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ISSN: 2038-7296 POLIS Working Papers [Online] Istituto di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS Institute of Public Policy and Public Choice – POLIS POLIS Working Papers n. 216 September/October 2014 OPAL Osservatorio per le autonomie locali N.5/2014 Elena Ponzo et al. (DRASD) UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo AvogadroALESSANDRIA Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria

OPAL Osservatorio per le Autonomie Locali n. 5/2014

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ISSN: 2038-7296POLIS Working Papers

[Online]

Istituto di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLISInstitute of Public Policy and Public Choice – POLIS

POLIS Working Papers n. 216

September/October 2014

OPALOsservatorio per le autonomie locali

N.5/2014

Elena Ponzo et al. (DRASD)

UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDRIA

Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria

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OPAL – Osservatorio Per le Autonomie Locali - Newsletter n. 5 Settembre/Ottobre 2014

OPAL

OSSERVATORIO PER LE

AUTONOMIE LOCALI

n. 5

Settembre/Ottobre 2014

(a cura di Elena Ponzo)

2

INDICE

EDITORIALE

Il “cantierismo” servirà alle autonomie ? Di Jörg Luther ................................................. 5

PARTE I

REGIONI, STATO, EUROPA

La Dichiarazione di Torino: “L’occupazione in Europa – Investire nelle città e regioni

per una crescita sostenibile” (testo in italiano) .................................................................. 7

Resoconto del seminario: “Come affrontare la crisi? Una proposta neokeynesiana per

l’Italia”. Di Maria Bottiglieri ed Enrica Maria Martino................................................. 11

La legge della regione non può vincolare l’attività commerciale itinerante nelle zone

marittime. Annotazione a Corte cost., 14 marzo 2014, n. 24. Di Nicola Dessì............... 16

PARTE II

FUNZIONI E SERVIZI

Il ritorno alle aziende speciali nella gestione dei servizi pubblici locali. Nota a Corte dei

Conti, Sez. Autonomie, delibera 21/1/2014, n. 2. Di Marco Comaschi .......................... 18

Servizio noleggio auto con conducente a portata di smartphone:

l’app di «Uber» utilizzata nel comune di Milano. Di Elisa Bellomo ............................. 20

La nuova disciplina dei procedimenti di concessione di derivazione di acqua pubblica in

Piemonte. Di Elisa Bellomo............................................................................................. 23

La legge regionale non può prorogare sine termine la durata dei contratti di affidamento

del trasporto pubblico locale. Annotazione a Corte cost., 13 gennaio 2014, n. 2. Di

Nicola Dessì ..................................................................................................................... 27

La legge statale può obbligare i comuni minori all’esercizio associato delle funzioni

comunali. Annotazione a Corte cost., 11 febbraio 2014, n. 22 e 13 marzo 2014, n. 44 Di

Nicola Dessì ……………………………………………………………………………………...28

La Corte costituzionale sui rapporti tra legge regionale, legge penale e strumenti

urbanistici comunali. Annotazione a Corte cost., 13 marzo 2014, n. 46/2014. Di Nicola

Dessì e Matteo Porricolo ................................................................................................. 32

3

La legge statale può conferire alle province le funzioni relative al trasporto e allo

smaltimento dei rifiuti. Annotazione a Corte cost., 16 aprile 2014, n. 100. Di Nicola

Dessì ................................................................................................................................ 35

La regolazione comunale delle sale da gioco a Genova. Nota a T.A.R. Liguria, Sez. II,

sent. 05.02.2014, n. 194. Di Davide Formaggio ............................................................. 37

PARTE III

CITTADINI ED ENTI

L’istituzione del Comune di Mappano è conforme a Costituzione. Nota a Corte cost.,

11.06.2014, n. 171. Di Marco Comaschi......................................................................... 41

Il diritto al nome dell’ente locale: riflessioni a margine del referendum per

“Courmayeur-Mont Blanc”. Di Giovanni Boggero e Matteo Porricolo ......................... 44

Reati ambientali e risarcimento agli enti locali: il caso Solvay di Alessandria. Di Matteo

Porricolo .......................................................................................................................... 53

L’articolo 5 del “Piano Casa” del governo Renzi. Un dubbio bilanciamento tra esigenze

di legalità e diritto alla casa. Di Elena Ponzo .................................................................. 61

PARTE IV

ELEZIONI E ORGANI

I dipartimenti in Francia. Di Nicola Dessì ....................................................................... 73

Proposte di riforma delle autonomie territoriali in Francia in ottica comparata. Di Luca

Beccaria ........................................................................................................................... 78

PARTE V

FINANZA E CONTABILITÀ

[Corte cost. n. 88/2014]. La Corte costituzionale rafforza la “legge rinforzata” di

attuazione della riforma costituzionale sul c.d. pareggio di bilancio. Di Giovanni

Boggero ........................................................................................................................... 84

4

Il giudizio di parificazione del rendiconto 2012 della Regione Piemonte. Nota a Corte

dei Conti, Sez. reg. di controllo, delibera 26.03.2014, n. 51. Di Marco Comaschi ........ 86

APPENDICE

Commento dei Dottorandi del D.R.A.S.D. al D.L. 24 giugno 2014 n. 90 “Misure urgenti

per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici

giudiziari” A cura di Giovanni Boggero ed Elena Ponzo ............................................... 92

5

EDITORIALE

Il “cantierismo” servirà alle autonomie? di Jörg Luther

OPAL continua a registrare le sofferenze degli enti locali che attendono con ansia le

novità della legge di stabilità, sperando che la trasparenza richiesta verso l’Unione europea

sia praticata anche verso il basso. Il numero apre con la Dichiarazione di Torino del

Comitato delle Regioni riunitosi nel semestre italiano di presidenza dell’UE a Torino il 12

settembre 2014: “L’occupazione in Europa – Investire nelle città e regioni per una crescita

sostenibile”.

La proposta di “crescita verde”, espressione di un indirizzo politico maggioritario

interpretabile in chiave più neokeyseniana di un maggiore interventismo pubblico, ma non

necessariamente contraria a letture neoliberali, evidenzia l’esigenza di rafforzare i filoni di

ricerca sulle dimensioni internazionali delle autonomie locali e sulle competenze locali in

materia ambientale che meriterebbero una maggiore attenzione anche della ricerca

scientifica giuridica e che ritrova particolari competenze e tematiche nel dipartimento

DIGSPES.

L’impatto delle cd. riforme “strutturali” su quelle “istituzionali” sarà il tema

generale del DRASD per l’a.a. 2014/15. Quelle istituzionali sono, come tradizione, non

ben distinte e separate dalle riforme costituzionali che hanno compiuto un passo in avanti

con l’approvazione al Senato di un disegno di legge costituzionale che vedrebbe la sua

trasformazione in uno strumento anche di tutela delle autonomie. Per quanto riguarda

invece le riforme amministrative, nel periodo coperto da questo di numero di OPAL si è

cominciato a dare esecuzione alla riforma Delrio ed è stata effettuata un’ulteriore riforma

della p.a. attraverso il decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 recante “Misure urgenti per la

semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari” (v.

commento dei dottorandi in Appendice). L'obiettivo di tale riforma, ha detto il ministro

Madia intervenuta al Senato nel dibattito sul ddl di conversione, è quello di "uscire dalla

rappresentazione decadente che oggi travolge la nostra amministrazione pubblica e che

travolge anche il tanto di buono che c'è oggi nelle professionalità della pubblica

amministrazione". Sul sito del Governo si aggiunge un ulteriore motto, non contenuto nella

motivazione del ddl di conversione: “Uscire dalla cultura del certificato per reimpostare il

rapporto cittadino-macchina pubblica”. L’urgenza si sente non solo per la digitalizzazione

e la relativa “agenda” o “rivoluzione”, ma anche per una serie di disposizioni in materia di

organizzazione della p.a. che interessano anche gli enti e servizi pubblici locali, come a

titolo di mero esempio l’art. 23 ter del decreto Madia: “3. I comuni con popolazione

superiore a 10.000 abitanti possono procedere autonomamente per gli acquisti di beni,

servizi e lavori di valore inferiore a 40.000 euro.”

Il decreto-legge intende catalizzare una riforma più ampia contenuta nel “Disegno di

legge AS. 1577 “Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” sulla quale l’ANCI ha

espresso prime posizioni moderatamente critiche nell’audizione al Senato il 16 settembre

2014 (http://www.anci.it/Contenuti/Allegati/Anci-audizione_AS1577_16sett2014_rev%204.doc).

Merita particolare attenzione e ha mosso i campanelli d’allarme della categoria

interessata la segnalata “esigenza di ridefinire il ruolo del segretario comunale e

provinciale, attraverso il superamento del dualismo Segretario-Direttore generale” in una

“figura unica apicale” da iscrivere “in apposita sezione del ruolo unico della dirigenza

6

locale”. Ma anche l’ennesimo riordino della disciplina dei servizi pubblici locali eviterà la

disoccupazione dei ricercatori del diritto amministrativo.

L’autunno delle riforme vede l’Italia come un grande cantiere aperto che fa insieme

sperare e temere. Speriamo in un inverno mite, ma temiamo l’eccesso e la frammentazione

della capacità produttiva del “cantierismo”.

Jörg Luther

7

PARTE I

REGIONI, STATO, EUROPA

La Dichiarazione di Torino: “L’occupazione in Europa – Investire nelle

città e regioni per una crescita sostenibile” (testo in italiano)

L’UFFICIO DI PRESIDENZA DEL COMITATO DELLE REGIONI

Crescita verde e investimenti nelle città e regioni d'Europa

visto l'obiettivo della strategia Europa 2020 di garantire una transizione verso un'economia

verde, a basse emissioni di carbonio ed efficiente sotto il profilo delle risorse;

considerando che la scarsità delle risorse e gli attuali schemi di produzione e consumo

rendono indispensabile il passaggio a modelli più sostenibili e a un'economia circolare;

considerando che le Analisi annuali della crescita 2013 e 2014 hanno evidenziato il

potenziale esistente in termini di creazione di occupazione verde;

accoglie con favore gli orientamenti politici del Presidente neoeletto della Commissione

europea1 che collocano la crescita verde ai primi posti dell'agenda dell'Unione europea

(UE) per i prossimi cinque anni;

sottolinea il ruolo fondamentale delle città sostenibili d'Europa ai fini di una crescita verde,

visto che esse generano l'85 % del PIL, l'80 % del consumo energetico e il 75 % delle

emissioni di carbonio2 a livello europeo, ed utilizzano un'ampia percentuale delle risorse

naturali esistenti; sottolinea l'importante ruolo cumulativo delle città di piccole e medie

dimensioni con una popolazione inferiore a 100 000 abitanti, dal momento che circa il

56 % delle città nell'UE ha tra 5 000 e 100 000 abitanti;

sostiene pertanto l'idea di sviluppare quadri d'azione per una crescita verde urbana a livello

locale, e nel contempo osserva che la crescita verde presenta un elevato potenziale per il

settore agricolo e lo sviluppo rurale che condiziona il realizzarsi di un'autentica coesione

territoriale;

sottolinea l'importanza di un approccio globale alle aree urbane e ribadisce il proprio invito

a elaborare un Libro bianco su una politica urbana integrata, che sia basato su una chiara

definizione dello sviluppo urbano sostenibile integrato e definisca obiettivi chiari per l'UE,

anche in materia di mobilità urbana;

sottolinea che la gestione del rischio di calamità al fine di raggiungere la resilienza è

essenziale ai fini di una crescita e un'occupazione verdi e sostenibili. Per passare da un

approccio incentrato sulla risposta e il ripristino a un altro che privilegia invece la

1 http://ecommaeuropa.eu/about/juncker-commission/docs/pg_it.pdf

2 http://www.eurocities.eu/eurocities/issues/green-growth-issue

8

prevenzione, la preparazione e la resilienza, occorrono investimenti di partenza (pubblici e

privati) pianificati, invece di una spesa destinata a reagire alle catastrofi. Sottolinea che, nel

solo decennio appena trascorso, le catastrofi naturali hanno provocato nell'UE 80 000 morti

e perdite economiche per 95 miliardi di euro3;

evidenzia l'importanza fondamentale di accrescere l'efficienza sotto il profilo delle risorse e

la produttività per garantire una sostenibilità a lungo termine e la creazione di nuovi

mercati emergenti e di eco-industrie con un forte potenziale in termini di creazione di posti

di lavoro, soprattutto nei settori dell'energia e della gestione dei rifiuti, nonché nell'industria

del riciclaggio;

ribadisce l'importanza degli enti locali e regionali e del settore privato quando si tratta di

effettuare investimenti pubblici verdi nelle infrastrutture, nell'edilizia, negli impianti di

riciclaggio dei rifiuti e nei sistemi di trasporto locali;

appoggia le conclusioni dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici

(OCSE) secondo cui la governance multilivello costituisce un elemento chiave per generare

una crescita verde nelle città e nelle regioni4, e ribadisce il proprio invito a elaborare una

strategia Europa 2020 rafforzata basata su una dimensione territoriale anch'essa rafforzata;

sottolinea che, nel caso del mercato interno dei prodotti e dei servizi verdi, occorre

affrontare una serie di barriere che ostacolano la transizione verso modelli aziendali più

efficienti sotto il profilo delle risorse in stretta collaborazione con tutti i livelli di governo,

come ad esempio il quadro regolamentare, la governance, l'accesso ai finanziamenti e alle

informazioni sul potenziale dei prodotti innovativi e degli appalti pubblici verdi, in

particolare per le piccole e medie imprese (PMI);

accoglie con favore la recente comunicazione della Commissione europea dal titolo

Iniziativa per favorire l'occupazione verde: sfruttare le potenzialità dell'economia verde di

creare posti di lavoro5 in cui sono evidenziate le sfide e le opportunità derivanti da

un'economia verde, in particolare la necessità di convergenza tra le competenze dei

lavoratori e le richieste di personale anticipando e gestendo nel contempo le variazioni

della domanda di capitale umano;

precisa che i posti di lavoro verdi possono essere molto eterogenei in termini di

competenze richieste, livelli retributivi e condizioni lavorative, e che si dovrebbero

compiere sforzi volti a rendere "verdi" le industrie tradizionali;

ritiene che l'iniziativa a favore dell'occupazione giovanile sia un importante strumento per

migliorare le competenze e la mobilità dei giovani in vista di posti di lavoro verdi; di

fronte, però, al livello ancora inaccettabile - superiore al 22 % - della disoccupazione

giovanile nell'UE, deplora la lentezza nel realizzare tale iniziativa e la mancanza, in

numerosi Stati membri, di sistemi di garanzia per i giovani;

3

Centre for Research on the Epidemiology of Disasters (Centro per la ricerca sull’epidemiologia delle

catastrofi, CRED). 4 http://www.oecd.org/gov/regional-policy/49330120.pdf.

5 http://ecommaeuropa.eu/social/BlobServlet?docId=11963&langId=en.

9

accoglie con favore l'iniziativa della presidenza italiana del Consiglio dell'UE di tenere -

per la prima volta - una riunione dei ministri dell'Occupazione e dell'Ambiente al fine di

rafforzare le sinergie tra politiche ambientali, economiche e sociali per una transizione

verso un'economia verde, e chiede un maggiore coinvolgimento degli enti locali e regionali

dell'UE nello sviluppo di approcci integrati volti a sfruttare il potenziale di occupazione e a

promuovere lo sviluppo sostenibile;

pone in rilievo il ruolo della ricerca e dello sviluppo, lo scambio di conoscenze, ma anche

le nuove soluzioni eco-innovative, e ripete pertanto il proprio appello a migliorare le

sinergie tra il programma europeo di ricerca Orizzonte 2020 e i fondi strutturali e di

investimento europei al fine di creare una scala di eccellenza efficace per le città e le

regioni d'Europa;

sottolinea la necessità di un quadro normativo pluriennale coerente e opportunamente

pianificato che rassicuri investitori, aziende e consumatori riguardo al fatto che le loro

decisioni avranno un adeguato ritorno; ribadisce pertanto la propria richiesta di fissare

obiettivi di efficienza energetica ambiziosi e vincolanti in occasione del Consiglio europeo

del prossimo ottobre;

si rammarica tuttavia che la comunicazione L'efficienza energetica e il suo contributo a

favore della sicurezza energetica e del quadro 2030 in materia di clima ed energia6

presentata in luglio non tenga conto degli impatti territoriali delle proposte e suggerisce una

stretta cooperazione del CdR con le istituzioni dell'UE per valutare tali impatti in vista delle

future proposte legislative;

chiede alle istituzioni dell'UE e agli Stati membri di evitare il moltiplicarsi delle reti

dedicate ai cambiamenti climatici, come l'iniziativa Mayors Adapt (I sindaci si adattano), di

ampliare pertanto la portata del Patto dei sindaci quale strumento europeo innovativo per

l'integrazione degli enti locali e regionali nella politica dell'UE in materia di cambiamenti

climatici e di dotarlo delle risorse appropriate oltre il 2020;

ribadisce che il sistema di scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra (ETS) in

Europa dev'essere urgentemente rilanciato per dare i segnali di mercato corretti e sollecita

gli Stati membri ad utilizzare parte dei proventi generati dalla vendita all'asta delle quote

nell'ambito dell'ETS per finanziare tecnologie più pulite e innovative allo scopo di creare

occupazione;

sottolinea che lo spostamento dell'imposizione fiscale dal lavoro all'utilizzo dell'ambiente,

delle risorse e dell'energia può produrre un impatto globalmente positivo sulla ripresa

economica e la creazione di occupazione.

Finanziamento di un'economia più verde nelle città e regioni d'Europa

attira l'attenzione sul fatto che gli investimenti diretti operati dagli enti locali e regionali

nell'UE hanno subito, dal 2010 ad oggi, un calo di oltre il 20 % e sottolinea l'importanza di

promuovere il ricorso a modelli di strumenti finanziari innovativi e partenariati pubblico-

privati per gli investimenti su ampia scala nelle infrastrutture; raccomanda in particolare

6 http://ecommaeuropa.eu/energy/efficiency/events/doc/2014_eec_communication_adopted.pdf.

10

che la Banca europea per gli investimenti (BEI) prosegua i propri sforzi volti a sviluppare

programmi di finanziamento specifici con gli enti locali e regionali e le banche locali;

suggerisce di estendere la portata dell'iniziativa dei project bond europei ai programmi di

efficienza energetica a livello locale e regionale, e suggerisce di cominciare a lavorare a

"linee di progetto a livello regionale" per gli investitori privati a lungo termine;

invita l'UE e i suoi Stati membri a rafforzare le politiche di stimolo della crescita,

combinando il consolidamento di bilancio con il pieno uso delle disposizioni previste in

materia di flessibilità dal Patto di stabilità e di crescita;

ribadisce la propria adesione all'appello lanciato dal Parlamento europeo ad escludere il

cofinanziamento nazionale dagli investimenti cofinanziati dall'Unione europea nel quadro

degli accordi di partenariato, e chiede pertanto che gli investimenti realizzati dagli enti

locali e regionali nell'ambito dei fondi strutturali e di coesione siano esentati

dall'applicazione delle disposizioni del Patto di stabilità e di crescita;

sottolinea che tramite i fondi strutturali e d'investimento europei si renderanno disponibili

oltre 38 miliardi di euro a sostegno del passaggio a un'economia più rispettosa

dell'ambiente grazie a investimenti destinati allo sviluppo di energie rinnovabili,

all'efficienza energetica e al risparmio energetico, e accoglie positivamente il notevole

incremento della dotazione rispetto ai 16,6 miliardi di euro investiti nell'economia a basse

emissioni di carbonio tra il 2007 e il 2013;

ricorda che il CdR ha già suggerito alla Commissione di presentare un Libro verde per

promuovere le sinergie tra i bilanci UE, nazionali e subnazionali, che potrebbe anche

sostenere l'idea di articolare meglio il pacchetto di investimenti da 300 miliardi di euro

annunciato dal Presidente neo-eletto della Commissione, e suggerisce di elaborare ulteriori

misure destinate non soltanto al livello nazionale, ma anche a quello locale e regionale;

sottolinea la necessità di misure politiche anche per migliorare l'accesso ai finanziamenti, in

special modo per aiutare i nuovi modelli aziendali a crescere e rafforzarsi, e propone alcune

misure concrete per facilitare l'accesso delle imprese nuove e innovative a finanziamenti in

forma di prestiti e di capitale proprio; raccomanda pertanto che la BEI acceleri i suoi lavori

sullo strumento per la crescita e l'occupazione (GEF);

incarica il Presidente del Comitato delle regioni di trasmettere la presente dichiarazione ai

Presidenti rispettivi del Consiglio europeo, della Commissione europea, del Parlamento

europeo e del Comitato economico e sociale europeo, nonché alla presidenza italiana del

Consiglio dell'UE e alle prossime presidenze lettone e lussemburghese.

Torino, 12 settembre 2014

Il Presidente

del Comitato delle regioni

Michel LEBRUN

11

Resoconto del seminario: “Come affrontare la crisi? Una proposta

neokeynesiana per l’Italia” di Maria Bottiglieri ed Enrica Maria Martino

7

1. La presentazione di una proposta di assumere un milione di giovani

qualificati nella P.A.

Il 6 giugno 2014, presso il Campus Luigi Einaudi di Torino (CLE), è stata presentata

una proposta di politica economica per affrontare la crisi. Il gruppo dei promotori si

compone di economisti e sociologi di due atenei piemontesi: quello di Torino e il Piemonte

Orientale8. Come evidenziato in chiusura del seminario da Maria Luisa Bianco, uno degli

aspetti metodologicamente significativi di questa proposta è proprio quello di aver raccolto

attorno ad essa scienziati sociali diversi.

I promotori hanno sottoposto la loro proposta a discussants di levatura politica e, in

parte, anche scientifica: l'on. Giorgio Airaudo, l'on. prof. Renato Balduzzi, la sen. prof.

Nerina Dirindin ed Enrico Morando, viceministro dell’Economia e delle Finanze.

Tale proposta parte da una premessa: la disoccupazione, soprattutto giovanile e

qualificata, è uno dei problemi più gravi del Paese, problema che i proponenti ritengono

non risolvibile dal mercato. Nella necessità di risolverlo, onde evitare pericolosi e ulteriori

avvitamenti del sistema che portino a uno degli sbocchi “storici” delle crisi9, gli estensori

della proposta suggeriscono di guardare al settore pubblico. Di qui la proposta: assumere

circa un milione di giovani qualificati nella pubblica amministrazione10

. Le assunzioni non

dovrebbero essere “lineari”, ma finalizzate al miglioramento di quei servizi pubblici il cui

malfunzionamento costituisce un ostacolo rilevante alla competitività dell'Italia. Il costo

della proposta si aggira attorno ai 15-20 miliardi di euro che gli estensori propongono di

reperire per 2/3 da un’imposta patrimoniale di scopo (una limitata imposta patrimoniale

sulla ricchezza finanziaria che dovrebbe restare in vigore solo per alcuni anni11

) e 1/3 da

fondi strutturali europei per l'occupazione.

Le ragioni di questa proposta riposano su una constatazione di base, ovvero che gli

occupati nel settore pubblico in Italia sono eccezionalmente pochi, come dimostrano i dati

7 * Maria Bottiglieri è dottoranda presso il DRASD, Enrica Maria Martino è dottoranda al “Vilfredo Pareto

Doctorate in Economics” (Università di Torino). Il par. 1 è di M. Bottiglieri, il par. 2 di E.M. Martino, il par.

3 di entrambe le autrici. 8 Angela Ambrosino, Università di Torino; Fabio Berton, Università di Torino; Maria Luisa Bianco,

Università del Piemonte Orientale; Bruno Contini, Università di Torino; Giovanna Garrone, Università del

Piemonte Orientale; Nicola Negri, Università di Torino; Guido Ortona, Università del Piemonte Orientale;

Francesco Scacciati, Università di Torino; Pietro Terna, Università di Torino. Cfr. a tal proposito il seguente

link: https://news.rettorato.unipmn.it/eventi/conferenze-e-seminari/allegati/locandina-ortona.pdf nel quale è

possibile scaricare anche il programma dell'appuntamento del 6 giugno, una sintesi della proposta avanzata

dai docenti e gli indirizzi mail a cui poter chiedere i documenti di approfondimento. 9 In particolare, in uno dei documenti messi a disposizione dai proponenti, si ricorda che le crisi

occupazionali della gravità di quella attuale hanno avuto tipicamente uno dei seguenti sbocchi: 1)

l'avvitamento della crisi fino alla riduzione del tenore di vita mediano a livelli inaccettabili come nel caso

recente della Grecia e quello meno recente dell'Argentina; 2) lo scarico dei costi della crisi su “altri”: gli ebrei

sotto Hitler, i contadini considerati ricchi sotto Stalin, le colonie alla fine dell'800; 3) un massiccio intervento

dello stato: è il caso della crisi del 1929. Per i proponenti i primi due sbocchi sono chiaramente non

auspicabili mentre l’ultimo sembra rappresentare, a loro avviso, l’unica soluzione possibile. 10

Durante il dibattito è stato evidenziato che in Piemonte arriverebbero circa 10.000 dipendenti pubblici in

più. 11

Secondo gli estensori, infatti, una volta superata l’emergenza il costo dei nuovi assunti sarebbe via via

finanziato dalla crescita dell’economia che ne deriverebbe.

12

del documento preparato da Fabio Berton, e Guido Ortona nel febbraio 2014 su

elaborazione dati OECD 2011. Tali dati evidenziano che se in Italia i dipendenti pubblici

(personale civile di tutti i livelli di governo) costituiscono il 13,7 % della forza lavoro (per

un totale di 3.435.000 di impiegati) in Francia la stessa tipologia di dipendenti raggiunge il

21.9% (6.217.000) mentre arriva al 18.3% nel Regno Unito (5.785.000), al 26.0% in

Svezia (1.304.000) e al 14.4% negli USA (22.121.000). Solo Grecia e Germania hanno un

tasso inferiore a quello italiano (in Germania i dipendenti pubblici rappresentano il 10.6%

della forza lavoro per un totale di 4.472.000 unità e in Grecia si arriva al 13.1% per un

totale di 3.027.000 dipendenti).

2. Descrizione sintetica della proposta.

La proposta presentata parte dalla volontà di trovare una soluzione a quello che viene

identificato come uno dei principali problemi socio-economici in Italia, la disoccupazione

giovanile e qualificata12

.

Dal momento che il settore privato non è ritenuto in grado, attualmente, di

sperimentare una crescita tale da migliorare la situazione occupazionale italiana, i

proponenti si rivolgono al settore pubblico perché si faccia promotore dell’assunzione di

un milione di giovani; tale manovra non solo contribuirebbe significativamente ad

affrontare il problema della disoccupazione, ma sarebbe un “fattore importante di sviluppo

dell’economia” consentendo di ridurre la carenza di personale nella pubblica

amministrazione, riscontrata in Italia in confronto con gli altri paesi UE, con l’assunzione

di forza lavoro qualificata che in Italia risulta sotto occupata, a partire dalla pubblica

amministrazione stessa13

. Questi fattori porterebbero ad una maggiore e migliore offerta di

beni pubblici, che secondo la teoria economica devono essere prodotti dallo Stato per

essere disponibili in quantità sufficiente.

L’idea dei proponenti deriva dalla necessità di rispettare i vincoli imposti dall’attuale

contesto storico, economico e politico, in modo da offrire una soluzione che sia efficace e

realistica; in particolare, i criteri di cui i proponenti tengono conto nel formulare il loro

parere sono cinque: gli effetti della manovra su disoccupazione, produttività complessiva

dell’economia italiana, domanda interna e coesione sociale e la realizzabilità della

proposta.

Per quanto riguarda il primo criterio, il dossier sottolinea come l’effetto positivo

sull’occupazione sarebbe superiore con l’assunzione diretta da parte della pubblica

amministrazione di giovani piuttosto che devolvendo la stessa cifra (circa 17 miliardi) a

due soluzioni alternative: la riduzione del costo del lavoro e lo stimolo diretto della

domanda. La cifra in oggetto consentirebbe una riduzione media del costo del lavoro del

2% circa, che difficilmente si tradurrebbe in un aumento significativo dell’occupazione,

anche nel caso in cui l’intero alleggerimento fiscale venisse investito (invece che

indirizzato ad un aumento dei salari)14

; d’altra parte, il sostegno diretto della domanda

rischia di stimolare più le importazioni che la domanda interna, riducendo così gli effetti

positivi della manovra sul mercato italiano.

12

Nel primo trimestre del 2014, il numero totale di disoccupati ha sfiorato i 3,5 milioni, di cui 300.000

laureati e più di 700.000 fra i 15 e i 24 anni (dati ISTAT). 13

Nel dossier, è riportato a tal proposito il confronto fra Italia e Regno Unito, in cui la percentuale di occupati

laureati nella PA è rispettivamente il 34 e il 54%. 14

Per spiegare questa posizione, il documento fa riferimento a dati Istat: a fronte di una crescita del PIL del

50% fra il 1981 e il 2001, l’occupazione è aumentata solo del 3,6%. In quest’ordine di grandezza, per

ottenere un milione di nuovi posti di lavoro sarebbe necessario un aumento del PIL del 70%.

13

Il miglioramento della produttività dell’economia deriverebbe, da una parte,

automaticamente dalla trasformazione di ricchezza finanziaria in stipendi (secondo i calcoli

dei proponenti, i 17 mld mossi dal progetto genererebbero un aumento automatico del PIL

dell’1,2%, con una riduzione del rapporto debito/PIL dell’1,5% circa); d’altra parte, la

riduzione della carenza di personale nella pubblica amministrazione15

assumendo

personale altamente istruito contribuirebbe ad un miglioramento dell’efficacia e del

funzionamento in generale del settore pubblico, con effetti benefici su tutto il sistema

economico.

In modo da rispettare il criterio di sostegno della domanda interna, bisognerebbe

indirizzare i nuovi occupati su progetti volti a favorire un ritorno interno di tale manovra;

in particolare, i proponenti suggeriscono il sostegno a progetti specifici presentati dalla

società civile.

Per quanto riguarda il finanziamento della proposta, per ottenere circa un milione di

nuovi posti di lavoro (971.000 al costo di 20.000€/anno, inclusi gli oneri previdenziali ma

esclusi quelli fiscali) sarebbe necessaria una tassazione aggiunta dello 0,45% sulla

ricchezza finanziaria.

Tale copertura è presentata come realistica, ragionevole e sicura per diverse ragioni.

In primo luogo, l’aliquota è abbastanza bassa da non intaccare lo stock di ricchezza delle

famiglie e, a fronte dell’aumento della ricchezza finanziaria nonostante la crisi (dello 0.5%

nei primi nove mesi 201316), potrebbe essere gradualmente ridotta; il rischio di

trasferimenti di capitali all’estero è fugato dall’imposizione dell’aliquota sulla titolarità del

capitale e non sul luogo di deposito, mentre il rischio di disincentivare risparmio e

investimenti è liquidato nella proposta come inesistente perché l’attuale carenza di

investimenti deriverebbe dalla debolezza della domanda. Infine, un’imposta così

immaginata (e i proponenti non escludono la possibilità di disegnarla in forma progressiva,

andando ad intaccare cioè proporzionalmente di più ricchezze finanziarie più ingenti) è

ritenuta socialmente equa17

e, se percepita come un’imposta di scopo, i cui proventi

vengano credibilmente indirizzati alla soluzione della disoccupazione giovanile, porterebbe

ad un consenso intorno alla manovra e al rafforzamento della coesione sociale (quarto

criterio dei proponenti).

3. Le osservazioni dei discussants del 6 giugno: punti di forza e punti di

debolezza della proposta.

Nell’idea dei proponenti, il progetto, una volta assunto da un piccolo numero di

scienziati sociali, doveva essere sottoposto all’attenzione di soggetti qualificati come

dirigenti sindacali, esponenti di movimenti e parlamentari di diversi partiti. Va in questa

direzione l’incontro organizzato al Campus Luigi Einaudi il 6 giugno.

Il seminario è stato aperto da uno dei proponenti, Bruno Contini, ordinario di

Econometria dell’Università di Torino, che ha illustrato la proposta. Il docente, ricordando

che la competitività richiede efficienza e risorse adeguate, ha evidenziato come tale

progetto intenda incidere su entrambi questi fattori e si è poi soffermato sul suo effetto

moltiplicatore sulla crescita il quale, sulla base di alcuni fattori, in particolare l’alta

15

Tale sotto-occupazione nel settore pubblico è documentata dettagliatamente nel dossier nel confronto con

gli altri paesi dell’UE, e deriva sia da un’inferiore produttività individuale degli impiegati pubblici (rispetto

alla Germania, ad esempio) che da un minor rapporto impiegati/cittadini. 16

“Rapporto sulla stabilità finanziaria”, Banca d’Italia, 1/2014 17

In particolare, nella proposta si sottolinea come il rischio di iniquità sarebbe molto maggiore e concreto in

caso di un’imposta patrimoniale sugli immobili, che è più volte suggerita nel dibattito politico come unica

alternativa praticabile.

14

propensione al consumo dei giovani, sarebbe pari a 2 (l’iniezione di 20 miliardi

produrrebbe circa 40 miliardi di PIL) 18

.

Su queste considerazioni si sono succeduti gli interventi dei discussants, di cui si

intendono evidenziare sin da subito i temi comuni.

Un primo fattore condiviso da tutti i relatori è che, se fino pochi anni fa sarebbe stato

impensabile solo discutere della possibilità di aumentare, seppur selettivamente, la spesa

pubblica, oggi invece il clima è diverso e ve ne sono le condizioni favorevoli: sia a Roma

che a Bruxelles si parla di crescita, oltre che di equilibrio finanziario (così Contini,

Balduzzi).

Altro elemento di forza della proposta è quello di puntare sul bisogno di creare

lavoro in tempi rapidi (Airaudo), declinato in particolare come occupazione giovanile,

dalla quale ci si attende una naturale vis innovativa della PA (Balduzzi, Dirindin). Pars

costruens della proposta, infatti, è la sua capacità di agire su un problema aperto, ovvero la

necessità di innovazione della PA: in questo senso, l’assunzione di giovani, nelle

dimensioni quantitative presentate dal progetto, potrebbe effettivamente rappresentare una

soluzione (Morando).

Altro elemento condiviso da molti interventi è quello di aver individuato come fonte

di finanziamento del progetto imposte sulle rendite e non sul reddito da lavoro o da

impresa (Morando, Balduzzi).

Ulteriore tema sollevato, seppur con differenti declinazioni, è quello di definire in

modo puntuale i settori della PA in cui far affluire i nuovi assunti (Balduzzi, Dirindin) e

individuare i servizi pubblici da potenziare.

In senso critico è stato evidenziato da più parti che il punto di debolezza della

proposta resta la sua sostenibilità politica (così Morando, Balduzzi) a cui si aggiunge il

fatto che il governo ha già scelto un’altra strada: la riduzione del cuneo fiscale sull’impresa

– limitato - e sul reddito da lavoro - meno limitato (Morando). Come rispondere, inoltre,

all’obiezione che l’eventuale accoglimento di questa proposta, verrebbe a creare un ente

pubblico in più? (Balduzzi).

Sulla base di questi temi comuni, che sono stati ripresi anche nel dibattito, si sono

sviluppate singole e differenti riflessioni.

Giorgio Airaudo ha evidenziato i punti forti della proposta: in primo luogo i suoi

numeri (a tal proposito ha ricordato i circa 3 milioni di italiani che non raggiungono i 1.033

euro al mese per nucleo famigliare, evidenziando che tale livello reddituale è considerato

soglia di povertà) e, in secondo luogo, il diretto coinvolgimento della leva pubblica, fattore

indispensabile per la crescita, atteso che, a suo parere, dall’impresa privata poco potrà

venire nei prossimi 24 mesi. Il parlamentare, infine, evidenzia il merito principale di questa

proposta: mettere all’ordine del giorno il problema centrale del Paese: lavoro in un tempo

ragionevole.

Enrico Morando ha evidenziato che la fonte di finanziamento della proposta sembra

coerente con l’esigenza di non penalizzare ulteriormente la crescita, perché colpisce i

patrimoni e non il reddito da lavoro o impresa; si è chiesto tuttavia se la proposta sia

altrettanto coerente con un riequilibrio equo della pressione fiscale. Ha poi ricordato che

prima del governo Monti la pressione fiscale del paese era paradossale: l’Italia, infatti, era

all’ultimo posto in classifica per la pressione fiscale sui patrimoni e a un livello alto per

18

Il prof. Contini ha sottolineato che tale effetto moltiplicatore sussisterebbe anche a fronte di elementi che

riducono l’effetto positivo dovuto all’alta propensione al consumo dei giovani (stimata intorno allo 0.9); in

particolare, dal fatto che parte di questo aumento dei consumi andrebbe ad aumentare le importazioni e non la

domanda interna e che sarebbe in parte compensato da una riduzione della spesa attualmente sopportata dai

genitori per coprire il consumo dei giovani, che si trasformerebbe in risparmio.

15

quella sui redditi. Gli interventi del governo Monti hanno contribuito a riequilibrare la

pressione fiscale, aumentando quella sui patrimoni, riavvicinandola alla media europea,

mentre ancora poco è stato fatto per risolvere l’evasione che incide eccessivamente sul

prelievo fiscale sui consumi.

Inoltre la proposta trascura un tema: tra gli anni Novanta e Duemila, i costi di

produzione dei beni pubblici sono cresciuti più rapidamente dei costi di produzione dei

beni privati. Sulla base di dati Istat, che ogni anno mette a confronto i due settori, è stato

infatti dimostrato che, se l’evoluzione dei due prezzi avesse lo stesso andamento, il settore

pubblico risparmierebbe 92 miliardi all’anno rispetto alle spese attuali19.

Renato Balduzzi affermando che nel quadro politico attuale sussistono le condizioni

per discutere di una proposta che implica un aumento della spesa pubblica, ha sottolineato

che la necessità di finanziare l’intervento in un quadro di equilibrio finanziario non derivi

solo da vincoli politici o normativi20

, ma anche da ragioni di sostenibilità di un debito

pubblico ormai abnorme21

e da ragioni di solidarietà intergenerazionale di cui non si è

evidentemente tenuto conto nei decenni in cui tale debito è stato accumulato. Ha poi

evidenziato la necessità di conteggiare, nella proposta, anche gli oneri fiscali oltre quelli

previdenziali; a differenza dei proponenti, per i quali tali oneri costituiscono una partita di

giro, il discussant ha ricordato che da un punto di vista contabile tali oneri vanno

previamente coperti.

Il prof. Balduzzi si è poi soffermato sul problema della distribuzione del nuovo

personale e, concordando sulla necessità di circoscrivere in modo più puntuale i settori nei

quali un’iniezione di personale giovane e qualificato possa costituire realmente un volano

di cambiamento, ha indicato la disaggregazione come possibile metodo per individuarli.

Esemplifica, in tal senso, mediante un confronto “disaggregato” con la Francia, rispetto

alla quale l’Italia ha forte carenza di personale nell’istruzione, meno nel settore sanitario.

Altri elementi su cui ha posto l’attenzione è quello della tipologia dei nuovi pubblici

impiegati: si tratta di nuovi assunti o riposizionamenti? E inoltre, dove andrebbero

collocati geograficamente? Su alcuni territori, infatti, oltre il moltiplicatore keynesiano c’è

anche quello “clientelare”, fattore che non può far cadere ab origine ogni proposta, ma che

va preso in seria considerazione. Il relatore ha concluso il suo intervento evidenziando che

il problema del consenso politico è superabile laddove si creino le opportune condizioni

culturali.

Nerina Dirindin ha evidenziato che il merito principale della proposta è quello di

rovesciare il clima culturale di denigrazione indifferenziata del pubblico impiego, che negli

ultimi anni ha demotivato molti dipendenti pubblici, da un lato, e, dall’altro, ha fatto

perdere fiducia nelle istituzioni, in particolare di quelle che non hanno fatto sprechi o spese

19

Questo è un dato paradossale su cui incide la significativa spesa pubblica per servizi generali. 20

Si ricorda a tal proposito che l’art. 81 Cost., così come novellato dalla L.Cost. 1/2012 introduce non il

principio di pareggio ma il principio di equilibrio tra entrate e spese: «Lo Stato assicura l'equilibrio tra le

entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo

economico. Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico

e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi

di eventi eccezionali. (…)». Si ricorda anche l’art. 126.1 TFUE: «Gli Stati membri devono evitare disavanzi

pubblici eccessivi» che costituisce una delle basi normative del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e

sulla governance nell'Unione economica e monetaria (c.d. Fiscal compact) del 2012 e della Strategia 2020

(approvata nel 2010). 21

Secondo fonti Eurostat il debito italiano, pur essendo calato nel terzo trimestre 2013 rispetto al secondo

trimestre, arriva pur sempre al 132,9%: in termini assoluti si tratta di oltre 2000 miliardi di euro. Nel quadro

europeo, l’Italia è seconda soltanto alla Grecia che ha il debito pubblico più alto d'Europa (169,1% del Pil) e

si avvicina al debito tedesco che in termini assoluti (2.146 miliardi) è il più ampio d'Europa, sebbene in

termini percentuali sia di gran lunga più basso a fronte di un Pil maggiore (78,4%).

16

improduttive. Si è poi soffermata sulla necessità di fare una riflessione anche sui fini

dell’azione pubblica, non solo sui processi, nell’intento di capire se i beni e servizi pubblici

prodotti, seppur a costi bassi, sono effettivamente utili e rispondono a bisogni collettivi

reali. La relatrice rileva, inoltre, la necessità di riflettere sulla effettiva destinazione dei

nuovi assunti: normalmente infatti le nuove leve sono destinate ad aree molto delicate ma

disagiate. Conclude il suo intervento esprimendo una positiva valutazione sul ricambio

generazionale nella pubblica amministrazione, a suo parere necessario in vista di quelle

riforme strutturali di lungo e breve periodo che sono ormai indifferibili.

I proponenti, tramite il prof. Ortona a cui sono state affidate le conclusioni, hanno di

volta in volta recepito i suggerimenti o reagito alle obiezioni e alle proposte in modo

puntuale. Il seminario si è chiuso evidenziando che il dibattito del 6 giugno costituisce solo

uno dei primi step di un percorso a cui ogni interessato è stato invitato ad apportare il

proprio contributo.

La legge della regione non può vincolare l’attività commerciale itinerante

nelle zone marittime. Annotazione a Corte cost., 14 marzo 2014, n. 24

di Nicola Dessì

Parole chiave: tutela della concorrenza; autorizzazioni all'attività commerciale.

Riferimenti normativi: art. 117, comma 2, lett. e), Cost.; art. 16 l. r. Veneto 31 dicembre

2012, n. 55 (Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive

e disposizioni in materia urbanistica, di edilizia residenziale pubblica, di mobilità, di

noleggio con conducente e di commercio itinerante); art. 5, comma 1, lett. a), l. r. Veneto

14 maggio 2013, n. 8 (Disposizioni in materia di commercio su aree pubbliche. Modifica

della l.r. 6 aprile 2001, n. 10 (Nuove norme in materia di commercio su aree pubbliche) e

successive modificazioni e della l.r. 4 novembre 2002, n. 33 (Testo unico delle leggi

regionali in materia di turismo” e successive modificazioni), artt. 19 e 70, D.lsg 26 marzo

2010, n. 50 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno).

Massima: La legge regionale non può porre vincoli all'esercizio dell'attività commerciale

itinerante sulle aree demaniali marittime. Più in generale, la Regione non può legiferare

in modo da incidere sulla capacità di svolgere un'attività economica: la tutela della

concorrenza è materia di competenza esclusiva statale. Non può, dunque, impedire che

l'operatore sia titolare di nulla-osta in più di un Comune; né può adottare, in caso di

domande in eccesso rispetto ai posti disponibili, i criteri di selezione stabiliti in sede di

Conferenza unificata, estendendo indebitamente il contenuto di una normativa statale, che

disciplina la fattispecie, diversa, dell'assegnazione dei posteggi nell'ambito del commercio

in area pubblica.

