Lost

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27 Si veda ad esempio come è descritta l’entrata in scena della legione sul campo di battaglia: «A unprimo sguardo pareva un blocco di ossidiana e metallo avvolto da una bruma color avorio. Poi gli occhidei soldati si abituarono […]. E quella figura indistinta lasciò intravedere le sagome di elmi di ferro,tuniche di seta nera e mantelli color latte. Le corazze anatomiche bianche dei veterani parevano fondersinel manto sabbioso come se ad avanzare fosse un gigantesco scorpione nero dalle chele scintillanti». 28 È da un paio d’anni disponibile anche il secondo volume di quella che si appresta a diventare una

vera e propria saga ove la storia di Roma si colora di trame fantasy (R. GENOVESI, La vendetta di Augu-sto, Roma 2011; ripubblicato in edizione economica nel 2012 con il nuovo e più pertinente titolo Ilcomandante della legione occulta, anche in questo caso per scelta della casa editrice, che aveva rifiutatoil titolo proposto dall’autore per questa seconda parte della saga: La profezia della Sibilla): dopo la mortedi Augusto nel 14 d.C., l’eroico comandante Victor Iulius Felix della Legione Occulta, in precedenzasterminata da una congiura di palazzo ordita dai pretoriani, prima trafuga dal Tempio di Apollo i LibriSibillini (che raccolgono tutte le più importanti profezie sul futuro di Roma, fra cui un grande segretoche potrebbe avere conseguenze devastanti per l’impero), poi si impegna con i superstiti a ricostruirela fortezza distrutta della legione e si appresta a combattere nuove battaglie decisive per le sorti diRoma. Tutto ciò fra mille colpi di scena e nel contesto delle gesta delle legioni di Germanico, decise avendicare la disfatta di Teutoburgo e a riprendersi le aquile catturate dal capo germanico Arminio, eignare che il loro destino e quello del loro comandante sono legati proprio all’azione della legio sinenota, che solo le parole incomprensibili di una profezia si ostinano a tenere in vita. 29 Cfr. ad es. D. HERRON, Of the Master, Merlin and H. Warner Munn, in D. SCHWEITZER (a cura

di), Discovering Classic Fantasy Fiction: Essays on the Antecedents of Fantastic, Gillette NJ 1996, pp. 126-149. Utile per comprendere più a fondo la figura di Munn è A Dialogue Between Weird Tales: AuthorH. Warner Munn & Jessica Amanda Salmonson, reperibile in http://www.violetbooks.com/Munn.html.

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Legion, pubblicato nel 198030, si immagina che l’imperatore Caligola, nella sua anto-nomastica follia, adirato con la XIII Legione, ordini a tale unità militare la missionesuicida di ripercorrere verso oriente la Via della seta, alla ricerca delle insegne di unalegione perduta circa un secolo prima (evidentemente, durante le sfortunate spedi-zioni partiche di Crasso o di Marco Antonio del I secolo a.C.). Il ricordo del romanzo di Munn ci riporta lungo la frontiera orientale sulle orme

dei soldati romani sconfitti dai Parti, la cui vicenda, in forza delle congetture dialcuni studiosi e della singolarità di alcuni supposti intrecci antropologici e genetici,è stata addotta a riprova di una relazione tra mondo romano e mondo cinese più con-creta di quanto non suggerisca l’indubbia realtà di rapporti commerciali a lungo rag-gio lungo la Via della seta. Tale connessione si deve soprattutto al sinologo statuni-tense Homer Hasenpflug Dubs, che tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta delsecolo scorso, in una serie di contributi31, diede corpo a un’ipotesi derivata dalla let-tura degli annali della dinastia Han e in particolare dal nono capitolo del Libro degliHan anteriori (Hànshu-)32, relativo alle vicende del regno dell’imperatore Yuan, alpotere in Cina dal 75 al 33 a.C. Nel periodo compreso fra il 42 e il 36 a.C., unagrande spedizione venne condotta dal generale imperiale Ch’en T’ang ai confini occi-dentali dell’impero, lungo e oltre la frontiera del regno di Sogdiana, contro lo Shan-Yü (forma cinese di un titolo regale probabilmente presente nella lingua unna o inuna lingua altaica pre-turca) Chih-chih (o Jzh-jzh, o Zhi zhi), guida della confedera-zione degli Xi0-ngnú, tribù nomadi della Cina nordorientale e dell’Asia centralespesso identificate, senza peraltro alcuna certezza storica, con gli Unni33. Presso leforze anti-imperiali militava un contingente di stranieri che usavano tecniche sco-nosciute alle truppe cinesi in campo, come ad esempio una formazione a spina dipesce nella quale quei soldati si proteggevano tenendo gli scudi al di sopra della testa:tale disposizione, che Dubs interpretò come una formazione a testuggine tipica-mente romana, insieme alla forma dell’accampamento dei militari stranieri, cheappare quadrata e delimitata da pali di legno, molto simile a un castrum, indusse lo

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30 H. WARNERMUNN, The Lost Legion, Garden City NY 1980.31 H. H. DUBS, A Military Contact between Chinese and Romans in 35 b.C., in «T’oung Pao» 36,

1940, pp. 64-80; ID., An Ancient Military Contact between Romans and Chinese, in «American Journalof Philology» 62, 1941, pp. 322-330; ID., A Roman Influence on Chinese Painting, in «Classical Philol-ogy» 38, 1943, pp. 13-19; ID., A Roman City in Ancient China, China Society Sinological Series, 5,London 1957 = «Greece & Rome» 4, 2, 1957, pp. 139-148.32 A. F. P. HULSEWÉ, M. A. N. LOEWE, China in Central Asia: The Early Stage 125 BC - AD 23: An

Annotated Translation of Chapters 61 and 96 of the History of the Former Han Dynasty, Leiden 1979; C.M. DORN’EICH, Chinese Sources on the History of the Niusi-Wusi-Asi(oi)-Rishi(ka)-Arsi-Arshi-Ruzhi andtheir Kueishuang-Kushan Dynasty. Shiji 110 / Hanshu 94A: The Xiongnu: Synopsis of Chinese Original Textand Several Western Translations with Extant Annotations, Berlin 2008. 33 LIU MING, XIE SHENG, Zhi Zhi shanyu baiwang pingshu, in «Changshou gao zhuan xuebao» 4,

1997, pp. 52-56; N. DI COSMO, The Northern Frontier in Pre-Imperial China, in The Cambridge Historyof Ancient China, a cura di M. LOEWE, E. SHAUGHNESSY, Cambridge 1999; ID., Ancient China and itsEnemies: The Rise of Nomadic Power in East Asian History, Cambridge 2004; LIU GUANGHUA, Guanyuxihan Zhi Zhi cheng zhi zhan, in «Xibei di er minzu xueyuan xuebao» 1, 2005, pp. 25-34; C. I. BECK-WITH, Empires of the Silk Road: A History of Central Eurasia from the Bronze Age to the Present, Prince-ton NJ, Oxford 2009; J. P. YAP, Wars with the Xiongnu: A Translation from Zizhi Tongjian, Blooming-ton IN 2009.

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studioso americano a supporre che si trattasse appunto di un gruppo di Romani. Inforza anche della plausibile corrispondenza cronologica, Dubs congetturò che fos-sero soldati già inquadrati quindici anni prima nelle legioni di Crasso, poi fatti pri-gionieri dai Parti a Carre e infine sottrattisi alla prigionia fuggendo verso ovest, perfinire a offrire i loro servigi di mercenari al generale Chih-chih. Dopo la sconfittadegli Xi0-ngnú a opera dell’esercito dell’imperatore Yuan, subìta anche dai circa cen-tocinquanta presunti Romani (a causa, pare, della forza di penetrazione dei proiet-tili delle balestre cinesi che perforarono facilmente i loro scudi)34, costoro sarebberostati naturalmente fatti prigionieri, ma avrebbero in seguito costruito un loro villag-gio, nella provincia settentrionale cinese di Ga-nsù, chiamato Liqian (o Lijian, o Li-xan, o Li-chien, o Liek-g’ien, secondo le numerose variabili di trascrizione) e sul cuisito sorgerebbe oggi il villaggio di Zheláizhài, nella prefettura di Ji-ncha-ng e nellacontea odi Yo∨ngcha-ng, ai margini del deserto del Gobi35. Nell’interpretazione di H.H. Dubs, il nome del villaggio altro non sarebbe che la trascrizione abbreviata cinesedel nome greco di città «Alexandria», per ovvie ragioni propagandistico-imperiali-ste diffusissimo nel mondo ellenistico e indo-greco postalessandrino, nonché nomedella principale città dell’impero di Roma dopo l’Urbe. Per lo studioso, i cinesiavrebbero fatto coincidere tale appellativo di città con la stessa Roma e con il suoimpero e, d’altra parte, come anche di recente ribadito36, il regno di Daqin (traslit-terazione alternativa a Tachin, o Tai-Ch’in, o Ta-ts’in), comune definizione cinesedell’impero di Roma, sarebbe sinonimo appunto di Lijian. Poiché inoltre i cinesi,allora come ora, rifiutano di dare nomi stranieri alle loro città, salvo il caso in cuiuna consistente comunità straniera si insedi in Cina e attribuisca alla città presso cuiè immigrata (o più probabilmente che ha fondato ex novo in territorio cinese) lo

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34 YAP, Wars with the Xiongnu cit.35 S. DEMUYNCK, Zheláizhài, woonplaats van Romeinse afstammelingen in China?, Universiteit Gent

Academiejaar 2008-2009, verhandeling voorgelegd aan de aculteit der Letteren en Wijsbegeerte, tothet verkrijgen van de graad van Master in de Oosterse talen en culturen door Promotor Prof. Dr. A.HEIRMAN = http://lib.ugent.be/fulltxt/RUG01/001/415/106/RUG01-001415106_2010_0001_AC.pdf (2009); cfr. anche l’identificazione di Liqian con la moderna città di Lou Zhuangzi (E. HOH,Romans in China?, in «Archaeology», Newsbriefs, 52, 3, May/June 1999 = http://archive. archaeo-logy.org/9905/newsbriefs/china.html).36 J. E. HILL, Through the Jade Gate to Rome: A Study of the Silk Routes during the Later Han

Dynasty, 1st to 2nd Centuries, Charleston 2009, p. 25. L’appellativo Daqin (Tachin, Tai-Ch’in, Ta-ts’in),a seconda delle epoche e dei contesti nonché della tipologia documentaria, appare variamente usato peridentificare Roma e l’impero romano d’Occidente, così come l’impero bizantino o anche i cristiani e lachiesa cristiana (P. JENKINS, The Lost History of Christianity: The Thousand-Year Golden Age of theChurch in the Middle East, Africa and Asia – and How It Died, New York 2008, pp. 64-68). Si veda ades. la famosa Stele Nestoriana, pure nota come Pietra o Tavoletta Nestoriana, stele iscritta della CinaT’ang, eretta nel 781 d.C. (ora conservata presso il museo Beilin nella città di Xi’an), ove si raccontaun secolo e mezzo di storia della prima cristianità cinese e il cui testo in esordio recita: Dàqín Jingjiàoliúxíng Zh0-ngguó be-i, cioè «Memoriale della propagazione in Cina della luminosa religione di Daqin»,cfr. G. L. THOMPSON, Christ on the Silk Road. The Evidences of Nestorian Christianity in Ancient China= http://touchstonemag.com/archives/article.php?id=20-03-030-f 2007. Cfr. pure J. E. HILL (trad.ingl.), The Peoples of the West from the «Weilue» by Yu Huan: A Third Century Chinese Account Com-posed between 239 and 265, quoted in zhuan 30 of the «Sanguozhi», published in 429 CE =http://depts.washington.edu/silkroad/texts/weilue/weilue.html, sezione 11: The Kingdom of Da Qin, esezione 12, The Products of Da Qin.

