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ISSN: 2038-7296POLIS Working Papers
[Online]
Istituto di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLISInstitute of Public Policy and Public Choice – POLIS
POLIS Working Papers n. 216
September/October 2014
OPALOsservatorio per le autonomie locali
N.5/2014
Elena Ponzo et al. (DRASD)
UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDRIA
Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria
1
OPAL – Osservatorio Per le Autonomie Locali - Newsletter n. 5 Settembre/Ottobre 2014
OPAL
OSSERVATORIO PER LE
AUTONOMIE LOCALI
n. 5
Settembre/Ottobre 2014
(a cura di Elena Ponzo)
2
INDICE
EDITORIALE
Il “cantierismo” servirà alle autonomie ? Di Jörg Luther ................................................. 5
PARTE I
REGIONI, STATO, EUROPA
La Dichiarazione di Torino: “L’occupazione in Europa – Investire nelle città e regioni
per una crescita sostenibile” (testo in italiano) .................................................................. 7
Resoconto del seminario: “Come affrontare la crisi? Una proposta neokeynesiana per
l’Italia”. Di Maria Bottiglieri ed Enrica Maria Martino................................................. 11
La legge della regione non può vincolare l’attività commerciale itinerante nelle zone
marittime. Annotazione a Corte cost., 14 marzo 2014, n. 24. Di Nicola Dessì............... 16
PARTE II
FUNZIONI E SERVIZI
Il ritorno alle aziende speciali nella gestione dei servizi pubblici locali. Nota a Corte dei
Conti, Sez. Autonomie, delibera 21/1/2014, n. 2. Di Marco Comaschi .......................... 18
Servizio noleggio auto con conducente a portata di smartphone:
l’app di «Uber» utilizzata nel comune di Milano. Di Elisa Bellomo ............................. 20
La nuova disciplina dei procedimenti di concessione di derivazione di acqua pubblica in
Piemonte. Di Elisa Bellomo............................................................................................. 23
La legge regionale non può prorogare sine termine la durata dei contratti di affidamento
del trasporto pubblico locale. Annotazione a Corte cost., 13 gennaio 2014, n. 2. Di
Nicola Dessì ..................................................................................................................... 27
La legge statale può obbligare i comuni minori all’esercizio associato delle funzioni
comunali. Annotazione a Corte cost., 11 febbraio 2014, n. 22 e 13 marzo 2014, n. 44 Di
Nicola Dessì ……………………………………………………………………………………...28
La Corte costituzionale sui rapporti tra legge regionale, legge penale e strumenti
urbanistici comunali. Annotazione a Corte cost., 13 marzo 2014, n. 46/2014. Di Nicola
Dessì e Matteo Porricolo ................................................................................................. 32
3
La legge statale può conferire alle province le funzioni relative al trasporto e allo
smaltimento dei rifiuti. Annotazione a Corte cost., 16 aprile 2014, n. 100. Di Nicola
Dessì ................................................................................................................................ 35
La regolazione comunale delle sale da gioco a Genova. Nota a T.A.R. Liguria, Sez. II,
sent. 05.02.2014, n. 194. Di Davide Formaggio ............................................................. 37
PARTE III
CITTADINI ED ENTI
L’istituzione del Comune di Mappano è conforme a Costituzione. Nota a Corte cost.,
11.06.2014, n. 171. Di Marco Comaschi......................................................................... 41
Il diritto al nome dell’ente locale: riflessioni a margine del referendum per
“Courmayeur-Mont Blanc”. Di Giovanni Boggero e Matteo Porricolo ......................... 44
Reati ambientali e risarcimento agli enti locali: il caso Solvay di Alessandria. Di Matteo
Porricolo .......................................................................................................................... 53
L’articolo 5 del “Piano Casa” del governo Renzi. Un dubbio bilanciamento tra esigenze
di legalità e diritto alla casa. Di Elena Ponzo .................................................................. 61
PARTE IV
ELEZIONI E ORGANI
I dipartimenti in Francia. Di Nicola Dessì ....................................................................... 73
Proposte di riforma delle autonomie territoriali in Francia in ottica comparata. Di Luca
Beccaria ........................................................................................................................... 78
PARTE V
FINANZA E CONTABILITÀ
[Corte cost. n. 88/2014]. La Corte costituzionale rafforza la “legge rinforzata” di
attuazione della riforma costituzionale sul c.d. pareggio di bilancio. Di Giovanni
Boggero ........................................................................................................................... 84
4
Il giudizio di parificazione del rendiconto 2012 della Regione Piemonte. Nota a Corte
dei Conti, Sez. reg. di controllo, delibera 26.03.2014, n. 51. Di Marco Comaschi ........ 86
APPENDICE
Commento dei Dottorandi del D.R.A.S.D. al D.L. 24 giugno 2014 n. 90 “Misure urgenti
per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici
giudiziari” A cura di Giovanni Boggero ed Elena Ponzo ............................................... 92
5
EDITORIALE
Il “cantierismo” servirà alle autonomie? di Jörg Luther
OPAL continua a registrare le sofferenze degli enti locali che attendono con ansia le
novità della legge di stabilità, sperando che la trasparenza richiesta verso l’Unione europea
sia praticata anche verso il basso. Il numero apre con la Dichiarazione di Torino del
Comitato delle Regioni riunitosi nel semestre italiano di presidenza dell’UE a Torino il 12
settembre 2014: “L’occupazione in Europa – Investire nelle città e regioni per una crescita
sostenibile”.
La proposta di “crescita verde”, espressione di un indirizzo politico maggioritario
interpretabile in chiave più neokeyseniana di un maggiore interventismo pubblico, ma non
necessariamente contraria a letture neoliberali, evidenzia l’esigenza di rafforzare i filoni di
ricerca sulle dimensioni internazionali delle autonomie locali e sulle competenze locali in
materia ambientale che meriterebbero una maggiore attenzione anche della ricerca
scientifica giuridica e che ritrova particolari competenze e tematiche nel dipartimento
DIGSPES.
L’impatto delle cd. riforme “strutturali” su quelle “istituzionali” sarà il tema
generale del DRASD per l’a.a. 2014/15. Quelle istituzionali sono, come tradizione, non
ben distinte e separate dalle riforme costituzionali che hanno compiuto un passo in avanti
con l’approvazione al Senato di un disegno di legge costituzionale che vedrebbe la sua
trasformazione in uno strumento anche di tutela delle autonomie. Per quanto riguarda
invece le riforme amministrative, nel periodo coperto da questo di numero di OPAL si è
cominciato a dare esecuzione alla riforma Delrio ed è stata effettuata un’ulteriore riforma
della p.a. attraverso il decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 recante “Misure urgenti per la
semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari” (v.
commento dei dottorandi in Appendice). L'obiettivo di tale riforma, ha detto il ministro
Madia intervenuta al Senato nel dibattito sul ddl di conversione, è quello di "uscire dalla
rappresentazione decadente che oggi travolge la nostra amministrazione pubblica e che
travolge anche il tanto di buono che c'è oggi nelle professionalità della pubblica
amministrazione". Sul sito del Governo si aggiunge un ulteriore motto, non contenuto nella
motivazione del ddl di conversione: “Uscire dalla cultura del certificato per reimpostare il
rapporto cittadino-macchina pubblica”. L’urgenza si sente non solo per la digitalizzazione
e la relativa “agenda” o “rivoluzione”, ma anche per una serie di disposizioni in materia di
organizzazione della p.a. che interessano anche gli enti e servizi pubblici locali, come a
titolo di mero esempio l’art. 23 ter del decreto Madia: “3. I comuni con popolazione
superiore a 10.000 abitanti possono procedere autonomamente per gli acquisti di beni,
servizi e lavori di valore inferiore a 40.000 euro.”
Il decreto-legge intende catalizzare una riforma più ampia contenuta nel “Disegno di
legge AS. 1577 “Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” sulla quale l’ANCI ha
espresso prime posizioni moderatamente critiche nell’audizione al Senato il 16 settembre
2014 (http://www.anci.it/Contenuti/Allegati/Anci-audizione_AS1577_16sett2014_rev%204.doc).
Merita particolare attenzione e ha mosso i campanelli d’allarme della categoria
interessata la segnalata “esigenza di ridefinire il ruolo del segretario comunale e
provinciale, attraverso il superamento del dualismo Segretario-Direttore generale” in una
“figura unica apicale” da iscrivere “in apposita sezione del ruolo unico della dirigenza
6
locale”. Ma anche l’ennesimo riordino della disciplina dei servizi pubblici locali eviterà la
disoccupazione dei ricercatori del diritto amministrativo.
L’autunno delle riforme vede l’Italia come un grande cantiere aperto che fa insieme
sperare e temere. Speriamo in un inverno mite, ma temiamo l’eccesso e la frammentazione
della capacità produttiva del “cantierismo”.
Jörg Luther
7
PARTE I
REGIONI, STATO, EUROPA
La Dichiarazione di Torino: “L’occupazione in Europa – Investire nelle
città e regioni per una crescita sostenibile” (testo in italiano)
L’UFFICIO DI PRESIDENZA DEL COMITATO DELLE REGIONI
Crescita verde e investimenti nelle città e regioni d'Europa
visto l'obiettivo della strategia Europa 2020 di garantire una transizione verso un'economia
verde, a basse emissioni di carbonio ed efficiente sotto il profilo delle risorse;
considerando che la scarsità delle risorse e gli attuali schemi di produzione e consumo
rendono indispensabile il passaggio a modelli più sostenibili e a un'economia circolare;
considerando che le Analisi annuali della crescita 2013 e 2014 hanno evidenziato il
potenziale esistente in termini di creazione di occupazione verde;
accoglie con favore gli orientamenti politici del Presidente neoeletto della Commissione
europea1 che collocano la crescita verde ai primi posti dell'agenda dell'Unione europea
(UE) per i prossimi cinque anni;
sottolinea il ruolo fondamentale delle città sostenibili d'Europa ai fini di una crescita verde,
visto che esse generano l'85 % del PIL, l'80 % del consumo energetico e il 75 % delle
emissioni di carbonio2 a livello europeo, ed utilizzano un'ampia percentuale delle risorse
naturali esistenti; sottolinea l'importante ruolo cumulativo delle città di piccole e medie
dimensioni con una popolazione inferiore a 100 000 abitanti, dal momento che circa il
56 % delle città nell'UE ha tra 5 000 e 100 000 abitanti;
sostiene pertanto l'idea di sviluppare quadri d'azione per una crescita verde urbana a livello
locale, e nel contempo osserva che la crescita verde presenta un elevato potenziale per il
settore agricolo e lo sviluppo rurale che condiziona il realizzarsi di un'autentica coesione
territoriale;
sottolinea l'importanza di un approccio globale alle aree urbane e ribadisce il proprio invito
a elaborare un Libro bianco su una politica urbana integrata, che sia basato su una chiara
definizione dello sviluppo urbano sostenibile integrato e definisca obiettivi chiari per l'UE,
anche in materia di mobilità urbana;
sottolinea che la gestione del rischio di calamità al fine di raggiungere la resilienza è
essenziale ai fini di una crescita e un'occupazione verdi e sostenibili. Per passare da un
approccio incentrato sulla risposta e il ripristino a un altro che privilegia invece la
1 http://ecommaeuropa.eu/about/juncker-commission/docs/pg_it.pdf
2 http://www.eurocities.eu/eurocities/issues/green-growth-issue
8
prevenzione, la preparazione e la resilienza, occorrono investimenti di partenza (pubblici e
privati) pianificati, invece di una spesa destinata a reagire alle catastrofi. Sottolinea che, nel
solo decennio appena trascorso, le catastrofi naturali hanno provocato nell'UE 80 000 morti
e perdite economiche per 95 miliardi di euro3;
evidenzia l'importanza fondamentale di accrescere l'efficienza sotto il profilo delle risorse e
la produttività per garantire una sostenibilità a lungo termine e la creazione di nuovi
mercati emergenti e di eco-industrie con un forte potenziale in termini di creazione di posti
di lavoro, soprattutto nei settori dell'energia e della gestione dei rifiuti, nonché nell'industria
del riciclaggio;
ribadisce l'importanza degli enti locali e regionali e del settore privato quando si tratta di
effettuare investimenti pubblici verdi nelle infrastrutture, nell'edilizia, negli impianti di
riciclaggio dei rifiuti e nei sistemi di trasporto locali;
appoggia le conclusioni dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici
(OCSE) secondo cui la governance multilivello costituisce un elemento chiave per generare
una crescita verde nelle città e nelle regioni4, e ribadisce il proprio invito a elaborare una
strategia Europa 2020 rafforzata basata su una dimensione territoriale anch'essa rafforzata;
sottolinea che, nel caso del mercato interno dei prodotti e dei servizi verdi, occorre
affrontare una serie di barriere che ostacolano la transizione verso modelli aziendali più
efficienti sotto il profilo delle risorse in stretta collaborazione con tutti i livelli di governo,
come ad esempio il quadro regolamentare, la governance, l'accesso ai finanziamenti e alle
informazioni sul potenziale dei prodotti innovativi e degli appalti pubblici verdi, in
particolare per le piccole e medie imprese (PMI);
accoglie con favore la recente comunicazione della Commissione europea dal titolo
Iniziativa per favorire l'occupazione verde: sfruttare le potenzialità dell'economia verde di
creare posti di lavoro5 in cui sono evidenziate le sfide e le opportunità derivanti da
un'economia verde, in particolare la necessità di convergenza tra le competenze dei
lavoratori e le richieste di personale anticipando e gestendo nel contempo le variazioni
della domanda di capitale umano;
precisa che i posti di lavoro verdi possono essere molto eterogenei in termini di
competenze richieste, livelli retributivi e condizioni lavorative, e che si dovrebbero
compiere sforzi volti a rendere "verdi" le industrie tradizionali;
ritiene che l'iniziativa a favore dell'occupazione giovanile sia un importante strumento per
migliorare le competenze e la mobilità dei giovani in vista di posti di lavoro verdi; di
fronte, però, al livello ancora inaccettabile - superiore al 22 % - della disoccupazione
giovanile nell'UE, deplora la lentezza nel realizzare tale iniziativa e la mancanza, in
numerosi Stati membri, di sistemi di garanzia per i giovani;
3
Centre for Research on the Epidemiology of Disasters (Centro per la ricerca sull’epidemiologia delle
catastrofi, CRED). 4 http://www.oecd.org/gov/regional-policy/49330120.pdf.
5 http://ecommaeuropa.eu/social/BlobServlet?docId=11963&langId=en.
9
accoglie con favore l'iniziativa della presidenza italiana del Consiglio dell'UE di tenere -
per la prima volta - una riunione dei ministri dell'Occupazione e dell'Ambiente al fine di
rafforzare le sinergie tra politiche ambientali, economiche e sociali per una transizione
verso un'economia verde, e chiede un maggiore coinvolgimento degli enti locali e regionali
dell'UE nello sviluppo di approcci integrati volti a sfruttare il potenziale di occupazione e a
promuovere lo sviluppo sostenibile;
pone in rilievo il ruolo della ricerca e dello sviluppo, lo scambio di conoscenze, ma anche
le nuove soluzioni eco-innovative, e ripete pertanto il proprio appello a migliorare le
sinergie tra il programma europeo di ricerca Orizzonte 2020 e i fondi strutturali e di
investimento europei al fine di creare una scala di eccellenza efficace per le città e le
regioni d'Europa;
sottolinea la necessità di un quadro normativo pluriennale coerente e opportunamente
pianificato che rassicuri investitori, aziende e consumatori riguardo al fatto che le loro
decisioni avranno un adeguato ritorno; ribadisce pertanto la propria richiesta di fissare
obiettivi di efficienza energetica ambiziosi e vincolanti in occasione del Consiglio europeo
del prossimo ottobre;
si rammarica tuttavia che la comunicazione L'efficienza energetica e il suo contributo a
favore della sicurezza energetica e del quadro 2030 in materia di clima ed energia6
presentata in luglio non tenga conto degli impatti territoriali delle proposte e suggerisce una
stretta cooperazione del CdR con le istituzioni dell'UE per valutare tali impatti in vista delle
future proposte legislative;
chiede alle istituzioni dell'UE e agli Stati membri di evitare il moltiplicarsi delle reti
dedicate ai cambiamenti climatici, come l'iniziativa Mayors Adapt (I sindaci si adattano), di
ampliare pertanto la portata del Patto dei sindaci quale strumento europeo innovativo per
l'integrazione degli enti locali e regionali nella politica dell'UE in materia di cambiamenti
climatici e di dotarlo delle risorse appropriate oltre il 2020;
ribadisce che il sistema di scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra (ETS) in
Europa dev'essere urgentemente rilanciato per dare i segnali di mercato corretti e sollecita
gli Stati membri ad utilizzare parte dei proventi generati dalla vendita all'asta delle quote
nell'ambito dell'ETS per finanziare tecnologie più pulite e innovative allo scopo di creare
occupazione;
sottolinea che lo spostamento dell'imposizione fiscale dal lavoro all'utilizzo dell'ambiente,
delle risorse e dell'energia può produrre un impatto globalmente positivo sulla ripresa
economica e la creazione di occupazione.
Finanziamento di un'economia più verde nelle città e regioni d'Europa
attira l'attenzione sul fatto che gli investimenti diretti operati dagli enti locali e regionali
nell'UE hanno subito, dal 2010 ad oggi, un calo di oltre il 20 % e sottolinea l'importanza di
promuovere il ricorso a modelli di strumenti finanziari innovativi e partenariati pubblico-
privati per gli investimenti su ampia scala nelle infrastrutture; raccomanda in particolare
6 http://ecommaeuropa.eu/energy/efficiency/events/doc/2014_eec_communication_adopted.pdf.
10
che la Banca europea per gli investimenti (BEI) prosegua i propri sforzi volti a sviluppare
programmi di finanziamento specifici con gli enti locali e regionali e le banche locali;
suggerisce di estendere la portata dell'iniziativa dei project bond europei ai programmi di
efficienza energetica a livello locale e regionale, e suggerisce di cominciare a lavorare a
"linee di progetto a livello regionale" per gli investitori privati a lungo termine;
invita l'UE e i suoi Stati membri a rafforzare le politiche di stimolo della crescita,
combinando il consolidamento di bilancio con il pieno uso delle disposizioni previste in
materia di flessibilità dal Patto di stabilità e di crescita;
ribadisce la propria adesione all'appello lanciato dal Parlamento europeo ad escludere il
cofinanziamento nazionale dagli investimenti cofinanziati dall'Unione europea nel quadro
degli accordi di partenariato, e chiede pertanto che gli investimenti realizzati dagli enti
locali e regionali nell'ambito dei fondi strutturali e di coesione siano esentati
dall'applicazione delle disposizioni del Patto di stabilità e di crescita;
sottolinea che tramite i fondi strutturali e d'investimento europei si renderanno disponibili
oltre 38 miliardi di euro a sostegno del passaggio a un'economia più rispettosa
dell'ambiente grazie a investimenti destinati allo sviluppo di energie rinnovabili,
all'efficienza energetica e al risparmio energetico, e accoglie positivamente il notevole
incremento della dotazione rispetto ai 16,6 miliardi di euro investiti nell'economia a basse
emissioni di carbonio tra il 2007 e il 2013;
ricorda che il CdR ha già suggerito alla Commissione di presentare un Libro verde per
promuovere le sinergie tra i bilanci UE, nazionali e subnazionali, che potrebbe anche
sostenere l'idea di articolare meglio il pacchetto di investimenti da 300 miliardi di euro
annunciato dal Presidente neo-eletto della Commissione, e suggerisce di elaborare ulteriori
misure destinate non soltanto al livello nazionale, ma anche a quello locale e regionale;
sottolinea la necessità di misure politiche anche per migliorare l'accesso ai finanziamenti, in
special modo per aiutare i nuovi modelli aziendali a crescere e rafforzarsi, e propone alcune
misure concrete per facilitare l'accesso delle imprese nuove e innovative a finanziamenti in
forma di prestiti e di capitale proprio; raccomanda pertanto che la BEI acceleri i suoi lavori
sullo strumento per la crescita e l'occupazione (GEF);
incarica il Presidente del Comitato delle regioni di trasmettere la presente dichiarazione ai
Presidenti rispettivi del Consiglio europeo, della Commissione europea, del Parlamento
europeo e del Comitato economico e sociale europeo, nonché alla presidenza italiana del
Consiglio dell'UE e alle prossime presidenze lettone e lussemburghese.
Torino, 12 settembre 2014
Il Presidente
del Comitato delle regioni
Michel LEBRUN
11
Resoconto del seminario: “Come affrontare la crisi? Una proposta
neokeynesiana per l’Italia” di Maria Bottiglieri ed Enrica Maria Martino
7
1. La presentazione di una proposta di assumere un milione di giovani
qualificati nella P.A.
Il 6 giugno 2014, presso il Campus Luigi Einaudi di Torino (CLE), è stata presentata
una proposta di politica economica per affrontare la crisi. Il gruppo dei promotori si
compone di economisti e sociologi di due atenei piemontesi: quello di Torino e il Piemonte
Orientale8. Come evidenziato in chiusura del seminario da Maria Luisa Bianco, uno degli
aspetti metodologicamente significativi di questa proposta è proprio quello di aver raccolto
attorno ad essa scienziati sociali diversi.
I promotori hanno sottoposto la loro proposta a discussants di levatura politica e, in
parte, anche scientifica: l'on. Giorgio Airaudo, l'on. prof. Renato Balduzzi, la sen. prof.
Nerina Dirindin ed Enrico Morando, viceministro dell’Economia e delle Finanze.
Tale proposta parte da una premessa: la disoccupazione, soprattutto giovanile e
qualificata, è uno dei problemi più gravi del Paese, problema che i proponenti ritengono
non risolvibile dal mercato. Nella necessità di risolverlo, onde evitare pericolosi e ulteriori
avvitamenti del sistema che portino a uno degli sbocchi “storici” delle crisi9, gli estensori
della proposta suggeriscono di guardare al settore pubblico. Di qui la proposta: assumere
circa un milione di giovani qualificati nella pubblica amministrazione10
. Le assunzioni non
dovrebbero essere “lineari”, ma finalizzate al miglioramento di quei servizi pubblici il cui
malfunzionamento costituisce un ostacolo rilevante alla competitività dell'Italia. Il costo
della proposta si aggira attorno ai 15-20 miliardi di euro che gli estensori propongono di
reperire per 2/3 da un’imposta patrimoniale di scopo (una limitata imposta patrimoniale
sulla ricchezza finanziaria che dovrebbe restare in vigore solo per alcuni anni11
) e 1/3 da
fondi strutturali europei per l'occupazione.
Le ragioni di questa proposta riposano su una constatazione di base, ovvero che gli
occupati nel settore pubblico in Italia sono eccezionalmente pochi, come dimostrano i dati
7 * Maria Bottiglieri è dottoranda presso il DRASD, Enrica Maria Martino è dottoranda al “Vilfredo Pareto
Doctorate in Economics” (Università di Torino). Il par. 1 è di M. Bottiglieri, il par. 2 di E.M. Martino, il par.
3 di entrambe le autrici. 8 Angela Ambrosino, Università di Torino; Fabio Berton, Università di Torino; Maria Luisa Bianco,
Università del Piemonte Orientale; Bruno Contini, Università di Torino; Giovanna Garrone, Università del
Piemonte Orientale; Nicola Negri, Università di Torino; Guido Ortona, Università del Piemonte Orientale;
Francesco Scacciati, Università di Torino; Pietro Terna, Università di Torino. Cfr. a tal proposito il seguente
link: https://news.rettorato.unipmn.it/eventi/conferenze-e-seminari/allegati/locandina-ortona.pdf nel quale è
possibile scaricare anche il programma dell'appuntamento del 6 giugno, una sintesi della proposta avanzata
dai docenti e gli indirizzi mail a cui poter chiedere i documenti di approfondimento. 9 In particolare, in uno dei documenti messi a disposizione dai proponenti, si ricorda che le crisi
occupazionali della gravità di quella attuale hanno avuto tipicamente uno dei seguenti sbocchi: 1)
l'avvitamento della crisi fino alla riduzione del tenore di vita mediano a livelli inaccettabili come nel caso
recente della Grecia e quello meno recente dell'Argentina; 2) lo scarico dei costi della crisi su “altri”: gli ebrei
sotto Hitler, i contadini considerati ricchi sotto Stalin, le colonie alla fine dell'800; 3) un massiccio intervento
dello stato: è il caso della crisi del 1929. Per i proponenti i primi due sbocchi sono chiaramente non
auspicabili mentre l’ultimo sembra rappresentare, a loro avviso, l’unica soluzione possibile. 10
Durante il dibattito è stato evidenziato che in Piemonte arriverebbero circa 10.000 dipendenti pubblici in
più. 11
Secondo gli estensori, infatti, una volta superata l’emergenza il costo dei nuovi assunti sarebbe via via
finanziato dalla crescita dell’economia che ne deriverebbe.
12
del documento preparato da Fabio Berton, e Guido Ortona nel febbraio 2014 su
elaborazione dati OECD 2011. Tali dati evidenziano che se in Italia i dipendenti pubblici
(personale civile di tutti i livelli di governo) costituiscono il 13,7 % della forza lavoro (per
un totale di 3.435.000 di impiegati) in Francia la stessa tipologia di dipendenti raggiunge il
21.9% (6.217.000) mentre arriva al 18.3% nel Regno Unito (5.785.000), al 26.0% in
Svezia (1.304.000) e al 14.4% negli USA (22.121.000). Solo Grecia e Germania hanno un
tasso inferiore a quello italiano (in Germania i dipendenti pubblici rappresentano il 10.6%
della forza lavoro per un totale di 4.472.000 unità e in Grecia si arriva al 13.1% per un
totale di 3.027.000 dipendenti).
2. Descrizione sintetica della proposta.
La proposta presentata parte dalla volontà di trovare una soluzione a quello che viene
identificato come uno dei principali problemi socio-economici in Italia, la disoccupazione
giovanile e qualificata12
.
Dal momento che il settore privato non è ritenuto in grado, attualmente, di
sperimentare una crescita tale da migliorare la situazione occupazionale italiana, i
proponenti si rivolgono al settore pubblico perché si faccia promotore dell’assunzione di
un milione di giovani; tale manovra non solo contribuirebbe significativamente ad
affrontare il problema della disoccupazione, ma sarebbe un “fattore importante di sviluppo
dell’economia” consentendo di ridurre la carenza di personale nella pubblica
amministrazione, riscontrata in Italia in confronto con gli altri paesi UE, con l’assunzione
di forza lavoro qualificata che in Italia risulta sotto occupata, a partire dalla pubblica
amministrazione stessa13
. Questi fattori porterebbero ad una maggiore e migliore offerta di
beni pubblici, che secondo la teoria economica devono essere prodotti dallo Stato per
essere disponibili in quantità sufficiente.
L’idea dei proponenti deriva dalla necessità di rispettare i vincoli imposti dall’attuale
contesto storico, economico e politico, in modo da offrire una soluzione che sia efficace e
realistica; in particolare, i criteri di cui i proponenti tengono conto nel formulare il loro
parere sono cinque: gli effetti della manovra su disoccupazione, produttività complessiva
dell’economia italiana, domanda interna e coesione sociale e la realizzabilità della
proposta.
Per quanto riguarda il primo criterio, il dossier sottolinea come l’effetto positivo
sull’occupazione sarebbe superiore con l’assunzione diretta da parte della pubblica
amministrazione di giovani piuttosto che devolvendo la stessa cifra (circa 17 miliardi) a
due soluzioni alternative: la riduzione del costo del lavoro e lo stimolo diretto della
domanda. La cifra in oggetto consentirebbe una riduzione media del costo del lavoro del
2% circa, che difficilmente si tradurrebbe in un aumento significativo dell’occupazione,
anche nel caso in cui l’intero alleggerimento fiscale venisse investito (invece che
indirizzato ad un aumento dei salari)14
; d’altra parte, il sostegno diretto della domanda
rischia di stimolare più le importazioni che la domanda interna, riducendo così gli effetti
positivi della manovra sul mercato italiano.
12
Nel primo trimestre del 2014, il numero totale di disoccupati ha sfiorato i 3,5 milioni, di cui 300.000
laureati e più di 700.000 fra i 15 e i 24 anni (dati ISTAT). 13
Nel dossier, è riportato a tal proposito il confronto fra Italia e Regno Unito, in cui la percentuale di occupati
laureati nella PA è rispettivamente il 34 e il 54%. 14
Per spiegare questa posizione, il documento fa riferimento a dati Istat: a fronte di una crescita del PIL del
50% fra il 1981 e il 2001, l’occupazione è aumentata solo del 3,6%. In quest’ordine di grandezza, per
ottenere un milione di nuovi posti di lavoro sarebbe necessario un aumento del PIL del 70%.
13
Il miglioramento della produttività dell’economia deriverebbe, da una parte,
automaticamente dalla trasformazione di ricchezza finanziaria in stipendi (secondo i calcoli
dei proponenti, i 17 mld mossi dal progetto genererebbero un aumento automatico del PIL
dell’1,2%, con una riduzione del rapporto debito/PIL dell’1,5% circa); d’altra parte, la
riduzione della carenza di personale nella pubblica amministrazione15
assumendo
personale altamente istruito contribuirebbe ad un miglioramento dell’efficacia e del
funzionamento in generale del settore pubblico, con effetti benefici su tutto il sistema
economico.
In modo da rispettare il criterio di sostegno della domanda interna, bisognerebbe
indirizzare i nuovi occupati su progetti volti a favorire un ritorno interno di tale manovra;
in particolare, i proponenti suggeriscono il sostegno a progetti specifici presentati dalla
società civile.
Per quanto riguarda il finanziamento della proposta, per ottenere circa un milione di
nuovi posti di lavoro (971.000 al costo di 20.000€/anno, inclusi gli oneri previdenziali ma
esclusi quelli fiscali) sarebbe necessaria una tassazione aggiunta dello 0,45% sulla
ricchezza finanziaria.
Tale copertura è presentata come realistica, ragionevole e sicura per diverse ragioni.
In primo luogo, l’aliquota è abbastanza bassa da non intaccare lo stock di ricchezza delle
famiglie e, a fronte dell’aumento della ricchezza finanziaria nonostante la crisi (dello 0.5%
nei primi nove mesi 201316), potrebbe essere gradualmente ridotta; il rischio di
trasferimenti di capitali all’estero è fugato dall’imposizione dell’aliquota sulla titolarità del
capitale e non sul luogo di deposito, mentre il rischio di disincentivare risparmio e
investimenti è liquidato nella proposta come inesistente perché l’attuale carenza di
investimenti deriverebbe dalla debolezza della domanda. Infine, un’imposta così
immaginata (e i proponenti non escludono la possibilità di disegnarla in forma progressiva,
andando ad intaccare cioè proporzionalmente di più ricchezze finanziarie più ingenti) è
ritenuta socialmente equa17
e, se percepita come un’imposta di scopo, i cui proventi
vengano credibilmente indirizzati alla soluzione della disoccupazione giovanile, porterebbe
ad un consenso intorno alla manovra e al rafforzamento della coesione sociale (quarto
criterio dei proponenti).
3. Le osservazioni dei discussants del 6 giugno: punti di forza e punti di
debolezza della proposta.
Nell’idea dei proponenti, il progetto, una volta assunto da un piccolo numero di
scienziati sociali, doveva essere sottoposto all’attenzione di soggetti qualificati come
dirigenti sindacali, esponenti di movimenti e parlamentari di diversi partiti. Va in questa
direzione l’incontro organizzato al Campus Luigi Einaudi il 6 giugno.
Il seminario è stato aperto da uno dei proponenti, Bruno Contini, ordinario di
Econometria dell’Università di Torino, che ha illustrato la proposta. Il docente, ricordando
che la competitività richiede efficienza e risorse adeguate, ha evidenziato come tale
progetto intenda incidere su entrambi questi fattori e si è poi soffermato sul suo effetto
moltiplicatore sulla crescita il quale, sulla base di alcuni fattori, in particolare l’alta
15
Tale sotto-occupazione nel settore pubblico è documentata dettagliatamente nel dossier nel confronto con
gli altri paesi dell’UE, e deriva sia da un’inferiore produttività individuale degli impiegati pubblici (rispetto
alla Germania, ad esempio) che da un minor rapporto impiegati/cittadini. 16
“Rapporto sulla stabilità finanziaria”, Banca d’Italia, 1/2014 17
In particolare, nella proposta si sottolinea come il rischio di iniquità sarebbe molto maggiore e concreto in
caso di un’imposta patrimoniale sugli immobili, che è più volte suggerita nel dibattito politico come unica
alternativa praticabile.
14
propensione al consumo dei giovani, sarebbe pari a 2 (l’iniezione di 20 miliardi
produrrebbe circa 40 miliardi di PIL) 18
.
Su queste considerazioni si sono succeduti gli interventi dei discussants, di cui si
intendono evidenziare sin da subito i temi comuni.
Un primo fattore condiviso da tutti i relatori è che, se fino pochi anni fa sarebbe stato
impensabile solo discutere della possibilità di aumentare, seppur selettivamente, la spesa
pubblica, oggi invece il clima è diverso e ve ne sono le condizioni favorevoli: sia a Roma
che a Bruxelles si parla di crescita, oltre che di equilibrio finanziario (così Contini,
Balduzzi).
Altro elemento di forza della proposta è quello di puntare sul bisogno di creare
lavoro in tempi rapidi (Airaudo), declinato in particolare come occupazione giovanile,
dalla quale ci si attende una naturale vis innovativa della PA (Balduzzi, Dirindin). Pars
costruens della proposta, infatti, è la sua capacità di agire su un problema aperto, ovvero la
necessità di innovazione della PA: in questo senso, l’assunzione di giovani, nelle
dimensioni quantitative presentate dal progetto, potrebbe effettivamente rappresentare una
soluzione (Morando).
Altro elemento condiviso da molti interventi è quello di aver individuato come fonte
di finanziamento del progetto imposte sulle rendite e non sul reddito da lavoro o da
impresa (Morando, Balduzzi).
Ulteriore tema sollevato, seppur con differenti declinazioni, è quello di definire in
modo puntuale i settori della PA in cui far affluire i nuovi assunti (Balduzzi, Dirindin) e
individuare i servizi pubblici da potenziare.
In senso critico è stato evidenziato da più parti che il punto di debolezza della
proposta resta la sua sostenibilità politica (così Morando, Balduzzi) a cui si aggiunge il
fatto che il governo ha già scelto un’altra strada: la riduzione del cuneo fiscale sull’impresa
– limitato - e sul reddito da lavoro - meno limitato (Morando). Come rispondere, inoltre,
all’obiezione che l’eventuale accoglimento di questa proposta, verrebbe a creare un ente
pubblico in più? (Balduzzi).
Sulla base di questi temi comuni, che sono stati ripresi anche nel dibattito, si sono
sviluppate singole e differenti riflessioni.
Giorgio Airaudo ha evidenziato i punti forti della proposta: in primo luogo i suoi
numeri (a tal proposito ha ricordato i circa 3 milioni di italiani che non raggiungono i 1.033
euro al mese per nucleo famigliare, evidenziando che tale livello reddituale è considerato
soglia di povertà) e, in secondo luogo, il diretto coinvolgimento della leva pubblica, fattore
indispensabile per la crescita, atteso che, a suo parere, dall’impresa privata poco potrà
venire nei prossimi 24 mesi. Il parlamentare, infine, evidenzia il merito principale di questa
proposta: mettere all’ordine del giorno il problema centrale del Paese: lavoro in un tempo
ragionevole.
Enrico Morando ha evidenziato che la fonte di finanziamento della proposta sembra
coerente con l’esigenza di non penalizzare ulteriormente la crescita, perché colpisce i
patrimoni e non il reddito da lavoro o impresa; si è chiesto tuttavia se la proposta sia
altrettanto coerente con un riequilibrio equo della pressione fiscale. Ha poi ricordato che
prima del governo Monti la pressione fiscale del paese era paradossale: l’Italia, infatti, era
all’ultimo posto in classifica per la pressione fiscale sui patrimoni e a un livello alto per
18
Il prof. Contini ha sottolineato che tale effetto moltiplicatore sussisterebbe anche a fronte di elementi che
riducono l’effetto positivo dovuto all’alta propensione al consumo dei giovani (stimata intorno allo 0.9); in
particolare, dal fatto che parte di questo aumento dei consumi andrebbe ad aumentare le importazioni e non la
domanda interna e che sarebbe in parte compensato da una riduzione della spesa attualmente sopportata dai
genitori per coprire il consumo dei giovani, che si trasformerebbe in risparmio.
15
quella sui redditi. Gli interventi del governo Monti hanno contribuito a riequilibrare la
pressione fiscale, aumentando quella sui patrimoni, riavvicinandola alla media europea,
mentre ancora poco è stato fatto per risolvere l’evasione che incide eccessivamente sul
prelievo fiscale sui consumi.
Inoltre la proposta trascura un tema: tra gli anni Novanta e Duemila, i costi di
produzione dei beni pubblici sono cresciuti più rapidamente dei costi di produzione dei
beni privati. Sulla base di dati Istat, che ogni anno mette a confronto i due settori, è stato
infatti dimostrato che, se l’evoluzione dei due prezzi avesse lo stesso andamento, il settore
pubblico risparmierebbe 92 miliardi all’anno rispetto alle spese attuali19.
Renato Balduzzi affermando che nel quadro politico attuale sussistono le condizioni
per discutere di una proposta che implica un aumento della spesa pubblica, ha sottolineato
che la necessità di finanziare l’intervento in un quadro di equilibrio finanziario non derivi
solo da vincoli politici o normativi20
, ma anche da ragioni di sostenibilità di un debito
pubblico ormai abnorme21
e da ragioni di solidarietà intergenerazionale di cui non si è
evidentemente tenuto conto nei decenni in cui tale debito è stato accumulato. Ha poi
evidenziato la necessità di conteggiare, nella proposta, anche gli oneri fiscali oltre quelli
previdenziali; a differenza dei proponenti, per i quali tali oneri costituiscono una partita di
giro, il discussant ha ricordato che da un punto di vista contabile tali oneri vanno
previamente coperti.
Il prof. Balduzzi si è poi soffermato sul problema della distribuzione del nuovo
personale e, concordando sulla necessità di circoscrivere in modo più puntuale i settori nei
quali un’iniezione di personale giovane e qualificato possa costituire realmente un volano
di cambiamento, ha indicato la disaggregazione come possibile metodo per individuarli.
Esemplifica, in tal senso, mediante un confronto “disaggregato” con la Francia, rispetto
alla quale l’Italia ha forte carenza di personale nell’istruzione, meno nel settore sanitario.
Altri elementi su cui ha posto l’attenzione è quello della tipologia dei nuovi pubblici
impiegati: si tratta di nuovi assunti o riposizionamenti? E inoltre, dove andrebbero
collocati geograficamente? Su alcuni territori, infatti, oltre il moltiplicatore keynesiano c’è
anche quello “clientelare”, fattore che non può far cadere ab origine ogni proposta, ma che
va preso in seria considerazione. Il relatore ha concluso il suo intervento evidenziando che
il problema del consenso politico è superabile laddove si creino le opportune condizioni
culturali.
Nerina Dirindin ha evidenziato che il merito principale della proposta è quello di
rovesciare il clima culturale di denigrazione indifferenziata del pubblico impiego, che negli
ultimi anni ha demotivato molti dipendenti pubblici, da un lato, e, dall’altro, ha fatto
perdere fiducia nelle istituzioni, in particolare di quelle che non hanno fatto sprechi o spese
19
Questo è un dato paradossale su cui incide la significativa spesa pubblica per servizi generali. 20
Si ricorda a tal proposito che l’art. 81 Cost., così come novellato dalla L.Cost. 1/2012 introduce non il
principio di pareggio ma il principio di equilibrio tra entrate e spese: «Lo Stato assicura l'equilibrio tra le
entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo
economico. Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico
e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi
di eventi eccezionali. (…)». Si ricorda anche l’art. 126.1 TFUE: «Gli Stati membri devono evitare disavanzi
pubblici eccessivi» che costituisce una delle basi normative del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e
sulla governance nell'Unione economica e monetaria (c.d. Fiscal compact) del 2012 e della Strategia 2020
(approvata nel 2010). 21
Secondo fonti Eurostat il debito italiano, pur essendo calato nel terzo trimestre 2013 rispetto al secondo
trimestre, arriva pur sempre al 132,9%: in termini assoluti si tratta di oltre 2000 miliardi di euro. Nel quadro
europeo, l’Italia è seconda soltanto alla Grecia che ha il debito pubblico più alto d'Europa (169,1% del Pil) e
si avvicina al debito tedesco che in termini assoluti (2.146 miliardi) è il più ampio d'Europa, sebbene in
termini percentuali sia di gran lunga più basso a fronte di un Pil maggiore (78,4%).
16
improduttive. Si è poi soffermata sulla necessità di fare una riflessione anche sui fini
dell’azione pubblica, non solo sui processi, nell’intento di capire se i beni e servizi pubblici
prodotti, seppur a costi bassi, sono effettivamente utili e rispondono a bisogni collettivi
reali. La relatrice rileva, inoltre, la necessità di riflettere sulla effettiva destinazione dei
nuovi assunti: normalmente infatti le nuove leve sono destinate ad aree molto delicate ma
disagiate. Conclude il suo intervento esprimendo una positiva valutazione sul ricambio
generazionale nella pubblica amministrazione, a suo parere necessario in vista di quelle
riforme strutturali di lungo e breve periodo che sono ormai indifferibili.
I proponenti, tramite il prof. Ortona a cui sono state affidate le conclusioni, hanno di
volta in volta recepito i suggerimenti o reagito alle obiezioni e alle proposte in modo
puntuale. Il seminario si è chiuso evidenziando che il dibattito del 6 giugno costituisce solo
uno dei primi step di un percorso a cui ogni interessato è stato invitato ad apportare il
proprio contributo.
La legge della regione non può vincolare l’attività commerciale itinerante
nelle zone marittime. Annotazione a Corte cost., 14 marzo 2014, n. 24
di Nicola Dessì
Parole chiave: tutela della concorrenza; autorizzazioni all'attività commerciale.
Riferimenti normativi: art. 117, comma 2, lett. e), Cost.; art. 16 l. r. Veneto 31 dicembre
2012, n. 55 (Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive
e disposizioni in materia urbanistica, di edilizia residenziale pubblica, di mobilità, di
noleggio con conducente e di commercio itinerante); art. 5, comma 1, lett. a), l. r. Veneto
14 maggio 2013, n. 8 (Disposizioni in materia di commercio su aree pubbliche. Modifica
della l.r. 6 aprile 2001, n. 10 (Nuove norme in materia di commercio su aree pubbliche) e
successive modificazioni e della l.r. 4 novembre 2002, n. 33 (Testo unico delle leggi
regionali in materia di turismo” e successive modificazioni), artt. 19 e 70, D.lsg 26 marzo
2010, n. 50 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno).
Massima: La legge regionale non può porre vincoli all'esercizio dell'attività commerciale
itinerante sulle aree demaniali marittime. Più in generale, la Regione non può legiferare
in modo da incidere sulla capacità di svolgere un'attività economica: la tutela della
concorrenza è materia di competenza esclusiva statale. Non può, dunque, impedire che
l'operatore sia titolare di nulla-osta in più di un Comune; né può adottare, in caso di
domande in eccesso rispetto ai posti disponibili, i criteri di selezione stabiliti in sede di
Conferenza unificata, estendendo indebitamente il contenuto di una normativa statale, che
disciplina la fattispecie, diversa, dell'assegnazione dei posteggi nell'ambito del commercio
in area pubblica.
Link al documento
La sentenza accoglie alcune questioni di illegittimità costituzionale, promosse in via
principale dal Presidente del Consiglio dei ministri, contro alcune disposizioni della l.r. n.
55/2012 e della l.r. n. 8/2013, entrambe del Veneto, che interessano l'esercizio dell'attività
17
di vendita su aree pubbliche e, dunque, le funzioni amministrative dei Comuni, titolari del
relativo potere di autorizzazione ai sensi dell’art. 28 comma 3 d. lgs.