Link al documento

La sentenza accoglie alcune questioni di illegittimità costituzionale, promosse in via

principale dal Presidente del Consiglio dei ministri, contro alcune disposizioni della l.r. n.

55/2012 e della l.r. n. 8/2013, entrambe del Veneto, che interessano l'esercizio dell'attività

17

di vendita su aree pubbliche e, dunque, le funzioni amministrative dei Comuni, titolari del

relativo potere di autorizzazione ai sensi dell’art. 28 comma 3 d. lgs.

L'art. 16 della l.r. 55/2012 del Veneto introduce il comma 4-bis nell'art. 48-bis del

Testo unico regionale in materia di turismo (l.r. 33/2002 del Veneto). Secondo questa

disposizione, riguardante il settore del commercio itinerante nelle aree demaniali

marittime, nessun operatore può essere titolare di un nulla-osta all'attività, in più di un

Comune. Il comma 4-bis dell'art. 48-bis è stato successivamente abrogato dalla l.r. 8/2013

del Veneto, con l'art. 5, comma 1, lett. b). Ciononostante, la materia del contendere non è

cessata, poiché la disposizione in questione è stata applicata medio tempore.

A sua volta, l'art. 5, comma 1, lett. a) della l.r. 8/2013 del Veneto è intervenuto

sull'art. 48-bis del Testo unico regionale sul turismo, modificando il comma 2, lett. a).

Questa disposizione disciplina i procedimenti di selezione per il nulla-osta comunale

all'attività di commercio itinerante nelle zone marittime, e - più esattamente - il caso in cui

le domande presentate per ottenere il nulla-osta sono in eccesso rispetto ai posti disponibili.

Il legislatore veneto ha stabilito che, in quest'eventualità, si sarebbero dovuti applicare i

criteri di selezione di cui all'Intesa della Conferenza Unificata, datata 05.07.2012, in tema

di assegnazione dei posteggi su area pubblica.

Entrambe le disposizioni incidono - restrittivamente - sulla capacità, da parte degli

operatori, di svolgere un'attività economica: conseguentemente, devono iscriversi nella

materia della tutela della concorrenza, materia in cui lo Stato esercita la potestà legislativa

in via esclusiva, secondo l'art. 117, comma 2, lett. e) Cost.. Per questa ragione, entrambe le

disposizioni sono state giudicate illegittime. Infatti, la Corte ribadisce che la materia “tutela

della concorrenza”, “in quanto caratterizzata dalla portata 'trasversale' e dal contenuto

finalistico delle relative statuizioni, pur se non priva radicalmente le Regioni delle

competenze legislative e amministrative loro spettanti, tuttavia le orienta ad esercitarle in

base ai principi indicati dal legislatore statale”; si tratta dunque un settore in cui sono

“inibiti alle Regioni interventi normativi diretti ad incidere sulla disciplina dettata dallo

Stato, finanche in modo meramente riproduttivo della stessa”.

Nel caso di specie, la legge regionale ha impedito all'operatore di essere titolare di

nulla-osta in più Comuni, violando così i principi contenuti nella legge statale: in base

all'art. 19 del d.lgs. 59/2010, l'autorizzazione per il commercio itinerante consente di

svolgere l'attività in tutto il territorio nazionale.

Inoltre, la legge regionale, adottando per il commercio itinerante nelle zone

marittime i criteri di selezione stabiliti in sede di Conferenza Unificata, non fa che

estendere alla fattispecie dell'attività commerciale itinerante in zone marittime una

disposizione di legge statale in ordine a una fattispecie del tutto diversa: l'assegnazione dei

posteggi nel quadro dell'attività commerciale in aree pubbliche. A giudizio della Corte, si

tratta di una “scelta unilaterale” della Regione, la quale interviene a disciplinare, in modo

arbitrario, un caso che non è oggetto della disciplina statale.

ND

18

PARTE II

FUNZIONI E SERVIZI

Il ritorno alle aziende speciali nella gestione dei servizi pubblici locali.

Nota a Corte dei Conti, Sez. Autonomie, delibera 21/1/2014, n. 2 di Marco Comaschi

La Sezione delle Autonomie è stata chiamata a pronunciarsi dalla Sezione regionale

di Controllo del Piemonte sulla possibilità, o meno, di trasformare la Società Metropolitana

Acque Torino S.p.A. – a totale partecipazione pubblica – in un'azienda speciale consortile

di diritto pubblico. In concreto, il Comune di Torino era stato destinatario di una proposta

di deliberazione di iniziativa popolare, sulla quale il Responsabile del Settore gestione

societaria aveva espresso parere sfavorevole.

In sintesi, sono due i quesiti sottoposti all'esame del giudice:

1) se possa realizzarsi, in mancanza di apposita normativa, la trasformazione

eterogenea di una S.p.A. a totale partecipazione pubblica in azienda speciale consortile;

2) in caso negativo, se sia possibile attuare l'operazione in due fasi, rispettivamente

di estinzione/messa in liquidazione e di nuova costituzione, senza incorrere nel divieto di

cui all'art. 9, comma 6 del d.l. n. 95/2012;

Sebbene la remittente sezione piemontese avesse espresso perplessità su entrambe le

soluzioni proposte, le questioni sono state opportunamente rimesse all'attenzione della

Sezione delle Autonomie in considerazione dell'esistenza di alcune recenti pronunce di

altre Sezioni regionali di controllo favorevoli alla trasformazione22

. La Sezione delle

Autonomie ha fornito una risposta positiva a entrambi i quesiti e, in particolare, ha

22

cfr. Sezione di Controllo per la Regione Puglia, 19 settembre 2013, n. 142 e Sezione di Controllo per la

Regione Lombardia, 23 ottobre 2013, n. 460.

Parole chiave: Corte dei conti, servizi pubblici locali di rilevanza economica, servizio idrico integrato, referendum “sull'acqua”, gestione in House, società di capitali a partecipazione pubblica, azienda speciale.

Riferimenti normativi: artt. 2498 e 2500-septies comma; artt. 113 e 114 TUEL; art. 9, comma 6 del d.l. 95/2012; art. 35, comma 8, l. n. 448/2001; art. 23-bis d. l. 112/2008;

Massima: “La trasformazione di una società di capitali che gestisce un servizio pubblico a rilevanza economica in azienda speciale consortile è compatibile sia con le norme civilistiche, trattandosi di organismi entrambi dotati di un proprio patrimonio separato da quello della P.A., sia con le disposizioni pubblicistiche intese a ricondurre tali organismi ad un regime uniforme quanto al rispetto dei vincoli di finanza pubblica”.

Link al documento

19

sviluppato alcune considerazioni particolarmente utili sia per un ritorno all'utilizzo delle

aziende speciali da parte dei comuni che per la gestione in House dei servizi pubblici

locali aventi rilevanza economica.

Quanto al primo quesito, il giudice ha innanzitutto sciolto ogni dubbio circa i

presunti limiti imposti dalla disciplina civilistica alla trasformazione eterogenea di una

società di capitali in una azienda speciale. Se infatti è pur vero che l'art. 2500 septies

comma non prevede espressamente questa specifica trasformazione per una società di

capitali, occorre però rifarsi al principio generale di cui questa disciplina particolare è

espressione, ossia il principio di continuità aziendale previsto a garanzia dei soggetti terzi

dall'art. 2498 del comma. A ben vedere, allora, nel caso di specie l'azienda speciale che

risulterebbe dalla trasformazione della società per azioni sarebbe dotata di un patrimonio

separato a garanzia dei terzi, in piena coerenza con un'interpretazione sistematica degli artt.

2498 e 2500 septies c.c.

Definiti i profili civilistici dell'operazione, la Sezione affronta poi la fattibilità della

trasformazione alla luce delle norme pubblicistiche.

Il principale ostacolo da superare risulta la previsione di cui all'art. 35, comma 8, l.

n. 448/2001, secondo cui gli enti locali erano tenuti a trasformare le aziende speciali in enti

di diritto privato entro il 30.6.2003, e ciò al fine di garantire la piena espansione del

mercato dei servizi pubblici locali e di limitare ogni vulnus alla concorrenza. Il giudice

contabile ripercorre pertanto tutta l'evoluzione normativa che ha interessato la gestione dei

servizi pubblici23, soffermandosi in particolare sulle vicende intervenute successivamente

all'approvazione della succitata norma. In particolare si sottolinea come con la modifica

apportata all'art. 113, comma5 del T.U.E.L. nel 2003 il legislatore abbia fatto

sostanzialmente marcia indietro, mantenendo la possibilità di conservare la gestione in

house dei servizi pubblici locali; inoltre, con l'abrogazione referendaria dell'art. 23 bis, d.l.

n. 112/2008 si è passati dall'esigenza di garantire la massima concorrenza e di contenere le

ipotesi di affidamento diretto e di gestione in House alla piena riespansione delle norme

europee.

E' proprio in ragione di questo contesto normativo sopravvenuto, del tutto mutato

rispetto a quello che aveva portato all'approvazione dell'art. 35, comma 8, l. n. 448/2001

che il giudice adito ha sostenuto l'intervenuta abrogazione implicita di tale disposizione. Si

afferma che la predetta disposizione, essendo venuto meno ogni divieto alla gestione

mediante azienda speciale dei s.p.l., pur non avendo formato oggetto di quesito

referendario, sarebbe da considerarsi implicitamente abrogata, essendo frutto della stessa

concezione sottesa all'abrogato art. 23 bis d.l. n. 112/2008.

La decisione sottolinea inoltre il carattere transitorio della norma, la cui scadenza era

stata originariamente fissata al 31.12.2002 e che, pertanto, in assenza di proroghe ulteriori

ed in presenza di una normativa sopravvenuta rafforzerebbe la tesi dell'abrogazione

implicita. Anche i recenti interventi del legislatore – tra cui la legge di stabilità per il 2014,

la legge 27 dicembre 2013, n. 147 – farebbero propendere per questa interpretazione, dato

che dagli stessi si può desumere chiaramente l'intenzione di conservare l'istituto

dell'azienda speciale.

Così stando le cose, la Sezione per le Autonomie considera quindi tacitamente

abrogata la norma oggetto di discussione, che viene addirittura definita come “...parte di un

contesto politico-economico ormai risalente, caratterizzato dal convincimento allora

diffuso della migliore realizzazione dell’interesse pubblico mediante il ricorso agli istituti

23

A partire cioè dalla l. n. 142/1990, per poi passare alla c.d. Legge Galli n. 36/1994 e al d. lgs. n.267/2000.

20

di diritto comune e dalla fiducia nelle capacità del “mercato” di regolare al meglio anche

attività tipicamente riservate alla pubblica amministrazione...”.

Ma il giudice contabile si spinge oltre, nel tentativo di dimostrare come non solo il

ricorso – o, meglio, il ritorno – alle aziende speciali sia possibile ma, anzi, auspicabile

sotto il profilo delle garanzie di un maggior controllo dell'ente locale sul servizio stesso.

Sebbene infatti la legge di stabilità per il 2014 (legge 27.12.2013, n. 147) abbia

espunto dall'art. 114 del TUEL l'assoggettamento diretto al patto di stabilità di aziende

speciali ed istituzioni, permane comunque nella stessa una tendenza a disciplinare con

maggiore rigore le aziende speciali. Inoltre le aziende speciali, a differenza delle società di

capitali, sono da un lato soggette al principio del pareggio di bilancio e, dall'altro, vengono

anche considerate ai fini dell'applicazione diretta dei vincoli in materia di spesa di

personale.

In poche parole la Corte sostiene con evidenti ragioni giuridiche che “non ha ragione

di esistere la preoccupazione del possibile impiego dell’istituto dell’azienda speciale a

scopi elusivi dei vincoli di finanza pubblica poiché, si ripete, la relativa normativa prevede

misure più severe di quelle riferite alle società di capitali che gestiscono servizi pubblici

locali”.

Infine la Corte termina prendendo in considerazione il secondo quesito dando, anche

a questo, risposta positiva. In questo, peraltro, il compito della Sezione delle Autonomie

risulta facilitato dall'intervenuta abrogazione, per effetto dell'art. 9, comma 6, d.l. n.

95/2012, secondo cui era “...fatto divieto agli enti locali di istituire enti, agenzie e

organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più

funzioni fondamentali e funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell’articolo 118,

della Costituzione”.

Così stando le cose, deve ritenersi consentita anche la liquidazione di una società di

capitali e la costituzione ex novo di un'azienda speciale consortile.

Alla luce di quanto sopra riportato, si può pertanto concludere che la pronuncia in

questione rappresenta un'ulteriore importante passo nella direzione di affermare nel suo

complesso l'opportunità per gli enti locali di gestire direttamente, anche attraverso aziende

speciali, i servizi pubblici di rilevanza economica, in evidente controtendenza rispetto alla

legislazione dello scorso decennio ed alla fiducia incondizionata nel libero mercato di cui

la stessa era frutto.

Servizio noleggio auto con conducente a portata di smartphone:

l’app di «Uber» utilizzata nel comune di Milano di Elisa Bellomo

Parole chiave: servizio pubblico non di linea - servizio di autonoleggio con conducente -

trasporti – tecnologia

Riferimenti normativi: l. 15 gennaio 1992 n. 21; art. 29 comma 1, d.l. n. 13 agosto 2011

n. 138 conv. in l. 14 settembre 2011, n. 148 – determina dirigenziale 29 luglio 2013 n. 209

Massima 1: può essere confermata la sospensione della determinazione dirigenziale n. 209

del 2009 in quanto si tratterebbe di un provvedimento collegato alle previsioni del vigente

regolamento comunale approvato con deliberazione n. 133 del 24 novembre 1997 e non

aggiornato all’evoluzione normativa nazionale di cui al d. l. 138/2011.

21

Massima 2: nelle more del giudizio di merito, per l’Amministrazione comunale è

possibile concretamente valutare l’incidenza del servizio svolto dalla società Uber, sia in

rapporto all’interferenza con il servizio taxi, sia in relazione al miglioramento della

complessiva efficienza del trasporto pubblico per effetto dell’interazione tra servizi di

linea/non di linea.

link al documento

Il sistema di chiamata e prenotazione delle auto blu da noleggio con conducente

(NCC) con la software “app”, già da tempo in uso negli Stati Uniti, è stato esportato

dall’azienda americana Uber nell’Unione europea facendo nascere delle controversie in

ordine alla compatibilità dell’applicazione con la disciplina nazionale dei trasporti

pubblici non di linea e con la normativa antitrust.

Preliminarmente, occorre chiarire come il servizio di autonoleggio con conducente

rientri nella categoria dei servizi pubblici non di linea adibiti a trasporto collettivo o

individuale di persone, con funzione complementare e integrativa rispetto ai servizi

pubblici di linea e che vengono effettuati a richiesta dell’utente, in modo non continuativo

o periodico, su itinerari e secondo orari stabiliti di volta in volta; in particolare, il servizio

di noleggio con conducente si rivolge all’utenza che avanza, presso la sede del vettore,

apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio.

Il dibattito nel nostro ordinamento nasce dall’esperienza che vedrà impegnata la città

di Milano, nell’organizzazione di Expo 2015, la cui amministrazione, da un lato, potrebbe

voler essere d’esempio quale precursore per l’utilizzo della tecnologia; dall’altro, deve fare

i conti con la normativa in vigore che distingue il servizio di autonoleggio con conducente

dal servizio taxi.

I clienti della Uber Italia, che opera attualmente a Milano e Roma, possono

prenotare vetture a noleggio tramite l’installazione dell’app sullo smartphone, conoscendo

anticipatamente i costi relativi al percorso desiderato dopo aver prenotato.

I vantaggi che offre questo servizio sono di tutta evidenza: prenotazione automatica

via internet; minor tempo di attesa per il cliente; addebito del costo di servizio su Paypal o

carta di credito.

L’iniziativa, seppur meritevole di attenzione non è stata tuttavia di gradimento per i

tassisti milanesi e romani, che l’hanno giudicata “abusiva” e chiesto al Comune di Milano

di adottare delle regole chiare al fine di rendere compatibile il nuovo servizio con quello

taxi sostenendo come non si tratti di un vero e proprio servizio «di noleggio con

conducente» rispettoso delle prescrizioni normative ad esso relative.

A tal proposito, la Direzione Centrale Mobilità, Trasporti e Ambiente del Comune di

Milano, in data 29 luglio 2013, ha emanato la determina dirigenziale n. 209 intitolata

«servizio di autonoleggio da rimessa con conducente a mezzo autovettura-modalità, limiti

operativi e prescrizioni vigenti», con cui assunti a parametro di legittimità la legge n. 21

del 15 gennaio 1992 «legge quadro per il trasporto di persona mediante autoservizi

pubblici non di linea» e il Regolamento Comunale per il «servizio di autonoleggio da

rimessa con conducente a mezzo di autovettura», ha fissato le regole e i limiti operativi per

il servizio di autonoleggio da rimessa con conducente nel territorio del Comune di Milano.

In particolare, la determina dichiara incompatibili alcune modalità di svolgimento di

servizio come la ricezione di chiamate e l’accettazione delle richieste di servizio anche in

luoghi diversi dalla rimessa e addirittura dal veicolo in movimento e il calcolo del

22

corrispettivo per il servizio sulla base del percorso effettuato e del tempo impiegato, in

modo analogo a quanto avviene per il servizio taxi.

In quest’ottica, sono state fissate le regole e i limiti operativi per il servizio di

autonoleggio da rimessa con conducente, riducendo, tuttavia, di molto le potenzialità

innovative del servizio: l’autorizzazione per il servizio di noleggio con conducente può

essere rilasciata dal Comune di Milano a persone fisiche che possono gestirlo in forma

singola o associata (art. 7 l. n. 21/1997); l’autorizzazione rilasciata dal Comune di Milano

presuppone, sollevando non pochi dubbi sulla legittimità rispetto alla libertà di circolazione

dei servizi, che il titolare abbia la propria sede e la rimessa, presso la quale devono

stazionare i veicoli in attesa delle richieste da parte dell’utenza, nel territorio del Comune

di Milano; le prenotazioni del servizio di trasporto da parte dell’utenza possono pervenire

esclusivamente presso la sede del vettore o presso la rispettiva rimessa, qualora individuata

come luogo preordinato all’organizzazione delle attività di impresa; il corrispettivo del

trasporto, per una determinata prestazione, deve essere preventivamente e direttamente

concordato tra l’utenza e il vettore, ai sensi dell’art. 13 della l. n. 21/1992 e del Decreto

Ministero Trasporti del 20 aprile 1993; l’inizio del servizio deve avvenire esclusivamente

dalla rimessa e può essere rivolto solo a chi ha effettuato la prenotazione; le prenotazioni

possono essere effettuate telematicamente purché ne rimanga traccia presso gli Organismi

associativi; è vietato, ai titolari di autorizzazione per il servizio di autonoleggio da rimessa

con conducente rilasciata da altre amministrazioni comunali, procurarsi il servizio ovvero

usufruire degli organismi preposti a tale scopo ubicati nel territorio del Comune di Milano.

Contro la decisione comunale, la risposta dell’azienda non si è fatta attendere,

chiedendo l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della determina in oggetto

ricorrendo al competente tribunale amministrativo regionale.

Secondo i ricorrenti, la determina contrasterebbe con i principi comunitari in materia

di concorrenza, libera prestazione dei servizi e di diritto di stabilimento.

Il tribunale Amministrativo Regionale, con ordinanza n. 1131 del 24 ottobre 201124

,

accoglie la domanda cautelare ritenendo sussistente il fumus boni iuris tenuto conto di

come la determinazione dirigenziale possa precludere a nuovi operatori di agire, con nuove

tecnologie, nel settore dei servizi pubblici non di linea.

In particolare, si sostiene che possano profilarsi possibili violazioni del diritto

comunitario anche in prospettiva dell’attesa decisione della Corte di Giustizia dell’Unione

Europea, avente a oggetto il rinvio pregiudiziale disposto dal TAR Lazio – Roma (sez. II,

sentenza non definitiva 4 settembre 2012, n. 7516) in merito alla compatibilità europea

dell’art. 29 comma 1 quater della l. n. 214/2009 intitolata «Proroga di termini previsti da

disposizioni legislative e disposizioni finanziarie urgenti» in relazione all’eventuale

violazione dei principi che tutelano la concorrenza, la libertà di stabilimento e la libertà di

circolazione di beni e servizi.

Inoltre, il collegio, tenendo in considerazione il generale quadro di abrogazione delle

indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche,

cita il principio secondo cui «l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è

permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge» ai sensi dell’art. 3 del

D.L. 138/2011, convertito nella legge 148/2011, derogabile solo in caso di accertata

lesione di interessi pubblici tassativamente individuati (sicurezza, libertà dignità umana,

utilità sociale e salute) che in questo caso non sarebbero da ritenersi incisi.

24

Tar Lombardia, Milano, sez. I, 24 ottobre 2013, n. 1131 in www.giustizia-amministrativa.it

23

In generale, quindi, il T.A.R. Lombardia è apparso propenso non solo a rendere noto

agli operatori del diritto, ed in particolare alla pubblica amministrazione, che il vigente

regolamento del Comune di Milano approvato con deliberazione n. 133 del 24 novembre

1997 andrebbe modificato alla luce delle più recenti norme nazionali, ma anche che le

stesse norme nazionali potrebbero essere dichiarate incompatibili con i principi europei in

materia di libera concorrenza e libera circolazione dei servizi.

Alla luce della vicenda Uber, possono farsi alcune considerazioni.

E’ evidente come le pubbliche amministrazioni comunali, di fronte all’utilizzo

sempre più diffuso e accessibile delle tecnologie di comunicazione nella società, si trovino

a dover bilanciare più interessi contrapposti: da un lato, l’ottimizzazione dell’efficacia del

servizio pubblico non di linea; dall’altro, regolamentare le nuove opportunità nel rispetto

della normativa statale al fine di disciplinare possibili forme di sovrapposizione con il

servizio taxi.

L’ordinanza del T.A.R. Milano appare una decisione ponderata sullo stato attuale

della normativa in continua evoluzione al vaglio della Corte di Giustizia, tanto da chiedere

al Comune di Milano di verificare effettivamente l’impatto di questa nuova modalità di

servizio sul sistema generale del servizio pubblico di linea, nelle more del giudizio di

merito. La decisone appare inoltre sospingere l’amministrazione verso una modifica del

regolamento comunale del servizio di autonoleggio da rimessa con conducente a mezzo di

autovettura, in riferimento al quale la delibera è stata adottata, al fine di rendere lo stesso

maggiormente conforme alle riforme indotte dalla normativa nazionale, in particolare dal

d. l. 138/2011.

Non resta che monitorare questa interessante vicenda, che presto coinvolgerà altri

comuni italiani, come del resto accaduto in altre città europee.

La nuova disciplina dei procedimenti di concessione di derivazione di

acqua pubblica in Piemonte di Elisa Bellomo

Parole chiave: concessioni - procedimento partecipativo - acque pubbliche - uso

dell’energia da fonti rinnovabili - autorizzazioni

Riferimenti normativi: R.D. 1 dicembre 1933, n. 1775 – R.D. 14 agosto 1920, n. 1285 –

L.R. 29 dicembre 2000, n. 61 – Reg. reg. 29 luglio 2003, n. 10/R

Link al documento

Sulla scia del generalizzato perseguimento degli obiettivi comunitari e nazionali in

materia di sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, dal 1 giugno 2014, nella Regione

Piemonte, sono entrati in vigore importanti novità relative al procedimento per il rilascio di

concessione di derivazione di acqua pubblica, anche a uso idroelettrico

Le nuove regole sono contenute nel Decreto del Presidente della (uscente) Giunta

Regionale (D.P.G.R.) del 14 marzo 2014 n. 1/R, pubblicato nel B.U. n. 11 del 17 marzo

2014, che ha modificato alcuni punti del D.P.G.R. del 29 luglio 2003 n. 10/R

«Regolamento di disciplina dei procedimenti di concessione di derivazione di acqua

pubblica» con cui è stata data attuazione alla l.r. 29 dicembre 2000, n. 61 intitolata

24

«Disposizioni per la prima attuazione del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 in

materia di tutela delle acque».

Senza alcuna pretesa di esaustività, queste brevissime osservazioni hanno lo scopo

di focalizzare l’attenzione sulle norme relative al coordinamento tra il procedimento di

concessione di derivazione di acque pubbliche e il procedimento di rilascio

dell’autorizzazione unica, ipotizzando alcune presumibili difficoltà applicative del decreto.

Va ricordato innanzitutto che il regolamento intende conformare l’esercizio delle

funzioni amministrative relative ai procedimenti in oggetto con la normativa europea e

nazionale di promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili.

Anche la concessione di derivazione di acque pubbliche, seppur trovi ancora oggi un

generale fondamento normativo nel T.U. n. 1775 del 1933 «Testo unico delle disposizioni

di legge sulle acque e impianti» e nel Regolamento n. 1285 del 1920 «Approvazione del

regolamento per le derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche», viene riconsiderata

nelle politiche del legislatore europeo che chiedono si un coordinamento, tra le diverse

autorità competenti ai diversi livelli di governo, nella considerazione delle istanze

autorizzatorie, attraverso la predisposizione di apposite linee guida.

In quest’ottica, seppur con considerevole ritardo, era stato emanato, al fine di dare

attuazione alla «Direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27

settembre 2001, sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche

rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità» (abrogata dalla direttiva n. 2009/28/CE), il

decreto legislativo 29 dicembre 2003 n. 387 che contiene la previsione di

un’autorizzazione unica per la costruzione, l’esercizio e la modifica di impianti di

produzione di energia alimentati da fonti rinnovabili, delle opere connesse e delle

infrastrutture indispensabili, costituendo variante allo strumento urbanistico.

In attuazione dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2008 erano state emanate le “linee

guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili” con D.M. del 10

settembre 2010.

In esse sono disciplinate le modalità amministrative e i criteri tecnici da seguire nelle

procedure per la costruzione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica

alimentati da fonti rinnovabili, per gli interventi di modifica, potenziamento, rifacimento

totale o parziale e riattivazione degli stessi, nonché per le opere connesse e le infrastrutture

indispensabili alla loro costruzione e/o esercizio.

In particolare al paragrafo 18.3, si prevedono forme di semplificazione e

coordinamento tra il procedimento di concessione di derivazione di acque pubbliche e

quello per il rilascio dell’autorizzazione unica, in questi termini: «Al fine di ridurre i tempi

evitando duplicazioni di atti ovvero di valutazioni in materia ambientale e paesaggistica, le

Regioni possono individuare le più opportune forme di semplificazione e coordinamento

tra i procedimenti per il rilascio di concessioni di derivazione d'acqua pubblica di cui al r.

d. 11 dicembre 1933, n. 1775 ovvero di concessioni per lo sfruttamento delle risorse

geotermiche di cui al decreto legislativo 22 del 2010 nonché per i procedimenti i cui esiti

confluiscono nel procedimento unico di cui all'articolo 12 del d. lgs n. 387 del 2003».

La norma statale trascura le concrete modalità di coordinamento tra i suddetti

procedimenti: la concessione di derivazione di acque pubbliche continua così a

rappresentare un procedimento amministrativo autonomo e separato rispetto a quello

dell’autorizzazione unica di cui al d.lgs. n. 387 del 2003.

Di conseguenza, per le due categorie di procedimenti di concessioni di acque

pubbliche e di utilizzo dei fluidi geotermici è necessario promuovere specifici

procedimenti, distinti da quelli che decidono sulla domanda di autorizzazione unica a

carattere generale.

25

Pertanto, l’autorizzazione unica rilasciata in sede di conferenza di servizi,

concernente gli impianti costituisce titolo a costruire e a gestire l'impianto e, ove

necessario, diventa variante allo strumento urbanistico, mentre la separata concessione

attiene all’uso del bene demaniale.

In mancanza di esplicito riferimento normativo a livello nazionale, è evidente come

il compito di disciplinare la simultaneità o sequenzialità dello svolgimento dei

procedimenti è demandato agli enti locali, che, in primo luogo, devono risolvere le

problematiche dei tempi di conclusione dei procedimenti.

Infatti, mentre il procedimento di autorizzazione unica seguirà la disciplina di cui alla

legge generale sul procedimento amministrativo l. n. 241 del 1990, il procedimento di

concessione di acque pubbliche per uso idroelettrico continuerà ad essere disciplinato dalla

normativa nazionale e regionale.

Tralasciando l’analisi delle modifiche ulteriore delle norme del regolamento n. 10/R

in tema di partecipazione procedimentale ed istruttoria, che meriterebbero un commento a

parte, in questa sede si intende focalizzare l’attenzione sulla nuova sezione, I bis, intitolata

«Disposizioni in materia di uso energetico delle acque» e composta dall’artt. 15 bis e 15

ter.

Proprio l’art. 15 bis intitolato «domande di utilizzo dell’acqua a uso energetico

soggette ad autorizzazione unica» dispone la forma di coordinamento tra i procedimento di

concessione di derivazione di acqua pubblica con quello di autorizzazione unica.

In particolare, ai sensi del primo comma, la domanda e la documentazione necessarie

per l’avvio del procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica ai sensi del d.lgs. n.

387/2003 devono essere presentate, nel caso in cui non vi siano domande concorrenti in un

termine non superiore ai 90 giorni (con esclusione degli elaborati già allegati alla domanda

di concessione per l’utilizzo dell’acqua), nel caso di domande concorrenti in un termine

non superiore ai 45 giorni, decorso il quale le domande saranno valutate e inserite in una

graduatoria in base ai criteri di cui all’art. 18 del regolamento 10/R così come modificato

dall’art. 12 del regolamento n.1/R.

Nei 15 giorni successivi alla presentazione della domanda, l’autorità competente

verifica la completezza formale della documentazione e trasmette la domanda a tutti i

soggetti interessati o comunica l’improcedibilità dell’istanza per carenza della

documentazione; decorsi 15 giorni senza che l’amministrazione abbia comunicato l’

improcedibilità, il procedimento si intende avviato.

Entro 30 giorni dalla comunicazione di avvio del procedimento, l’autorità

competente convoca la conferenza di servizi al fine di esaminare contestualmente gli

interessi pubblici e privati coinvolti, nonché per acquisire autorizzazioni, nulla osta, pareri

e altri atti di assenso comunque denominati necessari per la costruzione e per l’esercizio

dell’impianto, delle opere connesse e infrastrutturali indispensabili.

Il provvedimento finale costituisce anche autorizzazione unica alla costruzione ed

esercizio dell’impianto ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003.

Per quanto più precisamente attiene al procedimento finale, l’art. 22 del precedente

regolamento 10/R è stato ampiamente modificato dall’art. 16 del regolamento 1/R ,

inserendo dopo il comma 1, un comma 1bis, con cui si prescrive che il provvedimento

finale deve illustrare le caratteristiche delle domande presentate in rapporto agli interessi

pubblici coinvolti ed alla razionale utilizzazione del corpo idrico interessato dal prelievo.

Occorre tenere conto della necessità di garantire il buon regime idraulico e la salvaguardia

qualitativa e quantitativa della risorsa, dando atto delle risultanze dell’istruttoria e

fornendo precise indicazioni.

26

L’art. 15 ter invece prevede una forma di dialogo procedimentale tra il consorzio

titolare del diritto di prelievo e l’istante di concessione ad uso energetico.

Infatti, qualora la domanda riguardi l’utilizzo di acque derivate per uso irriguo,

esclusivo o associato ad altri usi, l’autorità concedente ne dà comunicazione al soggetto

istante.

Nei successivi 15 giorni, sarà onere del consorzio manifestare la volontà di utilizzare

le acque fluenti nei canali e nei cavi consortili per realizzare una derivazione ad uso

energetico sfruttando il medesimo corso d’acqua.

A questo punto, la norma è favorevole al consorzio, che, entro 90 giorni, salvo

proroga per un massimo di altri novanta, può presentare la domanda; in assenza della

comunicazione o della documentazione, l’autorità concedente riavvia il procedimento nei

confronti dell’istante.

Si prevede altresì che l’istante possa accordarsi con il consorzio sulle modalità di

possibile couso della derivazione; nel caso di mancanza di accordo tra le parti, l’autorità

procedente invita ciascuna parte a produrre una proposta di convenzione di couso nel

termine di 30 giorni e stabilisce d’ufficio le modalità coesistenza della nuova derivazione

con quella preesistente.

Infine, l’istante può trovare maggiori difficoltà di accoglimento della sua domanda

nel caso in cui essa riguardi infrastrutture di competenza di un consorzio di bonifica e

irrigazione e le opere in progetto siano incompatibili con le esigenze di mantenimento della

funzionalità dell’infrastruttura; in tal caso, infatti, laddove l’incompatibilità sia

insuperabile mediante opportune modifiche al progetto presentato, l’istanza è rigettata.

La documentazione e la domanda necessaria per il rilascio dell’autorizzazione unica

ai sensi del d.lgs. n. 387/2003 possono essere presentati solo successivamente

all’espletamento della fase relativa alla concorrenza tra le domande di concessione di

derivazione di acque pubbliche, dovendo far pervenire all’autorità competente entro 45

giorni tutta la documentazione richiesta.

Merita attenzione il comma 4 dell’art. 15 bis nella parte in cui prevede per l’autorità

competenza un termine di 15 giorni dalla presentazione della domanda per verificare la

completezza formale della documentazione. Trascorso detto termine, l’autorità competente

o comunica l’avvio del procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica di cui all’art.

12 del d. lgs. n. 387/2003, provvedendo a trasmettere la domanda a tutti i soggetti

interessati, o l’improcedibilità dell’istanza per carenza della documentazione prescritta.

Trascorso detto termine senza che l’amministrazione abbia comunicato l’improcedibilità,

il procedimento di intende avviato.

A prima lettura, appare difficile, per un’autorità procedente (la quale deve

contemporaneamente analizzare la documentazione utile tanto per la concessione di

derivazione di acque pubbliche e quanto per il rilascio di autorizzazione unica) riuscire a

fornire un diniego motivato in soli quindici giorni, senza considerare che appare

verosimilmente penalizzato lo stesso istante nel caso in cui non fornisca, in modo

completo, la documentazione richiesta, posto che non sembrerebbe permesso, ai sensi del

comma 4 dell’art. 15 bis, implementare successivamente la documentazione prescritta al

fine di scongiurare l’improcedibilità.

Se in questa prima fase, quella dell’iniziativa del procedimento, il legislatore

regionale sembra aver optato per una maggiore semplificazione ed accelerazione

dell’attività amministrativa, nella fase istruttoria, invece, con la previsione di una

conferenza di servizi, sembra aver optato per una più ponderata valutazione e

comparazione contestuale di tutti gli interessi pubblici, primari e secondari, coinvolti nella

realizzazione dell’attività richiesta.

27

L’attenzione al dialogo tra le parti si riflette anche nel contenuto che il

provvedimento di concessione di derivazione di acque pubbliche deve avere al fine di

rappresentare la sede in cui illustrare le caratteristiche delle domande presentate in rapporto

agli interessi pubblici coinvolti ed alla razionale utilizzazione del corpo idrico interessato

dal prelievo. Resta da domandare, tuttavia, se anche nel provvedimento di diniego

dell’istanza debbano essere dati altrettanti motivati riscontri al destinatario circa la causa

del rigetto.

In conclusione, dopo circa quattro mesi dall’entrata in vigore del regolamento n.

1/R, non è ancora possibile dare riscontro in merito ad applicazione sul campo della

normativa, tuttavia, a dispetto di alcune possibili contraddizioni, si può positivamente

riscontrare come anche la Regione Piemonte, con questo regolamento, porga sempre

maggiore attenzione alle politiche UE di agevolazione all’installazione di impianti per

utilizzo di energie rinnovabili e all’uso energetico delle risorse naturali.

La legge regionale non può prorogare sine termine la durata dei contratti

di affidamento del trasporto pubblico locale. Annotazione a Corte cost.,

13 gennaio 2014, n. 2 di Nicola Dessì

Parole chiave: contratti pubblici; trasporto pubblico locale.

Riferimenti: artt. 117, commi 1 e 2, lett. e), Cost.; art. 2 l. r. Toscana 24 novembre 2012,

n. 64 (Modifiche alla l.r. n. 69/2008, alla l.r. n. 65/2010, alla l.r. n. 66/2011, alla l.r. n.

68/2011 e alla l.r. n. 21/2012); art. 5 Reg. CE 23 ottobre 2007, n. 1370 (Regolamento del

Parlamento europeo e del Consiglio relativo ai servizi pubblici di trasporto dei passeggeri

su strada e per ferrovia e che abroga i regolamenti del Consiglio – CEE – n. 1191/69 e –

CEE – n. 1107/70), recepito dall’art. 61 della l. 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo

sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia).

Massima: La legge regionale non può disporre la proroga sine termine di un contratto di

affidamento di un servizio pubblico, in quanto ciò costituisce una barriera all’ingresso per

gli operatori nel settore economico relativo, con conseguente violazione dei principi della

tutela della concorrenza.

Link al documento

1. La sentenza decide una questione di illegittimità costituzionale, promossa in via

principale dal Presidente del Consiglio dei ministri, contro una disposizione della legge

regionale della Toscana n. 2/2014, dichiarandola fondata.

La norma censurata aveva modificato, a sua volta, l'art. 82 della legge regionale n.

65/2010 (finanziaria per l'anno 2012), inserendovi un comma 1 bis, contenente una proroga

dei contratti di affidamento in concessione relativi al trasporto pubblico locale su gomma,

senza però prevedere un termine finale.

La disposizione impugnata, a giudizio della Corte, non riguarda il trasporto pubblico

locale, materia di competenza regionale residuale: si inserisce nella materia della tutela

28

della concorrenza, dal momento che incide sulle modalità di scelta del concessionario di un

pubblico servizio. Si tratta dunque di una materia di competenza statale, ai sensi dell’art.

117, comma 2, lett. e) Cost..

Ciò premesso, la Corte ribadisce che la proroga illimitata di una pubblica

concessione costituisce un limite alla libertà di concorrenza, in quanto rappresenta una

barriera all’ingresso per i soggetti che vogliano ottenere la stessa concessione e operare in

quel settore di mercato. Di conseguenza, questa scelta del legislatore toscano contrasta con

la competenza legislativa statale, che serve a garantire la libertà di concorrenza.

Scrive la Corte che “la norma impugnata − nello stabilire la possibilità, per gli enti

locali, di reiterare la proroga dei contratti dei gestori dei servizi di trasporto pubblico

locale, senza neppure che vi sia l’indicazione di un termine finale di cessazione delle

medesime − ha posto in essere una disciplina che opera una distorsione nel concetto di

concorrenza ponendosi in contrasto con i principi generali, stabiliti dalla legislazione

statale”.

Precisamente, la disposizione censurata è in contrasto con l’art. 5, comma 5, del

regolamento CE 1370/2007, recepita con la l. n. 99/2009, che disciplina le modalità di

affidamento del servizio di trasporto pubblico locale. Nel regolamento in questione, si

considera l’ipotesi in cui l’ente locale aggiudicatore, alla scadenza del contratto di servizio

e nelle more della nuova procedura di affidamento, si trova a fronteggiare il pericolo

dell’interruzione del servizio pubblico. In questi casi, la norma europea consente

l’adozione di provvedimenti di emergenza, fra cui la proroga del contratto in scadenza e

dell’affidamento al precedente gestore, ma solo a condizione che la proroga non superi i

due anni. Da un lato, dunque, il legislatore italiano - statale o regionale che sia - non può

prevedere una proroga a tempo indeterminato; dall’altro, essendo la tutela della

concorrenza una materia di competenza statale, solo il legislatore statale può stabilire quali

misure emergenziali siano da ritenersi necessarie.

2. La Corte costituzionale lascia aperta la questione se la proroga possa essere in

contrasto anche con la vigente normativa dell’Unione europea in materia di trasporto

stradale di passeggeri, violando in tal modo l’art. 117 comma 1 della Costituzione.

ND

La legge statale può obbligare i comuni minori all’esercizio associato

delle funzioni comunali. Annotazione a Corte cost., 11 febbraio 2014, n.

22 e 13 marzo 2014, n. 44 di Nicola Dessì

Parole chiave: unioni di comuni.

Riferimenti normativi: artt. 114; 117, commi 2, 3, 4; 118; 120, comma 2; 133, comma 2,

Cost. Artt. 16 decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la

stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), conv. con modif., dall’art. 1, comma 1, della

l. 14 settembre 2011, n. 148. Art. 19, commi 1 lett. a), b), c), d), e), 2, 3, 4 e 6 del d.l. 6

luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con

invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle

29

imprese del settore bancario), conv. con modif., dall’art. 1, comma 1, della l. 7 agosto

2012, n. 135.

Massima 1: Il legislatore statale, nell’esercizio della potestà riservatagli dall’art. 117

Cost., comma 2, lett. p), ha il compito di individuare le funzioni fondamentali di Comuni,

Province e Città metropolitane, anche quando riguardano materie che non rientrano nella

potestà legislativa o regolamentare dello Stato.

Massima 2: L’art. 117 comma 2, lett. p) Cost. impedisce allo Stato di legiferare con

riguardo alle funzioni di pertinenza delle unioni comunali, nonché ai loro organi di

governo. Lo Stato, però, può imporre l’esercizio associato delle funzioni spettanti ai

Comuni, perseguendo l’obiettivo del contenimento della spesa pubblica. Infatti, è riservata

alla legislazione dello Stato la determinazione dei principi fondamentali in fatto di

coordinamento della finanza pubblica.

Massima 3: Il legislatore statale, nel momento in cui impone ai Comuni con popolazione

inferiore a 1.000 abitanti l’esercizio delle funzioni in forma associata, non sottrae a

ciascuno di loro la rispettiva personalità giuridica. L’unione dei comuni, dunque, non si

configura come una fusione; il legislatore statale non ha provveduto ad una modifica delle

circoscrizioni comunali, modifica che, secondo l’art. 133 Cost., può avvenire solo con

legge della Regione.

Massima 4: La legge statale può disporre sulle modalità procedimentali necessarie al

funzionamento delle unioni comunali, essendo queste ultime funzionali alle esigenze di

coordinamento della finanza pubblica; non può, però, disciplinare elementi che esulano da

tali esigenze, e che afferiscono alla materia dell’ordinamento delle unioni di Comuni,

ambito di esclusiva potestà regionale. Di conseguenza, la legge statale non può stabilire

che i consigli comunali interessati approvino a maggioranza dei componenti la

deliberazione con cui si propone alla Regione l’istituzione dell’unione comunale; idem

dicasi per l’approvazione dello statuto dell’unione. Inoltre, la legge statale non può

imporre che, dei due consiglieri comunali eletti da ciascun comune nel consiglio dell’ente

associativo, uno appartenga all’opposizione.

Massima 5: La legge statale può conferire ai prefetti il potere di accertare che i comuni

interessati osservino le disposizioni di legge in tema di unioni comunali, in piena armonia

con le regole generali sul potere sostitutivo dello Stato a tutela dell’unità giuridica ed

economica della Repubblica.

Link al documento (Corte cost., 11 febbraio 2014, n. 22)

Link al documento (Corte cost. 13 marzo 2014, n. 44)

La sentenza n. 22/2012 rigetta le questioni di legittimità costituzionale promosse da

alcune Regioni contro varie disposizioni del d.l. 95/2012 (c.d. spending review), convertito

dalla l. n. 135/2012. A sua volta, la Sentenza n. 44/2012 decide su alcune questioni di

legittimità costituzionale, promosse da alcune Regioni, contro alcune disposizioni della

spending review, ma anche contro alcune disposizioni del d.l. 138/2011, convertito dalla l.

148/2011: in questo caso, la Corte ha ammesso solo alcune delle questioni, tra le quali non

tutte sono state ritenute fondate.