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stesso nome della città straniera di provenienza, Liqian, «la città con il nome cinesedi Roma», poté – a parere di Dubs – fregiarsi di tale appellativo in ragione appuntodella presenza (fondativa o integrativa, non è dato di sapere) dei soldati romanisuperstiti delle legioni perdute di Crasso e della sconfitta degli Xi0-ngnú.La teoria di Dubs, specie dopo la pubblicazione del volume A Roman City in

Ancient China 37, suscitò immediatamente un ampio dibattito: a parte il forteappoggio di Sir William Woodthorpe Tarn, noto studioso di Alessandro e delmondo ellenistico e indo-greco, nonché di qualche altro storico di valore che seppuroccasionalmente sembrò non osteggiare in modo palese le affermazioni di Dubs38,alcuni recensori, come Boleslaw Szczesniak39, si mostrarono più possibilisti, men-tre altri, come Owen Lattimore 40, accusarono Dubs di indulgere a un suggestivo eaffascinante intrattenimento da detective story anziché attenersi all’indagine scien-tifica rigorosa, e di aggregarsi acriticamente alla schiera degli studiosi occidentali«obsessed» dall’idea di stabilire connessioni fra Cina e Occidente e in particolarefra Impero Celeste e impero romano; altri ancora, come Schuyler V. Cammann41,misero in evidenza le forti incongruenze del ragionamento ricostruttivo dell’orien-talista statunitense, notando in particolare l’assenza di qualsiasi prova archeologicache comprovasse le sue teorie e sottolineando come, qualora anche si potesse accre-ditare l’identificazione di Liqian come l’«Alessandria/Roma entro i confini dellaCina», non necessariamente occorrerebbe farne risalire la fondazione (o trasforma-zione etnico-identitaria) alle truppe romane arruolate dagli Xi0-ngnú. Infatti, il vil-laggio potrebbe essere stato fondato semplicemente da un nucleo di mercanti grecio di commercianti sotto l’influenza greco-battriana, divenendo in questo modo uncentro di interscambio commerciale fra la Cina propriamente detta e il Turkestancinese, e forse ospitando anche – nel corso del tempo e con l’intensificarsi degliscambi mercantili lungo le vie della seta, in un’area che per secoli fu vero e propriocrocevia di popoli, di eserciti, di carovane, di scambi e di influenze culturali – qual-che cittadino dell’Occidente più lontano, compreso qualche Romano. In ogni caso,Liqian non fu probabilmente mai una città «romana» e tanto meno una colonia diveterani/mercenari allo sbando.

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37 DUBS, A Roman City cit.38 Cfr. ad es. J. FERGUSON, China and Rome, ANRW, II, 9, 2, Berlin, New York 1978, pp. 599-601;

M. G. RASCHKE, New Studies in Roman Commerce with the East, ANRW, II, 9, 2, Berlin, New York1978, pp. 604-1361, in particolare p. 681; H. H. SCULLARD, From the Gracchi to Nero: A History ofRome from 133 BC to AD 68, Oxford, New York 1982, p. 431, nota 28; CH. TYLER, Wild West China:The Taming of Xinjiang, New Brunswick NJ 2004, pp. 33-35.39 B. SZCZESNIAK, recensione aH. H. Dubs, A Roman City in Ancient China, London 1957, in «Jour-

nal of the American Oriental Society» 77, 1957, pp. 286-287.40 O. LATTIMORE, recensione a H. H. Dubs, A Roman City in Ancient China, London 1957, in

«American Journal of Philology» 79, 1958, pp. 447-448; cfr. pure i dubbi di S. LIEBERMAN, recensionea H. H. Dubs, A Roman City in Ancient China, London 1957, in «Classical Philology» 53, 1958, pp.210-211, che sottolinea la contraddizione tra il fascino della ricostruzione di Dubs, tra l’altro corro-borata dalla sua indubbia autorità e competenza scientifica, e la sostanziale assenza di prove letterariee archeologiche che ne supportino la tesi di fondo.41 S. V. CAMMANN, recensione aH. H. Dubs, A Roman City in Ancient China, London 1957, in «The

Journal of Asian Studies» 21, 1962, pp. 380-382; cfr. anche H. T. WALLINGA, recensione aH. H. Dubs,A Roman City in Ancient China, London 1957, in «Mnemosyne» IV s., 11, 1, 1958, pp. 79-80.

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In modo ancor più risoluto, il grande storico sino-americano Yu Ying-shih, unadecina d’anni dopo, propose alcuni persuasivi elementi di riscontro circa la non-romanità di Liqian; in particolare egli sottolineò la forte incompatibilità della teo-ria di Dubs rispetto alle prassi di governo degli Han, in merito, soprattutto, allaformazione degli specifici modelli di unità amministrativa (hsien) da quella dinastiamessi in atto e a cui Liqian avrebbe dovuto certamente uniformarsi. Liqian perònon possedeva né le caratteristiche di numerosità della popolazione né i tratti dicompiuta assimilazione degli elementi non indigeni necessari per formare unohsien 42. Con altrettanta puntualità è stato messo in discussione un altro di quelliche Dubs, in questo caso con il supporto di W. Tarn, considerava i cardini del suoragionamento, e cioè la presunta «romanità» del modello costruttivo applicato dalgenerale Chih-chih alle fortificazioni erette nella valle del fiume Talas43.Le reazioni alle tesi di Dubs, là dove esse si confrontino con analisi serie e

approfondite, appaiono sostanzialmente negative e fortemente scettiche, a motivodella scarsa consistenza probatoria delle argomentazioni addotte. Nel frattempo,l’attenzione per gli ipotetici contatti fra impero di Roma e impero cinese non è tut-tavia scemata, anzi è andata periodicamente rinvigorendosi anche in tempi recentie per ragioni più politico-propagandistiche che storiografiche, arricchendosi dinuovi, sorprendenti capitoli come quello – ad esempio – della presunta relazione didipendenza strutturale rispetto alla Grande Muraglia del Vallo di Adriano, il qualesarebbe stato edificato appunto sulla base delle descrizioni di viaggiatori romaniche avrebbero avuto modo, in Cina, di osservare de visu e di comprendere le moda-lità costruttive dell’immenso manufatto cinese44. In questo quadro la forza sugge-stiva degli argomenti di Dubs, a prescindere dalla loro fragilità scientifica, ha con-tinuato a farne un punto di riferimento obbligato, che viene ripropostoogniqualvolta si riapre, con varie motivazioni e da diverse prospettive, il capitolodelle relazioni sino-romane.In particolare, dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso l’ipotesi dubsiana

è parsa trovare conforto da un punto di vista genetico-biologico nel già ricordatovillaggio di Zheláizhài, ove gli abitanti mostrerebbero caratteristiche fisiche e soma-tiche «occidentali», frutto di un’eredità genetica che si vorrebbe far risalire al pre-sunto insediamento romano di più di duemila anni or sono. Lo storico locale GuangHeng, proseguendo le ventennali ricerche a Liqian del padre Guang Yiquan, pro-fessore di Storia dell’Asia centrale presso la Northwest University for Nationalities(Xi-bei Mínzú Dàxué) di Lanzhou, ha posto in relazione tali caratteristiche (occhiinfossati, chiari e tendenti all’azzurro, capelli ricci e castano-chiari, zigomi promi-nenti e nasi pronunciati e aquilini) con reperti archeologici (in particolare i trattidelle antiche mura di Zheláizhài), proponendosi in tal modo di asseverare le con-

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42 YING-SHIH YU, Trade and Expansion in Han China, Berkeley 1967, pp. 90-91. Su una lineasostanzialmente non dissimile, cfr. pure P. DAFFINÀ, Chih-chih Shan-Yu, in «Rivista di Studi Orien-tali» 44, 1970, pp. 199-232, 325. 43 C. M. GILLIVER, The Roman Art of War, Charleston SC 1999, pp. 60-79.44 Soprattutto D. J. BREEZE, B. DOBSON, Hadrian’s Wall, London 1976, ma cfr. già C. E. STEVENS,

Hadrian and Hadrian’s Wall, in «Latomus» 14, 1955, pp. 384-403; ID., The Building of Hadrian’s Wall,Kendal 1966; ampia, argomentata e convincente confutazione in D. B. CAMPBELL, A Chinese Puzzle forthe Romans, in «Historia» 38, 1989, pp. 371-376.

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clusioni del padre e, implicitamente, di H. H. Dubs. Guang Yiquan, morto nel1998 senza aver dato alle stampe un adeguato resoconto delle proprie indagini, nellesue attività di studioso e ricercatore aveva ricevuto il singolare appoggio dell’au-straliano David Harris, scrittore per adulti e bambini, viaggiatore e avventuriero,che, venduti tutti i suoi averi, si trasferì in Cina allo scopo appunto di contribuirea svelare il mistero della città romana forse nata in Cina occidentale nell’ultimosecolo dell’era precristiana. Una vicenda, quella della search for the lost city of Romein China di Harris, che egli narrò nel volume Black Horse Odyssey (Adelaide 1991)e che gli fruttò fra l’altro, come lui stesso rimarca nel suo sito45, una sorprendentequanto incauta Virgiliana Medal, Italian Encyclopedic Institute, for identification ofLijian. D’altra parte anche in Italia, anni prima dell’impegno di Guang Yiquan, diGuang Heng e di David Harris, un cultore di storia locale campana (e in partico-lare puteolana), Raffaele Adinolfi, pubblicò una ricerca sui rapporti fra imperoromano e Cina antica46 ove le tesi di Dubs trovavano largo spazio, non senza alcuneperplessità critiche. Lo stesso autore, in tempi molto più recenti, è ritornato sul-l’argomento47, sollecitato sia dal giurista Ulrich Mante, sia da un breve articolocomparso – a firma di Cui Bian – nel 1998 su un apprezzato giornale cinese in lin-gua tedesca48, di cui Adinolfi riporta il testo integrale in traduzione e di cui sotto-linea le «novità» in termini di supposte nuove tracce archeologiche restituite dagliscavi di Zheláizhài/Liqian del maggio 1993. Oltre ai già ricordati resti delle mura,al vasellame metallico e in argilla, e a frammenti di legno (secondo alcuni archeologiaddirittura riferibili a uno strumento edilizio che sarebbe stato utilizzato dai legio-nari perduti di Crasso per edificare le mura), il medesimo articolo insiste poi sulleconsuete notazioni circa i caratteri somatici occidentali degli abitanti del luogo,mentre una novità è il richiamo alla tradizione locale del sacrificio dei buoi, cherimanderebbe alla «lotta dei tori in uso presso i Romani». Adinolfi in questo casocongettura invece un possibile collegamento con il culto mitraico – che sarebbepenetrato in Cina attraverso la Partia – e con il rito della tauroctonia connesso,come è ben noto, a tale culto. In realtà egli appare sostanzialmente dubbioso suicontenuti dell’articolo di Cui Bian, rispetto al quale si augura futuri riscontri critici,mentre ne sfrutta lo spunto per ricordare altre presunte relazioni fra Roma e l’E-stremo Oriente, come una sorta di poco verosimile «Via del corallo» (sovrappostaalle Vie della seta e delle spezie) che avrebbe unito la Campania con l’India e laMongolia, e come il (meno improbabile) caso del puteolano P. Annius Plocamus,un liberto che al tempo dell’imperatore Claudio sarebbe sbarcato accidentalmentenell’isola di Taprobane (identificabile forse con Sri Lanka, o con un’isola degli arci-pelaghi indonesiano o filippino), trasmettendo al popolo che l’abitava un’immaginecosì positiva dei Romani, da sollecitarne la curiosità fino al punto che essi – qual-che tempo dopo – inviarono a Roma un plenipotenziario di nome Rachias, con quat-