L'art. 16 della l.r. 55/2012 del Veneto introduce il comma 4-bis nell'art. 48-bis del
Testo unico regionale in materia di turismo (l.r. 33/2002 del Veneto). Secondo questa
disposizione, riguardante il settore del commercio itinerante nelle aree demaniali
marittime, nessun operatore può essere titolare di un nulla-osta all'attività, in più di un
Comune. Il comma 4-bis dell'art. 48-bis è stato successivamente abrogato dalla l.r. 8/2013
del Veneto, con l'art. 5, comma 1, lett. b). Ciononostante, la materia del contendere non è
cessata, poiché la disposizione in questione è stata applicata medio tempore.
A sua volta, l'art. 5, comma 1, lett. a) della l.r. 8/2013 del Veneto è intervenuto
sull'art. 48-bis del Testo unico regionale sul turismo, modificando il comma 2, lett. a).
Questa disposizione disciplina i procedimenti di selezione per il nulla-osta comunale
all'attività di commercio itinerante nelle zone marittime, e - più esattamente - il caso in cui
le domande presentate per ottenere il nulla-osta sono in eccesso rispetto ai posti disponibili.
Il legislatore veneto ha stabilito che, in quest'eventualità, si sarebbero dovuti applicare i
criteri di selezione di cui all'Intesa della Conferenza Unificata, datata 05.07.2012, in tema
di assegnazione dei posteggi su area pubblica.
Entrambe le disposizioni incidono - restrittivamente - sulla capacità, da parte degli
operatori, di svolgere un'attività economica: conseguentemente, devono iscriversi nella
materia della tutela della concorrenza, materia in cui lo Stato esercita la potestà legislativa
in via esclusiva, secondo l'art. 117, comma 2, lett. e) Cost.. Per questa ragione, entrambe le
disposizioni sono state giudicate illegittime. Infatti, la Corte ribadisce che la materia “tutela
della concorrenza”, “in quanto caratterizzata dalla portata 'trasversale' e dal contenuto
finalistico delle relative statuizioni, pur se non priva radicalmente le Regioni delle
competenze legislative e amministrative loro spettanti, tuttavia le orienta ad esercitarle in
base ai principi indicati dal legislatore statale”; si tratta dunque un settore in cui sono
“inibiti alle Regioni interventi normativi diretti ad incidere sulla disciplina dettata dallo
Stato, finanche in modo meramente riproduttivo della stessa”.
Nel caso di specie, la legge regionale ha impedito all'operatore di essere titolare di
nulla-osta in più Comuni, violando così i principi contenuti nella legge statale: in base
all'art. 19 del d.lgs. 59/2010, l'autorizzazione per il commercio itinerante consente di
svolgere l'attività in tutto il territorio nazionale.
Inoltre, la legge regionale, adottando per il commercio itinerante nelle zone
marittime i criteri di selezione stabiliti in sede di Conferenza Unificata, non fa che
estendere alla fattispecie dell'attività commerciale itinerante in zone marittime una
disposizione di legge statale in ordine a una fattispecie del tutto diversa: l'assegnazione dei
posteggi nel quadro dell'attività commerciale in aree pubbliche. A giudizio della Corte, si
tratta di una “scelta unilaterale” della Regione, la quale interviene a disciplinare, in modo
arbitrario, un caso che non è oggetto della disciplina statale.
ND
18
PARTE II
FUNZIONI E SERVIZI
Il ritorno alle aziende speciali nella gestione dei servizi pubblici locali.
Nota a Corte dei Conti, Sez. Autonomie, delibera 21/1/2014, n. 2 di Marco Comaschi
La Sezione delle Autonomie è stata chiamata a pronunciarsi dalla Sezione regionale
di Controllo del Piemonte sulla possibilità, o meno, di trasformare la Società Metropolitana
Acque Torino S.p.A. – a totale partecipazione pubblica – in un'azienda speciale consortile
di diritto pubblico. In concreto, il Comune di Torino era stato destinatario di una proposta
di deliberazione di iniziativa popolare, sulla quale il Responsabile del Settore gestione
societaria aveva espresso parere sfavorevole.
In sintesi, sono due i quesiti sottoposti all'esame del giudice:
1) se possa realizzarsi, in mancanza di apposita normativa, la trasformazione
eterogenea di una S.p.A. a totale partecipazione pubblica in azienda speciale consortile;
2) in caso negativo, se sia possibile attuare l'operazione in due fasi, rispettivamente
di estinzione/messa in liquidazione e di nuova costituzione, senza incorrere nel divieto di
cui all'art. 9, comma 6 del d.l. n. 95/2012;
Sebbene la remittente sezione piemontese avesse espresso perplessità su entrambe le
soluzioni proposte, le questioni sono state opportunamente rimesse all'attenzione della
Sezione delle Autonomie in considerazione dell'esistenza di alcune recenti pronunce di
altre Sezioni regionali di controllo favorevoli alla trasformazione22
. La Sezione delle
Autonomie ha fornito una risposta positiva a entrambi i quesiti e, in particolare, ha
22
cfr. Sezione di Controllo per la Regione Puglia, 19 settembre 2013, n. 142 e Sezione di Controllo per la
Regione Lombardia, 23 ottobre 2013, n. 460.
Parole chiave: Corte dei conti, servizi pubblici locali di rilevanza economica, servizio idrico integrato, referendum “sull'acqua”, gestione in House, società di capitali a partecipazione pubblica, azienda speciale.
Riferimenti normativi: artt. 2498 e 2500-septies comma; artt. 113 e 114 TUEL; art. 9, comma 6 del d.l. 95/2012; art. 35, comma 8, l. n. 448/2001; art. 23-bis d. l. 112/2008;
Massima: “La trasformazione di una società di capitali che gestisce un servizio pubblico a rilevanza economica in azienda speciale consortile è compatibile sia con le norme civilistiche, trattandosi di organismi entrambi dotati di un proprio patrimonio separato da quello della P.A., sia con le disposizioni pubblicistiche intese a ricondurre tali organismi ad un regime uniforme quanto al rispetto dei vincoli di finanza pubblica”.
Link al documento
19
sviluppato alcune considerazioni particolarmente utili sia per un ritorno all'utilizzo delle
aziende speciali da parte dei comuni che per la gestione in House dei servizi pubblici
locali aventi rilevanza economica.
Quanto al primo quesito, il giudice ha innanzitutto sciolto ogni dubbio circa i
presunti limiti imposti dalla disciplina civilistica alla trasformazione eterogenea di una
società di capitali in una azienda speciale. Se infatti è pur vero che l'art. 2500 septies
comma non prevede espressamente questa specifica trasformazione per una società di
capitali, occorre però rifarsi al principio generale di cui questa disciplina particolare è
espressione, ossia il principio di continuità aziendale previsto a garanzia dei soggetti terzi
dall'art. 2498 del comma. A ben vedere, allora, nel caso di specie l'azienda speciale che
risulterebbe dalla trasformazione della società per azioni sarebbe dotata di un patrimonio
separato a garanzia dei terzi, in piena coerenza con un'interpretazione sistematica degli artt.
2498 e 2500 septies c.c.
Definiti i profili civilistici dell'operazione, la Sezione affronta poi la fattibilità della
trasformazione alla luce delle norme pubblicistiche.
Il principale ostacolo da superare risulta la previsione di cui all'art. 35, comma 8, l.
n. 448/2001, secondo cui gli enti locali erano tenuti a trasformare le aziende speciali in enti
di diritto privato entro il 30.6.2003, e ciò al fine di garantire la piena espansione del
mercato dei servizi pubblici locali e di limitare ogni vulnus alla concorrenza. Il giudice
contabile ripercorre pertanto tutta l'evoluzione normativa che ha interessato la gestione dei
servizi pubblici23, soffermandosi in particolare sulle vicende intervenute successivamente
all'approvazione della succitata norma. In particolare si sottolinea come con la modifica
apportata all'art. 113, comma5 del T.U.E.L. nel 2003 il legislatore abbia fatto
sostanzialmente marcia indietro, mantenendo la possibilità di conservare la gestione in
house dei servizi pubblici locali; inoltre, con l'abrogazione referendaria dell'art. 23 bis, d.l.
n. 112/2008 si è passati dall'esigenza di garantire la massima concorrenza e di contenere le
ipotesi di affidamento diretto e di gestione in House alla piena riespansione delle norme
europee.
E' proprio in ragione di questo contesto normativo sopravvenuto, del tutto mutato
rispetto a quello che aveva portato all'approvazione dell'art. 35, comma 8, l. n. 448/2001
che il giudice adito ha sostenuto l'intervenuta abrogazione implicita di tale disposizione. Si
afferma che la predetta disposizione, essendo venuto meno ogni divieto alla gestione
mediante azienda speciale dei s.p.l., pur non avendo formato oggetto di quesito
referendario, sarebbe da considerarsi implicitamente abrogata, essendo frutto della stessa
concezione sottesa all'abrogato art. 23 bis d.l. n. 112/2008.
La decisione sottolinea inoltre il carattere transitorio della norma, la cui scadenza era
stata originariamente fissata al 31.12.2002 e che, pertanto, in assenza di proroghe ulteriori
ed in presenza di una normativa sopravvenuta rafforzerebbe la tesi dell'abrogazione
implicita. Anche i recenti interventi del legislatore – tra cui la legge di stabilità per il 2014,
la legge 27 dicembre 2013, n. 147 – farebbero propendere per questa interpretazione, dato
che dagli stessi si può desumere chiaramente l'intenzione di conservare l'istituto
dell'azienda speciale.
Così stando le cose, la Sezione per le Autonomie considera quindi tacitamente
abrogata la norma oggetto di discussione, che viene addirittura definita come “...parte di un
contesto politico-economico ormai risalente, caratterizzato dal convincimento allora
diffuso della migliore realizzazione dell’interesse pubblico mediante il ricorso agli istituti
23
A partire cioè dalla l. n. 142/1990, per poi passare alla c.d. Legge Galli n. 36/1994 e al d. lgs. n.267/2000.
20
di diritto comune e dalla fiducia nelle capacità del “mercato” di regolare al meglio anche
attività tipicamente riservate alla pubblica amministrazione...”.
Ma il giudice contabile si spinge oltre, nel tentativo di dimostrare come non solo il
ricorso – o, meglio, il ritorno – alle aziende speciali sia possibile ma, anzi, auspicabile
sotto il profilo delle garanzie di un maggior controllo dell'ente locale sul servizio stesso.
Sebbene infatti la legge di stabilità per il 2014 (legge 27.12.2013, n. 147) abbia
espunto dall'art. 114 del TUEL l'assoggettamento diretto al patto di stabilità di aziende
speciali ed istituzioni, permane comunque nella stessa una tendenza a disciplinare con
maggiore rigore le aziende speciali. Inoltre le aziende speciali, a differenza delle società di
capitali, sono da un lato soggette al principio del pareggio di bilancio e, dall'altro, vengono
anche considerate ai fini dell'applicazione diretta dei vincoli in materia di spesa di
personale.
In poche parole la Corte sostiene con evidenti ragioni giuridiche che “non ha ragione
di esistere la preoccupazione del possibile impiego dell’istituto dell’azienda speciale a
scopi elusivi dei vincoli di finanza pubblica poiché, si ripete, la relativa normativa prevede
misure più severe di quelle riferite alle società di capitali che gestiscono servizi pubblici
locali”.
Infine la Corte termina prendendo in considerazione il secondo quesito dando, anche
a questo, risposta positiva. In questo, peraltro, il compito della Sezione delle Autonomie
risulta facilitato dall'intervenuta abrogazione, per effetto dell'art. 9, comma 6, d.l. n.
95/2012, secondo cui era “...fatto divieto agli enti locali di istituire enti, agenzie e
organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più
funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell’articolo 118,
della Costituzione”.
Così stando le cose, deve ritenersi consentita anche la liquidazione di una società di
capitali e la costituzione ex novo di un'azienda speciale consortile.
Alla luce di quanto sopra riportato, si può pertanto concludere che la pronuncia in
questione rappresenta un'ulteriore importante passo nella direzione di affermare nel suo
complesso l'opportunità per gli enti locali di gestire direttamente, anche attraverso aziende
speciali, i servizi pubblici di rilevanza economica, in evidente controtendenza rispetto alla
legislazione dello scorso decennio ed alla fiducia incondizionata nel libero mercato di cui
la stessa era frutto.
Servizio noleggio auto con conducente a portata di smartphone:
l’app di «Uber» utilizzata nel comune di Milano di Elisa Bellomo
Parole chiave: servizio pubblico non di linea - servizio di autonoleggio con conducente -
trasporti – tecnologia
Riferimenti normativi: l. 15 gennaio 1992 n. 21; art. 29 comma 1, d.l. n. 13 agosto 2011
n. 138 conv. in l. 14 settembre 2011, n. 148 – determina dirigenziale 29 luglio 2013 n. 209
Massima 1: può essere confermata la sospensione della determinazione dirigenziale n. 209
del 2009 in quanto si tratterebbe di un provvedimento collegato alle previsioni del vigente
regolamento comunale approvato con deliberazione n. 133 del 24 novembre 1997 e non
aggiornato all’evoluzione normativa nazionale di cui al d. l. 138/2011.
21
Massima 2: nelle more del giudizio di merito, per l’Amministrazione comunale è
possibile concretamente valutare l’incidenza del servizio svolto dalla società Uber, sia in
rapporto all’interferenza con il servizio taxi, sia in relazione al miglioramento della
complessiva efficienza del trasporto pubblico per effetto dell’interazione tra servizi di
linea/non di linea.
link al documento
Il sistema di chiamata e prenotazione delle auto blu da noleggio con conducente
(NCC) con la software “app”, già da tempo in uso negli Stati Uniti, è stato esportato
dall’azienda americana Uber nell’Unione europea facendo nascere delle controversie in
ordine alla compatibilità dell’applicazione con la disciplina nazionale dei trasporti
pubblici non di linea e con la normativa antitrust.
Preliminarmente, occorre chiarire come il servizio di autonoleggio con conducente
rientri nella categoria dei servizi pubblici non di linea adibiti a trasporto collettivo o
individuale di persone, con funzione complementare e integrativa rispetto ai servizi
pubblici di linea e che vengono effettuati a richiesta dell’utente, in modo non continuativo
o periodico, su itinerari e secondo orari stabiliti di volta in volta; in particolare, il servizio
di noleggio con conducente si rivolge all’utenza che avanza, presso la sede del vettore,
apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio.
Il dibattito nel nostro ordinamento nasce dall’esperienza che vedrà impegnata la città
di Milano, nell’organizzazione di Expo 2015, la cui amministrazione, da un lato, potrebbe
voler essere d’esempio quale precursore per l’utilizzo della tecnologia; dall’altro, deve fare
i conti con la normativa in vigore che distingue il servizio di autonoleggio con conducente
dal servizio taxi.
I clienti della Uber Italia, che opera attualmente a Milano e Roma, possono
prenotare vetture a noleggio tramite l’installazione dell’app sullo smartphone, conoscendo
anticipatamente i costi relativi al percorso desiderato dopo aver prenotato.
I vantaggi che offre questo servizio sono di tutta evidenza: prenotazione automatica
via internet; minor tempo di attesa per il cliente; addebito del costo di servizio su Paypal o
carta di credito.
L’iniziativa, seppur meritevole di attenzione non è stata tuttavia di gradimento per i
tassisti milanesi e romani, che l’hanno giudicata “abusiva” e chiesto al Comune di Milano
di adottare delle regole chiare al fine di rendere compatibile il nuovo servizio con quello
taxi sostenendo come non si tratti di un vero e proprio servizio «di noleggio con
conducente» rispettoso delle prescrizioni normative ad esso relative.
A tal proposito, la Direzione Centrale Mobilità, Trasporti e Ambiente del Comune di
Milano, in data 29 luglio 2013, ha emanato la determina dirigenziale n. 209 intitolata
«servizio di autonoleggio da rimessa con conducente a mezzo autovettura-modalità, limiti
operativi e prescrizioni vigenti», con cui assunti a parametro di legittimità la legge n. 21
del 15 gennaio 1992 «legge quadro per il trasporto di persona mediante autoservizi
pubblici non di linea» e il Regolamento Comunale per il «servizio di autonoleggio da
rimessa con conducente a mezzo di autovettura», ha fissato le regole e i limiti operativi per
il servizio di autonoleggio da rimessa con conducente nel territorio del Comune di Milano.
In particolare, la determina dichiara incompatibili alcune modalità di svolgimento di
servizio come la ricezione di chiamate e l’accettazione delle richieste di servizio anche in
luoghi diversi dalla rimessa e addirittura dal veicolo in movimento e il calcolo del
22
corrispettivo per il servizio sulla base del percorso effettuato e del tempo impiegato, in
modo analogo a quanto avviene per il servizio taxi.
In quest’ottica, sono state fissate le regole e i limiti operativi per il servizio di
autonoleggio da rimessa con conducente, riducendo, tuttavia, di molto le potenzialità
innovative del servizio: l’autorizzazione per il servizio di noleggio con conducente può
essere rilasciata dal Comune di Milano a persone fisiche che possono gestirlo in forma
singola o associata (art. 7 l. n. 21/1997); l’autorizzazione rilasciata dal Comune di Milano
presuppone, sollevando non pochi dubbi sulla legittimità rispetto alla libertà di circolazione
dei servizi, che il titolare abbia la propria sede e la rimessa, presso la quale devono
stazionare i veicoli in attesa delle richieste da parte dell’utenza, nel territorio del Comune
di Milano; le prenotazioni del servizio di trasporto da parte dell’utenza possono pervenire
esclusivamente presso la sede del vettore o presso la rispettiva rimessa, qualora individuata
come luogo preordinato all’organizzazione delle attività di impresa; il corrispettivo del
trasporto, per una determinata prestazione, deve essere preventivamente e direttamente
concordato tra l’utenza e il vettore, ai sensi dell’art. 13 della l. n. 21/1992 e del Decreto
Ministero Trasporti del 20 aprile 1993; l’inizio del servizio deve avvenire esclusivamente
dalla rimessa e può essere rivolto solo a chi ha effettuato la prenotazione; le prenotazioni
possono essere effettuate telematicamente purché ne rimanga traccia presso gli Organismi
associativi; è vietato, ai titolari di autorizzazione per il servizio di autonoleggio da rimessa
con conducente rilasciata da altre amministrazioni comunali, procurarsi il servizio ovvero
usufruire degli organismi preposti a tale scopo ubicati nel territorio del Comune di Milano.
Contro la decisione comunale, la risposta dell’azienda non si è fatta attendere,
chiedendo l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della determina in oggetto
ricorrendo al competente tribunale amministrativo regionale.
Secondo i ricorrenti, la determina contrasterebbe con i principi comunitari in materia
di concorrenza, libera prestazione dei servizi e di diritto di stabilimento.
Il tribunale Amministrativo Regionale, con ordinanza n. 1131 del 24 ottobre 201124
,
accoglie la domanda cautelare ritenendo sussistente il fumus boni iuris tenuto conto di
come la determinazione dirigenziale possa precludere a nuovi operatori di agire, con nuove
tecnologie, nel settore dei servizi pubblici non di linea.
In particolare, si sostiene che possano profilarsi possibili violazioni del diritto
comunitario anche in prospettiva dell’attesa decisione della Corte di Giustizia dell’Unione
Europea, avente a oggetto il rinvio pregiudiziale disposto dal TAR Lazio – Roma (sez. II,
sentenza non definitiva 4 settembre 2012, n. 7516) in merito alla compatibilità europea
dell’art. 29 comma 1 quater della l. n. 214/2009 intitolata «Proroga di termini previsti da
disposizioni legislative e disposizioni finanziarie urgenti» in relazione all’eventuale
violazione dei principi che tutelano la concorrenza, la libertà di stabilimento e la libertà di
circolazione di beni e servizi.
Inoltre, il collegio, tenendo in considerazione il generale quadro di abrogazione delle
indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche,
cita il principio secondo cui «l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è
permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge» ai sensi dell’art. 3 del
D.L. 138/2011, convertito nella legge 148/2011, derogabile solo in caso di accertata
lesione di interessi pubblici tassativamente individuati (sicurezza, libertà dignità umana,
utilità sociale e salute) che in questo caso non sarebbero da ritenersi incisi.
24
Tar Lombardia, Milano, sez. I, 24 ottobre 2013, n. 1131 in www.giustizia-amministrativa.it
23
In generale, quindi, il T.A.R. Lombardia è apparso propenso non solo a rendere noto
agli operatori del diritto, ed in particolare alla pubblica amministrazione, che il vigente
regolamento del Comune di Milano approvato con deliberazione n. 133 del 24 novembre
1997 andrebbe modificato alla luce delle più recenti norme nazionali, ma anche che le
stesse norme nazionali potrebbero essere dichiarate incompatibili con i principi europei in
materia di libera concorrenza e libera circolazione dei servizi.
Alla luce della vicenda Uber, possono farsi alcune considerazioni.
E’ evidente come le pubbliche amministrazioni comunali, di fronte all’utilizzo
sempre più diffuso e accessibile delle tecnologie di comunicazione nella società, si trovino
a dover bilanciare più interessi contrapposti: da un lato, l’ottimizzazione dell’efficacia del
servizio pubblico non di linea; dall’altro, regolamentare le nuove opportunità nel rispetto
della normativa statale al fine di disciplinare possibili forme di sovrapposizione con il
servizio taxi.
L’ordinanza del T.A.R. Milano appare una decisione ponderata sullo stato attuale
della normativa in continua evoluzione al vaglio della Corte di Giustizia, tanto da chiedere
al Comune di Milano di verificare effettivamente l’impatto di questa nuova modalità di
servizio sul sistema generale del servizio pubblico di linea, nelle more del giudizio di
merito. La decisone appare inoltre sospingere l’amministrazione verso una modifica del
regolamento comunale del servizio di autonoleggio da rimessa con conducente a mezzo di
autovettura, in riferimento al quale la delibera è stata adottata, al fine di rendere lo stesso
maggiormente conforme alle riforme indotte dalla normativa nazionale, in particolare dal
d. l. 138/2011.
Non resta che monitorare questa interessante vicenda, che presto coinvolgerà altri
comuni italiani, come del resto accaduto in altre città europee.
La nuova disciplina dei procedimenti di concessione di derivazione di
acqua pubblica in Piemonte di Elisa Bellomo
Parole chiave: concessioni - procedimento partecipativo - acque pubbliche - uso
dell’energia da fonti rinnovabili - autorizzazioni
Riferimenti normativi: R.D. 1 dicembre 1933, n. 1775 – R.D. 14 agosto 1920, n. 1285 –
L.R. 29 dicembre 2000, n. 61 – Reg. reg. 29 luglio 2003, n. 10/R
Link al documento
Sulla scia del generalizzato perseguimento degli obiettivi comunitari e nazionali in
materia di sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, dal 1 giugno 2014, nella Regione
Piemonte, sono entrati in vigore importanti novità relative al procedimento per il rilascio di
concessione di derivazione di acqua pubblica, anche a uso idroelettrico
Le nuove regole sono contenute nel Decreto del Presidente della (uscente) Giunta
Regionale (D.P.G.R.) del 14 marzo 2014 n. 1/R, pubblicato nel B.U. n. 11 del 17 marzo
2014, che ha modificato alcuni punti del D.P.G.R. del 29 luglio 2003 n. 10/R
«Regolamento di disciplina dei procedimenti di concessione di derivazione di acqua
pubblica» con cui è stata data attuazione alla l.r. 29 dicembre 2000, n. 61 intitolata
24
«Disposizioni per la prima attuazione del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 in
materia di tutela delle acque».
Senza alcuna pretesa di esaustività, queste brevissime osservazioni hanno lo scopo
di focalizzare l’attenzione sulle norme relative al coordinamento tra il procedimento di
concessione di derivazione di acque pubbliche e il procedimento di rilascio
dell’autorizzazione unica, ipotizzando alcune presumibili difficoltà applicative del decreto.
Va ricordato innanzitutto che il regolamento intende conformare l’esercizio delle
funzioni amministrative relative ai procedimenti in oggetto con la normativa europea e
nazionale di promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili.
Anche la concessione di derivazione di acque pubbliche, seppur trovi ancora oggi un
generale fondamento normativo nel T.U. n. 1775 del 1933 «Testo unico delle disposizioni
di legge sulle acque e impianti» e nel Regolamento n. 1285 del 1920 «Approvazione del
regolamento per le derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche», viene riconsiderata
nelle politiche del legislatore europeo che chiedono si un coordinamento, tra le diverse
autorità competenti ai diversi livelli di governo, nella considerazione delle istanze
autorizzatorie, attraverso la predisposizione di apposite linee guida.
In quest’ottica, seppur con considerevole ritardo, era stato emanato, al fine di dare
attuazione alla «Direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27
settembre 2001, sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche
rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità» (abrogata dalla direttiva n. 2009/28/CE), il
decreto legislativo 29 dicembre 2003 n. 387 che contiene la previsione di
un’autorizzazione unica per la costruzione, l’esercizio e la modifica di impianti di
produzione di energia alimentati da fonti rinnovabili, delle opere connesse e delle
infrastrutture indispensabili, costituendo variante allo strumento urbanistico.
In attuazione dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2008 erano state emanate le “linee
guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili” con D.M. del 10
settembre 2010.
In esse sono disciplinate le modalità amministrative e i criteri tecnici da seguire nelle
procedure per la costruzione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica
alimentati da fonti rinnovabili, per gli interventi di modifica, potenziamento, rifacimento
totale o parziale e riattivazione degli stessi, nonché per le opere connesse e le infrastrutture
indispensabili alla loro costruzione e/o esercizio.
In particolare al paragrafo 18.3, si prevedono forme di semplificazione e
coordinamento tra il procedimento di concessione di derivazione di acque pubbliche e
quello per il rilascio dell’autorizzazione unica, in questi termini: «Al fine di ridurre i tempi
evitando duplicazioni di atti ovvero di valutazioni in materia ambientale e paesaggistica, le
Regioni possono individuare le più opportune forme di semplificazione e coordinamento
tra i procedimenti per il rilascio di concessioni di derivazione d'acqua pubblica di cui al r.
d. 11 dicembre 1933, n. 1775 ovvero di concessioni per lo sfruttamento delle risorse
geotermiche di cui al decreto legislativo 22 del 2010 nonché per i procedimenti i cui esiti
confluiscono nel procedimento unico di cui all'articolo 12 del d. lgs n. 387 del 2003».
La norma statale trascura le concrete modalità di coordinamento tra i suddetti
procedimenti: la concessione di derivazione di acque pubbliche continua così a
rappresentare un procedimento amministrativo autonomo e separato rispetto a quello
dell’autorizzazione unica di cui al d.lgs. n. 387 del 2003.
Di conseguenza, per le due categorie di procedimenti di concessioni di acque
pubbliche e di utilizzo dei fluidi geotermici è necessario promuovere specifici
procedimenti, distinti da quelli che decidono sulla domanda di autorizzazione unica a
carattere generale.
25
Pertanto, l’autorizzazione unica rilasciata in sede di conferenza di servizi,
concernente gli impianti costituisce titolo a costruire e a gestire l'impianto e, ove
necessario, diventa variante allo strumento urbanistico, mentre la separata concessione
attiene all’uso del bene demaniale.
In mancanza di esplicito riferimento normativo a livello nazionale, è evidente come
il compito di disciplinare la simultaneità o sequenzialità dello svolgimento dei
procedimenti è demandato agli enti locali, che, in primo luogo, devono risolvere le
problematiche dei tempi di conclusione dei procedimenti.
Infatti, mentre il procedimento di autorizzazione unica seguirà la disciplina di cui alla
legge generale sul procedimento amministrativo l. n. 241 del 1990, il procedimento di
concessione di acque pubbliche per uso idroelettrico continuerà ad essere disciplinato dalla
normativa nazionale e regionale.
Tralasciando l’analisi delle modifiche ulteriore delle norme del regolamento n. 10/R
in tema di partecipazione procedimentale ed istruttoria, che meriterebbero un commento a
parte, in questa sede si intende focalizzare l’attenzione sulla nuova sezione, I bis, intitolata
«Disposizioni in materia di uso energetico delle acque» e composta dall’artt. 15 bis e 15
ter.
Proprio l’art. 15 bis intitolato «domande di utilizzo dell’acqua a uso energetico
soggette ad autorizzazione unica» dispone la forma di coordinamento tra i procedimento di
concessione di derivazione di acqua pubblica con quello di autorizzazione unica.
In particolare, ai sensi del primo comma, la domanda e la documentazione necessarie
per l’avvio del procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica ai sensi del d.lgs. n.
387/2003 devono essere presentate, nel caso in cui non vi siano domande concorrenti in un
termine non superiore ai 90 giorni (con esclusione degli elaborati già allegati alla domanda
di concessione per l’utilizzo dell’acqua), nel caso di domande concorrenti in un termine
non superiore ai 45 giorni, decorso il quale le domande saranno valutate e inserite in una
graduatoria in base ai criteri di cui all’art. 18 del regolamento 10/R così come modificato
dall’art. 12 del regolamento n.1/R.
Nei 15 giorni successivi alla presentazione della domanda, l’autorità competente
verifica la completezza formale della documentazione e trasmette la domanda a tutti i
soggetti interessati o comunica l’improcedibilità dell’istanza per carenza della
documentazione; decorsi 15 giorni senza che l’amministrazione abbia comunicato l’
improcedibilità, il procedimento si intende avviato.
Entro 30 giorni dalla comunicazione di avvio del procedimento, l’autorità
competente convoca la conferenza di servizi al fine di esaminare contestualmente gli
interessi pubblici e privati coinvolti, nonché per acquisire autorizzazioni, nulla osta, pareri
e altri atti di assenso comunque denominati necessari per la costruzione e per l’esercizio
dell’impianto, delle opere connesse e infrastrutturali indispensabili.
Il provvedimento finale costituisce anche autorizzazione unica alla costruzione ed
esercizio dell’impianto ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003.
Per quanto più precisamente attiene al procedimento finale, l’art. 22 del precedente
regolamento 10/R è stato ampiamente modificato dall’art. 16 del regolamento 1/R ,
inserendo dopo il comma 1, un comma 1bis, con cui si prescrive che il provvedimento
finale deve illustrare le caratteristiche delle domande presentate in rapporto agli interessi
pubblici coinvolti ed alla razionale utilizzazione del corpo idrico interessato dal prelievo.
Occorre tenere conto della necessità di garantire il buon regime idraulico e la salvaguardia
qualitativa e quantitativa della risorsa, dando atto delle risultanze dell’istruttoria e
fornendo precise indicazioni.
26
L’art. 15 ter invece prevede una forma di dialogo procedimentale tra il consorzio
titolare del diritto di prelievo e l’istante di concessione ad uso energetico.
Infatti, qualora la domanda riguardi l’utilizzo di acque derivate per uso irriguo,
esclusivo o associato ad altri usi, l’autorità concedente ne dà comunicazione al soggetto
istante.
Nei successivi 15 giorni, sarà onere del consorzio manifestare la volontà di utilizzare
le acque fluenti nei canali e nei cavi consortili per realizzare una derivazione ad uso
energetico sfruttando il medesimo corso d’acqua.
A questo punto, la norma è favorevole al consorzio, che, entro 90 giorni, salvo
proroga per un massimo di altri novanta, può presentare la domanda; in assenza della
comunicazione o della documentazione, l’autorità concedente riavvia il procedimento nei
confronti dell’istante.
Si prevede altresì che l’istante possa accordarsi con il consorzio sulle modalità di
possibile couso della derivazione; nel caso di mancanza di accordo tra le parti, l’autorità
procedente invita ciascuna parte a produrre una proposta di convenzione di couso nel
termine di 30 giorni e stabilisce d’ufficio le modalità coesistenza della nuova derivazione
con quella preesistente.
Infine, l’istante può trovare maggiori difficoltà di accoglimento della sua domanda
nel caso in cui essa riguardi infrastrutture di competenza di un consorzio di bonifica e
irrigazione e le opere in progetto siano incompatibili con le esigenze di mantenimento della
funzionalità dell’infrastruttura; in tal caso, infatti, laddove l’incompatibilità sia
insuperabile mediante opportune modifiche al progetto presentato, l’istanza è rigettata.
La documentazione e la domanda necessaria per il rilascio dell’autorizzazione unica
ai sensi del d.lgs. n. 387/2003 possono essere presentati solo successivamente
all’espletamento della fase relativa alla concorrenza tra le domande di concessione di
derivazione di acque pubbliche, dovendo far pervenire all’autorità competente entro 45
giorni tutta la documentazione richiesta.
Merita attenzione il comma 4 dell’art. 15 bis nella parte in cui prevede per l’autorità
competenza un termine di 15 giorni dalla presentazione della domanda per verificare la
completezza formale della documentazione. Trascorso detto termine, l’autorità competente
o comunica l’avvio del procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica di cui all’art.
12 del d. lgs. n. 387/2003, provvedendo a trasmettere la domanda a tutti i soggetti
interessati, o l’improcedibilità dell’istanza per carenza della documentazione prescritta.
Trascorso detto termine senza che l’amministrazione abbia comunicato l’improcedibilità,
il procedimento di intende avviato.
A prima lettura, appare difficile, per un’autorità procedente (la quale deve
contemporaneamente analizzare la documentazione utile tanto per la concessione di
derivazione di acque pubbliche e quanto per il rilascio di autorizzazione unica) riuscire a
fornire un diniego motivato in soli quindici giorni, senza considerare che appare
verosimilmente penalizzato lo stesso istante nel caso in cui non fornisca, in modo
completo, la documentazione richiesta, posto che non sembrerebbe permesso, ai sensi del
comma 4 dell’art. 15 bis, implementare successivamente la documentazione prescritta al
fine di scongiurare l’improcedibilità.
Se in questa prima fase, quella dell’iniziativa del procedimento, il legislatore
regionale sembra aver optato per una maggiore semplificazione ed accelerazione
dell’attività amministrativa, nella fase istruttoria, invece, con la previsione di una
conferenza di servizi, sembra aver optato per una più ponderata valutazione e
comparazione contestuale di tutti gli interessi pubblici, primari e secondari, coinvolti nella
realizzazione dell’attività richiesta.
27
L’attenzione al dialogo tra le parti si riflette anche nel contenuto che il
provvedimento di concessione di derivazione di acque pubbliche deve avere al fine di
rappresentare la sede in cui illustrare le caratteristiche delle domande presentate in rapporto
agli interessi pubblici coinvolti ed alla razionale utilizzazione del corpo idrico interessato
dal prelievo. Resta da domandare, tuttavia, se anche nel provvedimento di diniego
dell’istanza debbano essere dati altrettanti motivati riscontri al destinatario circa la causa
del rigetto.
In conclusione, dopo circa quattro mesi dall’entrata in vigore del regolamento n.
1/R, non è ancora possibile dare riscontro in merito ad applicazione sul campo della
normativa, tuttavia, a dispetto di alcune possibili contraddizioni, si può positivamente
riscontrare come anche la Regione Piemonte, con questo regolamento, porga sempre
maggiore attenzione alle politiche UE di agevolazione all’installazione di impianti per
utilizzo di energie rinnovabili e all’uso energetico delle risorse naturali.
La legge regionale non può prorogare sine termine la durata dei contratti
di affidamento del trasporto pubblico locale. Annotazione a Corte cost.,
13 gennaio 2014, n. 2 di Nicola Dessì
Parole chiave: contratti pubblici; trasporto pubblico locale.
Riferimenti: artt. 117, commi 1 e 2, lett. e), Cost.; art. 2 l. r. Toscana 24 novembre 2012,
n. 64 (Modifiche alla l.r. n. 69/2008, alla l.r. n. 65/2010, alla l.r. n. 66/2011, alla l.r. n.
68/2011 e alla l.r. n. 21/2012); art. 5 Reg. CE 23 ottobre 2007, n. 1370 (Regolamento del
Parlamento europeo e del Consiglio relativo ai servizi pubblici di trasporto dei passeggeri
su strada e per ferrovia e che abroga i regolamenti del Consiglio – CEE – n. 1191/69 e –
CEE – n. 1107/70), recepito dall’art. 61 della l. 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo
sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia).
Massima: La legge regionale non può disporre la proroga sine termine di un contratto di
affidamento di un servizio pubblico, in quanto ciò costituisce una barriera all’ingresso per
gli operatori nel settore economico relativo, con conseguente violazione dei principi della
tutela della concorrenza.
Link al documento
1. La sentenza decide una questione di illegittimità costituzionale, promossa in via
principale dal Presidente del Consiglio dei ministri, contro una disposizione della legge
regionale della Toscana n. 2/2014, dichiarandola fondata.
La norma censurata aveva modificato, a sua volta, l'art. 82 della legge regionale n.
65/2010 (finanziaria per l'anno 2012), inserendovi un comma 1 bis, contenente una proroga
dei contratti di affidamento in concessione relativi al trasporto pubblico locale su gomma,
senza però prevedere un termine finale.
La disposizione impugnata, a giudizio della Corte, non riguarda il trasporto pubblico
locale, materia di competenza regionale residuale: si inserisce nella materia della tutela
28
della concorrenza, dal momento che incide sulle modalità di scelta del concessionario di un
pubblico servizio. Si tratta dunque di una materia di competenza statale, ai sensi dell’art.
117, comma 2, lett. e) Cost..
Ciò premesso, la Corte ribadisce che la proroga illimitata di una pubblica
concessione costituisce un limite alla libertà di concorrenza, in quanto rappresenta una
barriera all’ingresso per i soggetti che vogliano ottenere la stessa concessione e operare in
quel settore di mercato. Di conseguenza, questa scelta del legislatore toscano contrasta con
la competenza legislativa statale, che serve a garantire la libertà di concorrenza.
Scrive la Corte che “la norma impugnata − nello stabilire la possibilità, per gli enti
locali, di reiterare la proroga dei contratti dei gestori dei servizi di trasporto pubblico
locale, senza neppure che vi sia l’indicazione di un termine finale di cessazione delle
medesime − ha posto in essere una disciplina che opera una distorsione nel concetto di
concorrenza ponendosi in contrasto con i principi generali, stabiliti dalla legislazione
statale”.
Precisamente, la disposizione censurata è in contrasto con l’art. 5, comma 5, del
regolamento CE 1370/2007, recepita con la l. n. 99/2009, che disciplina le modalità di
affidamento del servizio di trasporto pubblico locale. Nel regolamento in questione, si
considera l’ipotesi in cui l’ente locale aggiudicatore, alla scadenza del contratto di servizio
e nelle more della nuova procedura di affidamento, si trova a fronteggiare il pericolo
dell’interruzione del servizio pubblico. In questi casi, la norma europea consente
l’adozione di provvedimenti di emergenza, fra cui la proroga del contratto in scadenza e
dell’affidamento al precedente gestore, ma solo a condizione che la proroga non superi i
due anni. Da un lato, dunque, il legislatore italiano - statale o regionale che sia - non può
prevedere una proroga a tempo indeterminato; dall’altro, essendo la tutela della
concorrenza una materia di competenza statale, solo il legislatore statale può stabilire quali
misure emergenziali siano da ritenersi necessarie.
2. La Corte costituzionale lascia aperta la questione se la proroga possa essere in
contrasto anche con la vigente normativa dell’Unione europea in materia di trasporto
stradale di passeggeri, violando in tal modo l’art. 117 comma 1 della Costituzione.
ND
La legge statale può obbligare i comuni minori all’esercizio associato
delle funzioni comunali. Annotazione a Corte cost., 11 febbraio 2014, n.
22 e 13 marzo 2014, n. 44 di Nicola Dessì
Parole chiave: unioni di comuni.
Riferimenti normativi: artt. 114; 117, commi 2, 3, 4; 118; 120, comma 2; 133, comma 2,
Cost. Artt. 16 decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), conv. con modif., dall’art. 1, comma 1, della
l. 14 settembre 2011, n. 148. Art. 19, commi 1 lett. a), b), c), d), e), 2, 3, 4 e 6 del d.l. 6
luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con
invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle
29
imprese del settore bancario), conv. con modif., dall’art. 1, comma 1, della l. 7 agosto
2012, n. 135.
Massima 1: Il legislatore statale, nell’esercizio della potestà riservatagli dall’art. 117
Cost., comma 2, lett. p), ha il compito di individuare le funzioni fondamentali di Comuni,
Province e Città metropolitane, anche quando riguardano materie che non rientrano nella
potestà legislativa o regolamentare dello Stato.
Massima 2: L’art. 117 comma 2, lett. p) Cost. impedisce allo Stato di legiferare con
riguardo alle funzioni di pertinenza delle unioni comunali, nonché ai loro organi di
governo. Lo Stato, però, può imporre l’esercizio associato delle funzioni spettanti ai
Comuni, perseguendo l’obiettivo del contenimento della spesa pubblica. Infatti, è riservata
alla legislazione dello Stato la determinazione dei principi fondamentali in fatto di
coordinamento della finanza pubblica.
Massima 3: Il legislatore statale, nel momento in cui impone ai Comuni con popolazione
inferiore a 1.000 abitanti l’esercizio delle funzioni in forma associata, non sottrae a
ciascuno di loro la rispettiva personalità giuridica. L’unione dei comuni, dunque, non si
configura come una fusione; il legislatore statale non ha provveduto ad una modifica delle
circoscrizioni comunali, modifica che, secondo l’art. 133 Cost., può avvenire solo con
legge della Regione.
Massima 4: La legge statale può disporre sulle modalità procedimentali necessarie al
funzionamento delle unioni comunali, essendo queste ultime funzionali alle esigenze di
coordinamento della finanza pubblica; non può, però, disciplinare elementi che esulano da
tali esigenze, e che afferiscono alla materia dell’ordinamento delle unioni di Comuni,
ambito di esclusiva potestà regionale. Di conseguenza, la legge statale non può stabilire
che i consigli comunali interessati approvino a maggioranza dei componenti la
deliberazione con cui si propone alla Regione l’istituzione dell’unione comunale; idem
dicasi per l’approvazione dello statuto dell’unione. Inoltre, la legge statale non può
imporre che, dei due consiglieri comunali eletti da ciascun comune nel consiglio dell’ente
associativo, uno appartenga all’opposizione.
Massima 5: La legge statale può conferire ai prefetti il potere di accertare che i comuni
interessati osservino le disposizioni di legge in tema di unioni comunali, in piena armonia
con le regole generali sul potere sostitutivo dello Stato a tutela dell’unità giuridica ed
economica della Repubblica.
Link al documento (Corte cost., 11 febbraio 2014, n. 22)
Link al documento (Corte cost. 13 marzo 2014, n. 44)
La sentenza n. 22/2012 rigetta le questioni di legittimità costituzionale promosse da
alcune Regioni contro varie disposizioni del d.l. 95/2012 (c.d. spending review), convertito
dalla l. n. 135/2012. A sua volta, la Sentenza n. 44/2012 decide su alcune questioni di
legittimità costituzionale, promosse da alcune Regioni, contro alcune disposizioni della
spending review, ma anche contro alcune disposizioni del d.l. 138/2011, convertito dalla l.
148/2011: in questo caso, la Corte ha ammesso solo alcune delle questioni, tra le quali non
tutte sono state ritenute fondate.
30
1. L’oggetto delle censure regionali è innanzitutto l’art. 19 della spending review,
ai commi 1, 3 e 4. Il comma 1 sostituisce i commi 27, 28, 30 e 31 all’art. 14 del d.l.
78/2010, convertito dalla l. 122/2010, e aggiunge allo stesso articolo il comma 28-bis. Il
parametro costituzionale invocato è l'art. 117 Cost., comma 3 e 4.
1b. L’art. 19, comma 1, lett. a) della spending review ridefinisce le funzioni
fondamentali dei Comuni. La Corte puntualizza che, sebbene alcune delle funzioni
individuate dal legislatore dello Stato corrispondano a materie di potestà legislativa
regionale o concorrente, la disposizione impugnata non è in contrasto con l’art. 117 Cost. e
con il riparto di competenze ivi dettato.
Vero che le leggi e i regolamenti dello Stato non possono disciplinare l’esercizio di
funzioni amministrative, relativamente ad ambiti che non sono di competenza statale.
Nondimeno, l’art. 117 Cost., comma 2, lett. p), riconosce espressamente la potestà
legislativa statale con riguardo alle “funzioni fondamentali” di Comuni, Province e Città
metropolitane: ne deriva che lo Stato non può non avere il potere di legiferare allo scopo di
individuare tali “funzioni fondamentali”.