30

1. L’oggetto delle censure regionali è innanzitutto l’art. 19 della spending review,

ai commi 1, 3 e 4. Il comma 1 sostituisce i commi 27, 28, 30 e 31 all’art. 14 del d.l.

78/2010, convertito dalla l. 122/2010, e aggiunge allo stesso articolo il comma 28-bis. Il

parametro costituzionale invocato è l'art. 117 Cost., comma 3 e 4.

1b. L’art. 19, comma 1, lett. a) della spending review ridefinisce le funzioni

fondamentali dei Comuni. La Corte puntualizza che, sebbene alcune delle funzioni

individuate dal legislatore dello Stato corrispondano a materie di potestà legislativa

regionale o concorrente, la disposizione impugnata non è in contrasto con l’art. 117 Cost. e

con il riparto di competenze ivi dettato.

Vero che le leggi e i regolamenti dello Stato non possono disciplinare l’esercizio di

funzioni amministrative, relativamente ad ambiti che non sono di competenza statale.

Nondimeno, l’art. 117 Cost., comma 2, lett. p), riconosce espressamente la potestà

legislativa statale con riguardo alle “funzioni fondamentali” di Comuni, Province e Città

metropolitane: ne deriva che lo Stato non può non avere il potere di legiferare allo scopo di

individuare tali “funzioni fondamentali”.

Come scrive la Corte, “allo Stato spetta l’individuazione delle funzioni fondamentali

dei Comuni tra quelle che vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale (...)

La disciplina di dette funzioni è, invece, nella potestà di chi - Stato o Regione - è

intestatario della materia cui la funzione stessa si riferisce. In definitiva, la legge statale è

soltanto attributiva di funzioni fondamentali, dalla stessa individuate, mentre

l’organizzazione della funzione rimane attratta alla rispettiva competenza materiale

dell’ente che ne può disporre in via regolativa”.

1comma Lo stesso comma 1 dispone l’esercizio in forma associata delle funzioni

fondamentali per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, o 3.000 se si tratta di

Comuni montani (lett. b). Inoltre, vengono determinate le dimensioni territoriali ottimali

per l’esercizio associato delle funzioni (lett. d), quantificando in 10.000 abitanti il limite

demografico minimo per ciascuna unione comunale, salvo che la Regione non individui un

limite diverso (lett. e).

Il comma 3, a sua volta, disciplina dettagliatamente l’organizzazione interna delle

unioni comunali, modificando l’art. 32 del Testo unico degli enti locali.

La Corte, ribadendo il principio già affermato in tema di comunità montane,

ribadisce che la competenza statale in tema di “funzioni fondamentali” di Comuni,

Province e Città metropolitane è da ritenersi tassativamente limitata a questi enti,

risultando così “inconferente” con riguardo alle forme associative comunali, ivi comprese

le unioni di comuni, oggetto delle disposizioni censurate.

Ciononostante, tali disposizioni non violano il riparto di competenze ex art. 117

Cost., nel momento in cui se ne individua il titolo di legittimazione non nel comma 2, lett.

p), dell’art. 117, ma nel comma 3 del medesimo articolo, il quale ricomprende, fra le

materie di competenza concorrente, il “coordinamento della finanza pubblica”.

La disposizione impugnata, a parere della Corte, tende al contenimento della spesa

pubblica; a questo proposito, “il legislatore statale può, con una disciplina di principio,

legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento

finanziario connesse a obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari,

vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in

limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali”. Trattandosi di materia di

competenza concorrente, quindi, la legge statale può - a buon diritto - sancire il principio

fondamentale della razionalizzazione delle funzioni amministrative locali, mediante lo

31

strumento dell’esercizio associato; tutto ciò, a condizione che agli enti interessati sia

lasciata “ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa”.

2. L’art. 16 del d.l. n. 138/2011 impone ai comuni con popolazione inferiore a 1.000

abitanti l’esercizio in forma associata di tutte le funzioni e servizi loro attribuiti, non

limitandosi alle funzioni fondamentali. Si tratta di una rilevante compressione

dell’autonomia dei comuni coinvolti.

Ciononostante, ciascuno di essi mantiene la propria personalità giuridica, distinta

rispetto agli altri comuni che fanno parte dell’associazione. Non si tratta, dunque, di una

fusione. Per questo motivo, la disposizione impugnata non è incompatibile con l’art. 133,

comma 2, Cost., laddove si affida alla legge della Regione - e non dello Stato - il compito

di modificare le circoscrizioni comunali.

Inoltre, se pure l’art. 16 traccia una disciplina differenziata fra i comuni della

Repubblica - a seconda che la loro popolazione sia inferiore o superiore a 1.000 abitanti -

la Corte ricorda che l’art. 114 Cost. “non pone alcun obbligo per il legislatore statale di

sottoporre tutti i comuni alla medesima disciplina”: anche sotto questo profilo, dunque, non

si pone alcuna questione di legittimità costituzionale.

3. La Corte, a partire dall’art. 117, comma 2, lett. p), ribadisce che lo Stato non può

legiferare in ordine alle forme associative dei comuni, ambito cui l’art. 117 Cost. non fa

alcun riferimento. Secondo l’art. 117, comma 3, questa materia deve ritenersi di esclusiva

competenza delle Regioni.

Di conseguenza, è dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 16, comma 5, del d.l.

138/2011, come sostituito dall’art. 19, comma 2, della spending review; il cui contenuto è

parzialmente riprodotto nell’art. 19, comma 6, della medesima disposizione, che, a sua

volta, viene dichiarato illegittimo dalla Corte. Entrambe le disposizioni sono illegittime

nella parte in cui prevedono che i consigli comunali propongano alla Regione l’istituzione

dell’unione comunale, con deliberazione adottata “a maggioranza dei componenti”.

A giudizio della Corte, dal momento che le esigenze della finanza pubblica

richiedono un riordino delle funzioni comunali, tramite il ricorso alla forma associativa, il

legislatore statale - competente a dettare i principi fondamentali sul coordinamento della

finanza pubblica - può ben disporre in ordine ad alcune “modalità procedimentali

necessarie per il funzionamento delle unioni”. Questa disposizione, seppure specifica,

viene considerata dalla Corte alla stregua di un principio fondamentale, ribadendo che “la

specificità delle prescrizioni, di per sé, non può escludere il carattere di principio di una

norma”.

Al contempo, però, la Corte non ritiene che fra queste “modalità necessarie” vada

ricompreso il quorum deliberativo per l’istituzione delle unioni comunali. Questo aspetto,

infatti, esula dal coordinamento della finanza pubblica, e che va inquadrato nella materia

relativa all’ordinamento delle unioni dei comuni.

Analogo il giudizio della Corte sull’art. 16, comma 10, del d.l. 138/2011, novellato

dall’art. 19, comma 2, della spending review, laddove si prevede che “la maggioranza dei

componenti” il consiglio comunale approvi lo statuto dell’unione dei comuni.

Idem per l’art. 16, comma 7, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, della spending

review; questa disposizione, nello stabilire che il consiglio dell’unione comunale è formato

da due consiglieri comunali per ciascun Comune, richiede che almeno uno dei due

appartenga alle opposizioni.

4. L’art. 16, comma 28, del d.l. 138/2011 assegna ai prefetti il potere di accertare

32

che gli enti locali interessati osservino le disposizioni della legge statale in tema di unioni

comunali. Questa disposizione è coerente con l’art. 120 Cost., laddove, al comma 2,

ammette e disciplina l’esercizio di un potere sostitutivo statale nei confronti degli organi

dei Comuni, a tutela dell’ “unità giuridica e dell’unità economica” della Repubblica.

Peraltro, il “potere sostitutivo” consisterebbe, in questo caso, in un’attività di mero

accertamento.

ND

La Corte costituzionale sui rapporti tra legge regionale, legge penale e

strumenti urbanistici comunali. Annotazione a Corte cost., 13 marzo

2014, n. 46/2014 di Matteo Porricolo e Nicola Dessì

25

Parole chiave: legge penale; edilizia e limiti all’edificabilità.

Riferimenti: artt. 3, 25, 117, commi 1, 3, 6, 118 Cost.; art. 2 l.r. Sardegna, 23 ottobre

2009, n. 4 (Disposizioni straordinarie per il sostegno dell’economia mediante il rilancio del

settore edilizio e per la promozione di interventi e programmi di valenza strategica per lo

sviluppo); art. 3, comma 1, l. cost. 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la

Sardegna); dir. 27 giugno 2001, n. 2001/42/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del

Consiglio concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi

sull’ambiente); art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle

disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A).

Massima 1: La legge regionale può autorizzare i privati a compiere interventi edilizi in

deroga agli strumenti di pianificazione urbanistica, nonostante le funzioni amministrative

in tema di pianificazione urbanistica siano attribuite - in linea generale - ai Comuni. Non è

violata la competenza statale esclusiva in materia di funzioni fondamentali dei Comuni, né

il principio di sussidiarietà orizzontale che attribuisce ai Comuni le funzioni

amministrative non attribuite agli altri enti: infatti, gli interventi edilizi in questione sono

consentiti dalla legge regionale solo in via straordinaria e temporanea, limitatamente a

edifici già esistenti.

Massima 2: La legge regionale, pur non potendo costituire fonte di norme penali, può

concorrere a precisare i presupposti di applicazione di norme penali statali.

Link al documento

1. La sentenza giudica infondata una questione di legittimità costituzionale, promossa

in via incidentale dal Tribunale di Oristano, contro una disposizione della legge regionale

della Sardegna n. 4/2009, in materia edilizia. La disposizione impugnata consente

interventi di adeguamento e di incremento volumetrico, fino alla misura del 20 per cento,

per i fabbricati a uso residenziale e per quelli destinati ad attività produttive; ciò è possibile

25

Nicola Dessì è autore dei paragrafi nn. da 1 a 4; Matteo Porricolo del paragrafo n. 5.

33

anche superando gli indici massimi di edificabilità previsti dagli strumenti urbanistici

vigenti, e derogando alle normative regionali in materia.

La sentenza rammenta peraltro che “la legge in questione costituisce attuazione dell'intesa

sul cosiddetto 'piano casa', raggiunta tra Stato, Regioni ed enti locali in sede di

Conferenza unificata il 31 marzo 2009 e formalmente sancita con deliberazione della

medesima Conferenza del 1° aprile 2009: intesa promossa dal Governo, con la dichiarata

finalità di rilancio dell'economia, tramite la ripresa dell'attività edilizia, quale misura per

far fronte alla situazione di crisi”. Norme analoghe sarebbero contenute anche in altre

leggi regionali.

2. La disposizione impugnata crea un regime derogatorio agli strumenti di

pianificazione urbanistica, a favore del privato che voglia provvedere ad interventi

ampliativi in campo edilizio. La Corte decide che questo regime non si pone in contrasto

con gli artt. 3, 25, 117 e 118 Cost.; né tanto meno con l'art. 3 dello Statuto sardo, che

conferisce alle Regione funzioni in materia di “edilizia e urbanistica”.

È appena il caso di notare, in via preliminare, che la Regione Sardegna può rivendicare

anche il “governo del territorio”, ambito di competenza legislativa concorrente ex art. 117,

comma 3, Cost., in virtù della “clausola di maggior favore” - art. 10 della l. cost. 3/2001 -

disposta a favore delle Regioni a statuto speciale.

Ad avviso del giudice a quo, la norma impugnata si sarebbe posta in contrasto con il

“sistema della pianificazione” - qualificabile come “normativa di principio

dell'ordinamento giuridico della Repubblica” e come espressione “degli interessi nazionali

rappresentati dal sistema di composizione degli interessi del territorio” - che assegna in

modo preminente ai Comuni, quali enti locali più vicini al territorio, la valutazione

generale degli interessi coinvolti nell'attività urbanistica ed edilizia. Ammesso e non

concesso - e la Corte non lo concede - che l'ordinamento giuridico della Repubblica

richieda l'esistenza di un “sistema della pianificazione”, esso non sarebbe intaccato, nel suo

insieme, dalla disposizione censurata. Essa si limita a stabilire una deroga alle normative

regionali e agli strumenti urbanistici vigenti. “Anche riconoscendo che il 'sistema della

pianificazione' - evocato, peraltro, dal rimettente in modo del tutto generico, senza alcun

riferimento alle relative fonti normative - assurga a 'principio dell'ordinamento giuridico

della Repubblica' (…) è dirimente il rilievo che il principio in questione non potrebbe

ritenersi così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale (…) di prevedere

interventi in deroga quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti,

come quelli di cui si discute”.

Nel caso di specie, la possibilità di intervenire al di fuori dei limiti previsti dagli strumenti

urbanistici è limitata dalla legge regionale a un ristretto numero di ipotesi: l'intervento è

consentito “in via straordinaria e temporanea e con modalità specifiche, diverse a seconda

delle tipologie di fabbricati”; deve trattarsi di edifici già esistenti, per giunta con esclusione

degli edifici abusivi; infine, è necessario che gli interventi in questione “si inseriscano in

modo organico e coerente con i caratteri architettonici del fabbricato esistente” e

costituiscano “strumento per la riqualificazione dello stesso in relazione alla tipologia

edilizia interessata”.

3. Partendo dal presupposto che il ruolo dell'ente pubblico nell'edilizia non

risulterebbe svuotato, e che la disposizione impugnata si limiterebbe a prevedere una

deroga agli strumenti di pianificazione in presenza di circostanze eccezionali, ne discende

anche - per la Corte - che non è violato l'art. 118 Cost., che in via generale attribuisce le

funzioni amministrative ai Comuni. Fra queste c'è anche la funzione della pianificazione

34

urbanistica: l'art. 42, comma 2, lett. b) del testo unico degli enti locali attribuisce

espressamente ai consigli comunali la competenza relativa ai piani urbanistici.

Secondo la Corte, “non si può comunque addebitare alla norma denunciata, così come

ritiene il giudice a quo, di aver 'svuotato' le funzioni comunali in tema di pianificazione

urbanistica, posto che essa si limita a consentire ampliamenti volumetrici di edifici

esistenti a una certa data in deroga agli indici massimi di fabbricabilità, collegati a

specifici presupposti e circoscritti in limiti ben determinati”.

Di conseguenza, non è violato neanche l'art. 117, comma 2, lett. p) Cost., che assegna al

legislatore statale la competenza a legiferare sulle “funzioni fondamentali dei Comuni”; né

è violato l'art. 117, comma 6, laddove si riconosce in capo ai Comuni il potere

regolamentare in ordine all'organizzazione e allo svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Queste considerazioni valgono a dichiarare l'infondatezza della questione, “a prescindere

da ogni altro rilievo”, a cominciare dalle disposizioni dello Statuto sardo, che all'art. 3 lett.

b) riconosce alla Regione Sardegna la potestà legislativa primaria in tema di “ordinamento

degli enti locali”.

4. La disposizione impugnata non viola nemmeno l'art. 117, comma 1, Cost., secondo

il quale il legislatore - statale o regionale che sia - deve esercitare la sua potestà nel rispetto

dei vincoli dell'ordinamento comunitario. La direttiva 2001/42/CE richiede che gli

interventi edilizi avvengano in seguito alla c.d. “valutazione ambientale strategica”. La

legge regionale n. 4/2009 non consente che le deroghe alla pianificazione urbanistica

comunale avvenga in assenza di essa: la legge “regola, infatti, soltanto i profili urbanistici

degli interventi di ampliamento, senza recare alcuna clausola di esclusione

dell'applicabilità della normativa sulla VAS”.

5. La Corte, infine, ha ritenuto infondata la censura di violazione degli artt. 25 e 117

Cost.: questo, nonostante il giudice a quo abbia rilevato che la disposizione censurata va a

restringere la sfera applicativa della norma incriminatrice di cui all’art. 44, comma 1,

lettera a), del d.P.R. 380/2001; ciò comporta una depenalizzazione degli interventi edilizi

non conformi alla pianificazione, i quali dovrebbero, invece, essere soggetti a pena.

La Corte ha ricordato che la legislazione regionale – pur non potendo costituire fonte

diretta e autonoma di norme penali, né nel senso di introdurre nuove incriminazioni, né in

quello di rendere lecita un’attività penalmente sanzionata dall’ordinamento nazionale (ex

plurimis, sentenze n. 185 del 2004, n. 504, n. 213 e n. 14 del 1991) – può, tuttavia,

“concorrere a precisare, secundum legem, i presupposti di applicazione di norme penali

statali”, assumendo, in pratica, “funzioni analoghe a quelle che sono in grado di svolgere

fonti secondarie statali”: ciò, avviene, per esempio, quando la legge statale “subordini

effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali” (le

cosiddette norme penali in bianco: sentenze n. 63 del 2012 e n. 487 del 1989).

E’ la stessa Corte a mostrare come ne sia un esempio lampante lo stesso Testo unico delle

leggi in materia edilizia, il quale rinvia ad atti amministrativi per l’individuazione dei

precetti da rispettare al fine di non incorrere nella sanzione penale.

Possiamo concludere che spetta sì al Parlamento - quale organo eletto a suffragio

universale, rappresentante l’intera comunità nazionale - il potere esclusivo di incidere sui

diritti fondamentali degli individui, ma ciò non toglie (né diversamente si potrebbe

pensare) che alcune norme penali circoscrivano la loro applicabilità al contenuto di atti

amministrativi o, come in questo caso, di leggi regionali.

35

Come un’attenta dottrina ha segnalato26

, nonostante per legge sia espressamente esclusa la

giustizia dalle materie di competenza della Conferenza Stato-Regioni, residuano -come la

sentenza qui in analisi ha mostrato- “zone complementari” al diritto penale (per es.

urbanistica, ambiente, sicurezza sul lavoro), spesso di competenza legislativa concorrente,

in cui è possibile, nonché utile, che lo Stato e le Regioni potenzino i loro sistemi di intesa

al fine di prevenire il conflitto tra gli Enti costitutivi della Repubblica.

La legge statale può conferire alle province le funzioni relative al

trasporto e allo smaltimento dei rifiuti. Annotazione a Corte cost., 16

aprile 2014, n. 100 di Nicola Dessì

Parole chiave: gestione integrata dei rifiuti; accertamento e riscossione della TIA e della

TARSU

Riferimenti normativi: Artt. 11; 114, comma 2; 117, comma 1, 2 lett. s), 3; 118, comma 1

e 2, Cost.; principio di leale collaborazione; art. 11, commi 1, 2 e 3, decreto-legge 30

dicembre 2009, n. 195, conv. con modif., dall’art. 1, comma 1 della l. 26 febbraio 2010, n.

26 (Disposizioni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti

nella regione Campania, per l’avvio della fase post emergenziale nel territorio della

Regione Abruzzo e altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei

Ministri ed alla protezione civile).

Massima 1: In via transitoria e al verificarsi di una situazione di emergenza, la legge dello

Stato può attribuire alle province le funzioni relative alle attività di raccolta, trasporto e

smaltimento dei rifiuti, nonché all’accertamento e alla riscossione della TIA e della

TARSU.

Massima 2: In via transitoria e al verificarsi di una situazione di emergenza, la legge dello

Stato può attribuire ai presidenti delle province le funzioni spettanti agli organi provinciali

in tema di programmazione della gestione integrata dei rifiuti, intervenendo così nei

rapporti e nell’organizzazione interna all’ente.

Link al documento

1. La sentenza rigetta alcune questioni di legittimità costituzionale, promosse in via

incidentale dal TAR della Campania, sezione di Salerno, contro alcune disposizioni del d.l.

195/2009..

Le disposizioni impugnate attribuiscono ai presidenti delle province campane le

funzioni spettanti agli organi provinciali in fatto di programmazione della gestione

integrata dei rifiuti (art. 11, comma 1). Dispongono, inoltre, che le società in house facenti

capo alle amministrazioni provinciali si occupino delle “attività di raccolta, di trasporto, di

trattamento, di smaltimento ovvero di recupero dei rifiuti” (art. 11, comma 2), nonché

26

C. RUGA RIVA, Diritto penale e leggi regionali in un’importante sentenza della Corte costituzionale, in

www.penalecontemporaneo.it

36

dell’accertamento e della riscossione con riferimento alla tassa per lo smaltimento dei

rifiuti solidi urbani e alla tariffa integrata ambientale (art. 11, comma 3).

La disciplina in questione è fondato sulla potestà legislativa esclusiva in materia

ambientale di cui all’art. 117 comma 2, lett. s) Cost. La Corte ribadisce la natura

“trasversale” di questa materia che non esclude ulteriori interventi legislativi regionali..

Nel caso di specie, la l.r. della Campania n. 4/2007, all’art. 8, nell’elencare le

funzioni attribuite alle province in tema di rifiuti, non comprende né la gestione integrata

dei rifiuti, spettante ex art. 20 alle Autorità d’ambito, né l’attività di raccolta, trasporto e

smaltimento dei rifiuti urbani, attività che, secondo l’art. 9, competono ai comuni.

Nondimeno, a giudizio della Corte, il conferimento di queste funzioni alle province,

da parte del legislatore statale, seppure in contrasto con la normativa regionale, non è

illegittimo: anzi, viene qualificato come “principio fondamentale” della disciplina

nazionale in tema di ambiente e, dunque, come disposizione inderogabile da parte delle

Regioni. La scelta del legislatore è giustificata, in quanto introduce “una disciplina

pienamente adeguata alla finalità di fissare livelli di tutela uniformi su tutto il territorio

nazionale e di fronteggiare una situazione di emergenza - quella dei rifiuti - che, pur

localizzata in una specifica Regione, ha indubbiamente rilevanza nazionale”. Peraltro, la

stessa l.r. della Campania n. 4/2007 prevede che le province esercitino un potere

sostitutivo, nel caso di inerzia dei Comuni nello svolgere le rispettive funzioni.

Inoltre, sempre a giudizio della Corte, il carattere emergenziale del contesto di

riferimento ha consentito allo Stato di legiferare in assenza di una preventiva intesa con la

Regione, senza con ciò contravvenire al principio di leale collaborazione.

Una volta riconosciuto che il conferimento alle province delle funzioni in esame non

è illegittimo, diventa legittimo attribuire alle stesse province anche le funzioni di

accertamento e riscossione di TARSU e TIA: risulta inutile attribuire tali funzioni ai

comuni, dal momento che essi sono stati privati di ogni altra funzione in tema di

smaltimento di rifiuti. Di conseguenza, neanche l’art. 11, comma 3, del d.l. 159/2009 è da

considerarsi illegittimo.

2. Le disposizioni impugnate non violano nemmeno l’art. 114 e l’art. 118 Cost.: è

vero che la legge statale, attribuendo ai Presidenti le funzioni spettanti agli organi

provinciali, incide nell’autonomia provinciale, disponendo in ordine ai rapporti interni

all’ente; nondimeno, la disposizione non è da considerarsi illegittima, se si tiene conto

della situazione di emergenza che il legislatore statale si è trovato ad affrontare. “Il

carattere eccezionale e transitorio della disciplina introdotta giustifica razionalmente

l’avocazione delle funzioni amministrative dai comuni alle province e rende la stessa

rispettosa dei principi di sussidiarietà, differenziazione e autonomia di cui all’art. 118

Cost.”.

ND

37

La regolazione comunale delle sale da gioco a Genova.

Nota a T.A.R. Liguria, Sez. II, sent. 05.02.2014, n. 194 di Davide Formaggio

Parole chiave: regolamento comunale, consiglio comunale, sindaco, legge regionale,

autorizzazione, tutela della salute, politiche sociali, ludopatia, luoghi sensibili, T.U.L.P.S.,

T.U.E.L., innovatività, macchine da gioco

Riferimenti normativi: art. 3 d.l. 13/08/2011, n. 138, conv. con modif. con legge

14/09/2011, n. 148; l.r. Liguria 30/04/2012, n. 17; art. 5 d.l. 13/09/2012, conv. con modif.

con legge 08/11/2012, n. 189; art. 50, comma 7, D. Lgs 18/07/2000, n. 267; art. 8, comma

1, art. 20 comma 2, artt. 7 e 19 del Regolamento Comunale di Genova 30/04/2013, n. 21;

artt. 86 e 88 T.U.L.P.S., artt. 3 e 117, comma 3 Cost.

Disposizioni annullate: art. 8, comma 2, secondo periodo; art. 18, comma 1, secondo

periodo; art. 20, comma 2, Regolamento Comune di Genova n. 21/2013

Sommario: 1. Premessa. 2. Orari di apertura e chiusura. 3. Durata delle autorizzazioni. 4.

Distanze da luoghi sensibili. 5. La L. R. Liguria n.17/2012 non è costituzionalmente

illegittima.

1. Premessa.

Con la sentenza in oggetto la II Sezione del T.A.R. Liguria ha in parte accolto, in parte

rigettato una serie di ricorsi proposti da soggetti a diverso titolo esercenti imprese nel

settore del gioco a premi in denaro contro il regolamento del Comune di Genova

n.21/2013.

Le numerose questioni affrontate dai giudici amministrativi hanno riguardato la materia

del riparto di competenze tra organi comunali nell’esercizio delle funzioni deliberative con

particolare riferimento alla creazione ed attuazione di strumenti utilizzabili nel contrasto

alla c.d. ludopatia, “intesa come patologia che caratterizza i soggetti affetti da sindrome

da gioco con vincita in denaro, così come definita dall'Organizzazione mondiale della

sanità (G.A.P.)”, secondo la definizione offerta dall’art.5 del D.L. n.158 del 13.09.2012,

convertito con Legge 08.11.2012 n. 189.

Si tratta della tendenza per i cittadini, di varia estrazione sociale, ad assumere

comportamenti compulsivi nei confronti del gioco a premi in denaro, anche se lecito.

In data 30.04.2013 il Consiglio comunale di Genova ha approvato il regolamento n.

21/2013 recante “Disciplina delle sale da gioco e giochi leciti”. Secondo l’art.18,

comma1, l’orario di attività delle sale pubbliche da gioco è fissato dal Sindaco con

apposita ordinanza, ma il secondo periodo -oggetto di impugnazione - stabilisce che “per

le sale da gioco ove sono messi a disposizione del pubblico giochi o scommesse che

consentono vincite in denaro” tale attività è consentita esclusivamente tra le ore 9.00 e le

19.30. E’ fatto inoltre esplicito divieto, all’art.20, comma 2, di lasciare a disposizione del

pubblico apparecchi da gioco al di fuori di tale orario.

Sul punto sono state invocate due normative, sulla cui base i ricorrenti hanno chiesto

l’annullamento delle disposizioni del regolamento comunale innanzi citate. In primis

38

occorre richiamare l'art.3 del d.l. 13.06.2011 n.138 (convertito con modificazioni con legge

n.148/2011), che ha obbligato Comuni, Province, Regioni e Stato, ad adeguare entro il 30

settembre 2012 i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e

l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente

vietato dalla legge. Tale disposizione costituisce “principio fondamentale per lo sviluppo

economico e attua la piena tutela della concorrenza tra le imprese”.

In particolare il comma 8 di detto articolo stabilisce che le restrizioni in materia di

accesso ed esercizio delle attività economiche previste dall'ordinamento vigente – e più

esattamente il divieto di esercizio di una attività economica al di fuori di una certa area

geografica e l'abilitazione ad esercitarla solo all'interno di una determinata area (lett.c)

nonché l'imposizione di distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate

all'esercizio di una attività economica (lett. d) - sono da considerarsi abrogate .

In tema di sale da gioco e scommesse a premi in denaro, la Regione Liguria, con legge

regionale 30.04.2012 n.17 recante la “Disciplina delle sale da gioco”, ha stabilito,

nell’ambito delle competenze spettanti alla Regione in materia di tutela della salute e di

politiche sociali, una serie di norme “finalizzate a prevenire il vizio del gioco, anche se

lecito” e “a tutelare determinate categorie di persone, oltreché a contenere l’impatto delle

attività connesse all’esercizio di sale da gioco sulla sicurezza urbana, sulla viabilità,

sull’inquinamento acustico e sulla quiete pubblica”.

E' in questo contesto normativo che, con la pronuncia in esame, il T.A.R. adito ha

riconosciuto alcuni principi a riguardo delle prescrizioni sugli orari di apertura e di

chiusura, della durata delle autorizzazioni, nonché della distanza dai luoghi sensibili delle

cd. sale slot.

2. Orari di apertura e chiusura.

Il T.A.R. Liguria ha annullato la disposizione consiliare di cui all’art.18, comma 1,

secondo periodo e art.20, comma 2, secondo periodo per violazione e la falsa applicazione

dell’art.3 del d.l.138/2011 (come risultante dalla legge di conversione) e dell’art.2 della l.r.

n.17/2012.

In particolare, nel dichiarare l'annullamento di tali norme regolamentari, i giudici hanno

chiarito che “non si rinviene alcuna copertura normativa nelle disposizioni” della Legge

Regione Liguria n.17/2012 tale da giustificare la previsione di rigidi orari di apertura e

chiusura serale delle attività delle sale da gioco ad un orario compreso tra le 9.00 e le

19.30.

L’art.2 della suddetta legge ligure stabilisce una serie di prescrizioni sulle distanze delle

sale da gioco da una serie di edifici sensibili indicati al comma 1 quali, ex multiis, istituti

scolastici, luoghi di culto, impianti sportivi o centri giovanili o altri istituti frequentati

principalmente da giovani, nonché le strutture assistenziali e/o socio-sanitarie, ma non

pone alcuna espressa limitazione relativamente agli orari di apertura.

A questo si aggiunge, secondo i giudici, che le sale giochi non configurano esercizi

commerciali né servizi pubblici, e rientrano invece nella più generale nozione di "pubblico

esercizio" contenuta nell'art.50, comma 7, D. Lgs. n.267/2000, c.d. T.U.E.L.. Secondo tale

ultima disposizione, spetta al Sindaco il compito di coordinare e riorganizzare, sulla base

di indirizzi espressi dal Consiglio comunale e nel rispetto di criteri eventualmente indicati

dalla Regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici e dei pubblici

esercizi.

La competenza di regolare gli orari di tali attività spetta pertanto al Sindaco e non al

Consiglio, al quale sono attribuiti i meri poteri di indirizzo. Ne consegue che nel caso in

esame il Consiglio Comunale si è illegittimamente espresso con una “previsione di una

39

tale rigidità da rendere il successivo intervento” del Sindaco - richiesto comunque

dall’art.18 del regolamento - una mera riproduzione dei vincoli già stabiliti dal Consiglio

stesso.

La Seconda Sezione del T..A.R. Liguria ha cura di precisare ulteriormente che la ratio

del potere di regolazione degli orari attribuito dal citato art.50, comma 7 del T.U.E.L.,

consiste nell' “armonizzare l'espletamento di servizi con le esigenze complessive e

generali degli utenti”: nel perseguimento di tale compito "sono estranee le finalità di

lotta alla ludopatia perseguite nel caso di specie", ragione per cui può dirsi che si ravvisa

in questo caso un esempio di sviamento di potere.

Con analoghe motivazioni è stato annullato anche il citato art.20, comma2, del predetto

regolamento.

3. Durata delle autorizzazioni.

Particolare menzione merita anche la motivazione che ha portato all’annullamento

dell’art.8, comma2, secondo periodo del regolamento de quo.

L’art.10 di quest’ultimo, facendo espresso riferimento all’art.1, comma 2, ult. cpv. della

L.r. n.17/2012, ha stabilito in cinque anni la durata massima dell'autorizzazione

all'esercizio delle macchine per il gioco.

Le ricorrenti hanno denunciato la violazione degli artt.86 e 88 del T.U.L.P.S., per cui non

si prevede un limite massimo di durata per tali autorizzazioni.

Invece l’art.2 della l.r. Liguria n.17/2012 stabilisce che l’autorizzazione viene concessa per

cinque anni e ne può essere richiesto il rinnovo dopo la scadenza.

Secondo il Collegio giudicante il contrasto denunciato tra la normativa regionale e il Testo

Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza non sussiste in quanto quest’ultimo si occupa del

controllo di polizia sul gioco a premi, mentre "la normativa regionale interviene per i

profili della medesima attività che riguardano la salute pubblica". Per tale aspetto il

regolamento comunale, conformemente alla normativa regionale, intenderebbe

contrastare “la facile caduta nel bisogno economico dei soggetti proclivi al gioco con

piccole somme”.

Sennonché sul punto la Corte rileva altresì che la disposizione comunale, in applicazione

della legge regionale, ha comunque portata innovativa, con ciò comportando che essa

vincola solo quei soggetti che non avevano già ottenuto l'autorizzazione (di polizia)

precedentemente all’entrata in vigore del regolamento comunale.

Pertanto è stato annullato l'art.8, comma 2, secondo periodo, che stabiliva

nell'autorizzazione comunale il presupposto di esercizio dell'attività anche per quei

soggetti già in possesso di regolare autorizzazione precedente (rilasciata ai sensi del

T.U.L.P.S.), palesandosi quindi “una manifesta violazione del principio di irretroattività”.

4. Distanze da luoghi sensibili.

L’art. 7 del regolamento ha vietato la collocazione di postazioni da gioco a meno di cento

metri da sportelli bancari, bancomat o agenzie di prestiti su pegno, e a meno di trecento

metri dai luoghi già indicati dalla legge regionale all’art.2, comma 1. L’art.19 ha inoltre

vietato la collocazione delle c.d. new slot in edifici pubblici, scuole, ospedali, pertinenze di

luoghi di culto, circoli privati, sedi di associazioni, e in altri luoghi sensibili.

Secondo la tesi delle ricorrenti il regolamento comunale avrebbe illegittimamente ampliato

il novero dei luoghi sensibili al di là di quanto ammesso dal citato art.2 della l.r. Liguria

n.17/2012, secondo cui l’elenco dei luoghi sensibili in cui non può esser concessa

l’autorizzazione può essere ampliato dal Comune “tenuto conto dell’impatto di essa sul

contesto urbano”.

40

Il T.A.R. Liguria specifica che la nozione di “contesto urbano” è necessariamente

generica e necessita di essere interpretata da parte dei soggetti a cui è attribuita la relativa

potestà: i giudici amministrativi affermano nel caso di specie la legittimità del potere -

riconosciuto dal regolamento comunale - di porre ulteriori limitazioni spaziali, in quanto

detto potere regolamentare trova la propria fonte nella Legge ligure n.17/2012,

dichiaratamente introdotta “nell’ambito delle competenze spettanti alla Regione in materia

di tutela della salute e di politiche sociali” (art.1).

Le (ulteriori) limitazioni spaziali sono perciò legittime purché siano finalizzate alla

salvaguardia della salute pubblica e alla realizzazione di politiche sociali.

Sul punto il Collegio ha ritenuto che l’istruttoria comunale sia stata svolta in modo

approfondito, con ciò offrendo alcuni spunti di conoscenza della ludopatia. Si legge infatti

nelle motivazioni della sentenza che si è assistito in questi anni ad una modificazione

della prospettiva tradizionale, che vedeva solitamente preda del gioco persone molto

facoltose sino a perdere la propria posizione di privilegio. Ora si può invece parlare di

“crescente dipendenza dal gioco, che viene esercitato in apparenza per piccole somme”

ma che raggiunge, per la capillarità delle strutture apprestate, anche “le categorie sociali

meno attrezzate culturalmente ed economicamente a resistere alla tentazione di provare ad

arricchirsi”, causando loro danni di tipo psicologico (comportamenti compulsivi) nonché

la facile caduta nel bisogno economico. Ciò spiega, secondo la sentenza in esame,

l’opportunità di apposite politiche sociali volte a prevenire e limitarne i danni.

Apparirebbe quindi di “immediata evidenza” il divieto di introdurre apparecchiature da

gioco in prossimità di strutture capaci di erogare denaro in quanto è “cosa che può

alimentare l’inclinazione al gioco compulsivo”, al fine di tutelare luoghi “meritevoli di

dignità, sicurezza e tranquillità che il Comune ha ritenuto non siano assicurate in caso di

vicinanza dei giochi a premi in denaro”.

Pertanto, secondo il T.A.R. Liguria, gli articoli 7 e 19 del regolamento sono legittimi,

almeno con riferimento ai soggetti che hanno richiesto o chiederanno l’autorizzazione

dopo l’entrata in vigore del regolamento.

5. La l.r. Liguria n.17/2012 non è costituzionalmente illegittima

Infine occorre segnalare che le ricorrenti avevano denunciato l’ illegittimità costituzionale

della Legge R. Liguria n.17/2012 per violazione dell’art.3 e dell’art.117, comma 3, Cost.,

nella parte in cui la Regione abbia inteso legiferare in un settore dell’ordinamento - la

tutela della salute - di competenza concorrente e quindi coperto dalla riserva di legge

quadro regionale.

Sennonché il Tribunale, nel ritenere manifestamente infondata la doglianza, ricorda sul

punto che il legislatore nazionale ha introdotto nell’ordinamento norme di contrasto alla

ludopatia inerenti alla materia “tutela della salute” (in particolare si segnala l’art.5 del d.l.

n.158 del 13.09.2012, convertito con legge 08.11.2012 n. 189) ma non ha assorbito in

alcun modo la potestà regionale di inserirsi in tale settore: poiché la l.r. Liguria n.17/2012,

come si è detto, è stata espressamente emanata con finalità di tutela della salute (art.1),

“l’ente ligure pare essersi mantenuto all’interno delle proprie attribuzioni”.

41

PARTE III

CITTADINI ED ENTI

L’istituzione del Comune di Mappano è conforme a Costituzione. Nota a

Corte cost., 11.06.2014, n. 171 di Marco Comaschi

Con sentenza 12 giugno 2014 n. 171 il Giudice delle Leggi ha dichiarato infondate le

questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR Piemonte in merito alla l.r.

Piemonte 25/01/2013, n. 1, avente per oggetto l'istituzione del Comune di Mappano27

.

Si è così positivamente concluso il lungo iter promosso dai comitati locali per

l'istituzione del nuovo Comune che, avviato una prima volta nel lontano 1985, era stato poi

abbandonato per essere riproposto nel 2009 quando, grazie all'approvazione della legge

regionale 26 marzo 2009, n. 10, era stato ristabilito in 5000 abitanti il limite minimo per

l'istituzione di nuovi Comuni.

Su iniziativa del Comitato locale per la creazione del Comune di Mappano è stato

quindi indetto il referendum consultivo che, dopo particolari traversie giuridiche, ha visto

finalmente esprimersi in data 11 novembre 2012 i cittadini interessati dalla procedura

istitutiva con ben il 94% di voti favorevoli all’istituzione28

.

27

Il testo della legge è consultabile online al seguente indirizzo:

http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2013/05/attach/l201301.pdf 28

Indicare fonte di cognizione del risultato (BUR). Per la precisione il primo referendum era stato

indetto dal Consiglio regionale del Piemonte il 29.7.2009. Il quesito, inizialmente indetto per il 15 novembre

2009, avrebbe interessato tutti i cittadini residenti nei quattro comuni su cui incide il territorio della Frazione

ma, il 6 novembre - ad appena nove giorni dalla data stabilita per la consultazione -, la I sezione del TAR di

Torino ha accolto il ricorso sospensivo promosso dai comuni di Leini, Settimo e Borgaro, sulla base di un

vizio procedurale. Tale operato è stato poi sconfessato dal Consiglio di Stato che, riformando la decisione

Parole chiave: enti locali, istituzione nuovi comuni, autonomia locale, referendum

consultivo, copertura finanziaria leggi regionali, contenimento della spesa pubblica.

Riferimenti normativi: artt. 3, 5, 81, 97, 114, 117, 119 e 133 Cost.; artt. 15 e 148-bis

TUEL; art. 3, comma17 d. l. 27.10.1995, n. 444; l.r. Piemonte 25/1/2013, n.1 e

2/12/1992, n. 51.

Massima: “La legge regionale del Piemonte n. 1 del 2013, portante l'istituzione del

Comune di Mappano, è costituzionalmente legittima in quanto, da un lato, non devono

essere previsti incentivi economici da parte della Regione per gli enti interessati dallo

scorporo e, dall'altro, i criteri generali individuati dalla legge per definire i rapporti tra

i Comuni interessati sono aderenti alla disciplina vigente in materia ed al principio di

contenimento della spesa pubblica”.

Link al documento

42

Nonostante la comunità locale si fosse espressa dopo anni di dibattito pubblico

quindi con un vero plebiscito in favore dell'istituendo ente, il Comune di Settimo Torinese

aveva proposto innanzi al TAR Piemonte ricorso avverso il decreto di nomina del

Commissario del neo istituito Comune, sottoponendo al giudice adito alcune questioni di

incostituzionalità della l.r. 1/201329

.

Dal canto suo, il TAR Piemonte ha ritenuto i prospettati dubbi di legittimità

costituzionale della legge rilevanti e non manifestamente infondati, con riferimento alla

violazione degli artt. 81, 97 e 119 Cost., poiché la legge non prevedrebbe, per realizzare la

complessa operazione di istituzione dell'ente locale, alcun tipo di copertura finanziaria30.

Il problema della copertura della spesa risulta in effetti essere il profilo comune a

tutte e tre le questioni di legittimità sollevate dal G.A. e poi perorate, innanzi alla Corte

costituzionale, dal Comune di Settimo Torinese.

1. In merito alla copertura finanziaria della procedura il giudice delle leggi, dopo

aver richiamato la disciplina vigente in materia di creazione di nuovi comuni, nonché la

sua precedente pronuncia n. 32/2009 sul Comune Cavallino-Treporti31

, afferma che “dalle

pur eterogenee disposizioni che si sono succedute nel tempo in materia emerge, in modo

chiaro ed incontrovertibile, che le mutazioni delle circoscrizioni degli enti locali – fatte

salve le fusioni, per le quali vige un regime di favor – devono avvenire senza aggravi per

adottata in primo grado, il 18 dicembre 2009 ha rigettato l'istanza cautelare. Facendo seguito alla sentenza del

Consiglio di Stato il Consiglio Regionale del Piemonte aveva stabilito di individuare una nuova data per la

consultazione per domenica 18 aprile 2010. Il TAR del Piemonte ha nuovamente sospeso la consultazione a

pochi giorni dal voto sulla base di un dubbio di incostituzionalità della Legge Regionale 10/2009

promettendo di richiedere la decisione nel merito alla Corte costituzionale. Il 7 ottobre 2011 La Corte

costituzionale ha dichiarato inammissibile la tesi del TAR restituendo legittimità al referendum due volte

sospeso. Il 1 dicembre 2011 il Consiglio Regionale del Piemonte ha ripreso l'iter per arrivare all'istituzione

del Comune con la proposta di legge regionale n. 187, culminata con la delibera di indizione del Referendum

il 17 luglio 2012 e nel successivo decreto del Presidente della Giunta Regionale. 29

Il Comune di Settimo Torinese aveva infatti già impugnato in via principale gli atti inerenti la procedura di

indizione del referendum, giudizio nel quale andavano quindi ad innestarsi i profili di illegittimità

ulteriormente dedotti per la successiva nomina del commissario. La costituzione del Comune di Mappano

presenta la particolarità di aver interessato il territorio di ben 4 differenti comuni ( Caselle Torinese, Borgaro

Torinese, Settimo Torinese e Leini). A tal proposito occorre rilevare come a seguito della chiara volontà

popolare di istituire il nuovo comune sia stato solo il Comune di Settimo Torinese a perseverare nei giudizi

instaurati innanzi al TAR. 30

Va peraltro segnalato come già la decisione assunta dal TAR durante il procedimento referendario di

rimettere alla Corte la questione di costituzionalità circa la competenza regionale di incidere sul limite

demografico per l'istituzione dei nuovi comuni fosse alquanto discutibile. Sulla questione si veda il puntuale

commento di D. SERVETTI, Corte cost., n. 261/2011: Quando un giudice a quo complica un riparto di

potestà legislativa già sufficientemente complesso: brevi note in tema di limiti demografici per l’istituzione di

nuovi comuni, on line su www.dirittiregionali.org 31

Con la sentenza 6.2.2009, n. 32 erano state rigettate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal

TAR Veneto a riguardo della procedura istitutiva del Comune di Cavallino-Treporti mediante scorporo dello

stesso dal Comune di Venezia. In particolare è stata rigettata la pretesa incostituzionalità per assoluta

indeterminatezza – e, quindi, di violazione del principio di legalità sostanziale – della disciplina dei rapporti

patrimoniali tra i due enti: la Consulta ha infatti statuito che la discrezionalità della Provincia di Venezia

doveva in realtà essere esercitata nell'ambito dei precisi limiti tracciati dalla legislazione nazionale e

regionale che, pur implicitamente, ha affermato quale principio fondamentale il riparto dei beni mobili ed

immobili tra i comuni in proporzione alla consistenza demografica e territoriale degli enti coinvolti, nonché

in base alla loro collocazione fisica, lasciando invece alla discrezionalità la definizione dei profili peculiari

che ciascun caso sicuramente presenta.