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45 All’indirizzo http://www.davidharris.com.au/ books/BlackHorseOdyssey.aspx.46 R. ADINOLFI, I rapporti tra l’Impero Romano e la Cina antica, Napoli 1977.47 ID., Soldati di Crasso in Cina e mercanti campani in Mongolia, India e Ceylon, s.d. =

http://www.icampiflegrei.it/Bollettino/cina_1.htm.48 CUI BIAN, Romische Nachkommen in Ga-nsù gefunden, in «Beijing Rundschau» 46, 1998, pp.

23-24.

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tro ambasciatori. Il racconto pliniano a cui si deve l’aneddoto49, oltre a porre pro-blemi (finora non del tutto risolti) di identificazione sia dell’isola citata, sia delpopolo centro-asiatico dai tratti caucasici dei Seres presso cui si era recato il padredi Rachias, dimostra quanto meno l’esistenza di tentativi più o meno frequenti diapproccio, con evidenti finalità economiche, fra Occidente romano e Asia centralee orientale, in questo caso esperiti prevalentemente via mare50. Sempre in Italia, sullo scorcio del secolo passato il noto orientalista e diploma-

tico Giuliano Bertuccioli tentò di fare il punto della questione, sulla scorta ancoradei contributi di Dubs e procedendo da quello che egli individua come il momentodi massima notorietà della tesi che sostiene la veridicità dell’insediamento dei legio-nari romani in Cina, e cioè l’articolo The First Romans in China, pubblicato il 22-28gennaio 1990 nel numero 33, 4 della prestigiosa rivista ufficiale cinese «BeijingReview»51. Da quel momento fino al 1999, numerosi articoli di divulgazione – espesso di mera banalizzazione del dato curioso, come denuncia la stessa formula-zione dei titoli52 – avevano riproposto la questione, che non pareva però essere statamai affrontata da sinologi e storici in modo scientificamente appropriato. Di qui leprofonde perplessità di Bertuccioli per un’ipotesi pseudoscientifica che privilege-rebbe il sensazionalismo rispetto al rigore d’indagine, al puro fine di attrarre lettoriper i quotidiani e per i magazine che ne trattano, nonché a scopi turistici e di cas-setta per gli attuali residenti nel territorio, come dimostra l’edificazione, nella zonadi supposto stanziamento romano, di un centro commerciale a nome «Roma», di unalbergo chiamato Liqian e di una monumentale scultura in pietra che riflette i due-mila anni di storia del distretto di Yo∨ngcha-ng. Bertuccioli, a titolo di attestazionedella deriva acritica con cui si accettavano le conclusioni di Dubs, trascrive la tra-duzione integrale (curata dall’Associazione Italia-Cina) di un articolo uscito nelmedesimo anno 1999 sulla rivista cinese «Lüyou» («Viaggi, o Turismo»), ove sonoillustrati gli elementi di confronto e supposta rispondenza che consentirebbero didedurre una presenza romana nell’Asia centrale cinese53: dalle tecniche militari, aquelle edilizie testimoniate da resti in muratura e legno, dai riscontri fisionomici ecaratteriali [sic!] della popolazione, alla pratica della tauromachia. A queste nota-zioni, consuete in tutta la pubblicistica che fa capo a Dubs e ai suoi argomenti, siaffiancano nell’articolo altre considerazioni meno usuali, che sono sempre fatte risa-

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49 PLIN. SR., Nat. Hist. 6, 24, 84-91.50 J.-N. ROBERT, De Rome à la Chine. Sur les routes de la soie au temps des Césars, San Jose, New

York, Lincoln, Shanghai 19972, pp. 239-243; cfr. pure G. CAMODECA, La gens Annia Puteolana in etàgiulio-claudia: potere pubblico e interessi commerciali, in «Puteoli» 3, 1979, pp. 17-34; P. HOPKIRK,Foreign Devils on the Silk Road: The Search for the Lost Cities and Treasures of Chinese Central Asia, Cam-bridge MA 1980.51 G. BERTUCCIOLI, Serpenti di mare: i pronipoti dei legionari di Crasso si troverebbero in Cina, in

«Mondo cinese» 100, gennaio 1999 = http/www.tuttocina.it/mondo_cinese/100/100_bert.htm.52 Bertuccioli cita Nel Gobi una Roma perduta, da «La Stampa» del 5 ottobre 1989; Alla ricerca dei

Romani dell’arca perduta, dal «Corriere della Sera» del 21 ottobre 1989; Una scoperta archeologica?Dove Lijian sembri Roma, dal «Corriere della Sera» del 4 maggio 1990; WANG ZHEN, Gu Luoma junxiaoshi yu Gansu zhi mi you xin faxian (Nuove scoperte sul mistero della scomparsa nel Gansu di un eser-cito romano), in «Huashang shibao» 192, 1994.53 Gansu gu Luoma junduiduan houyi (I discendenti dei soldati dell’antica Roma nel Gansu), in

«Lüyou», 1999, citato in G. BERTUCCIOLI, Serpenti di mare cit.

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lire all’eredità «romana», come l’indole aperta e sicura di sé delle donne, la pro-nuncia peculiare della lingua ove abbondano suoni retroflessi e nasali, le modalitàdi sepoltura dei defunti, da sempre inumati con la testa rivolta a occidente. Infine,in un eccesso di elaborazione fantasiosa, considerando la possibilità che nel corsodei secoli i discendenti dei legionari si siano diffusi in territori anche assai lontanidal sito di Zheláizhài/Liqian, si congettura che un affresco ritrovato in un tempiodi Milan, nello Xinjiang, ove compare un’iscrizione in lingua non cinese con il nomedell’autore «Tisha», sia stato eseguito proprio da un Romano, dal momento cheTisha sarebbe il tipico nome di una supposta quanto non meglio specificata (daTitus?) ascendenza romana presente nell’onomastica della zona (così come il nome– pure di presunto etimo romano – «Maimaiti» è frequente presso l’etnia turcofonae islamica degli Uiguri, diffusa in Xinjiang, della cui popolazione costituiscono lamaggioranza relativa)54. Addirittura, l’affresco sarebbe stato «dipinto nel tipicostile romano, con personaggi alati» [sic!]55.Nonostante gli eccessi strumentali in qualche modo denunciati da G. Bertuc-

cioli, ha continuato a essere intensa l’eco mediatica, stimolata sia dalla ricerca delleprove dell’esistenza di una sorta di colonia autorizzata romana entro i confini delCeleste Impero Han, sia dalla sua frequente volgarizzazione in postulato indiscuti-bile di là da ogni dimostrazione persuasiva. Alla questione si sono costantementeinteressati, anche nell’ultimo decennio, sia i mezzi di comunicazione di massa, siai siti e i blog di appassionati dell’antichità romana56, sia una certa pubblicistica chesi pone ai confini tra curiosità fanta-archeologica e trattazione scientifica. Un’indicazione interessante circa il clima in cui si svolgeva la ricerca ci viene

offerta fin dall’agosto del 2000 da Henry Chu, che – per conto del «Los AngelesTimes» – si recò a tastare il polso dei cittadini di Zheláizhài, tanto dubbiosi circa iloro antenati più recenti quanto del tutto convinti – come si deduce dai frammentidi intervista – dell’origine romana dei loro avi di due millenni or sono: la prospet-tiva era del resto quella espressa nel medesimo articolo dal su ricordato GuangHeng, il quale – anche in relazione alle ventennali indagini del padre, rivolte allaverifica della presenza romana in Cina – affermava: if we can uncover the truth aboutthis, we’ll have to rewrite world history, Roman history and Chinese history. Chu sot-tolinea l’iperbole, ma osserva tutto sommato con simpatia, seppur con scetticismo,le nobili ambizioni di Guang: Guang’s lofty ambitions are rooted in a mystery completewith epic battles, imperial pretensions, personal obsessions and colorful characters, allwrapped up in a tale even Marco Polo would have had trouble dreaming up57. Quattroanni dopo, lo speciale natalizio dell’«Economist» dedicava un ampio e illustratocontributo al tema58, ove si analizzavano con precisione i meccanismi di nascita e

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54 BERTUCCIOLI, Serpenti di mare cit.55 Ibid.56 Cfr., a puro titolo di esempio, http://www.strangehistory.net/tag/sogdiana/, oppure http://

www.powerhousemuseum.com/walkingthewall/index.php/2006/07/29/in-search-of-the-blonde-haired-blue-eyed-chinese.57 H. CHU, Digging for Romans in China, in «Los Angeles Times», August 24, 2000 = http://arti-

cles.latimes.com/2000/aug/24/news/mn-9483. 58 The Romans in China. They came, saw and settled. So it’s said, anyway, in «The Economist»,

December 16, 2004 = http://www.economist.com/node/3445050. Cfr. pure R. POCH DE FELIU, La