Come scrive la Corte, “allo Stato spetta l’individuazione delle funzioni fondamentali
dei Comuni tra quelle che vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale (...)
La disciplina di dette funzioni è, invece, nella potestà di chi - Stato o Regione - è
intestatario della materia cui la funzione stessa si riferisce. In definitiva, la legge statale è
soltanto attributiva di funzioni fondamentali, dalla stessa individuate, mentre
l’organizzazione della funzione rimane attratta alla rispettiva competenza materiale
dell’ente che ne può disporre in via regolativa”.
1comma Lo stesso comma 1 dispone l’esercizio in forma associata delle funzioni
fondamentali per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, o 3.000 se si tratta di
Comuni montani (lett. b). Inoltre, vengono determinate le dimensioni territoriali ottimali
per l’esercizio associato delle funzioni (lett. d), quantificando in 10.000 abitanti il limite
demografico minimo per ciascuna unione comunale, salvo che la Regione non individui un
limite diverso (lett. e).
Il comma 3, a sua volta, disciplina dettagliatamente l’organizzazione interna delle
unioni comunali, modificando l’art. 32 del Testo unico degli enti locali.
La Corte, ribadendo il principio già affermato in tema di comunità montane,
ribadisce che la competenza statale in tema di “funzioni fondamentali” di Comuni,
Province e Città metropolitane è da ritenersi tassativamente limitata a questi enti,
risultando così “inconferente” con riguardo alle forme associative comunali, ivi comprese
le unioni di comuni, oggetto delle disposizioni censurate.
Ciononostante, tali disposizioni non violano il riparto di competenze ex art. 117
Cost., nel momento in cui se ne individua il titolo di legittimazione non nel comma 2, lett.
p), dell’art. 117, ma nel comma 3 del medesimo articolo, il quale ricomprende, fra le
materie di competenza concorrente, il “coordinamento della finanza pubblica”.
La disposizione impugnata, a parere della Corte, tende al contenimento della spesa
pubblica; a questo proposito, “il legislatore statale può, con una disciplina di principio,
legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento
finanziario connesse a obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari,
vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in
limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali”. Trattandosi di materia di
competenza concorrente, quindi, la legge statale può - a buon diritto - sancire il principio
fondamentale della razionalizzazione delle funzioni amministrative locali, mediante lo
31
strumento dell’esercizio associato; tutto ciò, a condizione che agli enti interessati sia
lasciata “ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa”.
2. L’art. 16 del d.l. n. 138/2011 impone ai comuni con popolazione inferiore a 1.000
abitanti l’esercizio in forma associata di tutte le funzioni e servizi loro attribuiti, non
limitandosi alle funzioni fondamentali. Si tratta di una rilevante compressione
dell’autonomia dei comuni coinvolti.
Ciononostante, ciascuno di essi mantiene la propria personalità giuridica, distinta
rispetto agli altri comuni che fanno parte dell’associazione. Non si tratta, dunque, di una
fusione. Per questo motivo, la disposizione impugnata non è incompatibile con l’art. 133,
comma 2, Cost., laddove si affida alla legge della Regione - e non dello Stato - il compito
di modificare le circoscrizioni comunali.
Inoltre, se pure l’art. 16 traccia una disciplina differenziata fra i comuni della
Repubblica - a seconda che la loro popolazione sia inferiore o superiore a 1.000 abitanti -
la Corte ricorda che l’art. 114 Cost. “non pone alcun obbligo per il legislatore statale di
sottoporre tutti i comuni alla medesima disciplina”: anche sotto questo profilo, dunque, non
si pone alcuna questione di legittimità costituzionale.
3. La Corte, a partire dall’art. 117, comma 2, lett. p), ribadisce che lo Stato non può
legiferare in ordine alle forme associative dei comuni, ambito cui l’art. 117 Cost. non fa
alcun riferimento. Secondo l’art. 117, comma 3, questa materia deve ritenersi di esclusiva
competenza delle Regioni.
Di conseguenza, è dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 16, comma 5, del d.l.
138/2011, come sostituito dall’art. 19, comma 2, della spending review; il cui contenuto è
parzialmente riprodotto nell’art. 19, comma 6, della medesima disposizione, che, a sua
volta, viene dichiarato illegittimo dalla Corte. Entrambe le disposizioni sono illegittime
nella parte in cui prevedono che i consigli comunali propongano alla Regione l’istituzione
dell’unione comunale, con deliberazione adottata “a maggioranza dei componenti”.
A giudizio della Corte, dal momento che le esigenze della finanza pubblica
richiedono un riordino delle funzioni comunali, tramite il ricorso alla forma associativa, il
legislatore statale - competente a dettare i principi fondamentali sul coordinamento della
finanza pubblica - può ben disporre in ordine ad alcune “modalità procedimentali
necessarie per il funzionamento delle unioni”. Questa disposizione, seppure specifica,
viene considerata dalla Corte alla stregua di un principio fondamentale, ribadendo che “la
specificità delle prescrizioni, di per sé, non può escludere il carattere di principio di una
norma”.
Al contempo, però, la Corte non ritiene che fra queste “modalità necessarie” vada
ricompreso il quorum deliberativo per l’istituzione delle unioni comunali. Questo aspetto,
infatti, esula dal coordinamento della finanza pubblica, e che va inquadrato nella materia
relativa all’ordinamento delle unioni dei comuni.
Analogo il giudizio della Corte sull’art. 16, comma 10, del d.l. 138/2011, novellato
dall’art. 19, comma 2, della spending review, laddove si prevede che “la maggioranza dei
componenti” il consiglio comunale approvi lo statuto dell’unione dei comuni.
Idem per l’art. 16, comma 7, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, della spending
review; questa disposizione, nello stabilire che il consiglio dell’unione comunale è formato
da due consiglieri comunali per ciascun Comune, richiede che almeno uno dei due
appartenga alle opposizioni.
4. L’art. 16, comma 28, del d.l. 138/2011 assegna ai prefetti il potere di accertare
32
che gli enti locali interessati osservino le disposizioni della legge statale in tema di unioni
comunali. Questa disposizione è coerente con l’art. 120 Cost., laddove, al comma 2,
ammette e disciplina l’esercizio di un potere sostitutivo statale nei confronti degli organi
dei Comuni, a tutela dell’ “unità giuridica e dell’unità economica” della Repubblica.
Peraltro, il “potere sostitutivo” consisterebbe, in questo caso, in un’attività di mero
accertamento.
ND
La Corte costituzionale sui rapporti tra legge regionale, legge penale e
strumenti urbanistici comunali. Annotazione a Corte cost., 13 marzo
2014, n. 46/2014 di Matteo Porricolo e Nicola Dessì
25
Parole chiave: legge penale; edilizia e limiti all’edificabilità.
Riferimenti: artt. 3, 25, 117, commi 1, 3, 6, 118 Cost.; art. 2 l.r. Sardegna, 23 ottobre
2009, n. 4 (Disposizioni straordinarie per il sostegno dell’economia mediante il rilancio del
settore edilizio e per la promozione di interventi e programmi di valenza strategica per lo
sviluppo); art. 3, comma 1, l. cost. 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la
Sardegna); dir. 27 giugno 2001, n. 2001/42/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi
sull’ambiente); art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A).
Massima 1: La legge regionale può autorizzare i privati a compiere interventi edilizi in
deroga agli strumenti di pianificazione urbanistica, nonostante le funzioni amministrative
in tema di pianificazione urbanistica siano attribuite - in linea generale - ai Comuni. Non è
violata la competenza statale esclusiva in materia di funzioni fondamentali dei Comuni, né
il principio di sussidiarietà orizzontale che attribuisce ai Comuni le funzioni
amministrative non attribuite agli altri enti: infatti, gli interventi edilizi in questione sono
consentiti dalla legge regionale solo in via straordinaria e temporanea, limitatamente a
edifici già esistenti.
Massima 2: La legge regionale, pur non potendo costituire fonte di norme penali, può
concorrere a precisare i presupposti di applicazione di norme penali statali.
Link al documento
1. La sentenza giudica infondata una questione di legittimità costituzionale, promossa
in via incidentale dal Tribunale di Oristano, contro una disposizione della legge regionale
della Sardegna n. 4/2009, in materia edilizia. La disposizione impugnata consente
interventi di adeguamento e di incremento volumetrico, fino alla misura del 20 per cento,
per i fabbricati a uso residenziale e per quelli destinati ad attività produttive; ciò è possibile
25
Nicola Dessì è autore dei paragrafi nn. da 1 a 4; Matteo Porricolo del paragrafo n. 5.
33
anche superando gli indici massimi di edificabilità previsti dagli strumenti urbanistici
vigenti, e derogando alle normative regionali in materia.
La sentenza rammenta peraltro che “la legge in questione costituisce attuazione dell'intesa
sul cosiddetto 'piano casa', raggiunta tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di
Conferenza unificata il 31 marzo 2009 e formalmente sancita con deliberazione della
medesima Conferenza del 1° aprile 2009: intesa promossa dal Governo, con la dichiarata
finalità di rilancio dell'economia, tramite la ripresa dell'attività edilizia, quale misura per
far fronte alla situazione di crisi”. Norme analoghe sarebbero contenute anche in altre
leggi regionali.
2. La disposizione impugnata crea un regime derogatorio agli strumenti di
pianificazione urbanistica, a favore del privato che voglia provvedere ad interventi
ampliativi in campo edilizio. La Corte decide che questo regime non si pone in contrasto
con gli artt. 3, 25, 117 e 118 Cost.; né tanto meno con l'art. 3 dello Statuto sardo, che
conferisce alle Regione funzioni in materia di “edilizia e urbanistica”.
È appena il caso di notare, in via preliminare, che la Regione Sardegna può rivendicare
anche il “governo del territorio”, ambito di competenza legislativa concorrente ex art. 117,
comma 3, Cost., in virtù della “clausola di maggior favore” - art. 10 della l. cost. 3/2001 -
disposta a favore delle Regioni a statuto speciale.
Ad avviso del giudice a quo, la norma impugnata si sarebbe posta in contrasto con il
“sistema della pianificazione” - qualificabile come “normativa di principio
dell'ordinamento giuridico della Repubblica” e come espressione “degli interessi nazionali
rappresentati dal sistema di composizione degli interessi del territorio” - che assegna in
modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione
generale degli interessi coinvolti nell'attività urbanistica ed edilizia. Ammesso e non
concesso - e la Corte non lo concede - che l'ordinamento giuridico della Repubblica
richieda l'esistenza di un “sistema della pianificazione”, esso non sarebbe intaccato, nel suo
insieme, dalla disposizione censurata. Essa si limita a stabilire una deroga alle normative
regionali e agli strumenti urbanistici vigenti. “Anche riconoscendo che il 'sistema della
pianificazione' - evocato, peraltro, dal rimettente in modo del tutto generico, senza alcun
riferimento alle relative fonti normative - assurga a 'principio dell'ordinamento giuridico
della Repubblica' (…) è dirimente il rilievo che il principio in questione non potrebbe
ritenersi così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale (…) di prevedere
interventi in deroga quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti,
come quelli di cui si discute”.
Nel caso di specie, la possibilità di intervenire al di fuori dei limiti previsti dagli strumenti
urbanistici è limitata dalla legge regionale a un ristretto numero di ipotesi: l'intervento è
consentito “in via straordinaria e temporanea e con modalità specifiche, diverse a seconda
delle tipologie di fabbricati”; deve trattarsi di edifici già esistenti, per giunta con esclusione
degli edifici abusivi; infine, è necessario che gli interventi in questione “si inseriscano in
modo organico e coerente con i caratteri architettonici del fabbricato esistente” e
costituiscano “strumento per la riqualificazione dello stesso in relazione alla tipologia
edilizia interessata”.
3. Partendo dal presupposto che il ruolo dell'ente pubblico nell'edilizia non
risulterebbe svuotato, e che la disposizione impugnata si limiterebbe a prevedere una
deroga agli strumenti di pianificazione in presenza di circostanze eccezionali, ne discende
anche - per la Corte - che non è violato l'art. 118 Cost., che in via generale attribuisce le
funzioni amministrative ai Comuni. Fra queste c'è anche la funzione della pianificazione
34
urbanistica: l'art. 42, comma 2, lett. b) del testo unico degli enti locali attribuisce
espressamente ai consigli comunali la competenza relativa ai piani urbanistici.
Secondo la Corte, “non si può comunque addebitare alla norma denunciata, così come
ritiene il giudice a quo, di aver 'svuotato' le funzioni comunali in tema di pianificazione
urbanistica, posto che essa si limita a consentire ampliamenti volumetrici di edifici
esistenti a una certa data in deroga agli indici massimi di fabbricabilità, collegati a
specifici presupposti e circoscritti in limiti ben determinati”.
Di conseguenza, non è violato neanche l'art. 117, comma 2, lett. p) Cost., che assegna al
legislatore statale la competenza a legiferare sulle “funzioni fondamentali dei Comuni”; né
è violato l'art. 117, comma 6, laddove si riconosce in capo ai Comuni il potere
regolamentare in ordine all'organizzazione e allo svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Queste considerazioni valgono a dichiarare l'infondatezza della questione, “a prescindere
da ogni altro rilievo”, a cominciare dalle disposizioni dello Statuto sardo, che all'art. 3 lett.
b) riconosce alla Regione Sardegna la potestà legislativa primaria in tema di “ordinamento
degli enti locali”.
4. La disposizione impugnata non viola nemmeno l'art. 117, comma 1, Cost., secondo
il quale il legislatore - statale o regionale che sia - deve esercitare la sua potestà nel rispetto
dei vincoli dell'ordinamento comunitario. La direttiva 2001/42/CE richiede che gli
interventi edilizi avvengano in seguito alla c.d. “valutazione ambientale strategica”. La
legge regionale n. 4/2009 non consente che le deroghe alla pianificazione urbanistica
comunale avvenga in assenza di essa: la legge “regola, infatti, soltanto i profili urbanistici
degli interventi di ampliamento, senza recare alcuna clausola di esclusione
dell'applicabilità della normativa sulla VAS”.
5. La Corte, infine, ha ritenuto infondata la censura di violazione degli artt. 25 e 117
Cost.: questo, nonostante il giudice a quo abbia rilevato che la disposizione censurata va a
restringere la sfera applicativa della norma incriminatrice di cui all’art. 44, comma 1,
lettera a), del d.P.R. 380/2001; ciò comporta una depenalizzazione degli interventi edilizi
non conformi alla pianificazione, i quali dovrebbero, invece, essere soggetti a pena.
La Corte ha ricordato che la legislazione regionale – pur non potendo costituire fonte
diretta e autonoma di norme penali, né nel senso di introdurre nuove incriminazioni, né in
quello di rendere lecita un’attività penalmente sanzionata dall’ordinamento nazionale (ex
plurimis, sentenze n. 185 del 2004, n. 504, n. 213 e n. 14 del 1991) – può, tuttavia,
“concorrere a precisare, secundum legem, i presupposti di applicazione di norme penali
statali”, assumendo, in pratica, “funzioni analoghe a quelle che sono in grado di svolgere
fonti secondarie statali”: ciò, avviene, per esempio, quando la legge statale “subordini
effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali” (le
cosiddette norme penali in bianco: sentenze n. 63 del 2012 e n. 487 del 1989).
E’ la stessa Corte a mostrare come ne sia un esempio lampante lo stesso Testo unico delle
leggi in materia edilizia, il quale rinvia ad atti amministrativi per l’individuazione dei
precetti da rispettare al fine di non incorrere nella sanzione penale.
Possiamo concludere che spetta sì al Parlamento - quale organo eletto a suffragio
universale, rappresentante l’intera comunità nazionale - il potere esclusivo di incidere sui
diritti fondamentali degli individui, ma ciò non toglie (né diversamente si potrebbe
pensare) che alcune norme penali circoscrivano la loro applicabilità al contenuto di atti
amministrativi o, come in questo caso, di leggi regionali.
35
Come un’attenta dottrina ha segnalato26
, nonostante per legge sia espressamente esclusa la
giustizia dalle materie di competenza della Conferenza Stato-Regioni, residuano -come la
sentenza qui in analisi ha mostrato- “zone complementari” al diritto penale (per es.
urbanistica, ambiente, sicurezza sul lavoro), spesso di competenza legislativa concorrente,
in cui è possibile, nonché utile, che lo Stato e le Regioni potenzino i loro sistemi di intesa
al fine di prevenire il conflitto tra gli Enti costitutivi della Repubblica.
La legge statale può conferire alle province le funzioni relative al
trasporto e allo smaltimento dei rifiuti. Annotazione a Corte cost., 16
aprile 2014, n. 100 di Nicola Dessì
Parole chiave: gestione integrata dei rifiuti; accertamento e riscossione della TIA e della
TARSU
Riferimenti normativi: Artt. 11; 114, comma 2; 117, comma 1, 2 lett. s), 3; 118, comma 1
e 2, Cost.; principio di leale collaborazione; art. 11, commi 1, 2 e 3, decreto-legge 30
dicembre 2009, n. 195, conv. con modif., dall’art. 1, comma 1 della l. 26 febbraio 2010, n.
26 (Disposizioni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti
nella regione Campania, per l’avvio della fase post emergenziale nel territorio della
Regione Abruzzo e altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei
Ministri ed alla protezione civile).
Massima 1: In via transitoria e al verificarsi di una situazione di emergenza, la legge dello
Stato può attribuire alle province le funzioni relative alle attività di raccolta, trasporto e
smaltimento dei rifiuti, nonché all’accertamento e alla riscossione della TIA e della
TARSU.
Massima 2: In via transitoria e al verificarsi di una situazione di emergenza, la legge dello
Stato può attribuire ai presidenti delle province le funzioni spettanti agli organi provinciali
in tema di programmazione della gestione integrata dei rifiuti, intervenendo così nei
rapporti e nell’organizzazione interna all’ente.
Link al documento
1. La sentenza rigetta alcune questioni di legittimità costituzionale, promosse in via
incidentale dal TAR della Campania, sezione di Salerno, contro alcune disposizioni del d.l.
195/2009..
Le disposizioni impugnate attribuiscono ai presidenti delle province campane le
funzioni spettanti agli organi provinciali in fatto di programmazione della gestione
integrata dei rifiuti (art. 11, comma 1). Dispongono, inoltre, che le società in house facenti
capo alle amministrazioni provinciali si occupino delle “attività di raccolta, di trasporto, di
trattamento, di smaltimento ovvero di recupero dei rifiuti” (art. 11, comma 2), nonché
26
C. RUGA RIVA, Diritto penale e leggi regionali in un’importante sentenza della Corte costituzionale, in
www.penalecontemporaneo.it
36
dell’accertamento e della riscossione con riferimento alla tassa per lo smaltimento dei
rifiuti solidi urbani e alla tariffa integrata ambientale (art. 11, comma 3).
La disciplina in questione è fondato sulla potestà legislativa esclusiva in materia
ambientale di cui all’art. 117 comma 2, lett. s) Cost. La Corte ribadisce la natura
“trasversale” di questa materia che non esclude ulteriori interventi legislativi regionali..
Nel caso di specie, la l.r. della Campania n. 4/2007, all’art. 8, nell’elencare le
funzioni attribuite alle province in tema di rifiuti, non comprende né la gestione integrata
dei rifiuti, spettante ex art. 20 alle Autorità d’ambito, né l’attività di raccolta, trasporto e
smaltimento dei rifiuti urbani, attività che, secondo l’art. 9, competono ai comuni.
Nondimeno, a giudizio della Corte, il conferimento di queste funzioni alle province,
da parte del legislatore statale, seppure in contrasto con la normativa regionale, non è
illegittimo: anzi, viene qualificato come “principio fondamentale” della disciplina
nazionale in tema di ambiente e, dunque, come disposizione inderogabile da parte delle
Regioni. La scelta del legislatore è giustificata, in quanto introduce “una disciplina
pienamente adeguata alla finalità di fissare livelli di tutela uniformi su tutto il territorio
nazionale e di fronteggiare una situazione di emergenza - quella dei rifiuti - che, pur
localizzata in una specifica Regione, ha indubbiamente rilevanza nazionale”. Peraltro, la
stessa l.r. della Campania n. 4/2007 prevede che le province esercitino un potere
sostitutivo, nel caso di inerzia dei Comuni nello svolgere le rispettive funzioni.
Inoltre, sempre a giudizio della Corte, il carattere emergenziale del contesto di
riferimento ha consentito allo Stato di legiferare in assenza di una preventiva intesa con la
Regione, senza con ciò contravvenire al principio di leale collaborazione.
Una volta riconosciuto che il conferimento alle province delle funzioni in esame non
è illegittimo, diventa legittimo attribuire alle stesse province anche le funzioni di
accertamento e riscossione di TARSU e TIA: risulta inutile attribuire tali funzioni ai
comuni, dal momento che essi sono stati privati di ogni altra funzione in tema di
smaltimento di rifiuti. Di conseguenza, neanche l’art. 11, comma 3, del d.l. 159/2009 è da
considerarsi illegittimo.
2. Le disposizioni impugnate non violano nemmeno l’art. 114 e l’art. 118 Cost.: è
vero che la legge statale, attribuendo ai Presidenti le funzioni spettanti agli organi
provinciali, incide nell’autonomia provinciale, disponendo in ordine ai rapporti interni
all’ente; nondimeno, la disposizione non è da considerarsi illegittima, se si tiene conto
della situazione di emergenza che il legislatore statale si è trovato ad affrontare. “Il
carattere eccezionale e transitorio della disciplina introdotta giustifica razionalmente
l’avocazione delle funzioni amministrative dai comuni alle province e rende la stessa
rispettosa dei principi di sussidiarietà, differenziazione e autonomia di cui all’art. 118
Cost.”.
ND
37
La regolazione comunale delle sale da gioco a Genova.
Nota a T.A.R. Liguria, Sez. II, sent. 05.02.2014, n. 194 di Davide Formaggio
Parole chiave: regolamento comunale, consiglio comunale, sindaco, legge regionale,
autorizzazione, tutela della salute, politiche sociali, ludopatia, luoghi sensibili, T.U.L.P.S.,
T.U.E.L., innovatività, macchine da gioco
Riferimenti normativi: art. 3 d.l. 13/08/2011, n. 138, conv. con modif. con legge
14/09/2011, n. 148; l.r. Liguria 30/04/2012, n. 17; art. 5 d.l. 13/09/2012, conv. con modif.
con legge 08/11/2012, n. 189; art. 50, comma 7, D. Lgs 18/07/2000, n. 267; art. 8, comma
1, art. 20 comma 2, artt. 7 e 19 del Regolamento Comunale di Genova 30/04/2013, n. 21;
artt. 86 e 88 T.U.L.P.S., artt. 3 e 117, comma 3 Cost.
Disposizioni annullate: art. 8, comma 2, secondo periodo; art. 18, comma 1, secondo
periodo; art. 20, comma 2, Regolamento Comune di Genova n. 21/2013
Sommario: 1. Premessa. 2. Orari di apertura e chiusura. 3. Durata delle autorizzazioni. 4.
Distanze da luoghi sensibili. 5. La L. R. Liguria n.17/2012 non è costituzionalmente
illegittima.
1. Premessa.
Con la sentenza in oggetto la II Sezione del T.A.R. Liguria ha in parte accolto, in parte
rigettato una serie di ricorsi proposti da soggetti a diverso titolo esercenti imprese nel
settore del gioco a premi in denaro contro il regolamento del Comune di Genova
n.21/2013.
Le numerose questioni affrontate dai giudici amministrativi hanno riguardato la materia
del riparto di competenze tra organi comunali nell’esercizio delle funzioni deliberative con
particolare riferimento alla creazione ed attuazione di strumenti utilizzabili nel contrasto
alla c.d. ludopatia, “intesa come patologia che caratterizza i soggetti affetti da sindrome
da gioco con vincita in denaro, così come definita dall'Organizzazione mondiale della
sanità (G.A.P.)”, secondo la definizione offerta dall’art.5 del D.L. n.158 del 13.09.2012,
convertito con Legge 08.11.2012 n. 189.
Si tratta della tendenza per i cittadini, di varia estrazione sociale, ad assumere
comportamenti compulsivi nei confronti del gioco a premi in denaro, anche se lecito.
In data 30.04.2013 il Consiglio comunale di Genova ha approvato il regolamento n.
21/2013 recante “Disciplina delle sale da gioco e giochi leciti”. Secondo l’art.18,
comma1, l’orario di attività delle sale pubbliche da gioco è fissato dal Sindaco con
apposita ordinanza, ma il secondo periodo -oggetto di impugnazione - stabilisce che “per
le sale da gioco ove sono messi a disposizione del pubblico giochi o scommesse che
consentono vincite in denaro” tale attività è consentita esclusivamente tra le ore 9.00 e le
19.30. E’ fatto inoltre esplicito divieto, all’art.20, comma 2, di lasciare a disposizione del
pubblico apparecchi da gioco al di fuori di tale orario.
Sul punto sono state invocate due normative, sulla cui base i ricorrenti hanno chiesto
l’annullamento delle disposizioni del regolamento comunale innanzi citate. In primis
38
occorre richiamare l'art.3 del d.l. 13.06.2011 n.138 (convertito con modificazioni con legge
n.148/2011), che ha obbligato Comuni, Province, Regioni e Stato, ad adeguare entro il 30
settembre 2012 i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e
l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente
vietato dalla legge. Tale disposizione costituisce “principio fondamentale per lo sviluppo
economico e attua la piena tutela della concorrenza tra le imprese”.
In particolare il comma 8 di detto articolo stabilisce che le restrizioni in materia di
accesso ed esercizio delle attività economiche previste dall'ordinamento vigente – e più
esattamente il divieto di esercizio di una attività economica al di fuori di una certa area
geografica e l'abilitazione ad esercitarla solo all'interno di una determinata area (lett.c)
nonché l'imposizione di distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate
all'esercizio di una attività economica (lett. d) - sono da considerarsi abrogate .
In tema di sale da gioco e scommesse a premi in denaro, la Regione Liguria, con legge
regionale 30.04.2012 n.17 recante la “Disciplina delle sale da gioco”, ha stabilito,
nell’ambito delle competenze spettanti alla Regione in materia di tutela della salute e di
politiche sociali, una serie di norme “finalizzate a prevenire il vizio del gioco, anche se
lecito” e “a tutelare determinate categorie di persone, oltreché a contenere l’impatto delle
attività connesse all’esercizio di sale da gioco sulla sicurezza urbana, sulla viabilità,
sull’inquinamento acustico e sulla quiete pubblica”.
E' in questo contesto normativo che, con la pronuncia in esame, il T.A.R. adito ha
riconosciuto alcuni principi a riguardo delle prescrizioni sugli orari di apertura e di
chiusura, della durata delle autorizzazioni, nonché della distanza dai luoghi sensibili delle
cd. sale slot.
2. Orari di apertura e chiusura.
Il T.A.R. Liguria ha annullato la disposizione consiliare di cui all’art.18, comma 1,
secondo periodo e art.20, comma 2, secondo periodo per violazione e la falsa applicazione
dell’art.3 del d.l.138/2011 (come risultante dalla legge di conversione) e dell’art.2 della l.r.
n.17/2012.
In particolare, nel dichiarare l'annullamento di tali norme regolamentari, i giudici hanno
chiarito che “non si rinviene alcuna copertura normativa nelle disposizioni” della Legge
Regione Liguria n.17/2012 tale da giustificare la previsione di rigidi orari di apertura e
chiusura serale delle attività delle sale da gioco ad un orario compreso tra le 9.00 e le
19.30.
L’art.2 della suddetta legge ligure stabilisce una serie di prescrizioni sulle distanze delle
sale da gioco da una serie di edifici sensibili indicati al comma 1 quali, ex multiis, istituti
scolastici, luoghi di culto, impianti sportivi o centri giovanili o altri istituti frequentati
principalmente da giovani, nonché le strutture assistenziali e/o socio-sanitarie, ma non
pone alcuna espressa limitazione relativamente agli orari di apertura.
A questo si aggiunge, secondo i giudici, che le sale giochi non configurano esercizi
commerciali né servizi pubblici, e rientrano invece nella più generale nozione di "pubblico
esercizio" contenuta nell'art.50, comma 7, D. Lgs. n.267/2000, c.d. T.U.E.L.. Secondo tale
ultima disposizione, spetta al Sindaco il compito di coordinare e riorganizzare, sulla base
di indirizzi espressi dal Consiglio comunale e nel rispetto di criteri eventualmente indicati
dalla Regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici e dei pubblici
esercizi.
La competenza di regolare gli orari di tali attività spetta pertanto al Sindaco e non al
Consiglio, al quale sono attribuiti i meri poteri di indirizzo. Ne consegue che nel caso in
esame il Consiglio Comunale si è illegittimamente espresso con una “previsione di una
39
tale rigidità da rendere il successivo intervento” del Sindaco - richiesto comunque
dall’art.18 del regolamento - una mera riproduzione dei vincoli già stabiliti dal Consiglio
stesso.
La Seconda Sezione del T..A.R. Liguria ha cura di precisare ulteriormente che la ratio
del potere di regolazione degli orari attribuito dal citato art.50, comma 7 del T.U.E.L.,
consiste nell' “armonizzare l'espletamento di servizi con le esigenze complessive e
generali degli utenti”: nel perseguimento di tale compito "sono estranee le finalità di
lotta alla ludopatia perseguite nel caso di specie", ragione per cui può dirsi che si ravvisa
in questo caso un esempio di sviamento di potere.
Con analoghe motivazioni è stato annullato anche il citato art.20, comma2, del predetto
regolamento.
3. Durata delle autorizzazioni.
Particolare menzione merita anche la motivazione che ha portato all’annullamento
dell’art.8, comma2, secondo periodo del regolamento de quo.
L’art.10 di quest’ultimo, facendo espresso riferimento all’art.1, comma 2, ult. cpv. della
L.r. n.17/2012, ha stabilito in cinque anni la durata massima dell'autorizzazione
all'esercizio delle macchine per il gioco.
Le ricorrenti hanno denunciato la violazione degli artt.86 e 88 del T.U.L.P.S., per cui non
si prevede un limite massimo di durata per tali autorizzazioni.
Invece l’art.2 della l.r. Liguria n.17/2012 stabilisce che l’autorizzazione viene concessa per
cinque anni e ne può essere richiesto il rinnovo dopo la scadenza.
Secondo il Collegio giudicante il contrasto denunciato tra la normativa regionale e il Testo
Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza non sussiste in quanto quest’ultimo si occupa del
controllo di polizia sul gioco a premi, mentre "la normativa regionale interviene per i
profili della medesima attività che riguardano la salute pubblica". Per tale aspetto il
regolamento comunale, conformemente alla normativa regionale, intenderebbe
contrastare “la facile caduta nel bisogno economico dei soggetti proclivi al gioco con
piccole somme”.
Sennonché sul punto la Corte rileva altresì che la disposizione comunale, in applicazione
della legge regionale, ha comunque portata innovativa, con ciò comportando che essa
vincola solo quei soggetti che non avevano già ottenuto l'autorizzazione (di polizia)
precedentemente all’entrata in vigore del regolamento comunale.
Pertanto è stato annullato l'art.8, comma 2, secondo periodo, che stabiliva
nell'autorizzazione comunale il presupposto di esercizio dell'attività anche per quei
soggetti già in possesso di regolare autorizzazione precedente (rilasciata ai sensi del
T.U.L.P.S.), palesandosi quindi “una manifesta violazione del principio di irretroattività”.
4. Distanze da luoghi sensibili.
L’art. 7 del regolamento ha vietato la collocazione di postazioni da gioco a meno di cento
metri da sportelli bancari, bancomat o agenzie di prestiti su pegno, e a meno di trecento
metri dai luoghi già indicati dalla legge regionale all’art.2, comma 1. L’art.19 ha inoltre
vietato la collocazione delle c.d. new slot in edifici pubblici, scuole, ospedali, pertinenze di
luoghi di culto, circoli privati, sedi di associazioni, e in altri luoghi sensibili.
Secondo la tesi delle ricorrenti il regolamento comunale avrebbe illegittimamente ampliato
il novero dei luoghi sensibili al di là di quanto ammesso dal citato art.2 della l.r. Liguria
n.17/2012, secondo cui l’elenco dei luoghi sensibili in cui non può esser concessa
l’autorizzazione può essere ampliato dal Comune “tenuto conto dell’impatto di essa sul
contesto urbano”.
40
Il T.A.R. Liguria specifica che la nozione di “contesto urbano” è necessariamente
generica e necessita di essere interpretata da parte dei soggetti a cui è attribuita la relativa
potestà: i giudici amministrativi affermano nel caso di specie la legittimità del potere -
riconosciuto dal regolamento comunale - di porre ulteriori limitazioni spaziali, in quanto
detto potere regolamentare trova la propria fonte nella Legge ligure n.17/2012,
dichiaratamente introdotta “nell’ambito delle competenze spettanti alla Regione in materia
di tutela della salute e di politiche sociali” (art.1).
Le (ulteriori) limitazioni spaziali sono perciò legittime purché siano finalizzate alla
salvaguardia della salute pubblica e alla realizzazione di politiche sociali.
Sul punto il Collegio ha ritenuto che l’istruttoria comunale sia stata svolta in modo
approfondito, con ciò offrendo alcuni spunti di conoscenza della ludopatia. Si legge infatti
nelle motivazioni della sentenza che si è assistito in questi anni ad una modificazione
della prospettiva tradizionale, che vedeva solitamente preda del gioco persone molto
facoltose sino a perdere la propria posizione di privilegio. Ora si può invece parlare di
“crescente dipendenza dal gioco, che viene esercitato in apparenza per piccole somme”
ma che raggiunge, per la capillarità delle strutture apprestate, anche “le categorie sociali
meno attrezzate culturalmente ed economicamente a resistere alla tentazione di provare ad
arricchirsi”, causando loro danni di tipo psicologico (comportamenti compulsivi) nonché
la facile caduta nel bisogno economico. Ciò spiega, secondo la sentenza in esame,
l’opportunità di apposite politiche sociali volte a prevenire e limitarne i danni.
Apparirebbe quindi di “immediata evidenza” il divieto di introdurre apparecchiature da
gioco in prossimità di strutture capaci di erogare denaro in quanto è “cosa che può
alimentare l’inclinazione al gioco compulsivo”, al fine di tutelare luoghi “meritevoli di
dignità, sicurezza e tranquillità che il Comune ha ritenuto non siano assicurate in caso di
vicinanza dei giochi a premi in denaro”.
Pertanto, secondo il T.A.R. Liguria, gli articoli 7 e 19 del regolamento sono legittimi,
almeno con riferimento ai soggetti che hanno richiesto o chiederanno l’autorizzazione
dopo l’entrata in vigore del regolamento.
5. La l.r. Liguria n.17/2012 non è costituzionalmente illegittima
Infine occorre segnalare che le ricorrenti avevano denunciato l’ illegittimità costituzionale
della Legge R. Liguria n.17/2012 per violazione dell’art.3 e dell’art.117, comma 3, Cost.,
nella parte in cui la Regione abbia inteso legiferare in un settore dell’ordinamento - la
tutela della salute - di competenza concorrente e quindi coperto dalla riserva di legge
quadro regionale.
Sennonché il Tribunale, nel ritenere manifestamente infondata la doglianza, ricorda sul
punto che il legislatore nazionale ha introdotto nell’ordinamento norme di contrasto alla
ludopatia inerenti alla materia “tutela della salute” (in particolare si segnala l’art.5 del d.l.
n.158 del 13.09.2012, convertito con legge 08.11.2012 n. 189) ma non ha assorbito in
alcun modo la potestà regionale di inserirsi in tale settore: poiché la l.r. Liguria n.17/2012,
come si è detto, è stata espressamente emanata con finalità di tutela della salute (art.1),
“l’ente ligure pare essersi mantenuto all’interno delle proprie attribuzioni”.
41
PARTE III
CITTADINI ED ENTI
L’istituzione del Comune di Mappano è conforme a Costituzione. Nota a
Corte cost., 11.06.2014, n. 171 di Marco Comaschi
Con sentenza 12 giugno 2014 n. 171 il Giudice delle Leggi ha dichiarato infondate le
questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR Piemonte in merito alla l.r.
Piemonte 25/01/2013, n. 1, avente per oggetto l'istituzione del Comune di Mappano27
.
Si è così positivamente concluso il lungo iter promosso dai comitati locali per
l'istituzione del nuovo Comune che, avviato una prima volta nel lontano 1985, era stato poi
abbandonato per essere riproposto nel 2009 quando, grazie all'approvazione della legge
regionale 26 marzo 2009, n. 10, era stato ristabilito in 5000 abitanti il limite minimo per
l'istituzione di nuovi Comuni.
Su iniziativa del Comitato locale per la creazione del Comune di Mappano è stato
quindi indetto il referendum consultivo che, dopo particolari traversie giuridiche, ha visto
finalmente esprimersi in data 11 novembre 2012 i cittadini interessati dalla procedura
istitutiva con ben il 94% di voti favorevoli all’istituzione28
.
27
Il testo della legge è consultabile online al seguente indirizzo:
http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2013/05/attach/l201301.pdf 28
Indicare fonte di cognizione del risultato (BUR). Per la precisione il primo referendum era stato
indetto dal Consiglio regionale del Piemonte il 29.7.2009. Il quesito, inizialmente indetto per il 15 novembre
2009, avrebbe interessato tutti i cittadini residenti nei quattro comuni su cui incide il territorio della Frazione
ma, il 6 novembre - ad appena nove giorni dalla data stabilita per la consultazione -, la I sezione del TAR di
Torino ha accolto il ricorso sospensivo promosso dai comuni di Leini, Settimo e Borgaro, sulla base di un
vizio procedurale. Tale operato è stato poi sconfessato dal Consiglio di Stato che, riformando la decisione
Parole chiave: enti locali, istituzione nuovi comuni, autonomia locale, referendum
consultivo, copertura finanziaria leggi regionali, contenimento della spesa pubblica.
Riferimenti normativi: artt. 3, 5, 81, 97, 114, 117, 119 e 133 Cost.; artt. 15 e 148-bis
TUEL; art. 3, comma17 d. l. 27.10.1995, n. 444; l.r. Piemonte 25/1/2013, n.1 e
2/12/1992, n. 51.
Massima: “La legge regionale del Piemonte n. 1 del 2013, portante l'istituzione del
Comune di Mappano, è costituzionalmente legittima in quanto, da un lato, non devono
essere previsti incentivi economici da parte della Regione per gli enti interessati dallo
scorporo e, dall'altro, i criteri generali individuati dalla legge per definire i rapporti tra
i Comuni interessati sono aderenti alla disciplina vigente in materia ed al principio di
contenimento della spesa pubblica”.
Link al documento
42
Nonostante la comunità locale si fosse espressa dopo anni di dibattito pubblico
quindi con un vero plebiscito in favore dell'istituendo ente, il Comune di Settimo Torinese
aveva proposto innanzi al TAR Piemonte ricorso avverso il decreto di nomina del
Commissario del neo istituito Comune, sottoponendo al giudice adito alcune questioni di
incostituzionalità della l.r. 1/201329
.
Dal canto suo, il TAR Piemonte ha ritenuto i prospettati dubbi di legittimità
costituzionale della legge rilevanti e non manifestamente infondati, con riferimento alla
violazione degli artt. 81, 97 e 119 Cost., poiché la legge non prevedrebbe, per realizzare la
complessa operazione di istituzione dell'ente locale, alcun tipo di copertura finanziaria30.
Il problema della copertura della spesa risulta in effetti essere il profilo comune a
tutte e tre le questioni di legittimità sollevate dal G.A. e poi perorate, innanzi alla Corte
costituzionale, dal Comune di Settimo Torinese.
1. In merito alla copertura finanziaria della procedura il giudice delle leggi, dopo
aver richiamato la disciplina vigente in materia di creazione di nuovi comuni, nonché la
sua precedente pronuncia n. 32/2009 sul Comune Cavallino-Treporti31
, afferma che “dalle
pur eterogenee disposizioni che si sono succedute nel tempo in materia emerge, in modo
chiaro ed incontrovertibile, che le mutazioni delle circoscrizioni degli enti locali – fatte
salve le fusioni, per le quali vige un regime di favor – devono avvenire senza aggravi per
adottata in primo grado, il 18 dicembre 2009 ha rigettato l'istanza cautelare. Facendo seguito alla sentenza del
Consiglio di Stato il Consiglio Regionale del Piemonte aveva stabilito di individuare una nuova data per la
consultazione per domenica 18 aprile 2010. Il TAR del Piemonte ha nuovamente sospeso la consultazione a
pochi giorni dal voto sulla base di un dubbio di incostituzionalità della Legge Regionale 10/2009
promettendo di richiedere la decisione nel merito alla Corte costituzionale. Il 7 ottobre 2011 La Corte
costituzionale ha dichiarato inammissibile la tesi del TAR restituendo legittimità al referendum due volte
sospeso. Il 1 dicembre 2011 il Consiglio Regionale del Piemonte ha ripreso l'iter per arrivare all'istituzione
del Comune con la proposta di legge regionale n. 187, culminata con la delibera di indizione del Referendum
il 17 luglio 2012 e nel successivo decreto del Presidente della Giunta Regionale. 29
Il Comune di Settimo Torinese aveva infatti già impugnato in via principale gli atti inerenti la procedura di
indizione del referendum, giudizio nel quale andavano quindi ad innestarsi i profili di illegittimità
ulteriormente dedotti per la successiva nomina del commissario. La costituzione del Comune di Mappano
presenta la particolarità di aver interessato il territorio di ben 4 differenti comuni ( Caselle Torinese, Borgaro
Torinese, Settimo Torinese e Leini). A tal proposito occorre rilevare come a seguito della chiara volontà
popolare di istituire il nuovo comune sia stato solo il Comune di Settimo Torinese a perseverare nei giudizi
instaurati innanzi al TAR. 30
Va peraltro segnalato come già la decisione assunta dal TAR durante il procedimento referendario di
rimettere alla Corte la questione di costituzionalità circa la competenza regionale di incidere sul limite
demografico per l'istituzione dei nuovi comuni fosse alquanto discutibile. Sulla questione si veda il puntuale
commento di D. SERVETTI, Corte cost., n. 261/2011: Quando un giudice a quo complica un riparto di
potestà legislativa già sufficientemente complesso: brevi note in tema di limiti demografici per l’istituzione di
nuovi comuni, on line su www.dirittiregionali.org 31
Con la sentenza 6.2.2009, n. 32 erano state rigettate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal
TAR Veneto a riguardo della procedura istitutiva del Comune di Cavallino-Treporti mediante scorporo dello
stesso dal Comune di Venezia. In particolare è stata rigettata la pretesa incostituzionalità per assoluta
indeterminatezza – e, quindi, di violazione del principio di legalità sostanziale – della disciplina dei rapporti
patrimoniali tra i due enti: la Consulta ha infatti statuito che la discrezionalità della Provincia di Venezia
doveva in realtà essere esercitata nell'ambito dei precisi limiti tracciati dalla legislazione nazionale e
regionale che, pur implicitamente, ha affermato quale principio fondamentale il riparto dei beni mobili ed
immobili tra i comuni in proporzione alla consistenza demografica e territoriale degli enti coinvolti, nonché
in base alla loro collocazione fisica, lasciando invece alla discrezionalità la definizione dei profili peculiari
che ciascun caso sicuramente presenta.
43
la finanza pubblica, attraverso un razionale ed equilibrato riparto delle risorse e delle spese
tra gli enti scorporati e quelli di nuova istituzione...”.
Sulla scorta di tale interpretazione non solo viene quindi rigettata la dedotta
questione di incostituzionalità della legge regionale per mancanza di misure incentivanti e
compensative a favore degli enti coinvolti ma, anzi, il giudice afferma che la Regione non
avrebbe potuto in alcun modo assicurare alcuna forma di compensazione o copertura
finanziaria all'operazione di rideterminazione delle circoscrizioni comunali interessate.
D'altra parte, la Consulta ricorda come sia lo stesso principio della libera scelta delle
popolazioni locali di costituire un nuovo Comune ad imporre di dare attuazione alla
volontà autonomistica senza gravare sulla fiscalità generale, come avverrebbe nel caso in
cui lo Stato o la Regione fossero chiamati a finanziare dette operazioni.