43

la finanza pubblica, attraverso un razionale ed equilibrato riparto delle risorse e delle spese

tra gli enti scorporati e quelli di nuova istituzione...”.

Sulla scorta di tale interpretazione non solo viene quindi rigettata la dedotta

questione di incostituzionalità della legge regionale per mancanza di misure incentivanti e

compensative a favore degli enti coinvolti ma, anzi, il giudice afferma che la Regione non

avrebbe potuto in alcun modo assicurare alcuna forma di compensazione o copertura

finanziaria all'operazione di rideterminazione delle circoscrizioni comunali interessate.

D'altra parte, la Consulta ricorda come sia lo stesso principio della libera scelta delle

popolazioni locali di costituire un nuovo Comune ad imporre di dare attuazione alla

volontà autonomistica senza gravare sulla fiscalità generale, come avverrebbe nel caso in

cui lo Stato o la Regione fossero chiamati a finanziare dette operazioni.

2. Altrettanto infondata è la questione relativa all'assenza nella legge regionale di

precisi criteri di riparto di risorse tra gli enti. Anche in quest'occasione, come già avvenuto

per il precedente caso del Comune di Cavallino-Treporti, la sentenza ricorda che

competerà poi alla Provincia di Torino definire criteri di riparto specifici e puntuali, alla

luce dei principi generali di attribuzione delineati dalla legislazione nazionale e regionale,

attività amministrativa che potrà essere a sua volta assoggettata al controllo giurisdizionale

ed a quello contabile.

3. Infine viene rigettata anche la questione di incostituzionalità della legge regionale

in quanto priva di copertura finanziaria e, come tale, potenzialmente contraria alle

osservazioni formulate dalla Sezione Autonomie della Corte dei Conti con la propria

delibera n. 10/2013.

A tal riguardo la Corte precisa come l'ordinanza di remissione confonda due diversi

poteri spettanti al giudice contabile, dato che le osservazioni richiamate riguardano il

procedimento di controllo della copertura delle leggi regionali e non quello che, invece,

potrebbe venire in rilievo nel caso trattato, ossia quello di legittimità-regolarità sui bilanci

degli enti locali di cui all'art. 148-bis del TUEL. Pertanto, siccome la legge regionale non

ha previsto (e non lo avrebbe potuto comunque fare) alcuna misura economica in favore

dell'operazione di istituzione del nuovo comune, non si può conseguentemente porre alcun

problema di copertura finanziaria della legge.

In conclusione, con la pronuncia testé riassunta la Corte costituzionale ha, in

sostanza, ribadito che, seppure nella normativa vigente in materia si profili un favor verso i

processi di fusione dei Comuni e di correlato disfavore per l'istituzione di nuovi comuni.

Ciò non toglie che quest'ultima operazione sia comunque possibile. Pertanto non si può

pensare di poter neutralizzare tali operazioni in nome di una lettura esasperata degli

obblighi di contenimento della spesa a cui devono sottostare anche gli enti locali dato che,

come si può facilmente intuire, l'istituzione di un nuovo Comune porta con sé

fisiologicamente alcuni nuovi costi quali, ad esempio, quelli discendenti dalla creazione

degli organi elettivi del nuovo ente.

Quello che invece si deve pretendere nei processi di istituzione di un nuovo comune

mediante scorporo è una sostenibilità economico-finanziaria generale della scelta delle

popolazioni locali le quali, peraltro, saranno le uniche a doversi farsi carico degli eventuali

oneri discendenti dall'operazione, sulla base di una definizione dei rapporti patrimoniali tra

gli enti equilibrata alla consistenza del patrimonio mobiliare ed immobiliare, nonché in

proporzione alla consistenza demografica e territoriale dei nuovi comuni.

44

Il diritto al nome dell’ente locale: riflessioni a margine del referendum

per “Courmayeur-Mont Blanc” di Giovanni Boggero e Matteo Porricolo

32

Parole chiave: diritto al nome; Ente locale; referendum; stemmi; marchi commerciali.

Riferimenti normativi: art 133 Cost.; artt. 3, 6, 15, 18, 141 D. lgs. 18 agosto 2000, n. 267

(Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali); art. 7 Codice civile; D.P.C.M.

28 gennaio 2011 (Competenza della Presidenza del Consiglio in materia di […] araldica

pubblica); D. lgs. 10/02/2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale); art. 28, comma 2,

(Legge fondamentale per la Repubblica Federale di Germania).

Link al quesito referendario

SOMMARIO. 1. Il referendum di Courmayeur. 2. La storia del diritto al nome degli enti

locali. 3. Profili costituzionali del diritto al nome. 4. Il diritto al nome nel diritto

costituzionale tedescomma 5. Il diritto al nome della frazione. 6. Stemmi e gonfaloni. 7.

Diritto al nome e marchi commerciali. 8. Giurisprudenza di merito. 9. Conclusioni.

1. È fallito, per mancato raggiungimento del quorum, il referendum con cui il 1

giugno 2014 la popolazione del Comune di Courmayeur (AO) è stata chiamata a

pronunciarsi in ordine alla modifica del nome dell'ente in “Courmayeur-Mont Blanc”. I

promotori non avevano taciuto l’evidente finalità di marketing del progetto, volendo

imitare quello che già i francesi fecero nel 1921 con “Chamonix-Mont-Blanc”. I valdostani,

seppure a distanza di anni, avevano deciso di non lasciare ai loro cugini savoiardi il

privilegio di fregiarsi del nome (e, in un certo qual senso, dominio) del Re delle Alpi. Al di

là del tributo alla montagna più alta d’Europa, quindi, il referendum mascherava la più

materiale lotta per strapparsi i turisti tra località alpine.

La scelta del comitato promotore è ricaduta sul francese “Mont Blanc”, che, – a

detta dei proponenti – avrebbe avuto molto più appeal internazionale rispetto al suo

corrispettivo italiano “Monte Bianco”33

. Nemmeno il 40% degli aventi diritto al voto si è

tuttavia presentato alle urne ed è così mancato il quorum per poter dichiarare valida la

consultazione.

L’art. 42 dello Statuto speciale per la Valle d’Aosta (Legge cost. 26 febbraio 1948, n.

4) fa eco all’art. 133 della Costituzione della Repubblica (v. infra § 3), stabilendo che «La

Regione, sentite le popolazioni interessate, può con legge istituire nei propri territori nuovi

comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni.»

32

Giovanni Boggero è autore dei paragrafi 4 e 6; Matteo Porricolo dei restanti. 33

Tale è stato il testo del quesito sottoposto agli elettori residenti nel Comune: «Volete che la denominazione

del Comune di Courmayeur, come stabilita dall’articolo 1, primo comma, della legge regionale 9 dicembre

1976, numero 61 (Dénomination officielle des Communes de la Vallée d’Aoste et protection de la toponymie

locale) sia modificata in Courmayeur-Mont-Blanc?».

http://www.comune.courmayeur.ao.it/repository/140601_ReferendumFAQ.html#1

45

A regolare l’istituto del referendum nella Regione Valle d’Aosta è la l. r. 25 giugno

2003, n. 19. In base all’art. 42 (attuativo dell’art. 42 dello Statuto), il referendum è

deliberato dal Consiglio della Valle, su iniziativa della Giunta o del Consiglio stesso; nel

caso di modificazione della denominazione del Comune, al referendum partecipano tutti gli

elettori del Comune interessato (lettera d). La denominazione ufficiale dei comuni della

Valle d'Aosta e le norme per la tutela della toponomastica locale sono disciplinate dalla

Legge regionale 9 dicembre 1976, n. 61. Ai sensi dell’art. 1 bis «Le denominazioni

ufficiali di villaggi, frazioni e altre località sono stabilite dal Presidente della Regione con

proprio decreto, previa acquisizione del parere della Commissione per la toponomastica

locale […], del parere del Consiglio comunale del Comune interessato e del parere

favorevole della Giunta regionale.» Tale Commissione, definita «organo di consulenza e

assistenza tecnico-scientifica», è nominata dalla Giunta ed è composta da almeno tre e non

più di sei membri scelti tra i dirigenti delle strutture regionali competenti in materia di

etnologia e linguistica, di toponomastica, di documentazione antica, di storia e cultura

dell’ambiente valdostano e di enti locali o tra esperti esterni nelle stesse materie. Essa ha

prevalentemente una funzione consultiva. «La grafia ufficiale dei toponimi deve ispirarsi,

nelle sue linee generali, alla tradizione ortografica affermatasi in Valle d’Aosta nel corso

dei secoli e desumibile dalle fonti di archivio, nonché alla tradizione orale» (art. 1 octies).

Sono altresì riconosciuti margini di autonomia ai comuni con popolazione a maggioranza

Walser (art. 1 nonies, comma 2).

2. I nomi dei comuni italiani si fondano nella consuetudine e hanno ragioni

principalmente storico-geografiche. I comuni, infatti, sono le uniche formazioni pubbliche

(culturalmente) “naturali” e non (giuridicamente) artificiali, ossia con una tradizione

antecedente alla formazione dello Stato unitario.34

Per i comuni di nuova istituzione,

invece, la disciplina del nome è regolata dalla legge. Di regola la denominazione è la stessa

del centro-località o dell’agglomerato principale, ma non mancano in Italia casi di comuni

sparsi, in cui il nome non corrisponde a nessuno degli aggregati abitativi di cui è composto.

Un esempio, in Piemonte, è Pragelato, costituito di una ventina di frazioni (e in una di

queste, Ruà, ha sede la casa comunale).

Nella storia d’Italia, dal 1861 fino ad oggi, non è nuovo il caso di comuni che hanno

modificato la propria denominazione. Con l’Unità e l’accorpamento di nuovi territori al

Regno di Sardegna si verificarono molti casi di omonimia tra enti, che vennero risolti

molto spesso con l’aggiunta nel nome della specificazione che richiamava la città più

vicina, il fiume, la valle o comunque la zona storico-geografica (es: Villanova d’Asti, Novi

Ligure). Il regime fascista, poi, nella sua opera di “italianizzazione” del Paese, impose la

mutazione dei toponimi dei comuni di confine, traducendoli, talvolta in modo a dir poco

buffo, dall’originale tedesco o francese (lo stesso Courmayeur divenne “Cormaiore”, o, per

esempio, in Alto Adige, da “Sterzing” si passò a “Vipiteno”). Con la caduta del regime

furono ripristinati molti dei nomi originali. Non sono mancati in quel periodo nemmeno

casi di “rilatinizzazioni” di nomi nei secoli volgarizzati, col ritorno all’originale latino (fra

i capoluoghi: Vibo Valentia, Olbia, Enna). Sono stati invece diversi i comuni che hanno

aggiunto al proprio nome originario il richiamo al cognome di una personalità legata al

luogo da vincoli di sangue o semplicemente affettivi (si pensi a Castelnuovo Don Bosco,

34

F. CARINGELLA, A. GIUNCATO, F. ROMANO, L'ordinamento degli enti locali, Milano, 2007, 195, M.

MIRABELLA, M. DI STEFANO, A. ALTIERI, Corso di Diritto Amministrativo, Milano, 2009, 182; F. PIZZETTI,

Piccoli comuni e grandi compiti: la specificità italiana di fronte ai bisogni delle società mature, in Astrid

Rassegna, 15 novembre 2007; A. PIRAINO, Il valore primario degli statuti comunali, in Scritti in onore di P.

Virga, II, Milano, 1994, 1379.

46

Arquà Petrarca, Castagneto Carducci, Livorno Ferraris). E, come nel caso di Courmayeur, i

motivi turistici hanno spinto con successo molte altre amministrazioni a legare il nome

dell'ente con la caratteristica che intendevano sponsorizzare, si pensi alle aggiunte di

“Terme”, “Lido” o “sulla Strada del Vino” al nome principale o, ad esempio, il caso

singolo di “Lignano Sabbiadoro”.35

Quanto alle province italiane, invece, il loro nome corrisponde di norma a quello

della città capoluogo di provincia. Non mancano però casi di province aventi più

capoluoghi (es. Barletta-Andria-Trani; Carbonia-Iglesias; Olbia-Tempio) o province con

singolo capoluogo ma che nella denominazione riportano il nome di più città (Massa-

Carrara36

; Forlì-Cesena37

) e province la cui denominazione comprende anche, o soltanto, il

nome del territorio: Verbano-Cusio-Ossola; Monza e Brianza; Medio Campidano;

Ogliastra.

3. Il codice civile (art. 11) prevede che l’Ente locale abbia personalità giuridica

di diritto pubblico (con tutti i poteri e doveri che ne derivano); nonché è prevista anche una

capacità di diritto privato che esercita laddove la legge lo pone in condizioni di parità con

gli altri soggetti dell’ordinamento.

Secondo la dottrina, il diritto al nome dell’Ente locale è attributo dalla personalità

giuridica che gli è riconosciuta assieme al diritto allo stemma, al gonfalone e,

eventualmente, al titolo di città38

.

Nella giurisprudenza di legittimità è ormai pacifico il riconoscimento dei diritti

immateriali della personalità anche in capo alle persone giuridiche. Per la Cassazione39

«in

questa ottica, si deve affermare la risarcibilità della lesione dello stesso diritto all'esistenza

nell'ordinamento come soggetto (fin quando sussistano le condizioni di legge), del diritto

all'identità, del diritto al nome e del diritto all'immagine della persona giuridica ed in

genere dell'ente collettivo».

Questa sentenza, in verità, aveva risolto una causa fra società commerciali. Tale

riconoscimento, comunque, non è mancato a favore di enti pubblici, quali comuni e

province, specie in pronunce di merito (v. § 9).

La Costituzione italiana, all’art. 133 comma secondo, consente alla legge regionale,

sentite le popolazioni interessate, l’istituzione di nuovi comuni e le modificazioni delle

loro circoscrizioni e denominazioni.

Dalla disposizione scaturiscono alcune questioni interpretative. Fra le più importanti

si può segnalare quella riguardante il significato dell’inciso “sentite le popolazioni

interessate”. Per la Corte costituzionale ad esso è sotteso l'obbligo procedurale di

referendum consultivo («la disciplina regionale delle circoscrizioni comunali deve

prevedere il ricorso al referendum consultivo, quale presupposto per la modifica delle

35

E. CAFFARELLI – S. RAFFAELLI, Il cambiamento di nome dei comuni italiani (dall’Unità d’Italia a oggi), in

Rivista italiana di toponomastica, V (1999), 1, pp. 115-147. 36

Con il Regio Decreto Legge 1938, n. 1860, i comuni di Massa, Carrara e Montignoso furono fusi in unico

comune denominato “Apuania”, che diede al contempo nome alla Provincia. Col Decreto Luogotenenziale 1

marzo 1946, n. 48, la Provincia di Apuania ha ripreso l’antica denominazione di Massa-Carrara, con

capoluogo Massa. 37

Il d.lgs. 6 marzo 1992, n. 252, istitutivo della nuova Provincia di Rimini, provvide anche a rinominare la

parte residua di territorio della vecchia Provincia di Forlì in “Provincia di Forlì-Cesena”. 38

Vedasi E. BARUSSO, Diritto degli Enti locali, Rimini, 2008, pp. 83-84. 39

Cass. 04/06/2007 n° 12929.

47

circoscrizioni medesime e per l'istituzione di nuovi comuni»40

), anche se l’esito dello

stesso non è per nulla vincolante per la Regione, che è libera di discostarsene41

. In più è

utile ricordare - avendo preso le mosse dal recentissimo caso valdostano - che la

giurisprudenza costituzionale ritiene che questo sia un principio di portata generale

vincolante anche per le regioni a statuto speciale, le quali sono libere di seguire «forme

anche equivalenti a quella tipica del referendum, purché tali da assicurare, con pari forza,

la completa libertà di manifestazione dell'opinione da parte dei soggetti chiamati alla

consultazione»42

. Negli ultimi anni è intervenuta una nuova pronuncia (n. 237/2004), che

ha specificato che deve ricondursi alla disciplina dell’art. 133 comma 2 Cost., e quindi alla

necessità di organizzare un referendum consultivo, anche il caso di semplice integrazione

al nome originale. La Regione Campania, nel caso di specie, aveva con propria legge

provveduto a mutare la denominazione del Comune di Ascea in “Ascea-Velia”. Anche in

questo caso, alla legge erano sottesi fini commerciali, volendo essa richiamare alla

memoria l’antica città greca che lì sorgeva e dove tuttora si trova il sito archeologico. Lo

Stato impugnò la norma rilevandone l’incostituzionalità in relazione all’art. 133, comma 2,

Cost., poiché l’approvazione della legge non sarebbe stata anticipata dalla consultazione

popolare che la Costituzione richiede. La difesa regionale intervenne in giudizio

sostenendo che la legge impugnata sarebbe stata preceduta dalla delibera del Consiglio

comunale di Ascea, avendo ravvisato la necessità dell’aggiunta “attesa la notorietà

internazionale di tale nome [sic!], traino e richiamo per la valorizzazione turistica, sociale

ed economica del Comune”. Secondo la Regione non si sarebbe trattato di una modifica

della denominazione rientrane nella fattispecie di cui all'art. 133 comma 2 Cost., ma di una

mera integrazione in grado perciò di sfuggire alle censure di incostituzionalità. Per di più,

secondo la stessa, la delibera del Consiglio comunale sarebbe stata idonea a superare

l’obbligo di sentire le popolazioni interessate. I giudici della Consulta citarono la propria

giurisprudenza (sentenze 204/1981; 107/1983; 279/1994), che è sempre stata chiara nel

sancire la necessità di procedere a referendum nei casi previsti dal comma secondo

dell’articolo 133. Rigettando così ogni altra contraria deduzione (in particolare, anche

l’integrazione della denominazione ne costituirebbe una modifica), la Corte annullò la

legge regionale.

Si è dibattuto molto su quali siano le “popolazioni interessate”. Riguardo alle

modifiche territoriali si registra una giurisprudenza abbastanza ondivaga (tra

interpretazioni restrittive ed estensive)43

, ma, per quel che ci riguarda, pare che si possa

escludere ogni tipo di interesse di popolazioni estranee al territorio del Comune di cui si

intende mutare la propria denominazione; a meno che non si voglia immaginare una sorta

di “disputa” sul diritto ad arrogarsi un nome fra due comunità, nel cui caso potrebbe essere

utile sentire le popolazioni di entrambi gli enti.

Quanto alla procedura, la riforma del Titolo V ed in particolare il nuovo art. 117

comma 2 lett. p) Cost. ha comportato il passaggio alla competenza esclusiva/residuale delle

regioni di tale materia, motivo per il quale la regione non dovrebbe fare più riferimento ai

40

Corte Cost., Sent. 29 dicembre 1981, n. 204 (punto 2 considerato in diritto). Corte Cost. Sent. 6 luglio

1994, n. 279, ribadisce «il carattere di indispensabile forma che il referendum consultivo riveste per

appagare l'esigenza partecipativa delle popolazioni interessate» (punto 2 considerato in diritto). V. anche

Corte Cost. Sent. 21 aprile 1983, n. 107. 41

V. E. ROTELLI, Art. 133, in Commentario della Costituzione, Zanichelli, 1990, pp. 211-212 42

Corte Cost. Sent. 27 luglio 1989, n. 453 (punto 4.2 considerato in diritto). 43

Corte Cost. Sent. 15 settembre 1995, Sent. n. 433. Contra Corte Cost. Sent. 7 aprile 2000, Sent. n. 94, e

Corte Cost. Sent. 13 febbraio 2003, sent. n. 47.

48

principi stabiliti dalla legge statale44

, con tutti problemi di compatibilità che però si

pongono con l’art. 15 del d.lgs. 267/2000. In base al comma 1, secondo periodo: «salvo i

casi di fusione tra più comuni, non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione

inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri

comuni scendano sotto tale limite.» In più, «La legge regionale che istituisce nuovi

comuni, mediante fusione di due o più comuni contigui, prevede che alle comunità di

origine o ad alcune di esse siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di

decentramento dei servizi.» (comma 2). Sono interessanti le questioni che sorgono tra la

legge regionale di disciplina generale della materia e la legge-provvedimento che nel caso

concreto provvede alla modifica, per le quali facciamo rinvio alle principali dissertazioni

dottrinali45

.

Il titolo di città può invece essere concesso dal Presidente della Repubblica su

proposta del Ministero dell’Interno ai comuni insigni per ricordi, monumenti storici e per

l'attuale importanza (art. 18 TUEL).

La disciplina costituzionale del nome delle province può essere ricondotta all’art.

133 comma 1 Cost., il quale stabilisce che (…) Anche qui la Carta richiede un intervento

“dal basso”, in ossequio al principio di autonomia; però con una sostanziale differenza: al

contrario del secondo comma, non si prevede qui un intervento delle popolazioni

provinciali, bensì soltanto una iniziativa dei comuni. Quasi a voler indicare la non

esistenza di una reale popolazione provinciale, se non come una somma delle popolazioni

comunali (il che consentirebbe prima facie una lettura costituzionalmente conforme della

legge “Delrio” 7 aprile 2014, n. 56). Per contro, però, bisogna ricordare che il T.U.E.L.

definisce la provincia come «ente intermedio tra Comune e Regione» rappresentante «la

propria comunità» (art. 3, comma 3).

4. Anche in Germania, il diritto di un ente locale ad avere, utilizzare e mantenere un

nome è ritenuto un attributo della personalità giuridica dell'ente.46

Alla stregua di quanto

accade per ogni altra persona fisica o giuridica, l'ordinamento deve perciò proteggere il

diritto al nome. L'ente locale può ricorrere direttamente alla Corte costituzionale del

proprio Land o, in via sussidiaria, al Tribunale costituzionale federale

(Bundesverfassungsgericht) per violazioni del diritto al nome da parte di leggi o

regolamenti dello Stato. Il ricorso diretto in questione non è quello previsto in caso di

violazioni di diritti fondamentali individuali di cui all'art. 93 comma 4 lett. a) della Legge

fondamentale, bensì quello previsto specificamente per gli enti locali di cui all'art. 93

comma 4 lett. b) LF. In altre parole, gli enti locali, lamentando una violazione del proprio

diritto al nome, non possono dichiararsi lesi in un proprio diritto fondamentale,

diversamente da quanto è possibile per altri tipi di persone giuridiche, ma possono soltanto

considerare violato il proprio diritto all'auto-amministrazione (Selbstverwaltung),

riconosciuto all'art. 28 comma 2 per. 1 LF che, a differenza di quanto stabilito nella

Costituzione di Francoforte del 1849 e nella Costituzione di Weimar del 1919, non è più

annoverato esso stesso tra i diritti fondamentali. Come stabilito nel 1982 dal Tribunale

costituzionale federale,47

il diritto al nome è da ritenersi corollario del diritto costituzionale

44

E. FERIOLI, Art. 133, in Commentario alla Costituzione, Utet, 2006, p. 2554 45

V., inter alias, E. FERIOLI, Art. 133, in Commentario alla Costituzione, Utet, 2006, pp. 2554-2556 46

Cfr. ad es.: Art. 2 I BayGO; § 19 I NkomVG; § 13 GO NRW. 47

BVerfGE 56, 219 – Söhlde (12 gennaio 1982 – 2 BvR 113/81). Vedi anche: D. P. KOMMERS, The

Constitutional Jurisprudence of the Federal Republic of Germany, Duke University Press, 1997, 102 sgg.

49

all'auto-amministrazione in quanto storicamente espressione dell'individualità e

dell'identità giuridica dell'ente.48

La protezione del nome dell'ente non è però mai stata

assoluta, atteso che la modifica del nome è un atto di potere sovrano dello Stato

(staatliches Hoheitsrecht) che compete, solitamente, al governo o al ministro degli interni

del Land. Tuttavia, tale potere è a sua volta limitato dal dovere di rispettare un “nucleo

duro” (Kernbereich) di auto-amministrazione, non definibile una volta per tutte, ma entro il

quale rientra anche l'obbligo di consultare gli enti locali interessati prima di modificarne il

nome o il territorio, sia a seguito di procedure di riorganizzazione territoriale, sia nel caso

in cui ad un ente locale venga attribuito un nome contro la sua volontà. L'obbligo di

consultazione, che non deve consistere necessariamente in un referendum delle

popolazioni interessate come nel caso italiano, è altresì considerato corollario del principio

dello Stato di diritto, in base al quale lo Stato non può considerare gli enti locali come meri

oggetti di attività legislativa discrezionale (cfr. BVerfGE 50, 50). Peraltro, la decisione

dello Stato di modificare il nome di un ente locale deve essere improntata al bene della

comunità (Gemeinwohl) in ordine alla sussistenza del quale deve essere prodotta una

convincente motivazione. Nel caso della citata pronuncia risalente al 1982, il legislatore

del Land Bassa Sassonia, a seguito di una fusione di più Comuni, aveva affibbiato al nuovo

Comune il nome che in precedenza era del Comune più popoloso (Hoheneggelsen) a

scapito di tutti gli altri, tra cui figurava anche il ricorrente (Söhlde). In particolare, il

legislatore aveva ritenuto che Hoheneggelsen fosse il centro della località, ma soprattutto

aveva voluto “sanzionare” Söhlde per alcuni investimenti realizzati da questa nel passato

non conformi alla pianificazione regionale. Non avendo tenuto in adeguato conto il bene

della comunità e mancando quindi una motivazione adeguata, il legislatore aveva leso il

diritto all'auto-amministrazione di cui all'art. 28 comma 2 per. 1 LF, sub specie del diritto

al nome del ricorrente.

5. L’articolo 15 del Testo unico degli Enti Locali si occupa di modifiche

territoriali, fusione ed istituzione di comuni e, in particolare, il comma 4 stabilisce il diritto

del Comune ad attribuire il nome alle proprie frazioni e borgate. La Corte costituzionale in

una sua pronuncia49 si era spinta a riconoscere persino il diritto al nome della frazione. In

quella occasione la Regione Trentino-Alto Adige e la Provincia di Bolzano si

contendevano la competenza a denominare le frazioni e le borgate (il Presidente della

giunta provinciale di Bolzano aveva impugnato la legge regionale con cui si definiva il

nome di una frazione del Comune di Sesto/Sexten).

Il ricorrente sosteneva che, vista la natura di mere entità di fatto delle frazioni, per

nulla assimilabili ai Comuni, la fattispecie dovesse rientrare nella competenza della

Provincia in materia di toponomastica. L’intervenuta Regione ribatteva che, al contrario, le

denominazioni di frazioni e capoluoghi facessero parte di un'unica materia, di competenza

regionale. Al di là dell’esito del ricorso, la Corte respinse la tesi delle frazioni come mere

entità di fatto, «data la capacità che le frazioni stesse posseggono di assumere in proprio la

soggettività di rapporti giuridici, in corrispondenza alla titolarità loro spettante degli

interessi autonomi del gruppo di popolazione stanziato nella parte del territorio comunale

ad esse assegnato: soggettività da cui discende anche il riconoscimento a favore della

frazione di un vero e proprio "diritto al nome", e che dà appunto ragione della rilevata

48

Così anche Nierhaus, GG-Sachs-Kommentar, Art. 28, Rn. 53. In dottrina permangono comunque voci

contrarie a questa tesi: A. ULBRICH, in: Vogelsang/Lubking/Ulbrich (ed.), Kommunale Selbstverwaltung, 3

Aufl. 2005, Rn. 70 ff. 49

Corte cost. Sent. 2 aprile 1964, n. 28.

50

adozione, da parte della norma statale richiamata, di un procedimento identico a quello

richiesto per la denominazione dei Comuni».

6. L'art. 6 comma 2 T.U.E.L. stabilisce inoltre che, tra i contenuti necessari

dello Statuto, vi siano determinati lo stemma e il gonfalone. Anche dopo l'entrata in vigore

della Costituzione repubblicana, la disciplina di riferimento è stata a lungo rappresentata

dal Regio Decreto 7 giugno 1943 n. 652. Soltanto con l'emanazione del T.U.E.L.

l’approvazione di stemma e gonfalone è entrato a pieno titolo nell'ambito della potestà

statutaria degli enti locali. Fino ad allora, invece, era rimasta di competenza del Ministero

degli Interni. Con le riforme “autonomiste” degli anni Novanta parve poco appropriato

continuare ad impedire agli enti locali di definire i propri simboli distintivi. Soltanto in

caso di uso improprio dello stemma o del gonfalone da parte dell'ente, lo Stato potrà quindi

intervenire. In particolare, laddove lo stemma o il gonfalone adottato sia sussumibile nella

categoria degli atti contrari a Costituzione, è possibile ipotizzare uno scioglimento del

Consiglio dell'ente ex art. 141 T.U.E.L. Sennonché, occorre osservare che, anche dopo

l'entrata in vigore del Titolo V, l'autonomia statutaria degli enti locali con riguardo alla

definizione di stemma e gonfalone continua ad essere limitata dal Servizio Araldica

Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, i cui poteri risultano tutt’oggi fondati

sul summenzionato Regio Decreto.50

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri

(d.p.c.m.) del 28 gennaio 2011 ha provveduto ad aggiornare il linguaggio utilizzato per

l'istruttoria relativa all'araldica pubblica, nonché a semplificare le regole procedurali

dell'attività posta in essere dall’Ufficio onorificenze e araldica della Presidenza del

Consiglio dei Ministri51. In breve, il procedimento prevede che il sindaco o il presidente

della Provincia presentino la domanda per la concessione di emblemi araldici al Presidente

della Repubblica e al Presidente del Consiglio. È il summenzionato Ufficio a stabilire

l’assetto araldico degli emblemi, sulla proposta contenuta nei bozzetti degli emblemi

araldici richiesti. Il procedimento di concessione si conclude con l'emanazione di un

decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei

Ministri. L’art. 4, comma 1, sancisce un’indisponibilità degli emblemi degli Enti locali

storici italiani («Gli stemmi ed i gonfaloni storici delle province e dei comuni non possono

essere modificati».) È altresì vietato fare uso dell’emblema dello Stato (art. 4, comma 10).

La Risoluzione 19 febbraio 2009 del Ministero dell’Interno rispondeva ad un

consigliere comunale che aveva posto un quesito relativo alla legittimità dell'utilizzo non

autorizzato dello stemma comunale nella insegna luminosa da parte di una associazione.

Venivano citati a riguardo il R.D. 7 giugno 1943, n. 651 e il testo unico nelle parti che

trattano della disciplina di stemmi e gonfaloni, stabilendo che il comune possa agire

«contro chiunque, al di fuori dei casi di concessione in uso di cui alla citata norma

regolamentare, utilizzi il proprio stemma o che autorizzatovi, ne faccia un uso non

consentito». In questo senso, quindi, il diritto allo stemma può essere assimilato al diritto al

nome, atteso che precisa l'identità dell'ente locale e non è da esso liberamente modificabile

o disponibile. Anche in Germania, benché il Tribunale costituzionale federale non si sia

mai espresso in tema di stemma comunale (Wappen), la dottrina tende a considerare il

diritto alla sua esibizione corollario di quello al nome52

.

50

Così anche F. PINTO, Diritto degli Enti Locali, Torino, 2012, 90-91. 51

Sono destinatari del decreto le regioni, le province, le città metropolitane, i comuni, le comunità montane,

le comunità isolane, i consorzi, le unioni di comuni, gli enti con personalità giuridica, le banche, le

fondazioni, le università, le società, le associazioni, le Forze armate ed i Corpi ad ordinamento civile e

militare dello Stato. 52

Si veda ad es.: Rennert, in: Umbach/Clemens, GG-Art. 28 II, Rn, 106.

51

7. Ci si potrebbe di conseguenza domandare se il nome geografico possa

essere legittimamente registrato come marchio commerciale.

A fornire una risposta è il Codice della proprietà industriale (Decreto legislativo

10.02.2005 n° 30), che all’art. 13 dispone il divieto di utilizzo come marchio individuale:

«Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa i segni privi di

carattere distintivo e in particolare:

[…]

b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi

o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio

possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la

provenienza geografica […]». Tale disposizione va letta in combinato con il comma 4

dell’art 11 del medesimo codice, che pone un’eccezione per i marchi collettivi53

:

«In deroga all'articolo 13, comma 1, un marchio collettivo può consistere in segni o

indicazioni che nel commercio possono servire per designare la provenienza geografica dei

prodotti o servizi. In tal caso, peraltro, l'Ufficio italiano brevetti e marchi può rifiutare, con

provvedimento motivato, la registrazione quando i marchi richiesti possano creare

situazioni di ingiustificato privilegio o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di altre

analoghe iniziative nella regione. L'Ufficio italiano brevetti e marchi ha facoltà di chiedere

al riguardo l'avviso delle amministrazioni pubbliche, categorie e organi interessati o

competenti. L'avvenuta registrazione del marchio collettivo costituito da nome geografico

non autorizza il titolare a vietare a terzi l'uso nel commercio del nome stesso, purché

questo uso sia conforme ai principi della correttezza professionale».

Si può profilare un ulteriore divieto qualora il marchio possa far insorgere la

credenza che il bene venga prodotto in un luogo differente da quello da cui in realtà ha

origine, insorgendo in tal modo il divieto di segni ingannevoli54

.

Pratiche ingannevoli a parte, il marchio collettivo può comunque essere carico di una

potenzialità lesiva per l’Ente qualora, per esempio, l’applicazione del nome di un Comune

ad un prodotto particolare getti discredito sull’amministrazione territoriale. Ciò può

derivare dalla natura del prodotto stesso, che tramite questa sua caratteristica riprovevole

offuschi o disonori la reputazione dell’Ente55

.

8. È stata un’ipotesi passata al vaglio del Tribunale di Roma56

, chiamato a

giudicare se la registrazione di un marchio commerciale di sigarette che aveva impiegato

un toponimo coincidente con il nome di un Comune (Capri) fosse lesivo del diritto al nome

dell’amministrazione pubblica locale. Nel caso di specie era stata una società americana

operante nel mondo del tabacco a brevettare tale marchio senza il consenso del Comune,

utilizzandolo poi in Italia. Capri accusava di veder il proprio nome associato ad un

prodotto universalmente riconosciuto nocivo. Il Tribunale, però, ritenne che tale forma di

collegamento non fosse produttivo di alcun danno all’immagine dell’isola, in quanto non

fosse stato provato concretamente il pregiudizio, nemmeno in via potenziale.

53

I soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o

servizi, possono ottenere la registrazione per appositi marchi come marchi collettivi ed hanno la facoltà di

concedere l'uso dei marchi stessi a produttori o commercianti. 54

M. RICOLFI, Diritto industriale. Proprietà industriale e concorrenza, Giappichelli, 2008, pp.89-90. 55

U. FRAGOLA, La commercializzazione del nome dei Comuni turistici, in L’amministrazione italiana, 1990,

11, p. 1594. 56

Sentenza 2 marzo 1993, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1993,

11.

52

Il Tribunale di Napoli57

, invece, fu investito di una causa tra un comune lucano che

intendeva aprire un sito internet con dominio la propria denominazione (nella specie

Rapolla.it) e un cittadino che possedeva un cognome omonimo e che lamentava, per questo

fatto, una lesione del proprio diritto individuale della personalità. I giudici partenopei

risolsero il conflitto a favore dell’Ente, posto l’assoggettamento dei domain names alla

disciplina dei marchi, richiamando la normativa in materia che stabilisce che «i nomi di

persona diversi da quello di chi chiede la registrazione possono essere registrati come

marchi purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha

diritto di portare tali nomi»58

, non ravvisando nel caso di specie che il fatto avesse leso il

prestigio del convenuto.

A differenza del regime strettamente civilistico, nel mondo commerciale, il diritto al

nome dell’Ente riceve una tutela soltanto parziale, non venendo esclusa tout court la

denominazione da qualsiasi utilizzo, ma ponendosi un divieto circoscritto alla concreta

lesione dell’onore e della reputazione; a vantaggio dell’esercizio dell’attività industriale, in

una logica liberista che sacrifica il diritto al nome davanti alle ragioni del commercio59

.

Fuoriuscendo dalla disciplina dei marchi e passando alla tutela generica

dell’immagine, il tribunale di Termini Imerese ebbe modo di riconoscere al Comune di

Corleone il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, anche per lesione del diritto

al nome, dovuta all’esercizio dell’attività mafiosa sul suo territorio che avrebbe in questo

modo infamato il nome del paese a livello internazionale.

Stesso diritto, per un caso differente, fu riconosciuto dal Tribunale di Trento ad un

comune montano per un disastro geologico-ambientale in Val di Stava causato dal

cedimento di un bacino idrico che aveva causato morti e distruzione del paesaggio, ledendo

così – secondo la corte territoriale – il prestigio dell’immagine e del nome dell’Ente locale,

anche intesi come capacità di attirare investimenti e turismo60

.

Passando alla giustizia amministrativa, il caso dell’Asti spumante rappresentò un

difficile intreccio di diritti di denominazione dei marchi commerciali.

A dire il vero a promuovere il giudizio era stata un’azienda vitivinicola sita nel

Comune di Asti, interessata a produrre lo spumante col marchio del Consorzio in una terra

che da disciplinare era esclusa61

. Alle tesi di questa si erano unite tanto il Ministero delle

Politiche agricole, quanto l’amministrazione comunale, ovviamente interessata a che il

noto vino che porta il nome della città di Alfieri potesse essere prodotto anche all’interno

dei propri confini.

La lunga vertenza che divise il mondo italiano del vino fu chiusa dal Consiglio di

Stato62

, che diede ragione ai resistenti produttori delle zone “classiche” (già peraltro

57

Sentenza 13 marzo 2003, in Foro italiano, 2003, 11, 3185-3186. 58

È il testo dell’art. 21 della legge sui marchi (R.D. 929/1942), ora abrogata. 59

Cfr. G. IVONE, Diritto alla denominazione marchio geografico¸ in Rivista del diritto commerciale e del

diritto generale delle obbligazioni, 1993, 11, 459-468. 60

Per un maggiore approfondimento su questo e su altri casi di lesioni al diritto al nome e all’immagine degli

Enti locali v. Reati ambientali e risarcimento agli Enti locali: il caso Solvay di Alessandria, in questo numero

di O.P.A.L. 61

Il disciplinare di produzione del Moscato d’Asti e dell’Asti d.o.c.g., infatti, non prevede, a dispetto del

nome, che tali vini possano essere prodotti anche nel territorio del Comune omonimo, rientrando soltanto

territori a sud della Provincia (all’incirca Nizza Monferrato e Canelli), più parti della Provincia di Cuneo e

Alessandria (grosso modo, Langhe e Aquese). 62

Cons. di Stato, 28/11/2013, n° 5691

53

vincenti in primo grado); col risultato che ad oggi l’Asti non può essere prodotto con quel

nome nel territorio del Comune omonimo.

9. Il caso del (fallito) referendum del Comune di Courmayeur ci ha permesso,

innanzitutto, di aprire un breve approfondimento storico sulle modificazioni delle

denominazioni di comuni e province in Italia, che, per varie ragioni, non sono state affatto

rare. Esposta sul tema la disciplina statutaria e legislativa della Regione autonoma Valle

d’Aosta, la si è confrontata con quella nazionale, addentrandoci nello specifico nell’ultima.

Abbiamo visto come, in varie pronunce, la Corte costituzionale abbia definito i contorni

dell’art. 133 Cost., sancendo come obbligatorio l’utilizzo del referendum consultivo fra le

popolazioni interessate alla modifica; vincolo anche per le regioni ad autonomia

differenziata e anche nel caso di mera integrazione.

Il quarto paragrafo, quindi, è stato dedicato a una digressione comparatistica sul

diritto al nome degli Enti locali in Germania. Si è passati per l’analisi di un caso su cui si è

era pronunciato nel 1982 il Tribunale costituzionale federale, il quale aveva definito il

nome dell’Ente un corollario del diritto costituzionale all’auto-amministrazione; per quanto

la modifica resti un potere dello Stato, che da tale “nucleo duro” risulta limitato.

Si è voluto spendere alcune parole anche sul diritto al nome della frazione

(individuato in una sentenza della Corte costituzionale) e sulla normativa circa gli stemmi

e i gonfaloni, espressione – assieme al nome – dell’immagine dell’Ente. A seguito

dell’entrata in vigore del T.U.E.L., pur rimanendo la loro approvazione inserita in un

procedimento ministeriale, essi rientrano appieno nella potestà statutaria del singolo Ente

locale.

Nel settimo paragrafo si è indagato, poi, sulla protezione che i nomi e gli stemmi

degli Enti pubblici godono nella disciplina dei marchi commerciali, scoprendo come il

Codice della proprietà industriale distingua tra marchi collettivi e marchi individuali,

consentendone, con precise modalità, l’utilizzo in un caso e non nell’altro.

In conclusione, si è esposta una rassegna di giurisprudenza che ha trattato di lesioni

ai diritti della personalità degli Enti pubblici territoriali, riconoscendo per essi la tutela e la

risarcibilità del diritto al nome, come proiezione della personalità giuridica.

Reati ambientali e risarcimento agli enti locali: il caso Solvay di

Alessandria di Matteo Porricolo

Parole chiave: reati ambientali, danno all’immagine, risarcimento, enti territoriali.

Riferimenti normativi: artt. 309, 311, 313 D. Lgs. 03/04/2006, n. 152, (Norme in materia

ambientale, “Codice dell’ambiente”); art. 439 codice penale; artt. 2043 e 2059 codice civile;

art. 18 Legge 08/07/1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell'ambiente e norme in materia

di danno ambientale).

Documenti processuali:

I verbali d’udienza del processo Solvay possono essere reperiti alla pagina di

www.penalecontemporaneo.it

54

Sta giungendo al termine la fase dibattimentale del procedimento penale relativo al

caso, purtroppo celebre, dell’inquinamento dello stabilimento Solvay di Spinetta Marengo

(Al).

Le indagini avevano preso il via nel 2008, dopo il rinvenimento da parte dell’A.R.P.A.

di sostanze tossiche in quantitativi abnormi nei terreni limitrofi al polo chimico, sito a

ridosso della frazione alessandrina. Di lì, nell’approfondirsi delle indagini, è emersa pian

piano la realtà dei fatti in tutta la sua drammaticità: terreni e acque di falda inquinati,

contenenti per lo più cromo esavalente, cloroformio, DDT e metalli pesanti (antimonio,

arsenico, nichel), tutti con soglie oltre i limiti consentiti dalla legge; ma, soprattutto,

centinaia di casi di malattie e morti per gli ex operai e per molti residenti nell’abitato.

Per questo sono stati rinviati a giudizio, con imputazioni differenti, otto alti dirigenti

(amministratori delegati e membri del C.d.A., responsabili e direttori dello stabilimento)

delle due società che si sono succedute nella guida del polo industriale: Ausimont (Gruppo

Montedison) e dal 2002 Solvay Solexis.