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diffusione del mito della città romana di Cina, anche nei suoi aspetti e nei suoi pro-tagonisti più curiosi. Fra questi, il responsabile di un tempio buddista nelle vici-nanze di Zheláizhài il quale si mostra convinto che anche Giulio Cesare si recò neldistretto di Yo∨ngcha-ng per trascorrervi gli ultimi anni e convertirsi alla religionedel Budda (evidentemente, i cesaricidi assassinarono l’uomo sbagliato!); ma anchei due capi (nel 2004) della sezione locale del Partito Comunista Cinese, ZhangJianxin e Song Guorong, fieri sia delle loro caratteristiche fisiognomiche «romane»,sia di essere stati – a loro detta – riconosciuti da alcuni turisti occidentali come«parenti» dei loro antenati; e infine Jia Xiaotian, capo del Partito a Zheláizhài nel1993, che intuì il potenziale turistico della relazione fra la località cinese e Roma inuna zona – lo Yo∨ngcha-ng – lontana dai circuiti tradizionali di visita della Cina, eche in questa prospettiva promosse iniziative sia di concreto sfruttamento, come lacostruzione di un albergo di lusso e l’apertura di guest-houses, sia di immagine, comela costruzione di un padiglione in stile romano sulle fondamenta di un antico tem-pio, l’allestimento di un museo ricco di presupposte testimonianze romane, e l’in-nalzamento, a capo della strada principale della cittadina, di un colossale gruppo ditre statue che rappresentano la maggioranza cinese Han (al centro), la minoranzamusulmana Hui (a destra) e un Romano (a sinistra), ai piedi del quale una targaesalta il «contributo dei Romani al progresso sociale e alla prosperità economicadello Yo∨ngcha-ng». In realtà, al momento della pubblicazione del contributodell’«Economist» l’ambizione turistica di Jia Xiaotian, a poco più di dieci anni dal-l’avvio delle sue numerose iniziative, non pareva avere raggiunto l’obiettivo, e theromance is proving slow to take hold more widely, come parevano testimoniare theabandoned shell of a new luxury hotel and the dark empty corridors of the main guest-house in Yo∨ngcha-ng, lasciando agli abitanti di una delle zone più povere della Cinasoltanto la magra consolazione di condividere il loro sangue con quello di GiulioCesare59.Se sul piano pratico, fino ai primi anni del secondo millennio, lo sfruttamento

delle teorie dubsiane a fini turistico-economici aveva prodotto esiti modesti, nonper questo l’attenzione si è spenta. In particolare, negli ultimi anni le ricerche sulDNA della popolazione di Liqian hanno ravvivato l’interesse per il supposto anticolegame Roma-Cina, che ha visto coinvolte anche sedi governative e di partito come«Xinhua», l’agenzia ufficiale di stampa del governo della Repubblica PopolareCinese che nell’agosto del 2005 usciva, in contemporanea con l’altrettanto accre-ditato (e controllato dal Partito Comunista Cinese) quotidiano in lingua inglese«China Daily», con un ampio articolo a firma di Liu Weifeng60 nel quale si riper-

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legion perdida de Licinio Crasso, in «La Vanguardia», Martes 7 Diciembre 2004 = http://hemero-teca.lavanguardia.com/preview/2004/12/07/pagina-12/33686857/pdf.html?search = Liquian, losRomanos en China.59 Cfr. anche, assai di recente, I. FRANCESCHINI, Napoleone sulla Via della Seta, in «Cineserie.info»,

2 luglio 2012 = http://www.cineresie.info/napoleone-sulla-via-della-seta/, con ampio corredo fotogra-fico delle – esteticamente e filologicamente discutibili – «romanità» di Zheláizhài, dalle statue colos-sali allo pseudotempio, ai gadget «legionari», alle foto dei cittadini locali con supposti caratteri occi-dentali, a una ricostruzione della città antica a forma di castrum romano.60 LIUWEIFENG, Roman in China Stir up Controversy, in «China Daily», August 24, 2005, p. 13 =

http://news.xinhuanet.com/english/2005-08/24/content_3396301.htm; nel novembre dello stesso

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corrono le varie fasi della controversia e si sollecita soprattutto l’opinione di XieXiaodong, scienziato dell’Università di Lanzhou, che con la sua équipe si accingevaallora all’analisi comparativa fra campioni di DNA ricavati dagli abitanti locali contratti caucasici e quelli di cittadini europei e dell’Asia occidentale, centrale e orien-tale. Un’indagine estremamente difficile, dal momento che l’area di Yo∨ngcha-ngsorge lungo l’antica Via della seta, percorsa nei due sensi – all’epoca dell’impero diRoma e dell’impero Han, e poi per molti secoli successivi – da moltitudini di indi-vidui di diversa etnia, provenienti anche dalle sponde del Mediterraneo61. Dunque,gli stessi scienziati erano ben consapevoli della difficoltà sia di risalire a eventualiascendenze romane degli abitanti di Liqian, sia di attribuire l’origine delle poten-ziali concordanze genetiche proprio all’epoca triumvirale e ai soldati romani in fugadalla Partia. La School of Life Sciences dell’Università di Lanzhou s’impegnòcomunque a fondo nell’analisi genetica di un campione di 227 individui maschidella popolazione locale, approdando nel 2007 a risultati pubblicati a cura del«Journal of Human Genetics», in base ai quali la comunità di Liqian viene indicatacome assai più probabilmente appartenente a un sottogruppo della maggioranzacinese Han piuttosto che come erede di militari romani di antico insediamento62.

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anno 2005, sempre l’agenzia Xinhua dava notizia del ritrovamento, in una tomba scavata dagli archeo-logi nella provincia orientale di Anhui e risalente agli anni 317-410 (Dinastia Orientale Jin), di vetri diprobabile importazione romana, come si evince dallo stile e dalle modalità di fattura (1700-Year-Old‘Roman Glasses’ Discovered in East China, in «Xinhua News Agency», November 20, 2005): siamoovviamente migliaia di chilometri lontano da Liqian, ma certo il rilievo dato alla notizia dimostra comeil tema delle relazioni Roma-Cina continuasse a essere di stretta attualità e di evidente interesse anchea livello ufficiale.61 ROBERT, De Rome à la Chine cit.; S. WHITFIELD, Life Along the Silk Road, London 1999; LIU,

XINRU, L. N. SHAFFER, Connections Across Eurasia: Transportation, Communication, and CulturalExchange on the Silk Roads, New York 2007; R. MCLAUGHLIN, Silk Ties: The Links between AncientRome and China, in «History Today» 58, 1, 2008, pp. 34-41; BECKWITH, Empires of the Silk Road cit.;HILL, Through the Jade Gate to Rome cit.; LIU XINRU, The Silk Road in World History, Oxford, NewYork 2010; cfr. pure, per l’originale angolazione interpretativa: E. DE LA VAISSIÈRE, Sogdian Traders.A History, Leiden 2005, e E. DE LA VAISSIÈRE, E. TROMBERT, Les Sogdiens en Chine, Paris 2005.62 ZHOU RUIXIA ET AL., Testing the Hypothesis of an Ancient Roman Soldier Origin of the Liqian Peo-

ple in Northwest China: A Y-Chromosome Perspective, in «Journal of Human Genetics» 52, 2007, pp.584-591; cfr. R. SPENCER, Roman Descendants Found in Ga–nsù?, in «The Telegraph», February 2,2007 = http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/1541421/Roman-descendants-found-in-China.html = ID., DNA Tests for China’s Legionary Lore, in «The Sydney Morning Herald», February3, 2007 = http://www.smh.com.au/news/world/dna-tests-for-chinas-legionary-lore/2007/02/02/1169919531024.html; R. GIFFORD, China Road: A Journey into the Future of a Rising Power, New York2007, pp. 184-185; S. SOSIO, La legione perduta è arrivata in Cina, 6 febbraio 2007 = http://www.fan-tascienza.com/magazine/notizie/8992/la-legione-perduta-e-arrivata-in-cina/; e inoltre http://www.nature.com/jhg/journal/v52/n7/abs/jhg200782a.html; http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17579807; http://www.foxnews.com/story/0,2933,250297,00.html. Da rilevare anche come, subito dopo gliarticoli di Spencer, un autore fondamentalista americano di discreto successo, Steven M. Collins, notoper il tentativo di rimandare all’anticipazione della profezia biblica anche tutti gli eventi storici finoall’attualità contemporanea, trasse spunto dall’ipotesi dell’insediamento dei legionari crassiani in Cinadopo il soggiorno in Partia per sottolineare il ruolo civilizzatore fondamentale che a suo parere avreb-bero svolto appunto i Parti, da lui considerati discendenti delle dieci tribù di Israele condotte in cat-tività dagli Assiri (così si dedurrebbe dai nomi delle città partiche e della prima capitale del loro regnoche deriverebbe il proprio appellativo da Isacco), e quindi in qualche modo soggetti indispensabili deldisegno intelligente di Dio. Il regno dei Parti – i quali secondo le farneticazioni di Collins avrebbero

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L’anno 2007 segna tuttavia anche il momento di svolta più impegnativo perquanto riguarda la sistematizzazione di una materia che, come abbiamo visto, siprestava ad affabulazioni tanto complesse quanto artificiose, nonché a strumenta-lizzazioni di varia natura: turistica, commerciale, politica, addirittura religiosa.Sono dello stesso anno 2007 e di due anni dopo, rispettivamente, i contributi diEthan Gruber e di Sahin Demuynck63, le due analisi più ampie, serie e complete suldipanarsi della vicenda (storico-archeologica e storiografica con relative, moltepliciimplicazioni) innescata dai contributi di Dubs. Entrambi i contributi si concludono– inevitabilmente, in ragione del loro rigore metodologico – sottolineando l’indi-mostrabilità delle congetture di Dubs alla luce delle scarse, imprecise, mal inter-pretate e quanto mai dubbie evidenze letterarie, archeologiche e fisionomiche, a cuisi aggiungono gli esiti di esami genetici che, lungi dal dire una parola definitiva sullaquestione, ne alimentano sostanzialmente l’incertezza. Insomma, l’ipotesi di unacittà romana nell’antica Cina, in assenza di reali prove, is a fascinating read and ahighly provocative piece of historical research, but in the end, Dubs grasps at straws indrawing a connection between the two great empires of the East and West 64 e quello diDubs resta niente più che un wishful thinking 65. Naturalmente il fascino della vicenda è tale, che nemmeno in questo caso fu

posta la parola fine alle discussioni: fu sufficiente lo spunto fornito da un nuovorapporto degli scienziati cinesi e degli esperti del Centro di Studi Italiani dell’Uni-versità di Lanzhou sui test genetici, ove si segnalava, per gli abitanti di Liqian, unaquota del 56 per cento con tratti caucasico-indoeuropei, per un nuovo lancio del-l’agenzia Xinhua pubblicato dal «People’s Daily Online»66, a cui ha fatto imme-diatamente seguito una nutrita serie di articoli e di contributi concentrati soprat-tutto tra la fine del 2010 e oggi67.