2. Altrettanto infondata è la questione relativa all'assenza nella legge regionale di
precisi criteri di riparto di risorse tra gli enti. Anche in quest'occasione, come già avvenuto
per il precedente caso del Comune di Cavallino-Treporti, la sentenza ricorda che
competerà poi alla Provincia di Torino definire criteri di riparto specifici e puntuali, alla
luce dei principi generali di attribuzione delineati dalla legislazione nazionale e regionale,
attività amministrativa che potrà essere a sua volta assoggettata al controllo giurisdizionale
ed a quello contabile.
3. Infine viene rigettata anche la questione di incostituzionalità della legge regionale
in quanto priva di copertura finanziaria e, come tale, potenzialmente contraria alle
osservazioni formulate dalla Sezione Autonomie della Corte dei Conti con la propria
delibera n. 10/2013.
A tal riguardo la Corte precisa come l'ordinanza di remissione confonda due diversi
poteri spettanti al giudice contabile, dato che le osservazioni richiamate riguardano il
procedimento di controllo della copertura delle leggi regionali e non quello che, invece,
potrebbe venire in rilievo nel caso trattato, ossia quello di legittimità-regolarità sui bilanci
degli enti locali di cui all'art. 148-bis del TUEL. Pertanto, siccome la legge regionale non
ha previsto (e non lo avrebbe potuto comunque fare) alcuna misura economica in favore
dell'operazione di istituzione del nuovo comune, non si può conseguentemente porre alcun
problema di copertura finanziaria della legge.
In conclusione, con la pronuncia testé riassunta la Corte costituzionale ha, in
sostanza, ribadito che, seppure nella normativa vigente in materia si profili un favor verso i
processi di fusione dei Comuni e di correlato disfavore per l'istituzione di nuovi comuni.
Ciò non toglie che quest'ultima operazione sia comunque possibile. Pertanto non si può
pensare di poter neutralizzare tali operazioni in nome di una lettura esasperata degli
obblighi di contenimento della spesa a cui devono sottostare anche gli enti locali dato che,
come si può facilmente intuire, l'istituzione di un nuovo Comune porta con sé
fisiologicamente alcuni nuovi costi quali, ad esempio, quelli discendenti dalla creazione
degli organi elettivi del nuovo ente.
Quello che invece si deve pretendere nei processi di istituzione di un nuovo comune
mediante scorporo è una sostenibilità economico-finanziaria generale della scelta delle
popolazioni locali le quali, peraltro, saranno le uniche a doversi farsi carico degli eventuali
oneri discendenti dall'operazione, sulla base di una definizione dei rapporti patrimoniali tra
gli enti equilibrata alla consistenza del patrimonio mobiliare ed immobiliare, nonché in
proporzione alla consistenza demografica e territoriale dei nuovi comuni.
44
Il diritto al nome dell’ente locale: riflessioni a margine del referendum
per “Courmayeur-Mont Blanc” di Giovanni Boggero e Matteo Porricolo
32
Parole chiave: diritto al nome; Ente locale; referendum; stemmi; marchi commerciali.
Riferimenti normativi: art 133 Cost.; artt. 3, 6, 15, 18, 141 D. lgs. 18 agosto 2000, n. 267
(Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali); art. 7 Codice civile; D.P.C.M.
28 gennaio 2011 (Competenza della Presidenza del Consiglio in materia di […] araldica
pubblica); D. lgs. 10/02/2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale); art. 28, comma 2,
(Legge fondamentale per la Repubblica Federale di Germania).
Link al quesito referendario
SOMMARIO. 1. Il referendum di Courmayeur. 2. La storia del diritto al nome degli enti
locali. 3. Profili costituzionali del diritto al nome. 4. Il diritto al nome nel diritto
costituzionale tedescomma 5. Il diritto al nome della frazione. 6. Stemmi e gonfaloni. 7.
Diritto al nome e marchi commerciali. 8. Giurisprudenza di merito. 9. Conclusioni.
1. È fallito, per mancato raggiungimento del quorum, il referendum con cui il 1
giugno 2014 la popolazione del Comune di Courmayeur (AO) è stata chiamata a
pronunciarsi in ordine alla modifica del nome dell'ente in “Courmayeur-Mont Blanc”. I
promotori non avevano taciuto l’evidente finalità di marketing del progetto, volendo
imitare quello che già i francesi fecero nel 1921 con “Chamonix-Mont-Blanc”. I valdostani,
seppure a distanza di anni, avevano deciso di non lasciare ai loro cugini savoiardi il
privilegio di fregiarsi del nome (e, in un certo qual senso, dominio) del Re delle Alpi. Al di
là del tributo alla montagna più alta d’Europa, quindi, il referendum mascherava la più
materiale lotta per strapparsi i turisti tra località alpine.
La scelta del comitato promotore è ricaduta sul francese “Mont Blanc”, che, – a
detta dei proponenti – avrebbe avuto molto più appeal internazionale rispetto al suo
corrispettivo italiano “Monte Bianco”33
. Nemmeno il 40% degli aventi diritto al voto si è
tuttavia presentato alle urne ed è così mancato il quorum per poter dichiarare valida la
consultazione.
L’art. 42 dello Statuto speciale per la Valle d’Aosta (Legge cost. 26 febbraio 1948, n.
4) fa eco all’art. 133 della Costituzione della Repubblica (v. infra § 3), stabilendo che «La
Regione, sentite le popolazioni interessate, può con legge istituire nei propri territori nuovi
comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni.»
32
Giovanni Boggero è autore dei paragrafi 4 e 6; Matteo Porricolo dei restanti. 33
Tale è stato il testo del quesito sottoposto agli elettori residenti nel Comune: «Volete che la denominazione
del Comune di Courmayeur, come stabilita dall’articolo 1, primo comma, della legge regionale 9 dicembre
1976, numero 61 (Dénomination officielle des Communes de la Vallée d’Aoste et protection de la toponymie
locale) sia modificata in Courmayeur-Mont-Blanc?».
http://www.comune.courmayeur.ao.it/repository/140601_ReferendumFAQ.html#1
45
A regolare l’istituto del referendum nella Regione Valle d’Aosta è la l. r. 25 giugno
2003, n. 19. In base all’art. 42 (attuativo dell’art. 42 dello Statuto), il referendum è
deliberato dal Consiglio della Valle, su iniziativa della Giunta o del Consiglio stesso; nel
caso di modificazione della denominazione del Comune, al referendum partecipano tutti gli
elettori del Comune interessato (lettera d). La denominazione ufficiale dei comuni della
Valle d'Aosta e le norme per la tutela della toponomastica locale sono disciplinate dalla
Legge regionale 9 dicembre 1976, n. 61. Ai sensi dell’art. 1 bis «Le denominazioni
ufficiali di villaggi, frazioni e altre località sono stabilite dal Presidente della Regione con
proprio decreto, previa acquisizione del parere della Commissione per la toponomastica
locale […], del parere del Consiglio comunale del Comune interessato e del parere
favorevole della Giunta regionale.» Tale Commissione, definita «organo di consulenza e
assistenza tecnico-scientifica», è nominata dalla Giunta ed è composta da almeno tre e non
più di sei membri scelti tra i dirigenti delle strutture regionali competenti in materia di
etnologia e linguistica, di toponomastica, di documentazione antica, di storia e cultura
dell’ambiente valdostano e di enti locali o tra esperti esterni nelle stesse materie. Essa ha
prevalentemente una funzione consultiva. «La grafia ufficiale dei toponimi deve ispirarsi,
nelle sue linee generali, alla tradizione ortografica affermatasi in Valle d’Aosta nel corso
dei secoli e desumibile dalle fonti di archivio, nonché alla tradizione orale» (art. 1 octies).
Sono altresì riconosciuti margini di autonomia ai comuni con popolazione a maggioranza
Walser (art. 1 nonies, comma 2).
2. I nomi dei comuni italiani si fondano nella consuetudine e hanno ragioni
principalmente storico-geografiche. I comuni, infatti, sono le uniche formazioni pubbliche
(culturalmente) “naturali” e non (giuridicamente) artificiali, ossia con una tradizione
antecedente alla formazione dello Stato unitario.34
Per i comuni di nuova istituzione,
invece, la disciplina del nome è regolata dalla legge. Di regola la denominazione è la stessa
del centro-località o dell’agglomerato principale, ma non mancano in Italia casi di comuni
sparsi, in cui il nome non corrisponde a nessuno degli aggregati abitativi di cui è composto.
Un esempio, in Piemonte, è Pragelato, costituito di una ventina di frazioni (e in una di
queste, Ruà, ha sede la casa comunale).
Nella storia d’Italia, dal 1861 fino ad oggi, non è nuovo il caso di comuni che hanno
modificato la propria denominazione. Con l’Unità e l’accorpamento di nuovi territori al
Regno di Sardegna si verificarono molti casi di omonimia tra enti, che vennero risolti
molto spesso con l’aggiunta nel nome della specificazione che richiamava la città più
vicina, il fiume, la valle o comunque la zona storico-geografica (es: Villanova d’Asti, Novi
Ligure). Il regime fascista, poi, nella sua opera di “italianizzazione” del Paese, impose la
mutazione dei toponimi dei comuni di confine, traducendoli, talvolta in modo a dir poco
buffo, dall’originale tedesco o francese (lo stesso Courmayeur divenne “Cormaiore”, o, per
esempio, in Alto Adige, da “Sterzing” si passò a “Vipiteno”). Con la caduta del regime
furono ripristinati molti dei nomi originali. Non sono mancati in quel periodo nemmeno
casi di “rilatinizzazioni” di nomi nei secoli volgarizzati, col ritorno all’originale latino (fra
i capoluoghi: Vibo Valentia, Olbia, Enna). Sono stati invece diversi i comuni che hanno
aggiunto al proprio nome originario il richiamo al cognome di una personalità legata al
luogo da vincoli di sangue o semplicemente affettivi (si pensi a Castelnuovo Don Bosco,
34
F. CARINGELLA, A. GIUNCATO, F. ROMANO, L'ordinamento degli enti locali, Milano, 2007, 195, M.
MIRABELLA, M. DI STEFANO, A. ALTIERI, Corso di Diritto Amministrativo, Milano, 2009, 182; F. PIZZETTI,
Piccoli comuni e grandi compiti: la specificità italiana di fronte ai bisogni delle società mature, in Astrid
Rassegna, 15 novembre 2007; A. PIRAINO, Il valore primario degli statuti comunali, in Scritti in onore di P.
Virga, II, Milano, 1994, 1379.
46
Arquà Petrarca, Castagneto Carducci, Livorno Ferraris). E, come nel caso di Courmayeur, i
motivi turistici hanno spinto con successo molte altre amministrazioni a legare il nome
dell'ente con la caratteristica che intendevano sponsorizzare, si pensi alle aggiunte di
“Terme”, “Lido” o “sulla Strada del Vino” al nome principale o, ad esempio, il caso
singolo di “Lignano Sabbiadoro”.35
Quanto alle province italiane, invece, il loro nome corrisponde di norma a quello
della città capoluogo di provincia. Non mancano però casi di province aventi più
capoluoghi (es. Barletta-Andria-Trani; Carbonia-Iglesias; Olbia-Tempio) o province con
singolo capoluogo ma che nella denominazione riportano il nome di più città (Massa-
Carrara36
; Forlì-Cesena37
) e province la cui denominazione comprende anche, o soltanto, il
nome del territorio: Verbano-Cusio-Ossola; Monza e Brianza; Medio Campidano;
Ogliastra.
3. Il codice civile (art. 11) prevede che l’Ente locale abbia personalità giuridica
di diritto pubblico (con tutti i poteri e doveri che ne derivano); nonché è prevista anche una
capacità di diritto privato che esercita laddove la legge lo pone in condizioni di parità con
gli altri soggetti dell’ordinamento.
Secondo la dottrina, il diritto al nome dell’Ente locale è attributo dalla personalità
giuridica che gli è riconosciuta assieme al diritto allo stemma, al gonfalone e,
eventualmente, al titolo di città38
.
Nella giurisprudenza di legittimità è ormai pacifico il riconoscimento dei diritti
immateriali della personalità anche in capo alle persone giuridiche. Per la Cassazione39
«in
questa ottica, si deve affermare la risarcibilità della lesione dello stesso diritto all'esistenza
nell'ordinamento come soggetto (fin quando sussistano le condizioni di legge), del diritto
all'identità, del diritto al nome e del diritto all'immagine della persona giuridica ed in
genere dell'ente collettivo».
Questa sentenza, in verità, aveva risolto una causa fra società commerciali. Tale
riconoscimento, comunque, non è mancato a favore di enti pubblici, quali comuni e
province, specie in pronunce di merito (v. § 9).
La Costituzione italiana, all’art. 133 comma secondo, consente alla legge regionale,
sentite le popolazioni interessate, l’istituzione di nuovi comuni e le modificazioni delle
loro circoscrizioni e denominazioni.
Dalla disposizione scaturiscono alcune questioni interpretative. Fra le più importanti
si può segnalare quella riguardante il significato dell’inciso “sentite le popolazioni
interessate”. Per la Corte costituzionale ad esso è sotteso l'obbligo procedurale di
referendum consultivo («la disciplina regionale delle circoscrizioni comunali deve
prevedere il ricorso al referendum consultivo, quale presupposto per la modifica delle
35
E. CAFFARELLI – S. RAFFAELLI, Il cambiamento di nome dei comuni italiani (dall’Unità d’Italia a oggi), in
Rivista italiana di toponomastica, V (1999), 1, pp. 115-147. 36
Con il Regio Decreto Legge 1938, n. 1860, i comuni di Massa, Carrara e Montignoso furono fusi in unico
comune denominato “Apuania”, che diede al contempo nome alla Provincia. Col Decreto Luogotenenziale 1
marzo 1946, n. 48, la Provincia di Apuania ha ripreso l’antica denominazione di Massa-Carrara, con
capoluogo Massa. 37
Il d.lgs. 6 marzo 1992, n. 252, istitutivo della nuova Provincia di Rimini, provvide anche a rinominare la
parte residua di territorio della vecchia Provincia di Forlì in “Provincia di Forlì-Cesena”. 38
Vedasi E. BARUSSO, Diritto degli Enti locali, Rimini, 2008, pp. 83-84. 39
Cass. 04/06/2007 n° 12929.
47
circoscrizioni medesime e per l'istituzione di nuovi comuni»40
), anche se l’esito dello
stesso non è per nulla vincolante per la Regione, che è libera di discostarsene41
. In più è
utile ricordare - avendo preso le mosse dal recentissimo caso valdostano - che la
giurisprudenza costituzionale ritiene che questo sia un principio di portata generale
vincolante anche per le regioni a statuto speciale, le quali sono libere di seguire «forme
anche equivalenti a quella tipica del referendum, purché tali da assicurare, con pari forza,
la completa libertà di manifestazione dell'opinione da parte dei soggetti chiamati alla
consultazione»42
. Negli ultimi anni è intervenuta una nuova pronuncia (n. 237/2004), che
ha specificato che deve ricondursi alla disciplina dell’art. 133 comma 2 Cost., e quindi alla
necessità di organizzare un referendum consultivo, anche il caso di semplice integrazione
al nome originale. La Regione Campania, nel caso di specie, aveva con propria legge
provveduto a mutare la denominazione del Comune di Ascea in “Ascea-Velia”. Anche in
questo caso, alla legge erano sottesi fini commerciali, volendo essa richiamare alla
memoria l’antica città greca che lì sorgeva e dove tuttora si trova il sito archeologico. Lo
Stato impugnò la norma rilevandone l’incostituzionalità in relazione all’art. 133, comma 2,
Cost., poiché l’approvazione della legge non sarebbe stata anticipata dalla consultazione
popolare che la Costituzione richiede. La difesa regionale intervenne in giudizio
sostenendo che la legge impugnata sarebbe stata preceduta dalla delibera del Consiglio
comunale di Ascea, avendo ravvisato la necessità dell’aggiunta “attesa la notorietà
internazionale di tale nome [sic!], traino e richiamo per la valorizzazione turistica, sociale
ed economica del Comune”. Secondo la Regione non si sarebbe trattato di una modifica
della denominazione rientrane nella fattispecie di cui all'art. 133 comma 2 Cost., ma di una
mera integrazione in grado perciò di sfuggire alle censure di incostituzionalità. Per di più,
secondo la stessa, la delibera del Consiglio comunale sarebbe stata idonea a superare
l’obbligo di sentire le popolazioni interessate. I giudici della Consulta citarono la propria
giurisprudenza (sentenze 204/1981; 107/1983; 279/1994), che è sempre stata chiara nel
sancire la necessità di procedere a referendum nei casi previsti dal comma secondo
dell’articolo 133. Rigettando così ogni altra contraria deduzione (in particolare, anche
l’integrazione della denominazione ne costituirebbe una modifica), la Corte annullò la
legge regionale.
Si è dibattuto molto su quali siano le “popolazioni interessate”. Riguardo alle
modifiche territoriali si registra una giurisprudenza abbastanza ondivaga (tra
interpretazioni restrittive ed estensive)43
, ma, per quel che ci riguarda, pare che si possa
escludere ogni tipo di interesse di popolazioni estranee al territorio del Comune di cui si
intende mutare la propria denominazione; a meno che non si voglia immaginare una sorta
di “disputa” sul diritto ad arrogarsi un nome fra due comunità, nel cui caso potrebbe essere
utile sentire le popolazioni di entrambi gli enti.
Quanto alla procedura, la riforma del Titolo V ed in particolare il nuovo art. 117
comma 2 lett. p) Cost. ha comportato il passaggio alla competenza esclusiva/residuale delle
regioni di tale materia, motivo per il quale la regione non dovrebbe fare più riferimento ai
40
Corte Cost., Sent. 29 dicembre 1981, n. 204 (punto 2 considerato in diritto). Corte Cost. Sent. 6 luglio
1994, n. 279, ribadisce «il carattere di indispensabile forma che il referendum consultivo riveste per
appagare l'esigenza partecipativa delle popolazioni interessate» (punto 2 considerato in diritto). V. anche
Corte Cost. Sent. 21 aprile 1983, n. 107. 41
V. E. ROTELLI, Art. 133, in Commentario della Costituzione, Zanichelli, 1990, pp. 211-212 42
Corte Cost. Sent. 27 luglio 1989, n. 453 (punto 4.2 considerato in diritto). 43
Corte Cost. Sent. 15 settembre 1995, Sent. n. 433. Contra Corte Cost. Sent. 7 aprile 2000, Sent. n. 94, e
Corte Cost. Sent. 13 febbraio 2003, sent. n. 47.
48
principi stabiliti dalla legge statale44
, con tutti problemi di compatibilità che però si
pongono con l’art. 15 del d.lgs. 267/2000. In base al comma 1, secondo periodo: «salvo i
casi di fusione tra più comuni, non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione
inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri
comuni scendano sotto tale limite.» In più, «La legge regionale che istituisce nuovi
comuni, mediante fusione di due o più comuni contigui, prevede che alle comunità di
origine o ad alcune di esse siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di
decentramento dei servizi.» (comma 2). Sono interessanti le questioni che sorgono tra la
legge regionale di disciplina generale della materia e la legge-provvedimento che nel caso
concreto provvede alla modifica, per le quali facciamo rinvio alle principali dissertazioni
dottrinali45
.
Il titolo di città può invece essere concesso dal Presidente della Repubblica su
proposta del Ministero dell’Interno ai comuni insigni per ricordi, monumenti storici e per
l'attuale importanza (art. 18 TUEL).
La disciplina costituzionale del nome delle province può essere ricondotta all’art.
133 comma 1 Cost., il quale stabilisce che (…) Anche qui la Carta richiede un intervento
“dal basso”, in ossequio al principio di autonomia; però con una sostanziale differenza: al
contrario del secondo comma, non si prevede qui un intervento delle popolazioni
provinciali, bensì soltanto una iniziativa dei comuni. Quasi a voler indicare la non
esistenza di una reale popolazione provinciale, se non come una somma delle popolazioni
comunali (il che consentirebbe prima facie una lettura costituzionalmente conforme della
legge “Delrio” 7 aprile 2014, n. 56). Per contro, però, bisogna ricordare che il T.U.E.L.
definisce la provincia come «ente intermedio tra Comune e Regione» rappresentante «la
propria comunità» (art. 3, comma 3).
4. Anche in Germania, il diritto di un ente locale ad avere, utilizzare e mantenere un
nome è ritenuto un attributo della personalità giuridica dell'ente.46
Alla stregua di quanto
accade per ogni altra persona fisica o giuridica, l'ordinamento deve perciò proteggere il
diritto al nome. L'ente locale può ricorrere direttamente alla Corte costituzionale del
proprio Land o, in via sussidiaria, al Tribunale costituzionale federale
(Bundesverfassungsgericht) per violazioni del diritto al nome da parte di leggi o
regolamenti dello Stato. Il ricorso diretto in questione non è quello previsto in caso di
violazioni di diritti fondamentali individuali di cui all'art. 93 comma 4 lett. a) della Legge
fondamentale, bensì quello previsto specificamente per gli enti locali di cui all'art. 93
comma 4 lett. b) LF. In altre parole, gli enti locali, lamentando una violazione del proprio
diritto al nome, non possono dichiararsi lesi in un proprio diritto fondamentale,
diversamente da quanto è possibile per altri tipi di persone giuridiche, ma possono soltanto
considerare violato il proprio diritto all'auto-amministrazione (Selbstverwaltung),
riconosciuto all'art. 28 comma 2 per. 1 LF che, a differenza di quanto stabilito nella
Costituzione di Francoforte del 1849 e nella Costituzione di Weimar del 1919, non è più
annoverato esso stesso tra i diritti fondamentali. Come stabilito nel 1982 dal Tribunale
costituzionale federale,47
il diritto al nome è da ritenersi corollario del diritto costituzionale
44
E. FERIOLI, Art. 133, in Commentario alla Costituzione, Utet, 2006, p. 2554 45
V., inter alias, E. FERIOLI, Art. 133, in Commentario alla Costituzione, Utet, 2006, pp. 2554-2556 46
Cfr. ad es.: Art. 2 I BayGO; § 19 I NkomVG; § 13 GO NRW. 47
BVerfGE 56, 219 – Söhlde (12 gennaio 1982 – 2 BvR 113/81). Vedi anche: D. P. KOMMERS, The
Constitutional Jurisprudence of the Federal Republic of Germany, Duke University Press, 1997, 102 sgg.
49
all'auto-amministrazione in quanto storicamente espressione dell'individualità e
dell'identità giuridica dell'ente.48
La protezione del nome dell'ente non è però mai stata
assoluta, atteso che la modifica del nome è un atto di potere sovrano dello Stato
(staatliches Hoheitsrecht) che compete, solitamente, al governo o al ministro degli interni
del Land. Tuttavia, tale potere è a sua volta limitato dal dovere di rispettare un “nucleo
duro” (Kernbereich) di auto-amministrazione, non definibile una volta per tutte, ma entro il
quale rientra anche l'obbligo di consultare gli enti locali interessati prima di modificarne il
nome o il territorio, sia a seguito di procedure di riorganizzazione territoriale, sia nel caso
in cui ad un ente locale venga attribuito un nome contro la sua volontà. L'obbligo di
consultazione, che non deve consistere necessariamente in un referendum delle
popolazioni interessate come nel caso italiano, è altresì considerato corollario del principio
dello Stato di diritto, in base al quale lo Stato non può considerare gli enti locali come meri
oggetti di attività legislativa discrezionale (cfr. BVerfGE 50, 50). Peraltro, la decisione
dello Stato di modificare il nome di un ente locale deve essere improntata al bene della
comunità (Gemeinwohl) in ordine alla sussistenza del quale deve essere prodotta una
convincente motivazione. Nel caso della citata pronuncia risalente al 1982, il legislatore
del Land Bassa Sassonia, a seguito di una fusione di più Comuni, aveva affibbiato al nuovo
Comune il nome che in precedenza era del Comune più popoloso (Hoheneggelsen) a
scapito di tutti gli altri, tra cui figurava anche il ricorrente (Söhlde). In particolare, il
legislatore aveva ritenuto che Hoheneggelsen fosse il centro della località, ma soprattutto
aveva voluto “sanzionare” Söhlde per alcuni investimenti realizzati da questa nel passato
non conformi alla pianificazione regionale. Non avendo tenuto in adeguato conto il bene
della comunità e mancando quindi una motivazione adeguata, il legislatore aveva leso il
diritto all'auto-amministrazione di cui all'art. 28 comma 2 per. 1 LF, sub specie del diritto
al nome del ricorrente.
5. L’articolo 15 del Testo unico degli Enti Locali si occupa di modifiche
territoriali, fusione ed istituzione di comuni e, in particolare, il comma 4 stabilisce il diritto
del Comune ad attribuire il nome alle proprie frazioni e borgate. La Corte costituzionale in
una sua pronuncia49 si era spinta a riconoscere persino il diritto al nome della frazione. In
quella occasione la Regione Trentino-Alto Adige e la Provincia di Bolzano si
contendevano la competenza a denominare le frazioni e le borgate (il Presidente della
giunta provinciale di Bolzano aveva impugnato la legge regionale con cui si definiva il
nome di una frazione del Comune di Sesto/Sexten).
Il ricorrente sosteneva che, vista la natura di mere entità di fatto delle frazioni, per
nulla assimilabili ai Comuni, la fattispecie dovesse rientrare nella competenza della
Provincia in materia di toponomastica. L’intervenuta Regione ribatteva che, al contrario, le
denominazioni di frazioni e capoluoghi facessero parte di un'unica materia, di competenza
regionale. Al di là dell’esito del ricorso, la Corte respinse la tesi delle frazioni come mere
entità di fatto, «data la capacità che le frazioni stesse posseggono di assumere in proprio la
soggettività di rapporti giuridici, in corrispondenza alla titolarità loro spettante degli
interessi autonomi del gruppo di popolazione stanziato nella parte del territorio comunale
ad esse assegnato: soggettività da cui discende anche il riconoscimento a favore della
frazione di un vero e proprio "diritto al nome", e che dà appunto ragione della rilevata
48
Così anche Nierhaus, GG-Sachs-Kommentar, Art. 28, Rn. 53. In dottrina permangono comunque voci
contrarie a questa tesi: A. ULBRICH, in: Vogelsang/Lubking/Ulbrich (ed.), Kommunale Selbstverwaltung, 3
Aufl. 2005, Rn. 70 ff. 49
Corte cost. Sent. 2 aprile 1964, n. 28.
50
adozione, da parte della norma statale richiamata, di un procedimento identico a quello
richiesto per la denominazione dei Comuni».
6. L'art. 6 comma 2 T.U.E.L. stabilisce inoltre che, tra i contenuti necessari
dello Statuto, vi siano determinati lo stemma e il gonfalone. Anche dopo l'entrata in vigore
della Costituzione repubblicana, la disciplina di riferimento è stata a lungo rappresentata
dal Regio Decreto 7 giugno 1943 n. 652. Soltanto con l'emanazione del T.U.E.L.
l’approvazione di stemma e gonfalone è entrato a pieno titolo nell'ambito della potestà
statutaria degli enti locali. Fino ad allora, invece, era rimasta di competenza del Ministero
degli Interni. Con le riforme “autonomiste” degli anni Novanta parve poco appropriato
continuare ad impedire agli enti locali di definire i propri simboli distintivi. Soltanto in
caso di uso improprio dello stemma o del gonfalone da parte dell'ente, lo Stato potrà quindi
intervenire. In particolare, laddove lo stemma o il gonfalone adottato sia sussumibile nella
categoria degli atti contrari a Costituzione, è possibile ipotizzare uno scioglimento del
Consiglio dell'ente ex art. 141 T.U.E.L. Sennonché, occorre osservare che, anche dopo
l'entrata in vigore del Titolo V, l'autonomia statutaria degli enti locali con riguardo alla
definizione di stemma e gonfalone continua ad essere limitata dal Servizio Araldica
Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, i cui poteri risultano tutt’oggi fondati
sul summenzionato Regio Decreto.50
Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
(d.p.c.m.) del 28 gennaio 2011 ha provveduto ad aggiornare il linguaggio utilizzato per
l'istruttoria relativa all'araldica pubblica, nonché a semplificare le regole procedurali
dell'attività posta in essere dall’Ufficio onorificenze e araldica della Presidenza del
Consiglio dei Ministri51. In breve, il procedimento prevede che il sindaco o il presidente
della Provincia presentino la domanda per la concessione di emblemi araldici al Presidente
della Repubblica e al Presidente del Consiglio. È il summenzionato Ufficio a stabilire
l’assetto araldico degli emblemi, sulla proposta contenuta nei bozzetti degli emblemi
araldici richiesti. Il procedimento di concessione si conclude con l'emanazione di un
decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei
Ministri. L’art. 4, comma 1, sancisce un’indisponibilità degli emblemi degli Enti locali
storici italiani («Gli stemmi ed i gonfaloni storici delle province e dei comuni non possono
essere modificati».) È altresì vietato fare uso dell’emblema dello Stato (art. 4, comma 10).
La Risoluzione 19 febbraio 2009 del Ministero dell’Interno rispondeva ad un
consigliere comunale che aveva posto un quesito relativo alla legittimità dell'utilizzo non
autorizzato dello stemma comunale nella insegna luminosa da parte di una associazione.
Venivano citati a riguardo il R.D. 7 giugno 1943, n. 651 e il testo unico nelle parti che
trattano della disciplina di stemmi e gonfaloni, stabilendo che il comune possa agire
«contro chiunque, al di fuori dei casi di concessione in uso di cui alla citata norma
regolamentare, utilizzi il proprio stemma o che autorizzatovi, ne faccia un uso non
consentito». In questo senso, quindi, il diritto allo stemma può essere assimilato al diritto al
nome, atteso che precisa l'identità dell'ente locale e non è da esso liberamente modificabile
o disponibile. Anche in Germania, benché il Tribunale costituzionale federale non si sia
mai espresso in tema di stemma comunale (Wappen), la dottrina tende a considerare il
diritto alla sua esibizione corollario di quello al nome52
.
50
Così anche F. PINTO, Diritto degli Enti Locali, Torino, 2012, 90-91. 51
Sono destinatari del decreto le regioni, le province, le città metropolitane, i comuni, le comunità montane,
le comunità isolane, i consorzi, le unioni di comuni, gli enti con personalità giuridica, le banche, le
fondazioni, le università, le società, le associazioni, le Forze armate ed i Corpi ad ordinamento civile e
militare dello Stato. 52
Si veda ad es.: Rennert, in: Umbach/Clemens, GG-Art. 28 II, Rn, 106.
51
7. Ci si potrebbe di conseguenza domandare se il nome geografico possa
essere legittimamente registrato come marchio commerciale.
A fornire una risposta è il Codice della proprietà industriale (Decreto legislativo
10.02.2005 n° 30), che all’art. 13 dispone il divieto di utilizzo come marchio individuale:
«Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa i segni privi di
carattere distintivo e in particolare:
[…]
b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi
o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio
possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la
provenienza geografica […]». Tale disposizione va letta in combinato con il comma 4
dell’art 11 del medesimo codice, che pone un’eccezione per i marchi collettivi53
:
«In deroga all'articolo 13, comma 1, un marchio collettivo può consistere in segni o
indicazioni che nel commercio possono servire per designare la provenienza geografica dei
prodotti o servizi. In tal caso, peraltro, l'Ufficio italiano brevetti e marchi può rifiutare, con
provvedimento motivato, la registrazione quando i marchi richiesti possano creare
situazioni di ingiustificato privilegio o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di altre
analoghe iniziative nella regione. L'Ufficio italiano brevetti e marchi ha facoltà di chiedere
al riguardo l'avviso delle amministrazioni pubbliche, categorie e organi interessati o
competenti. L'avvenuta registrazione del marchio collettivo costituito da nome geografico
non autorizza il titolare a vietare a terzi l'uso nel commercio del nome stesso, purché
questo uso sia conforme ai principi della correttezza professionale».
Si può profilare un ulteriore divieto qualora il marchio possa far insorgere la
credenza che il bene venga prodotto in un luogo differente da quello da cui in realtà ha
origine, insorgendo in tal modo il divieto di segni ingannevoli54
.
Pratiche ingannevoli a parte, il marchio collettivo può comunque essere carico di una
potenzialità lesiva per l’Ente qualora, per esempio, l’applicazione del nome di un Comune
ad un prodotto particolare getti discredito sull’amministrazione territoriale. Ciò può
derivare dalla natura del prodotto stesso, che tramite questa sua caratteristica riprovevole
offuschi o disonori la reputazione dell’Ente55
.
8. È stata un’ipotesi passata al vaglio del Tribunale di Roma56
, chiamato a
giudicare se la registrazione di un marchio commerciale di sigarette che aveva impiegato
un toponimo coincidente con il nome di un Comune (Capri) fosse lesivo del diritto al nome
dell’amministrazione pubblica locale. Nel caso di specie era stata una società americana
operante nel mondo del tabacco a brevettare tale marchio senza il consenso del Comune,
utilizzandolo poi in Italia. Capri accusava di veder il proprio nome associato ad un
prodotto universalmente riconosciuto nocivo. Il Tribunale, però, ritenne che tale forma di
collegamento non fosse produttivo di alcun danno all’immagine dell’isola, in quanto non
fosse stato provato concretamente il pregiudizio, nemmeno in via potenziale.
53
I soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o
servizi, possono ottenere la registrazione per appositi marchi come marchi collettivi ed hanno la facoltà di
concedere l'uso dei marchi stessi a produttori o commercianti. 54
M. RICOLFI, Diritto industriale. Proprietà industriale e concorrenza, Giappichelli, 2008, pp.89-90. 55
U. FRAGOLA, La commercializzazione del nome dei Comuni turistici, in L’amministrazione italiana, 1990,
11, p. 1594. 56
Sentenza 2 marzo 1993, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1993,
11.
52
Il Tribunale di Napoli57
, invece, fu investito di una causa tra un comune lucano che
intendeva aprire un sito internet con dominio la propria denominazione (nella specie
Rapolla.it) e un cittadino che possedeva un cognome omonimo e che lamentava, per questo
fatto, una lesione del proprio diritto individuale della personalità. I giudici partenopei
risolsero il conflitto a favore dell’Ente, posto l’assoggettamento dei domain names alla
disciplina dei marchi, richiamando la normativa in materia che stabilisce che «i nomi di
persona diversi da quello di chi chiede la registrazione possono essere registrati come
marchi purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha
diritto di portare tali nomi»58
, non ravvisando nel caso di specie che il fatto avesse leso il
prestigio del convenuto.
A differenza del regime strettamente civilistico, nel mondo commerciale, il diritto al
nome dell’Ente riceve una tutela soltanto parziale, non venendo esclusa tout court la
denominazione da qualsiasi utilizzo, ma ponendosi un divieto circoscritto alla concreta
lesione dell’onore e della reputazione; a vantaggio dell’esercizio dell’attività industriale, in
una logica liberista che sacrifica il diritto al nome davanti alle ragioni del commercio59
.
Fuoriuscendo dalla disciplina dei marchi e passando alla tutela generica
dell’immagine, il tribunale di Termini Imerese ebbe modo di riconoscere al Comune di
Corleone il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, anche per lesione del diritto
al nome, dovuta all’esercizio dell’attività mafiosa sul suo territorio che avrebbe in questo
modo infamato il nome del paese a livello internazionale.
Stesso diritto, per un caso differente, fu riconosciuto dal Tribunale di Trento ad un
comune montano per un disastro geologico-ambientale in Val di Stava causato dal
cedimento di un bacino idrico che aveva causato morti e distruzione del paesaggio, ledendo
così – secondo la corte territoriale – il prestigio dell’immagine e del nome dell’Ente locale,
anche intesi come capacità di attirare investimenti e turismo60
.
Passando alla giustizia amministrativa, il caso dell’Asti spumante rappresentò un
difficile intreccio di diritti di denominazione dei marchi commerciali.
A dire il vero a promuovere il giudizio era stata un’azienda vitivinicola sita nel
Comune di Asti, interessata a produrre lo spumante col marchio del Consorzio in una terra
che da disciplinare era esclusa61
. Alle tesi di questa si erano unite tanto il Ministero delle
Politiche agricole, quanto l’amministrazione comunale, ovviamente interessata a che il
noto vino che porta il nome della città di Alfieri potesse essere prodotto anche all’interno
dei propri confini.
La lunga vertenza che divise il mondo italiano del vino fu chiusa dal Consiglio di
Stato62
, che diede ragione ai resistenti produttori delle zone “classiche” (già peraltro
57
Sentenza 13 marzo 2003, in Foro italiano, 2003, 11, 3185-3186. 58
È il testo dell’art. 21 della legge sui marchi (R.D. 929/1942), ora abrogata. 59
Cfr. G. IVONE, Diritto alla denominazione marchio geografico¸ in Rivista del diritto commerciale e del
diritto generale delle obbligazioni, 1993, 11, 459-468. 60
Per un maggiore approfondimento su questo e su altri casi di lesioni al diritto al nome e all’immagine degli
Enti locali v. Reati ambientali e risarcimento agli Enti locali: il caso Solvay di Alessandria, in questo numero
di O.P.A.L. 61
Il disciplinare di produzione del Moscato d’Asti e dell’Asti d.o.c.g., infatti, non prevede, a dispetto del
nome, che tali vini possano essere prodotti anche nel territorio del Comune omonimo, rientrando soltanto
territori a sud della Provincia (all’incirca Nizza Monferrato e Canelli), più parti della Provincia di Cuneo e
Alessandria (grosso modo, Langhe e Aquese). 62
Cons. di Stato, 28/11/2013, n° 5691
53
vincenti in primo grado); col risultato che ad oggi l’Asti non può essere prodotto con quel
nome nel territorio del Comune omonimo.
9. Il caso del (fallito) referendum del Comune di Courmayeur ci ha permesso,
innanzitutto, di aprire un breve approfondimento storico sulle modificazioni delle
denominazioni di comuni e province in Italia, che, per varie ragioni, non sono state affatto
rare. Esposta sul tema la disciplina statutaria e legislativa della Regione autonoma Valle
d’Aosta, la si è confrontata con quella nazionale, addentrandoci nello specifico nell’ultima.
Abbiamo visto come, in varie pronunce, la Corte costituzionale abbia definito i contorni
dell’art. 133 Cost., sancendo come obbligatorio l’utilizzo del referendum consultivo fra le
popolazioni interessate alla modifica; vincolo anche per le regioni ad autonomia
differenziata e anche nel caso di mera integrazione.
Il quarto paragrafo, quindi, è stato dedicato a una digressione comparatistica sul
diritto al nome degli Enti locali in Germania. Si è passati per l’analisi di un caso su cui si è
era pronunciato nel 1982 il Tribunale costituzionale federale, il quale aveva definito il
nome dell’Ente un corollario del diritto costituzionale all’auto-amministrazione; per quanto
la modifica resti un potere dello Stato, che da tale “nucleo duro” risulta limitato.
Si è voluto spendere alcune parole anche sul diritto al nome della frazione
(individuato in una sentenza della Corte costituzionale) e sulla normativa circa gli stemmi
e i gonfaloni, espressione – assieme al nome – dell’immagine dell’Ente. A seguito
dell’entrata in vigore del T.U.E.L., pur rimanendo la loro approvazione inserita in un
procedimento ministeriale, essi rientrano appieno nella potestà statutaria del singolo Ente
locale.
Nel settimo paragrafo si è indagato, poi, sulla protezione che i nomi e gli stemmi
degli Enti pubblici godono nella disciplina dei marchi commerciali, scoprendo come il
Codice della proprietà industriale distingua tra marchi collettivi e marchi individuali,
consentendone, con precise modalità, l’utilizzo in un caso e non nell’altro.
In conclusione, si è esposta una rassegna di giurisprudenza che ha trattato di lesioni
ai diritti della personalità degli Enti pubblici territoriali, riconoscendo per essi la tutela e la
risarcibilità del diritto al nome, come proiezione della personalità giuridica.
Reati ambientali e risarcimento agli enti locali: il caso Solvay di
Alessandria di Matteo Porricolo
Parole chiave: reati ambientali, danno all’immagine, risarcimento, enti territoriali.
Riferimenti normativi: artt. 309, 311, 313 D. Lgs. 03/04/2006, n. 152, (Norme in materia
ambientale, “Codice dell’ambiente”); art. 439 codice penale; artt. 2043 e 2059 codice civile;
art. 18 Legge 08/07/1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell'ambiente e norme in materia
di danno ambientale).
Documenti processuali:
I verbali d’udienza del processo Solvay possono essere reperiti alla pagina di
www.penalecontemporaneo.it
54
Sta giungendo al termine la fase dibattimentale del procedimento penale relativo al
caso, purtroppo celebre, dell’inquinamento dello stabilimento Solvay di Spinetta Marengo
(Al).
Le indagini avevano preso il via nel 2008, dopo il rinvenimento da parte dell’A.R.P.A.
di sostanze tossiche in quantitativi abnormi nei terreni limitrofi al polo chimico, sito a
ridosso della frazione alessandrina. Di lì, nell’approfondirsi delle indagini, è emersa pian
piano la realtà dei fatti in tutta la sua drammaticità: terreni e acque di falda inquinati,
contenenti per lo più cromo esavalente, cloroformio, DDT e metalli pesanti (antimonio,
arsenico, nichel), tutti con soglie oltre i limiti consentiti dalla legge; ma, soprattutto,
centinaia di casi di malattie e morti per gli ex operai e per molti residenti nell’abitato.
Per questo sono stati rinviati a giudizio, con imputazioni differenti, otto alti dirigenti
(amministratori delegati e membri del C.d.A., responsabili e direttori dello stabilimento)
delle due società che si sono succedute nella guida del polo industriale: Ausimont (Gruppo
Montedison) e dal 2002 Solvay Solexis.
Su di loro graverebbero in particolare, secondo l’impostazione dell’accusa, due capi
d’imputazione: l’avvelenamento di acque (art. 439 c.p.), dovuto alla realizzazione illegittima
di discariche di sostanze nocive e avendo cagionato, per omessa manutenzione della rete
idrica interna, enormi perdite che hanno dilavato le sostanze inquinanti presenti negli strati
superficiali del terreno e che hanno raggiunto poi i livelli più profondi della falda acquifera
sottostante che, di conseguenza, ha sparso gli inquinanti nel circondario. Il P.M. accusa poi
gli imputati di mancata bonifica del sito (art. 257 del d. lgs. 3.4.2006 n. 152), poiché non
avrebbero provveduto a bonificare il terreno e le acque a norma degli art. 239 e ss. del
medesimo decreto legislativo; omettendo di segnalare - in seno alla Conferenza di servizi
istituita ai fini della suddetta procedura di risanamento - agli enti pubblici competenti (in
questo caso Provincia e Comune) la reale situazione dell’inquinamento del sito industriale,
tramite comunicazioni di dati falsati o incompleti e omettendo di realizzare opere destinate a
eliminare, o quanto meno ridurre, la contaminazione.
La rappresentazione dei fatti è allibente se si pensa che, non solo le sostanze tossiche
avrebbero raggiunto (il condizionale è d’obbligo in questa fase, in ossequio al principio di
presunzione d’innocenza) i tanti pozzi presenti nelle zone limitrofe ad uso domestico e
agricolo (da alcuni dei quali preleva anche l’acquedotto che fornisce la città di Alessandria),
ma agli operai stessi dell’azienda sarebbe stata fornita dai rubinetti, dalle macchinette
automatiche per l’erogazione delle bevande e alle mense direttamente l’acqua proveniente
dalla falda sottostante. Ciò sarebbe avvenuto anche nei confronti di tanti residenti
dell’abitato di Spinetta, che da anni erano legati con la Solvay (già Montedison) con un
contratto di fornitura di acqua (separata dalla rete comunale) che traeva dalla medesima
falda che la Montedison avrebbe al contempo inquinato.
Il risultato è stato un danno ambientale non definitivamente in quantificabile. Per la
totale bonifica ci vorranno anni: fertili terreni agricoli e importanti falde freatiche della
pianura alessandrina inquinati da sostanze tossiche e, soprattutto, innumerevoli casi di
tumori e leucemie, spesso sfociati in decessi. Spetterà, quindi, innanzitutto alla Corte di
Assise di Alessandria giudicare le responsabilità .
Di fronte a tutto ciò come hanno agito gli Enti territoriali coinvolti?