Su di loro graverebbero in particolare, secondo l’impostazione dell’accusa, due capi

d’imputazione: l’avvelenamento di acque (art. 439 c.p.), dovuto alla realizzazione illegittima

di discariche di sostanze nocive e avendo cagionato, per omessa manutenzione della rete

idrica interna, enormi perdite che hanno dilavato le sostanze inquinanti presenti negli strati

superficiali del terreno e che hanno raggiunto poi i livelli più profondi della falda acquifera

sottostante che, di conseguenza, ha sparso gli inquinanti nel circondario. Il P.M. accusa poi

gli imputati di mancata bonifica del sito (art. 257 del d. lgs. 3.4.2006 n. 152), poiché non

avrebbero provveduto a bonificare il terreno e le acque a norma degli art. 239 e ss. del

medesimo decreto legislativo; omettendo di segnalare - in seno alla Conferenza di servizi

istituita ai fini della suddetta procedura di risanamento - agli enti pubblici competenti (in

questo caso Provincia e Comune) la reale situazione dell’inquinamento del sito industriale,

tramite comunicazioni di dati falsati o incompleti e omettendo di realizzare opere destinate a

eliminare, o quanto meno ridurre, la contaminazione.

La rappresentazione dei fatti è allibente se si pensa che, non solo le sostanze tossiche

avrebbero raggiunto (il condizionale è d’obbligo in questa fase, in ossequio al principio di

presunzione d’innocenza) i tanti pozzi presenti nelle zone limitrofe ad uso domestico e

agricolo (da alcuni dei quali preleva anche l’acquedotto che fornisce la città di Alessandria),

ma agli operai stessi dell’azienda sarebbe stata fornita dai rubinetti, dalle macchinette

automatiche per l’erogazione delle bevande e alle mense direttamente l’acqua proveniente

dalla falda sottostante. Ciò sarebbe avvenuto anche nei confronti di tanti residenti

dell’abitato di Spinetta, che da anni erano legati con la Solvay (già Montedison) con un

contratto di fornitura di acqua (separata dalla rete comunale) che traeva dalla medesima

falda che la Montedison avrebbe al contempo inquinato.

Il risultato è stato un danno ambientale non definitivamente in quantificabile. Per la

totale bonifica ci vorranno anni: fertili terreni agricoli e importanti falde freatiche della

pianura alessandrina inquinati da sostanze tossiche e, soprattutto, innumerevoli casi di

tumori e leucemie, spesso sfociati in decessi. Spetterà, quindi, innanzitutto alla Corte di

Assise di Alessandria giudicare le responsabilità .

Di fronte a tutto ciò come hanno agito gli Enti territoriali coinvolti?

La scelta del Comune e della Provincia di Alessandria è stata quella di costituirsi parte

civile nel processo penale, a fianco delle tante vittime persone fisiche, dei sindacati, del

Ministero dell’ambiente e delle associazioni a tutela dell’ambiente (in primis, WWF e

Legambiente). Costituzione che è stata contrastata dalle difese degli imputati e dei

55

responsabili civili per vari motivi e per i quali entriamo ora nella disamina del tema in

oggetto.

Il codice dell’ambiente, rectius “Norme in materia ambientale”, è stata approvato col

decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, di recepimento della direttiva europea 2004/35/CE

sulla responsabilità ambientale.

In esso è contenuto un drastico cambiamento in merito alla legittimazione ad agire per

il risarcimento del danno ambientale. Nella previgente legge 349/1986, all’art. 18, comma 3,

- abrogato dalla nuova normativa - era contemplato che, oltre allo Stato, potessero agire

anche gli Enti territoriali sui quali avesse inciso il fatto lesivo.

Nel nuovo codice dell’ambiente tale possibilità è venuta meno, avendo accentrato nel

Ministero dell’ambiente la titolarità dell’azione e avendogli riconosciuto il ruolo di unico

attore per la cura dell’interesse pubblico alla tutela e al risarcimento del danno ambientale. 63

In particolare, l’art. 311, 1° comma, stabilisce che: «Il Ministro dell'ambiente e della

tutela del territorio agisce, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il

risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente

patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente

decreto.»

Secondo la relazione illustrativa al codice, con tale intervento si è voluto impedire «il

fenomeno del proliferare delle iniziative giudiziarie mosse per lo stesso fatto di danno

ambientale e nei confronti dello stesso operatore responsabile da una pluralità di enti, lo

Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, i consorzi, ecc e dalle

associazioni non governative, nonché da singoli cittadini danneggiati personalmente»; e si

continua dicendo che «soltanto queste ultime iniziative dei cittadini singoli sono state,

ovviamente, conservate, mentre tutte le figure pubbliche e associative diverse dallo Stato

vengono rese destinatarie soltanto di un compito di immediata segnalazione dell’esistenza

del danno ambientale al Ministero».

Tale mossa è stata criticata dalla dottrina come un evidente arretramento della tutela,

nonché una violazione del principio di sussidiarietà; anche se non sono mancati plausi per il

merito di aver garantito in questo modo unità di prassi e indirizzi.64

Unico margine che residua per gli enti diversi dallo Stato, oggi privi della facoltà di

agire iure proprio, sembra essere lasciato dal codice all’art. 309 nel “potere di impulso” al

procedimento ministeriale per l’adozione di misure di precauzione, prevenzione e ripristino,

coi correlati poteri di presentazione di denunce e osservazioni, verso le quali il Ministero è

tenuto a rispondere.

L’intervento normativo non ha comunque vietato a regioni, enti locali e associazioni

esponenziali di difendere il diritto al risarcimento secondo le norme civilistiche comuni.

E’ quanto si desume dall’art. 313 comma 7, secondo periodo, del codice dell’ambiente

laddove stabilisce: «Resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto

produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in

giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi.»

In tal senso si è pronunciata pure la Corte di Cassazione, secondo cui la nuova

normativa speciale si affianca, non sostituendo, la disciplina del danno prevista dal codice

civile, consentendo così di agire iure proprio ai soggetti che abbiano direttamente subito un

63

A. BUONFRATE, Codice dell'ambiente e normativa collegata, Utet, 2008, p. 330. 64

A. BUONFRATE, cit., p. 331.

56

danno, ulteriore e diverso da quello generico di natura pubblica (ribadendo, dopo il 2006

riservato al Ministero). 65

I richiami che la giurisprudenza successiva al mutamento legislativo compie sono in

gran parte rivolti all’art. 2043 comma, ossia al danno di natura patrimoniale: «la

legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non soltanto

al ministro dell’ambiente […], ma anche all’ente pubblico territoriale (come la provincia) e

ai soggetti privati che per effetto della condotta illecita abbiano subito un danno

patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.» 66

Oltre ai danni diretti ai beni dei proprietari, anche il danno patrimoniale per gli Enti è,

in effetti, una conseguenza possibile se si considera che essi possono dover sostenere costi

qualora provvedano a proprie spese al ripristino dello status quo ante o quantomeno a

misure di contenimento.

Quid iuris, invece, in caso di un lamentato danno di natura non patrimoniale? E’

configurabile in capo alla persona giuridica, nella specie all’ente territoriale? E, ancora più

restringendo il campo, può essere concepito come derivante da un danno ambientale relativo

al territorio dell’Ente?

Secondo il codice civile, il danno non patrimoniale è risarcibile solo nei casi previsti

dalla legge (art. 2059), cioè è tipico, al contrario del danno patrimoniale ex art. 2043, che è

atipico.

Una delle più tipiche fonti del danno non patrimoniale è il reato: «Ogni reato, che

abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il

colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui»

(art. 185 c.p.).

Col tempo la giurisprudenza, su indicazione della Corte costituzionale67

, ha esteso tale

forma di risarcimento a tutti quei casi in cui siano stati lesi diritti costituzionalmente

garantiti, intesi come valori fondamentali della persona tutelati dalle disposizioni

immediatamente precettive della Carta costituzionale, come i diritti alla reputazione, al

nome, all’immagine, alla riservatezza.68

Il danno non patrimoniale, nella forma di danno alla salute, ovviamente esclusivo delle

persone fisiche, resta tale anche secondo il Codice dell’ambiente ed è oggetto della garanzia

costituzionale del diritto alla salute.

65

Cass. pen., sez. III, 17.1.2012 n. 19439, in Guida al diritto, 2012, 37, 80, in cui si legittimavano le

associazioni ambientaliste a richiedere non solo il danno patrimoniale (dovuto, ad es., ad esborsi per

sostenere l’attività di tutela), ma anche morale. 66

Cass. pen., sez. III, 12.1.2012, n. 633, in www.dirittoambiente.net.

Già così Cass. pen., sez. III, 27.5.2011 (Ud. 13.4.2011), n. 21311, in Riv. giur. Ambiente, 2011, 6, 815: <<tutti

gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, sono legittimati ad

agire, ex art. 2043 cc, per ottenere qualsiasi risarcimento del danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che

abbiano dato prova di avere subito dalla medesima condotta lesiva dell'ambiente in attinenza alla lesione di

altri loro diritti patrimoniali, diversi dall'interesse pubblico e generale alla tutela dell'ambiente.>>.

Conformi Cass. pen, sez. III, 21.10.2010 n. 41015, in Cass. Pen. 2011, 7-8, 2763 e Cass. pen., sez. III,

28.10.2009, n. 755 in Guida al diritto 2010, 9, 85 (laddove era stata riconosciuta la legittimazione di una

provincia a costituirsi parte civile in un processo per il reato di gestione non autorizzata di rifiuti ex art. 256

d.lgs. 152/2006). 67

Corte cost. 11.7.2003, n. 233, in www.giurcost.org. 68

Fra tutte, Consiglio di Stato, sez. IV, 05.09.2013, n. 4464, in www.giustizia-amministrativa.it e Cassazione

civile, sez. lav., 24.05.2010, n. 12593, in Giust. civ. Mass. 2010, 5, 800.

57

E appena il caso di ricordare che la giurisprudenza è pressoché pacifica nel ritenere

oramai estendibili anche alle persone giuridiche i diritti della personalità, in particolare il

diritto all’immagine anche degli enti locali.

Secondo la Cassazione: «allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è

risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, il danno non patrimoniale costituito –

come danno cd. conseguenza – dalla diminuzione della considerazione della persona

giuridica o dell'ente in cui si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza

negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano gli

organi della persona giuridica o dell'ente e, quindi, nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo

della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o

categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca.»69

La pronuncia citata, che si inserisce in un solco già tracciato da alcuni anni70

, si

riferiva però ad un caso di persone giuridiche private, nella specie società commerciali, per

le quali si può compiere un’opera di estensione analogica.

La tutela del prestigio e dell’immagine della Pubblica amministrazione è ovunque

esigenza sentita e tutelata anche dall’art. 54 della Costituzione71

, ma la problematica è

sempre stata affrontata principalmente nell’ottica del fatto dell’intraneo, legato a rapporti di

dipendenza con la P.a., che col proprio operato delittuoso getta discredito sull’immagine

dell’amministrazione da cui dipende.

Sul tema si registra un’ampia giurisprudenza della Corte dei Conti, la quale così si è

pronunciata: «Lo Stato e gli altri enti pubblici rappresentativi della comunità si

caratterizzano in modo specifico, rispetto a tutte le altre persone giuridiche, per essere posti

a tutela degli interessi fondamentali della comunità […]. L’organizzazione di questi enti è

poi caratterizzata da principi costituzionali cogenti, che determinano la struttura e l’attività

degli organi e degli uffici.

L’immagine pubblica si connota, pertanto, in modo peculiare. La sua lesione è

determinata essenzialmente da comportamenti contrari ai principi fondamentali di

organizzazione e di azione costituzionalmente rilevanti, comportamenti (oggetto anche della

specifica previsione dell’art. 54 Cost.) che possono essere tenuti nella generalità dei casi da

chi deve porre in essere i moduli organizzativi e l’attività della P.A. » 72

Sempre per la Corte dei Conti73

«è evidente, cioè, nell’ambito del rispetto

dell’immagine ed identità personale, l’interesse costituzionalmente garantito che le

competenze individuate vengano rispettate, le funzioni assegnate vengano esercitate, le

responsabilità proprie dei funzionari vengano attivate».

All’interno della corrente che ammette lesioni d’immagine della Pubblica

amministrazione da parte del solo dipendente, si distingue ancora il pensiero di chi ritiene

69

Cass. civ., sez. I, 11.08.2009, n. 18218, in Dir. maritt., 2011, 2, 443.

Principio affermato dalla S.C. in una fattispecie in cui una società, senza ottenere il consenso dell'avente

diritto e senza pagare il corrispettivo dovuto, aveva indebitamente riprodotto nel proprio calendario

l'immagine e la denominazione di un'imbarcazione altrui, usata a fini agonistici o come elemento di richiamo

nell'ambito di campagne pubblicitarie o di sponsorizzazione, inserendo nella vela il proprio marchio.

Conforme a Cass. civ., sez. III, 4.6.2007, n. 12929, in Lavoro nelle p.a., 2008, 3-4, 618. 70

Anche la giurisprudenza amministrativa è concorde (v., ad es., Consiglio di Stato, 12.02.2008, n. 491, in

Foro amm. CDS, 2008, 2, I, 465). 71

Si vedano M. DIDONNA, Il danno all’immagine e al prestigio della P.a. nella prospettiva dell’attuale

giurisprudenza, in Il Corriere Giuridico, 2012, 11, p. 1307 e ss

e, per uno studio più approfondito, l’opera monografica W. CORTESE, La responsabilità per danno

all'immagine della pubblica amministrazione, Cedam, 2004. 72

Corte dei Conti, sez. I, 30.10.2003, n. 340, in Riv. Corte Conti, 2003, 5, 63.

V. anche COMMA Conti, sez. II, 31.3.2008, n. 106, in Lavoro nelle p.a., 2008, 3-4, 622. 73

Sentenza della Corte dei Conti, sez. riunite, n. 10, 23.04.2003, in Resp. civ. e prev., 2003, 1131.

58

che tale lesione possa derivare solamente da reati dei Pubblici ufficiali contro la P.a., da

quello di chi sostiene che invece possa scaturire anche da un reato comune (ma comunque

commesso dall’intraneus). 74

Nella recente sentenza n. 4542/2012 della Cassazione75

veniva riconosciuto che

potessero essere lesi i diritti immateriali della personalità di Ente territoriale - nella specie un

Comune - (quindi compatibili con l’assenza di fisicità della persone giuridiche), quali i diritti

all’immagine, alla reputazione, all’identità storica, culturale e politica costituzionalmente

protetti (artt. 2, 5, 114, 118 Cost.) e che in tal caso darebbero azione per il ristoro del danno

subito. V’è da dire, però, che in tale pronuncia si parlava di responsabilità contrattuale (nella

specie, il Comune aveva chiesto i risarcimenti ad una impresa che male aveva realizzato

l’opera di cui era stata incaricata).

Per citare, invece, casi originanti da responsabilità aquiliana, si possono riportare

alcuni esempi di danni ambientali connessi a tragedie umane.

A seguito del tristemente noto disastro del Vayont (9 ottobre 1963) il Comune di

Castellavazzo (BL) aveva agito in sede civile contro la Montedison per l’immane catastrofe

avvenuta a causa dell’esondazione del bacino idrico. All’esito del giudizio, recependo

l’avviso della Consulta sulla lettura del sistema di responsabilità civile alla luce delle

posizioni soggettive costituzionalmente protette, la Cassazione76

aveva statuito che: «nel

caso di specie, non vi è dubbio che il disastro del Vayont, costituente fatto di reato di enorme

gravità, per il numero delle vittime e per le devastazioni ambientali dei centri storici, abbia

determinato (come fatto-evento) la lesione del diritto costituzionale dell'ente territoriale

esponenziale (il comune) alla sua identità storica, culturale, politica, economica,

costituzionalmente protetta (cfr. artt. 114 Cost.). Sussiste dunque la prova della lesione della

posizione soggettiva costituzionalmente protetta e l'ente ha legittimazione piena e titolo ad

esigere il risarcimento del danno.»

Un caso simile era avvenuto in Val di Stava, dove il 19 luglio 1985 cedettero i bacini

di decantazione di una miniera scaricando fango e detriti nella valle sottostante e

provocando la morte di 268 persone. Il Comune di Tesero (TN) aveva lamentato un danno

morale come conseguenza del fatto, che il Tribunale di Trento gli riconobbe, in data 10

giugno 200277

, a carico, ancora una volta, della Montedison.

La tragedia, secondo i giudici di merito, avrebbe creato una sorta di collegamento

istintivo e negativo al fatto storico, che avrebbe compromesso la reputazione turistica del

paese, nonché il diritto del Comune alla propria identità personale, al nome e all’immagine.

Diritti costituzionalmente garantiti che possono giustificare, come si è detto, anche nella

persona giuridica un danno morale.

Non di danni ambientali si trattava, ma di una gravissima piaga del nostro paese, nella

sentenza del Tribunale di Termini Imerese78

in cui si ammetteva il danno morale patito dal

Comune di Corleone per l’attività mafiosa esercitata sul suo territorio.

Ancora una volta si è ritenuto, dunque, che -nei casi in cui vi sia una lesione di diritti

sanciti dalla Costituzione- si debba riconoscere tale risarcibilità anche allorché si verifichi la

lesione di un diritto della persona giuridica. «In quest'ottica si deve affermare la risarcibilità

della lesione dello stesso diritto all'esistenza nell'ordinamento come soggetto, del diritto

74

Cortese W, cit. 75

Cass. civ., sez. III, 22.03.2012, n. 4542, in Giust. civ. Mass., 2012, 3, 377. 76

Cass. civ., sez III, 15.4.1998, n. 3807, in Giur. It., 1999, 2270. 77

Trib. Trento, 10.06.2002, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 2004, n. 3-4. 78

Trib. Termini Imerese, 8.2.2011, n. 32, con commento di A. Cisterna, in Guida al diritto, 9 aprile 2011, n.

15, pp. 42-44.

59

all'identità, del diritto al nome e del diritto all'immagine. Tale risarcibilità prescinde dalla

verificazione di eventuali danni patrimoniali conseguenti. Per tali diritti, che rappresentano

l'equivalente -in relazione alla persona giuridica o all'ente collettivo- dei diritti della persona

fisica aventi fondamento diretto nella Costituzione e precisamente nell'art. 2 Cost., si impone

il riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale in ragione di una espressa

previsione della stessa norma costituzionale dell'art. 2 Cost., che riconosce i diritti inviolabili

dell'uomo, cioè della persona fisica, anche nelle formazioni sociali. Per ciò che attiene agli

enti locali, peraltro, va sottolineata la loro particolare posizione sancita nell'art. 5 e nell'art.

114 della Costituzione, che valorizzano le autonomie locali, di cui va pertanto tutelata

l'identità storica, culturale e civile».

Nella vicenda non v’era dubbio che gli efferati crimini commessi dai mafiosi avessero

leso la reputazione della città di Corleone nell’opinione pubblica nazionale e internazionale

e, al contempo, avessero violato l'identità della medesima città, finendo per creare un clima

di pesante intimidazione e di paura.

Ben più curioso è stato il caso definito nel 2008 dalla III Sezione della Corte di

Cassazione79

: per un reato di violenza sessuale nei confronti di una cittadina, fu riconosciuto

il diritto del Comune a costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento, da un lato, del

danno economico diretto per le diminuzioni patrimoniali subite dagli organi comunali

predisposti per alleviare i traumi delle vittime di abusi sessuali e, dall'altro, del danno morale

per la lesione dell'interesse statutariamente perseguito di garantire la libertà

d'autodeterminazione sessuale della donna e la pacifica convivenza nell'ambito comunale.

Sempre in questa direzione, nello stesso anno, la medesima sezione80

ammetteva la

costituzione di parte civile di una provincia, richiamando una precedente pronuncia81

che

aveva statuito che «la violazione del divieto di cacciare con mezzi vietati comporta danno

all'immagine della Provincia cui compete il dovere di assicurare il corretto esercizio della

caccia».

Tornando poi ai temi ambientali, nella sentenza della Corte di cassazione n° 1145 del

30 ottobre 200182

(quindi pre Codice) si è affermata la risarcibilità del danno all'immagine

dell'ente territoriale solo qualora sia stato concretamente accertato il suddetto danno

ambientale (si trattava di violazione della normativa sui rifiuti), al quale si collega, come

aspetto non patrimoniale, la “menomazione del rilievo istituzionale dell'ente”.

Lo stesso principio era già stato affermato nel lontano 199283

, quando si ritenne danno

non autonomamente risarcibile la lesione all’immagine dell’ente territoriale, derivante dalla

commissione di reati ambientali (anche in quel caso si trattava di smaltimento rifiuti) che

avessero compromesso il prestigio dell’attività dell’amministrazione concernente i compiti

di gestione e controllo propri dell’ente. Il risarcimento sarebbe dovuto essere corrisposto

solo in caso di accertato danno ambientale, cui fosse connessa la menomazione del rilievo

istituzionale.

Chiudiamo questa disamina con un caso di inquinamento altrettanto celebre, il

petrolchimico di Malghera (VE).

Nel 2012, a dieci anni di distanza dalla conclusione dei procedimenti penali per gli

scarichi inquinanti in Laguna e per le conseguenti morti degli operai, il Tribunale di

Venezia84

ha condannato la Syndial, società del gruppo ENI, a pagare alla Provincia di

79

Cass. pen., sez. III, 19.6.2008, n. 388835, in Cass. Pen., 2010, 1541. 80

Cass. pen., sez. III, 17.3.2008, n. 11752, in Cass. Pen. 2009, 6, 2611. 81

Cass. pen., sez. III, 01.10.2002, n.. 35868, in Cass. Pen., 2003, 3157. 82

Cass. pen., sez. III, 30.10.2001, n. 1145, in Cass. Pen. 2002, 3859. 83

Cass. pen., sez. III, 19.3.1992, in Riv. pen., 1993, 607. 84

Trib. Venezia, 5.4.2012, in www.personaedanno.it.

60

Venezia la somma di 700.000 €: «Il danno […], patito dalla collettività della provincia di

Venezia, anche non patrimoniale, viene sicuramente ravvisato non solo e non tanto nel

danno all’immagine - che la Provincia ha ricevuto dalla condizione attrazione turistica, e

che deve fare i conti con pesanti ricadute sulla salubrità dell’ambiente - ma anche nel

danno derivante dal pesante fattore di rischio che la contaminazione ha causato sulle

prospettive di salute dei suoi cittadini e dal peso sociale di tali ricadute, anche in termini di

risorse che la comunità locale dovrà investire e destinare nel futuro, avendo il fattore

inquinante già prodotto i suoi effetti dannosi in ambito locale e quindi non risultando

suscettibile di bonifica».

Conclusa questa disamina, occorre chiarire i dettagli del caso Solvay. All’interno di

questo quadro normativo e giurisprudenziale che abbiamo sin qui esposto si sono dovuti

muovere i due Enti territoriali coinvolti: il Comune e la Provincia di Alessandria.

Il Comune ha lamentato, innanzitutto, un danno di immagine all’Ente locale derivante

dalla condizione di pregiudizio e degrado del territorio causato dagli imputati. Tale forma di

danno si sarebbe manifestata sotto un duplice aspetto: nella perdita di appeal, come capacità

di attrarre iniziative economiche e insediamenti umani, e - secondo aspetto - nella

compromissione dell’immagine dell’Ente nell’esercizio della sua azione amministrativa.

In più avrebbe subito danni di natura patrimoniale in quanto avrebbe svolto un’attività

amministrativa diversa e maggiore rispetto a quella che avrebbe compiuto in assenza delle

condotte incriminate.

Si è ritenuto, poi, che il Comune potesse stare in giudizio per il ristoro dei danni

patrimoniali subiti dall’AMAG, sua partecipata, per il costo dello scavo di pozzi e per il

monitoraggio della qualità dell’acqua emunta da tali pozzi.

La Provincia, invece, richiede alla Corte che sia riconosciuto il suo patito danno nella

forma di lesione all’immagine e di lesione alla sfera funzionale istituzionale; per il vulnus

recato al prestigio di tale pubblica amministrazione territoriale e per la compromissione della

propria funzione di “tutela e valorizzazione dell’ambiente”, di cui all’art. 19, I comma, lett.

A) D.Lgs. n. 267/2000 T.U.E.L.

Secondo l’avvocatura provinciale le alterazioni dell’ambiente, specie se di rilevanti

dimensioni come quelle in oggetto, determinano un allarme sociale che provoca un

“appannamento” dell’immagine dell’Amministrazione pubblica, la cui azione rischia di

apparire al cittadino inadeguata, inefficiente e insufficiente.

Correttamente, loro malgrado, non hanno richiesto voci di danno “ambientale”, per il

quale ha agito il Ministero dell’Ambiente, anch’esso costituitosi in giudizio, ai sensi del

D.lgs. 152/2006.

Già il G.U.P. aveva rigettato la richiesta di esclusione delle costituzioni di parte civile

dei due Enti succitati, sollevata dalle difese degli imputati e dei responsabili civili,

argomentando che agli Enti pubblici territoriali la legittimazione ad agire deriva dal rapporto

di immedesimazione con il territorio che li rende esponenziali della collettività, in quanto

titolari di specifiche competenze in materia di salvaguardia del patrimonio ambientale.

Le difese, nel successivo processo pendente davanti alla Corte di Assise, hanno

criticato tale impostazione, poiché secondo loro non sarebbe sufficiente a fondare la

legittimazione la titolarità astratta delle funzioni, se non si dimostrano in concreto i

pregiudizi subiti. Il danno non patrimoniale, come danno-conseguenza, sarebbe pienamente

soggetto ai normali oneri di allegazione e prova che caratterizzano la domanda risarcitoria

civile.

61

Esse si oppongono a qualsiasi richiesta di danni patrimoniali, in quanto il Comune non

avrebbe subito alcune forma di diminuzione di natura economica.

Quanto ai danni di immagine richiesti dai due Enti territoriali, le controparti ribattono

sostenendo la tesi, prima menzionata, che ai fini della sussistenza di tale tipo di danno siano

necessarie condotte criminose compiute da un proprio dipendente o funzionario,

nell’esercizio delle proprie funzioni.

Nel momento in cui si scrive è in corso la requisitoria del Pubblico ministero e

prossime saranno le conclusioni delle parti civili; entro l’autunno si aspettano gli interventi

conclusivi delle difese. Attendiamo quindi per il prossimo anno la sentenza, cui spetta, per

questo caso difficile, far luce e far giustizia.

L’articolo 5 del “Piano Casa” del governo Renzi. Un dubbio

bilanciamento tra esigenze di legalità e diritto alla casa di Elena Ponzo

85

Sommario:

1. “Piano casa” Renzi-Lupi: un focus sull’articolo 5 – 2. Le singole misure di

contrasto alle occupazioni abusive di immobili e i rispettivi profili di illegittimità

costituzionale – 2.1. L’impossibilità di richiedere e ottenere la residenza – 2.2. Il divieto di

allacciamento ai pubblici servizi – 2.3. L’esclusione quinquennale dalle procedure di

assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica – 2.4. L’ambito di applicazione del

provvedimento – 3. Note conclusive: il perseguimento della legalità nell’attuazione del

diritto all’abitazione pone in pericolo la democraticità dell’ordinamento?

1. Il “Piano casa” Renzi-Lupi: un focus sull’articolo 5

Con il riemergere di una nuova “questione abitativa”86

, i governi che si sono succeduti

negli ultimi anni si sono trovati di fronte alla necessità di porre in essere interventi normativi

orientati a disciplinare particolarmente due situazioni tipiche: una riguardante l’emergenza

abitativa vissuta da soggetti costretti stabilmente in condizioni precarie o di grave

sovraffollamento; l’altra focalizzata sulla crescente domanda di accesso agli alloggi di

edilizia residenziale pubblica da parte di nuove categorie sociali in difficoltà, che non

riescono ad accedere a un’abitazione dignitosa fruendo delle normali condizioni offerte dal

mercato, come giovani coppie, famiglie monoreddito, disoccupati o inoccupati, immigrati.

Nelle politiche volte ad attuare il “diritto all’abitazione” tradizionalmente si

ricomprendono anzitutto quei provvedimenti orientati a favorire l’accesso alla casa mediante

85

Già pubblicato su «Costituzionalismo.it», settembre 2014. 86

Per un’indagine dettagliata sulla questione abitativa in Italia e sulle politiche intraprese si rinvia al

documento predisposto dall’A.N.C.I. intitolato I Comuni e la nuova questione abitativa. Le nuove domande

sociali, gli attori, e gli strumenti operativi, Seconda Edizione Febbraio 2010, in particolare pp. 5-53, nonché

gli atti del Convegno Una casa per tutti. Abitazione sociale motore di sviluppo, tenutosi a Roma il 30

novembre 2011, consultabile sul sito www.federcasa.it. Per un approfondimento statistico e sociologico sul

punto, anche in ottica sovranazionale, si raccomanda la lettura di F. INDOVINA, Appunti sulla questione

abitativa oggi, in «Archivio di studi urbani e regionali», n. 82, 2005, consultabile su www.astrid-online.it. Per

una più ampia indagine generale sulla povertà in Italia si rinvia ai Rapporti annuali sulle politiche contro la

povertà e l’esclusione sociale, della Commissione di indagine sull’esclusione sociale (C.I.E.S.), consultabili

su www.governo.lavoro.it

62

forme alternative alla proprietà, quali la locazione di immobili a prezzi calmierati o

assegnazione di alloggi pubblici, ispirate all’idea di fondo della funzionalizzazione del

diritto privato87

. In secondo luogo rientrano nel novero di tali politiche sociali le misure di

agevolazione all’acquisto dell’abitazione per le categorie di soggetti meno abbienti ed

esposti al rischio di carenza abitativa88

.

Le recenti politiche abitative89

risultano, in generale, permeate da una nuova tendenza,

in sostanziale discontinuità rispetto al passato, quando gli interventi pubblici a garanzia del

87

L’art. 42 della Costituzione impone alla legge di riconoscere e garantire la proprietà privata, perseguendo

lo scopo di assicurarne la funzione sociale e l’accessibilità a tutti: il diritto di proprietà deve quindi essere

sempre bilanciato con la sua funzione sociale e con l’emersione di interessi diversi da quelli proprietari

altrettanto meritevoli di tutela. Nonostante le polemiche inerenti l’uso sociale della proprietà scaturite intorno

agli anni Settanta del Novecento, nel dibattito dottrinale è emerso, infine, che tra il diritto di proprietà e il

diritto all’abitazione debba prevalere quest’ultimo ogni volta che non sia possibile un soddisfacimento di

entrambi. I pubblici poteri, dunque, sono legittimati a porre limitazioni della proprietà privata e alle facoltà a

essa inerenti al fine di tutelare il diritto alla casa, ricorrendo eventualmente all’istituto dell’espropriazione per

pubblica utilità con l’acquisizione da parte dei comuni dei suoli da destinare all’edilizia residenziale

pubblica, oppure a strumenti quali il blocco degli affitti o il regime dell’equo canone. In tal senso T.

MARTINES, Il «diritto alla casa», in Opere, Tomo IV: Libertà e altri temi, Milano, Giuffrè, 2000, p. 15. Sul

punto, si rinvia altresì a D. SORACE, A proposito di «proprietà dell’abitazione», «diritto all’abitazione» e

«proprietà (civilistica) della casa», in Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, Giuffrè, 1977, vol. III,

pp. 1035 ss. 88

In realtà il disagio abitativo e la necessità di intervenire con misure a sostegno di soggetti economicamente

svantaggiati per la ricerca di un’abitazione non costituisce una novità nel nostro Paese. Basti in questa sede

citare a titolo esemplificativo i provvedimenti di “blocco” dei canoni di locazione e proroga dei contratti

stipulati prima del 1 marzo 1947, intervenuti tra gli anni 1947-1960, per favorire la ripresa economica delle

famiglie nel dopoguerra, fino ad arrivare alla Legge organica sulle locazioni di immobili urbani (c.d. Legge

sull’equo canone, n. 392 del 1978). In questo, come negli altri casi, si è sempre o quasi trattato tuttavia di

interventi monofunzionali, come, per l’appunto, la tutela dei conduttori di immobili in difficoltà post bellica.

Merita invece una particolare menzione il programma settennale (poi prorogato di altri sette anni)

denominato “Piano INA Casa”, elaborato dall’allora Ministro Amintore Fanfani, che prese il via con la legge

n. 43 del 1949, ricordato come uno dei momenti di maggiore sviluppo delle politiche abitative: l’ambizioso

progetto prevedeva la costruzione di abitazioni per i lavoratori, al fine anche di rilanciare l’economia

nazionale con l’applicazione delle teorie keynesiane, attraverso un sistema di finanziamenti provenienti da

prelievi sugli stipendi, suddivisi tra lavoratori e datori di lavoro, integrati da un contributo statale. In questo

caso, la tendenza fu quella di privilegiare la proprietà dell’abitazione mediante la promozione del riscatto

degli alloggi costruiti, secondo un piano di dismissione del patrimonio abitativo pubblico. Per un

approfondimento e contestualizzazione si rinvia a P. DI BIAGI (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano

INA-Casa e l’Italia degli anni Cinquanta, Donzelli, Roma, 2001. Per un approfondimento sulla

classificazione dei tipi di politiche per la casa si rinvia a S. CIVITARESE MATTEUCCI, L’evoluzione della

politica della casa in Italia, in «Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico», n. 1, 2010, pp. 168-169. 89

Il primo tentativo di affrontare in modo organico il tema del disagio abitativo si è avuto con la legge n. 9

del 2007 contenente Interventi per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali. Tali

iniziative consistevano, da un lato, in misure a favore degli inquilini in difficoltà in seguito a un

provvedimento di sfratto per finita locazione, aventi come corrispettivo la previsione di benefici fiscali a

favore dei proprietari; dall’altro lato, nella previsione di un piano straordinario triennale sulle politiche

abitative con l’obiettivo di predisporre le linee guida di un programma nazionale di edilizia residenziale

pubblica, ispirato all’idea di fornire alloggi a canone sociale anche attraverso l’acquisizione e il recupero di

alloggi già esistenti, la riqualificazione dei territori degradati, nel rispetto del principio di leale collaborazione

tra Stato ed Enti locali. L’art. 11 della Legge n. 133 del 2008, proseguendo nell’intento di predisporre un

“piano nazionale di edilizia abitativa”, si poneva il fine di garantire su tutto il territorio i livelli essenziali di

fabbisogno abitativo. A tale scopo, questa disposizione provvedeva alla costruzione di alloggi a vantaggio di

particolari categorie sociali, aggiungendo, rispetto alla precedente legge, un’elencazione dettagliata dei

soggetti a cui il Piano era rivolto. Anche in questo caso, gli interventi previsti possono essere ricondotti

sinteticamente alla costruzione di alloggi da destinare sia alla proprietà quale prima casa, sia in locazione a

canone sostenibile o sociale. Per un excursus sulle varie politiche per la casa, S. CIVITARESE MATTEUCCI, op.

cit., pp. 163-210; per le politiche abitative più recenti, specialmente a livello regionale, P. VIPIANA, La tutela

del diritto all’abitazione a livello regionale, in «Federalismi.it», n. 10, 2014.

63

diritto all’abitazione si presentavano come settoriali e monofunzionali. L’idea comune ai c.d.

“Piani Casa” è quella di rilanciare l’attività edilizia per favorire la ripresa economica,

perseguendo al contempo la soluzione della grave crisi abitativa sofferta da larghe fasce di

popolazione. Emerge quindi una doppia funzione nei vari provvedimenti sinora adottati: da

un lato, recuperare immobili fatiscenti e zone degradate e inutilizzabili nonché rilanciare

contestualmente il settore edile in un momento di grave crisi economica; dall’altro,

realizzare il fondamentale diritto sociale alla casa a favore di categorie svantaggiate90

.

Questa doppia funzione è stata da taluni enfatizzata come un punto di forza: l’idea di

utilizzare i fondi a disposizione come leva per un più ampio coinvolgimento di capitali,

anche privati, avrebbe potuto coniugare la doppia natura che da sempre permea il bene casa,

ossia quella di “bene sociale” e quella di “bene economico”. Secondo altri, invece, è stata la

causa di un nuovo fallimento dell’edilizia residenziale pubblica: la scarsità dei meccanismi

di controllo predisposti, lasciati alla successiva attuazione dei programmi, nonché l’esiguità

dei finanziamenti messi in campo, non hanno fatto che accentuare la percezione di mancata

realizzazione di quella che fin da subito poteva apparire come una chimera91

.

Il nuovo “Piano Casa” del governo Renzi, adottato su proposta del Ministro delle

infrastrutture e dei trasporti Maurizio Lupi, varato con decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47, e

convertito con legge 23 maggio 2014, n. 80, rubricata Misure urgenti per l'emergenza

abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015, pare porsi anch’esso in questa

prospettiva bi-funzionale: la strategia adottata, in questo caso, può essere sintetizzata in una

complessiva liberalizzazione degli interventi per il recupero di alloggi, anche ai fini

dell’adeguamento energetico e della ristrutturazione delle abitazioni fatiscenti e

inutilizzabili, ed eventualmente in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, con lo scopo,

ancora una volta, di favorire la ripresa economica attraverso l’attività edilizia e, al contempo,

dare una casa a tutti92

.

In questo lavoro il focus dell’indagine sarà concentrato su una sola delle misure

contenute nel nuovo Piano casa: l’articolo 5, che costituisce una forte presa di posizione

dell’ordinamento nei confronti delle situazioni di illegale occupazione abusiva di immobili.

Esso si pone come una novità rispetto alle precedenti politiche abitative, pur se orientato, in

continuità con esse, al recupero di alloggi da destinare all’edilizia sociale.

L’intento è quello di verificare la conformità di questa norma all’ordinamento

costituzionale: l’articolo 5 pone, infatti, gravi conseguenze a carico di chi occupa

abusivamente un immobile a uso abitativo, e le sue ricadute sono destinate a infierire sulle

situazioni di disagio abitativo più estremo della popolazione, in nome del ripristino della

legalità.

A questo fine, sarà utile analizzare nel dettaglio le varie misure adottate dal

provvedimento in oggetto.

2. Le singole misure di contrasto alle occupazioni abusive di immobili e i rispettivi

profili di illegittimità costituzionali

90

Sul diritto sociale all’abitazione, F. BILANCIA, Brevi riflessioni sul diritto all’abitazione, Napoli, Editoriale

Scientifica, 2011, spec. pp. 350-355.; T. MARTINES, «Il diritto alla casa», in N. LIPARI (a cura di), Tecniche

giuridiche e sviluppo della persona, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 391 ss.; S. SCAGLIARINI, Diritti sociali

nuovi e diritti sociali in fieri nella giurisprudenza costituzionale, in Atti del Convegno di Trapani dell’9

giugno 2012, su www.gruppodipisa.it. Per un più approfondito resoconto circa l’attuazione, l’efficacia del

“Piano casa” del 2008, e le cause della permanenza del disagio abitativo, al punto di definirlo come

«endemico nella società italiana», si veda S. CIVITARESE MATTEUCCI, op. cit., pp. 205-209. 91

Così S. CIVITARESE MATTEUCCI, op. cit., pag. 206. 92

Per un commento dettagliato alla Legge n. 80/2014 e alle misure ivi previste si rinvia a A. DONATI, Piano

Casa 2014. Tutte le novità dopo la conversione del D.L. 47/2014, Rimini, Maggioli Editore, 2014

64

2.1. L’impossibilità di richiedere la residenza

Il primo comma dell’ articolo 5 del Piano Casa prevede, anzitutto, che chi occupa

abusivamente un immobile senza titolo non può richiedervi la residenza, stabilendo al

contempo la nullità degli atti già emessi in violazione del divieto.

Per circoscrivere la portata di una simile disposizione è necessario indagare

preliminarmente su presupposti, ratio e rilevanza giuridica delle “sedi della persona”, e in

particolare della residenza, almeno sotto i profili che qui interessano, ossia quelli che ne

possono giustificare la qualificazione come un diritto idoneo a essere limitato.

Nel diritto amministrativo i concetti di domicilio, residenza e dimora sono

generalmente mutuati dal diritto privato, che ne detta la disciplina all’art. 43 comma93

: «il

domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari

e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale».

La residenza, a differenza del domicilio, non ha natura elettiva e corrisponde a una

mera situazione fattuale, i cui presupposti sono un elemento oggettivo, consistente nella

stabile permanenza del soggetto in un determinato luogo, e uno soggettivo, costituito dalla

volontà di rimanervi in modo duraturo94

.

In ordine ai requisiti per ottenere la residenza in un dato luogo appare utile la lettura

della Circolare del Ministero dell’Interno n. 8/199595

nella quale viene precisato che

l’Amministrazione comunale non ha discrezionalità nel suo rilascio, ma il solo dovere di

accertarne in modo oggettivo i presupposti, assicurandosi che vi sia corrispondenza tra

quanto dichiarato dal richiedente e la sua effettiva e non temporanea presenza nel luogo in

cui egli intende stabilirsi.

Nella circolare sopra citata vengono inoltre banditi tutti quei comportamenti adottati

eventualmente dalle amministrazioni comunali che, nell’esaminare le richieste di iscrizione

anagrafica, richiedano ulteriori requisiti come, per esempio, lo svolgimento di attività

lavorative sul territorio, oppure la natura dell’alloggio e la sua conformità alle prescrizioni

urbanistiche.

La mancanza di discrezionalità in capo all’amministrazione, nonché l’assenza di

particolari formalità richieste per l’iscrizione all’anagrafe, confermano quella che è la ratio

della residenza: la necessità in capo allo Stato di conoscere il luogo in cui ogni soggetto

risiede; si tratta dunque di un motivo di ordine pubblico. Una corretta tenuta delle

registrazioni anagrafiche persegue inoltre il fine della garanzia dei diritti individuali, in

quanto attraverso l’anagrafe si tutelano l’esistenza e la posizione del singolo, oltre che dei

nuclei familiari96

, tanto che per i soggetti aventi dimora abituale nel comune si configura un

vero e proprio obbligo di richiedere la residenza97

.

Il collegamento dell’istituto della residenza con un mero criterio fattuale è peraltro

confermato anche dal suo riconoscimento nei confronti dello straniero che in Italia ha la sua

93

Altre norme rilevanti in materia di residenza sono contenute negli artt. 44 e 45 comma, oltre che nelle leggi

n. 142/1990 e 1228/1954 (c.d. Legge anagrafica) e relativo regolamento di attuazione adottato con D.P.R. n.

223/1989 (c.d. Regolamento anagrafico). Per un approfondimento sulla disciplina amministrativa della

residenza, S. MERZ, Manuale pratico dei rapporti cittadino-Ente locale, Padova, Cedam, 1997, pp. 225-238. 94

L’ufficiale preposto ai servizi anagrafici deve pertanto accertare che il richiedente abbia fissato in un dato

posto la sua dimora con l’intenzione di rimanervi in modo stabile e non temporaneo, a nulla rilevando che la

presenza in tale luogo si sia già protratta per un periodo di tempo minimo. Cfr. Cass. 6 luglio 1983, n. 4525. 95

La Circolare del Ministero dell’Interno n. 8 del 29 maggio 1995, recante “Precisazioni sull’iscrizione

nell’anagrafe della popolazione residente, di cittadini italiani” è fondata sulla legge 24 dicembre 1954, n.

1228 (Legge anagrafica), e sul DPR 30 maggio 1989, n. 223 (Regolamento anagrafico). 96

In tal senso S. MERZ, op. cit., p. 227. 97

Cfr. Cass. n. 25726/2011

65

dimora attuale, rilevata in base alle sue consuetudini di vita e dallo svolgimento delle sue

relazioni98

.

Anche la prassi amministrativa recentemente instaurata di riconoscere la residenza

anche a coloro che abitano in situazioni precarie e di fortuna, come campi nomadi, camper e,

sino all’approvazione della legge in esame, immobili senza titolo legittimante99

.