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addirittura inventato le batterie a corrente continua e l’energia elettrica – fu anche, a suo dire, la patriadei Magi che recarono a Gesù appena nato doni preziosi: la città romano-cinese sarebbe quindi insostanza una città partica o una città di Romani «partizzati» e proverebbe la funzione universale di unodei tramiti principali dell’azione del popolo eletto, secondo il provvidenziale progetto divino descrittodalla Bibbia (cfr. S. COLLINS, Parthia. The Forgotten Ancient Supepower and its Role in Biblical History,Royal Oak MI 2002; ID., Parthia’s «Roman City» Found in Western China?, in «Prophecy Updates andCommentary», November 10, 2007 = http://stevenmcollins.com/WordPress/?p=125 2007).63 E. GRUBER, The Origins of Roman Li-chien, in http://people.virginia.edu/~ewg4x/roman_li-

chien.pdf, 2007; DEMUYNCK, Zheláizhài, woonplaats cit. 64 GRUBER, The Origins cit., p. 21.65 DEMUYNCK, Zheláizhài cit., p. 77.66 New Research Body to Help Decode Mystery of Western-looking Villagers in NW China, in «Peo-

ple’s Daily Online», November 19, 2010 = http://english.people.com.cn/90001/90776/90883/7205177.html; cfr. pure A Lost Roman Legion in Ancient China?, in «Chess, Goddess andEverything», November 19, 2010 = http://goddesschess.blogspot.com/2010/11/lost-roman-legion-in-ancient-china.html.67 N. SQUIRES, Chinese Villagers ‘descended’ from Roman Soldiers, in «The Telegraph», November 23,

2010 = http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/asia/china/8154490/Chinese-villagers-descended-from-Roman-soldiers.html; G. VISETTI, Rovine romane in Cina, mistero sulla via della seta. Pechino riscoprela leggenda dei legionari perduti, in «la Repubblica», 23 novembre 2010; Anthropologists Looking for RomanLegion in China, in «Newstrack India», 21 novembre 2010 = http://newstrackindia.com/newsde-tails/191666; 2010; Hunt for Roman Legion Reaches China, in «China Daily», Novembber 20, 2010 =http://www.chinadaily.com.cn/china/2010-11/20/content_11581539.htm; H. MOUNT, Roman Blood

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Appare evidente che le pur encomiabili indagini del Centro di Studi Italiani diLanzhou e la relativa scoperta di una forte presenza indoeuropea in una zona dellaCina percorsa per millenni da popolazioni di svariate etnie prova soltanto, in ter-mini scientifico-biologici, una verità che anche la mera logica poteva avvalorare.L’origine non-Han di molti cittadini di Zheláizhài e dello Y0ngcha–ng ovviamentenon significa tout court che possano essere di origine romana. Come ha in modoconclusivo puntualizzato Maurizio Bettini68, senza reperire in loco concrete testi-monianze di manufatti, come monete, insegne o armi romane, la storia della legioneperduta non può uscire dall’ambito della leggenda. Di ben maggiore interesse, tuttavia, rispetto all’eventuale verifica della veridi-

cità delle ipotesi di Dubs e dei deboli indizi in seguito raccolti a proposito dellaplausibilità delle medesime, sono le ragioni per cui una ricostruzione in sé degna discarsa considerazione – se non in ambito locale e per ragioni d’orgoglio o di conve-nienza campanilistica – ha destato così ampia e prolungata attenzione. Non vi èdubbio che, come per casi analoghi seppur meno eclatanti di legioni perdute e ritro-vate, un ruolo significativo ha giocato e gioca la seduzione della storia alternativa edel mistero storico disvelato69, ma in questo caso – specie per quanto si riferisce

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Runs Through Chinese and British Veins, in «The Telegraph», November 24, 2010 = http://blogs.tele-graph.co.uk/culture/harrymount/100049168/roman-blood-runs-through-chinese-and-british-veins/;Homer Hasenpflug Dubs and Roman Legionaries in Ancient China, in «Beachcombing’s Bizarre HistoryBlog», December 20, 2010 = http://www.strangehistory.net/tag/sogdiana/, ove si legge la più fortestroncatura dell’intera vicenda delle ricerche e delle ipotesi succedutesi da Dubs a oggi, bollate come thedisneyfication of pseudo-history; J. DUNNIGAN, Skeletons 85 in China’s Closet, January 6 2011 =http://www.strategypage.com/dls/articles/Skeletons-In-Chinas-Closet, 1-6-2011.asp (postato una primavolta il 17 dicembre 2010); K. HOPPÁL, The Roman Empire According to the Ancient Chinese Sources, in«Acta Antiqua Hungarica» 51, 2011, pp. 263-305; Legionari romani sulla Via della Seta, in «l’Unità»,16 settembre 2012 = http://appunticinesi.comunita. unita.it/2012/09/16/legionari-romani-sulla-via-della-seta/; L. FARNETI, Quando i Romani arrivarono (involontariamente) in Cina: la legione perduta diCrasso, in «L’Intellettuale dissidente», 20 dicembre 2012 = http://www.lintellettualedissidente.it/quando-i-romani-arrivarono-involontariamente-in-cina-la-legione-perduta-di-crasso/. È ora disponibileanche l’ampio studio di L. CHRISTOPOULOS, Hellenes and Romans in Ancient China (240 BC - 1398 AD),in «Sino-Platonic Papers» 230, August 2012, pp. 1-79 (=http://www.sino-platonic.org/complete/spp230_hellenes_romans_in_china.pdf), che dedica alla questione un ampio capitolo (pp. 58-65).È altresì in programma un film sulla vicenda della legione perduta di Crasso in Cina: Kurt Johnstad, sce-neggiatore di 300, è stato ingaggiato dal produttore Dan Lin per scrivere The Lost Legion per conto dellaWarner Bros (cfr. M. WHITTINGTON, ‘The Lost Legion’ to Depict Romans in China, in «Yahoo! Voices»,February 9, 2013 = http://voices.yahoo.com/the-lost-legion-depict-romans-china-12010920.html?cat=37; http://www.badtaste.it/articoli/la-legione-perduta-la-warner-bros).68 M. BETTINI, Più romanzo che realtà: mancano prove scientifiche, nota a margine dell’articolo di

VISETTI, Rovine romane cit., pubblicata nella stessa sede («la Repubblica», 23 novembre 2010). 69 È evidente il rischio, di fronte ad affascinanti ricostruzioni pseudostoriche come quelle che

riguardano le presunte legioni perdute con i loro ipotetici esotici insediamenti, di ripercorrere tout court– cedendo a meccanismi psicologici che possono facilmente innescarsi ove non si possa far conto su unsolido sostegno culturale – quelle stesse strade della fantarcheologia o della archeologia misteriosa o crip-toarcheologia che tanto successo ebbero fino all’inizio degli anni Ottanta nelle fortunate quanto discu-tibili opere di Peter Kolosimo, o di Erich von Däniken o, più recentemente, di Graham Hancock (cfr.G. G. FAGAN, Frauds, Myths, and Mysteries: Science and Pseudoscience in Archaeology, London, NewYork 1990; R. J. WALLIS, Shamans/Neo-Shamans: Ecstasy, Alternative Archaeologies and ContemporaryPagans, London 2003; K. L. FEDER, Frodi, miti e misteri. Scienza e pseudoscienza in archeologia, Grot-

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alle più recenti reviviscenze del fenomeno – occorre far riferimento piuttosto a unospecifico e inconsueto elemento di natura politico-culturale. Secondo James Dunnigan, il governo e la nomenklatura cinese, fin dall’inizio,

non avrebbero visto di buon occhio il lavoro di archeologi, scienziati e antropologi,nel timore che essi trovassero prove conclusive di bimillenari insediamenti europeinell’est della Cina, poiché the Chinese have a high opinion of themselves (often justi-fied), but because of the European role in humiliating China in the 18th and 19th cen-turies, they are uncomfortable with the idea that the damn Europeans have been in theirneighborhood even earlier 70. Ragioni nazionalistiche, quindi (alimentate per un versodalla necessità di far dimenticare secoli di soggezione di fatto rispetto agli europei,ma soprattutto, per l’altro, dalla volontà di dimostrare – in funzione di aggrega-zione del consenso – la superiorità «storica» cinese in ogni campo: diplomatico,sociale, economico, tecnologico, culturale), avrebbero determinato l’ostilità rispettoalle indagini sulle origini del popolo di Liqian. In verità, anche se non è da esclu-dere che un atteggiamento di questo tipo possa avere inizialmente ispirato qualchefunzionario di alto livello, la linea ufficiale del Partito e del governo cinese rispettoalla questione Liqian – già tutt’altro che ostile negli anni Novanta del secolo scorso,come dimostrano gli interventi che abbiamo in precedenza citato su un organo uffi-ciale come la «Beijing Review» o sulla rivista tematica «Lüyou» – appare negliultimi anni molto attenta allo sviluppo delle indagini nella zona. Com’è ovvio perchiunque conosca i meccanismi di diffusione delle notizie e il controllo su di esseoperati dalle autorità cinesi, i frequenti e obiettivi interventi dell’agenzia ufficialedi stampa Xinhua, del «People’s Daily» e del «China Daily», cioè di organi ufficialidi stampa che rappresentano la voce del Partito e del governo della Cina, non cisarebbero stati non solo se le ricerche nello Yo∨ngcha-ng da parte dell’Università diLanzhou fossero state considerate con contrarietà, ma neppure se di fronte a taliricerche le autorità di Pechino fossero state semplicemente indifferenti. È quindiun dato di fatto che le indagini non solo non sono state ostacolate, ma sono state,specie negli ultimi tempi, in qualche modo incoraggiate a livello governativo. Tutto ciò ben s’inquadra, del resto, nella dimensione politico-culturale soste-

nuta dall’attuale leadership cinese: in una prospettiva legittimante non soltantoideologica ma anche politico-pragmatica, la Cina, dai più alti vertici del potere finoai livelli della divulgazione e propaganda popolare, si è interrogata da qualchetempo (con una peculiare intensità negli ultimi anni) sui meccanismi di legittima-zione e delegittimazione dei poteri imperiali, riflettendo sull’ascesa e caduta degliimperi antichi e ripercorrendo quasi ossessivamente itinerari e vicende che hannodeterminato il successo delle grandi compagini statali multinazionali e le ragioniche ne hanno, invece, provocato il declino e l’epilogo. Com’è stato messo acuta-

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taferrata 2004; G. G. FAGAN (a cura di), Archaeological Fantasies: How Pseudoarchaeology Misrepresentsthe Past and Misleads the Public, London, New York 2006), e i cui fasti ora rinverdiscono attraversoalcune improbabili trasmissioni televisive di discreto appeal. 70 DUNNIGAN, Skeletons cit.

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mente in evidenza71, da quando nel 2002 Hu Jintao è diventato segretario generaledel Partito Comunista Cinese e presidente della Repubblica Popolare fino all’au-tunno del 2008, per ben quarantatré volte storici di fama internazionale sono statiinvitati nel massimo edificio del potere, il Grande Palazzo del Popolo, sede del-l’Assemblea Popolare Nazionale, per tenere conferenze sempre sul medesimotema: come sono cresciuti i più importanti imperi della storia e quali sono le cause dellaloro decadenza. In occasione, poi, del Congresso del Partito Comunista Cinese del2008 e della susseguente riunione plenaria annuale dell’Assemblea del Popolo, pervolontà di Hu Jintao uno storico dell’Accademia delle Scienze Sociali è stato invi-tato nel compound di Zh0-ngnánhai, riservatissima residenza dei principali espo-nenti della nomenklatura cinese (confinante fra l’altro – non senza chiaro valoresimbolico – con il lato orientale della Città Proibita), per tenere un seminario aporte chiuse, a esclusivo beneficio dei vertici del Partito e dello Stato, sulle dina-miche che portarono alla creazione degli imperi e alla loro distruzione dall’anti-chità a oggi. La concentrazione quasi ossessiva su tale tematica da parte della dirigenza cinese

non si è limitata alla reiterazione delle occasioni di studio e delle conferenze elitarieriservate agli apparati direzionali del partito e dello stato, ma si è trasferita nella gene-ralità del grande paese, incontrando il consenso, sostanzialmente spontaneo, dell’o-pinione pubblica: lo dimostra lo straordinario successo ottenuto dai dodici episodi(per un totale di dieci ore di programmazione), del docudrama intitolato The Rise ofthe Great Powers, andato in onda per la prima volta consecutivamente dal 13 al 24novembre del 2006, nel prime time del secondo degli oltre venti canali della CentralChina Television, l’emittente di stato. Il filmato – la cui eccezionale popolarità hadeterminato in questi anni innumerevoli repliche, sia sulle reti nazionali, sia su quelleregionali – analizzava l’Aufstieg und Niedergang di nove grandi imperi, a partire dal XVsecolo: quelli di Portogallo, Spagna, Olanda, Gran Bretagna, Francia, Germania,Giappone, Russia e Stati Uniti, toccando temi come la Magna Charta britannica, legrandi scoperte e conquiste di Spagna e Portogallo, la formazione degli imperi colo-niali, la rivoluzione industriale, fino al collasso dell’Unione Sovietica e alle difficoltàdi controllo e gestione della pax Americana. Lo scopo dell’indagine documentaria –rivolta al grande pubblico e quindi espressa in termini accessibili, pur nelle forme chenoi definiremmo di divulgazione «alta» – era quello di mettere in chiaro risalto imotivi principali dell’ascesa e della caduta degli imperi, sfruttando le competenze diautori e collaboratori di grande fama come Paul Kennedy (al cui fondamentalevolume del 1987, The Rise and Fall of the Great Powers72, la serie cinese è palesementeispirata), o come il celebre economista della globalizzazione e premio Nobel John Sti-glitz, o come l’ex presidente francese Giscard d’Estaing, e così via73.