La scelta del Comune e della Provincia di Alessandria è stata quella di costituirsi parte
civile nel processo penale, a fianco delle tante vittime persone fisiche, dei sindacati, del
Ministero dell’ambiente e delle associazioni a tutela dell’ambiente (in primis, WWF e
Legambiente). Costituzione che è stata contrastata dalle difese degli imputati e dei
55
responsabili civili per vari motivi e per i quali entriamo ora nella disamina del tema in
oggetto.
Il codice dell’ambiente, rectius “Norme in materia ambientale”, è stata approvato col
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, di recepimento della direttiva europea 2004/35/CE
sulla responsabilità ambientale.
In esso è contenuto un drastico cambiamento in merito alla legittimazione ad agire per
il risarcimento del danno ambientale. Nella previgente legge 349/1986, all’art. 18, comma 3,
- abrogato dalla nuova normativa - era contemplato che, oltre allo Stato, potessero agire
anche gli Enti territoriali sui quali avesse inciso il fatto lesivo.
Nel nuovo codice dell’ambiente tale possibilità è venuta meno, avendo accentrato nel
Ministero dell’ambiente la titolarità dell’azione e avendogli riconosciuto il ruolo di unico
attore per la cura dell’interesse pubblico alla tutela e al risarcimento del danno ambientale. 63
In particolare, l’art. 311, 1° comma, stabilisce che: «Il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio agisce, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il
risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente
patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente
decreto.»
Secondo la relazione illustrativa al codice, con tale intervento si è voluto impedire «il
fenomeno del proliferare delle iniziative giudiziarie mosse per lo stesso fatto di danno
ambientale e nei confronti dello stesso operatore responsabile da una pluralità di enti, lo
Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, i consorzi, ecc e dalle
associazioni non governative, nonché da singoli cittadini danneggiati personalmente»; e si
continua dicendo che «soltanto queste ultime iniziative dei cittadini singoli sono state,
ovviamente, conservate, mentre tutte le figure pubbliche e associative diverse dallo Stato
vengono rese destinatarie soltanto di un compito di immediata segnalazione dell’esistenza
del danno ambientale al Ministero».
Tale mossa è stata criticata dalla dottrina come un evidente arretramento della tutela,
nonché una violazione del principio di sussidiarietà; anche se non sono mancati plausi per il
merito di aver garantito in questo modo unità di prassi e indirizzi.64
Unico margine che residua per gli enti diversi dallo Stato, oggi privi della facoltà di
agire iure proprio, sembra essere lasciato dal codice all’art. 309 nel “potere di impulso” al
procedimento ministeriale per l’adozione di misure di precauzione, prevenzione e ripristino,
coi correlati poteri di presentazione di denunce e osservazioni, verso le quali il Ministero è
tenuto a rispondere.
L’intervento normativo non ha comunque vietato a regioni, enti locali e associazioni
esponenziali di difendere il diritto al risarcimento secondo le norme civilistiche comuni.
E’ quanto si desume dall’art. 313 comma 7, secondo periodo, del codice dell’ambiente
laddove stabilisce: «Resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto
produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in
giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi.»
In tal senso si è pronunciata pure la Corte di Cassazione, secondo cui la nuova
normativa speciale si affianca, non sostituendo, la disciplina del danno prevista dal codice
civile, consentendo così di agire iure proprio ai soggetti che abbiano direttamente subito un
63
A. BUONFRATE, Codice dell'ambiente e normativa collegata, Utet, 2008, p. 330. 64
A. BUONFRATE, cit., p. 331.
56
danno, ulteriore e diverso da quello generico di natura pubblica (ribadendo, dopo il 2006
riservato al Ministero). 65
I richiami che la giurisprudenza successiva al mutamento legislativo compie sono in
gran parte rivolti all’art. 2043 comma, ossia al danno di natura patrimoniale: «la
legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non soltanto
al ministro dell’ambiente […], ma anche all’ente pubblico territoriale (come la provincia) e
ai soggetti privati che per effetto della condotta illecita abbiano subito un danno
patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.» 66
Oltre ai danni diretti ai beni dei proprietari, anche il danno patrimoniale per gli Enti è,
in effetti, una conseguenza possibile se si considera che essi possono dover sostenere costi
qualora provvedano a proprie spese al ripristino dello status quo ante o quantomeno a
misure di contenimento.
Quid iuris, invece, in caso di un lamentato danno di natura non patrimoniale? E’
configurabile in capo alla persona giuridica, nella specie all’ente territoriale? E, ancora più
restringendo il campo, può essere concepito come derivante da un danno ambientale relativo
al territorio dell’Ente?
Secondo il codice civile, il danno non patrimoniale è risarcibile solo nei casi previsti
dalla legge (art. 2059), cioè è tipico, al contrario del danno patrimoniale ex art. 2043, che è
atipico.
Una delle più tipiche fonti del danno non patrimoniale è il reato: «Ogni reato, che
abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il
colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui»
(art. 185 c.p.).
Col tempo la giurisprudenza, su indicazione della Corte costituzionale67
, ha esteso tale
forma di risarcimento a tutti quei casi in cui siano stati lesi diritti costituzionalmente
garantiti, intesi come valori fondamentali della persona tutelati dalle disposizioni
immediatamente precettive della Carta costituzionale, come i diritti alla reputazione, al
nome, all’immagine, alla riservatezza.68
Il danno non patrimoniale, nella forma di danno alla salute, ovviamente esclusivo delle
persone fisiche, resta tale anche secondo il Codice dell’ambiente ed è oggetto della garanzia
costituzionale del diritto alla salute.
65
Cass. pen., sez. III, 17.1.2012 n. 19439, in Guida al diritto, 2012, 37, 80, in cui si legittimavano le
associazioni ambientaliste a richiedere non solo il danno patrimoniale (dovuto, ad es., ad esborsi per
sostenere l’attività di tutela), ma anche morale. 66
Cass. pen., sez. III, 12.1.2012, n. 633, in www.dirittoambiente.net.
Già così Cass. pen., sez. III, 27.5.2011 (Ud. 13.4.2011), n. 21311, in Riv. giur. Ambiente, 2011, 6, 815: <<tutti
gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, sono legittimati ad
agire, ex art. 2043 cc, per ottenere qualsiasi risarcimento del danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che
abbiano dato prova di avere subito dalla medesima condotta lesiva dell'ambiente in attinenza alla lesione di
altri loro diritti patrimoniali, diversi dall'interesse pubblico e generale alla tutela dell'ambiente.>>.
Conformi Cass. pen, sez. III, 21.10.2010 n. 41015, in Cass. Pen. 2011, 7-8, 2763 e Cass. pen., sez. III,
28.10.2009, n. 755 in Guida al diritto 2010, 9, 85 (laddove era stata riconosciuta la legittimazione di una
provincia a costituirsi parte civile in un processo per il reato di gestione non autorizzata di rifiuti ex art. 256
d.lgs. 152/2006). 67
Corte cost. 11.7.2003, n. 233, in www.giurcost.org. 68
Fra tutte, Consiglio di Stato, sez. IV, 05.09.2013, n. 4464, in www.giustizia-amministrativa.it e Cassazione
civile, sez. lav., 24.05.2010, n. 12593, in Giust. civ. Mass. 2010, 5, 800.
57
E appena il caso di ricordare che la giurisprudenza è pressoché pacifica nel ritenere
oramai estendibili anche alle persone giuridiche i diritti della personalità, in particolare il
diritto all’immagine anche degli enti locali.
Secondo la Cassazione: «allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è
risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, il danno non patrimoniale costituito –
come danno cd. conseguenza – dalla diminuzione della considerazione della persona
giuridica o dell'ente in cui si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza
negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano gli
organi della persona giuridica o dell'ente e, quindi, nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo
della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o
categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca.»69
La pronuncia citata, che si inserisce in un solco già tracciato da alcuni anni70
, si
riferiva però ad un caso di persone giuridiche private, nella specie società commerciali, per
le quali si può compiere un’opera di estensione analogica.
La tutela del prestigio e dell’immagine della Pubblica amministrazione è ovunque
esigenza sentita e tutelata anche dall’art. 54 della Costituzione71
, ma la problematica è
sempre stata affrontata principalmente nell’ottica del fatto dell’intraneo, legato a rapporti di
dipendenza con la P.a., che col proprio operato delittuoso getta discredito sull’immagine
dell’amministrazione da cui dipende.
Sul tema si registra un’ampia giurisprudenza della Corte dei Conti, la quale così si è
pronunciata: «Lo Stato e gli altri enti pubblici rappresentativi della comunità si
caratterizzano in modo specifico, rispetto a tutte le altre persone giuridiche, per essere posti
a tutela degli interessi fondamentali della comunità […]. L’organizzazione di questi enti è
poi caratterizzata da principi costituzionali cogenti, che determinano la struttura e l’attività
degli organi e degli uffici.
L’immagine pubblica si connota, pertanto, in modo peculiare. La sua lesione è
determinata essenzialmente da comportamenti contrari ai principi fondamentali di
organizzazione e di azione costituzionalmente rilevanti, comportamenti (oggetto anche della
specifica previsione dell’art. 54 Cost.) che possono essere tenuti nella generalità dei casi da
chi deve porre in essere i moduli organizzativi e l’attività della P.A. » 72
Sempre per la Corte dei Conti73
«è evidente, cioè, nell’ambito del rispetto
dell’immagine ed identità personale, l’interesse costituzionalmente garantito che le
competenze individuate vengano rispettate, le funzioni assegnate vengano esercitate, le
responsabilità proprie dei funzionari vengano attivate».
All’interno della corrente che ammette lesioni d’immagine della Pubblica
amministrazione da parte del solo dipendente, si distingue ancora il pensiero di chi ritiene
69
Cass. civ., sez. I, 11.08.2009, n. 18218, in Dir. maritt., 2011, 2, 443.
Principio affermato dalla S.C. in una fattispecie in cui una società, senza ottenere il consenso dell'avente
diritto e senza pagare il corrispettivo dovuto, aveva indebitamente riprodotto nel proprio calendario
l'immagine e la denominazione di un'imbarcazione altrui, usata a fini agonistici o come elemento di richiamo
nell'ambito di campagne pubblicitarie o di sponsorizzazione, inserendo nella vela il proprio marchio.
Conforme a Cass. civ., sez. III, 4.6.2007, n. 12929, in Lavoro nelle p.a., 2008, 3-4, 618. 70
Anche la giurisprudenza amministrativa è concorde (v., ad es., Consiglio di Stato, 12.02.2008, n. 491, in
Foro amm. CDS, 2008, 2, I, 465). 71
Si vedano M. DIDONNA, Il danno all’immagine e al prestigio della P.a. nella prospettiva dell’attuale
giurisprudenza, in Il Corriere Giuridico, 2012, 11, p. 1307 e ss
e, per uno studio più approfondito, l’opera monografica W. CORTESE, La responsabilità per danno
all'immagine della pubblica amministrazione, Cedam, 2004. 72
Corte dei Conti, sez. I, 30.10.2003, n. 340, in Riv. Corte Conti, 2003, 5, 63.
V. anche COMMA Conti, sez. II, 31.3.2008, n. 106, in Lavoro nelle p.a., 2008, 3-4, 622. 73
Sentenza della Corte dei Conti, sez. riunite, n. 10, 23.04.2003, in Resp. civ. e prev., 2003, 1131.
58
che tale lesione possa derivare solamente da reati dei Pubblici ufficiali contro la P.a., da
quello di chi sostiene che invece possa scaturire anche da un reato comune (ma comunque
commesso dall’intraneus). 74
Nella recente sentenza n. 4542/2012 della Cassazione75
veniva riconosciuto che
potessero essere lesi i diritti immateriali della personalità di Ente territoriale - nella specie un
Comune - (quindi compatibili con l’assenza di fisicità della persone giuridiche), quali i diritti
all’immagine, alla reputazione, all’identità storica, culturale e politica costituzionalmente
protetti (artt. 2, 5, 114, 118 Cost.) e che in tal caso darebbero azione per il ristoro del danno
subito. V’è da dire, però, che in tale pronuncia si parlava di responsabilità contrattuale (nella
specie, il Comune aveva chiesto i risarcimenti ad una impresa che male aveva realizzato
l’opera di cui era stata incaricata).
Per citare, invece, casi originanti da responsabilità aquiliana, si possono riportare
alcuni esempi di danni ambientali connessi a tragedie umane.
A seguito del tristemente noto disastro del Vayont (9 ottobre 1963) il Comune di
Castellavazzo (BL) aveva agito in sede civile contro la Montedison per l’immane catastrofe
avvenuta a causa dell’esondazione del bacino idrico. All’esito del giudizio, recependo
l’avviso della Consulta sulla lettura del sistema di responsabilità civile alla luce delle
posizioni soggettive costituzionalmente protette, la Cassazione76
aveva statuito che: «nel
caso di specie, non vi è dubbio che il disastro del Vayont, costituente fatto di reato di enorme
gravità, per il numero delle vittime e per le devastazioni ambientali dei centri storici, abbia
determinato (come fatto-evento) la lesione del diritto costituzionale dell'ente territoriale
esponenziale (il comune) alla sua identità storica, culturale, politica, economica,
costituzionalmente protetta (cfr. artt. 114 Cost.). Sussiste dunque la prova della lesione della
posizione soggettiva costituzionalmente protetta e l'ente ha legittimazione piena e titolo ad
esigere il risarcimento del danno.»
Un caso simile era avvenuto in Val di Stava, dove il 19 luglio 1985 cedettero i bacini
di decantazione di una miniera scaricando fango e detriti nella valle sottostante e
provocando la morte di 268 persone. Il Comune di Tesero (TN) aveva lamentato un danno
morale come conseguenza del fatto, che il Tribunale di Trento gli riconobbe, in data 10
giugno 200277
, a carico, ancora una volta, della Montedison.
La tragedia, secondo i giudici di merito, avrebbe creato una sorta di collegamento
istintivo e negativo al fatto storico, che avrebbe compromesso la reputazione turistica del
paese, nonché il diritto del Comune alla propria identità personale, al nome e all’immagine.
Diritti costituzionalmente garantiti che possono giustificare, come si è detto, anche nella
persona giuridica un danno morale.
Non di danni ambientali si trattava, ma di una gravissima piaga del nostro paese, nella
sentenza del Tribunale di Termini Imerese78
in cui si ammetteva il danno morale patito dal
Comune di Corleone per l’attività mafiosa esercitata sul suo territorio.
Ancora una volta si è ritenuto, dunque, che -nei casi in cui vi sia una lesione di diritti
sanciti dalla Costituzione- si debba riconoscere tale risarcibilità anche allorché si verifichi la
lesione di un diritto della persona giuridica. «In quest'ottica si deve affermare la risarcibilità
della lesione dello stesso diritto all'esistenza nell'ordinamento come soggetto, del diritto
74
Cortese W, cit. 75
Cass. civ., sez. III, 22.03.2012, n. 4542, in Giust. civ. Mass., 2012, 3, 377. 76
Cass. civ., sez III, 15.4.1998, n. 3807, in Giur. It., 1999, 2270. 77
Trib. Trento, 10.06.2002, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 2004, n. 3-4. 78
Trib. Termini Imerese, 8.2.2011, n. 32, con commento di A. Cisterna, in Guida al diritto, 9 aprile 2011, n.
15, pp. 42-44.
59
all'identità, del diritto al nome e del diritto all'immagine. Tale risarcibilità prescinde dalla
verificazione di eventuali danni patrimoniali conseguenti. Per tali diritti, che rappresentano
l'equivalente -in relazione alla persona giuridica o all'ente collettivo- dei diritti della persona
fisica aventi fondamento diretto nella Costituzione e precisamente nell'art. 2 Cost., si impone
il riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale in ragione di una espressa
previsione della stessa norma costituzionale dell'art. 2 Cost., che riconosce i diritti inviolabili
dell'uomo, cioè della persona fisica, anche nelle formazioni sociali. Per ciò che attiene agli
enti locali, peraltro, va sottolineata la loro particolare posizione sancita nell'art. 5 e nell'art.
114 della Costituzione, che valorizzano le autonomie locali, di cui va pertanto tutelata
l'identità storica, culturale e civile».
Nella vicenda non v’era dubbio che gli efferati crimini commessi dai mafiosi avessero
leso la reputazione della città di Corleone nell’opinione pubblica nazionale e internazionale
e, al contempo, avessero violato l'identità della medesima città, finendo per creare un clima
di pesante intimidazione e di paura.
Ben più curioso è stato il caso definito nel 2008 dalla III Sezione della Corte di
Cassazione79
: per un reato di violenza sessuale nei confronti di una cittadina, fu riconosciuto
il diritto del Comune a costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento, da un lato, del
danno economico diretto per le diminuzioni patrimoniali subite dagli organi comunali
predisposti per alleviare i traumi delle vittime di abusi sessuali e, dall'altro, del danno morale
per la lesione dell'interesse statutariamente perseguito di garantire la libertà
d'autodeterminazione sessuale della donna e la pacifica convivenza nell'ambito comunale.
Sempre in questa direzione, nello stesso anno, la medesima sezione80
ammetteva la
costituzione di parte civile di una provincia, richiamando una precedente pronuncia81
che
aveva statuito che «la violazione del divieto di cacciare con mezzi vietati comporta danno
all'immagine della Provincia cui compete il dovere di assicurare il corretto esercizio della
caccia».
Tornando poi ai temi ambientali, nella sentenza della Corte di cassazione n° 1145 del
30 ottobre 200182
(quindi pre Codice) si è affermata la risarcibilità del danno all'immagine
dell'ente territoriale solo qualora sia stato concretamente accertato il suddetto danno
ambientale (si trattava di violazione della normativa sui rifiuti), al quale si collega, come
aspetto non patrimoniale, la “menomazione del rilievo istituzionale dell'ente”.
Lo stesso principio era già stato affermato nel lontano 199283
, quando si ritenne danno
non autonomamente risarcibile la lesione all’immagine dell’ente territoriale, derivante dalla
commissione di reati ambientali (anche in quel caso si trattava di smaltimento rifiuti) che
avessero compromesso il prestigio dell’attività dell’amministrazione concernente i compiti
di gestione e controllo propri dell’ente. Il risarcimento sarebbe dovuto essere corrisposto
solo in caso di accertato danno ambientale, cui fosse connessa la menomazione del rilievo
istituzionale.
Chiudiamo questa disamina con un caso di inquinamento altrettanto celebre, il
petrolchimico di Malghera (VE).
Nel 2012, a dieci anni di distanza dalla conclusione dei procedimenti penali per gli
scarichi inquinanti in Laguna e per le conseguenti morti degli operai, il Tribunale di
Venezia84
ha condannato la Syndial, società del gruppo ENI, a pagare alla Provincia di
79
Cass. pen., sez. III, 19.6.2008, n. 388835, in Cass. Pen., 2010, 1541. 80
Cass. pen., sez. III, 17.3.2008, n. 11752, in Cass. Pen. 2009, 6, 2611. 81
Cass. pen., sez. III, 01.10.2002, n.. 35868, in Cass. Pen., 2003, 3157. 82
Cass. pen., sez. III, 30.10.2001, n. 1145, in Cass. Pen. 2002, 3859. 83
Cass. pen., sez. III, 19.3.1992, in Riv. pen., 1993, 607. 84
Trib. Venezia, 5.4.2012, in www.personaedanno.it.
60
Venezia la somma di 700.000 €: «Il danno […], patito dalla collettività della provincia di
Venezia, anche non patrimoniale, viene sicuramente ravvisato non solo e non tanto nel
danno all’immagine - che la Provincia ha ricevuto dalla condizione attrazione turistica, e
che deve fare i conti con pesanti ricadute sulla salubrità dell’ambiente - ma anche nel
danno derivante dal pesante fattore di rischio che la contaminazione ha causato sulle
prospettive di salute dei suoi cittadini e dal peso sociale di tali ricadute, anche in termini di
risorse che la comunità locale dovrà investire e destinare nel futuro, avendo il fattore
inquinante già prodotto i suoi effetti dannosi in ambito locale e quindi non risultando
suscettibile di bonifica».
Conclusa questa disamina, occorre chiarire i dettagli del caso Solvay. All’interno di
questo quadro normativo e giurisprudenziale che abbiamo sin qui esposto si sono dovuti
muovere i due Enti territoriali coinvolti: il Comune e la Provincia di Alessandria.
Il Comune ha lamentato, innanzitutto, un danno di immagine all’Ente locale derivante
dalla condizione di pregiudizio e degrado del territorio causato dagli imputati. Tale forma di
danno si sarebbe manifestata sotto un duplice aspetto: nella perdita di appeal, come capacità
di attrarre iniziative economiche e insediamenti umani, e - secondo aspetto - nella
compromissione dell’immagine dell’Ente nell’esercizio della sua azione amministrativa.
In più avrebbe subito danni di natura patrimoniale in quanto avrebbe svolto un’attività
amministrativa diversa e maggiore rispetto a quella che avrebbe compiuto in assenza delle
condotte incriminate.
Si è ritenuto, poi, che il Comune potesse stare in giudizio per il ristoro dei danni
patrimoniali subiti dall’AMAG, sua partecipata, per il costo dello scavo di pozzi e per il
monitoraggio della qualità dell’acqua emunta da tali pozzi.
La Provincia, invece, richiede alla Corte che sia riconosciuto il suo patito danno nella
forma di lesione all’immagine e di lesione alla sfera funzionale istituzionale; per il vulnus
recato al prestigio di tale pubblica amministrazione territoriale e per la compromissione della
propria funzione di “tutela e valorizzazione dell’ambiente”, di cui all’art. 19, I comma, lett.
A) D.Lgs. n. 267/2000 T.U.E.L.
Secondo l’avvocatura provinciale le alterazioni dell’ambiente, specie se di rilevanti
dimensioni come quelle in oggetto, determinano un allarme sociale che provoca un
“appannamento” dell’immagine dell’Amministrazione pubblica, la cui azione rischia di
apparire al cittadino inadeguata, inefficiente e insufficiente.
Correttamente, loro malgrado, non hanno richiesto voci di danno “ambientale”, per il
quale ha agito il Ministero dell’Ambiente, anch’esso costituitosi in giudizio, ai sensi del
D.lgs. 152/2006.
Già il G.U.P. aveva rigettato la richiesta di esclusione delle costituzioni di parte civile
dei due Enti succitati, sollevata dalle difese degli imputati e dei responsabili civili,
argomentando che agli Enti pubblici territoriali la legittimazione ad agire deriva dal rapporto
di immedesimazione con il territorio che li rende esponenziali della collettività, in quanto
titolari di specifiche competenze in materia di salvaguardia del patrimonio ambientale.
Le difese, nel successivo processo pendente davanti alla Corte di Assise, hanno
criticato tale impostazione, poiché secondo loro non sarebbe sufficiente a fondare la
legittimazione la titolarità astratta delle funzioni, se non si dimostrano in concreto i
pregiudizi subiti. Il danno non patrimoniale, come danno-conseguenza, sarebbe pienamente
soggetto ai normali oneri di allegazione e prova che caratterizzano la domanda risarcitoria
civile.
61
Esse si oppongono a qualsiasi richiesta di danni patrimoniali, in quanto il Comune non
avrebbe subito alcune forma di diminuzione di natura economica.
Quanto ai danni di immagine richiesti dai due Enti territoriali, le controparti ribattono
sostenendo la tesi, prima menzionata, che ai fini della sussistenza di tale tipo di danno siano
necessarie condotte criminose compiute da un proprio dipendente o funzionario,
nell’esercizio delle proprie funzioni.
Nel momento in cui si scrive è in corso la requisitoria del Pubblico ministero e
prossime saranno le conclusioni delle parti civili; entro l’autunno si aspettano gli interventi
conclusivi delle difese. Attendiamo quindi per il prossimo anno la sentenza, cui spetta, per
questo caso difficile, far luce e far giustizia.
L’articolo 5 del “Piano Casa” del governo Renzi. Un dubbio
bilanciamento tra esigenze di legalità e diritto alla casa di Elena Ponzo
85
Sommario:
1. “Piano casa” Renzi-Lupi: un focus sull’articolo 5 – 2. Le singole misure di
contrasto alle occupazioni abusive di immobili e i rispettivi profili di illegittimità
costituzionale – 2.1. L’impossibilità di richiedere e ottenere la residenza – 2.2. Il divieto di
allacciamento ai pubblici servizi – 2.3. L’esclusione quinquennale dalle procedure di
assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica – 2.4. L’ambito di applicazione del
provvedimento – 3. Note conclusive: il perseguimento della legalità nell’attuazione del
diritto all’abitazione pone in pericolo la democraticità dell’ordinamento?
1. Il “Piano casa” Renzi-Lupi: un focus sull’articolo 5
Con il riemergere di una nuova “questione abitativa”86
, i governi che si sono succeduti
negli ultimi anni si sono trovati di fronte alla necessità di porre in essere interventi normativi
orientati a disciplinare particolarmente due situazioni tipiche: una riguardante l’emergenza
abitativa vissuta da soggetti costretti stabilmente in condizioni precarie o di grave
sovraffollamento; l’altra focalizzata sulla crescente domanda di accesso agli alloggi di
edilizia residenziale pubblica da parte di nuove categorie sociali in difficoltà, che non
riescono ad accedere a un’abitazione dignitosa fruendo delle normali condizioni offerte dal
mercato, come giovani coppie, famiglie monoreddito, disoccupati o inoccupati, immigrati.
Nelle politiche volte ad attuare il “diritto all’abitazione” tradizionalmente si
ricomprendono anzitutto quei provvedimenti orientati a favorire l’accesso alla casa mediante
85
Già pubblicato su «Costituzionalismo.it», settembre 2014. 86
Per un’indagine dettagliata sulla questione abitativa in Italia e sulle politiche intraprese si rinvia al
documento predisposto dall’A.N.C.I. intitolato I Comuni e la nuova questione abitativa. Le nuove domande
sociali, gli attori, e gli strumenti operativi, Seconda Edizione Febbraio 2010, in particolare pp. 5-53, nonché
gli atti del Convegno Una casa per tutti. Abitazione sociale motore di sviluppo, tenutosi a Roma il 30
novembre 2011, consultabile sul sito www.federcasa.it. Per un approfondimento statistico e sociologico sul
punto, anche in ottica sovranazionale, si raccomanda la lettura di F. INDOVINA, Appunti sulla questione
abitativa oggi, in «Archivio di studi urbani e regionali», n. 82, 2005, consultabile su www.astrid-online.it. Per
una più ampia indagine generale sulla povertà in Italia si rinvia ai Rapporti annuali sulle politiche contro la
povertà e l’esclusione sociale, della Commissione di indagine sull’esclusione sociale (C.I.E.S.), consultabili
su www.governo.lavoro.it
62
forme alternative alla proprietà, quali la locazione di immobili a prezzi calmierati o
assegnazione di alloggi pubblici, ispirate all’idea di fondo della funzionalizzazione del
diritto privato87
. In secondo luogo rientrano nel novero di tali politiche sociali le misure di
agevolazione all’acquisto dell’abitazione per le categorie di soggetti meno abbienti ed
esposti al rischio di carenza abitativa88
.
Le recenti politiche abitative89
risultano, in generale, permeate da una nuova tendenza,
in sostanziale discontinuità rispetto al passato, quando gli interventi pubblici a garanzia del
87
L’art. 42 della Costituzione impone alla legge di riconoscere e garantire la proprietà privata, perseguendo
lo scopo di assicurarne la funzione sociale e l’accessibilità a tutti: il diritto di proprietà deve quindi essere
sempre bilanciato con la sua funzione sociale e con l’emersione di interessi diversi da quelli proprietari
altrettanto meritevoli di tutela. Nonostante le polemiche inerenti l’uso sociale della proprietà scaturite intorno
agli anni Settanta del Novecento, nel dibattito dottrinale è emerso, infine, che tra il diritto di proprietà e il
diritto all’abitazione debba prevalere quest’ultimo ogni volta che non sia possibile un soddisfacimento di
entrambi. I pubblici poteri, dunque, sono legittimati a porre limitazioni della proprietà privata e alle facoltà a
essa inerenti al fine di tutelare il diritto alla casa, ricorrendo eventualmente all’istituto dell’espropriazione per
pubblica utilità con l’acquisizione da parte dei comuni dei suoli da destinare all’edilizia residenziale
pubblica, oppure a strumenti quali il blocco degli affitti o il regime dell’equo canone. In tal senso T.
MARTINES, Il «diritto alla casa», in Opere, Tomo IV: Libertà e altri temi, Milano, Giuffrè, 2000, p. 15. Sul
punto, si rinvia altresì a D. SORACE, A proposito di «proprietà dell’abitazione», «diritto all’abitazione» e
«proprietà (civilistica) della casa», in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, Giuffrè, 1977, vol. III,
pp. 1035 ss. 88
In realtà il disagio abitativo e la necessità di intervenire con misure a sostegno di soggetti economicamente
svantaggiati per la ricerca di un’abitazione non costituisce una novità nel nostro Paese. Basti in questa sede
citare a titolo esemplificativo i provvedimenti di “blocco” dei canoni di locazione e proroga dei contratti
stipulati prima del 1 marzo 1947, intervenuti tra gli anni 1947-1960, per favorire la ripresa economica delle
famiglie nel dopoguerra, fino ad arrivare alla Legge organica sulle locazioni di immobili urbani (c.d. Legge
sull’equo canone, n. 392 del 1978). In questo, come negli altri casi, si è sempre o quasi trattato tuttavia di
interventi monofunzionali, come, per l’appunto, la tutela dei conduttori di immobili in difficoltà post bellica.
Merita invece una particolare menzione il programma settennale (poi prorogato di altri sette anni)
denominato “Piano INA Casa”, elaborato dall’allora Ministro Amintore Fanfani, che prese il via con la legge
n. 43 del 1949, ricordato come uno dei momenti di maggiore sviluppo delle politiche abitative: l’ambizioso
progetto prevedeva la costruzione di abitazioni per i lavoratori, al fine anche di rilanciare l’economia
nazionale con l’applicazione delle teorie keynesiane, attraverso un sistema di finanziamenti provenienti da
prelievi sugli stipendi, suddivisi tra lavoratori e datori di lavoro, integrati da un contributo statale. In questo
caso, la tendenza fu quella di privilegiare la proprietà dell’abitazione mediante la promozione del riscatto
degli alloggi costruiti, secondo un piano di dismissione del patrimonio abitativo pubblico. Per un
approfondimento e contestualizzazione si rinvia a P. DI BIAGI (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano
INA-Casa e l’Italia degli anni Cinquanta, Donzelli, Roma, 2001. Per un approfondimento sulla
classificazione dei tipi di politiche per la casa si rinvia a S. CIVITARESE MATTEUCCI, L’evoluzione della
politica della casa in Italia, in «Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico», n. 1, 2010, pp. 168-169. 89
Il primo tentativo di affrontare in modo organico il tema del disagio abitativo si è avuto con la legge n. 9
del 2007 contenente Interventi per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali. Tali
iniziative consistevano, da un lato, in misure a favore degli inquilini in difficoltà in seguito a un
provvedimento di sfratto per finita locazione, aventi come corrispettivo la previsione di benefici fiscali a
favore dei proprietari; dall’altro lato, nella previsione di un piano straordinario triennale sulle politiche
abitative con l’obiettivo di predisporre le linee guida di un programma nazionale di edilizia residenziale
pubblica, ispirato all’idea di fornire alloggi a canone sociale anche attraverso l’acquisizione e il recupero di
alloggi già esistenti, la riqualificazione dei territori degradati, nel rispetto del principio di leale collaborazione
tra Stato ed Enti locali. L’art. 11 della Legge n. 133 del 2008, proseguendo nell’intento di predisporre un
“piano nazionale di edilizia abitativa”, si poneva il fine di garantire su tutto il territorio i livelli essenziali di
fabbisogno abitativo. A tale scopo, questa disposizione provvedeva alla costruzione di alloggi a vantaggio di
particolari categorie sociali, aggiungendo, rispetto alla precedente legge, un’elencazione dettagliata dei
soggetti a cui il Piano era rivolto. Anche in questo caso, gli interventi previsti possono essere ricondotti
sinteticamente alla costruzione di alloggi da destinare sia alla proprietà quale prima casa, sia in locazione a
canone sostenibile o sociale. Per un excursus sulle varie politiche per la casa, S. CIVITARESE MATTEUCCI, op.
cit., pp. 163-210; per le politiche abitative più recenti, specialmente a livello regionale, P. VIPIANA, La tutela
del diritto all’abitazione a livello regionale, in «Federalismi.it», n. 10, 2014.
63
diritto all’abitazione si presentavano come settoriali e monofunzionali. L’idea comune ai c.d.
“Piani Casa” è quella di rilanciare l’attività edilizia per favorire la ripresa economica,
perseguendo al contempo la soluzione della grave crisi abitativa sofferta da larghe fasce di
popolazione. Emerge quindi una doppia funzione nei vari provvedimenti sinora adottati: da
un lato, recuperare immobili fatiscenti e zone degradate e inutilizzabili nonché rilanciare
contestualmente il settore edile in un momento di grave crisi economica; dall’altro,
realizzare il fondamentale diritto sociale alla casa a favore di categorie svantaggiate90
.
Questa doppia funzione è stata da taluni enfatizzata come un punto di forza: l’idea di
utilizzare i fondi a disposizione come leva per un più ampio coinvolgimento di capitali,
anche privati, avrebbe potuto coniugare la doppia natura che da sempre permea il bene casa,
ossia quella di “bene sociale” e quella di “bene economico”. Secondo altri, invece, è stata la
causa di un nuovo fallimento dell’edilizia residenziale pubblica: la scarsità dei meccanismi
di controllo predisposti, lasciati alla successiva attuazione dei programmi, nonché l’esiguità
dei finanziamenti messi in campo, non hanno fatto che accentuare la percezione di mancata
realizzazione di quella che fin da subito poteva apparire come una chimera91
.
Il nuovo “Piano Casa” del governo Renzi, adottato su proposta del Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti Maurizio Lupi, varato con decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47, e
convertito con legge 23 maggio 2014, n. 80, rubricata Misure urgenti per l'emergenza
abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015, pare porsi anch’esso in questa
prospettiva bi-funzionale: la strategia adottata, in questo caso, può essere sintetizzata in una
complessiva liberalizzazione degli interventi per il recupero di alloggi, anche ai fini
dell’adeguamento energetico e della ristrutturazione delle abitazioni fatiscenti e
inutilizzabili, ed eventualmente in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, con lo scopo,
ancora una volta, di favorire la ripresa economica attraverso l’attività edilizia e, al contempo,
dare una casa a tutti92
.
In questo lavoro il focus dell’indagine sarà concentrato su una sola delle misure
contenute nel nuovo Piano casa: l’articolo 5, che costituisce una forte presa di posizione
dell’ordinamento nei confronti delle situazioni di illegale occupazione abusiva di immobili.
Esso si pone come una novità rispetto alle precedenti politiche abitative, pur se orientato, in
continuità con esse, al recupero di alloggi da destinare all’edilizia sociale.
L’intento è quello di verificare la conformità di questa norma all’ordinamento
costituzionale: l’articolo 5 pone, infatti, gravi conseguenze a carico di chi occupa
abusivamente un immobile a uso abitativo, e le sue ricadute sono destinate a infierire sulle
situazioni di disagio abitativo più estremo della popolazione, in nome del ripristino della
legalità.
A questo fine, sarà utile analizzare nel dettaglio le varie misure adottate dal
provvedimento in oggetto.
2. Le singole misure di contrasto alle occupazioni abusive di immobili e i rispettivi
profili di illegittimità costituzionali
90
Sul diritto sociale all’abitazione, F. BILANCIA, Brevi riflessioni sul diritto all’abitazione, Napoli, Editoriale
Scientifica, 2011, spec. pp. 350-355.; T. MARTINES, «Il diritto alla casa», in N. LIPARI (a cura di), Tecniche
giuridiche e sviluppo della persona, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 391 ss.; S. SCAGLIARINI, Diritti sociali
nuovi e diritti sociali in fieri nella giurisprudenza costituzionale, in Atti del Convegno di Trapani dell’9
giugno 2012, su www.gruppodipisa.it. Per un più approfondito resoconto circa l’attuazione, l’efficacia del
“Piano casa” del 2008, e le cause della permanenza del disagio abitativo, al punto di definirlo come
«endemico nella società italiana», si veda S. CIVITARESE MATTEUCCI, op. cit., pp. 205-209. 91
Così S. CIVITARESE MATTEUCCI, op. cit., pag. 206. 92
Per un commento dettagliato alla Legge n. 80/2014 e alle misure ivi previste si rinvia a A. DONATI, Piano
Casa 2014. Tutte le novità dopo la conversione del D.L. 47/2014, Rimini, Maggioli Editore, 2014
64
2.1. L’impossibilità di richiedere la residenza
Il primo comma dell’ articolo 5 del Piano Casa prevede, anzitutto, che chi occupa
abusivamente un immobile senza titolo non può richiedervi la residenza, stabilendo al
contempo la nullità degli atti già emessi in violazione del divieto.
Per circoscrivere la portata di una simile disposizione è necessario indagare
preliminarmente su presupposti, ratio e rilevanza giuridica delle “sedi della persona”, e in
particolare della residenza, almeno sotto i profili che qui interessano, ossia quelli che ne
possono giustificare la qualificazione come un diritto idoneo a essere limitato.
Nel diritto amministrativo i concetti di domicilio, residenza e dimora sono
generalmente mutuati dal diritto privato, che ne detta la disciplina all’art. 43 comma93
: «il
domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari
e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale».
La residenza, a differenza del domicilio, non ha natura elettiva e corrisponde a una
mera situazione fattuale, i cui presupposti sono un elemento oggettivo, consistente nella
stabile permanenza del soggetto in un determinato luogo, e uno soggettivo, costituito dalla
volontà di rimanervi in modo duraturo94
.
In ordine ai requisiti per ottenere la residenza in un dato luogo appare utile la lettura
della Circolare del Ministero dell’Interno n. 8/199595
nella quale viene precisato che
l’Amministrazione comunale non ha discrezionalità nel suo rilascio, ma il solo dovere di
accertarne in modo oggettivo i presupposti, assicurandosi che vi sia corrispondenza tra
quanto dichiarato dal richiedente e la sua effettiva e non temporanea presenza nel luogo in
cui egli intende stabilirsi.
Nella circolare sopra citata vengono inoltre banditi tutti quei comportamenti adottati
eventualmente dalle amministrazioni comunali che, nell’esaminare le richieste di iscrizione
anagrafica, richiedano ulteriori requisiti come, per esempio, lo svolgimento di attività
lavorative sul territorio, oppure la natura dell’alloggio e la sua conformità alle prescrizioni
urbanistiche.
La mancanza di discrezionalità in capo all’amministrazione, nonché l’assenza di
particolari formalità richieste per l’iscrizione all’anagrafe, confermano quella che è la ratio
della residenza: la necessità in capo allo Stato di conoscere il luogo in cui ogni soggetto
risiede; si tratta dunque di un motivo di ordine pubblico. Una corretta tenuta delle
registrazioni anagrafiche persegue inoltre il fine della garanzia dei diritti individuali, in
quanto attraverso l’anagrafe si tutelano l’esistenza e la posizione del singolo, oltre che dei
nuclei familiari96
, tanto che per i soggetti aventi dimora abituale nel comune si configura un
vero e proprio obbligo di richiedere la residenza97
.
Il collegamento dell’istituto della residenza con un mero criterio fattuale è peraltro
confermato anche dal suo riconoscimento nei confronti dello straniero che in Italia ha la sua
93
Altre norme rilevanti in materia di residenza sono contenute negli artt. 44 e 45 comma, oltre che nelle leggi
n. 142/1990 e 1228/1954 (c.d. Legge anagrafica) e relativo regolamento di attuazione adottato con D.P.R. n.
223/1989 (c.d. Regolamento anagrafico). Per un approfondimento sulla disciplina amministrativa della
residenza, S. MERZ, Manuale pratico dei rapporti cittadino-Ente locale, Padova, Cedam, 1997, pp. 225-238. 94
L’ufficiale preposto ai servizi anagrafici deve pertanto accertare che il richiedente abbia fissato in un dato
posto la sua dimora con l’intenzione di rimanervi in modo stabile e non temporaneo, a nulla rilevando che la
presenza in tale luogo si sia già protratta per un periodo di tempo minimo. Cfr. Cass. 6 luglio 1983, n. 4525. 95
La Circolare del Ministero dell’Interno n. 8 del 29 maggio 1995, recante “Precisazioni sull’iscrizione
nell’anagrafe della popolazione residente, di cittadini italiani” è fondata sulla legge 24 dicembre 1954, n.
1228 (Legge anagrafica), e sul DPR 30 maggio 1989, n. 223 (Regolamento anagrafico). 96
In tal senso S. MERZ, op. cit., p. 227. 97
Cfr. Cass. n. 25726/2011
65
dimora attuale, rilevata in base alle sue consuetudini di vita e dallo svolgimento delle sue
relazioni98
.
Anche la prassi amministrativa recentemente instaurata di riconoscere la residenza
anche a coloro che abitano in situazioni precarie e di fortuna, come campi nomadi, camper e,
sino all’approvazione della legge in esame, immobili senza titolo legittimante99
.
Paradigmatico in tal senso risulta il caso della città di Torino, dove il Consiglio
comunale, dopo anni di richieste, petizioni, proteste e mobilitazione da parte dei rifugiati che
vivono sul territorio, ma anche di coordinamenti e associazioni cittadine, ha approvato lo
scorso dicembre una delibera per il riconoscimento della c.d. residenza “virtuale” al
simbolico indirizzo di via della “Casa Comunale 3” per i titolari di protezione internazionale
o umanitaria senza un domicilio stabile, al fine di consentire un puntuale monitoraggio della
presenza di tali persone e provvedere a interventi di sostegno nei loro confronti100
.
Una simile natura dell’istituto della residenza ha da sempre suggerito l’impossibilità di
alterarne la funzione in vista di un bilanciamento con altri interessi, pur se anch’essi degni di
considerazione, quali l’incolumità e l’ordine pubblico.
Se ne può concludere che la richiesta di iscrizione anagrafica, costituente oggetto di un
diritto soggettivo del cittadino, non appare vincolata ad alcuna condizione; diversamente si
verrebbe a limitare la libertà di spostamento e di stabilimento dei cittadini sul territorio
nazionale in violazione dell’art. 16 della Carta costituzionale101
.
Ebbene l’ articolo 5 del nuovo Piano Casa, mirando al ripristino delle situazioni di
legalità, intende impedire che chi occupa un immobile abusivamente possa, in relazione a
tale immobile, ottenervi la residenza.
Viene sostanzialmente operata una modifica nei parametri per valutare la richiesta di
iscrizione anagrafica: la legittimità della richiesta non verrà più misurata sulla base
dell’abitualità della dimora nell’abitazione, ma della regolarità del titolo di occupazione102
.
La dichiarazione di residenza dovrebbe risultare quindi irricevibile dagli uffici comunali,
qualora non si dimostri la legittimità del titolo di occupazione dell'alloggio.
Una simile soluzione, in effetti, pare limitare la libertà di stabilimento, corollario della
libertà di circolazione e soggiorno, in quanto il fenomeno delle occupazioni abusive
98
Cass. Sez. Un., 9 luglio 1974 n. 2004. L’art. 13 del Regolamento anagrafico (D.P.R. n. 223/1989) prevede
che le dichiarazioni anagrafiche di trasferimento da altro comune o dall’estero siano rese entro venti giorni
dal fatto del cambio di abitazione; per i cittadini stranieri oltre al requisito della dimora abituale nel territorio
comunale, è prevista la verifica dei requisiti per il soggiorno sul territorio italiano (ai sensi del D. Lgs n.