Paradigmatico in tal senso risulta il caso della città di Torino, dove il Consiglio

comunale, dopo anni di richieste, petizioni, proteste e mobilitazione da parte dei rifugiati che

vivono sul territorio, ma anche di coordinamenti e associazioni cittadine, ha approvato lo

scorso dicembre una delibera per il riconoscimento della c.d. residenza “virtuale” al

simbolico indirizzo di via della “Casa Comunale 3” per i titolari di protezione internazionale

o umanitaria senza un domicilio stabile, al fine di consentire un puntuale monitoraggio della

presenza di tali persone e provvedere a interventi di sostegno nei loro confronti100

.

Una simile natura dell’istituto della residenza ha da sempre suggerito l’impossibilità di

alterarne la funzione in vista di un bilanciamento con altri interessi, pur se anch’essi degni di

considerazione, quali l’incolumità e l’ordine pubblico.

Se ne può concludere che la richiesta di iscrizione anagrafica, costituente oggetto di un

diritto soggettivo del cittadino, non appare vincolata ad alcuna condizione; diversamente si

verrebbe a limitare la libertà di spostamento e di stabilimento dei cittadini sul territorio

nazionale in violazione dell’art. 16 della Carta costituzionale101

.

Ebbene l’ articolo 5 del nuovo Piano Casa, mirando al ripristino delle situazioni di

legalità, intende impedire che chi occupa un immobile abusivamente possa, in relazione a

tale immobile, ottenervi la residenza.

Viene sostanzialmente operata una modifica nei parametri per valutare la richiesta di

iscrizione anagrafica: la legittimità della richiesta non verrà più misurata sulla base

dell’abitualità della dimora nell’abitazione, ma della regolarità del titolo di occupazione102

.

La dichiarazione di residenza dovrebbe risultare quindi irricevibile dagli uffici comunali,

qualora non si dimostri la legittimità del titolo di occupazione dell'alloggio.

Una simile soluzione, in effetti, pare limitare la libertà di stabilimento, corollario della

libertà di circolazione e soggiorno, in quanto il fenomeno delle occupazioni abusive

98

Cass. Sez. Un., 9 luglio 1974 n. 2004. L’art. 13 del Regolamento anagrafico (D.P.R. n. 223/1989) prevede

che le dichiarazioni anagrafiche di trasferimento da altro comune o dall’estero siano rese entro venti giorni

dal fatto del cambio di abitazione; per i cittadini stranieri oltre al requisito della dimora abituale nel territorio

comunale, è prevista la verifica dei requisiti per il soggiorno sul territorio italiano (ai sensi del D. Lgs n.

30/2007 per i cittadini comunitari, e del D. Lgs n. 286/1998 per quelli extracomunitari); le variazioni

anagrafiche dei cittadini stranieri, se regolarmente soggiornanti, devono avvenire alle medesime condizioni

dei cittadini italiani. 99

Così S. TALINI, Piano casa Renzi–Lupi, articolo 5: quando la cieca applicazione del principio di legalità

contrasta con la garanzia costituzionale dei diritti fondamentali, consultabile su www.costituzionalismo.it, 3

maggio 2014. 100

Consiglio comunale della città di Torino, Ordinanza n. 139 del 23 dicembre 2013, prot. 07394/019, su

www.comune.torino.it. 101

Anche queste ultime considerazioni conclusive sono portate nel testo della Circolare n. 8/1995 del

Ministero dell’Interno. 102

Si noti che a differenza di quanto previsto in ordine al divieto di allacciamento ai pubblici servizi, a cui si

rinvia infra, per quanto attiene all’impossibilità di richiedere la residenza, l’ articolo 5 in esame non prevede

specificamente in capo al richiedente obblighi di esibizione di documenti che comprovino il legittimo

possesso o detenzione dell’immobile. Ci si domanda come potranno gli uffici comunali anagrafici verificare

la regolarità o meno del titolo di occupazione dell’alloggio. Cfr. Scheda di lettura D.L. 47/2014 – A.C. 2373,

n. 163 del 15 maggio 2014, di cui alla Documentazione per l’esame dei progetti di Legge presso la Camera

dei Deputati, p. 26.

66

difficilmente potrebbe integrare un “motivo di sicurezza” di cui al primo comma dell’art. 16

Cost103

.

La residenza costituisce inoltre, e non di rado, il requisito, o il criterio di preferenza,

per ottenere determinate prestazioni ed esercitare diritti costituzionalmente garantiti104

, tra

cui spiccano in particolar modo la possibilità di accedere alle procedure di assegnazione di

alloggi di edilizia residenziale pubblica, l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, la

frequentazione della scuola dell’obbligo, il collocamento per ottenere l’opportunità di un

lavoro, la possibilità di inserire le famiglie nelle graduatorie per gli asili nido, solo per

citarne alcune di quelle attinenti ai principali diritti sociali garantiti dalla Costituzione, senza

dimenticare l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo105

.

L’irricevibilità della domanda di iscrizione anagrafica nel caso di assenza di un titolo

ad abitare un alloggio sembra dunque determinare una limitazione di garanzie

costituzionalmente stabilite, e determinare una grave e irreparabile condizione di esclusione

a danno di singoli, nonché di nuclei familiari106

, che si trovino in condizioni di disagio

abitativo, idoneo a tradursi nella negazione nei loro confronti «del diritto a esistere nella

società»107

.

2.2. Il divieto di allacciamento ai pubblici servizi

Accanto al divieto di richiedere la residenza, il primo comma dell’ articolo 5 stabilisce

l’impossibilità di beneficiare dell’allacciamento ai pubblici servizi per chi occupa

abusivamente un immobile, stabilendo, anche in questo caso, la retroattività della

preclusione.

In sede di conversione del decreto-legge è stato aggiunto un periodo al primo comma,

che precisa come gli atti aventi a oggetto l'allacciamento dei servizi di energia elettrica, di

gas, di acqua e di telefonia fissa, nelle forme della stipulazione, della volturazione, del

rinnovo, siano nulli, e pertanto non possano essere stipulati o comunque adottati, qualora

non riportino i dati identificativi del richiedente e il titolo che attesti la proprietà, il regolare

possesso o la regolare detenzione dell'unità immobiliare in favore della quale si richiede

l'allacciamento.

Con riferimento al divieto di allacciamento ai pubblici servizi, si prevede infine

espressamente che, onde consentire ai soggetti somministranti la verifica dei dati dell'utente

103

Per un approfondimento su dottrina e giurisprudenza costituzionale in tema di libertà di circolazione e

soggiorno, si rinvia a G. AMATO, Art. 16, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Rapporti

civili, Zanichelli-Il foro italiano, Bologna-Roma, 1977, pp. 114-135. 104

Si rinvia sul punto a G. LANDI, Domicilio, residenza e dimora (dir. amm.) (voce), in Enciclopedia del

Diritto, Milano, Giuffré, vol. XIII, 1964, pp. 851 – 856, spec. p. 855. Sulla residenza qualificata dalla

permanenza sul territorio da un certo numero di anni, quale requisito per accedere all’edilizia residenziale

pubblica, I. BORIA, Il social housing tra tutela del diritto universale all’abitazione e discriminazioni fondate

sulla residenza, in «Sintesi dialettica per l’identità democratica», n. 6, 2013, su www.sintesidialettica.it. 105

Possono pertanto determinarsi profili di illegittimità costituzionale in relazione agli artt. 2 (principio

solidaristico e inviolabilità dei diritti della persona), 3 comma 2 (principio di uguaglianza sostanziale), 4

(diritto al lavoro), 29 (tutela accordata alla famiglia), 32 (diritto alla salute), 34 (diritto allo studio), 48 (diritto

di voto). 106

Si tenga presente che la residenza è anche un “luogo della famiglia” ai sensi dell’art. 45 comma, in quanto

all’interno di essa si svolge la personalità dei suoi membri, nonché l’esercizio dei diritti a essa connessi come

formazione sociale tutelata dall’art. 2 e 29 comma 1 della Costituzione. Tanto è vero che, come è stato

affermato «il diritto ha bisogno del dove. Soggetti, cose, atti abitano nello spazio […]. C’è, nel profondo

nascere e svolgersi del diritto, un legame terrestre, un’originaria necessità di luoghi»: N. IRTI, Norma e

luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, Laterza 2002, p. 3. Sulla relazione tra le sedi della persona fisica

e i diritti della famiglia sotto il profilo civilistico, G. FREZZA, I luoghi della famiglia, Torino, Giappichelli,

2004. 107

S. TALINI, op. cit.

67

e la regolarità della loro posizione, i richiedenti siano tenuti a produrre idonea

documentazione relativa al titolo che attesti la proprietà, il regolare possesso o la regolare

detenzione dell'unità immobiliare, in originale o copia autentica, o a rilasciare dichiarazione

sostitutiva di atto di notorietà ai sensi dell'art. 47 del Testo Unico di cui al DPR n.

445/2000108

.

Anche questa norma pone alcuni problemi di compatibilità con l’ordinamento

costituzionale e i diritti fondamentali della persona, in quanto sottrae alla disponibilità degli

individui e delle famiglie beni indispensabili per lo svolgimento delle quotidiane abitudini di

vita, tanto più che è destinata a travolgere anche situazioni già in essere. Si pensi solo alla

negazione dei servizi idrici109

, e alle conseguenze sul piano igienico e sanitario destinate a

ricadere sui destinatari (in violazione dell’art. 32 Cost.), oltre alla turbativa delle condizioni

di vita privata e di unità familiare (art. 29 Cost.), che la Costituzione impone alla Repubblica

di tutelare, con evidenti effetti negativi sul piano della dignità della persona (artt. 2 e 3

Cost.)110

.

2.3. L’esclusione quinquennale dalle procedure di assegnazione di alloggi di edilizia

residenziale pubblica

Il comma 1 bis della legge n. 80/2014 prevede un’ulteriore misura di contrasto alle

pratiche illegali di reperimento di un’abitazione, inserita in sede di conversione del decreto

108

E, come si è detto, una simile specificazione manca in relazione al divieto di richiedere la residenza. 109

Le Nazioni Unite hanno approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua potabile e ai servizi

igienico-sanitari come diritti umani fondamentali il 28 luglio 2010 a New York. La storica risoluzione, su

mozione presentata da Evo Morales Ayma, Presidente della Bolivia, e da una trentina di altri paesi, sancisce

che «l’acqua potabile e i servizi igienico-sanitari sono un diritto umano essenziale per il pieno godimento del

diritto alla vita e di tutti gli altri diritti umani». Nel testo della risoluzione si legge inoltre che «gli Stati

nazionali dovrebbero dare priorità all'uso personale e domestico dell'acqua al di sopra di ogni altro uso e

dovrebbero fare i passi necessari per assicurare che questo quantità sufficiente di acqua sia di buona qualità,

accessibile economicamente a tutti e che ciascuno la possa raccogliere ad una distanza ragionevole dalla

propria casa» (Risoluzione ONU A/RES/64/292 - 28 July 2010, The human right to water and sanitation, su

www.un.org.) 110

Le norme costituzionali che più evidentemente si prestano a essere violate dalla normativa in oggetto

sono, infatti, gli articoli 2 e 3, espressione dei principi di libertà e dignità dell’esistenza dell’individuo e dei

diritti inviolabili della persona umana. Ma l’impossibilità di fruire dell’allacciamento ai pubblici servizi

comporta altresì la violazione di tutta una serie di diritti colpiti indirettamente, quali il diritto alla salute (art.

32 Cost.), il diritto alla tutela della vita familiare (art. 29 Cost.), il diritto costituzionale alla sicurezza, inteso

«sia come attività statale per tutelare il cittadino da rischi e pericoli sociali, sia come diritto fondamentale,

quale condizione per l'esercizio delle libertà e per la riduzione delle disuguaglianze»: T. E. FROSINI, Il diritto

costituzionale alla sicurezza, su www.forumcostituzionale.it. Questo valore costituzionale può essere messo

in pericolo dalla emergente necessità per le famiglie di procurarsi allacciamenti abusivi ai pubblici servizi,

nonché dalle possibili conseguenze di tipo sociale che potrebbero crearsi in seguito all’improvviso distacco

delle utenze che non siano in grado di dimostrare la legittimità del titolo di occupazione dell’alloggio. Inoltre

non mancano documenti internazionali che si pongono a presidio della dignità umana, relativamente alla

“adeguatezza” delle condizioni di vita dei nuclei familiari. L’art. 25 della Dichiarazione Universale dei

Diritti Umani e l’art. 11 del Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (Pidesc)

riconoscono nell’abitazione una componente necessaria del diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la

salute ed il benessere proprio della persona e della sua famiglia, nonché del diritto a un livello di vita

adeguato e al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita. Con la Risoluzione dell’Assemblea

Generale delle Nazioni Unite n. A/55/2, dell’8 settembre 2000 (c.d. “Dichiarazione del Millennio”), inoltre,

sono stati individuati otto obiettivi di sviluppo da perseguire entro il 2015, intesi a dare attuazione ai principi

di dignità umana, uguaglianza, equità, libertà, solidarietà, tolleranza e rispetto della natura. Ma il “diritto

sociale a un’abitazione degna” emerge anche nel Rapporto stilato dall’Ufficio dell’Alto Commissariato ONU

per i Diritti Umani, intitolato The right to adeguate housing: da questo diritto discenderebbe la protezione

delle famiglie contro gli sfratti coattivi e gli ordini di demolizione delle proprie case; situazioni, queste, che

paiono accostabili alla turbativa creata da un distacco improvviso dall’allacciamento ai pubblici servizi.

68

legge n. 47/2014. Si tratta dell’esclusione dalle procedure di assegnazione di alloggi di

edilizia residenziale pubblica, in caso di occupazione abusiva di immobili dello stesso tipo

per i cinque anni successivi all’accertamento della condotta.

Si ha già avuto modo di rilevare come l’iscrizione anagrafica nel comune costituisca

requisito per l’accesso alle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi di edilizia

residenziale pubblica.

Questo comma sembra pertanto sovrapporsi al primo, dal momento che l’accertamento

dell’occupazione determina l’impossibilità di ottenere la residenza e, quindi,

automaticamente anche l’accesso alle procedure di assegnazione degli alloggi.

Residuerebbe, in tal caso, la sua operatività solo per i casi in cui, successivamente

all’accertamento dell’occupazione abusiva, il richiedente abbia trovato altra sistemazione

regolare presso il libero mercato, ottenendo la relativa residenza: egli dovrebbe, in forza

dell’ articolo 5 comma 1 bis, attendere cinque anni prima di iscriversi nella graduatoria delle

case popolari.

Il caso ipotizzato, tuttavia, non sembra bene adattarsi alla realtà delle famiglie che

vivono il disagio abitativo: infatti, chi per ipotesi sarà in grado di uscire dalla condizione di

occupante abusivo e ottenere un alloggio rivolgendosi alla libera contrattazione privata,

evidentemente non rientrava sin dall’inizio nella categoria degli occupanti abusivi per

necessità. Di conseguenza egli non sarà particolarmente dissuaso dalla norma in oggetto,

perché le sue condizioni non soddisferebbero comunque i requisiti per accedere agli alloggi

di edilizia residenziale pubblica.

La disposizione introduce invece una grave sanzione nei confronti di coloro che

vivono in condizione di illegale abusività per la reale mancanza di una soluzione abitativa

alternativa. In tali casi, si ribadisce, la misura è superflua in quanto coloro che si trovano in

questa condizione non accederebbero in ogni caso alle procedure di assegnazione in quanto

privi dello status di residente111

.

Altro profilo di interesse costituzionale in relazione al comma 1 bis riguarda il riparto

di competenze legislative nella materia dell’edilizia residenziale pubblica, che non compare

tra quelle elencate nel secondo e nel terzo comma dell'art. 117 Cost., ma si estende su tre

livelli normativi. Il primo riguarda la determinazione dell'offerta minima di alloggi destinati

a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti: in tale determinazione, che rientra nella

competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., si

inserisce la fissazione di principi che garantiscano l'uniformità dei criteri di assegnazione su

tutto il territorio nazionale. Il secondo livello normativo riguarda la programmazione degli

insediamenti di edilizia residenziale pubblica, che ricade nella materia “governo del

territorio”, ai sensi del terzo comma dell'art. 117 Cost. Il terzo livello normativo, rientrante

nel quarto comma dell'art. 117 Cost., riguarda la gestione del patrimonio immobiliare di

edilizia residenziale pubblica di proprietà degli Istituti autonomi per le case popolari o degli

altri enti che a questi sono stati sostituiti ad opera della legislazione regionale112

.

111

Potrebbe soccorrere in questi casi l’adozione di misure come quelle adottate dalla città di Torino, cui si è

accennato, consistenti nella creazione di una “residenza virtuale”: non in un luogo reale ma simbolico, allo

scopo di regolarizzare la presenza di persone sul territorio, tenerne il conteggio, provvedere ai servizi

essenziali nei loro confronti, tra cui l’assegnazione di una casa popolare. 112

Questo è l’orientamento della Corte costituzionale assunto con la sent. n. 94/2007, ribadito nella n.

166/2008 e 121/2010. Per un commento all’orientamento della Consulta sul riparto di competenze legislative

nella materia dell’Edilizia residenziale pubblica, V. VALENTI, L’edilizia residenziale pubblica tra livelli

essenziali delle prestazioni e sussidiarietà. Osservazioni alla sentenza della Corte costituzionale n. 166/2008,

in «Federalismi.it», n. 4, 2009.

69

Secondo l’orientamento della Corte costituzionale113

, i criteri di accesso alle procedure

di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica non rientrano nella

determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, di competenza statale, ma nella

gestione del patrimonio immobiliare, di competenza residuale delle regioni. La disposizione

in oggetto potrebbe pertanto essere dichiarata incostituzionale per violazione dell’art. 117,

quarto comma, Cost.

2.4. L’ambito di applicazione del provvedimento

L’ articolo 5 del Piano Casa è orientato al ripristino delle condizioni di legalità in tutti

quei casi in cui sia in corso l’occupazione abusiva di un immobile, a danno dei diritti

proprietari sullo stesso114

.

L'ordinamento giuridico prevede forme di tutela, sia in sede civile che penale, a favore

di chi subisca l'occupazione senza titolo del proprio immobile, mettendo a disposizione sia

strumenti di natura civile, sia rimedi penalistici.

In sede civile, il proprietario potrà esperire l’azione di rivendicazione (articolo 948

c.c.), oppure l’azione di reintegrazione nel possesso (articolo 1168 c.c.), nei confronti di

chiunque possieda o detenga l’immobile abusivamente, potendo conseguire anche il

risarcimento dei danni subiti, oltre che una sentenza contenente l’ordine di rilascio

dell’immobile.

In sede penale sussiste invece la fattispecie di invasione di terreni od edifici (articolo

633 c.p.); a tale illecito sono inoltre ricollegabili altri reati funzionalmente collegati

all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (articolo 635 c.p.) e la violazione di

domicilio (articolo 614 c.p.).

Sorge a questo punto spontaneo domandarsi a quali fattispecie concrete l’articolo 5 del

Piano Casa possa ritenersi applicabile. Nella relazione illustrativa del disegno di legge di

conversione del decreto-legge n. 47/2014 emerge la finalità propria della manovra: il

ripristino delle situazioni di legalità compromesse dalla sussistenza di fatti penalmente

rilevanti115

. Si tratta di una dichiarazione esplicita della volontà del legislatore, in base alla

quale l’articolo 5 potrebbe applicarsi solo in seguito a una sentenza penale irrevocabile di

condanna per invasione di terreni o edifici, oppure dei reati a essa collegati, nonostante la

113

Cfr. Corte cost., ord. n. 32/2008. Nel caso pervenuto innanzi alla Consulta, una legge della Regione

Lombardia, che introduceva il requisito della residenza o lavoro nel territorio per almeno cinque anni per

accedere all’edilizia residenziale pubblica, è stata ritenuta non lesiva della competenza statale in materia di

determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale: secondo la

Corte costituzionale, l’introduzione di un simile criterio di accesso è da ricondursi alla competenza residuale

della regione in quanto investe la gestione del patrimonio immobiliare. Per un approfondimento, F. BIONDI

DAL MONTE, I livelli essenziali delle prestazioni e il diritto all’abitazione degli stranieri, in G. CAMPANELLI,

M. CARDUCCI, N. GRASSO, V. TONDI DELLA MURA (a cura di), Diritto costituzionale e diritto amministrativo.

Un confronto giurisprudenziale, Atti del Convegno annuale dell’Associazione Gruppo di Pisa, Lecce 19-20

giugno 2009, Torino, Giappichelli, pp. 214-226, spec. 217-224. 114

Possono configurarsi varie tipologie di occupazione abusiva rilevanti in sede civile e penale

nell’ordinamento giuridico: il primo caso è quello del terzo che occupi e goda del tutto arbitrariamente di un

immobile senza che sia precedentemente esistito alcun titolo a suo favore (in genere si tratta dell’occupazione

violenta di una casa sfitta); segue la situazione dell’inquilino che continui ad abitare l’immobile anche dopo

che un contratto, originariamente valido ed efficace, abbia successivamente cessato di produrre i propri effetti

per esempio in seguito a sfratto per morosità o per finita locazione; ancora, può configurarsi il caso del terzo

che abbia concluso un contratto di cui il proprietario dell’immobile metta in discussione o l’originaria

validità (per esempio per difetto di forma) 115

Cfr Dossier del Servizio Studi sull’A.S. 1413 , n. 123, aprile 2014, su www.senato.it.

70

formulazione letterale della disposizione parrebbe riferirsi anche alle occupazioni abusive

per le quali sia stata esperita la sola tutela civilistica116

.

In ogni caso sarà necessaria una sorta di “certificato di abusività”, consistente in un

provvedimento di tipo giurisdizionale.

Entra a questo punto in considerazione l’interrogativo intorno a quale condotta debba

essere considerata “abusiva” ai fini dell’applicabilità dell’ articolo 5 in oggetto.

Si pensi a quei particolari casi di occupazioni scriminate in sede giudiziale in virtù

dell’operatività dello stato di necessità, ai sensi dell’ articolo 54 c.p., quale causa di

giustificazione: la giurisprudenza tende a estendere, infatti, il concetto di “danno grave alla

persona” alle situazioni che minacciano anche solo indirettamente l’integrità fisica del

soggetto, ma costituiscono un pericolo per altri beni primari collegati alla personalità, quali

il diritto all’abitazione117

.

Potrà dunque lo stato di necessità essere dedotto quale titolo legittimante

dell’occupazione abusiva, consentendo con ciò a chi lo invoca di ottenere la residenza e

l’allacciamento ai pubblici servizi?

Se la risposta fosse affermativa, dovremmo da un lato ammettere positivamente

l’esistenza di una “clausola di salvaguardia” contro l’iniquità dell’ articolo 5 a favore di chi

si trovi in stato di necessità dichiarato giudizialmente.

In tal modo si rischierebbe tuttavia di porre una discriminazione a svantaggio dei

soggetti i quali non siano stati denunciati penalmente e siano pertanto sprovvisti di un

documento giudiziale attestante il loro stato di bisogno: essi non sarebbero colpiti dall’

articolo 5, almeno nell’immediato (e in futuro?); eppure al contempo non potrebbero

beneficiare di un eventuale titolo legittimante, come l’accertamento giudiziale dello stato di

necessità.

3. Note conclusive: il perseguimento della legalità nell’attuazione del diritto

all’abitazione pone in pericolo la democraticità dell’ordinamento?

Il fenomeno crescente delle occupazioni abusive è particolarmente rilevante nelle

agende politiche, da un lato in ragione della sottostante illegalità di cui è espressione;

dall’altro, in quanto alterazione del funzionale collegamento che l’ordinamento stabilisce tra

il previo accertamento di una necessità abitativa meritevole di tutela e l’effettiva

soddisfazione di tale importante fabbisogno, che si concretizza a mezzo dell’assegnazione

dell’alloggio pubblico. La pratica diffusa delle occupazioni abusive come mezzo per

procurare a sé e alla propria famiglia una soluzione abitativa è, oltretutto, foriera di un grave

pregiudizio economico: l’inesistenza di un’obbligazione contrattuale avente come oggetto il

pagamento di un corrispettivo per l’uso e il godimento dell’alloggio produce e consolida la

mancanza di redditività del patrimonio immobiliare118

.

Non è pertanto negabile il disvalore sottostante al fenomeno in oggetto, né è

biasimabile la volontà da parte delle istituzioni di porre un argine alla sua ormai

incontrollabile espansione.

116

In tal senso Scheda di lettura D.L. 47/2014 – A.C. 2373, n. 163 del 15 maggio 2014, di cui alla

Documentazione per l’esame dei progetti di Legge presso la Camera dei Deputati, p. 26. 117

Cfr., tra le più recenti, Cass. pen. Sent. n. 19147/2013, in cui si sostiene che «l’illecita occupazione di un

bene immobile è scriminata dallo stato di necessità conseguente al danno grave alla persona, che ben può

consistere anche nella compromissione del diritto di abitazione, sempre che ricorrano, per tutto il tempo

dell’illecita occupazione, gli altri elementi costitutivi della scriminante, quali l’assoluta necessità della

condotta e l’inevitabilità del pericolo». In senso contrario, si veda, tra altre, Cass. pen. Sent. n. 15279/2013. 118

Così si legge nella Relazione sulla gestione dell’edilizia residenziale pubblica, Deliberazione n. 10/2007,

Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie, su www.federcasa.it.

71

In fondo l’obiettivo delle politiche per la casa consiste nel recupero di immobili da

destinare all’edilizia sociale, nell’ottica di attuazione del diritto all’abitazione, e con

modalità rientranti nella discrezionalità del legislatore.

Quando si parla del contenuto del diritto all’abitazione, del resto, aleggia la

consapevolezza della sua natura di «diritto sociale di grandi incertezze»119

, il cui contenuto è

stato definito in vari modi dalla Corte costituzionale, ma pur sempre in modo condizionato

alle risorse finanziarie disponibili in un dato momento storico e congiunturale120

.

Non pare pertanto potersi profilare una lesione diretta del diritto all’abitazione da parte

del provvedimento in esame: solo il tempo e l’applicazione di questa politica nella realtà

potranno decretarne il successo e l’opportunità dal punto di vista dell’obiettivo dichiarato di

porre un argine all’emergenza abitativa attraverso le sue misure nel complesso considerate.

È pur vero, però, che, salvo ulteriori interventi legislativi compensativi, «la norma

introdotta con l'articolo 5 rischia, di fatto, di rendere invisibili, causa la cancellazione

dall'anagrafe, migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini che non potranno, stante la

loro situazione di estrema precarietà economica, trovare altra sistemazione alloggiativa che

non sia la strada; a questo si aggiungerà la mancanza di utenze che renderà la situazione

ancora più allarmante con la possibilità che si determinino gravi disordini sociali; tutto ciò si

ripercuoterà soprattutto nei confronti di migliaia di persone che, in mancanza di risposte da

parte delle istituzioni, si troveranno costrette ad occupare stabili, ex scuole, fabbriche, uffici,

abbandonati da anni e in condizioni di estrema incuria, per dare una risposta a se stessi e alle

proprie famiglie». Si rischia, così, di «allargare ulteriormente il solco tra le fasce impoverite

dalla crisi, dalla disoccupazione e dalla precarietà (sempre più numerose) e il resto del

Paese»121

.

Il primo riferimento all’universo dei diritti fondamentali che immediatamente si coglie

è il “diritto alla sopravvivenza”, al quale vengono tradizionalmente ricondotti in vario modo

la maggior parte dei diritti sociali, alla cui garanzia si àncora il concetto di democrazia

sociale122

.

La Costituzione italiana e gli atti e documenti sovranazionali e internazionali

attribuiscono inoltre particolare rilievo al “diritto all’esistenza”, intendendosi per tale non

«qualsiasi forma di esistenza, bensì a quella che dà pienezza alla libertà e alla dignità»123

.

Non ci si può pertanto limitare a pretendere che l’ordinamento assicuri un diritto «a non

crepare di freddo e di stenti per grazia di Stato. Il diritto all’esistenza è intessuto di libertà e

dignità; è intessuto di cittadinanza, con il suo carico di diritti a partecipare alla vita

economica, sociale, politica del Paese e di doveri a contribuire al suo progresso materiale e

spirituale; è intessuto di pienezza di vita, teso com’è al pieno sviluppo della persona umana,

con i suoi bisogni materiali, ma anche sociali, culturali, intellettuali, spirituali»124

. Come a

119

F. MODUGNO, I “nuovi diritti”nella giurisprudenza costituzionale, Torino, Giappichelli, 1995, p. 58. 120

Così Corte cost. sent. n. 252/1989, punto 3 del Considerato in diritto: «come ogni altro diritto sociale,

anche quello all'abitazione è diritto che tende ad essere realizzato in proporzione delle risorse della

collettività». 121

Così si legge nell’ordine del giorno n. 9/2373/7, presentato in sede di conversione del decreto-legge n.

47/2014, ove si richiede al Governo di «prevedere, in accordo con le Amministrazioni locali, un piano di

interventi tesi ad affrontare l'emergenza abitativa in tutti i suoi aspetti, compresi quelli che hanno portato

all'occupazione di immobili abbandonati ed in disuso al fine di non creare, con l'applicazione immediata di

quanto previsto al comma 1 dell'articolo 5 del presente decreto, situazioni di grave tensione sociale nel

Paese». 122

In tal senso L. FERRAJOLI, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. 2, Roma-Bari,

Laterza, 2007, pp. 392-393. 123

S. RODOTÀ, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 157. 124

C. TRIPODINA, Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa. Sui fondamenti costituzionali del reddito di

cittadinanza, Torino, Giappichelli, 2013, p. 8.

72

dire: «se è vero che lo scopo del diritto e la ragione sociale delle istituzioni politiche è la

tutela della vita, allora è la soddisfazione dei minimi vitali, e non soltanto il divieto di

uccidere, che deve entrare a far parte delle clausole del patto di convivenza quale corollario

del diritto alla vita»125

.

Il sopra descritto paradigma della democrazia sociale sembra nel complesso frustrato

dal provvedimento in oggetto, il quale non assicura un diritto all’esistenza libera e dignitosa

né così come prospettato, né nella concezione più riduttiva di tale diritto. L’impossibilità a

beneficiare dell’erogazione del gas, della corrente elettrica, dell’acqua, possono mettere a

serio rischio anche le condizioni di vita minime materiali, costringendo i nuclei familiari,

anche solo per un istinto di sopravvivenza, a ricorrere, quando possibile, a mezzi precari di

rifornimento delle risorse, attraverso allacciamenti abusivi, a rischio della sicurezza

collettiva.

Simili condizioni di vita, prive delle più basilari risorse quali gas, corrente elettrica e

acqua, sono paragonabili a un’esistenza vissuta avvalendosi di mezzi di fortuna per il riparo

della propria persona quali bassifondi e insediamenti abusivi, case abbandonate, container da

trasporto, piattaforme e binari ferroviari, argini ai bordi delle strade, tetti, scantinati, scale. In

queste situazioni, «la mancanza di una dimora, dovuta a incapacità economica, facilmente

ingenera sentimenti di fallimento, commiserazione e disprezzo di sé e viene chiaramente

frustrato il pieno sviluppo della persona umana»126

.

Sarà allora necessario per il legislatore prevedere almeno strumenti compensativi al

fine di arginare le situazioni più disperate, e questo perché «la garanzia dei diritti sociali, per

quanto economicamente costosa, lo è assai meno della loro mancanza o violazione»;

pertanto la stessa non costituisce «solo una condizione di democrazia sociale e una

precondizione della democrazia politica e liberale, ma anche un fattore essenziale della

crescita economica e della stessa democrazia civile»127

.

125

L. FERRAJOLI, op. cit., p. 393. 126

P. CHIARELLA, Il diritto alla casa: un bene per altri beni, in «Rivista di Scienze della Comunicazione», n.

2, 2010, p. 137. 127

L. FERRAJOLI, op. cit., p. 399.

73

PARTE IV

ELEZIONI E ORGANI

I dipartimenti in Francia di Nicola Dessì

Ordinamento giuridico dei dipartimenti.

1. Principi costituzionali delle collettività territoriali, dopo la riforma del 2003. Con la legge costituzionale 2003-276, la Costituzione del 1958 risulta profondamente

riformata in tema di collettività territoriali. Il nuovo art. 72 della Costituzione comprende

fra le collettività territoriali le regioni, oltre a dipartimenti e comuni. Per il comma 2, le

collettività territoriali “prendono le decisioni per l'insieme delle competenze che meglio

possono essere svolte al loro livello”; al comma 3 - nel ribadire la necessità di Consigli

eletti - si assegna agli enti locali il potere regolamentare per l'esercizio delle loro

competenze.

La riforma costituzionale del 2003, inoltre, introduce il diritto di petizione per i

cittadini delle collettività territoriali, nonché - alle condizioni previste da legge organica -

la possibilità del referendum sui progetti di delibera e sugli atti da esse adottati (art. 72). Le

collettività territoriali possono disporre di risorse finanziarie, alle condizioni stabilite dalla

legge, ricevendo il gettito da imposizioni fiscali di ogni natura, per l'intero o in parte; la

legge può autorizzare gli enti locali a fissare l'aliquota e la base imponibile di ciascun

tributo, ed è previsto un fondo perequativo nazionale.

2.2 Ordinamento legislativo dei dipartimenti. Codice generale delle collettività

territoriali. All'organizzazione amministrativa dei dipartimenti è riservata la parte terza del

Codice generale delle collettività territoriali (legge n. 142 del 12 febbraio 1996, e

successive modifiche).

- Arrondissements e cantoni. Ogni dipartimento è diviso in arrondissements e

cantoni, la cui creazione o soppressione, è decisa con decreto del Consiglio di Stato sentito

il Consiglio dipartimentale interessato; le modifiche al territorio sono invece decise dai

prefetti regionali, dietro consultazione del Consiglio dipartimentale. Gli arrondissements

fungono da ambito territoriale per le sotto-prefetture.

74

I cantoni sono la base territoriale per l'elezione dei Consigli dipartimentali, che è

infatti definita “elezione cantonale”; ogni cantone elegge due consiglieri, con scrutinio a

doppio turno di collegio: si presentano liste bloccate formate da un binomio di candidati,

con alternanza di genere, e il binomio che ottiene più voti è eletto in blocco nel Consiglio

dipartimentale.

- Consigli dipartimentali e loro Presidenti. I Consigli dipartimentali - denominazione

che sostituirà, a partire dalle elezioni del 2015, quella di “Consigli generali”, introdotta nel

1871 - sono eletti a suffragio universale, per un mandato di sei anni. Il Codice delle

collettività territoriali rinvia, per l'elezione dei Consigli, agli artt. 191-192 del Codice

elettorale. In occasione di ogni rinnovo, il Consiglio si riunisce di diritto ed elegge a

maggioranza dei suoi componenti - assoluta, per i primi due scrutini; relativa, a partire dal

terzo - il Presidente; elegge, inoltre, una commissione permanente, formata da consiglieri

generali, con il compito di coadiuvare il Presidente. In caso di dimissioni del Presidente, le

funzioni sono provvisoriamente esercitate da un vice-presidente; dopodiché, entro un mese,

si procede al rinnovo dell'intera commissione permanente. Il Presidente del Consiglio

dipartimentale è il capo del potere esecutivo, ed è l'unico incaricato del potere

amministrativo; può delegare parte dei suoi poteri.

- Controllo di legalità. La riforma costituzionale del 2003 non ha alterato l'art. 72

della Costituzione del 1958: il rappresentante dello Stato ha ancora il compito di esercitare

il controllo sugli atti amministrativi adottati dalle collettività territoriali. Il prefetto di

dipartimento, dunque, può deferire al Tribunale amministrativo gli atti del Consiglio che

ritiene illegittimi; può anche - contestualmente al ricorso - chiedere la sospensiva dell'atto,

entro il termine di un mese, quando si provi il fumus boni iuris; l'atto ridiventa esecutivo se

il giudice non si pronuncia entro un mese. Tutti gli anni il Governo risponde al Parlamento

sul controllo successivo esercitato dai prefetti. Anche le persone fisiche e giuridiche che si

sentono lese da un atto del Consiglio possono chiedere al prefetto di impugnarlo, entro due

mesi dalla data in cui è diventato esecutivo.

- Attuali poteri dei dipartimenti in materia finanziaria e fiscale. Il Codice elenca una

serie di tributi il cui gettito è attribuito ai dipartimenti, per coprirne le spese correnti. Le

spese per investimento sono invece finanziate dai trasferimenti statali, nonché dalle

cessioni di beni del patrimonio e da alcune sovrattasse con efficacia temporanea. I

trasferimenti finanziari statali si distinguono in due categorie di “dotazione” - una fissa

(forfaitaire) e una di perequazione - ai quali possono aggiungersi contributi straordinari;

sono proporzionati alla popolazione del dipartimento. La dotazione di perequazione è

costituita, a sua volta, da una dotazione minima per le spese correnti e da una dotazione

speciale per i comuni urbani, intendendo come tali i comuni con densità superiore a 100

abitanti per chilometro quadrato e con un tasso di urbanizzazione superiore al 65%;

l'ammontare della dotazione perequativa dipende dalla capacità fiscale del dipartimento. A

questa “dotazione globale” se ne aggiunge una speciale per l'edilizia scolastica, relativa

alle scuole medie.

2.3 Funzioni amministrative attribuite ai dipartimenti.

- Competenze attribuite dal Codice. In via generale, l'art. L3211-1 del Codice delle

collettività territoriali conferisce a ciascun Consiglio di dipartimento il potere di “regolare

con le sue deliberazioni gli affari del dipartimento, negli ambiti attribuiti dalla legge”. Si

badi, però, che la legge 58 del 27 gennaio 2014 ha cancellato questo inciso, il quale, a sua

75

volta, era stato introdotto dalla legge 1563 del 16 dicembre 2010. In sostanza, il legislatore

del 2010 aveva posto un limite alla c.d. “clausola generale di competenza”, in virtù della

quale il Consiglio regolava “gli affari del dipartimento” senza limitazioni del proprio

ambito di azione. Il legislatore del 2014 ha restituito pieno vigore alla clausola generale di

competenza; tale disposizione acquisirà efficacia a partire dalle elezioni cantonali del

marzo 2015.

Sempre secondo l'art L3211-1 del Codice delle collettività territoriali, il Consiglio

dipartimentale ha competenza per “promuovere la solidarietà e la coesione territoriale”, nel

rispetto delle attribuzioni dello Stato e degli altri enti territoriali. Può delegare alcune

funzioni ai consigli municipali dei Comuni metropolitani compresi nel dipartimento,

limitatamente al loro territorio: sviluppo economico, assistenza agli anziani, edilizia

scolastica - con riferimento alle scuole medie (collèges), turismo, infrastrutture sportive. Il

Consiglio delibera sulle cessioni dei beni mobili e immobili che fanno parte del patrimonio

del dipartimento, nonché sulla rete stradale del suo territorio; delibera inoltre sulle opere, e

sui relativi progetti, che interessano il territorio dipartimentale, e sulle concessioni relative

ai lavori di interesse dipartimentale.

Inoltre, secondo il Codice (artt. L3231-1 e ss.), i dipartimenti possono, nel rispetto

della legge in materia di libera iniziativa economica, nonché di governo del territorio,

elargire aiuti economici alle imprese in difficoltà, nonché sovvenzioni alle organizzazioni

sindacali. Inoltre, entro alcuni limiti quantitativi fissati dal Codice, i dipartimenti possono

fare da garanti su prestiti accordati a persone giuridiche di diritto privato.

- Competenze attribuite in base ad altre leggi. Fermo restando quanto stabilito dal

Codice delle collettività territoriali, le funzioni attribuite ai dipartimenti sono determinate

dalla seconda e dalla terza legge Defferre (legge 7 gennaio 1983, n. 8 e legge 663 del 22

luglio 1983, n. 663), modificate da diversi interventi, tra cui il c.d. “secondo atto del

decentramento” (legge 13 agosto 2004, n. 809).

I dipartimenti finanziano le infrastrutture di interesse pubblico nei territori rurali (art.

105 legge n. 1983-8). L'art. 18 della legge n. 2004 -809 trasferisce alla competenza

dipartimentale tutta la rete stradale, ad eccezione di autostrade e strade statali; l'art. 30

assegna ai dipartimenti e alle regioni i porti la cui attività principale è il commercio o la

pesca: è il prefetto regionale a stabilire a quale livello territoriale assegnare ogni porto.

La legge 2004-809 apporta poi rilevanti modifiche al Codice dell'azione sociale e

delle famiglia (artt. 121-1 e ss.). Il dipartimento “definisce e mette in opera le politiche di

azione sociale”, occupandosi della pianificazione dell'assistenza a minori, terza età e

anziani, nonché dell'inserimento sociale e professionale dei giovani tra 18 e 21 anni. L'art.

59 attribuisce ai dipartimenti, in via sperimentale, la competenza in ordine all'esecuzione

dei provvedimenti giudiziari a carico dei minori, mentre, secondo l'art. 65, sono trasferiti ai

dipartimenti i fondi di solidarietà per gli alloggi nonché i dispositivi di aiuto agli utenti

morosi di servizi idrici, elettrici e telefonici. Secondo la legge n. 2005-102, compete ai

dipartimenti anche l'assistenza ai disabili, in tema di politiche abitative e di inserimento

sociale. In base all'art. 1 della legge n. 2008-1249, infine, i dipartimenti erogano il c.d.

“Reddito di solidarietà attiva”, ammortizzatore sociale destinato ai disoccupati che si

impegnano a cercare un lavoro o a intraprendere un percorso di formazione.

Il Codice dell'educazione - artt. 213-1 e ss. - attribuisce ai dipartimenti la competenza

generale in materia di scuole medie, nonché la proprietà degli edifici che le ospitano.

2.4 Collettività territoriali d'Oltremare.

76

Previste dalla Costituzione, a cominciare dall'art. 72 che li comprende fra le

collettività territoriali della Repubblica, le collettività d'Oltremare sono gli ultimi territori

rimasti dopo la fine dell'Impero e dell'Unione francese. Sono elencate dall'art. 72-3. l'art.

73 specifica che, nei dipartimenti e nelle regioni d'Oltremare, leggi e regolamenti si

applicano di pieno diritto, ma possono essere adattati dalle collettività interessate alle

particolari caratteristiche del territorio. Ad eccezione della Réunion, inoltre, le collettività

d'Oltremare hanno un potere normativo, riconosciuto dall'art. 73 comma 3, in un numero

limitato di materie che rientrino in ambiti disciplinati da legge o regolamento, alle

condizioni stabilite da legge organica: da queste materie sono escluse la cittadinanza, i

diritti civili e politici, la difesa e la politica estera, la giurisdizione, la moneta. Si può creare

nel territorio della collettività d'Oltremare un nuovo ente con un diverso ordinamento, ma

solo previa consultazione della popolazione. I dipartimenti d'Oltremare sono individuati

dal Codice delle collettività territoriale, all'art. L3444-1: uno si trova ai Caraibi

(Guadalupa) e due nell'Oceano indiano al largo delle coste africane (Réunion e Mayotte).

Esiste poi la “collettività territoriale unica d'Oltremare”, con un solo organo politico

(l'Assemblea) che sostituisce il Consiglio regionale e quello dipartimentale: questo

modello di ente è adottato per Martinica e Guyana.

L'art. 74 della Costituzione disciplina le collettività d'Oltremare non comprese fra i

dipartimenti e le regioni. In ognuno di questi territori vige uno statuto approvato con legge

organica con il quale vengono stabilite le condizioni per l'applicazione delle leggi e dei

regolamenti della Repubblica. Per la Nuova Caledonia è prevista dagli artt. 76-77

un'ulteriore legge organica, la quale determina le competenze da trasferire agli organi

locali, e le condizioni alle quali la popolazione interessata sarà chiamata a referendum sulla

piena sovranità del territorio.