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71 F. RAMPINI, L’impero perfetto. La tolleranza la chiave del potere mondiale?, in «la Repubblica»,18 febbraio 2008; C. DE BENEDETTI, F. RAMPINI, Centomila punture di spillo: come l’Italia può tornarea correre, Milano 2008, pp. 184-211.72 P. KENNEDY, The Rise and Fall of the Great Powers: Economic Change and Military Conflict From

1500 to 2000, New York 1987.73 Anche in questo caso l’imprimatur dell’agenzia di stato Xinhua e del «People’s Daily» testimo-

nia l’importanza didattico-politica attribuita al programma dalla dirigenza cinese: cfr. TV Docu Stimu-

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Da rilevare anche come i documentari siano andati in onda sul secondo canaledella CCTV i cui contenuti sono prevalentemente economico-finanziari, quasi a sot-tolineare lo stretto rapporto fra processi storici ed evoluzione dell’economia degliimperi, in un senso però assai meno marxiano di quanto si possa di primo acchitopensare. D’altra parte non è casuale, e s’inquadra nella medesima logica, il fatto cheper alcuni anni (2004-2007) la Cina abbia affidato a un politico di alta formazionestorica come Bo Xilai la conduzione di uno dei ministeri chiave per lo sviluppo delpaese, quello del commercio internazionale74. Le scelte dei vertici cinesi nel senso indicato, sia quale indirizzo di formazione

interna alla classe di governo, sia come ammaestramento e messaggio didattico-pro-pagandistico nei confronti della popolazione, presentano una pluralità di elementidi interesse: in primo luogo, essi aiutano la comprensione delle dinamiche ideolo-giche rispetto alle quali si muove oggi la Cina, promuovendo – senza peraltroabbandonare del tutto il riferimento maoista75 – il ritorno a una dimensione ideo-

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lates More Open Attitude to History, China, the World, in «People’s Daily Online», November 26, 2006= http://english.people.com.cn/200611/26/eng20061126_325264.html; cfr. anche J. KAHN, China,Shy Giant, Shows Signs of Shedding Its False Modesty, in «The New York Times», December 9, 2006 =http://www.nytimes.com/2006/12/09/world/asia/09china.html?pagewanted=all; YING ZHU, Two Bil-lion Eyes: The Story of China Central Television, New York 2012, in particolare pp. 104-119.74 La vicenda più recente di Bo Xilai è quanto mai complessa e per molti versi sorprendente dal

punto di vista politico. Assai apprezzato in Occidente per la sua attività – dal 2004 al 2007 – di mini-stro del Commercio, membro del Politburo dall’ottobre 2007, egli è divenuto il potente capo del Par-tito Comunista della città-distretto di Chongqing, probabilmente la più popolosa concentrazioneurbana della Cina odierna, dove ha acquisito enorme popolarità per la sua dura, intransigente e popu-listicamente orientata lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata. Contemporaneamente siè segnalato all’interno della dirigenza cinese come una sorta di leader della corrente maoista, la nuovasinistra cinese delusa dagli eccessi liberistici e dalla crescita delle disuguaglianze economiche. L’affer-marsi del suo profilo politico e la crescita del consenso attorno a lui non sono probabilmente estraneialla sua caduta in disgrazia, intervenuta nel corso del 2012, e che ha comportato la sua rimozione datutti gli incarichi e in seguito anche l’espulsione dal Comitato Centrale, dall’Assemblea del popolo e dalPartito nonché la condanna all’ergastolo a causa di un duplice scandalo (prima la fuga e la richiesta diasilo presso il consolato degli Stati Uniti di Wang Lijun, suo principale collaboratore a Chongqing,implicato in casi di corruzione, e, in seguito, l’accusa e la condanna della moglie di Bo Xilai, Gu Kai-lai, per l’omicidio di un uomo di affari britannico): cfr. C. COONAN, Bo Xilai, China’s Most Charisma-tic Politician, Makes a Bid for Power, in «The Indipendent», March 8,2010; F. SISCI, Quattro assi perdomare il dragone nuova Cina, in «Il Sole 24 Ore», 8 marzo 2011; J. ANDERLINI, Bo Xilai: Power, Deathand Politics, in «FT Magazine», July 20, 2012 = http://www.ft.com/cms/s/2/d67b90f0-d140-11e1-8957-00144feabdc0.html#axzz26Gc ENdmX; S. MILNE, The Bo Xilai and Gu Kailai Scandal Masks theBattle for China’s Future, in «The Guardian», August 14, 2012 = http://www.guardian.co.uk/com-mentisfree/2012/aug/14/bo-xilai-scandal-masking-chinas-future; J. GARRICK (a cura di), Law and Policyfor China’s Market Socialism, Abingdon, New York 2012; G. VISETTI, Cinesi. Come vive, lavora, ama ilpopolo che comanda il mondo, Milano 2012; A. TALIA, I giorni del Dragone. Un anno di intrighi politicia Pechino, Informant, eBook Quotidiani, 2012 (http://inform-ant.com/it/ebook/i-giorni-del-dragone.-un-anno-di-intrighi-politici-a-pechino); S. PIERANNI, Bo Xilai in «sciopero della fame», in «Il Manife-sto», 22 febbraio 2013 = http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/9127/.75 Di cui, anzi, le celebrazioni nel 2009 del sessantesimo anniversario della Repubblica Popolare

hanno segnato un revival, quanto meno di immagine: cfr. G. VISETTI, Il ritorno di Mao nella nuova Cina.La superpotenza adotta la Rivoluzione, in «la Repubblica», 22 settembre 2009; ID., Souvenir, convegnie fan club. In Cina torna il mito di Mao, in «la Repubblica», 3 agosto 2010; W. WO LAP-LAM, Ritornail maoismo. Il Partito comunista cinese distrugge se stesso, in «Asianews.it», 24 maggio 2011; come detto,

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logica confuciana, la cui parola d’ordine chiave è la «suprema armonia», la «societàarmoniosa» che deve coagulare le ottantaquattro diverse etnie della Cina ed è espor-tabile come modello per la convivenza pacifica di tutti i popoli del mondo, propa-gandata come obiettivo irrinunciabile e primario sia nel XVII Congresso del 2007,sia nell’Assemblea Nazionale del Popolo della primavera 200876. In quest’ottica,l’aggregazione del consenso passa prioritariamente attraverso lo sviluppo econo-mico, il mantenimento della sicurezza e dell’ordine sociale e il collante ideologiconazionalista, sempre forte in ambito cinese. Forse anche per questa ragione la Cinanon figura nella riflessione pubblica e popolare sugli imperi mediata dalla docufic-tion televisiva: la riflessione cinese si pone infatti in asse, sia dal punto di vistametodologico sia dal punto di vista dei contenuti, con la rinnovata discussione sugliimperi che da alcuni anni interessa soprattutto gli Stati Uniti e il mondo occiden-tale in genere, e utilizza categorie storico-interpretative oggi prevalenti nell’analisidelle cause della legittimazione-rilegittimazione dei poteri sopranazionali, come delresto dimostra anche il ripetuto ricorso alla dottrina e all’esperienza di storici, poli-tici e politologi americani ed europei. In buona sostanza, il tema dell’analisi per exempla si gioca soprattutto sulle

modalità attraverso cui meglio si acquisisce e si mantiene il consenso nella complessadimensione multietnica e multiculturale degli imperi. La condizione fondamentaleper cogliere tale obiettivo sembra l’applicazione rigorosa di politiche di soft power,le sole in grado di determinare coesione politico-culturale e quindi consenso e legit-timazione sia interna sia esterna. Ed è questa la strada intrapresa dall’attuale poli-tica cinese, che ha avuto la sua apoteosi nell’apparato ideologico che ha sostenutola celebrazione dell’Olimpiade di Pechino77, ove l’accoglienza degli ospiti stranierisi coniugava con la proposta propagandistica di uno stato dal volto umano che pre-senta le proprie tradizioni come termine di confronto con altre tradizioni, in parti-colare quelle occidentali, con le quali – «armonicamente» – connettersi e conciliarsi.

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Bo Xilai si era fatto promotore di una «campagna rossa» che conciliava Confucio con Mao (I. M. SALA,Nella Cina profonda, affari e libretto rosso, in «La Stampa», 15 maggio 2011; E. LUPANO, Qiu Xiaolong:«Vi racconto chi è Bo Xilai». Il «Nuovo Maoismo» visto dal giallista cinese, in «AGI China 24», 9 maggio2012 = http://www.agichina24.it/repository/canali/ritagli-di-emma-lupano/notizie/qiu-xiaolong-ldquovi-racconto-chi-ersquo-bo-xilairdquobr-), e la sua fine politica non implica necessariamente la finedi episodi di revival maoista nella complessa articolazione politico-ideologico-culturale cinese.76 Cfr. ad es. T. GARTON ASH, Confucio al posto di Mao, in «la Repubblica», 15 marzo 2009; F.

RAMPINI, Maestro Kung e la rivincita sui comunisti, ivi; FU MENGZI, The Global Influence of China, in«China Daily», February 22, 2011.77 J. NYE JR., The Olympics and Chinese Soft Power, in «Huff Post Politics. The Internet Newspa-

per: News Blogs Video Community», August 24, 2008 = http://www.huffingtonpost.com/joseph-nye/the-olympics-and-chinese_b_120909.html; Col.® V. SAHAI VERMA, Beijing Olympics: An Exhi-bition of Chinese Soft Power, in «RIEAS. Research Institute for European and American Studies»,October 12, 2008 = http://www.rieas.gr/images/virendra.pdf; PANG ZHONGYING, The BeijingOlympics and China’s Soft Power, in «Brookings», September 4, 2008 =http://www.brookings.edu/opinions /2008/0904_olympics_pang.aspx; nonché la ricchissima raccoltadi articoli sulla questione e in generale sul tema Cina-soft power, in Chinese Public Diplomacy and SoftPower, in Gary Rawnsley’s Web Site, The Institute of Communications Studies, University of Leeds,UK = http://ics.leeds.ac.uk /papers/vf01.cfm?folder=28&outfit=gdr; e in Beijing Olympics 2008,ibid. = http://ics.leeds.ac.uk /papers/vf01.cfm?folder=233&outfit=gdr; YING ZHU, Two BillionEyes cit., pp. 240-254.