30/2007 per i cittadini comunitari, e del D. Lgs n. 286/1998 per quelli extracomunitari); le variazioni
anagrafiche dei cittadini stranieri, se regolarmente soggiornanti, devono avvenire alle medesime condizioni
dei cittadini italiani. 99
Così S. TALINI, Piano casa Renzi–Lupi, articolo 5: quando la cieca applicazione del principio di legalità
contrasta con la garanzia costituzionale dei diritti fondamentali, consultabile su www.costituzionalismo.it, 3
maggio 2014. 100
Consiglio comunale della città di Torino, Ordinanza n. 139 del 23 dicembre 2013, prot. 07394/019, su
www.comune.torino.it. 101
Anche queste ultime considerazioni conclusive sono portate nel testo della Circolare n. 8/1995 del
Ministero dell’Interno. 102
Si noti che a differenza di quanto previsto in ordine al divieto di allacciamento ai pubblici servizi, a cui si
rinvia infra, per quanto attiene all’impossibilità di richiedere la residenza, l’ articolo 5 in esame non prevede
specificamente in capo al richiedente obblighi di esibizione di documenti che comprovino il legittimo
possesso o detenzione dell’immobile. Ci si domanda come potranno gli uffici comunali anagrafici verificare
la regolarità o meno del titolo di occupazione dell’alloggio. Cfr. Scheda di lettura D.L. 47/2014 – A.C. 2373,
n. 163 del 15 maggio 2014, di cui alla Documentazione per l’esame dei progetti di Legge presso la Camera
dei Deputati, p. 26.
66
difficilmente potrebbe integrare un “motivo di sicurezza” di cui al primo comma dell’art. 16
Cost103
.
La residenza costituisce inoltre, e non di rado, il requisito, o il criterio di preferenza,
per ottenere determinate prestazioni ed esercitare diritti costituzionalmente garantiti104
, tra
cui spiccano in particolar modo la possibilità di accedere alle procedure di assegnazione di
alloggi di edilizia residenziale pubblica, l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, la
frequentazione della scuola dell’obbligo, il collocamento per ottenere l’opportunità di un
lavoro, la possibilità di inserire le famiglie nelle graduatorie per gli asili nido, solo per
citarne alcune di quelle attinenti ai principali diritti sociali garantiti dalla Costituzione, senza
dimenticare l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo105
.
L’irricevibilità della domanda di iscrizione anagrafica nel caso di assenza di un titolo
ad abitare un alloggio sembra dunque determinare una limitazione di garanzie
costituzionalmente stabilite, e determinare una grave e irreparabile condizione di esclusione
a danno di singoli, nonché di nuclei familiari106
, che si trovino in condizioni di disagio
abitativo, idoneo a tradursi nella negazione nei loro confronti «del diritto a esistere nella
società»107
.
2.2. Il divieto di allacciamento ai pubblici servizi
Accanto al divieto di richiedere la residenza, il primo comma dell’ articolo 5 stabilisce
l’impossibilità di beneficiare dell’allacciamento ai pubblici servizi per chi occupa
abusivamente un immobile, stabilendo, anche in questo caso, la retroattività della
preclusione.
In sede di conversione del decreto-legge è stato aggiunto un periodo al primo comma,
che precisa come gli atti aventi a oggetto l'allacciamento dei servizi di energia elettrica, di
gas, di acqua e di telefonia fissa, nelle forme della stipulazione, della volturazione, del
rinnovo, siano nulli, e pertanto non possano essere stipulati o comunque adottati, qualora
non riportino i dati identificativi del richiedente e il titolo che attesti la proprietà, il regolare
possesso o la regolare detenzione dell'unità immobiliare in favore della quale si richiede
l'allacciamento.
Con riferimento al divieto di allacciamento ai pubblici servizi, si prevede infine
espressamente che, onde consentire ai soggetti somministranti la verifica dei dati dell'utente
103
Per un approfondimento su dottrina e giurisprudenza costituzionale in tema di libertà di circolazione e
soggiorno, si rinvia a G. AMATO, Art. 16, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Rapporti
civili, Zanichelli-Il foro italiano, Bologna-Roma, 1977, pp. 114-135. 104
Si rinvia sul punto a G. LANDI, Domicilio, residenza e dimora (dir. amm.) (voce), in Enciclopedia del
Diritto, Milano, Giuffré, vol. XIII, 1964, pp. 851 – 856, spec. p. 855. Sulla residenza qualificata dalla
permanenza sul territorio da un certo numero di anni, quale requisito per accedere all’edilizia residenziale
pubblica, I. BORIA, Il social housing tra tutela del diritto universale all’abitazione e discriminazioni fondate
sulla residenza, in «Sintesi dialettica per l’identità democratica», n. 6, 2013, su www.sintesidialettica.it. 105
Possono pertanto determinarsi profili di illegittimità costituzionale in relazione agli artt. 2 (principio
solidaristico e inviolabilità dei diritti della persona), 3 comma 2 (principio di uguaglianza sostanziale), 4
(diritto al lavoro), 29 (tutela accordata alla famiglia), 32 (diritto alla salute), 34 (diritto allo studio), 48 (diritto
di voto). 106
Si tenga presente che la residenza è anche un “luogo della famiglia” ai sensi dell’art. 45 comma, in quanto
all’interno di essa si svolge la personalità dei suoi membri, nonché l’esercizio dei diritti a essa connessi come
formazione sociale tutelata dall’art. 2 e 29 comma 1 della Costituzione. Tanto è vero che, come è stato
affermato «il diritto ha bisogno del dove. Soggetti, cose, atti abitano nello spazio […]. C’è, nel profondo
nascere e svolgersi del diritto, un legame terrestre, un’originaria necessità di luoghi»: N. IRTI, Norma e
luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, Laterza 2002, p. 3. Sulla relazione tra le sedi della persona fisica
e i diritti della famiglia sotto il profilo civilistico, G. FREZZA, I luoghi della famiglia, Torino, Giappichelli,
2004. 107
S. TALINI, op. cit.
67
e la regolarità della loro posizione, i richiedenti siano tenuti a produrre idonea
documentazione relativa al titolo che attesti la proprietà, il regolare possesso o la regolare
detenzione dell'unità immobiliare, in originale o copia autentica, o a rilasciare dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà ai sensi dell'art. 47 del Testo Unico di cui al DPR n.
445/2000108
.
Anche questa norma pone alcuni problemi di compatibilità con l’ordinamento
costituzionale e i diritti fondamentali della persona, in quanto sottrae alla disponibilità degli
individui e delle famiglie beni indispensabili per lo svolgimento delle quotidiane abitudini di
vita, tanto più che è destinata a travolgere anche situazioni già in essere. Si pensi solo alla
negazione dei servizi idrici109
, e alle conseguenze sul piano igienico e sanitario destinate a
ricadere sui destinatari (in violazione dell’art. 32 Cost.), oltre alla turbativa delle condizioni
di vita privata e di unità familiare (art. 29 Cost.), che la Costituzione impone alla Repubblica
di tutelare, con evidenti effetti negativi sul piano della dignità della persona (artt. 2 e 3
Cost.)110
.
2.3. L’esclusione quinquennale dalle procedure di assegnazione di alloggi di edilizia
residenziale pubblica
Il comma 1 bis della legge n. 80/2014 prevede un’ulteriore misura di contrasto alle
pratiche illegali di reperimento di un’abitazione, inserita in sede di conversione del decreto
108
E, come si è detto, una simile specificazione manca in relazione al divieto di richiedere la residenza. 109
Le Nazioni Unite hanno approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua potabile e ai servizi
igienico-sanitari come diritti umani fondamentali il 28 luglio 2010 a New York. La storica risoluzione, su
mozione presentata da Evo Morales Ayma, Presidente della Bolivia, e da una trentina di altri paesi, sancisce
che «l’acqua potabile e i servizi igienico-sanitari sono un diritto umano essenziale per il pieno godimento del
diritto alla vita e di tutti gli altri diritti umani». Nel testo della risoluzione si legge inoltre che «gli Stati
nazionali dovrebbero dare priorità all'uso personale e domestico dell'acqua al di sopra di ogni altro uso e
dovrebbero fare i passi necessari per assicurare che questo quantità sufficiente di acqua sia di buona qualità,
accessibile economicamente a tutti e che ciascuno la possa raccogliere ad una distanza ragionevole dalla
propria casa» (Risoluzione ONU A/RES/64/292 - 28 July 2010, The human right to water and sanitation, su
www.un.org.) 110
Le norme costituzionali che più evidentemente si prestano a essere violate dalla normativa in oggetto
sono, infatti, gli articoli 2 e 3, espressione dei principi di libertà e dignità dell’esistenza dell’individuo e dei
diritti inviolabili della persona umana. Ma l’impossibilità di fruire dell’allacciamento ai pubblici servizi
comporta altresì la violazione di tutta una serie di diritti colpiti indirettamente, quali il diritto alla salute (art.
32 Cost.), il diritto alla tutela della vita familiare (art. 29 Cost.), il diritto costituzionale alla sicurezza, inteso
«sia come attività statale per tutelare il cittadino da rischi e pericoli sociali, sia come diritto fondamentale,
quale condizione per l'esercizio delle libertà e per la riduzione delle disuguaglianze»: T. E. FROSINI, Il diritto
costituzionale alla sicurezza, su www.forumcostituzionale.it. Questo valore costituzionale può essere messo
in pericolo dalla emergente necessità per le famiglie di procurarsi allacciamenti abusivi ai pubblici servizi,
nonché dalle possibili conseguenze di tipo sociale che potrebbero crearsi in seguito all’improvviso distacco
delle utenze che non siano in grado di dimostrare la legittimità del titolo di occupazione dell’alloggio. Inoltre
non mancano documenti internazionali che si pongono a presidio della dignità umana, relativamente alla
“adeguatezza” delle condizioni di vita dei nuclei familiari. L’art. 25 della Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani e l’art. 11 del Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (Pidesc)
riconoscono nell’abitazione una componente necessaria del diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la
salute ed il benessere proprio della persona e della sua famiglia, nonché del diritto a un livello di vita
adeguato e al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita. Con la Risoluzione dell’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite n. A/55/2, dell’8 settembre 2000 (c.d. “Dichiarazione del Millennio”), inoltre,
sono stati individuati otto obiettivi di sviluppo da perseguire entro il 2015, intesi a dare attuazione ai principi
di dignità umana, uguaglianza, equità, libertà, solidarietà, tolleranza e rispetto della natura. Ma il “diritto
sociale a un’abitazione degna” emerge anche nel Rapporto stilato dall’Ufficio dell’Alto Commissariato ONU
per i Diritti Umani, intitolato The right to adeguate housing: da questo diritto discenderebbe la protezione
delle famiglie contro gli sfratti coattivi e gli ordini di demolizione delle proprie case; situazioni, queste, che
paiono accostabili alla turbativa creata da un distacco improvviso dall’allacciamento ai pubblici servizi.
68
legge n. 47/2014. Si tratta dell’esclusione dalle procedure di assegnazione di alloggi di
edilizia residenziale pubblica, in caso di occupazione abusiva di immobili dello stesso tipo
per i cinque anni successivi all’accertamento della condotta.
Si ha già avuto modo di rilevare come l’iscrizione anagrafica nel comune costituisca
requisito per l’accesso alle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi di edilizia
residenziale pubblica.
Questo comma sembra pertanto sovrapporsi al primo, dal momento che l’accertamento
dell’occupazione determina l’impossibilità di ottenere la residenza e, quindi,
automaticamente anche l’accesso alle procedure di assegnazione degli alloggi.
Residuerebbe, in tal caso, la sua operatività solo per i casi in cui, successivamente
all’accertamento dell’occupazione abusiva, il richiedente abbia trovato altra sistemazione
regolare presso il libero mercato, ottenendo la relativa residenza: egli dovrebbe, in forza
dell’ articolo 5 comma 1 bis, attendere cinque anni prima di iscriversi nella graduatoria delle
case popolari.
Il caso ipotizzato, tuttavia, non sembra bene adattarsi alla realtà delle famiglie che
vivono il disagio abitativo: infatti, chi per ipotesi sarà in grado di uscire dalla condizione di
occupante abusivo e ottenere un alloggio rivolgendosi alla libera contrattazione privata,
evidentemente non rientrava sin dall’inizio nella categoria degli occupanti abusivi per
necessità. Di conseguenza egli non sarà particolarmente dissuaso dalla norma in oggetto,
perché le sue condizioni non soddisferebbero comunque i requisiti per accedere agli alloggi
di edilizia residenziale pubblica.
La disposizione introduce invece una grave sanzione nei confronti di coloro che
vivono in condizione di illegale abusività per la reale mancanza di una soluzione abitativa
alternativa. In tali casi, si ribadisce, la misura è superflua in quanto coloro che si trovano in
questa condizione non accederebbero in ogni caso alle procedure di assegnazione in quanto
privi dello status di residente111
.
Altro profilo di interesse costituzionale in relazione al comma 1 bis riguarda il riparto
di competenze legislative nella materia dell’edilizia residenziale pubblica, che non compare
tra quelle elencate nel secondo e nel terzo comma dell'art. 117 Cost., ma si estende su tre
livelli normativi. Il primo riguarda la determinazione dell'offerta minima di alloggi destinati
a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti: in tale determinazione, che rientra nella
competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., si
inserisce la fissazione di principi che garantiscano l'uniformità dei criteri di assegnazione su
tutto il territorio nazionale. Il secondo livello normativo riguarda la programmazione degli
insediamenti di edilizia residenziale pubblica, che ricade nella materia “governo del
territorio”, ai sensi del terzo comma dell'art. 117 Cost. Il terzo livello normativo, rientrante
nel quarto comma dell'art. 117 Cost., riguarda la gestione del patrimonio immobiliare di
edilizia residenziale pubblica di proprietà degli Istituti autonomi per le case popolari o degli
altri enti che a questi sono stati sostituiti ad opera della legislazione regionale112
.
111
Potrebbe soccorrere in questi casi l’adozione di misure come quelle adottate dalla città di Torino, cui si è
accennato, consistenti nella creazione di una “residenza virtuale”: non in un luogo reale ma simbolico, allo
scopo di regolarizzare la presenza di persone sul territorio, tenerne il conteggio, provvedere ai servizi
essenziali nei loro confronti, tra cui l’assegnazione di una casa popolare. 112
Questo è l’orientamento della Corte costituzionale assunto con la sent. n. 94/2007, ribadito nella n.
166/2008 e 121/2010. Per un commento all’orientamento della Consulta sul riparto di competenze legislative
nella materia dell’Edilizia residenziale pubblica, V. VALENTI, L’edilizia residenziale pubblica tra livelli
essenziali delle prestazioni e sussidiarietà. Osservazioni alla sentenza della Corte costituzionale n. 166/2008,
in «Federalismi.it», n. 4, 2009.
69
Secondo l’orientamento della Corte costituzionale113
, i criteri di accesso alle procedure
di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica non rientrano nella
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, di competenza statale, ma nella
gestione del patrimonio immobiliare, di competenza residuale delle regioni. La disposizione
in oggetto potrebbe pertanto essere dichiarata incostituzionale per violazione dell’art. 117,
quarto comma, Cost.
2.4. L’ambito di applicazione del provvedimento
L’ articolo 5 del Piano Casa è orientato al ripristino delle condizioni di legalità in tutti
quei casi in cui sia in corso l’occupazione abusiva di un immobile, a danno dei diritti
proprietari sullo stesso114
.
L'ordinamento giuridico prevede forme di tutela, sia in sede civile che penale, a favore
di chi subisca l'occupazione senza titolo del proprio immobile, mettendo a disposizione sia
strumenti di natura civile, sia rimedi penalistici.
In sede civile, il proprietario potrà esperire l’azione di rivendicazione (articolo 948
c.c.), oppure l’azione di reintegrazione nel possesso (articolo 1168 c.c.), nei confronti di
chiunque possieda o detenga l’immobile abusivamente, potendo conseguire anche il
risarcimento dei danni subiti, oltre che una sentenza contenente l’ordine di rilascio
dell’immobile.
In sede penale sussiste invece la fattispecie di invasione di terreni od edifici (articolo
633 c.p.); a tale illecito sono inoltre ricollegabili altri reati funzionalmente collegati
all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (articolo 635 c.p.) e la violazione di
domicilio (articolo 614 c.p.).
Sorge a questo punto spontaneo domandarsi a quali fattispecie concrete l’articolo 5 del
Piano Casa possa ritenersi applicabile. Nella relazione illustrativa del disegno di legge di
conversione del decreto-legge n. 47/2014 emerge la finalità propria della manovra: il
ripristino delle situazioni di legalità compromesse dalla sussistenza di fatti penalmente
rilevanti115
. Si tratta di una dichiarazione esplicita della volontà del legislatore, in base alla
quale l’articolo 5 potrebbe applicarsi solo in seguito a una sentenza penale irrevocabile di
condanna per invasione di terreni o edifici, oppure dei reati a essa collegati, nonostante la
113
Cfr. Corte cost., ord. n. 32/2008. Nel caso pervenuto innanzi alla Consulta, una legge della Regione
Lombardia, che introduceva il requisito della residenza o lavoro nel territorio per almeno cinque anni per
accedere all’edilizia residenziale pubblica, è stata ritenuta non lesiva della competenza statale in materia di
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale: secondo la
Corte costituzionale, l’introduzione di un simile criterio di accesso è da ricondursi alla competenza residuale
della regione in quanto investe la gestione del patrimonio immobiliare. Per un approfondimento, F. BIONDI
DAL MONTE, I livelli essenziali delle prestazioni e il diritto all’abitazione degli stranieri, in G. CAMPANELLI,
M. CARDUCCI, N. GRASSO, V. TONDI DELLA MURA (a cura di), Diritto costituzionale e diritto amministrativo.
Un confronto giurisprudenziale, Atti del Convegno annuale dell’Associazione Gruppo di Pisa, Lecce 19-20
giugno 2009, Torino, Giappichelli, pp. 214-226, spec. 217-224. 114
Possono configurarsi varie tipologie di occupazione abusiva rilevanti in sede civile e penale
nell’ordinamento giuridico: il primo caso è quello del terzo che occupi e goda del tutto arbitrariamente di un
immobile senza che sia precedentemente esistito alcun titolo a suo favore (in genere si tratta dell’occupazione
violenta di una casa sfitta); segue la situazione dell’inquilino che continui ad abitare l’immobile anche dopo
che un contratto, originariamente valido ed efficace, abbia successivamente cessato di produrre i propri effetti
per esempio in seguito a sfratto per morosità o per finita locazione; ancora, può configurarsi il caso del terzo
che abbia concluso un contratto di cui il proprietario dell’immobile metta in discussione o l’originaria
validità (per esempio per difetto di forma) 115
Cfr Dossier del Servizio Studi sull’A.S. 1413 , n. 123, aprile 2014, su www.senato.it.
70
formulazione letterale della disposizione parrebbe riferirsi anche alle occupazioni abusive
per le quali sia stata esperita la sola tutela civilistica116
.
In ogni caso sarà necessaria una sorta di “certificato di abusività”, consistente in un
provvedimento di tipo giurisdizionale.
Entra a questo punto in considerazione l’interrogativo intorno a quale condotta debba
essere considerata “abusiva” ai fini dell’applicabilità dell’ articolo 5 in oggetto.
Si pensi a quei particolari casi di occupazioni scriminate in sede giudiziale in virtù
dell’operatività dello stato di necessità, ai sensi dell’ articolo 54 c.p., quale causa di
giustificazione: la giurisprudenza tende a estendere, infatti, il concetto di “danno grave alla
persona” alle situazioni che minacciano anche solo indirettamente l’integrità fisica del
soggetto, ma costituiscono un pericolo per altri beni primari collegati alla personalità, quali
il diritto all’abitazione117
.
Potrà dunque lo stato di necessità essere dedotto quale titolo legittimante
dell’occupazione abusiva, consentendo con ciò a chi lo invoca di ottenere la residenza e
l’allacciamento ai pubblici servizi?
Se la risposta fosse affermativa, dovremmo da un lato ammettere positivamente
l’esistenza di una “clausola di salvaguardia” contro l’iniquità dell’ articolo 5 a favore di chi
si trovi in stato di necessità dichiarato giudizialmente.
In tal modo si rischierebbe tuttavia di porre una discriminazione a svantaggio dei
soggetti i quali non siano stati denunciati penalmente e siano pertanto sprovvisti di un
documento giudiziale attestante il loro stato di bisogno: essi non sarebbero colpiti dall’
articolo 5, almeno nell’immediato (e in futuro?); eppure al contempo non potrebbero
beneficiare di un eventuale titolo legittimante, come l’accertamento giudiziale dello stato di
necessità.
3. Note conclusive: il perseguimento della legalità nell’attuazione del diritto
all’abitazione pone in pericolo la democraticità dell’ordinamento?
Il fenomeno crescente delle occupazioni abusive è particolarmente rilevante nelle
agende politiche, da un lato in ragione della sottostante illegalità di cui è espressione;
dall’altro, in quanto alterazione del funzionale collegamento che l’ordinamento stabilisce tra
il previo accertamento di una necessità abitativa meritevole di tutela e l’effettiva
soddisfazione di tale importante fabbisogno, che si concretizza a mezzo dell’assegnazione
dell’alloggio pubblico. La pratica diffusa delle occupazioni abusive come mezzo per
procurare a sé e alla propria famiglia una soluzione abitativa è, oltretutto, foriera di un grave
pregiudizio economico: l’inesistenza di un’obbligazione contrattuale avente come oggetto il
pagamento di un corrispettivo per l’uso e il godimento dell’alloggio produce e consolida la
mancanza di redditività del patrimonio immobiliare118
.
Non è pertanto negabile il disvalore sottostante al fenomeno in oggetto, né è
biasimabile la volontà da parte delle istituzioni di porre un argine alla sua ormai
incontrollabile espansione.
116
In tal senso Scheda di lettura D.L. 47/2014 – A.C. 2373, n. 163 del 15 maggio 2014, di cui alla
Documentazione per l’esame dei progetti di Legge presso la Camera dei Deputati, p. 26. 117
Cfr., tra le più recenti, Cass. pen. Sent. n. 19147/2013, in cui si sostiene che «l’illecita occupazione di un
bene immobile è scriminata dallo stato di necessità conseguente al danno grave alla persona, che ben può
consistere anche nella compromissione del diritto di abitazione, sempre che ricorrano, per tutto il tempo
dell’illecita occupazione, gli altri elementi costitutivi della scriminante, quali l’assoluta necessità della
condotta e l’inevitabilità del pericolo». In senso contrario, si veda, tra altre, Cass. pen. Sent. n. 15279/2013. 118
Così si legge nella Relazione sulla gestione dell’edilizia residenziale pubblica, Deliberazione n. 10/2007,
Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie, su www.federcasa.it.
71
In fondo l’obiettivo delle politiche per la casa consiste nel recupero di immobili da
destinare all’edilizia sociale, nell’ottica di attuazione del diritto all’abitazione, e con
modalità rientranti nella discrezionalità del legislatore.
Quando si parla del contenuto del diritto all’abitazione, del resto, aleggia la
consapevolezza della sua natura di «diritto sociale di grandi incertezze»119
, il cui contenuto è
stato definito in vari modi dalla Corte costituzionale, ma pur sempre in modo condizionato
alle risorse finanziarie disponibili in un dato momento storico e congiunturale120
.
Non pare pertanto potersi profilare una lesione diretta del diritto all’abitazione da parte
del provvedimento in esame: solo il tempo e l’applicazione di questa politica nella realtà
potranno decretarne il successo e l’opportunità dal punto di vista dell’obiettivo dichiarato di
porre un argine all’emergenza abitativa attraverso le sue misure nel complesso considerate.
È pur vero, però, che, salvo ulteriori interventi legislativi compensativi, «la norma
introdotta con l'articolo 5 rischia, di fatto, di rendere invisibili, causa la cancellazione
dall'anagrafe, migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini che non potranno, stante la
loro situazione di estrema precarietà economica, trovare altra sistemazione alloggiativa che
non sia la strada; a questo si aggiungerà la mancanza di utenze che renderà la situazione
ancora più allarmante con la possibilità che si determinino gravi disordini sociali; tutto ciò si
ripercuoterà soprattutto nei confronti di migliaia di persone che, in mancanza di risposte da
parte delle istituzioni, si troveranno costrette ad occupare stabili, ex scuole, fabbriche, uffici,
abbandonati da anni e in condizioni di estrema incuria, per dare una risposta a se stessi e alle
proprie famiglie». Si rischia, così, di «allargare ulteriormente il solco tra le fasce impoverite
dalla crisi, dalla disoccupazione e dalla precarietà (sempre più numerose) e il resto del
Paese»121
.
Il primo riferimento all’universo dei diritti fondamentali che immediatamente si coglie
è il “diritto alla sopravvivenza”, al quale vengono tradizionalmente ricondotti in vario modo
la maggior parte dei diritti sociali, alla cui garanzia si àncora il concetto di democrazia
sociale122
.
La Costituzione italiana e gli atti e documenti sovranazionali e internazionali
attribuiscono inoltre particolare rilievo al “diritto all’esistenza”, intendendosi per tale non
«qualsiasi forma di esistenza, bensì a quella che dà pienezza alla libertà e alla dignità»123
.
Non ci si può pertanto limitare a pretendere che l’ordinamento assicuri un diritto «a non
crepare di freddo e di stenti per grazia di Stato. Il diritto all’esistenza è intessuto di libertà e
dignità; è intessuto di cittadinanza, con il suo carico di diritti a partecipare alla vita
economica, sociale, politica del Paese e di doveri a contribuire al suo progresso materiale e
spirituale; è intessuto di pienezza di vita, teso com’è al pieno sviluppo della persona umana,
con i suoi bisogni materiali, ma anche sociali, culturali, intellettuali, spirituali»124
. Come a
119
F. MODUGNO, I “nuovi diritti”nella giurisprudenza costituzionale, Torino, Giappichelli, 1995, p. 58. 120
Così Corte cost. sent. n. 252/1989, punto 3 del Considerato in diritto: «come ogni altro diritto sociale,
anche quello all'abitazione è diritto che tende ad essere realizzato in proporzione delle risorse della
collettività». 121
Così si legge nell’ordine del giorno n. 9/2373/7, presentato in sede di conversione del decreto-legge n.
47/2014, ove si richiede al Governo di «prevedere, in accordo con le Amministrazioni locali, un piano di
interventi tesi ad affrontare l'emergenza abitativa in tutti i suoi aspetti, compresi quelli che hanno portato
all'occupazione di immobili abbandonati ed in disuso al fine di non creare, con l'applicazione immediata di
quanto previsto al comma 1 dell'articolo 5 del presente decreto, situazioni di grave tensione sociale nel
Paese». 122
In tal senso L. FERRAJOLI, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. 2, Roma-Bari,
Laterza, 2007, pp. 392-393. 123
S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 157. 124
C. TRIPODINA, Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa. Sui fondamenti costituzionali del reddito di
cittadinanza, Torino, Giappichelli, 2013, p. 8.
72
dire: «se è vero che lo scopo del diritto e la ragione sociale delle istituzioni politiche è la
tutela della vita, allora è la soddisfazione dei minimi vitali, e non soltanto il divieto di
uccidere, che deve entrare a far parte delle clausole del patto di convivenza quale corollario
del diritto alla vita»125
.
Il sopra descritto paradigma della democrazia sociale sembra nel complesso frustrato
dal provvedimento in oggetto, il quale non assicura un diritto all’esistenza libera e dignitosa
né così come prospettato, né nella concezione più riduttiva di tale diritto. L’impossibilità a
beneficiare dell’erogazione del gas, della corrente elettrica, dell’acqua, possono mettere a
serio rischio anche le condizioni di vita minime materiali, costringendo i nuclei familiari,
anche solo per un istinto di sopravvivenza, a ricorrere, quando possibile, a mezzi precari di
rifornimento delle risorse, attraverso allacciamenti abusivi, a rischio della sicurezza
collettiva.
Simili condizioni di vita, prive delle più basilari risorse quali gas, corrente elettrica e
acqua, sono paragonabili a un’esistenza vissuta avvalendosi di mezzi di fortuna per il riparo
della propria persona quali bassifondi e insediamenti abusivi, case abbandonate, container da
trasporto, piattaforme e binari ferroviari, argini ai bordi delle strade, tetti, scantinati, scale. In
queste situazioni, «la mancanza di una dimora, dovuta a incapacità economica, facilmente
ingenera sentimenti di fallimento, commiserazione e disprezzo di sé e viene chiaramente
frustrato il pieno sviluppo della persona umana»126
.
Sarà allora necessario per il legislatore prevedere almeno strumenti compensativi al
fine di arginare le situazioni più disperate, e questo perché «la garanzia dei diritti sociali, per
quanto economicamente costosa, lo è assai meno della loro mancanza o violazione»;
pertanto la stessa non costituisce «solo una condizione di democrazia sociale e una
precondizione della democrazia politica e liberale, ma anche un fattore essenziale della
crescita economica e della stessa democrazia civile»127
.
125
L. FERRAJOLI, op. cit., p. 393. 126
P. CHIARELLA, Il diritto alla casa: un bene per altri beni, in «Rivista di Scienze della Comunicazione», n.
2, 2010, p. 137. 127
L. FERRAJOLI, op. cit., p. 399.
73
PARTE IV
ELEZIONI E ORGANI
I dipartimenti in Francia di Nicola Dessì
Ordinamento giuridico dei dipartimenti.
1. Principi costituzionali delle collettività territoriali, dopo la riforma del 2003. Con la legge costituzionale 2003-276, la Costituzione del 1958 risulta profondamente
riformata in tema di collettività territoriali. Il nuovo art. 72 della Costituzione comprende
fra le collettività territoriali le regioni, oltre a dipartimenti e comuni. Per il comma 2, le
collettività territoriali “prendono le decisioni per l'insieme delle competenze che meglio
possono essere svolte al loro livello”; al comma 3 - nel ribadire la necessità di Consigli
eletti - si assegna agli enti locali il potere regolamentare per l'esercizio delle loro
competenze.
La riforma costituzionale del 2003, inoltre, introduce il diritto di petizione per i
cittadini delle collettività territoriali, nonché - alle condizioni previste da legge organica -
la possibilità del referendum sui progetti di delibera e sugli atti da esse adottati (art. 72). Le
collettività territoriali possono disporre di risorse finanziarie, alle condizioni stabilite dalla
legge, ricevendo il gettito da imposizioni fiscali di ogni natura, per l'intero o in parte; la
legge può autorizzare gli enti locali a fissare l'aliquota e la base imponibile di ciascun
tributo, ed è previsto un fondo perequativo nazionale.
2.2 Ordinamento legislativo dei dipartimenti. Codice generale delle collettività
territoriali. All'organizzazione amministrativa dei dipartimenti è riservata la parte terza del
Codice generale delle collettività territoriali (legge n. 142 del 12 febbraio 1996, e
successive modifiche).
- Arrondissements e cantoni. Ogni dipartimento è diviso in arrondissements e
cantoni, la cui creazione o soppressione, è decisa con decreto del Consiglio di Stato sentito
il Consiglio dipartimentale interessato; le modifiche al territorio sono invece decise dai
prefetti regionali, dietro consultazione del Consiglio dipartimentale. Gli arrondissements
fungono da ambito territoriale per le sotto-prefetture.
74
I cantoni sono la base territoriale per l'elezione dei Consigli dipartimentali, che è
infatti definita “elezione cantonale”; ogni cantone elegge due consiglieri, con scrutinio a
doppio turno di collegio: si presentano liste bloccate formate da un binomio di candidati,
con alternanza di genere, e il binomio che ottiene più voti è eletto in blocco nel Consiglio
dipartimentale.
- Consigli dipartimentali e loro Presidenti. I Consigli dipartimentali - denominazione
che sostituirà, a partire dalle elezioni del 2015, quella di “Consigli generali”, introdotta nel
1871 - sono eletti a suffragio universale, per un mandato di sei anni. Il Codice delle
collettività territoriali rinvia, per l'elezione dei Consigli, agli artt. 191-192 del Codice
elettorale. In occasione di ogni rinnovo, il Consiglio si riunisce di diritto ed elegge a
maggioranza dei suoi componenti - assoluta, per i primi due scrutini; relativa, a partire dal
terzo - il Presidente; elegge, inoltre, una commissione permanente, formata da consiglieri
generali, con il compito di coadiuvare il Presidente. In caso di dimissioni del Presidente, le
funzioni sono provvisoriamente esercitate da un vice-presidente; dopodiché, entro un mese,
si procede al rinnovo dell'intera commissione permanente. Il Presidente del Consiglio
dipartimentale è il capo del potere esecutivo, ed è l'unico incaricato del potere
amministrativo; può delegare parte dei suoi poteri.
- Controllo di legalità. La riforma costituzionale del 2003 non ha alterato l'art. 72
della Costituzione del 1958: il rappresentante dello Stato ha ancora il compito di esercitare
il controllo sugli atti amministrativi adottati dalle collettività territoriali. Il prefetto di
dipartimento, dunque, può deferire al Tribunale amministrativo gli atti del Consiglio che
ritiene illegittimi; può anche - contestualmente al ricorso - chiedere la sospensiva dell'atto,
entro il termine di un mese, quando si provi il fumus boni iuris; l'atto ridiventa esecutivo se
il giudice non si pronuncia entro un mese. Tutti gli anni il Governo risponde al Parlamento
sul controllo successivo esercitato dai prefetti. Anche le persone fisiche e giuridiche che si
sentono lese da un atto del Consiglio possono chiedere al prefetto di impugnarlo, entro due
mesi dalla data in cui è diventato esecutivo.
- Attuali poteri dei dipartimenti in materia finanziaria e fiscale. Il Codice elenca una
serie di tributi il cui gettito è attribuito ai dipartimenti, per coprirne le spese correnti. Le
spese per investimento sono invece finanziate dai trasferimenti statali, nonché dalle
cessioni di beni del patrimonio e da alcune sovrattasse con efficacia temporanea. I
trasferimenti finanziari statali si distinguono in due categorie di “dotazione” - una fissa
(forfaitaire) e una di perequazione - ai quali possono aggiungersi contributi straordinari;
sono proporzionati alla popolazione del dipartimento. La dotazione di perequazione è
costituita, a sua volta, da una dotazione minima per le spese correnti e da una dotazione
speciale per i comuni urbani, intendendo come tali i comuni con densità superiore a 100
abitanti per chilometro quadrato e con un tasso di urbanizzazione superiore al 65%;
l'ammontare della dotazione perequativa dipende dalla capacità fiscale del dipartimento. A
questa “dotazione globale” se ne aggiunge una speciale per l'edilizia scolastica, relativa
alle scuole medie.
2.3 Funzioni amministrative attribuite ai dipartimenti.
- Competenze attribuite dal Codice. In via generale, l'art. L3211-1 del Codice delle
collettività territoriali conferisce a ciascun Consiglio di dipartimento il potere di “regolare
con le sue deliberazioni gli affari del dipartimento, negli ambiti attribuiti dalla legge”. Si
badi, però, che la legge 58 del 27 gennaio 2014 ha cancellato questo inciso, il quale, a sua
75
volta, era stato introdotto dalla legge 1563 del 16 dicembre 2010. In sostanza, il legislatore
del 2010 aveva posto un limite alla c.d. “clausola generale di competenza”, in virtù della
quale il Consiglio regolava “gli affari del dipartimento” senza limitazioni del proprio
ambito di azione. Il legislatore del 2014 ha restituito pieno vigore alla clausola generale di
competenza; tale disposizione acquisirà efficacia a partire dalle elezioni cantonali del
marzo 2015.
Sempre secondo l'art L3211-1 del Codice delle collettività territoriali, il Consiglio
dipartimentale ha competenza per “promuovere la solidarietà e la coesione territoriale”, nel
rispetto delle attribuzioni dello Stato e degli altri enti territoriali. Può delegare alcune
funzioni ai consigli municipali dei Comuni metropolitani compresi nel dipartimento,
limitatamente al loro territorio: sviluppo economico, assistenza agli anziani, edilizia
scolastica - con riferimento alle scuole medie (collèges), turismo, infrastrutture sportive. Il
Consiglio delibera sulle cessioni dei beni mobili e immobili che fanno parte del patrimonio
del dipartimento, nonché sulla rete stradale del suo territorio; delibera inoltre sulle opere, e
sui relativi progetti, che interessano il territorio dipartimentale, e sulle concessioni relative
ai lavori di interesse dipartimentale.
Inoltre, secondo il Codice (artt. L3231-1 e ss.), i dipartimenti possono, nel rispetto
della legge in materia di libera iniziativa economica, nonché di governo del territorio,
elargire aiuti economici alle imprese in difficoltà, nonché sovvenzioni alle organizzazioni
sindacali. Inoltre, entro alcuni limiti quantitativi fissati dal Codice, i dipartimenti possono
fare da garanti su prestiti accordati a persone giuridiche di diritto privato.
- Competenze attribuite in base ad altre leggi. Fermo restando quanto stabilito dal
Codice delle collettività territoriali, le funzioni attribuite ai dipartimenti sono determinate
dalla seconda e dalla terza legge Defferre (legge 7 gennaio 1983, n. 8 e legge 663 del 22
luglio 1983, n. 663), modificate da diversi interventi, tra cui il c.d. “secondo atto del
decentramento” (legge 13 agosto 2004, n. 809).
I dipartimenti finanziano le infrastrutture di interesse pubblico nei territori rurali (art.
105 legge n. 1983-8). L'art. 18 della legge n. 2004 -809 trasferisce alla competenza
dipartimentale tutta la rete stradale, ad eccezione di autostrade e strade statali; l'art. 30
assegna ai dipartimenti e alle regioni i porti la cui attività principale è il commercio o la
pesca: è il prefetto regionale a stabilire a quale livello territoriale assegnare ogni porto.
La legge 2004-809 apporta poi rilevanti modifiche al Codice dell'azione sociale e
delle famiglia (artt. 121-1 e ss.). Il dipartimento “definisce e mette in opera le politiche di
azione sociale”, occupandosi della pianificazione dell'assistenza a minori, terza età e
anziani, nonché dell'inserimento sociale e professionale dei giovani tra 18 e 21 anni. L'art.
59 attribuisce ai dipartimenti, in via sperimentale, la competenza in ordine all'esecuzione
dei provvedimenti giudiziari a carico dei minori, mentre, secondo l'art. 65, sono trasferiti ai
dipartimenti i fondi di solidarietà per gli alloggi nonché i dispositivi di aiuto agli utenti
morosi di servizi idrici, elettrici e telefonici. Secondo la legge n. 2005-102, compete ai
dipartimenti anche l'assistenza ai disabili, in tema di politiche abitative e di inserimento
sociale. In base all'art. 1 della legge n. 2008-1249, infine, i dipartimenti erogano il c.d.
“Reddito di solidarietà attiva”, ammortizzatore sociale destinato ai disoccupati che si
impegnano a cercare un lavoro o a intraprendere un percorso di formazione.
Il Codice dell'educazione - artt. 213-1 e ss. - attribuisce ai dipartimenti la competenza
generale in materia di scuole medie, nonché la proprietà degli edifici che le ospitano.
2.4 Collettività territoriali d'Oltremare.
76
Previste dalla Costituzione, a cominciare dall'art. 72 che li comprende fra le
collettività territoriali della Repubblica, le collettività d'Oltremare sono gli ultimi territori
rimasti dopo la fine dell'Impero e dell'Unione francese. Sono elencate dall'art. 72-3. l'art.
73 specifica che, nei dipartimenti e nelle regioni d'Oltremare, leggi e regolamenti si
applicano di pieno diritto, ma possono essere adattati dalle collettività interessate alle
particolari caratteristiche del territorio. Ad eccezione della Réunion, inoltre, le collettività
d'Oltremare hanno un potere normativo, riconosciuto dall'art. 73 comma 3, in un numero
limitato di materie che rientrino in ambiti disciplinati da legge o regolamento, alle
condizioni stabilite da legge organica: da queste materie sono escluse la cittadinanza, i
diritti civili e politici, la difesa e la politica estera, la giurisdizione, la moneta. Si può creare
nel territorio della collettività d'Oltremare un nuovo ente con un diverso ordinamento, ma
solo previa consultazione della popolazione. I dipartimenti d'Oltremare sono individuati
dal Codice delle collettività territoriale, all'art. L3444-1: uno si trova ai Caraibi
(Guadalupa) e due nell'Oceano indiano al largo delle coste africane (Réunion e Mayotte).
Esiste poi la “collettività territoriale unica d'Oltremare”, con un solo organo politico
(l'Assemblea) che sostituisce il Consiglio regionale e quello dipartimentale: questo
modello di ente è adottato per Martinica e Guyana.
L'art. 74 della Costituzione disciplina le collettività d'Oltremare non comprese fra i
dipartimenti e le regioni. In ognuno di questi territori vige uno statuto approvato con legge
organica con il quale vengono stabilite le condizioni per l'applicazione delle leggi e dei
regolamenti della Repubblica. Per la Nuova Caledonia è prevista dagli artt. 76-77
un'ulteriore legge organica, la quale determina le competenze da trasferire agli organi
locali, e le condizioni alle quali la popolazione interessata sarà chiamata a referendum sulla
piena sovranità del territorio.
- Organi del dipartimento a Parigi e Lione. L'ordinamento dei dipartimenti assume
connotati particolari in almeno due casi - Parigi e Lione - nei quali il capoluogo del
dipartimento è anche il centro principale di un'importante area metropolitana. Nel territorio
della città di Parigi, coesistono due collettività territoriali: il comune e il dipartimento;
l'assemblea è unica per i due dipartimenti e prende il nome di “consiglio di Parigi”,
presieduto dal sindaco di Parigi. Si aggiungono al Consiglio di Parigi i vari Consigli di
arrondissement previsti in tutti i comuni metropolitani.
Analoga collettività territoriale speciale è stata istituita dalla legge 2014-58 ed è
destinata a entrare in vigore dall'1 gennaio 2015; comprende il territorio della comunità
urbana di Lione, e la corrispondente parte del dipartimento di cui la comunità urbana fa
parte (dipartimento del Rodano): si vedano gli artt. 3611-1 e seguenti del Codice. Tale
ente, pur essendo denominato “metropoli di Lione”, non è soggetto all'ordinamento delle
metropoli che, come evidenziato nel successivo paragrafo, sono semplici enti di
cooperazione intercomunale e, nel suo territorio di riferimento, esercita le stesse funzioni
di un dipartimento. Il dipartimento del Rodano non viene abrogato, ma non comprende più
il territorio della metropoli di Lione.
3. Metropoli (e disciplina delle comunità urbane).
- Metropoli e comunità urbane. Le comunità urbane sono enti di collaborazione fra
comuni la cui popolazione complessiva supera i 450.000 abitanti (art. L5215-1 Codice
collettività territoriali). La legge n. 2014-58 ha abbassato a 250.000 il limite minimo per la
loro formazione.
Nel linguaggio del Codice delle collettività territoriali, le “metropoli” - a differenza
delle Città metropolitane, come disciplinate dalla legge Delrio - non sono enti di area vasta,
77
sovrapponibili alle Province; si tratta di enti di collaborazione fra comuni, il cui scopo è
“elaborare e condurre un progetto comune di gestione e di sviluppo” (art. L5217-1).
Introdotte con la legge n. 2010-1563, le metropoli sono state oggetto di riforma con la
legge n. 2014-58. Secondo l'attuale disciplina, che entrerà compiutamente in vigore dall'1
gennaio 2015, le metropoli hanno il compito di valorizzare “le funzioni economiche
metropolitane, le sue reti di trasporto e le sue risorse universitarie, di ricerca e di
innovazione”. Sono trasformati in metropoli, per decreto, gli enti di cooperazione
intercomunale la cui popolazione complessiva è superiore a 400.000 abitanti, i quali
ricadano all'interno di un'area urbana che ne abbia più di 650.000 o con l'approvazione dei
consigli comunali interessati, rispettando dei quorum deliberativi definiti dalla legge - che
comprenda al suo interno il capoluogo della regione. L'elenco delle funzioni affidate alle
metropoli è vasto: l'art. 5217-2 del Codice comprende sviluppo economico e sociale,
mobilità e infrastrutture, politiche abitative, servizi pubblici locali. Dovrà redigere uno
“schema di coerenza territoriale”, sorta di documento di indirizzo. L'organo di
coordinamento della metropoli è il consiglio metropolitano: come tutti i membri dei
consigli negli enti intercomunali (art. L5211-6 del Codice), è eletto a suffragio universale
diretto, contestualmente alle elezioni municipali. A esso si affianca la conferenza
metropolitana formata dai sindaci dei comuni membri, in cui possono essere discusse tutte
le problematiche del territorio, e un consiglio di sviluppo composto dai rappresentanti delle
categorie produttive e socio-culturali, consultato sulle principali linee d'indirizzo della
metropoli. La metropoli sostituirà l'ente intercomunale presente nel suo territorio.