- Organi del dipartimento a Parigi e Lione. L'ordinamento dei dipartimenti assume

connotati particolari in almeno due casi - Parigi e Lione - nei quali il capoluogo del

dipartimento è anche il centro principale di un'importante area metropolitana. Nel territorio

della città di Parigi, coesistono due collettività territoriali: il comune e il dipartimento;

l'assemblea è unica per i due dipartimenti e prende il nome di “consiglio di Parigi”,

presieduto dal sindaco di Parigi. Si aggiungono al Consiglio di Parigi i vari Consigli di

arrondissement previsti in tutti i comuni metropolitani.

Analoga collettività territoriale speciale è stata istituita dalla legge 2014-58 ed è

destinata a entrare in vigore dall'1 gennaio 2015; comprende il territorio della comunità

urbana di Lione, e la corrispondente parte del dipartimento di cui la comunità urbana fa

parte (dipartimento del Rodano): si vedano gli artt. 3611-1 e seguenti del Codice. Tale

ente, pur essendo denominato “metropoli di Lione”, non è soggetto all'ordinamento delle

metropoli che, come evidenziato nel successivo paragrafo, sono semplici enti di

cooperazione intercomunale e, nel suo territorio di riferimento, esercita le stesse funzioni

di un dipartimento. Il dipartimento del Rodano non viene abrogato, ma non comprende più

il territorio della metropoli di Lione.

3. Metropoli (e disciplina delle comunità urbane).

- Metropoli e comunità urbane. Le comunità urbane sono enti di collaborazione fra

comuni la cui popolazione complessiva supera i 450.000 abitanti (art. L5215-1 Codice

collettività territoriali). La legge n. 2014-58 ha abbassato a 250.000 il limite minimo per la

loro formazione.

Nel linguaggio del Codice delle collettività territoriali, le “metropoli” - a differenza

delle Città metropolitane, come disciplinate dalla legge Delrio - non sono enti di area vasta,

77

sovrapponibili alle Province; si tratta di enti di collaborazione fra comuni, il cui scopo è

“elaborare e condurre un progetto comune di gestione e di sviluppo” (art. L5217-1).

Introdotte con la legge n. 2010-1563, le metropoli sono state oggetto di riforma con la

legge n. 2014-58. Secondo l'attuale disciplina, che entrerà compiutamente in vigore dall'1

gennaio 2015, le metropoli hanno il compito di valorizzare “le funzioni economiche

metropolitane, le sue reti di trasporto e le sue risorse universitarie, di ricerca e di

innovazione”. Sono trasformati in metropoli, per decreto, gli enti di cooperazione

intercomunale la cui popolazione complessiva è superiore a 400.000 abitanti, i quali

ricadano all'interno di un'area urbana che ne abbia più di 650.000 o con l'approvazione dei

consigli comunali interessati, rispettando dei quorum deliberativi definiti dalla legge - che

comprenda al suo interno il capoluogo della regione. L'elenco delle funzioni affidate alle

metropoli è vasto: l'art. 5217-2 del Codice comprende sviluppo economico e sociale,

mobilità e infrastrutture, politiche abitative, servizi pubblici locali. Dovrà redigere uno

“schema di coerenza territoriale”, sorta di documento di indirizzo. L'organo di

coordinamento della metropoli è il consiglio metropolitano: come tutti i membri dei

consigli negli enti intercomunali (art. L5211-6 del Codice), è eletto a suffragio universale

diretto, contestualmente alle elezioni municipali. A esso si affianca la conferenza

metropolitana formata dai sindaci dei comuni membri, in cui possono essere discusse tutte

le problematiche del territorio, e un consiglio di sviluppo composto dai rappresentanti delle

categorie produttive e socio-culturali, consultato sulle principali linee d'indirizzo della

metropoli. La metropoli sostituirà l'ente intercomunale presente nel suo territorio.

- Metropoli ordinarie e a statuto particolare. Le metropoli individuate dalla legge n.

2014-58 sono nove; in ordine decrescente di popolazione, sono Lilla, Bordeaux, Tolosa,

Nantes, Rouen, Strasburgo, Grenoble, Montpellier, Rennes, Brest. Ad esse si aggiungono

le metropoli a statuto particolare di Parigi e Marsiglia, e la metropoli di Lione. La

metropoli di Marsiglia (Aix-Marseille-Provence) è formata da diversi territori, ognuno dei

quali ha un proprio consiglio, il quale è formato dai consiglieri metropolitani dei comuni

che vi rientrano, e viene consultato dal consiglio metropolitano per ogni progetto di

delibera che riguardi quel territorio specifico ovvero che riguardi lo sviluppo economico e

la pianificazione territoriale. Al consiglio di territorio sono attribuite inoltre competenze

elencate all'art. L5218-6 del Codice.

A partire dall'1 gennaio 2016 sarà istituita la metropoli Grand Paris, comprendente

tutti i comuni dei dipartimenti di Parigi, della Val-de-Marne, delle Hauts-de-Seine e della

Seine-St.-Denis. Essa sarà organizzata in territori con una popolazione di almeno 300.000

abitanti: ognuno dei territori di Parigi, con il proprio consiglio,sarà competente ad

organizzare le funzioni delegate dal consiglio metropolitano. Il Consiglio costituzionale,

con la decisione n. 202-687, ha precisato che i comuni facenti parte dei territori

manterranno la propria identità.

4. Evoluzione delle riforme recenti. Ulteriori proposte di riforma.

Il 7 aprile 2013, un referendum confermativo, tenutosi a norma dell'art. 4124-1 del

Codice delle collettività territoriali in Alsazia, ha bocciato la deliberazione del Consiglio

regionale volta ad istituire una collettività unica, in sostituzione di dipartimento e regione.

Negli anni della Presidenza di Nicolas Sarkozy (2007-2012), contrassegnati da

un'intensa attività di revisione costituzionale, era stato affrontato anche il tema delle

collettività territoriali. L'apposito comitato per la riforma degli enti locali, istituito con

decreto presidenziale e presieduto da Edouard Balladur, aveva proposto l'unificazione dei

Consigli generali di dipartimento e dei Consigli regionali; questa proposta era stata

78

trasformata dal Parlamento nella legge 1563 del 16 dicembre 2010, istitutiva dei Consigli

territoriali. Nel 2013, dopo l'elezione di François Hollande alla Presidenza della

Repubblica, i Consigli territoriali sono stati abrogati, con la legge 403 del 17 marzo 2013;

si è tornati alla distinzione fra Consigli generali di dipartimento - ridenominati “Consigli

dipartimentali” - e Consigli regionali.

Come anticipato, la legge n. 2010-1563 aveva posto un limite alla clausola generale

di competenza delle collettività territoriali, limite poi rimosso dalla legge n 2014-58.

Nondimeno, l'ex Primo Ministro Ayrault, intervistato da Le Monde il 25 gennaio 2014, ha

annunciato l'intenzione di semplificare il quadro, attribuendo ai soli comuni la clausola

generale di competenza, e così sottraendola a dipartimenti e regioni.

Con un comunicato ufficiale del 2 giugno 2014, il Presidente Hollande ha annunciato

una nuova riforma strutturale degli enti locali: da un lato, è in programma un

ingrandimento delle unioni comunali, destinate a raggruppare Comuni fino a raggiungere

un limite demografico minimo di 20.000 abitanti, contro i 5.000 di oggi; dall’altro, il

Presidente promette di concludere, entro il 2020, una revisione costituzionale nel senso di

sopprimere i consigli generali - ormai ribattezzati, come detto sopra, “consigli

dipartimentali”. I dipartimenti sopravvivranno come ambito di riferimento per le prefetture,

ma non avranno più funzioni amministrative: queste saranno trasferite alle nuove unioni

comunali e alle nuove Regioni, che nei piani del Presidente dovranno essere accorpate in

modo che siano 14, in luogo delle attuali 22. Le Regioni si occuperanno della politica

economica e occupazionale, dei trasporti e delle infrastrutture, nonché delle scuole medie e

superiori.

Proposte di riforma delle autonomie territoriali in Francia in ottica

comparata di Luca Beccaria

L'aspettativa di riforme in grado di semplificare la vita delle istituzioni e migliorare

l'efficienza dei servizi pubblici costituisce un sentire comune a livello non solo italiano, ma

specialmente europeo. Forse complice la crisi economica e finanziaria, che dal 2008 ha

costretto le autorità pubbliche ad interrogarsi sul proprio modello organizzativo, la

domanda di una progressiva semplificazione dei rapporti fra cittadino e istituzioni è

sfociata in questi anni in tentativi di riforma dei livelli delle autonomie territoriali,

presentando aspetti comparabili tra diversi paesi d'Europa.

Recentemente, con la legge 7 aprile 2014, n. 56, cd. legge Delrio, l'Italia ha avviato

una profonda modificazione delle proprie autonomie, con particolare riguardo a Comuni,

Province, Unioni di comuni e Città metropolitane.

Un percorso assimilabile, con peculiarità interessanti ai fini del dibattito italiano, sta

prendendo piede in Francia, dove il Presidente della Repubblica, François Hollande, in un

intervento pubblico rilasciato il 3 giugno 2014, ha dettato le linee guida del nuovo

Governo, guidato dal Primo ministro Manuel Valls, sul tema “Riformare i territori per

riformare la Francia”, in cui si possono individuare tre macro-aree di azione e un aspetto di

fondo che tiene insieme tutto il portato della proposta. Caratteristica permeante tutto

l'impianto della riforma proposta da Hollande è riassumibile con il termine “gradualità”, in

quanto l'orizzonte temporale di riferimento guarda al 2020 quale momento di

completamento della riforma, con alcune tappe intermedie che si vedranno in seguito.

79

1. La riforma degli enti di cooperazione intercomunali. Viene sì ribadita

l'importanza del Comune quale ente più vicino ai cittadini, il quale deve rappresentare “una

Repubblica piccola all'interno di quella grande”, affrontando, però, i problemi legati

all'estrema frammentazione, con 36.700 comuni.

Si intende procedere verso un rafforzamento degli enti di cooperazione

intercomunale (établissement public de coopération intercommunale – EPCI), rispetto al

loro attuale assetto, che li rende troppo frammentati e di dimensioni eterogenee. La

proposta intende alzare il requisito minimo, in termini di abitanti, da 5mila a 20mila entro

il 1° gennaio 2017, prevedendo deroghe per i territori montani e quelli scarsamente

popolati, come avvenuto anche in Italia.

Su questo fronte, il panorama italiano è mutato notevolmente a partire dal 2011.

Dapprima il Governo Monti ha cercato di determinare un numero “ottimale” di abitanti per

diversi enti locali. È stato il caso delle Province, con l'indicazione di 350mila abitanti e

delle Unioni di comuni, con l'indicazione di un minimo pari a 10mila abitanti, salvo

deroghe da parte delle Regioni (art. 19 del d.l. 95/2011, convertito nella legge 135/2011).

Da qui si può desumere un primo insegnamento: all'interno dell'ordinamento italiano

manca ancora una considerazione giuridica “territorio scarsamente popolato”, forse anche

per la mancanza di un suo riconoscimento costituzionale, diversamente da quanto accade

con l'art. 44, comma 2 Cost., per le realtà montane.

In chiave comparativa, con la l. n. 56/2014 l'Italia ha mantenuto, in 10mila abitanti, il

criterio numerico per le Unioni di comuni, prevedendo l'abbassamento a 3mila abitanti per

quelle realtà in cui i comuni appartengano a comunità montane (comma 107), salvo

esonerare dal rispetto di questi criteri tutte le unioni esistenti al momento dell'entrata in

vigore della legge Delrio. Appare evidente che quest'ultima prescrizione depotenzia il

portato della riforma italiana, in cui ben oltre la metà dei Comuni non raggiunge i 3mila

abitanti (per esattezza 4718)128

, denotando il maggior coraggio del progetto francese.

2. La riduzione del numero delle regioni per raggiungere una "dimensione

europea". Nodo ripreso a livello mediatico, ma finora non affrontato dal legislatore

italiano, è quello di un ripensamento degli enti-Regioni dal punto di vista del loro numero e

autosufficienza finanziaria. In un’epoca in cui riprende il dibattito anche in Germania, dove

si parla di una riduzione del numero dei Länder da sedici a nove, ponendo sotto

osservazione principalmente le c.d. città-stato (Berlino, Brema e Amburgo). La strada, in

questo caso, è ancora in salita, visto che l'ultimo accorpamento risale al 1952 con l'unione

di Baden, Württemberg-Baden e Württemberg-Hohenzollern nel Land Baden-

Württemberg. Importante, per meglio apprendere come procedere, è una rilettura del

risultato del referendum del 1996 che bocciò l'unione di Berlino e Brandeburgo, in cui i

risultati furono profondamente differenti tra le due realtà; a Berlino si è detto favorevole

poco meno del 57% degli elettori mentre oltre il 41% ha votato contro. Situazione opposta

nel Brandeburgo dove hanno votato contro la proposta di unione circa il 60%, mentre i

favorevoli si sono attestati poco sopra il 38 %.

Uno spiraglio a favore della fusione sarà possibile a partire dal biennio 2019-2020, in

cui terminerà (salvo proroghe) il länderfinanzausgleich – il meccanismo di perequazione

previsto per i Länder – e il pareggio di bilancio produrrà effetti: la conseguenza più

probabile sarà che i Länder finanziariamente deficitari potrebbero avere come sola

soluzione l'accorpamento.

128

Cfr. L. Vandelli, Il sistema delle autonomie locali, Bologna, 2007.

80

Stante lo spirito del tempo, contraddistinto da una generale riorganizzazione,

orientata ad una maggiore efficienza e risparmio di denaro pubblico, la Francia annuncia

l'intenzione di tagliare le proprie regioni da 22 a 14 entità; l'obiettivo di fondo è quello di

addivenire a regioni “di dimensione europee, capaci di costruire delle strategie territoriali”.

Appare evidente la povertà del dibattito pubblico in Italia su questi sia pur importantissimi

temi, lasciati cadere nel dimenticatoio a partire degli studi sulle mesoregioni, compiuti

dalla Fondazione Agnelli nel 1992129

e che tuttavia meriterebbero di essere ripresi, anche

alla luce delle profonde variazioni socio-economiche che deriverebbero da una simile

revisione delle geografie amministrative d'Oltralpe.

3. La soppressione130

dell'ente intermedio “dipartimento”. Il futuro dell'ente

intermedio francese per eccellenza, il Dipartimento, sembrerebbe segnato, mentre in Italia

il procedimento di riorganizzazione che ha visto coinvolto l'ente intermedio Provincia, è

ancora contrassegnato da profonde differenze e difficoltà.

In primo luogo, l'ente-Dipartimento rimarrebbe come livello geografico di

decentramento dei servizi dipendenti dallo Stato, dovendo però “rinunciare a esercitare le

competenze riconosciute agli enti locali”. Questo passaggio avviene a fronte di

un'espansione degli EPCI (tendenza assimilabile a quanto previsto per le nostre Unioni di

comuni), che verrebbero ad aumentare il proprio bacino minimo di utenti di quattro volte,

passando da 5mila a 20mila abitanti, e la cui importanza crescente comporterà che essi

diventino “nel rispetto dell’identità comunale, la struttura di prossimità in grado di

garantire l’efficacia dell’azione locale”. Sono tali unioni a vedersi conferita “ogni

legittimità democratica”, ove si sottintende elezione a suffragio universale diretta, strada

assolutamente evitata dal legislatore italiano del 2014, con dubbi circa la legittimità

costituzionale e di rispetto della Carta Europea dell'Autonomia Locale, ratificata dall'Italia

con la l. 30 dicembre 1989, n. 439.

4. Dubbi su alcuni aspetti della riforma e conclusioni. Alcuni nodi non vengono

toccati dall'intervento del Presidente francese, ma i cui risvolti saranno molto interessanti

anche per un confronto con le esperienze del Senato francese. In primo luogo ci sarebbe da

riflettere sul cambiamento che avverrà nell’elettorato attivo per il Senato, in quanto il

venire meno dei consiglieri generali, farebbe diminuire la platea dei “grandi elettori” di

quel ramo del Parlamento. In aggiunta a ciò, vista l'intenzione di conferire “ogni

legittimazione democratica” alle forme di cooperazione intercomunali, sarebbe interessante

comprendere se anche agli eletti in questi enti sarà conferito l'elettorato attivo per il Senato.

In secondo luogo, sarebbe da definire la modalità con cui questi enti intercomunali

saranno di supporto per la solidarietà, visto anche la loro titolarità di buona parte delle

attribuzioni dei dipartimenti; qui il nodo sarà sicuramente la composizione dei conflitti tra

enti intercomunali e comuni, avendo a quel punto entrambi la medesima legittimazione

democratica. Viene da chiedersi se questa scelta di rafforzare l’intercomunalité non rischi

di produrre un aumento della litigiosità interna agli enti intercomunali, ben più di quanto

potesse accadere con la mediazione operata a livello di dipartimento, specialmente

considerando la possibilità di “spostamento” di un comune da un ente intercomunale

all'altro.

Come si è già detto, il pregio dell'approccio riformatore francese è caratterizzato

dalla gradualità con cui esso viene portato avanti. La prima scadenza è fissata al 2017 e

129

M. Pacini, a cura di, Un federalismo dei valori. Percorso e conclusioni di un programma della

Fondazione Giovanni Agnelli (1992-1996), Torino, 1996. 130

Cfr. A. Boyer, Faut - il suppremer le departement?, Milano, 2010.

81

riguarda l'innalzamento della soglia minima di abitanti per gli EPCI. La seconda riguarda

la completa realizzazione di tutta la riforma entro il 2020, passando per un appuntamento

elettorale in cui saranno ancora rinnovati gli organi di rappresentanza dipartimentali

nell'autunno del 2015. Non viene pertanto seguito un approccio “emergenziale”, come

quello del periodo 2011-2012 per l'Italia, sfociato in una crisi di rigetto con la sentenza

della Corte costituzionale n. 220 del 2013. L’approccio francese passa dalla mise-en-

oeuvre di un progetto di riforma istituzionale orientato alla competitività delle regioni su

scala europea, al miglioramento dei servizi pubblici, innalzando la bandiera della

democraticità e della democrazia di prossimità.

Intervento di François Hollande, "Réformer les territoires pour réformer la France":

«Depuis deux siècles, la République a cherché à concilier l’unité de l’Etat, avec

l’exercice le plus libre possible de la démocratie locale.

Mais il a fallu attendre les grandes lois de décentralisation de 1982 sous la

Présidence de François Mitterrand, pour élargir les responsabilités des communes et des

départements, et faire des régions des collectivités locales à part entière.

Puis sous la présidence de Jacques Chirac, la République décentralisée a été

consacrée dans la Constitution. C’était aussi une façon de reconnaître que nos territoires et

les élus qui les représentent, ont incontestablement contribué depuis trente ans à la

modernisation du pays et à l’amélioration de la vie quotidienne des Français.

Le temps est venu de donner une forme nouvelle à cette ambition. Parce que notre

organisation territoriale a vieilli et que les strates se sont accumulées. Parce que les moyens

de communication, les mutations économiques, les modes de vie ont effacé les limites

administratives. Parce que nous devons répondre aux inquiétudes des citoyens qui vivent à

l’écart des centres les plus dynamiques et qui redoutent d’être délaissés par l’Etat en milieu

rural comme dans les quartiers populaires.

Le temps est donc venu de simplifier et clarifier pour que chacun sache qui décide,

qui finance et à partir de quelles ressources. Le temps est venu d’offrir une meilleure

qualité de service et de moins solliciter le contribuable tout en assurant la solidarité

financière entre collectivités selon leur niveau de richesse.

La réforme que j’ai demandé au Premier ministre et au Gouvernement de mettre en

œuvre, en y associant toutes les familles politiques, est majeure. Il s’agit de transformer

pour plusieurs décennies l’architecture territoriale de la République.

Au plus près des habitants, la commune est l’institution à laquelle chaque Français

est le plus attaché. C’est dans ce cadre que se pratiquent chaque jour la solidarité et la

citoyenneté. Elle doit demeurer « une petite République dans la grande ». La spécificité de

notre pays c’est de compter 36700 communes.

L’ensemble du territoire national est aujourd’hui couvert par des intercommunalités.

Mais elles sont de taille différente et avec des moyens trop faibles pour porter des projets.

82

Ce processus d’intégration doit se poursuivre et s’amplifier. C’est le sens de la

réforme proposée. Les intercommunalités changeront d’échelle. Chacune d’entre elles

devra regrouper au moins 20 000 habitants à partir du 1er janvier 2017, contre 5000

aujourd’hui. Des adaptations seront prévues pour les zones de montagne et les territoires

faiblement peuplés.

L’intercommunalité deviendra donc, dans le respect de l’identité communale, la

structure de proximité et d’efficacité de l’action locale. Il faudra en tenir compte pour lui

donner le moment venu toute sa légitimité démocratique. Comme il en a été décidé pour

les 13 métropoles et le Grand Paris qui ont été créés par la loi du 27 janvier 2014.

Les régions, quant à elles, se sont imposées comme des acteurs majeurs de

l’aménagement du territoire. Mais elles sont à l’étroit dans des espaces qui sont hérités de

découpages administratifs remontant au milieu des années soixante. Leurs ressources ne

correspondent plus à leurs compétences, qui elles-mêmes ne sont plus adaptées au

développement de l’économie locale.

Pour les renforcer, je propose donc de ramener leur nombre de 22 à 14. Elles seront

ainsi de taille européenne et capables de bâtir des stratégies territoriales. Une carte a été

définie. Elle prend en compte les volontés de coopération qui ont été déjà engagées par les

élus, dont je veux saluer le sens de l'intérêt général. Elle sera soumise au débat

parlementaire. Mais il faut aller vite car il ne nous est pas permis de tergiverser sur un sujet

aussi important pour l’avenir du pays.

Demain, ces grandes régions auront davantage de responsabilités. Elles seront la

seule collectivité compétente pour soutenir les entreprises et porter les politiques de

formation et d’emploi, pour intervenir en matière de transports, des trains régionaux aux

bus en passant par les routes, les aéroports et les ports. Elles géreront les lycées et les

collèges. Elles auront en charge l’aménagement et les grandes infrastructures.

Pour remplir leur rôle, elles disposeront de moyens financiers propres et dynamiques.

Et elles seront gérées par des assemblées de taille raisonnable. Ce qui veut dire moins

d’élus.

Dans ce nouveau contexte, le conseil général devra à terme disparaître. La création

de grandes régions, et le renforcement des intercommunalités absorberont une large part de

ses attributions. Mais cette décision doit être mise en œuvre de façon progressive car le

conseil général joue un rôle essentiel dans la solidarité de proximité et la gestion des

prestations aux personnes les plus fragiles. Et il ne peut être question de remettre en cause

ces politiques. Pas davantage les personnels dévoués qui continueront à les mettre en

œuvre. Du temps est nécessaire et de la souplesse est indispensable. Une large initiative

sera laissée aux élus pour assurer cette transition. Certaines métropoles pourront reprendre

les attributions des conseils généraux et toutes les expérimentations seront encouragées et

facilitées.

L’objectif doit être une révision constitutionnelle prévoyant la suppression du conseil

général en 2020. Je veux croire qu'une majorité politique nette se dessinera en faveur de ce

projet et que s’y associeront les élus qui, dans l'opposition aujourd’hui, souhaitent eux

aussi l’aboutissement de cette réforme. D’ici là, les élections pour le conseil départemental

83

seront fixées le même jour que celles pour les futures grandes régions à l’automne 2015.

Avec le mode de scrutin qui a été voté par la loi du 17 mai 2013.

Le département en tant que cadre d’action publique restera une circonscription de

référence essentielle pour l'Etat, autour des préfets et de l’administration déconcentrée avec

les missions qui sont attendues de lui : garantir le respect de la loi et protéger les citoyens

en leur permettant d’avoir accès aux services publics où qu’ils se trouvent. Mais il devra

renoncer à exercer les compétences reconnues aux collectivités.

Cette grande réforme s’inscrit dans la volonté de moderniser notre pays et de le

rendre plus fort. Elle est tournée vers les citoyens car il s’agit de simplifier notre vie

publique, de rendre plus efficace nos collectivités et de limiter le recours à l’impôt. Elle

repose sur les valeurs qui doivent nous rassembler : le souci constant de la démocratie, de

la solidarité et de l’efficacité. Et c’est pourquoi j’appelle tous les citoyens et, en particulier,

tous les élus locaux qui par leur engagement quotidien font vivre les institutions de la

République, à s’associer à sa réussite».

François Hollande

Tribune publiée dans la presse quotidienne régionale datée du 3 juin 2014131

131

http://www.elysee.fr/communiques-de-presse/article/reformer-les-territoires-pour-reformer-la-france/

84

PARTE V

FINANZA E CONTABILITÁ

[Corte cost. n. 88/2014]. La Corte costituzionale rafforza la “legge

rinforzata” di attuazione della riforma costituzionale sul c.d. pareggio di

bilancio di Giovanni Boggero

132

Con sentenza 10 aprile 2014 n. 88 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità

costituzionale dell’art. 10 comma 5 e dell’art. 12 comma 3 della legge 24 dicembre 2012 n.

243 recante Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi

dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione133

e ha invece dichiarato in parte

inammissibili e in parte non fondate le altre questioni riguardanti la medesima legge. I

ricorsi in via principale erano stati proposti dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e dalla

Provincia autonoma di Trento e sono stati riuniti in unico giudizio, stante la sostanziale

identità delle censure. La Corte si è limitata a dichiarare incostituzionali due norme

abbastanza marginali (1) (2) nel contesto dei nuovi obblighi gravanti su Regioni ed enti

locali a seguito dell’attuazione della legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1. Più rilevante

sembra essere, invece, la portata della dichiarazione di non fondatezza (3).

1. Quanto alla prima censura fondata, occorre innanzitutto osservare che l’art. 10

comma 5 stabiliva che i criteri e le modalità per l’indebitamento di Regioni ed enti locali

dovessero essere definiti con d.P.C.m. previa intesa con la Conferenza permanente per il

coordinamento della finanza pubblica. Secondo le ricorrenti, il rinvio ad una fonte

secondaria nell’ambito di una competenza assegnata alla potestà legislativa regionale

avrebbe violato sia l’art. 117 comma 6 Cost., sia l’art. 5 comma 2 lett. b) della legge

costituzionale n. 1/2012, nei limiti della quale la legge di attuazione deve disporre. A

giudizio della Corte, il rinvio alla fonte secondaria può dirsi conforme a Costituzione

soltanto se ad essa si demanda per la disciplina di aspetti meramente “tecnici” (cfr. Corte

costituzionale, sentenze nn. 139/2012 e 278/2010), motivo per il quale la norma della legge

di attuazione è incostituzionale nella parte in cui non prevede che i criteri e le modalità per

132

Già pubblicato su www.dirittiregionali.org 133

Per un commento alla legge sia consentito rinviare a: G. BOGGERO, Gli obblighi di Regioni ed enti locali

dopo la legge n. 243/2012, in Amministrare a. XLIV, n. 1 aprile 2014, 93-146.

85

l’attuazione abbiano esclusivamente natura “tecnica”. Alla pronuncia additiva la Corte

accompagna un esame delle singole disposizioni dell’art. 10 e stabilisce che:

a) il primo comma è autoesecutivo e non richiede ulteriore attuazione («Il ricorso

all’indebitamento è consentito esclusivamente per finanziare spese di investimento»);

b) il secondo comma richiede un’attuazione che può essere demandata alla fonte

secondaria, stante la natura tecnica della disciplina relativa alla predisposizione dei piani di

ammortamento;

c) il terzo comma reca un limite quantitativo all’indebitamento che è certamente

inderogabile da parte della fonte secondaria, mentre le modalità di comunicazione da parte

degli enti locali del saldo di cassa e degli investimenti da realizzare rientrano nella

competenza legislativa esclusiva statale in materia di coordinamento informativo e

statistico e possono quindi essere disciplinate con d.P.C.m. (art. 117 comma 2 lett. r)

Cost.);

d) il quarto comma, infine, demanda alla fonte secondaria la definizione dei criteri di

riparto del saldo negativo tra gli enti inadempienti di una Regione in caso di mancato

rispetto dell’equilibrio. A questo proposito, rileva la Corte, il d.P.C.m. «potrebbe

comportare l’esercizio di un potere tanto di natura meramente tecnica, quanto di natura

discrezionale». La Corte non specifica in che cosa debba consistere il compito tecnico-

attuativo del decreto, anche se pare di capire che esso debba limitarsi a dettare criteri di

ripartizione senza poter derogare alla regola fissata dal medesimo quarto comma per la

quale «il saldo negativo concorre alla determinazione dell’equilibrio della gestione di cassa

finale dell’anno successivo del complesso degli enti della Regione interessata, compresa la

medesima Regione» e senza nemmeno invadere la potestà regolamentare delle Regioni.

La Corte rigetta invece la doglianza delle ricorrenti relativamente alla violazione del

principio di leale collaborazione. L’intesa con la Conferenza permanente per il

coordinamento della finanza pubblica è infatti una garanzia procedimentale di per sé

sufficiente del coinvolgimento delle autonomie e non è quindi necessario, come richiesto

invece dalle ricorrenti, la previsione di un’intesa con la Conferenza unificata (cfr. Corte

costituzionale sentenze nn. 376/2003 e 171/2007).

2. Viceversa, con una pronuncia sostitutiva, la Corte ha dichiarato violato il principio

di leale collaborazione da parte della norma di cui all’art. 12 comma 3 della legge

rinforzata, la quale prevede che, nelle fasi favorevoli del ciclo economico, un d.P.C.m

determini il contributo di Regioni e di enti locali al Fondo di ammortamento per i titoli di

Stato, sentita la Conferenza per il coordinamento della finanza pubblica. Secondo la Corte,

«considerate l’entità del sacrificio imposto e la delicatezza del compito cui la Conferenza è

chiamata», l’adozione del decreto dovrebbe fare seguito ad un’intesa e non essere

meramente successiva all’ottenimento di un parere non vincolante. A dover essere

coinvolta è poi la Conferenza unificata e non la Conferenza per il coordinamento della

finanza pubblica, dal momento che occorre «garantire a tutti gli enti territoriali la

possibilità di collaborare alla fase decisionale». Tra le conseguenze del giudicato si deve

osservare la compresenza delle due Conferenze nel sistema di coordinamento per la

finanza pubblica, circostanza che non sembra essere improntata né ad esigenze di

semplificazione, né ad esigenze di specializzazione del sistema.

3. Vengono invece dichiarate inammissibili o non fondate le altre censure. Per

quanto riguarda le prime, l’inammissibilità si deve a carenza di motivazione da parte delle

ricorrenti le quali non hanno indicato i parametri costituzionali ritenuti violati dalle norme

di cui ai comma 2 e 3 dell’art. 9 della legge rinforzata. Per quanto riguarda le seconde, la

Corte dichiara non fondate le doglianze delle ricorrenti avverso i comma 3, 4 e 5 dell’art.

10 della legge rinforzata. Esse lamentavano che le norme disciplinanti l’indebitamento

86

degli enti territoriali avessero natura dettagliata ed eccedessero i limiti propri

dell’intervento statale nella materia del coordinamento della finanza pubblica, la quale

dovrebbe limitarsi alla determinazione dei principi, violando così l’autonomia finanziaria

delle Regioni. Secondo la Corte, invece, l’art. 5 comma 2 lett. b) della legge costituzionale

n. 1/2012 non prevede che la disciplina attuativa debba limitarsi ai principi generali. In

altre parole la Corte sembra non voler ricondurre la disciplina dell’indebitamento degli enti

territoriali alla materia del coordinamento della finanza pubblica ex art. 117 comma 3

Cost., come invece aveva fatto in passato (su tutte si veda la sentenza n. 376/2003). Al

contrario, sulla base del combinato disposto tra il nuovo art. 119 comma 6 Cost. e l’art. 5

comma 2 lett. b) della legge costituzionale n. 1/2012, ella pare affermare che il legislatore

costituzionale abbia voluto attribuire alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia

dell’indebitamento degli enti territoriali. Già in passato, comunque, pur fondando la

legittimità della disciplina statale sulla potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni

ex art. 117 comma 3 Cost., la Corte aveva sostenuto che, ai fini del coordinamento della

finanza pubblica e della tutela dell’unità economica della Repubblica, non fosse

ammissibile che «ogni ente, e così ogni Regione, fac[esse] in proprio le scelte di

concretizzazione delle nozioni di indebitamento e di investimento» (sentenza n. 425/2004).

La Corte non manca di rilevare la necessità di assicurare omogeneità della disciplina nei

confronti di tutte le autonomie ordinarie e speciali, sostenendo che essa vi sia «oggi ancor

più che in passato», dal momento che i nuovi vincoli sarebbero «più incisivi e pregnanti».

Non è chiaro, tuttavia, in che misura i nuovi vincoli possano presentarsi come più

penetranti, dal momento che, anche prima della riforma costituzionale del 2012, la Corte

aveva fatto salve norme statali in materia di indebitamento degli enti territoriali

particolarmente “incisive e pregnanti” (si vedano le già ricordate sentenze nn. 376/2003 e

425/2004). E’ comunque possibile attendersi che, in futuro, la Corte voglia fare salve

norme statali che fissino limiti ancora più stringenti e puntuali all’indebitamento delle

autonomie.

Il giudizio di parificazione del rendiconto 2012 della Regione Piemonte. Nota a

Corte dei Conti, Sez. reg. di controllo, delibera 26.03.2014, n. 51 di Marco Comaschi

87

La delibera in questione rappresenta, in sostanza, l'atto conclusivo del giudizio di

parificazione del rendiconto della Regione Piemonte relativo all'anno 2012 e, come tale,

fornisce alcuni importanti spunti sia dal punto di vista teorico per quanto concerne le

modalità d'esercizio dei nuovi controlli sulla gestione finanziaria delle regioni da parte

della magistratura contabile sia, dal punto di vista squisitamente pratico, per quanto attiene

allo “stato di salute” del bilancio regionale.

Occorre innanzitutto premettere come il giudizio di parificazione da parte della Corte

dei Conti, disciplinato dagli artt. 38-41 del r. d. 12 luglio 1934, n. 1214, sia stato esteso ai

rendiconti regionali dall'art. 1, comma 3 del d.l. 10 ottobre 2012, n.174134

nell'ambito di

una più articolata evoluzione dei sistemi di controlli relativi alla gestione finanziaria delle

Regioni e, pertanto, abbia trovato la sua prima applicazione proprio in riferimento

all'esercizio finanziario 2012135

.

134

Le disposizioni del D.l. n. 174/2012 che affidano alle Sezioni regionali di controllo della Corte la parifica

dei rendiconti regionali presentano carattere di assoluta novità per le regioni a statuto ordinario, mentre una

parifica del rendiconto era già prevista dagli statuti della maggior parte delle regioni ad autonomia

differenziata. 135

I nuovi controlli attribuiti alle Sezioni Regionali di Controllo della Corte dei Conti possono essere così

sintetizzati:

I) Controllo semestrale sulla copertura finanziaria delle singole leggi regionali;

II) Esame dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi delle regioni, anche alla luce delle partecipazioni

in società controllate, nonché degli enti che compongono il s.s.n.. La Corte Costituzionale ha però

recentemente dichiarato incostituzionale tale forma di controllo, con la sent. 39/2014. Si veda in proposito B.

CARAVITA ED E. JORIO, La Corte costituzionale e l’attività della Corte dei conti, in Federalismi, n. 6/2014;

III) Giudizio di parificazione del rendiconto della Regione;

IV) Obbligo per il Presidente della Regione di inviare alla Sezione una relazione annuale sulla regolarità

della gestione e sui sistemi di controlli interni adottato;

V) Obbligo di redigere un rendiconto annuale per ciascun gruppo consiliare, che il Presidente del Consiglio

Regionale ( e non il Presidente della Regione, a seguito della sentenza Corte Cost. n. 39/2014) deve a sua

volta inoltrare alla Corte dei Conti. Sul tema cfr. D. MORGANTE, I nuovi presidi della finanza regionale e il

ruolo della Corte dei conti nel D.l. n. 174/2012, in Federalismi, n. 1/2013; Id., L’accesso alla giustizia

Parole chiave: corte dei conti, finanza e bilancio regionale, armonizzazione dei bilanci pubblici, coordinamento della finanza pubblica, controlli sulla gestione finanziaria delle regioni, giudizio di parificazione. Riferimenti normativi: artt. 81, 97, 100 comma 2; art. 117 comma 2; artt. 119 e 120 Cost; art. 1 d.l. 10.10.2012, n. 174; artt. 38-41 R.D. 12.7.1934, n. 1214. Massima: Le osservazioni fornite dalla Regione Piemonte a seguito di specifiche richieste istruttorie, formulate dalla Sezione di Controllo a margine del giudizio di parificazione del rendiconto 2012, non superano i rilievi già mossi e di cui non si è tenuto conto in sede di approvazione del consuntivo. Si sollecita pertanto la Regione ad adottare ogni azione utile atta a superare prima possibile le gravi irregolarità segnalate. Link al documento

88

Questo nuovo strumento di controllo si sostanzia, in poche parole, nel raffronto tra le

risultanze della gestione – così come riportate nel consuntivo – e le corrispondenti voci

contenute nel bilancio di previsione136

, ed è stato introdotto dal legislatore nazionale in

virtù dei principi di armonizzazione dei bilanci pubblici, di coordinamento della finanza

pubblica e di rispetto dei vincoli finanziari derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione

europea.

I nuovi poteri affidati alla Corte dei Conti possono inoltre ritenersi non lesivi delle

competenze e dell'autonomia regionale, dato che la stessa Consulta ha già avuto modo di

affermare in passato la piena compatibilità dei controlli successivi sulla gestione

economico-finanziaria con le prerogative riconosciute ai vari livelli di governo del

territorio dal Titolo V della Costituzione137.

Quanto poi al caso di specie, le particolari criticità della situazione finanziaria della

Regione Piemonte hanno fatto sì che il procedimento di parificazione del rendiconto 2012

risultasse alquanto articolato, e ciò anche se tale forma di controllo da parte del giudice

contabile debba essere considerata squisitamente referente o per avviso.

Da parte sua la Regione ha inizialmente provveduto a trasmettere, in ossequio alle

nuove disposizioni in materia, la proposta di rendiconto generale per l'esercizio finanziario

2012, a cui ha fatto poi seguito la specifica Relazione redatta dal Direttore del Settore

finanziario della Regione Piemonte ai sensi dell'art. 1, comma 3 del d.l. n. 174/2012138

.

Il fatto che il Giudice contabile sia chiamato ad esprimersi sulla proposta di

rendiconto e, quindi, prima della legge regionale di approvazione del consuntivo è di

fondamentale importanza: in questo modo la Corte dei Conti può svolgere un'importante

“...funzione di ausiliarietà rispetto al controllo politico che il potere legislativo esercita

sulla gestione delle pubbliche risorse da parte dei governi...”.139

A seguito di un'importante attività istruttoria, svolta per quanto possibile in

contraddittorio con l'amministrazione140

, è stata predisposta una dettagliata relazione sulla

contabile alla luce delle novità introdotte dal D.l. n. 174/2012 convertito dalla legge n. 213/2012; F. BATTINI,

Riassetto dei controllo ex D.l. n. 174/2012 convertito dalla legge n. 213/2012: linee guida della Corte dei

conti (Regioni), in Giornale Dir. Amm., 2013, 5, 531; 136

Dal punto di vista procedurale, i passaggi fondamentali in cui si articola il giudizio di parificazione sono:

I) trasmissione da parte della Regione della proposta di legge di approvazione del rendiconto, unitamente

all'allegata relazione dell'organo di revisione; II) Istruzione del procedimento in contraddittorio con la

Regione III) Deliberazione di parifica, a cui viene obbligatoriamente allegata una relazione motivata, in cui

possono essere proposte eventuali misure di correzione ed interventi di riforma; IV) Trasmissione della

delibera di parificazione al Presidente della Giunta Regionale e al Consiglio Regionale V)Eventuale analisi

degli interventi adottati sulla scorta delle indicazioni formulate dalla Sezione Regionale di Controllo. Da

sottolineare come l'espresso rinvio alla disciplina inerente il giudizio di parificazione del rendiconto dello

Stato comporta, anche per quello regionale, il riconoscimento alla Corte dei Conti della legittimazione a

sollevare la questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 81 Cost (in tal senso, a proposito dei

controlli sulle Regioni a Statuto Speciale, Corte Cost., sentt. n. 165/1963, 121/1966, 142 e 143 del 1968). Sul

giudizio di parificazione si veda F. BATTINI, La parificazione dei rendiconti regionali, in Giornale Dir. Amm.,

2013, 11, 1091. 137

Si vedano, ex multis, Corte Cost., sentt. nn. 267/2006, 179/2007, 39/2011 e 198/2012. 138

In verità la norma citata dispone che, in via ordinaria, sia il Collegio dei revisori dei conti a predisporre la

suddetta relazione. Tuttavia nel caso della Regione Piemonte questo non è potuto avvenire per il rendiconto

2012, dato che l'organo di revisione non era ancora operante alla data di scadenza del termine per la

trasmissione della relazione. 139

Corte dei Conti, Sez. Autonomie, delibera n. 9 del 26/03/2013 140

In merito alla centralità che il contraddittorio assume nel giudizio di parificazione le Sez. riunite contr.,

delibera n. 7 del 14/06/2013, hanno affermato che “...il contraddittorio con gli enti controllati deve essere

assicurato durante tutto l'iter procedurale, a partire dall'istruttoria, e su tutti i temi sottoposti a verifica per

essere definito, attraverso successivi affinamenti, prima dell'udienza pubblica. Aggiungono tuttavia al

89

gestione finanziaria della Regione ed il Procuratore regionale ha presentato la propria

requisitoria, chiedendo alla Sezione regionale di controllo di accertare la regolarità del

rendiconto “...nei limiti precisati nella relazione sulla gestione finanziaria”, volendo altresì

dichiarare “...l’obbligo della regione Piemonte di provvedere alla rettifica del rendiconto

generale da sottoporre all’approvazione consiliare, nonché di provvedere alle attività

preordinate alla modificazione del bilancio dell’esercizio in corso in base alle conseguenti

risultanze del rendiconto e di conformare l’attività amministrativa alle correlate

rimodulazioni dell’entrata e della spesa”141

.

La Sezione di Controllo si è quindi espressa positivamente, con la delibera n.

276/2013, a riguardo della parifica del conto del bilancio e del conto del patrimonio, ad

esclusione però del quadro riassuntivo del disavanzo finanziario, dato che con questo

veniva accertato un disavanzo finanziario di € 1.150.257.926,03 a fronte, invece, di

passività che la Sezione di Controllo ha indicato ammontare a ben € 2.841.374.089,03142.

Peraltro, a seguito dell'approvazione del rendiconto con legge regionale 6 agosto

2013, n. 15 è emersa la necessità di approfondire alcuni aspetti critici – già segnalati nel

corso del giudizio di parificazione – rimasti tuttavia irrisolti.

L'Amministrazione regionale ha quindi provveduto a fornire alcuni ulteriori

chiarimenti, a cui ha fatto seguito la delibera qui in esame che, pertanto, rappresenta

un'ultima analisi riepilogativa delle questioni sollevate dal giudice contabile a riguardo del

rendiconto regionale 2012.

1) In prima battuta la Corte dei Conti affronta il tema della riduzione dei costi degli

apparati amministrativi, argomento su cui era stata avanzata nei confronti della Regione

specifica richiesta istruttoria. L'analisi dei dati successivamente forniti, ha permesso di

verificare il rispetto dei limiti di cui all'art. 6 del d.l. n. 78/2010, sia a riguardo delle spese

inerenti il conferimento di incarichi di studio e consulenze, sia in merito alle spese

sostenute per le missioni e per le locazioni passive. Pur esprimendo quindi un giudizio

positivo, il Giudice contabile ha indicato, quale best practice per la redazione del bilancio,

la creazione di appositi capitoli relative alle citate tipologie di spesa, così da permetterne

una verifica semplice ed immediata, anche da parte dei consiglieri chiamati ad esprimersi

sulle leggi di bilancio.