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In questo senso, la regia di Zhang Yimou delle cerimonie di apertura e chiusura deigiochi rappresenta un manifesto politico esemplare per capacità di comunicazione etrasmissione di un vigoroso messaggio ideologico-politico: il potere cinese, forte diuna tradizione millenaria ancora quanto mai solida e radicata nella mentalità dif-fusa anche delle nuove generazioni urbane, trae da tale patrimonio culturale soprat-tutto gli elementi della mediazione solidale confuciana che prospettano, all’Occi-dente preoccupato, un’eventuale futura leadership «morbida», rispettosa dei modellisocioculturali altrui e disposta ad assecondare sensibilità tipicamente «occidentali»,dai diritti umani alle problematiche climatico-ecologiche78. La Cina, dunque, ricostruisce la propria immagine di potenza sul punto di diven-

tare superpotenza con un futuro prossimo di primo rivale degli Stati Uniti nell’eser-cizio dell’egemonia internazionale, lanciando quella che, in un fortunato e anticipa-tore libro del 2007, Joshua Kurlantzick79 ha definito una charm offensive (offensivadi seduzione). In questo importante saggio, che ha per sottotitolo chiarificatore HowChina’s Soft Power is Transforming the World, per la prima volta in maniera sistema-tica viene esaminato il senso della fiducia riposta dai dirigenti cinesi nel «potere mor-bido», una strategia fatta di diplomazia, incentivi commerciali, opportunità di scam-bio culturale e educativo, tesa a delineare un’immagine di nazione benevola, dispostaa esportare un modello di successo economico e sociale senza prevaricare modellialtrui80, pur se va ovviamente tenuto conto del fatto che il progressivo indeboli-

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78 Il tema della strategia dello «sviluppo pacifico», che il governo cinese considera di fondamentaleimportanza per la costituzione di un «mondo armonioso» (proiezione a livello mondiale della «societàarmoniosa» confuciana perseguita all’interno della Cina), venne usato per la prima volta dal presidentedella Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao durante il suo discorso al Summit per il sessantesimoanniversario della fondazione delle Nazioni Unite (Build Towards a Harmonious World of Lasting Peaceand Common Prosperity Statement, by H.E. Hu Jintao, President of the People’s Republic of China atthe United Nations Summit, New York, September 15, 2005 [translation in English] =http://www.un.org/webcast/summit2005/statements15/china050915eng.pdf): si tratta di un mondo incui si impongono «parità e democrazia nella politica, mutuo vantaggio e cooperazione nell’economia,scambi e progressi comuni nella cultura attraverso la cooperazione amichevole fra paesi, risoluzione deiproblemi tradizionali e non tradizionali di sicurezza a livello globale, pace duratura e prosperità comunedel mondo» (così si legge nel Report on the Work of the Government. Delivered at the Fifth Session of theTenth National People’s Congress on March 5, 2007, dell’ex primo ministro della Repubblica Popolare,Wen Jiabao: http://www.gov.cn/english/official/2007-03/16/content_552995.htm). Cfr. nel sitoonline di informazione Polonews.info, Il Rinascimento culturale cinese e la via dello sviluppo pacifico, 24novembre 2006 = http://www.polonews.info/articoli/Cina%20e%20Stati%20Uniti/20061124_rinascimento_culturale.pdf; e inoltre E. ASCIUTTI, Soft Power cinese: Istituto Confucio e l’esperienzaitaliana, in «Cosmopolis. Rivista semestrale di cultura» III, 2, 2008 = http://www.cosmopolison-line.it/20081215/asciutti.php; P. KHANNA, How to Run the World. Charting a Course to the NextRenaissance, New York 2011; D. LIEN, CHANG HOON OH, W. T. SELMIER, Confucius Institute Effectson China’s Trade and FDI: Isn’t it Delightful when Folks Afar Study Hanyu?, in «International Reviewof Economics and Finance» 21, 2011, pp. 147-155.79 J. KURLANTZICK, Charm Offensive. How China’s Soft Power is Transforming the World, Bingham-

ton NY 2007.80 Cfr. B. GILL, HUANG YANZHONG, Sources and Limits of Chinese «Soft Power», in «Survival» 48,

2006, pp. 17-36; E. PAN, China's Soft Power Initiative, in «Council on Foreign Relations» May 18,2006 = http://www.cfr.org/publication/10715/; WANG YIWEI, Public Diplomacy and the Rise of Chi-nese Soft Power, in «The Annals of American Academy of Political and Social Science (SSCI)» 616, 1,March 2008, pp. 257-273; C. MCGIFFERT (a cura di), Chinese Soft Power and Its Implications for theUnited States: Competition and Cooperation in the Developing World. A Report of Center for Strategic and

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mento degli Stati Uniti e l’infuriare a partire dal 2008 della crisi economica, con laCina proprietaria della quota maggioritaria del debito statunitense81, potrebberoindurre la Repubblica Popolare a riproporre comportamenti di aggressività politico-diplomatica abbandonati nelle fasi storiche immediatamente precedenti il precipi-tare degli avvenimenti economico-globali degli ultimi anni82, anche se il recente avvi-cendamento alla guida della Repubblica Popolare Cinese di Xi Jinping – segretariogenerale del Partito Comunista Cinese dal 15 novembre 2012 e Presidente dellaRepubblica dal 14 marzo 2013 al posto di Hu Jintao – e di Li Keqiang, premier dal15 marzo 2013 in luogo di Wen Jiabao, non ha finora apportato cambiamenti sensi-bili alla linea politica seguita dalla precedente amministrazione.In questa prospettiva assume appunto particolare significato e rilevanza, sia in

senso storico-storiografico, sia in senso più strettamente politico o politologico, l’a-nalisi comparativa fra gli imperi del passato intesi come esperienze riuscite di aggre-gazioni statali multietniche e multiculturali, capaci di organizzare porzioni vaste dimondo, di attrarre e consolidare il consenso (preferibilmente attraverso sistemi digoverno soft) e di durare nel tempo. La comparazione con gli imperi del passatorisponde, insomma, per la Cina, a un duplice obiettivo: quello «didattico» di meglioapprendere, attraverso la lezione della storia, i meccanismi di costruzione e mante-nimento del potere imperiale, e quello «diplomatico-politico», nei confronti sia del-l’interno sia dell’esterno del paese, di confermare una vocazione imperiale che, sep-pur «morbida», intende essere perseguita con tenacia e impegno collettivo, nelladecisa convinzione della positività dell’esito. Nel medesimo quadro, il riferimento all’impero di Roma – la compagine sopra-

nazionale di maggior successo nella storia in termini di durata, compattezza e appli-cazione sistematica di una sorta di soft power fino allora sconosciuto alle precedenti

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International Studies (CSIS), Washington DC, March 2009 = http://dspace.cigilibrary.org/jspui/bit-stream/123456789/26670/1/Chinese%20Soft%20Power%20and%20Its%20Implications%20for%20the%20United%20States.pdf?1; SHENG DING, Analyzing Rising Power from the Perspective of Soft Power:A New Look at China’s Rise to the Status Quo Power, in «Journal of Contemporary China» 19, 64,2010, pp. 255-272; XIN LI, V. WORM, Building China’s Soft Power for a Peaceful Rise, in «Journal ofChinese Political Science / Association of Chinese Political Studies» 16, 2011, pp. 69-89 =http://www.springerlink.com/content/p62307117m320t04/fulltext.pdf; S. BRESLIN, The Soft Notionof China’s «Soft Power», in «Asia Programme Paper», Chatham House, February 2011 =http://wrapp.warwick.ac.uk/4342/1/WRAP_Breslin_18575_0211pp_breslin.pdf; HU JIAN, Cul-ture Soft Power from China’s Perspective, in «CNKI Journal of Social Science. Shanghai Academy ofSocial Science» 5, 2011 = http://en.cnki.com.cn/Article_en/CJFDTOTAL-SHKX201105002.htm.81 A. ARDUINO, Il fondo sovrano cinese, Quaderni del CASCC - Centro di Alti Studi sulla Cina Con-

temporanea, Milano 2009.82 Cfr. N. FERGUSON, M. SCHULARICK, «Chimerica» and the Global Asset Market Boom, in «Inter-

national Finance» 10, 3, 2007, pp. 215-239; K. MAHBUBANI, Smart Power, Chinese Style, in «TheAmerican Interest Magazine», March-April 2008 = http://theeconomics.wordpress.com/2008/05/07/smart-power-chinese-style-kishore-mahbubani/; J. NYE JR., The Powers to Lead, Oxford, New York2008 (trad. it. Leadership e potere. Hard, soft, smart power, Roma, Bari 2009); N. FERGUSON, What«Chimerica» Hath Wrought, in «The American Interest Magazine», January-February 2009 =http://www.the-american-interest.com/article.cfm?piece=533; N. FERGUSON, M. SCHULARICK, TheGreat Wallop, in «The New York Times», November 15, 2009; J. NYE JR., American and ChinesePower after the Financial Crisis, in «The Washington Quarterly» 33, 4, 2010, pp. 143-153; ID., TheFuture of Power, New York 2011; KHANNA, How to Run the World cit.

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realtà imperiali – appare naturale e indispensabile: contestualizzandosi nel piùampio dibattito scientifico-storico-politologico sulla comparazione fra gli imperi83,sollecitato – a partire dal 1989 e dall’11 settembre 2001 – prima dalla scomparsarepentina del bipolarismo mondiale, e poi dall’evento terroristico che parve segnaretragicamente l’inizio della fine dell’era americana84, in parallelo con la sempre piùtumultuosa e pervasiva crescita della potenza cinese (o cino-indiana, secondo unaltro punto di visuale)85, il confronto fra Cina e antica repubblica imperiale romanaha trovato in generale specifica attenzione nelle analisi collettive curate da Fritz-Heiner Mutschler e Achim Mittag86 e da Walter Scheidel87, nonché in una curiosa

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83 Cfr. da ultimi H. MÜNKLER, Imperien. Die Logik der Weltherrschaft – vom Alten Rom bis zu denVereinigten Staaten, Berlin 2005; CH. S. MAIER, Among Empires. American Ascendancy and Its Prede-cessors, Cambridge MA, London 2006; CHUA, Day of Empire cit.; P. KHANNA, The Second World.Empires and Influence in The New Global Order, New York 2008; G. M. BRAVO (a cura di), Imperi eimperialismo. Modelli e realtà imperiali nel mondo occidentale, Atti del Convegno internazionale XIVGiornata Luigi Firpo (Torino, 26-28 settembre 2007), Roma 2009; R. BEN-GHIAT (a cura di), Gliimperi. Dall’antichità all’età contemporanea, Bologna 2009; A. PURCHAMI, Hegemonic Peace and Empire.The Pax Romana, Britannica, and Americana, London, New York 2009; J. BURBANK, F. COOPER,Empires in World History. Power and the Politics of Difference, Princeton NJ, Woodstock 2010; T. H.PARSONS, The Rule of Empires. Those Who Built Them, Those Who Endured Them, and Why TheyAlways Fall, Oxford, New York 2010; R. ROMANELLI (a cura di), Impero, imperi. Una conversazione,Napoli, Roma 2010. 84 L’espressione, divenuta topica, è come noto di CH. A. KUPCHAN, The End of the American Era.