- Metropoli ordinarie e a statuto particolare. Le metropoli individuate dalla legge n.
2014-58 sono nove; in ordine decrescente di popolazione, sono Lilla, Bordeaux, Tolosa,
Nantes, Rouen, Strasburgo, Grenoble, Montpellier, Rennes, Brest. Ad esse si aggiungono
le metropoli a statuto particolare di Parigi e Marsiglia, e la metropoli di Lione. La
metropoli di Marsiglia (Aix-Marseille-Provence) è formata da diversi territori, ognuno dei
quali ha un proprio consiglio, il quale è formato dai consiglieri metropolitani dei comuni
che vi rientrano, e viene consultato dal consiglio metropolitano per ogni progetto di
delibera che riguardi quel territorio specifico ovvero che riguardi lo sviluppo economico e
la pianificazione territoriale. Al consiglio di territorio sono attribuite inoltre competenze
elencate all'art. L5218-6 del Codice.
A partire dall'1 gennaio 2016 sarà istituita la metropoli Grand Paris, comprendente
tutti i comuni dei dipartimenti di Parigi, della Val-de-Marne, delle Hauts-de-Seine e della
Seine-St.-Denis. Essa sarà organizzata in territori con una popolazione di almeno 300.000
abitanti: ognuno dei territori di Parigi, con il proprio consiglio,sarà competente ad
organizzare le funzioni delegate dal consiglio metropolitano. Il Consiglio costituzionale,
con la decisione n. 202-687, ha precisato che i comuni facenti parte dei territori
manterranno la propria identità.
4. Evoluzione delle riforme recenti. Ulteriori proposte di riforma.
Il 7 aprile 2013, un referendum confermativo, tenutosi a norma dell'art. 4124-1 del
Codice delle collettività territoriali in Alsazia, ha bocciato la deliberazione del Consiglio
regionale volta ad istituire una collettività unica, in sostituzione di dipartimento e regione.
Negli anni della Presidenza di Nicolas Sarkozy (2007-2012), contrassegnati da
un'intensa attività di revisione costituzionale, era stato affrontato anche il tema delle
collettività territoriali. L'apposito comitato per la riforma degli enti locali, istituito con
decreto presidenziale e presieduto da Edouard Balladur, aveva proposto l'unificazione dei
Consigli generali di dipartimento e dei Consigli regionali; questa proposta era stata
78
trasformata dal Parlamento nella legge 1563 del 16 dicembre 2010, istitutiva dei Consigli
territoriali. Nel 2013, dopo l'elezione di François Hollande alla Presidenza della
Repubblica, i Consigli territoriali sono stati abrogati, con la legge 403 del 17 marzo 2013;
si è tornati alla distinzione fra Consigli generali di dipartimento - ridenominati “Consigli
dipartimentali” - e Consigli regionali.
Come anticipato, la legge n. 2010-1563 aveva posto un limite alla clausola generale
di competenza delle collettività territoriali, limite poi rimosso dalla legge n 2014-58.
Nondimeno, l'ex Primo Ministro Ayrault, intervistato da Le Monde il 25 gennaio 2014, ha
annunciato l'intenzione di semplificare il quadro, attribuendo ai soli comuni la clausola
generale di competenza, e così sottraendola a dipartimenti e regioni.
Con un comunicato ufficiale del 2 giugno 2014, il Presidente Hollande ha annunciato
una nuova riforma strutturale degli enti locali: da un lato, è in programma un
ingrandimento delle unioni comunali, destinate a raggruppare Comuni fino a raggiungere
un limite demografico minimo di 20.000 abitanti, contro i 5.000 di oggi; dall’altro, il
Presidente promette di concludere, entro il 2020, una revisione costituzionale nel senso di
sopprimere i consigli generali - ormai ribattezzati, come detto sopra, “consigli
dipartimentali”. I dipartimenti sopravvivranno come ambito di riferimento per le prefetture,
ma non avranno più funzioni amministrative: queste saranno trasferite alle nuove unioni
comunali e alle nuove Regioni, che nei piani del Presidente dovranno essere accorpate in
modo che siano 14, in luogo delle attuali 22. Le Regioni si occuperanno della politica
economica e occupazionale, dei trasporti e delle infrastrutture, nonché delle scuole medie e
superiori.
Proposte di riforma delle autonomie territoriali in Francia in ottica
comparata di Luca Beccaria
L'aspettativa di riforme in grado di semplificare la vita delle istituzioni e migliorare
l'efficienza dei servizi pubblici costituisce un sentire comune a livello non solo italiano, ma
specialmente europeo. Forse complice la crisi economica e finanziaria, che dal 2008 ha
costretto le autorità pubbliche ad interrogarsi sul proprio modello organizzativo, la
domanda di una progressiva semplificazione dei rapporti fra cittadino e istituzioni è
sfociata in questi anni in tentativi di riforma dei livelli delle autonomie territoriali,
presentando aspetti comparabili tra diversi paesi d'Europa.
Recentemente, con la legge 7 aprile 2014, n. 56, cd. legge Delrio, l'Italia ha avviato
una profonda modificazione delle proprie autonomie, con particolare riguardo a Comuni,
Province, Unioni di comuni e Città metropolitane.
Un percorso assimilabile, con peculiarità interessanti ai fini del dibattito italiano, sta
prendendo piede in Francia, dove il Presidente della Repubblica, François Hollande, in un
intervento pubblico rilasciato il 3 giugno 2014, ha dettato le linee guida del nuovo
Governo, guidato dal Primo ministro Manuel Valls, sul tema “Riformare i territori per
riformare la Francia”, in cui si possono individuare tre macro-aree di azione e un aspetto di
fondo che tiene insieme tutto il portato della proposta. Caratteristica permeante tutto
l'impianto della riforma proposta da Hollande è riassumibile con il termine “gradualità”, in
quanto l'orizzonte temporale di riferimento guarda al 2020 quale momento di
completamento della riforma, con alcune tappe intermedie che si vedranno in seguito.
79
1. La riforma degli enti di cooperazione intercomunali. Viene sì ribadita
l'importanza del Comune quale ente più vicino ai cittadini, il quale deve rappresentare “una
Repubblica piccola all'interno di quella grande”, affrontando, però, i problemi legati
all'estrema frammentazione, con 36.700 comuni.
Si intende procedere verso un rafforzamento degli enti di cooperazione
intercomunale (établissement public de coopération intercommunale – EPCI), rispetto al
loro attuale assetto, che li rende troppo frammentati e di dimensioni eterogenee. La
proposta intende alzare il requisito minimo, in termini di abitanti, da 5mila a 20mila entro
il 1° gennaio 2017, prevedendo deroghe per i territori montani e quelli scarsamente
popolati, come avvenuto anche in Italia.
Su questo fronte, il panorama italiano è mutato notevolmente a partire dal 2011.
Dapprima il Governo Monti ha cercato di determinare un numero “ottimale” di abitanti per
diversi enti locali. È stato il caso delle Province, con l'indicazione di 350mila abitanti e
delle Unioni di comuni, con l'indicazione di un minimo pari a 10mila abitanti, salvo
deroghe da parte delle Regioni (art. 19 del d.l. 95/2011, convertito nella legge 135/2011).
Da qui si può desumere un primo insegnamento: all'interno dell'ordinamento italiano
manca ancora una considerazione giuridica “territorio scarsamente popolato”, forse anche
per la mancanza di un suo riconoscimento costituzionale, diversamente da quanto accade
con l'art. 44, comma 2 Cost., per le realtà montane.
In chiave comparativa, con la l. n. 56/2014 l'Italia ha mantenuto, in 10mila abitanti, il
criterio numerico per le Unioni di comuni, prevedendo l'abbassamento a 3mila abitanti per
quelle realtà in cui i comuni appartengano a comunità montane (comma 107), salvo
esonerare dal rispetto di questi criteri tutte le unioni esistenti al momento dell'entrata in
vigore della legge Delrio. Appare evidente che quest'ultima prescrizione depotenzia il
portato della riforma italiana, in cui ben oltre la metà dei Comuni non raggiunge i 3mila
abitanti (per esattezza 4718)128
, denotando il maggior coraggio del progetto francese.
2. La riduzione del numero delle regioni per raggiungere una "dimensione
europea". Nodo ripreso a livello mediatico, ma finora non affrontato dal legislatore
italiano, è quello di un ripensamento degli enti-Regioni dal punto di vista del loro numero e
autosufficienza finanziaria. In un’epoca in cui riprende il dibattito anche in Germania, dove
si parla di una riduzione del numero dei Länder da sedici a nove, ponendo sotto
osservazione principalmente le c.d. città-stato (Berlino, Brema e Amburgo). La strada, in
questo caso, è ancora in salita, visto che l'ultimo accorpamento risale al 1952 con l'unione
di Baden, Württemberg-Baden e Württemberg-Hohenzollern nel Land Baden-
Württemberg. Importante, per meglio apprendere come procedere, è una rilettura del
risultato del referendum del 1996 che bocciò l'unione di Berlino e Brandeburgo, in cui i
risultati furono profondamente differenti tra le due realtà; a Berlino si è detto favorevole
poco meno del 57% degli elettori mentre oltre il 41% ha votato contro. Situazione opposta
nel Brandeburgo dove hanno votato contro la proposta di unione circa il 60%, mentre i
favorevoli si sono attestati poco sopra il 38 %.
Uno spiraglio a favore della fusione sarà possibile a partire dal biennio 2019-2020, in
cui terminerà (salvo proroghe) il länderfinanzausgleich – il meccanismo di perequazione
previsto per i Länder – e il pareggio di bilancio produrrà effetti: la conseguenza più
probabile sarà che i Länder finanziariamente deficitari potrebbero avere come sola
soluzione l'accorpamento.
128
Cfr. L. Vandelli, Il sistema delle autonomie locali, Bologna, 2007.
80
Stante lo spirito del tempo, contraddistinto da una generale riorganizzazione,
orientata ad una maggiore efficienza e risparmio di denaro pubblico, la Francia annuncia
l'intenzione di tagliare le proprie regioni da 22 a 14 entità; l'obiettivo di fondo è quello di
addivenire a regioni “di dimensione europee, capaci di costruire delle strategie territoriali”.
Appare evidente la povertà del dibattito pubblico in Italia su questi sia pur importantissimi
temi, lasciati cadere nel dimenticatoio a partire degli studi sulle mesoregioni, compiuti
dalla Fondazione Agnelli nel 1992129
e che tuttavia meriterebbero di essere ripresi, anche
alla luce delle profonde variazioni socio-economiche che deriverebbero da una simile
revisione delle geografie amministrative d'Oltralpe.
3. La soppressione130
dell'ente intermedio “dipartimento”. Il futuro dell'ente
intermedio francese per eccellenza, il Dipartimento, sembrerebbe segnato, mentre in Italia
il procedimento di riorganizzazione che ha visto coinvolto l'ente intermedio Provincia, è
ancora contrassegnato da profonde differenze e difficoltà.
In primo luogo, l'ente-Dipartimento rimarrebbe come livello geografico di
decentramento dei servizi dipendenti dallo Stato, dovendo però “rinunciare a esercitare le
competenze riconosciute agli enti locali”. Questo passaggio avviene a fronte di
un'espansione degli EPCI (tendenza assimilabile a quanto previsto per le nostre Unioni di
comuni), che verrebbero ad aumentare il proprio bacino minimo di utenti di quattro volte,
passando da 5mila a 20mila abitanti, e la cui importanza crescente comporterà che essi
diventino “nel rispetto dell’identità comunale, la struttura di prossimità in grado di
garantire l’efficacia dell’azione locale”. Sono tali unioni a vedersi conferita “ogni
legittimità democratica”, ove si sottintende elezione a suffragio universale diretta, strada
assolutamente evitata dal legislatore italiano del 2014, con dubbi circa la legittimità
costituzionale e di rispetto della Carta Europea dell'Autonomia Locale, ratificata dall'Italia
con la l. 30 dicembre 1989, n. 439.
4. Dubbi su alcuni aspetti della riforma e conclusioni. Alcuni nodi non vengono
toccati dall'intervento del Presidente francese, ma i cui risvolti saranno molto interessanti
anche per un confronto con le esperienze del Senato francese. In primo luogo ci sarebbe da
riflettere sul cambiamento che avverrà nell’elettorato attivo per il Senato, in quanto il
venire meno dei consiglieri generali, farebbe diminuire la platea dei “grandi elettori” di
quel ramo del Parlamento. In aggiunta a ciò, vista l'intenzione di conferire “ogni
legittimazione democratica” alle forme di cooperazione intercomunali, sarebbe interessante
comprendere se anche agli eletti in questi enti sarà conferito l'elettorato attivo per il Senato.
In secondo luogo, sarebbe da definire la modalità con cui questi enti intercomunali
saranno di supporto per la solidarietà, visto anche la loro titolarità di buona parte delle
attribuzioni dei dipartimenti; qui il nodo sarà sicuramente la composizione dei conflitti tra
enti intercomunali e comuni, avendo a quel punto entrambi la medesima legittimazione
democratica. Viene da chiedersi se questa scelta di rafforzare l’intercomunalité non rischi
di produrre un aumento della litigiosità interna agli enti intercomunali, ben più di quanto
potesse accadere con la mediazione operata a livello di dipartimento, specialmente
considerando la possibilità di “spostamento” di un comune da un ente intercomunale
all'altro.
Come si è già detto, il pregio dell'approccio riformatore francese è caratterizzato
dalla gradualità con cui esso viene portato avanti. La prima scadenza è fissata al 2017 e
129
M. Pacini, a cura di, Un federalismo dei valori. Percorso e conclusioni di un programma della
Fondazione Giovanni Agnelli (1992-1996), Torino, 1996. 130
Cfr. A. Boyer, Faut - il suppremer le departement?, Milano, 2010.
81
riguarda l'innalzamento della soglia minima di abitanti per gli EPCI. La seconda riguarda
la completa realizzazione di tutta la riforma entro il 2020, passando per un appuntamento
elettorale in cui saranno ancora rinnovati gli organi di rappresentanza dipartimentali
nell'autunno del 2015. Non viene pertanto seguito un approccio “emergenziale”, come
quello del periodo 2011-2012 per l'Italia, sfociato in una crisi di rigetto con la sentenza
della Corte costituzionale n. 220 del 2013. L’approccio francese passa dalla mise-en-
oeuvre di un progetto di riforma istituzionale orientato alla competitività delle regioni su
scala europea, al miglioramento dei servizi pubblici, innalzando la bandiera della
democraticità e della democrazia di prossimità.
Intervento di François Hollande, "Réformer les territoires pour réformer la France":
«Depuis deux siècles, la République a cherché à concilier l’unité de l’Etat, avec
l’exercice le plus libre possible de la démocratie locale.
Mais il a fallu attendre les grandes lois de décentralisation de 1982 sous la
Présidence de François Mitterrand, pour élargir les responsabilités des communes et des
départements, et faire des régions des collectivités locales à part entière.
Puis sous la présidence de Jacques Chirac, la République décentralisée a été
consacrée dans la Constitution. C’était aussi une façon de reconnaître que nos territoires et
les élus qui les représentent, ont incontestablement contribué depuis trente ans à la
modernisation du pays et à l’amélioration de la vie quotidienne des Français.
Le temps est venu de donner une forme nouvelle à cette ambition. Parce que notre
organisation territoriale a vieilli et que les strates se sont accumulées. Parce que les moyens
de communication, les mutations économiques, les modes de vie ont effacé les limites
administratives. Parce que nous devons répondre aux inquiétudes des citoyens qui vivent à
l’écart des centres les plus dynamiques et qui redoutent d’être délaissés par l’Etat en milieu
rural comme dans les quartiers populaires.
Le temps est donc venu de simplifier et clarifier pour que chacun sache qui décide,
qui finance et à partir de quelles ressources. Le temps est venu d’offrir une meilleure
qualité de service et de moins solliciter le contribuable tout en assurant la solidarité
financière entre collectivités selon leur niveau de richesse.
La réforme que j’ai demandé au Premier ministre et au Gouvernement de mettre en
œuvre, en y associant toutes les familles politiques, est majeure. Il s’agit de transformer
pour plusieurs décennies l’architecture territoriale de la République.
Au plus près des habitants, la commune est l’institution à laquelle chaque Français
est le plus attaché. C’est dans ce cadre que se pratiquent chaque jour la solidarité et la
citoyenneté. Elle doit demeurer « une petite République dans la grande ». La spécificité de
notre pays c’est de compter 36700 communes.
L’ensemble du territoire national est aujourd’hui couvert par des intercommunalités.
Mais elles sont de taille différente et avec des moyens trop faibles pour porter des projets.
82
Ce processus d’intégration doit se poursuivre et s’amplifier. C’est le sens de la
réforme proposée. Les intercommunalités changeront d’échelle. Chacune d’entre elles
devra regrouper au moins 20 000 habitants à partir du 1er janvier 2017, contre 5000
aujourd’hui. Des adaptations seront prévues pour les zones de montagne et les territoires
faiblement peuplés.
L’intercommunalité deviendra donc, dans le respect de l’identité communale, la
structure de proximité et d’efficacité de l’action locale. Il faudra en tenir compte pour lui
donner le moment venu toute sa légitimité démocratique. Comme il en a été décidé pour
les 13 métropoles et le Grand Paris qui ont été créés par la loi du 27 janvier 2014.
Les régions, quant à elles, se sont imposées comme des acteurs majeurs de
l’aménagement du territoire. Mais elles sont à l’étroit dans des espaces qui sont hérités de
découpages administratifs remontant au milieu des années soixante. Leurs ressources ne
correspondent plus à leurs compétences, qui elles-mêmes ne sont plus adaptées au
développement de l’économie locale.
Pour les renforcer, je propose donc de ramener leur nombre de 22 à 14. Elles seront
ainsi de taille européenne et capables de bâtir des stratégies territoriales. Une carte a été
définie. Elle prend en compte les volontés de coopération qui ont été déjà engagées par les
élus, dont je veux saluer le sens de l'intérêt général. Elle sera soumise au débat
parlementaire. Mais il faut aller vite car il ne nous est pas permis de tergiverser sur un sujet
aussi important pour l’avenir du pays.
Demain, ces grandes régions auront davantage de responsabilités. Elles seront la
seule collectivité compétente pour soutenir les entreprises et porter les politiques de
formation et d’emploi, pour intervenir en matière de transports, des trains régionaux aux
bus en passant par les routes, les aéroports et les ports. Elles géreront les lycées et les
collèges. Elles auront en charge l’aménagement et les grandes infrastructures.
Pour remplir leur rôle, elles disposeront de moyens financiers propres et dynamiques.
Et elles seront gérées par des assemblées de taille raisonnable. Ce qui veut dire moins
d’élus.
Dans ce nouveau contexte, le conseil général devra à terme disparaître. La création
de grandes régions, et le renforcement des intercommunalités absorberont une large part de
ses attributions. Mais cette décision doit être mise en œuvre de façon progressive car le
conseil général joue un rôle essentiel dans la solidarité de proximité et la gestion des
prestations aux personnes les plus fragiles. Et il ne peut être question de remettre en cause
ces politiques. Pas davantage les personnels dévoués qui continueront à les mettre en
œuvre. Du temps est nécessaire et de la souplesse est indispensable. Une large initiative
sera laissée aux élus pour assurer cette transition. Certaines métropoles pourront reprendre
les attributions des conseils généraux et toutes les expérimentations seront encouragées et
facilitées.
L’objectif doit être une révision constitutionnelle prévoyant la suppression du conseil
général en 2020. Je veux croire qu'une majorité politique nette se dessinera en faveur de ce
projet et que s’y associeront les élus qui, dans l'opposition aujourd’hui, souhaitent eux
aussi l’aboutissement de cette réforme. D’ici là, les élections pour le conseil départemental
83
seront fixées le même jour que celles pour les futures grandes régions à l’automne 2015.
Avec le mode de scrutin qui a été voté par la loi du 17 mai 2013.
Le département en tant que cadre d’action publique restera une circonscription de
référence essentielle pour l'Etat, autour des préfets et de l’administration déconcentrée avec
les missions qui sont attendues de lui : garantir le respect de la loi et protéger les citoyens
en leur permettant d’avoir accès aux services publics où qu’ils se trouvent. Mais il devra
renoncer à exercer les compétences reconnues aux collectivités.
Cette grande réforme s’inscrit dans la volonté de moderniser notre pays et de le
rendre plus fort. Elle est tournée vers les citoyens car il s’agit de simplifier notre vie
publique, de rendre plus efficace nos collectivités et de limiter le recours à l’impôt. Elle
repose sur les valeurs qui doivent nous rassembler : le souci constant de la démocratie, de
la solidarité et de l’efficacité. Et c’est pourquoi j’appelle tous les citoyens et, en particulier,
tous les élus locaux qui par leur engagement quotidien font vivre les institutions de la
République, à s’associer à sa réussite».
François Hollande
Tribune publiée dans la presse quotidienne régionale datée du 3 juin 2014131
131
http://www.elysee.fr/communiques-de-presse/article/reformer-les-territoires-pour-reformer-la-france/
84
PARTE V
FINANZA E CONTABILITÁ
[Corte cost. n. 88/2014]. La Corte costituzionale rafforza la “legge
rinforzata” di attuazione della riforma costituzionale sul c.d. pareggio di
bilancio di Giovanni Boggero
132
Con sentenza 10 aprile 2014 n. 88 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 10 comma 5 e dell’art. 12 comma 3 della legge 24 dicembre 2012 n.
243 recante Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi
dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione133
e ha invece dichiarato in parte
inammissibili e in parte non fondate le altre questioni riguardanti la medesima legge. I
ricorsi in via principale erano stati proposti dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e dalla
Provincia autonoma di Trento e sono stati riuniti in unico giudizio, stante la sostanziale
identità delle censure. La Corte si è limitata a dichiarare incostituzionali due norme
abbastanza marginali (1) (2) nel contesto dei nuovi obblighi gravanti su Regioni ed enti
locali a seguito dell’attuazione della legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1. Più rilevante
sembra essere, invece, la portata della dichiarazione di non fondatezza (3).
1. Quanto alla prima censura fondata, occorre innanzitutto osservare che l’art. 10
comma 5 stabiliva che i criteri e le modalità per l’indebitamento di Regioni ed enti locali
dovessero essere definiti con d.P.C.m. previa intesa con la Conferenza permanente per il
coordinamento della finanza pubblica. Secondo le ricorrenti, il rinvio ad una fonte
secondaria nell’ambito di una competenza assegnata alla potestà legislativa regionale
avrebbe violato sia l’art. 117 comma 6 Cost., sia l’art. 5 comma 2 lett. b) della legge
costituzionale n. 1/2012, nei limiti della quale la legge di attuazione deve disporre. A
giudizio della Corte, il rinvio alla fonte secondaria può dirsi conforme a Costituzione
soltanto se ad essa si demanda per la disciplina di aspetti meramente “tecnici” (cfr. Corte
costituzionale, sentenze nn. 139/2012 e 278/2010), motivo per il quale la norma della legge
di attuazione è incostituzionale nella parte in cui non prevede che i criteri e le modalità per
132
Già pubblicato su www.dirittiregionali.org 133
Per un commento alla legge sia consentito rinviare a: G. BOGGERO, Gli obblighi di Regioni ed enti locali
dopo la legge n. 243/2012, in Amministrare a. XLIV, n. 1 aprile 2014, 93-146.
85
l’attuazione abbiano esclusivamente natura “tecnica”. Alla pronuncia additiva la Corte
accompagna un esame delle singole disposizioni dell’art. 10 e stabilisce che:
a) il primo comma è autoesecutivo e non richiede ulteriore attuazione («Il ricorso
all’indebitamento è consentito esclusivamente per finanziare spese di investimento»);
b) il secondo comma richiede un’attuazione che può essere demandata alla fonte
secondaria, stante la natura tecnica della disciplina relativa alla predisposizione dei piani di
ammortamento;
c) il terzo comma reca un limite quantitativo all’indebitamento che è certamente
inderogabile da parte della fonte secondaria, mentre le modalità di comunicazione da parte
degli enti locali del saldo di cassa e degli investimenti da realizzare rientrano nella
competenza legislativa esclusiva statale in materia di coordinamento informativo e
statistico e possono quindi essere disciplinate con d.P.C.m. (art. 117 comma 2 lett. r)
Cost.);
d) il quarto comma, infine, demanda alla fonte secondaria la definizione dei criteri di
riparto del saldo negativo tra gli enti inadempienti di una Regione in caso di mancato
rispetto dell’equilibrio. A questo proposito, rileva la Corte, il d.P.C.m. «potrebbe
comportare l’esercizio di un potere tanto di natura meramente tecnica, quanto di natura
discrezionale». La Corte non specifica in che cosa debba consistere il compito tecnico-
attuativo del decreto, anche se pare di capire che esso debba limitarsi a dettare criteri di
ripartizione senza poter derogare alla regola fissata dal medesimo quarto comma per la
quale «il saldo negativo concorre alla determinazione dell’equilibrio della gestione di cassa
finale dell’anno successivo del complesso degli enti della Regione interessata, compresa la
medesima Regione» e senza nemmeno invadere la potestà regolamentare delle Regioni.
La Corte rigetta invece la doglianza delle ricorrenti relativamente alla violazione del
principio di leale collaborazione. L’intesa con la Conferenza permanente per il
coordinamento della finanza pubblica è infatti una garanzia procedimentale di per sé
sufficiente del coinvolgimento delle autonomie e non è quindi necessario, come richiesto
invece dalle ricorrenti, la previsione di un’intesa con la Conferenza unificata (cfr. Corte
costituzionale sentenze nn. 376/2003 e 171/2007).
2. Viceversa, con una pronuncia sostitutiva, la Corte ha dichiarato violato il principio
di leale collaborazione da parte della norma di cui all’art. 12 comma 3 della legge
rinforzata, la quale prevede che, nelle fasi favorevoli del ciclo economico, un d.P.C.m
determini il contributo di Regioni e di enti locali al Fondo di ammortamento per i titoli di
Stato, sentita la Conferenza per il coordinamento della finanza pubblica. Secondo la Corte,
«considerate l’entità del sacrificio imposto e la delicatezza del compito cui la Conferenza è
chiamata», l’adozione del decreto dovrebbe fare seguito ad un’intesa e non essere
meramente successiva all’ottenimento di un parere non vincolante. A dover essere
coinvolta è poi la Conferenza unificata e non la Conferenza per il coordinamento della
finanza pubblica, dal momento che occorre «garantire a tutti gli enti territoriali la
possibilità di collaborare alla fase decisionale». Tra le conseguenze del giudicato si deve
osservare la compresenza delle due Conferenze nel sistema di coordinamento per la
finanza pubblica, circostanza che non sembra essere improntata né ad esigenze di
semplificazione, né ad esigenze di specializzazione del sistema.
3. Vengono invece dichiarate inammissibili o non fondate le altre censure. Per
quanto riguarda le prime, l’inammissibilità si deve a carenza di motivazione da parte delle
ricorrenti le quali non hanno indicato i parametri costituzionali ritenuti violati dalle norme
di cui ai comma 2 e 3 dell’art. 9 della legge rinforzata. Per quanto riguarda le seconde, la
Corte dichiara non fondate le doglianze delle ricorrenti avverso i comma 3, 4 e 5 dell’art.
10 della legge rinforzata. Esse lamentavano che le norme disciplinanti l’indebitamento
86
degli enti territoriali avessero natura dettagliata ed eccedessero i limiti propri
dell’intervento statale nella materia del coordinamento della finanza pubblica, la quale
dovrebbe limitarsi alla determinazione dei principi, violando così l’autonomia finanziaria
delle Regioni. Secondo la Corte, invece, l’art. 5 comma 2 lett. b) della legge costituzionale
n. 1/2012 non prevede che la disciplina attuativa debba limitarsi ai principi generali. In
altre parole la Corte sembra non voler ricondurre la disciplina dell’indebitamento degli enti
territoriali alla materia del coordinamento della finanza pubblica ex art. 117 comma 3
Cost., come invece aveva fatto in passato (su tutte si veda la sentenza n. 376/2003). Al
contrario, sulla base del combinato disposto tra il nuovo art. 119 comma 6 Cost. e l’art. 5
comma 2 lett. b) della legge costituzionale n. 1/2012, ella pare affermare che il legislatore
costituzionale abbia voluto attribuire alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia
dell’indebitamento degli enti territoriali. Già in passato, comunque, pur fondando la
legittimità della disciplina statale sulla potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni
ex art. 117 comma 3 Cost., la Corte aveva sostenuto che, ai fini del coordinamento della
finanza pubblica e della tutela dell’unità economica della Repubblica, non fosse
ammissibile che «ogni ente, e così ogni Regione, fac[esse] in proprio le scelte di
concretizzazione delle nozioni di indebitamento e di investimento» (sentenza n. 425/2004).
La Corte non manca di rilevare la necessità di assicurare omogeneità della disciplina nei
confronti di tutte le autonomie ordinarie e speciali, sostenendo che essa vi sia «oggi ancor
più che in passato», dal momento che i nuovi vincoli sarebbero «più incisivi e pregnanti».
Non è chiaro, tuttavia, in che misura i nuovi vincoli possano presentarsi come più
penetranti, dal momento che, anche prima della riforma costituzionale del 2012, la Corte
aveva fatto salve norme statali in materia di indebitamento degli enti territoriali
particolarmente “incisive e pregnanti” (si vedano le già ricordate sentenze nn. 376/2003 e
425/2004). E’ comunque possibile attendersi che, in futuro, la Corte voglia fare salve
norme statali che fissino limiti ancora più stringenti e puntuali all’indebitamento delle
autonomie.
Il giudizio di parificazione del rendiconto 2012 della Regione Piemonte. Nota a
Corte dei Conti, Sez. reg. di controllo, delibera 26.03.2014, n. 51 di Marco Comaschi
87
La delibera in questione rappresenta, in sostanza, l'atto conclusivo del giudizio di
parificazione del rendiconto della Regione Piemonte relativo all'anno 2012 e, come tale,
fornisce alcuni importanti spunti sia dal punto di vista teorico per quanto concerne le
modalità d'esercizio dei nuovi controlli sulla gestione finanziaria delle regioni da parte
della magistratura contabile sia, dal punto di vista squisitamente pratico, per quanto attiene
allo “stato di salute” del bilancio regionale.
Occorre innanzitutto premettere come il giudizio di parificazione da parte della Corte
dei Conti, disciplinato dagli artt. 38-41 del r. d. 12 luglio 1934, n. 1214, sia stato esteso ai
rendiconti regionali dall'art. 1, comma 3 del d.l. 10 ottobre 2012, n.174134
nell'ambito di
una più articolata evoluzione dei sistemi di controlli relativi alla gestione finanziaria delle
Regioni e, pertanto, abbia trovato la sua prima applicazione proprio in riferimento
all'esercizio finanziario 2012135
.
134
Le disposizioni del D.l. n. 174/2012 che affidano alle Sezioni regionali di controllo della Corte la parifica
dei rendiconti regionali presentano carattere di assoluta novità per le regioni a statuto ordinario, mentre una
parifica del rendiconto era già prevista dagli statuti della maggior parte delle regioni ad autonomia
differenziata. 135
I nuovi controlli attribuiti alle Sezioni Regionali di Controllo della Corte dei Conti possono essere così
sintetizzati:
I) Controllo semestrale sulla copertura finanziaria delle singole leggi regionali;
II) Esame dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi delle regioni, anche alla luce delle partecipazioni
in società controllate, nonché degli enti che compongono il s.s.n.. La Corte Costituzionale ha però
recentemente dichiarato incostituzionale tale forma di controllo, con la sent. 39/2014. Si veda in proposito B.
CARAVITA ED E. JORIO, La Corte costituzionale e l’attività della Corte dei conti, in Federalismi, n. 6/2014;
III) Giudizio di parificazione del rendiconto della Regione;
IV) Obbligo per il Presidente della Regione di inviare alla Sezione una relazione annuale sulla regolarità
della gestione e sui sistemi di controlli interni adottato;
V) Obbligo di redigere un rendiconto annuale per ciascun gruppo consiliare, che il Presidente del Consiglio
Regionale ( e non il Presidente della Regione, a seguito della sentenza Corte Cost. n. 39/2014) deve a sua
volta inoltrare alla Corte dei Conti. Sul tema cfr. D. MORGANTE, I nuovi presidi della finanza regionale e il
ruolo della Corte dei conti nel D.l. n. 174/2012, in Federalismi, n. 1/2013; Id., L’accesso alla giustizia
Parole chiave: corte dei conti, finanza e bilancio regionale, armonizzazione dei bilanci pubblici, coordinamento della finanza pubblica, controlli sulla gestione finanziaria delle regioni, giudizio di parificazione. Riferimenti normativi: artt. 81, 97, 100 comma 2; art. 117 comma 2; artt. 119 e 120 Cost; art. 1 d.l. 10.10.2012, n. 174; artt. 38-41 R.D. 12.7.1934, n. 1214. Massima: Le osservazioni fornite dalla Regione Piemonte a seguito di specifiche richieste istruttorie, formulate dalla Sezione di Controllo a margine del giudizio di parificazione del rendiconto 2012, non superano i rilievi già mossi e di cui non si è tenuto conto in sede di approvazione del consuntivo. Si sollecita pertanto la Regione ad adottare ogni azione utile atta a superare prima possibile le gravi irregolarità segnalate. Link al documento
88
Questo nuovo strumento di controllo si sostanzia, in poche parole, nel raffronto tra le
risultanze della gestione – così come riportate nel consuntivo – e le corrispondenti voci
contenute nel bilancio di previsione136
, ed è stato introdotto dal legislatore nazionale in
virtù dei principi di armonizzazione dei bilanci pubblici, di coordinamento della finanza
pubblica e di rispetto dei vincoli finanziari derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione
europea.
I nuovi poteri affidati alla Corte dei Conti possono inoltre ritenersi non lesivi delle
competenze e dell'autonomia regionale, dato che la stessa Consulta ha già avuto modo di
affermare in passato la piena compatibilità dei controlli successivi sulla gestione
economico-finanziaria con le prerogative riconosciute ai vari livelli di governo del
territorio dal Titolo V della Costituzione137.
Quanto poi al caso di specie, le particolari criticità della situazione finanziaria della
Regione Piemonte hanno fatto sì che il procedimento di parificazione del rendiconto 2012
risultasse alquanto articolato, e ciò anche se tale forma di controllo da parte del giudice
contabile debba essere considerata squisitamente referente o per avviso.
Da parte sua la Regione ha inizialmente provveduto a trasmettere, in ossequio alle
nuove disposizioni in materia, la proposta di rendiconto generale per l'esercizio finanziario
2012, a cui ha fatto poi seguito la specifica Relazione redatta dal Direttore del Settore
finanziario della Regione Piemonte ai sensi dell'art. 1, comma 3 del d.l. n. 174/2012138
.
Il fatto che il Giudice contabile sia chiamato ad esprimersi sulla proposta di
rendiconto e, quindi, prima della legge regionale di approvazione del consuntivo è di
fondamentale importanza: in questo modo la Corte dei Conti può svolgere un'importante
“...funzione di ausiliarietà rispetto al controllo politico che il potere legislativo esercita
sulla gestione delle pubbliche risorse da parte dei governi...”.139
A seguito di un'importante attività istruttoria, svolta per quanto possibile in
contraddittorio con l'amministrazione140
, è stata predisposta una dettagliata relazione sulla
contabile alla luce delle novità introdotte dal D.l. n. 174/2012 convertito dalla legge n. 213/2012; F. BATTINI,
Riassetto dei controllo ex D.l. n. 174/2012 convertito dalla legge n. 213/2012: linee guida della Corte dei
conti (Regioni), in Giornale Dir. Amm., 2013, 5, 531; 136
Dal punto di vista procedurale, i passaggi fondamentali in cui si articola il giudizio di parificazione sono:
I) trasmissione da parte della Regione della proposta di legge di approvazione del rendiconto, unitamente
all'allegata relazione dell'organo di revisione; II) Istruzione del procedimento in contraddittorio con la
Regione III) Deliberazione di parifica, a cui viene obbligatoriamente allegata una relazione motivata, in cui
possono essere proposte eventuali misure di correzione ed interventi di riforma; IV) Trasmissione della
delibera di parificazione al Presidente della Giunta Regionale e al Consiglio Regionale V)Eventuale analisi
degli interventi adottati sulla scorta delle indicazioni formulate dalla Sezione Regionale di Controllo. Da
sottolineare come l'espresso rinvio alla disciplina inerente il giudizio di parificazione del rendiconto dello
Stato comporta, anche per quello regionale, il riconoscimento alla Corte dei Conti della legittimazione a
sollevare la questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 81 Cost (in tal senso, a proposito dei
controlli sulle Regioni a Statuto Speciale, Corte Cost., sentt. n. 165/1963, 121/1966, 142 e 143 del 1968). Sul
giudizio di parificazione si veda F. BATTINI, La parificazione dei rendiconti regionali, in Giornale Dir. Amm.,
2013, 11, 1091. 137
Si vedano, ex multis, Corte Cost., sentt. nn. 267/2006, 179/2007, 39/2011 e 198/2012. 138
In verità la norma citata dispone che, in via ordinaria, sia il Collegio dei revisori dei conti a predisporre la
suddetta relazione. Tuttavia nel caso della Regione Piemonte questo non è potuto avvenire per il rendiconto
2012, dato che l'organo di revisione non era ancora operante alla data di scadenza del termine per la
trasmissione della relazione. 139
Corte dei Conti, Sez. Autonomie, delibera n. 9 del 26/03/2013 140
In merito alla centralità che il contraddittorio assume nel giudizio di parificazione le Sez. riunite contr.,
delibera n. 7 del 14/06/2013, hanno affermato che “...il contraddittorio con gli enti controllati deve essere
assicurato durante tutto l'iter procedurale, a partire dall'istruttoria, e su tutti i temi sottoposti a verifica per
essere definito, attraverso successivi affinamenti, prima dell'udienza pubblica. Aggiungono tuttavia al
89
gestione finanziaria della Regione ed il Procuratore regionale ha presentato la propria
requisitoria, chiedendo alla Sezione regionale di controllo di accertare la regolarità del
rendiconto “...nei limiti precisati nella relazione sulla gestione finanziaria”, volendo altresì
dichiarare “...l’obbligo della regione Piemonte di provvedere alla rettifica del rendiconto
generale da sottoporre all’approvazione consiliare, nonché di provvedere alle attività
preordinate alla modificazione del bilancio dell’esercizio in corso in base alle conseguenti
risultanze del rendiconto e di conformare l’attività amministrativa alle correlate
rimodulazioni dell’entrata e della spesa”141
.
La Sezione di Controllo si è quindi espressa positivamente, con la delibera n.
276/2013, a riguardo della parifica del conto del bilancio e del conto del patrimonio, ad
esclusione però del quadro riassuntivo del disavanzo finanziario, dato che con questo
veniva accertato un disavanzo finanziario di € 1.150.257.926,03 a fronte, invece, di
passività che la Sezione di Controllo ha indicato ammontare a ben € 2.841.374.089,03142.
Peraltro, a seguito dell'approvazione del rendiconto con legge regionale 6 agosto
2013, n. 15 è emersa la necessità di approfondire alcuni aspetti critici – già segnalati nel
corso del giudizio di parificazione – rimasti tuttavia irrisolti.
L'Amministrazione regionale ha quindi provveduto a fornire alcuni ulteriori
chiarimenti, a cui ha fatto seguito la delibera qui in esame che, pertanto, rappresenta
un'ultima analisi riepilogativa delle questioni sollevate dal giudice contabile a riguardo del
rendiconto regionale 2012.
1) In prima battuta la Corte dei Conti affronta il tema della riduzione dei costi degli
apparati amministrativi, argomento su cui era stata avanzata nei confronti della Regione
specifica richiesta istruttoria. L'analisi dei dati successivamente forniti, ha permesso di
verificare il rispetto dei limiti di cui all'art. 6 del d.l. n. 78/2010, sia a riguardo delle spese
inerenti il conferimento di incarichi di studio e consulenze, sia in merito alle spese
sostenute per le missioni e per le locazioni passive. Pur esprimendo quindi un giudizio
positivo, il Giudice contabile ha indicato, quale best practice per la redazione del bilancio,
la creazione di appositi capitoli relative alle citate tipologie di spesa, così da permetterne
una verifica semplice ed immediata, anche da parte dei consiglieri chiamati ad esprimersi
sulle leggi di bilancio.
2) Ugualmente positiva è stata la valutazione sulle precisazioni fornite dalla Regione
a proposito della spesa di personale sostenuta nell'anno 2012 dato che, a fronte del cessato
servizio di 8 dipendenti a tempo determinato e 60 a tempo indeterminato, non è stata
effettuata alcuna assunzione.
Da questi due aspetti oggetto di approfondimento emerge, quindi, come
l'Amministrazione regionale abbia posto in essere – avendone pienamente sia la facoltà che
i mezzi – alcune opportune politiche di contenimento della spesa di parte corrente.
riguardo, soprattutto tenendo conto della distinzione tra la "decisione" di parifica e la relazione che
l'accompagna, che i Presidenti delle Sezioni regionali di controllo possono eventualmente disciplinare le fasi
e le modalità del contraddittorio anche mediante l'adozione di adeguate misure volte al migliore e proficuo
esercizio della funzione e alla conseguente celebrazione della peculiare udienza di parificazione.” 141
Tutti gli atti relativi al giudizio di parificazione sono reperibili su:
http://www.corteconti.it/novita/dettaglio.html?resourceType=/_documenti/novita/elem_0405.html 142
Il dato, quanto mai allarmante, è dovuto alla mancata considerazione delle seguenti passività riportate nel
conto del patrimonio:
“1) € 397.145.00,00 derivanti da anticipazione straordinaria di cui alla d.g.r. 39-11230 del 14 aprile 2009;
2) € 57.971.163,00 quale fondo rischi relativa alla sentenza della Corte d'Appello di Torino n. 465/10 del
12.12.2012 (relativa al contenzioso fra la Regione e Unicredit Banca S.p.A);
3) € 370.000.000,00 quali passività pregresse inerenti al Trasporto Pubblico Locale;
4) € 866.000.000,00 per passività definita “ Allineamento con la situazione patrimoniale delle aziende
sanitarie”.
90
Diversamente, invece, la Sezione di Controllo rileva come gran parte dei problemi
strutturali del bilancio regionale permangano del tutto immutati, anche a seguito dei rilievi
precedentemente mossi.
3) Particolare apprensione viene manifestata dal giudice contabile a proposito dei
residui attivi conservati nel conto del bilancio crediti, la cui esigibilità risulta
particolarmente dubbia e che, tuttavia, sono stati conservati nella loro interezza nel conto
del bilancio approvato. Basti pensare a titolo esemplificativo che, tra le somme che la
Regione potrebbe ancora teoricamente riscuotere, vengono riportati € 299. 867.478 riferiti
all'IRPEF 2004, ed € 246.626.686 relativi all'IRPEF 2008. Stante quindi il mancato
incasso, nel corso del 2013, di gran parte dei crediti indicati, unitamente alla mancata
produzione di una puntuale documentazione comprovante l'esigibilità dei crediti,
l'accertamento degli stessi e le azioni intraprese per la loro riscossione, la Corte ha
nuovamente invitato l'Amministrazione regionale a cancellare dal bilancio quei residui
attivi che non potranno realmente essere riscossi.
4) Peraltro i problemi relativi ai residui posti a bilancio non si fermano a questi: ed
infatti, se da un lato la Regione ha mantenuto crediti (residui attivi) che difficilmente potrà
incassare, dall'altro ha considerato perenti alcuni importanti debiti (residui passivi)
maturati dalla stessa negli anni che, al contrario, potrebbe essere chiamata a pagare.
Il problema, in particolare, assume una doppia valenza per la Corte dei Conti dato
che la maggior parte dei debiti cancellati dalla Regione sono in realtà stati mantenuti quali
residui attivi da altre P.A., quali province e comuni. A tal riguardo il giudice invita
l'Amministrazione regionale a valutare meglio l'avvenuta perenzione dei debiti in quanto
“la cancellazione dal conto del patrimonio dei debiti nei confronti di altre
Amministrazioni, trascorsi dieci anni dalla loro iscrizione, senza alcuna valutazione in
ordine all’effettiva sussistenza del debito, non sembra coerente con la natura dei crediti
delle Amministrazioni locali e con la circostanza che molti di essi divengono esigibili
solamente a seguito del completamento di procedure amministrative che, in alcuni casi, si
dilatano nel tempo”.