U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the Twenty-First Century, New York 2002; cfr. pure J. NYEJR., The Paradox of American Power. Why the World’s Only Superpower Can’t Go It Alone, Oxford, NewYork 2002; M. MANN, Incoherent Empire, London, New York 2003; N. FERGUSON, Colossus. The Riseand Fall of American Empire, London 2004; C. MURPHY, Are We Rome? The Fall of an Empire and theFate of America, Boston, New York 2007; A. J. BACEVICH, The Limits of Power. The End of AmericanExceptionalism, New York 2008; M. DE MEDICI, La Cina e gli Stati Uniti. Un equilibrio instabile, in«Affari esteri» Xl, 157, 2008, pp. 163-169; T. F. MADDEN, Empires of Trust. How Rome Built – andAmerica Is Building – a New World, New York 2008; MAHBUBANI, Smart Power cit.; F. ZAKARIA, ThePost-American World, New York, London 2008; D. S. MASON, The End of the American Century,Lanham MD, Plymouth 2008; D. E. SANGER, The Inheritance. The World Obama Confronts and Chal-lenges to American Power, New York 2009; F. RAMPINI, Occidente estremo. Il nostro futuro fra l’ascesadell’impero cinese e il declino della potenza americana, Milano 2010; in sostanziale controtendenza L.PANITCH, S. GINDIN, The Making of Global Capitalism. The Political Economy of American Empire, Lon-don, Brooklyn NY 2012.85 Utili F. RAMPINI, L’impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi

e mezzo di persone, Milano 2006; FERGUSON, SCHULARICK, «Chimerica» cit.; M. RASGOTRA (a cura di),The New Asian Power Dynamic, Los Angeles, London, New Delhi, Singapore 2007; FERGUSON, What«Chimerica» Hath Wrought cit.; FERGUSON, SCHULARICK, The Great Wallop cit.86 F.-H. MUTSCHLER, A. MITTAG (a cura di), Conceiving the Empire. China and Rome Compared,

Oxford, New York 2008.87W. SCHEIDEL (a cura di), Rome and China. Comparative Perspectives on Ancient World Empires,

Oxford, New York 2009; a SCHEIDEL si deve anche il contributo, di grande interesse per l’originalepunto di osservazione, Comparative History as Comparative Advantage: China’s Potential Contribution tothe Study of Ancient Mediterranean History, pubblicato nell’ambito del progetto coordinato da due deipiù prestigiosi Departments of Classics americani, il “Princeton/Stanford Working Papers in Classics”,aprile 2006 = http://www.princeton.edu/~pswpc/pdfs/scheidel/040601.pdf; nonché la cura dell’im-portante The Stanford Ancient Chinese and Mediterranean Empires Comparative History Project (Acme)=http://www.stanford.edu/~scheidel/acme.htm. Cfr. pure S. SETTIS, Storie da due imperi, in L. PAN-

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silloge che raccoglie organicamente tutte le molte voci di Wikipedia attinenti al con-fronto fra i due grandi imperi paralleli di Roma e della Cina Han88. Si tratta di unatendenza storico-comparativa che rappresenta per molti versi una novità storiogra-fica, quanto meno nell’ampiezza delle sue dimensioni e del suo impegno analiticorigoroso89, che coinvolge prestigiosi centri di ricerca classica e sinologica traStanford, Princeton e Oxford e che trova indubbiamente particolare interesse nellaRepubblica Cinese, la quale a sua volta ha recentemente favorito iniziative in qual-che modo correlate, come la grande mostra I due Imperi. L’Aquila e il Dragone 90.Qui per la prima volta sono stati messi a raffronto l’impero romano e l’imperocinese delle dinastie Qin e Han e oltre, nel periodo che va dal II secolo a.C. al IVsecolo d.C., con la finalità – come recita la presentazione, a cura del Ministero peri Beni e le Attività Culturali, dell’esibizione – «attraverso il confronto inedito di300 capolavori straordinari dei due Imperi, di accostare le rispettive strutturesociali e intellettuali e investigare i rispettivi ambiti politici ed economici; di evi-denziare il loro contributo all’umanità e le eredità di entrambi sulle nostre rispet-tive civiltà»91. La mostra, che è il risultato della cooperazione pluriennale tra ilMinistero per i Beni e le Attività Culturali della Repubblica Italiana e la StateAdministration for Cultural Heritage della Repubblica Popolare Cinese, ha avutograndissimo successo nelle prime due tappe cinesi – la prima a Pechino, al BeijingWorld Art Museum (29 luglio - 4 ottobre 2009) in occasione delle celebrazioni peril sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, ela seconda a Luoyang, al Luoyang Museum (29 ottobre 2009 - 15 gennaio 2010) –,per poi approdare in Italia, prima al Palazzo Reale di Milano (15 aprile - 5 settem-bre 2010) e in seguito a Roma, presso il Museo di Palazzo Venezia (19 novembre -6 febbraio 2011). Coinvolti da un’iniziativa di amplissimo respiro e complessitàsono stati almeno trentasei musei e istituzioni culturali dello stato cinese, e ovvia-mente le più importanti collezioni e siti archeologici italiani. Sempre seguendo iltesto della presentazione, evidentemente concordato dalle autorità competenti ita-liane e cinesi, si apprende come «sia le dinastie Qin e Han che l’Impero Romano,avendo avuto un ruolo di assoluta e indiscussa importanza nella storia dell’umanità,abbiano gettato le basi di strutture politiche e sociali valide ancora oggi, regolecapaci di influenzare fortemente la storia dei secoli successivi». E l’intenzione dellamostra è appunto quella di «proporre ai visitatori un confronto che, seppur maiavvenuto concretamente e direttamente nella storia, risulta estremamente affasci-

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LEGIONI PERDUTE, LEGGENDE RITROVATE, LUNGO LE STRADE DELL’IMPERO E OLTRE

CIOTTI, M. SCARPARI (a cura di), Cina. Nascita di un impero, Catalogo della Mostra (Roma, Scuderie delQuirinale, 22 settembre 2006 - 4 febbraio 2007), Roma, Milano 2006, pp. 92-101.88 F. P. MILLER, A. F. VANDOME, J. MCBREWSTER (a cura di), Comparison Between Roman and

Han Empires, Marston Gate (UK), Beau Bassin (Mauritius) 2009.89 Pochi sono in effetti i precedenti di una simile comparazione: cfr. F. J. TEGGART, Rome and China:

a Study of Correlations in Historical Events, Berkeley 1969; E. G. PULLEYBLANK, The Roman Empire asKnown to Han China, in «Journal of the American Oriental Society» 119, 1, 1999, ppp. 71-79.90 S. DE CARO, M. SCARPARI, I due imperi. L’Aquila e il Dragone, Catalogo della Mostra, Milano

2010. 91 I due Imperi: l’aquila e il dragone, 30 luglio 2009 = http://www.beniculturali.it/mibac/export

/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/Eventi/EventiInEvidenza/NelMondo/visualizza_asset.html_1091825616.html.

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nante e interessante nella sua apparente impossibilità. Si vuole mostrare, infatti,come in condizioni storiche e geografiche del tutto distinte, due grandi cultureabbiano sviluppato esiti ora del tutto diversi, ora simili, differenti nelle formeesterne, ma affini nella struttura funzionale. Nonostante la lontananza geografica,infatti, le due civiltà si sono evolute parallelamente e la loro grandezza ha influen-zato […] il corso della storia del mondo». Come è facile capire, meglio di ogni altra considerazione il testo citato illumina

circa la volontà – soprattutto cinese, nell’intento politico-culturale sopra illustrato– di ripercorrere le radici della propria millenaria vocazione imperiale, anche pro-ponendo un confronto paritario con l’altra grande, e contemporanea, realizzazionestatuale unitaria multinazionale rappresentata dall’impero di Roma. Di qui anchela pluralità di iniziative, in accordo ad esempio con l’Italia, di diffusione reciprocadelle due culture (per quanto si riferisce alla Cina utilizzando anche il formidabilenuovo strumento, dal 2004 in costante ed esponenziale espansione, degli IstitutiConfucio)92, partendo appunto dalla vita parallela dei due antichi imperi, chevidero fra l’altro fiorire in perfetta simultaneità i loro periodi di maggior splendore,tra II secolo a.C. e II secolo d.C.

La consacrazione ufficiale, da parte delle autorità cinesi, delle ricerche aZheláizhài e nello Y0ngcha–ng si spiega e si giustifica, dunque, proprio in questoclima: poco importa, evidentemente, accertare la veridicità o meno delle teorie diDubs sulla presenza stabile dei militi romani a Liqian; ciò che preme è tenere vival’attenzione su un presunto incontro fra i due grandi imperi paralleli del passato,simbolo reale o virtuale – ma comunque politicamente e propagandisticamentesignificativo – di un rapporto di confuciana armonia fra i due dominatori del mondoantico che deve riprodursi, per esempio, fra gli USA, prima potenza mondiale oggiin regresso, e la Repubblica Popolare, seconda (forse ancora per poco) potenza mon-diale in progresso93. In definitiva la legione di Crasso, perdutasi fra le terre dellaPartia e della Cina, improbabilmente approdata dopo romanzesche vicende nellaprovincia di Ga-nsù, si ritrova ora a svolgere un imprevisto, piccolo ma significativoruolo su un palcoscenico storico del tutto inedito, ma non meno epocale e globaledi quello che la vide protagonista, nel bene e nel male, più di duemila anni or sono.

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92 ASCIUTTI, Soft Power cinese cit. 93 FERGUSON, SCHULARICK, «Chimerica» cit.; SANGER, The Inheritance cit.; FERGUSON, What

«Chimerica» Hath Wrought cit.; FERGUSON, SCHULARICK, The Great Wallop cit.; RAMPINI, Occidenteestremo cit.; KHANNA, How to Run the World cit.

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RingraziamentiSento il dovere di esprimere tutta la mia gratitudine alla casa editrice Celid, nellapersona soprattutto di Vanda Cremona, per avere seguito con infinita pazienza,competente sollecitudine e sincera amicizia le tormentate vicende di questo volu-me, la cui realizzazione è stata interrotta, rallentata e più volte sospesa, con esa-speranti ritardi di consegna, a causa dei miei impegni istituzionali. Un grazie calo-roso anche a chi si è sobbarcato un lavoro di editing tutt’altro che agevole, con-siderata la particolare struttura del libro: a Laura Salvai, per l’intelligente operaemendativa di ripetizioni e sovrapposizioni tematiche, ma anche per l’efficace eacuta intuizione nella scelta del titolo, e successivamente a Barbara Sancin perl’ammirevole acribia con cui ha verificato la redazione definitiva del testo.

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