5) Uno specifico approfondimento è stato poi volutamente svolto dalla Corte a
riguardo della procedura di leasing immobiliare attuata dalla Regione per la realizzazione
del nuovo complesso amministrativo ed istituzionale della Regione, dato che l'operazione
non ha presentato alcuna incidenza diretta sull'esercizio 2012 e sul relativo consuntivo. In
realtà il giudice ha colto l'occasione per fornire alcune importanti indicazioni
all'Amministrazione regionale su come contabilizzare in futuro gli oneri derivanti
dall'operazione, così da scongiurare rilievi più gravi sulla gestione finanziaria dei
successivi esercizi. Infatti, a detta della Corte, i caratteri propri dell'operazione inducono a
considerarla – contrariamente a quanto inteso e sperato dalla Regione – un finanziamento
avente natura debitoria e non un leasing immobiliare rientrante nella nozione di
partenariato pubblico – privato, con la conseguenza di dover computare i relativi oneri
all'interno dei limiti di indebitamento posti all'Ente.
Ciò non di meno va segnalato come dal punto di vista sostanziale i costi relativi
all'operazione siano, in linea di principio, inferiori ai costi dei canoni di locazione sino ad
oggi sostenuti dalla Regione per i suoi innumerevoli uffici.
6) La Sezione di Controllo passa poi all'esame della situazione finanziaria delle
società partecipate dalla Regione, limitatamente a quegli organismi in cui l'Ente detiene la
maggioranza assoluta delle quote di capitale. Nel merito viene innanzitutto lamentato come
il piano di razionalizzazione delle partecipate regionali143 si limiti a descrivere la situazione
143
Previsto dall'art. 44 della legge finanziaria regionale per il 2012, poi approvato il 5.11.2013 dal Consiglio
regionale.
91
in essere, rinviando invece le scelte strategiche da assumere in proposito. Ulteriori critiche
vengono mosse in ordine al sistema di indirizzo e controllo assunto dalla Regione, sia nei
confronti delle partecipate di primo livello che di quelle di secondo livello: in particolare il
giudice sollecita con urgenza un più incisivo controllo della spesa di personale e della
gestione degli organici delle società partecipate dato che, su queste voci, si sono registrati
incrementi anche nell'esercizio 2012. Il giudice contabile focalizza inoltre la lente
d'ingrandimento sulla Finpiemonte Partecipazioni S.p.A., per la quale nel 2012 è stato
operato un aumento di capitale senza che fosse indicata precisamente l'incidenza
dell'operazione sul rendiconto della Regione. Per di più la Società ha chiuso lo stesso
esercizio 2012 in perdita, con l'ulteriore aggravante che il rendiconto regionale 2012 è stato
approvato prima del bilancio di esercizio 2012 di Finpiemonte Partecipazioni S.p.A..
7) Quasi in un crescendo la Corte dei Conti termina con un'analisi particolarmente
critica sul servizio sanitario regionale, che prende le mosse dal mancato superamento di
quanto già segnalato con la relazione allegata al giudizio di parificazione. Il principale
problema viene riscontrato nel disallineamento fra le poste del bilancio regionale e le poste
dei bilanci delle aziende sanitarie dato che la Regione ha indicato quale risorsa di parte
corrente del s.s.r. non trasferita ai relativi enti la somma di € 866.000.000,00, senza però
che questa operazione incidesse sul risultato di gestione che, pertanto, come già indicato
con la delibera di parificazione, doveva essere conseguentemente rettificato. Viene poi
rilevata la mancanza di una piena correlazione fra il rendiconto stesso ed il bilancio
consolidato del servizio sanitario regionale, problema in parte dovuto alla tardiva
approvazione dei bilanci degli enti del servizio che, a sua volta, causa incertezze in merito
al bilancio consolidato. L'incidenza economica del servizio sanitario sul bilancio della
Regione, nonché le citate difficoltà finanziarie, hanno indotto il giudice ad affermare che
“...la mancanza di una piena correlazione con il bilancio consolidato del servizio sanitario
regionale incida sulla trasparenza e veridicità dei risultati rappresentati nel rendiconto
finanziario dell'Ente”.
8. Per concludere, nonostante in questa sede ci si sia limitati a sintetizzare i rilievi
mossi dalla Sezione regionale di controllo, dal quadro così delineatosi possono comunque
trarsi alcune importanti considerazioni.
Per quanto concerne, nello specifico, il rendiconto 2012 della Regione Piemonte
sono evidenti le difficoltà finanziarie in cui versa l'Ente che, a loro volta, si sono tradotte
nella necessità – rilevata dalla Corte – di rettificare il risultato finanziario della gestione,
tenendo conto anche di quelle passività generate fuori dall'ordinaria gestione di bilancio ed
evidenziate nel conto del patrimonio. Dal risultato finanziario predisposto – e poi
approvato, a dispetto di quanto rilevato nel giudizio di parificazione – dalla Regione,
secondo cui l'esercizio 2012 si sarebbe chiuso con un disavanzo di € -1.150.257.926,03, si
arriverebbe in realtà ad un disavanzo di € 2.841.374.089,03. La gravità della situazione ha
quindi indotto il Giudice contabile a richiamare con forza l'Amministrazione, invitandola
ad assumere ogni azione utile per ricondurre il bilancio dell'Ente nella regolarità, con
l'auspicio – difficilmente realizzabile – che ciò avvenga in sede di consuntivo 2013.
Peraltro la delibera in esame, e con essa l'intero giudizio di parificazione, permette di
svolgere alcune riflessioni conclusive sull'utilità di questo nuovo strumento di controllo dei
bilanci delle Regioni che, occorre ribadire, ha trovato la sua prima applicazione proprio in
riferimento all'esercizio finanziario 2012.
Innanzitutto il giudizio in questione conferma come il processo di parifica dei conti
regionali rappresenti, in ossequio alla disciplina tracciata dal R.D. 1214/1934, un positivo
momento di congiunzione tra il potere di controllo e la funzione giurisdizionale della
92
Corte, mostrando come queste due funzioni siano realmente i due lati di una stessa rete di
protezione e garanzia della finanza pubblica.
Inoltre l'utilità dello strumento – che, occorre ribadire, interviene sulla proposta di
rendiconto predisposta dalla giunta – risulta direttamente proporzionale all'intensità del
contraddittorio con l'Ente e alla conseguente profondità dell'istruttoria. Con queste
condizioni, quindi, il giudizio di parificazione del rendiconto regionale può rivelarsi
particolarmente utile non solo al fine di condurre il Governo regionale ad una migliore
gestione finanziaria ma, soprattutto, a dotare il consiglio regionale di un ulteriore
strumento per analizzare con la dovuta consapevolezza il bilancio consuntivo dell'Ente.
APPENDICE
Commento dei Dottorandi del D.R.A.S.D. al D.L. 24 giugno 2014 n. 90
“Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e
per l'efficienza degli uffici giudiziari” 144 a cura di Giovanni Boggero ed Elena Ponzo
1. Sussistenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza ex art. 77 Cost. Giovanni Boggero
Il decreto-legge modifica prevalentemente le norme che riguardano l'organizzazione
degli uffici della P.A. La natura ordinamentale della materia in oggetto desta quindi
qualche dubbio sulla conformità a Costituzione del decreto. Nella sua sentenza 19 luglio
2013, n. 220 la Corte costituzionale ha infatti dichiarato illegittima per violazione dell'art.
144
Il commento qui riportato costituisce l’esito di un lavoro di gruppo condotto durante lo scorso mese di
luglio dai dottorandi del DRASD e consistito nell’osservazione critica della riforma della Pubblica
Amministrazione. All’epoca dello scritto il procedimento legislativo aveva già condotto all’emanazione del
decreto-legge 24 giugno 2014 n. 90, mentre risultava ancora in fase parlamentare l’iter di conversione, che ha
poi avuto luogo con la legge 11 agosto 2014, n. 114. Nel riportare gli articoli in carattere corsivo, si è tenuto
conto del testo del decreto-legge coordinato con la legge di conversione.
93
77 Cost. la riforma dell'ordinamento provinciale, proprio sulla base del ragionamento che il
Governo non può, con decreto-legge, introdurre nuovi assetti ordinamentali. Tuttavia, nella
medesima sentenza, la Corte ha sottolineato anche la legittimità di quelle misure che non
modifichino integralmente, ma soltanto singoli aspetti di un ordinamento, purché siano
immediatamente applicabili. Le misure di cui si tratterà qui di seguito sembrano quindi
poter superare il vaglio della Corte in quanto atte a modificare singoli aspetti
dell'ordinamento della P.A. senza peraltro operare un rinvio massiccio all'approvazione di
ulteriori atti legislativi o regolamentari per la loro attuazione.
2. Titolo I – Capo I
Maria Bottiglieri, Nicola Dessì, Elena Ponzo
Art. 7 - Prerogative sindacali nelle pubbliche amministrazioni
1. Ai fini della razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica, a decorrere dal 1°
settembre 2014, i contingenti complessivi dei distacchi, aspettative e permessi sindacali,
già attribuiti dalle rispettive disposizioni regolamentari e contrattuali vigenti al personale
delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, ivi compreso quello
dell'articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono ridotti del cinquanta per
cento per ciascuna associazione sindacale.
1-bis. Per le Forze di polizia ad ordinamento civile e per il Corpo nazionale dei vigili del
fuoco di cui all’articolo 19 della legge 4 novembre 2010, n. 183, in sostituzione della
riduzione di cui al comma 1 del presente articolo e con la stessa decorrenza, per ciascuna
riunione sindacale, tenuta su convocazione dell’amministrazione, un solo rappresentante
per ciascuna organizzazione può gravare sui permessi di cui all’articolo 32, comma 4, del
d.P.R. 18 giugno 2002, n. 164, per le Forze di polizia ad ordinamento civile. Per il Corpo
nazionale dei vigili del fuoco, un solo rappresentante per ciascuna organizzazione può
gravare sui permessi di cui all’articolo 40, comma 4, del d.P.R. 7 maggio 2008, recante
"Recepimento dell’accordo sindacale integrativo per il personale non direttivo e non
dirigente del Corpo nazionale dei vigili del fuoco", pubblicato nel supplemento ordinario
n. 173 alla Gazzetta Ufficiale n. 168 del 19 luglio 2008, per il personale non direttivo e
non dirigente, e di cui all’articolo 23, comma 4, del d.P.R. 7 maggio 2008, recante
"Recepimento dell’accordo sindacale integrativo per il personale direttivo e dirigente del
Corpo nazionale dei vigili del fuoco", pubblicato nel medesimo supplemento ordinario n.
173 alla Gazzetta Ufficiale n. 168 del 19 luglio 2008, per il personale direttivo e dirigente.
Eventuali ulteriori permessi per le predette finalità devono essere computati nel monte ore
di cui al comma 2 dei citati articoli 40 e 23, a carico di ciascuna organizzazione sindacale.
2. Per ciascuna associazione sindacale, la rideterminazione dei distacchi di cui al comma
1 è operata con arrotondamento delle eventuali frazioni all'unità superiore e non opera
nei casi di assegnazione di un solo distacco.
3. Con le procedure contrattuali e negoziali previste dai rispettivi ordinamenti può essere
modificata la ripartizione dei contingenti ridefiniti ai sensi dei commi 1 e 2 tra le
associazioni sindacali. In tale ambito è possibile definire, con invarianza di spesa, forme
di utilizzo compensativo tra distacchi e permessi sindacali.
La disposizione, di per sé semplice, dimezza i distacchi, le aspettative e i permessi
sindacali per i lavoratori delle PP.AA., con la finalità dichiarata di contenere la spesa
pubblica. In effetti, gli istituti in oggetto aggravano la spesa: la posizione del lavoratore
distaccato o in aspettativa deve essere coperta con una nuova assunzione; l'assenza del
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lavoratore durante le ore dei permessi comporta il ricorso al lavoro straordinario. Al
contempo, la disposizione detta un'unica disciplina per tre istituti decisamente differenti fra
loro. La riduzione dei distacchi - a tempo determinato, ma prorogabili e potenzialmente a
vita - può portare un vantaggio non solo economico, rendendo più difficile la formazione
di un ceto sindacale estraneo alle concrete esigenze del lavoratore. La riduzione di
permessi e aspettative, invece, rischia di rendere decisamente difficoltoso lo svolgimento
dell'attività dei delegati e dei dirigenti, necessaria alla sopravvivenza dell'organizzazione
sindacale; si dubita che le esigenze del buon andamento della P.A. e dell'equilibrio del
bilancio pubblico siano state adeguatamente contemperate con la libertà sindacale,
garantita dall'art. 39 della Costituzione.
Art. 8 – Incarichi negli uffici di diretta collaborazione
1. All'articolo 1, comma 66, della legge 6 novembre 2012 n. 190, sono apportate le
seguenti modificazioni:
a) le parole: "compresi quelli di titolarità dell’ufficio di gabinetto," sono sostituite dalle
seguenti: "compresi quelli, comunque denominati, negli uffici di diretta collaborazione, ivi
inclusi quelli di consulente giuridico, nonché quelli di componente degli organismi
indipendenti di valutazione,"; b) dopo il primo periodo è inserito il seguente: "E' escluso il
ricorso all'istituto dell'aspettativa.".
2. Gli incarichi di cui all'articolo 1, comma 66, della legge n. 190 del 2012, come
modificato dal comma 1, in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione
del presente decreto, cessano di diritto se nei trenta giorni successivi non è adottato il
provvedimento di collocamento in posizione di fuori ruolo.
3. Sono fatti salvi i provvedimenti di collocamento in aspettativa già concessi alla data di
entrata in vigore del presente decreto.
4. Sui siti istituzionali degli uffici giudiziari ordinari, amministrativi, contabili c militari
nonché sul sito dell'Avvocatura dello Stato sono pubblicate le statistiche annuali inerenti
alla produttività dei magistrati e degli avvocati dello Stato in servizio presso l'ufficio. Sono
pubblicati sui medesimi siti i periodi di assenza riconducibili all'assunzione di incarichi
conferiti.
Tale disposizione prevede l’obbligo di collocazione fuori ruolo per i magistrati
chiamati a svolgere incarichi presso istituzioni, organi ed enti pubblici attribuiti in
posizioni apicali o comunque in uffici di diretta collaborazione nella P.A., escludendo
esplicitamente il ricorso all’istituto dell’aspettativa. La ratio è evidentemente quella di
consentire ai magistrati di disporre del tempo necessario all’adempimento efficiente della
funzione giurisdizionale; essa inoltre scongiura le indebite commistioni tra esecutivo e
organi giurisdizionali, che di fatto sono idonee a pregiudicare la dovuta terzietà del giudice
amministrativo. Il T.A.R. del Lazio e il Consiglio di Stato hanno sempre costituito
importanti bacini di reclutamento, tra i loro componenti magistrati, per l’affidamento di
incarichi apicali nelle PP.AA.: una simile commistione può rendere i giudici
particolarmente sensibili agli interessi pubblici nella soluzione delle controversie, a
discapito del principio dell’imparzialità, terzietà ed equidistanza tra P.A. e cittadino,
condizione imprescindibile nel processo amministrativo. In tal senso la norma assume una
speciale rilevanza anche rispetto alla stessa riforma del processo amministrativo, atteso che
essa pare in grado di ricondurre esponenti della funzione giurisdizionale alle loro funzioni
naturali. Ci si domanda a questo punto se l’istituto della collocazione fuori ruolo dei
magistrati chiamati a svolgere incarichi apicali sia idonea e sufficiente a conseguire il fine
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voluto. Un’alternativa forse ancora più efficace avrebbe potuto essere l’istituzione di una
assoluta incompatibilità allo svolgimento da parte di tali soggetti degli incarichi in oggetto,
i quali potrebbero parimenti essere svolti da altri soggetti altamente specializzati, come
avvocati generali dello stato o consiglieri parlamentari.
In conclusione, si valuta positivamente la prima parte del d.l., atteso che innesca un
percorso atto a creare, quantomeno, le condizioni giuridiche utili a incrementare,
all’interno della P.A., l'occupazione e il ricambio generazionale. Che le nuove reclute
occupabili siano giovani, o precari da stabilizzare, o altra tipologia di
disoccupati/inoccupati - a seconda delle scelte che le singole PP.AA. faranno in sede di
redazione del bando di concorso - è, comunque, un dato significativo, ancorché relativo: se
ricambio ci sarà, questo costituirà comunque un beneficio. Resta da vedere se, in un
contesto generalizzato di sofferenza contabile degli enti pubblici - quelli locali in
particolare - sarà possibile disporre delle risorse economiche necessarie ad attivare il
meccanismo predisposto dal ddl.
3. Titolo I capo II - La riforma delle Autorità amministrative indipendenti
Andrea Patanè e Matteo Porricolo
Art. 22
1. I componenti dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, della
Commissione nazionale per le società e la borsa, dell'Autorità di regolazione dei trasporti,
dell'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico, dell'Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni, del Garante per la protezione dei dati personali, dell'Autorità
nazionale anticorruzione, della Commissione di vigilanza sui fondi pensione e della
Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici
essenziali, alla cessazione dall'incarico, non possono essere nuovamente nominati
componenti di una autorità indipendente, a pena di decadenza, per un periodo pari a
cinque anni.
2. Nel capo III del titolo IV della legge 28 dicembre 2005, n. 262, dopo l’articolo 29 è
aggiunto il seguente:
"Art. 29-bis. – (Incompatibilità per i componenti e i dirigenti della CONSOB cessati
dall’incarico).
1. I componenti degli organi dì vertice e i dirigenti della Commissione nazionale per le
società e la borsa, nei due anni successivi alla cessazione dell'incarico, non possono
intrattenere, direttamente o indirettamente, rapporti di collaborazione, di consulenza. o di
impiego con i soggetti regolati. I contratti conclusi in violazione del presente comma sono
nulli. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai dirigenti che negli ultimi due
anni di servizio sono stati responsabili esclusivamente dì uffici di supporto né con società
controllate da questi ultimi. Le disposizioni del presente articolo si applicano ai
componenti degli organi di vertice e ai dirigenti della Banca d’Italia e dell’Istituto per la
vigilanza sulle assicurazioni per un periodo, non superiore a due anni, stabilito con
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanare previo parere della Banca
centrale europea, che viene richiesto entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore
della presente disposizione".
3. All'articolo 2, comma 9, della legge 14 novembre 1995, n. 481, sono apportate le
seguenti modificazioni:
96
a) al primo periodo, la parola: "quattro" è sostituita dalla seguente: "due" ;
a) dopo le parole: "i componenti" sono inserite le seguenti: "e i dirigenti";
b) è aggiunto in fine il seguente periodo: "Le disposizioni del presente comma non si
applicano ai dirigenti che negli ultimi quattro anni di servizio sono stati responsabili
esclusivamente di uffici dì supporto.".
4. Le procedure concorsuali per il reclutamento di personale degli organismi dì cui al
comma 1 sono gestite unitariamente. previa stipula di apposite convenzioni tra gli stessi
organismi, che assicurino la trasparenza e l'imparzialità delle procedure e la specificità
delle professionalità di ciascun organismo. Sono nulle le procedure concorsuali avviate
dopo l'entrata in vigore del presente decreto e prima della stipula delle convenzioni o
poste in essere, successivamente alla predetta stipula, in violazione degli obblighi di cui al
presente comma e le successive eventuali assunzioni. Restano valide le procedure
concorsuali in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto.
5. A decorrere dal 1° luglio 2014, gli organismi di cui ai comma 1 provvedono, nell'ambito
dei propri ordinamenti, a una riduzione non inferiore al venti per cento del trattamento
economico accessorio del personale dipendente, inclusi i dirigenti.
6. A decorrere dal 1° ottobre 2014, gli organismi di cui al comma 1 riducono in misura
non inferiore al cinquanta per cento, rispetto a quella complessivamente sostenuta nel
2013, la spesa per incarichi dì consulenza, studio e ricerca e quella per gli organi
collegiali non previsti dalla legge. Gli incarichi e i contratti in corso sono rinegoziati
entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto al fine di assicurare il rispetto dei limiti di cui al periodo precedente.
7. Gli organismi di cui al comma 1 gestiscono i servizi strumentali in modo unitario,
mediante la stipula di convenzioni o la costituzione di uffici comuni ad almeno due
organismi. Entro il 31 dicembre 2014, i predetti organismi provvedono ai sensi del primo
periodo per almeno tre dei seguenti servizi: affari generali, servizi finanziari e contabili,
acquisti e appalti, amministrazione del personale, gestione del patrimonio, servizi tecnici e
logistici, sistemi informativi ed informatici. Dall'applicazione del presente comma devono
derivare, entro l'anno 2015, risparmi complessivi pari ad almeno il dieci per cento della
spesa complessiva sostenuta dagli stessi organismi per i medesimi servizi nell'anno 2013.
8. Alla legge 27 dicembre 2006, n. 296 sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all'articolo 1, comma 449, al secondo periodo, dopo le parole "e successive
modificazioni," sono aggiunte le seguenti: " nonché le autorità indipendenti,";
b) all'articolo 1, comma 450, al secondo periodo, dopo le parole: "le altre amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165," sono
aggiunte le seguenti: " nonché le autorità indipendenti,"
9. Gli organismi di cui al comma 1 gestiscono i propri servizi logistici in modo da
rispettare i seguenti criteri:
a) sede in edificio di proprietà pubblica o in uso gratuito, salve le spese di funzionamento,
o in locazione a condizioni più favorevoli rispetto a quelle degli edifici demaniali
disponibili;
b) concentrazione degli uffici nella sede principale, salvo che per oggettive esigenze di
diversa collocazione in relazione alle specifiche funzioni di singoli uffici;
c) esclusione di locali adibiti ad abitazione o foresteria per i componenti e il personale;
d) spesa complessiva per sedi secondarie, rappresentanza, trasferte e missioni non
superiore al 20 per cento della spesa complessiva;
e) presenza effettiva del personale nella sede principale non inferiore al 70 per cento del
totale su base annuale, tranne che per la Commissione nazionale per le società e la borsa;
f) spesa complessiva per incarichi di consulenza, studio e ricerca non superiore al 2 per
97
cento della spesa complessiva.
9-bis. Gli organismi di cui al comma 1 assicurano il rispetto dei criteri di cui allo stesso
comma 1 entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto e ne danno conto nelle successive relazioni annuali, che sono trasmesse
anche alla Corte dei conti. Nell’ipotesi di violazione di uno dei criteri di cui alle lettere a),
b) e c) del comma 9, entro l’anno solare successivo a quello della violazione il Ministero
dell’economia e delle finanze, tramite l’Agenzia del demanio, individua uno o più edifici di
proprietà pubblica da adibire a sede, eventualmente comune, delle relative autorità.
L’organismo interessato trasferisce i propri uffici nei sei mesi successivi
all’individuazione. Nell’ipotesi di violazione di uno dei criteri di cui alle lettere d), e) e f)
del citato comma 9, l’organismo interessato trasferisce al Ministero dell’economia e delle
finanze una somma corrispondente all’entità dello scostamento o della maggiore spesa,
che rimane acquisita all’erario.
10. L'articolo 2, comma 3, della legge 14 novembre 1995, n. 481, è abrogato.
11. (comma soppresso dalla legge di conversione)
12. (comma soppresso dalla legge di conversione)
13. Dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto,
l'articolo 23, comma 1, lettera e), del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, come
convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, è soppresso.
14. Al decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, come convertito dalla legge 7 giugno 1974, n.
216, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all'articolo 1, nono comma, è inserito, prima delle parole ".I predetti regolamenti", il
seguente periodo: "Le deliberazioni della Commissione concernenti i regolamenti di cui ai
precedenti commi sono adottate con non meno di quattro voti favorevoli.";
b) all'articolo 2, quarto comma, terzo periodo, le parole "dalla Commissione" sono
sostituite dalle seguenti: "con non meno di quattro voti favorevoli.";
c) all'articolo 2, quarto comma, quarto periodo, dopo le parole "su proposta del
Presidente" sono inserite le seguenti: "e con non meno di quattro voti favorevoli.";
d) all'articolo 2, ottavo comma, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: "Le relative
deliberazioni sono adottate con non meno di quattro voti favorevoli.".
15. Ai maggiori oneri di cui al comma 13, pari a 480.000 euro annui, si fa fronte
nell'ambito del bilancio della Consob che a tal fine effettua corrispondenti risparmi di
spesa, ulteriori rispetto a quelli previsti a legislazione vigente, senza incrementare il
contributo a carico dei soggetti vigilati.
16. Le disposizioni di cui al comma 14 si applicano dalla data di nomina dell'ultimo dei
cinque componenti della Consob.
Delle disposizioni del decreto-legge 90/2014 che incidono sulle Autorità
amministrative indipendenti (mirano alla razionalizzazione dell’attività delle stesse e al
risparmio della spesa pubblica) pare utile soffermarsi sugli aspetti che presentano maggiori
profili di criticità. Tra gli interventi che dovrebbero modificare il sistema attuale si
annovera la sostituzione della competenza funzionale inderogabile del TAR Lombardia a
favore del TAR Lazio per le controversie relative all’Autorità per l’energia elettrica e il
gas, una previsione in relazione funzionale con l’ipotesi che prevede il trasferimento a
Roma di tutte le sedi delle Autorità. Prescindendo dalle valutazioni effettuate per ottenere
un risparmio di spesa nella gestione delle Autorità (stime smentite in autorevoli
98
sedi)145
l’eventuale spostamento nella capitale delle Autorità potrebbe non essere opportuno
nella prospettiva dell’autonomia e del buon funzionamento dell’attività svolta, che è invece
essenziale per il raggiungimento degli scopi di regolamentazione del mercato. Le cd.
Authoritiesinfatti risultano essere già ben avviate ed efficienti nelle loro sedi attuali, diffuse
sul territorio italiano e la lontananza, anche geografica, dagli organi politici è sempre stata
tra i fattori che hanno garantito la loro necessaria terzietà e imparzialità. Diversamente, è
condivisibile la previsione di rendere unitaria la gestione dei servizi strumentali «mediante
la stipula di convenzioni o la costituzione di uffici comuni ad almeno due organismi (…) il
raggiungimento di un accorpamento per almeno tre dei seguenti servizi: affari generali,
servizi finanziari e contabili, acquisti e appalti, amministrazione del personale, gestione
del patrimonio, servizi tecnici e logistici, sistemi informativi ed informatici». Quanto alla
competenza funzionale del Tribunale amministrativo regionale non sembra comprendersi
la ratio di una decisione che modifica un impianto che sinora non ha mostrato particolari
problematicità e che, anzi, ha dimostrato di essere altrettanto efficiente e terzo nella
risoluzione delle controversie. I giudici individuati dal decreto, invece, potrebbero avere
difficoltà a svolgere una funzione attenta ed imparziale tra l’interesse pubblico e l’interesse
privato, anche a causa dell’elevata mole di lavoro che già grava sul TAR Lazio. Infine, un
altro aspetto critico sembra potersi rintracciare nell’articolo 22, comma 5 e comma 6, in cui
si prevede rispettivamente nel primo una riduzione «non inferiore al venti per cento del
trattamento economico accessorio del personale dipendente, inclusi i dirigenti» e nel
secondo una riduzione «pari almeno al cinquanta per cento della spesa per incarichi di
consulenza, studio e ricerca».Pur comprendendo la necessità di dover effettuare una
riduzione dei costi sostenuti, sembra però opportuno svolgere una più attenta riflessione al
fine di mantenere una giusta proporzione tra i compensi e le mansioni svolte, così da poter
attrarre le migliori professionalità a servizio delle Autorità.
4. Articolo 10 - Il segretario comunale e provinciale fra soppressione e dirigenza sui
generis
Luca Beccaria
1. L'articolo 41, quarto comma, della legge 11 luglio 1980, n. 312, è abrogato.
2. L'articolo 30, secondo comma, della legge 15 novembre 1973, n. 734, è sostituito con il
seguente: "Il provento annuale dei diritti di segreteria è attribuito integralmente al
comune o alla provincia.".
2-bis. Negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i
segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale
spettante al comune ai sensi dell’articolo 30, secondo comma, della legge 15 novembre
1973, n. 734, come sostituito dal comma 2 del presente articolo, per gli atti di cui ai
numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge 8 giugno 1962, n. 604, e successive
modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un
quinto dello stipendio in godimento.
2-ter. Le norme di cui al presente articolo non si applicano per le quote già maturate alla
data di entrata in vigore del presente decreto.
2-quater. All’articolo 97, comma 4, lettera c), del testo unico di cui al decreto legislativo
18 agosto 2000, n. 267, le parole: "può rogare tutti i contratti nei quali l’ente è parte ed
145
Vedi audizione presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati del presidente
dell’Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico che stima il costo per il trasferimento a Roma in
10 milioni di euro.
99
autenticare" sono sostituite dalle seguenti: "roga, su richiesta dell’ente, i contratti nei
quali l’ente è parte e autentica".
Il ruolo del segretario comunale e provinciale, istituito dal c.d. decreto Rattazzi, ossia
la legge 23 ottobre 1859, n. 3702 del Regno di Sardegna in materia di ordinamento
comunale e provinciale, sembrerebbe essere arrivato al capolinea con il disegno in materia
di riorganizzazione della Pubblica Amministrazione. Proprio dell'avviso di questa sorta di
tendenza all'abolizione si inserisce il decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, all'art. 10, con
cui vengono eliminati i diritti di rogito del segretario comunale e provinciale e la
ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria. Tale dato merita di essere letto
con la progressione numerica di questo tipo di funzionari, passata in pochi anni da oltre
6.000 (nel 1998) a 3.700 (nel 2010).
L'aspetto potenzialmente di rischio, e su cui si auspica un intervento correttivo da
parte del Governo, riguarda la competenza di questi funzionari, in particolare quella
correlata al controllo di legalità dell'amministrazione e i nuovi compiti attribuitigli dalla
legge 6 novembre 2012, n. 190, venga a cessare totalmente in quelle realtà dotate già di
dirigenti e a divenire facoltativi in tutte quelle altre medio piccole, sprovviste di una
dirigenza.
In definitiva, vista la natura sui generis che verrebbe comunque ad assumere questo
funzionario, visibile anche guardando le modifiche già operate in tale parte del disegno di
legge, potrebbe essere molto più proficuo sviluppare una normativa volta a definire
chiaramente il ruolo, i criteri di selezione e la procedura di nomina, che non dovrebbe più
essere il risultato della sola decisione del sindaco o presidente di provincia, bensì prevedere
una codecisione da parte del Consiglio comunale o provinciale, in cui si rendano
obbligatorie delle maggioranze pari almeno a quelle richieste per la revisione statutaria.
5. Le modifiche apportate al Codice del processo amministrativo Davide Formaggio
Articolo 40
1. All'articolo 120 dell'allegato 1 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del
processo amministrativo), sono apportate le seguenti modificazioni:
a) il comma 6 è sostituito dal seguente:
"6. Il giudizio, ferma la possibilità della sua definizione immediata nell'udienza cautelare
ove ne ricorrano i presupposti, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata
ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza
del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente. Della data di udienza è
dato immediato avviso alle parti a cura della segreteria, a mezzo posta elettronica
certificata. In caso di esigenze istruttorie o quando è necessario integrare il
contraddittorio o assicurare il rispetto di termini a difesa, la definizione del merito viene
rinviata, con l'ordinanza che dispone gli adempimenti istruttori o l'integrazione del
contraddittorio o dispone il rinvio per l'esigenza di rispetto dei termini a difesa, ad una
udienza da tenersi non oltre trenta giorni. Al fine di consentire lo spedito svolgimento del
giudizio in coerenza con il principio di sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2, le parti
100
contengono le dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nei termini stabiliti con
decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Consiglio nazionale forense e
l’Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli
avvocati amministrativisti. Con il medesimo decreto sono stabiliti i casi per i quali, per
specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. Il medesimo decreto,
nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi, tiene conto del
valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi
interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le
intestazioni e le altre indicazioni formali dell’atto. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le
questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle
suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di
revocazione della sentenza di appello";
b) dopo il comma 8, è inserito il seguente: "8-bis. Il collegio, quando dispone le misure
cautelari di cui al comma 4 dell'articolo 119, ne può subordinare l’efficacia, anche
qualora dalla decisione non derivino effetti irreversibili, alla prestazione, anche mediante
fideiussione, di una cauzione di importo commisurato al valore dell’appalto e comunque
non superiore allo 0,5 per cento del suddetto valore. Tali misure sono disposte per una
durata non superiore a sessanta giorni dalla pubblicazione della relativa ordinanza, fermo
restando quanto stabilito dal comma 3 dell'articolo 119";
c) il comma 9 è sostituito dal seguente: "9. Il Tribunale amministrativo regionale deposita
la sentenza con la quale definisce il giudizio entro trenta giorni dall'udienza di
discussione, ferma restando la possibilità di chiedere l'immediata pubblicazione del
dispositivo entro due giorni.".
2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai giudizi introdotti con ricorso
depositato, in primo grado o in grado di appello, in data successiva alla data di entrata in
vigore del presente decreto.
2-bis. Le disposizioni relative al contenimento del numero delle pagine, stabilite dal
decreto del Presidente del Consiglio di Stato di cui alla lettera a) del comma 1 sono
applicate in via sperimentale per due anni dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto. Al termine di un anno decorrente dalla medesima data,
il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa effettua il monitoraggio degli esiti
di tale sperimentazione.
Il commento seguente fa riferimento al testo originario dell’art.40 presente nel d.l.
n.90/2014. Il testo è stato successivamente modificato in sede di conversione del d.l.. Quanto alle modifiche apportate dall’art.40 all’art.120 c.p.a, se da un lato è meritevole di
attenzione la misura per cui il giudizio in materia di appalti deve essere obbligatoriamente
definito entro un termine comunque non superiore a 60 gg.146
, che pure è il termine
massimo stabilito per l’efficacia delle misure cautelari, non si può tacere sul rischio per cui
la sentenza obbligatoriamente resa in forma semplificata non pare la più consona per le
decisioni in tale materia, in quanto la normativa sostanziale in tema di appalti non gode di
un livello di chiarezza e semplicità tale da consentire una rapida soluzione delle
controversie: con una decisione non sufficientemente motivata il soccombente potrebbe
sentirsi legittimato a promuovere altri gradi di giudizio147
.
146
In sede di conversione del d.l. il termine è stato elevato: al termine ordinario, pari ora a 45 gg. dalla scadenza del
termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente, può seguire il rinvio della definizione nel merito ad
un’udienza da tenersi non oltre ad ulteriori 30 gg. in caso di esigenze istruttorie o quando è necessario integrare il
contraddittorio o assicurare il rispetto dei termini a difesa. 147 Il legislatore, in sede di conversione del d.l., ha introdotto la complessa disciplina sui limiti dimensionali del ricorso e
degli atti difensivi, in ossequio al principio di sinteticità degli atti, affinché il Giudice esamini le questioni trattate nella
101
E’ altresì lecito domandarsi se il tempo, come concretamente lasciato al Presidente, per la
fissazione dell’udienza non sia eccessivamente ridotto, nel caso, piuttosto diffuso, in cui il
ricorrente depositi il ricorso in prossimità della scadenza del termine148
(dimezzato ai
sensi dell’art.119 c.p.a.).
In sede di conversione si dovrebbe inoltre indicare il termine massimo per la celebrazione
dell’udienza a partire dal perfezionamento della notifica, al fine di evitare dubbi sulla
relativa consumazione qualora il termine di scadenza per la costituzione cada in un giorno
festivo.
Quanto alle misure cautelari, la mancata previsione di criteri per la determinazione della
cauzione profila inoltre il rischio di gravi disparità di trattamento nell’applicazione della
disposizione tra le varie corti149
. Non è inoltre chiaro se la cauzione sia liberata al termine
stabilito dal giudice per l’efficacia delle misure cautelari, comunque obbligatoriamente non
superiore a sessanta giorni150
.
Con il novellato comma 9 dell’art.120, con cui si fissa un termine per il deposito della
decisione, si colma una lacuna del c.p.a ed è pertanto una norma da salutare con favore151
.
Articolo 41
1. All'articolo 26 dell'allegato 1 (Codice del processo amministrativo) del decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, in fine, è aggiunto il seguente periodo: "In ogni caso, il giudice, anche
d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della
controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al
doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati.",
b) al comma 2, dopo il primo periodo è inserito il seguente: "Nelle controversie in materia
di appalti di cui agli articoli 119, lettera a), e 120 l'importo della sanzione pecuniaria può
essere elevato fino all'uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto
limite.".
Il commento seguente fa riferimento al testo originario dell’art.41 presente nel d.l.
n.90/2014. La lett.a) del primo comma di detto articolo è stata modificata in sede di
conversione del d.l..
In riferimento all’art.41 del d.l. n.90/2014, che introduce misure di contrasto al fenomeno
dell’abuso del processo, per il soccombente si aggiungerebbe un’ulteriore spesa, oltre alla
condanna delle spese di lite e al pagamento del contributo unificato: nel caso non raro di
soccombenza della p.a., si manifesterebbe l’indesiderato effetto dell’ aggravio delle
finanze pubbliche.
pagine rientranti nei suddetti limiti. Conseguentemente si prevede che “il mancato esame” delle questioni ivi trattate
“costituisce motivo di appello avverso al sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello. 148 Elevando i termini per l’udienza di merito, il legislatore sembra avere tenuto conto di questo aspetto in sede di
conversione del d.l.. 149 In sede di conversione del d.l. il legislatore ha introdotto i limiti per la determinazione della cauzione, assenti nel d.l.:
ora il collegio può subordinare l’efficacia della misura cautelare, anche quando dalla decisione non derivino effetti
irreversibili, alla prestazione di una cauzione di importo commisurato al valore dell’appalto e comunque non superiore
allo 0.5 % di suddetto valore. 150 Il termine massimo di efficacia delle misure cautelari comunque non superiore a 60 gg. è stato confermato in sede di
conversione del d.l.. 151 La disposizione è stata confermata anche nel testo risultante dalla legge di conversione: la sentenza deve essere
obbligatoriamente depositata entro 30 gg. dall’udienza di discussione, ferma restando la possibilità di chiedere la
pubblicazione del dispositivo entro 2 gg..
102
La disposizione dovrebbe essere soprattutto costruita in modo meno incerto, onde evitare
di presentarsi in contrasto con i principi di legalità e proporzionalità che sono alla base
dell’applicazione delle sanzioni afflittive. Inoltre l’ aggettivo “manifeste” si presta a
utilizzi pretestuosi da parte del soccombente in quanto rischia di essere utilizzato -
proprio per il suo carattere incerto e in evidente contrasto con la finalità deflattiva della
norma - come argomentazione per chiedere la riforma della sentenza152
.
Non pone invece particolari problemi la modifica alla disciplina della sanzione alla lite
temeraria (art.26, c.2, c.p.a.) prevista dalla lett.b) dell’art.41 per le controversie in materia
di appalti.
La mancata introduzione dell’art.30 bis al c.p.a. (azione di accertamento)
Purtroppo non si è invece colta, nel testo definitivo del d.l., l’occasione per introdurre
l’azione di accertamento con autonoma collocazione nel c.p.a.: da tempo la dottrina
sottolinea la necessità di introdurre tale azione, di tipo residuale, per assicurare una
stabilità processuale ai rapporti che ne siano sprovvisti.
6. Semplificazione amministrativa e mancata introduzione di modifiche alla l.
241/1990 Maria José Zampano ed Elisa Bellomo
Il contenuto delle disposizioni in materia amministrativa è particolarmente
eterogeneo e segue il trend legislativo della semplificazione amministrativa, dalle misure
semplificative per i soggetti con invalidità all’agenda per la semplificazione. Degna di nota
è sicuramente la volontà di rendere i servizi amministrativi più accessibili ai cittadini.
Maggiormente significative, tuttavia, sono le disposizioni che avrebbero inciso sui
presupposti di esercizio del potere di riesame della PA. Le modifiche degli artt. 21
quinques e 21 nonies della l. n. 241/1990, non confluite nel decreto legge, avrebbero
ristretto i presupposti di legittimità dell’esercizio del potere di riesame della PA e
avrebbero così tutelato, in modo più efficace e pervasivo, il legittimo affidamento dei
soggetti privati e la certezza del diritto. Sul punto si evidenzia che tali obiettivi potrebbero
essere meglio perseguiti con un intervento organico del legislatore sulla legge generale sul
procedimento amministrativo ed in particolare, come rilevato da recente dottrina, con una
nuova modifica dell’art. 2 bis della l. n. 241/1990 diretta a rendere effettiva la
responsabilità della PA per inosservanza del termine di conclusione del procedimento.
152
In sede di conversione del d.l. il legislatore ha colto tale problematica: non si fa più riferimento alla
“decisione”. Ora la somma può essere disposta dal giudice solo in presenza di “motivi manifestatamente
infondati”.
Recent working papers
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*Economics Series **Political Theory and Law Al.Ex Series
Q Quaderni CIVIS
2014 n.216** Elena Ponzo et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.5/2014
2014 n.215 Gianna Lotito, Anna Maffioletti and Marco Novarese: Are better students really less overconfident? - A preliminary test of different measures
2014 n.214* Gloria Origgi, Giovanni B. Ramello and Francesco Silva: Publish or Perish. Cause e conseguenze di un paradigma
2014 n.213** Andrea Patanè et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.4/2014
2014 n.212** Francesco Ingravalle et al.: L’evento. Aspetti e problemi
2013 n.211** Massimo Carcione: La garanzia dei diritti culturali: Recepimento delle norme internazionali, sussidarietà e sistema dei servizi alla cultura .Case study: La valorizzazione della Cittadella di Alessandria e del sito storico di Marengo.
2013 n.210** Massimo Carcione: La garanzia dei diritti culturali: Recepimento delle norme internazionali, sussidarietà e sistema dei servizi alla cultura
2013 n.209** Maria Bottigliero et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.3/2013
2013 n.208** Joerg Luther, Piera Maria Vipiana Perpetua et. al.: Contributi in tema di semplificazione normativa e amministrativa
2013 n.207* Roberto Ippoliti: Efficienza giudiziaria e mercato forense
2013 n.206* Mario Ferrero: Extermination as a substitute for assimilation or deportation: an economic approach
2013 n.205* Tiziana Caliman and Alberto Cassone: The choice to enrol in a small university: A case study of Piemonte Orientale
2013 n.204* Magnus Carlsson, Luca Fumarco and Dan-Olof Rooth: Artifactual evidence of discrimination in correspondence studies? A replication of the Neumark method
2013 n.203** Daniel Bosioc et. al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.2/2013
2013 n.202* Davide Ticchi, Thierry Verdier and Andrea Vindigni: Democracy, Dictatorship and the Cultural Transmission of Political Values
2013 n.201** Giovanni Boggero et. al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.1/2013
2013 n.200* Giovanna Garrone and Guido Ortona: The determinants of perceived overall security
2012 n.199* Gilles Saint-Paul, Davide Ticchi, Andrea Vindigni: A theory of political entrenchment
2012 n.198* Ugo Panizza and Andrea F. Presbitero: Public debt and economic growth: Is there a causal effect?
2012 n.197 Matteo Migheli, Guido Ortona and Ferruccio Ponzano: Competition among parties and power: An empirical analysis
2012 n.196* Roberto Bombana and Carla Marchese: Designing Fees for Music Copyright Holders in Radio Services
2012 n.195* Roberto Ippoliti and Greta Falavigna: Pharmaceutical clinical research and regulation: an impact evaluation of public policy
2011 n.194* Elisa Rebessi: Diffusione dei luoghi di culto islamici e gestione delle conflittualità. La moschea di via Urbino a Torino come studio di caso
2011 n.193* Laura Priore: Il consumo di carne halal nei paesi europei: caratteristiche e trasformazioni in atto
2011 n.192** Maurilio Guasco: L'emergere di una coscienza civile e sociale negli anni dell'Unita' d'Italia
2011 n.191* Melania Verde and Magalì Fia: Le risorse finanziarie e cognitive del sistema universitario italiano. Uno sguardo d'insieme
2011 n.190 Gianna Lotito, Matteo Migheli and Guido Ortona: Is cooperation instinctive? Evidence from the response times in a Public Goods Game