2) Ugualmente positiva è stata la valutazione sulle precisazioni fornite dalla Regione

a proposito della spesa di personale sostenuta nell'anno 2012 dato che, a fronte del cessato

servizio di 8 dipendenti a tempo determinato e 60 a tempo indeterminato, non è stata

effettuata alcuna assunzione.

Da questi due aspetti oggetto di approfondimento emerge, quindi, come

l'Amministrazione regionale abbia posto in essere – avendone pienamente sia la facoltà che

i mezzi – alcune opportune politiche di contenimento della spesa di parte corrente.

riguardo, soprattutto tenendo conto della distinzione tra la "decisione" di parifica e la relazione che

l'accompagna, che i Presidenti delle Sezioni regionali di controllo possono eventualmente disciplinare le fasi

e le modalità del contraddittorio anche mediante l'adozione di adeguate misure volte al migliore e proficuo

esercizio della funzione e alla conseguente celebrazione della peculiare udienza di parificazione.” 141

Tutti gli atti relativi al giudizio di parificazione sono reperibili su:

http://www.corteconti.it/novita/dettaglio.html?resourceType=/_documenti/novita/elem_0405.html 142

Il dato, quanto mai allarmante, è dovuto alla mancata considerazione delle seguenti passività riportate nel

conto del patrimonio:

“1) € 397.145.00,00 derivanti da anticipazione straordinaria di cui alla d.g.r. 39-11230 del 14 aprile 2009;

2) € 57.971.163,00 quale fondo rischi relativa alla sentenza della Corte d'Appello di Torino n. 465/10 del

12.12.2012 (relativa al contenzioso fra la Regione e Unicredit Banca S.p.A);

3) € 370.000.000,00 quali passività pregresse inerenti al Trasporto Pubblico Locale;

4) € 866.000.000,00 per passività definita “ Allineamento con la situazione patrimoniale delle aziende

sanitarie”.

90

Diversamente, invece, la Sezione di Controllo rileva come gran parte dei problemi

strutturali del bilancio regionale permangano del tutto immutati, anche a seguito dei rilievi

precedentemente mossi.

3) Particolare apprensione viene manifestata dal giudice contabile a proposito dei

residui attivi conservati nel conto del bilancio crediti, la cui esigibilità risulta

particolarmente dubbia e che, tuttavia, sono stati conservati nella loro interezza nel conto

del bilancio approvato. Basti pensare a titolo esemplificativo che, tra le somme che la

Regione potrebbe ancora teoricamente riscuotere, vengono riportati € 299. 867.478 riferiti

all'IRPEF 2004, ed € 246.626.686 relativi all'IRPEF 2008. Stante quindi il mancato

incasso, nel corso del 2013, di gran parte dei crediti indicati, unitamente alla mancata

produzione di una puntuale documentazione comprovante l'esigibilità dei crediti,

l'accertamento degli stessi e le azioni intraprese per la loro riscossione, la Corte ha

nuovamente invitato l'Amministrazione regionale a cancellare dal bilancio quei residui

attivi che non potranno realmente essere riscossi.

4) Peraltro i problemi relativi ai residui posti a bilancio non si fermano a questi: ed

infatti, se da un lato la Regione ha mantenuto crediti (residui attivi) che difficilmente potrà

incassare, dall'altro ha considerato perenti alcuni importanti debiti (residui passivi)

maturati dalla stessa negli anni che, al contrario, potrebbe essere chiamata a pagare.

Il problema, in particolare, assume una doppia valenza per la Corte dei Conti dato

che la maggior parte dei debiti cancellati dalla Regione sono in realtà stati mantenuti quali

residui attivi da altre P.A., quali province e comuni. A tal riguardo il giudice invita

l'Amministrazione regionale a valutare meglio l'avvenuta perenzione dei debiti in quanto

“la cancellazione dal conto del patrimonio dei debiti nei confronti di altre

Amministrazioni, trascorsi dieci anni dalla loro iscrizione, senza alcuna valutazione in

ordine all’effettiva sussistenza del debito, non sembra coerente con la natura dei crediti

delle Amministrazioni locali e con la circostanza che molti di essi divengono esigibili

solamente a seguito del completamento di procedure amministrative che, in alcuni casi, si

dilatano nel tempo”.

5) Uno specifico approfondimento è stato poi volutamente svolto dalla Corte a

riguardo della procedura di leasing immobiliare attuata dalla Regione per la realizzazione

del nuovo complesso amministrativo ed istituzionale della Regione, dato che l'operazione

non ha presentato alcuna incidenza diretta sull'esercizio 2012 e sul relativo consuntivo. In

realtà il giudice ha colto l'occasione per fornire alcune importanti indicazioni

all'Amministrazione regionale su come contabilizzare in futuro gli oneri derivanti

dall'operazione, così da scongiurare rilievi più gravi sulla gestione finanziaria dei

successivi esercizi. Infatti, a detta della Corte, i caratteri propri dell'operazione inducono a

considerarla – contrariamente a quanto inteso e sperato dalla Regione – un finanziamento

avente natura debitoria e non un leasing immobiliare rientrante nella nozione di

partenariato pubblico – privato, con la conseguenza di dover computare i relativi oneri

all'interno dei limiti di indebitamento posti all'Ente.

Ciò non di meno va segnalato come dal punto di vista sostanziale i costi relativi

all'operazione siano, in linea di principio, inferiori ai costi dei canoni di locazione sino ad

oggi sostenuti dalla Regione per i suoi innumerevoli uffici.

6) La Sezione di Controllo passa poi all'esame della situazione finanziaria delle

società partecipate dalla Regione, limitatamente a quegli organismi in cui l'Ente detiene la

maggioranza assoluta delle quote di capitale. Nel merito viene innanzitutto lamentato come

il piano di razionalizzazione delle partecipate regionali143 si limiti a descrivere la situazione

143

Previsto dall'art. 44 della legge finanziaria regionale per il 2012, poi approvato il 5.11.2013 dal Consiglio

regionale.

91

in essere, rinviando invece le scelte strategiche da assumere in proposito. Ulteriori critiche

vengono mosse in ordine al sistema di indirizzo e controllo assunto dalla Regione, sia nei

confronti delle partecipate di primo livello che di quelle di secondo livello: in particolare il

giudice sollecita con urgenza un più incisivo controllo della spesa di personale e della

gestione degli organici delle società partecipate dato che, su queste voci, si sono registrati

incrementi anche nell'esercizio 2012. Il giudice contabile focalizza inoltre la lente

d'ingrandimento sulla Finpiemonte Partecipazioni S.p.A., per la quale nel 2012 è stato

operato un aumento di capitale senza che fosse indicata precisamente l'incidenza

dell'operazione sul rendiconto della Regione. Per di più la Società ha chiuso lo stesso

esercizio 2012 in perdita, con l'ulteriore aggravante che il rendiconto regionale 2012 è stato

approvato prima del bilancio di esercizio 2012 di Finpiemonte Partecipazioni S.p.A..

7) Quasi in un crescendo la Corte dei Conti termina con un'analisi particolarmente

critica sul servizio sanitario regionale, che prende le mosse dal mancato superamento di

quanto già segnalato con la relazione allegata al giudizio di parificazione. Il principale

problema viene riscontrato nel disallineamento fra le poste del bilancio regionale e le poste

dei bilanci delle aziende sanitarie dato che la Regione ha indicato quale risorsa di parte

corrente del s.s.r. non trasferita ai relativi enti la somma di € 866.000.000,00, senza però

che questa operazione incidesse sul risultato di gestione che, pertanto, come già indicato

con la delibera di parificazione, doveva essere conseguentemente rettificato. Viene poi

rilevata la mancanza di una piena correlazione fra il rendiconto stesso ed il bilancio

consolidato del servizio sanitario regionale, problema in parte dovuto alla tardiva

approvazione dei bilanci degli enti del servizio che, a sua volta, causa incertezze in merito

al bilancio consolidato. L'incidenza economica del servizio sanitario sul bilancio della

Regione, nonché le citate difficoltà finanziarie, hanno indotto il giudice ad affermare che

“...la mancanza di una piena correlazione con il bilancio consolidato del servizio sanitario

regionale incida sulla trasparenza e veridicità dei risultati rappresentati nel rendiconto

finanziario dell'Ente”.

8. Per concludere, nonostante in questa sede ci si sia limitati a sintetizzare i rilievi

mossi dalla Sezione regionale di controllo, dal quadro così delineatosi possono comunque

trarsi alcune importanti considerazioni.

Per quanto concerne, nello specifico, il rendiconto 2012 della Regione Piemonte

sono evidenti le difficoltà finanziarie in cui versa l'Ente che, a loro volta, si sono tradotte

nella necessità – rilevata dalla Corte – di rettificare il risultato finanziario della gestione,

tenendo conto anche di quelle passività generate fuori dall'ordinaria gestione di bilancio ed

evidenziate nel conto del patrimonio. Dal risultato finanziario predisposto – e poi

approvato, a dispetto di quanto rilevato nel giudizio di parificazione – dalla Regione,

secondo cui l'esercizio 2012 si sarebbe chiuso con un disavanzo di € -1.150.257.926,03, si

arriverebbe in realtà ad un disavanzo di € 2.841.374.089,03. La gravità della situazione ha

quindi indotto il Giudice contabile a richiamare con forza l'Amministrazione, invitandola

ad assumere ogni azione utile per ricondurre il bilancio dell'Ente nella regolarità, con

l'auspicio – difficilmente realizzabile – che ciò avvenga in sede di consuntivo 2013.

Peraltro la delibera in esame, e con essa l'intero giudizio di parificazione, permette di

svolgere alcune riflessioni conclusive sull'utilità di questo nuovo strumento di controllo dei

bilanci delle Regioni che, occorre ribadire, ha trovato la sua prima applicazione proprio in

riferimento all'esercizio finanziario 2012.

Innanzitutto il giudizio in questione conferma come il processo di parifica dei conti

regionali rappresenti, in ossequio alla disciplina tracciata dal R.D. 1214/1934, un positivo

momento di congiunzione tra il potere di controllo e la funzione giurisdizionale della

92

Corte, mostrando come queste due funzioni siano realmente i due lati di una stessa rete di

protezione e garanzia della finanza pubblica.

Inoltre l'utilità dello strumento – che, occorre ribadire, interviene sulla proposta di

rendiconto predisposta dalla giunta – risulta direttamente proporzionale all'intensità del

contraddittorio con l'Ente e alla conseguente profondità dell'istruttoria. Con queste

condizioni, quindi, il giudizio di parificazione del rendiconto regionale può rivelarsi

particolarmente utile non solo al fine di condurre il Governo regionale ad una migliore

gestione finanziaria ma, soprattutto, a dotare il consiglio regionale di un ulteriore

strumento per analizzare con la dovuta consapevolezza il bilancio consuntivo dell'Ente.

APPENDICE

Commento dei Dottorandi del D.R.A.S.D. al D.L. 24 giugno 2014 n. 90

“Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e

per l'efficienza degli uffici giudiziari” 144 a cura di Giovanni Boggero ed Elena Ponzo

1. Sussistenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza ex art. 77 Cost. Giovanni Boggero

Il decreto-legge modifica prevalentemente le norme che riguardano l'organizzazione

degli uffici della P.A. La natura ordinamentale della materia in oggetto desta quindi

qualche dubbio sulla conformità a Costituzione del decreto. Nella sua sentenza 19 luglio

2013, n. 220 la Corte costituzionale ha infatti dichiarato illegittima per violazione dell'art.

144

Il commento qui riportato costituisce l’esito di un lavoro di gruppo condotto durante lo scorso mese di

luglio dai dottorandi del DRASD e consistito nell’osservazione critica della riforma della Pubblica

Amministrazione. All’epoca dello scritto il procedimento legislativo aveva già condotto all’emanazione del

decreto-legge 24 giugno 2014 n. 90, mentre risultava ancora in fase parlamentare l’iter di conversione, che ha

poi avuto luogo con la legge 11 agosto 2014, n. 114. Nel riportare gli articoli in carattere corsivo, si è tenuto

conto del testo del decreto-legge coordinato con la legge di conversione.

93

77 Cost. la riforma dell'ordinamento provinciale, proprio sulla base del ragionamento che il

Governo non può, con decreto-legge, introdurre nuovi assetti ordinamentali. Tuttavia, nella

medesima sentenza, la Corte ha sottolineato anche la legittimità di quelle misure che non

modifichino integralmente, ma soltanto singoli aspetti di un ordinamento, purché siano

immediatamente applicabili. Le misure di cui si tratterà qui di seguito sembrano quindi

poter superare il vaglio della Corte in quanto atte a modificare singoli aspetti

dell'ordinamento della P.A. senza peraltro operare un rinvio massiccio all'approvazione di

ulteriori atti legislativi o regolamentari per la loro attuazione.

2. Titolo I – Capo I

Maria Bottiglieri, Nicola Dessì, Elena Ponzo

Art. 7 - Prerogative sindacali nelle pubbliche amministrazioni

1. Ai fini della razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica, a decorrere dal 1°

settembre 2014, i contingenti complessivi dei distacchi, aspettative e permessi sindacali,

già attribuiti dalle rispettive disposizioni regolamentari e contrattuali vigenti al personale

delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, ivi compreso quello

dell'articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono ridotti del cinquanta per

cento per ciascuna associazione sindacale.

1-bis. Per le Forze di polizia ad ordinamento civile e per il Corpo nazionale dei vigili del

fuoco di cui all’articolo 19 della legge 4 novembre 2010, n. 183, in sostituzione della

riduzione di cui al comma 1 del presente articolo e con la stessa decorrenza, per ciascuna

riunione sindacale, tenuta su convocazione dell’amministrazione, un solo rappresentante

per ciascuna organizzazione può gravare sui permessi di cui all’articolo 32, comma 4, del

d.P.R. 18 giugno 2002, n. 164, per le Forze di polizia ad ordinamento civile. Per il Corpo

nazionale dei vigili del fuoco, un solo rappresentante per ciascuna organizzazione può

gravare sui permessi di cui all’articolo 40, comma 4, del d.P.R. 7 maggio 2008, recante

"Recepimento dell’accordo sindacale integrativo per il personale non direttivo e non

dirigente del Corpo nazionale dei vigili del fuoco", pubblicato nel supplemento ordinario

n. 173 alla Gazzetta Ufficiale n. 168 del 19 luglio 2008, per il personale non direttivo e

non dirigente, e di cui all’articolo 23, comma 4, del d.P.R. 7 maggio 2008, recante

"Recepimento dell’accordo sindacale integrativo per il personale direttivo e dirigente del

Corpo nazionale dei vigili del fuoco", pubblicato nel medesimo supplemento ordinario n.

173 alla Gazzetta Ufficiale n. 168 del 19 luglio 2008, per il personale direttivo e dirigente.

Eventuali ulteriori permessi per le predette finalità devono essere computati nel monte ore

di cui al comma 2 dei citati articoli 40 e 23, a carico di ciascuna organizzazione sindacale.

2. Per ciascuna associazione sindacale, la rideterminazione dei distacchi di cui al comma

1 è operata con arrotondamento delle eventuali frazioni all'unità superiore e non opera

nei casi di assegnazione di un solo distacco.

3. Con le procedure contrattuali e negoziali previste dai rispettivi ordinamenti può essere

modificata la ripartizione dei contingenti ridefiniti ai sensi dei commi 1 e 2 tra le

associazioni sindacali. In tale ambito è possibile definire, con invarianza di spesa, forme

di utilizzo compensativo tra distacchi e permessi sindacali.

La disposizione, di per sé semplice, dimezza i distacchi, le aspettative e i permessi

sindacali per i lavoratori delle PP.AA., con la finalità dichiarata di contenere la spesa

pubblica. In effetti, gli istituti in oggetto aggravano la spesa: la posizione del lavoratore

distaccato o in aspettativa deve essere coperta con una nuova assunzione; l'assenza del

94

lavoratore durante le ore dei permessi comporta il ricorso al lavoro straordinario. Al

contempo, la disposizione detta un'unica disciplina per tre istituti decisamente differenti fra

loro. La riduzione dei distacchi - a tempo determinato, ma prorogabili e potenzialmente a

vita - può portare un vantaggio non solo economico, rendendo più difficile la formazione

di un ceto sindacale estraneo alle concrete esigenze del lavoratore. La riduzione di

permessi e aspettative, invece, rischia di rendere decisamente difficoltoso lo svolgimento

dell'attività dei delegati e dei dirigenti, necessaria alla sopravvivenza dell'organizzazione

sindacale; si dubita che le esigenze del buon andamento della P.A. e dell'equilibrio del

bilancio pubblico siano state adeguatamente contemperate con la libertà sindacale,

garantita dall'art. 39 della Costituzione.

Art. 8 – Incarichi negli uffici di diretta collaborazione

1. All'articolo 1, comma 66, della legge 6 novembre 2012 n. 190, sono apportate le

seguenti modificazioni:

a) le parole: "compresi quelli di titolarità dell’ufficio di gabinetto," sono sostituite dalle

seguenti: "compresi quelli, comunque denominati, negli uffici di diretta collaborazione, ivi

inclusi quelli di consulente giuridico, nonché quelli di componente degli organismi

indipendenti di valutazione,"; b) dopo il primo periodo è inserito il seguente: "E' escluso il

ricorso all'istituto dell'aspettativa.".

2. Gli incarichi di cui all'articolo 1, comma 66, della legge n. 190 del 2012, come

modificato dal comma 1, in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione

del presente decreto, cessano di diritto se nei trenta giorni successivi non è adottato il

provvedimento di collocamento in posizione di fuori ruolo.

3. Sono fatti salvi i provvedimenti di collocamento in aspettativa già concessi alla data di

entrata in vigore del presente decreto.

4. Sui siti istituzionali degli uffici giudiziari ordinari, amministrativi, contabili c militari

nonché sul sito dell'Avvocatura dello Stato sono pubblicate le statistiche annuali inerenti

alla produttività dei magistrati e degli avvocati dello Stato in servizio presso l'ufficio. Sono

pubblicati sui medesimi siti i periodi di assenza riconducibili all'assunzione di incarichi

conferiti.

Tale disposizione prevede l’obbligo di collocazione fuori ruolo per i magistrati

chiamati a svolgere incarichi presso istituzioni, organi ed enti pubblici attribuiti in

posizioni apicali o comunque in uffici di diretta collaborazione nella P.A., escludendo

esplicitamente il ricorso all’istituto dell’aspettativa. La ratio è evidentemente quella di

consentire ai magistrati di disporre del tempo necessario all’adempimento efficiente della

funzione giurisdizionale; essa inoltre scongiura le indebite commistioni tra esecutivo e

organi giurisdizionali, che di fatto sono idonee a pregiudicare la dovuta terzietà del giudice

amministrativo. Il T.A.R. del Lazio e il Consiglio di Stato hanno sempre costituito

importanti bacini di reclutamento, tra i loro componenti magistrati, per l’affidamento di

incarichi apicali nelle PP.AA.: una simile commistione può rendere i giudici

particolarmente sensibili agli interessi pubblici nella soluzione delle controversie, a

discapito del principio dell’imparzialità, terzietà ed equidistanza tra P.A. e cittadino,

condizione imprescindibile nel processo amministrativo. In tal senso la norma assume una

speciale rilevanza anche rispetto alla stessa riforma del processo amministrativo, atteso che

essa pare in grado di ricondurre esponenti della funzione giurisdizionale alle loro funzioni

naturali. Ci si domanda a questo punto se l’istituto della collocazione fuori ruolo dei

magistrati chiamati a svolgere incarichi apicali sia idonea e sufficiente a conseguire il fine

95

voluto. Un’alternativa forse ancora più efficace avrebbe potuto essere l’istituzione di una

assoluta incompatibilità allo svolgimento da parte di tali soggetti degli incarichi in oggetto,

i quali potrebbero parimenti essere svolti da altri soggetti altamente specializzati, come

avvocati generali dello stato o consiglieri parlamentari.

In conclusione, si valuta positivamente la prima parte del d.l., atteso che innesca un

percorso atto a creare, quantomeno, le condizioni giuridiche utili a incrementare,

all’interno della P.A., l'occupazione e il ricambio generazionale. Che le nuove reclute

occupabili siano giovani, o precari da stabilizzare, o altra tipologia di

disoccupati/inoccupati - a seconda delle scelte che le singole PP.AA. faranno in sede di

redazione del bando di concorso - è, comunque, un dato significativo, ancorché relativo: se

ricambio ci sarà, questo costituirà comunque un beneficio. Resta da vedere se, in un

contesto generalizzato di sofferenza contabile degli enti pubblici - quelli locali in

particolare - sarà possibile disporre delle risorse economiche necessarie ad attivare il

meccanismo predisposto dal ddl.

3. Titolo I capo II - La riforma delle Autorità amministrative indipendenti

Andrea Patanè e Matteo Porricolo

Art. 22

1. I componenti dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, della

Commissione nazionale per le società e la borsa, dell'Autorità di regolazione dei trasporti,

dell'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico, dell'Autorità per le garanzie

nelle comunicazioni, del Garante per la protezione dei dati personali, dell'Autorità

nazionale anticorruzione, della Commissione di vigilanza sui fondi pensione e della

Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici

essenziali, alla cessazione dall'incarico, non possono essere nuovamente nominati

componenti di una autorità indipendente, a pena di decadenza, per un periodo pari a

cinque anni.

2. Nel capo III del titolo IV della legge 28 dicembre 2005, n. 262, dopo l’articolo 29 è

aggiunto il seguente:

"Art. 29-bis. – (Incompatibilità per i componenti e i dirigenti della CONSOB cessati

dall’incarico).

1. I componenti degli organi dì vertice e i dirigenti della Commissione nazionale per le

società e la borsa, nei due anni successivi alla cessazione dell'incarico, non possono

intrattenere, direttamente o indirettamente, rapporti di collaborazione, di consulenza. o di

impiego con i soggetti regolati. I contratti conclusi in violazione del presente comma sono

nulli. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai dirigenti che negli ultimi due

anni di servizio sono stati responsabili esclusivamente dì uffici di supporto né con società

controllate da questi ultimi. Le disposizioni del presente articolo si applicano ai

componenti degli organi di vertice e ai dirigenti della Banca d’Italia e dell’Istituto per la

vigilanza sulle assicurazioni per un periodo, non superiore a due anni, stabilito con

decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanare previo parere della Banca

centrale europea, che viene richiesto entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore

della presente disposizione".

3. All'articolo 2, comma 9, della legge 14 novembre 1995, n. 481, sono apportate le

seguenti modificazioni:

96

a) al primo periodo, la parola: "quattro" è sostituita dalla seguente: "due" ;

a) dopo le parole: "i componenti" sono inserite le seguenti: "e i dirigenti";

b) è aggiunto in fine il seguente periodo: "Le disposizioni del presente comma non si

applicano ai dirigenti che negli ultimi quattro anni di servizio sono stati responsabili

esclusivamente di uffici dì supporto.".

4. Le procedure concorsuali per il reclutamento di personale degli organismi dì cui al

comma 1 sono gestite unitariamente. previa stipula di apposite convenzioni tra gli stessi

organismi, che assicurino la trasparenza e l'imparzialità delle procedure e la specificità

delle professionalità di ciascun organismo. Sono nulle le procedure concorsuali avviate

dopo l'entrata in vigore del presente decreto e prima della stipula delle convenzioni o

poste in essere, successivamente alla predetta stipula, in violazione degli obblighi di cui al

presente comma e le successive eventuali assunzioni. Restano valide le procedure

concorsuali in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto.

5. A decorrere dal 1° luglio 2014, gli organismi di cui ai comma 1 provvedono, nell'ambito

dei propri ordinamenti, a una riduzione non inferiore al venti per cento del trattamento

economico accessorio del personale dipendente, inclusi i dirigenti.

6. A decorrere dal 1° ottobre 2014, gli organismi di cui al comma 1 riducono in misura

non inferiore al cinquanta per cento, rispetto a quella complessivamente sostenuta nel

2013, la spesa per incarichi dì consulenza, studio e ricerca e quella per gli organi

collegiali non previsti dalla legge. Gli incarichi e i contratti in corso sono rinegoziati

entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente

decreto al fine di assicurare il rispetto dei limiti di cui al periodo precedente.

7. Gli organismi di cui al comma 1 gestiscono i servizi strumentali in modo unitario,

mediante la stipula di convenzioni o la costituzione di uffici comuni ad almeno due

organismi. Entro il 31 dicembre 2014, i predetti organismi provvedono ai sensi del primo

periodo per almeno tre dei seguenti servizi: affari generali, servizi finanziari e contabili,

acquisti e appalti, amministrazione del personale, gestione del patrimonio, servizi tecnici e

logistici, sistemi informativi ed informatici. Dall'applicazione del presente comma devono

derivare, entro l'anno 2015, risparmi complessivi pari ad almeno il dieci per cento della

spesa complessiva sostenuta dagli stessi organismi per i medesimi servizi nell'anno 2013.

8. Alla legge 27 dicembre 2006, n. 296 sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 1, comma 449, al secondo periodo, dopo le parole "e successive

modificazioni," sono aggiunte le seguenti: " nonché le autorità indipendenti,";

b) all'articolo 1, comma 450, al secondo periodo, dopo le parole: "le altre amministrazioni

pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165," sono

aggiunte le seguenti: " nonché le autorità indipendenti,"

9. Gli organismi di cui al comma 1 gestiscono i propri servizi logistici in modo da

rispettare i seguenti criteri:

a) sede in edificio di proprietà pubblica o in uso gratuito, salve le spese di funzionamento,

o in locazione a condizioni più favorevoli rispetto a quelle degli edifici demaniali

disponibili;

b) concentrazione degli uffici nella sede principale, salvo che per oggettive esigenze di

diversa collocazione in relazione alle specifiche funzioni di singoli uffici;

c) esclusione di locali adibiti ad abitazione o foresteria per i componenti e il personale;

d) spesa complessiva per sedi secondarie, rappresentanza, trasferte e missioni non

superiore al 20 per cento della spesa complessiva;

e) presenza effettiva del personale nella sede principale non inferiore al 70 per cento del

totale su base annuale, tranne che per la Commissione nazionale per le società e la borsa;

f) spesa complessiva per incarichi di consulenza, studio e ricerca non superiore al 2 per

97

cento della spesa complessiva.

9-bis. Gli organismi di cui al comma 1 assicurano il rispetto dei criteri di cui allo stesso

comma 1 entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del

presente decreto e ne danno conto nelle successive relazioni annuali, che sono trasmesse

anche alla Corte dei conti. Nell’ipotesi di violazione di uno dei criteri di cui alle lettere a),

b) e c) del comma 9, entro l’anno solare successivo a quello della violazione il Ministero

dell’economia e delle finanze, tramite l’Agenzia del demanio, individua uno o più edifici di

proprietà pubblica da adibire a sede, eventualmente comune, delle relative autorità.

L’organismo interessato trasferisce i propri uffici nei sei mesi successivi

all’individuazione. Nell’ipotesi di violazione di uno dei criteri di cui alle lettere d), e) e f)

del citato comma 9, l’organismo interessato trasferisce al Ministero dell’economia e delle

finanze una somma corrispondente all’entità dello scostamento o della maggiore spesa,

che rimane acquisita all’erario.

10. L'articolo 2, comma 3, della legge 14 novembre 1995, n. 481, è abrogato.

11. (comma soppresso dalla legge di conversione)

12. (comma soppresso dalla legge di conversione)

13. Dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto,

l'articolo 23, comma 1, lettera e), del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, come

convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, è soppresso.

14. Al decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, come convertito dalla legge 7 giugno 1974, n.

216, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 1, nono comma, è inserito, prima delle parole ".I predetti regolamenti", il

seguente periodo: "Le deliberazioni della Commissione concernenti i regolamenti di cui ai

precedenti commi sono adottate con non meno di quattro voti favorevoli.";

b) all'articolo 2, quarto comma, terzo periodo, le parole "dalla Commissione" sono

sostituite dalle seguenti: "con non meno di quattro voti favorevoli.";

c) all'articolo 2, quarto comma, quarto periodo, dopo le parole "su proposta del

Presidente" sono inserite le seguenti: "e con non meno di quattro voti favorevoli.";

d) all'articolo 2, ottavo comma, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: "Le relative

deliberazioni sono adottate con non meno di quattro voti favorevoli.".

15. Ai maggiori oneri di cui al comma 13, pari a 480.000 euro annui, si fa fronte

nell'ambito del bilancio della Consob che a tal fine effettua corrispondenti risparmi di

spesa, ulteriori rispetto a quelli previsti a legislazione vigente, senza incrementare il

contributo a carico dei soggetti vigilati.

16. Le disposizioni di cui al comma 14 si applicano dalla data di nomina dell'ultimo dei

cinque componenti della Consob.

Delle disposizioni del decreto-legge 90/2014 che incidono sulle Autorità

amministrative indipendenti (mirano alla razionalizzazione dell’attività delle stesse e al

risparmio della spesa pubblica) pare utile soffermarsi sugli aspetti che presentano maggiori

profili di criticità. Tra gli interventi che dovrebbero modificare il sistema attuale si

annovera la sostituzione della competenza funzionale inderogabile del TAR Lombardia a

favore del TAR Lazio per le controversie relative all’Autorità per l’energia elettrica e il

gas, una previsione in relazione funzionale con l’ipotesi che prevede il trasferimento a

Roma di tutte le sedi delle Autorità. Prescindendo dalle valutazioni effettuate per ottenere

un risparmio di spesa nella gestione delle Autorità (stime smentite in autorevoli

98

sedi)145

l’eventuale spostamento nella capitale delle Autorità potrebbe non essere opportuno

nella prospettiva dell’autonomia e del buon funzionamento dell’attività svolta, che è invece

essenziale per il raggiungimento degli scopi di regolamentazione del mercato. Le cd.

Authoritiesinfatti risultano essere già ben avviate ed efficienti nelle loro sedi attuali, diffuse

sul territorio italiano e la lontananza, anche geografica, dagli organi politici è sempre stata

tra i fattori che hanno garantito la loro necessaria terzietà e imparzialità. Diversamente, è

condivisibile la previsione di rendere unitaria la gestione dei servizi strumentali «mediante

la stipula di convenzioni o la costituzione di uffici comuni ad almeno due organismi (…) il

raggiungimento di un accorpamento per almeno tre dei seguenti servizi: affari generali,

servizi finanziari e contabili, acquisti e appalti, amministrazione del personale, gestione

del patrimonio, servizi tecnici e logistici, sistemi informativi ed informatici». Quanto alla

competenza funzionale del Tribunale amministrativo regionale non sembra comprendersi

la ratio di una decisione che modifica un impianto che sinora non ha mostrato particolari

problematicità e che, anzi, ha dimostrato di essere altrettanto efficiente e terzo nella

risoluzione delle controversie. I giudici individuati dal decreto, invece, potrebbero avere

difficoltà a svolgere una funzione attenta ed imparziale tra l’interesse pubblico e l’interesse

privato, anche a causa dell’elevata mole di lavoro che già grava sul TAR Lazio. Infine, un

altro aspetto critico sembra potersi rintracciare nell’articolo 22, comma 5 e comma 6, in cui

si prevede rispettivamente nel primo una riduzione «non inferiore al venti per cento del

trattamento economico accessorio del personale dipendente, inclusi i dirigenti» e nel

secondo una riduzione «pari almeno al cinquanta per cento della spesa per incarichi di

consulenza, studio e ricerca».Pur comprendendo la necessità di dover effettuare una

riduzione dei costi sostenuti, sembra però opportuno svolgere una più attenta riflessione al

fine di mantenere una giusta proporzione tra i compensi e le mansioni svolte, così da poter

attrarre le migliori professionalità a servizio delle Autorità.

4. Articolo 10 - Il segretario comunale e provinciale fra soppressione e dirigenza sui

generis

Luca Beccaria

1. L'articolo 41, quarto comma, della legge 11 luglio 1980, n. 312, è abrogato.

2. L'articolo 30, secondo comma, della legge 15 novembre 1973, n. 734, è sostituito con il

seguente: "Il provento annuale dei diritti di segreteria è attribuito integralmente al

comune o alla provincia.".

2-bis. Negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i

segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale

spettante al comune ai sensi dell’articolo 30, secondo comma, della legge 15 novembre

1973, n. 734, come sostituito dal comma 2 del presente articolo, per gli atti di cui ai

numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge 8 giugno 1962, n. 604, e successive

modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un

quinto dello stipendio in godimento.

2-ter. Le norme di cui al presente articolo non si applicano per le quote già maturate alla

data di entrata in vigore del presente decreto.

2-quater. All’articolo 97, comma 4, lettera c), del testo unico di cui al decreto legislativo

18 agosto 2000, n. 267, le parole: "può rogare tutti i contratti nei quali l’ente è parte ed

145

Vedi audizione presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati del presidente

dell’Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico che stima il costo per il trasferimento a Roma in

10 milioni di euro.

99

autenticare" sono sostituite dalle seguenti: "roga, su richiesta dell’ente, i contratti nei

quali l’ente è parte e autentica".

Il ruolo del segretario comunale e provinciale, istituito dal c.d. decreto Rattazzi, ossia

la legge 23 ottobre 1859, n. 3702 del Regno di Sardegna in materia di ordinamento

comunale e provinciale, sembrerebbe essere arrivato al capolinea con il disegno in materia

di riorganizzazione della Pubblica Amministrazione. Proprio dell'avviso di questa sorta di

tendenza all'abolizione si inserisce il decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, all'art. 10, con

cui vengono eliminati i diritti di rogito del segretario comunale e provinciale e la

ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria. Tale dato merita di essere letto

con la progressione numerica di questo tipo di funzionari, passata in pochi anni da oltre

6.000 (nel 1998) a 3.700 (nel 2010).

L'aspetto potenzialmente di rischio, e su cui si auspica un intervento correttivo da

parte del Governo, riguarda la competenza di questi funzionari, in particolare quella

correlata al controllo di legalità dell'amministrazione e i nuovi compiti attribuitigli dalla

legge 6 novembre 2012, n. 190, venga a cessare totalmente in quelle realtà dotate già di

dirigenti e a divenire facoltativi in tutte quelle altre medio piccole, sprovviste di una

dirigenza.

In definitiva, vista la natura sui generis che verrebbe comunque ad assumere questo

funzionario, visibile anche guardando le modifiche già operate in tale parte del disegno di

legge, potrebbe essere molto più proficuo sviluppare una normativa volta a definire

chiaramente il ruolo, i criteri di selezione e la procedura di nomina, che non dovrebbe più

essere il risultato della sola decisione del sindaco o presidente di provincia, bensì prevedere

una codecisione da parte del Consiglio comunale o provinciale, in cui si rendano

obbligatorie delle maggioranze pari almeno a quelle richieste per la revisione statutaria.

5. Le modifiche apportate al Codice del processo amministrativo Davide Formaggio

Articolo 40

1. All'articolo 120 dell'allegato 1 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del

processo amministrativo), sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il comma 6 è sostituito dal seguente:

"6. Il giudizio, ferma la possibilità della sua definizione immediata nell'udienza cautelare

ove ne ricorrano i presupposti, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata

ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza

del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente. Della data di udienza è

dato immediato avviso alle parti a cura della segreteria, a mezzo posta elettronica

certificata. In caso di esigenze istruttorie o quando è necessario integrare il

contraddittorio o assicurare il rispetto di termini a difesa, la definizione del merito viene

rinviata, con l'ordinanza che dispone gli adempimenti istruttori o l'integrazione del

contraddittorio o dispone il rinvio per l'esigenza di rispetto dei termini a difesa, ad una

udienza da tenersi non oltre trenta giorni. Al fine di consentire lo spedito svolgimento del

giudizio in coerenza con il principio di sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2, le parti

100

contengono le dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nei termini stabiliti con

decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Consiglio nazionale forense e

l’Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli

avvocati amministrativisti. Con il medesimo decreto sono stabiliti i casi per i quali, per

specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. Il medesimo decreto,

nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi, tiene conto del

valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi

interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le

intestazioni e le altre indicazioni formali dell’atto. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le

questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle

suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di

revocazione della sentenza di appello";

b) dopo il comma 8, è inserito il seguente: "8-bis. Il collegio, quando dispone le misure

cautelari di cui al comma 4 dell'articolo 119, ne può subordinare l’efficacia, anche

qualora dalla decisione non derivino effetti irreversibili, alla prestazione, anche mediante

fideiussione, di una cauzione di importo commisurato al valore dell’appalto e comunque

non superiore allo 0,5 per cento del suddetto valore. Tali misure sono disposte per una

durata non superiore a sessanta giorni dalla pubblicazione della relativa ordinanza, fermo

restando quanto stabilito dal comma 3 dell'articolo 119";

c) il comma 9 è sostituito dal seguente: "9. Il Tribunale amministrativo regionale deposita

la sentenza con la quale definisce il giudizio entro trenta giorni dall'udienza di

discussione, ferma restando la possibilità di chiedere l'immediata pubblicazione del

dispositivo entro due giorni.".

2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai giudizi introdotti con ricorso

depositato, in primo grado o in grado di appello, in data successiva alla data di entrata in

vigore del presente decreto.

2-bis. Le disposizioni relative al contenimento del numero delle pagine, stabilite dal

decreto del Presidente del Consiglio di Stato di cui alla lettera a) del comma 1 sono

applicate in via sperimentale per due anni dalla data di entrata in vigore della legge di

conversione del presente decreto. Al termine di un anno decorrente dalla medesima data,

il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa effettua il monitoraggio degli esiti

di tale sperimentazione.

Il commento seguente fa riferimento al testo originario dell’art.40 presente nel d.l.

n.90/2014. Il testo è stato successivamente modificato in sede di conversione del d.l.. Quanto alle modifiche apportate dall’art.40 all’art.120 c.p.a, se da un lato è meritevole di

attenzione la misura per cui il giudizio in materia di appalti deve essere obbligatoriamente

definito entro un termine comunque non superiore a 60 gg.146

, che pure è il termine

massimo stabilito per l’efficacia delle misure cautelari, non si può tacere sul rischio per cui

la sentenza obbligatoriamente resa in forma semplificata non pare la più consona per le

decisioni in tale materia, in quanto la normativa sostanziale in tema di appalti non gode di

un livello di chiarezza e semplicità tale da consentire una rapida soluzione delle

controversie: con una decisione non sufficientemente motivata il soccombente potrebbe

sentirsi legittimato a promuovere altri gradi di giudizio147

.

146

In sede di conversione del d.l. il termine è stato elevato: al termine ordinario, pari ora a 45 gg. dalla scadenza del

termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente, può seguire il rinvio della definizione nel merito ad

un’udienza da tenersi non oltre ad ulteriori 30 gg. in caso di esigenze istruttorie o quando è necessario integrare il

contraddittorio o assicurare il rispetto dei termini a difesa. 147 Il legislatore, in sede di conversione del d.l., ha introdotto la complessa disciplina sui limiti dimensionali del ricorso e

degli atti difensivi, in ossequio al principio di sinteticità degli atti, affinché il Giudice esamini le questioni trattate nella

101

E’ altresì lecito domandarsi se il tempo, come concretamente lasciato al Presidente, per la

fissazione dell’udienza non sia eccessivamente ridotto, nel caso, piuttosto diffuso, in cui il

ricorrente depositi il ricorso in prossimità della scadenza del termine148

(dimezzato ai

sensi dell’art.119 c.p.a.).

In sede di conversione si dovrebbe inoltre indicare il termine massimo per la celebrazione

dell’udienza a partire dal perfezionamento della notifica, al fine di evitare dubbi sulla

relativa consumazione qualora il termine di scadenza per la costituzione cada in un giorno

festivo.

Quanto alle misure cautelari, la mancata previsione di criteri per la determinazione della

cauzione profila inoltre il rischio di gravi disparità di trattamento nell’applicazione della

disposizione tra le varie corti149

. Non è inoltre chiaro se la cauzione sia liberata al termine

stabilito dal giudice per l’efficacia delle misure cautelari, comunque obbligatoriamente non

superiore a sessanta giorni150

.

Con il novellato comma 9 dell’art.120, con cui si fissa un termine per il deposito della

decisione, si colma una lacuna del c.p.a ed è pertanto una norma da salutare con favore151

.

Articolo 41

1. All'articolo 26 dell'allegato 1 (Codice del processo amministrativo) del decreto

legislativo 2 luglio 2010, n. 104, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1, in fine, è aggiunto il seguente periodo: "In ogni caso, il giudice, anche

d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della

controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al

doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati.",

b) al comma 2, dopo il primo periodo è inserito il seguente: "Nelle controversie in materia

di appalti di cui agli articoli 119, lettera a), e 120 l'importo della sanzione pecuniaria può

essere elevato fino all'uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto

limite.".

Il commento seguente fa riferimento al testo originario dell’art.41 presente nel d.l.

n.90/2014. La lett.a) del primo comma di detto articolo è stata modificata in sede di

conversione del d.l..

In riferimento all’art.41 del d.l. n.90/2014, che introduce misure di contrasto al fenomeno

dell’abuso del processo, per il soccombente si aggiungerebbe un’ulteriore spesa, oltre alla

condanna delle spese di lite e al pagamento del contributo unificato: nel caso non raro di

soccombenza della p.a., si manifesterebbe l’indesiderato effetto dell’ aggravio delle

finanze pubbliche.

pagine rientranti nei suddetti limiti. Conseguentemente si prevede che “il mancato esame” delle questioni ivi trattate

“costituisce motivo di appello avverso al sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello. 148 Elevando i termini per l’udienza di merito, il legislatore sembra avere tenuto conto di questo aspetto in sede di

conversione del d.l.. 149 In sede di conversione del d.l. il legislatore ha introdotto i limiti per la determinazione della cauzione, assenti nel d.l.:

ora il collegio può subordinare l’efficacia della misura cautelare, anche quando dalla decisione non derivino effetti

irreversibili, alla prestazione di una cauzione di importo commisurato al valore dell’appalto e comunque non superiore

allo 0.5 % di suddetto valore. 150 Il termine massimo di efficacia delle misure cautelari comunque non superiore a 60 gg. è stato confermato in sede di

conversione del d.l.. 151 La disposizione è stata confermata anche nel testo risultante dalla legge di conversione: la sentenza deve essere

obbligatoriamente depositata entro 30 gg. dall’udienza di discussione, ferma restando la possibilità di chiedere la

pubblicazione del dispositivo entro 2 gg..

102

La disposizione dovrebbe essere soprattutto costruita in modo meno incerto, onde evitare

di presentarsi in contrasto con i principi di legalità e proporzionalità che sono alla base

dell’applicazione delle sanzioni afflittive. Inoltre l’ aggettivo “manifeste” si presta a

utilizzi pretestuosi da parte del soccombente in quanto rischia di essere utilizzato -

proprio per il suo carattere incerto e in evidente contrasto con la finalità deflattiva della

norma - come argomentazione per chiedere la riforma della sentenza152

.

Non pone invece particolari problemi la modifica alla disciplina della sanzione alla lite

temeraria (art.26, c.2, c.p.a.) prevista dalla lett.b) dell’art.41 per le controversie in materia

di appalti.

La mancata introduzione dell’art.30 bis al c.p.a. (azione di accertamento)

Purtroppo non si è invece colta, nel testo definitivo del d.l., l’occasione per introdurre

l’azione di accertamento con autonoma collocazione nel c.p.a.: da tempo la dottrina

sottolinea la necessità di introdurre tale azione, di tipo residuale, per assicurare una

stabilità processuale ai rapporti che ne siano sprovvisti.

6. Semplificazione amministrativa e mancata introduzione di modifiche alla l.

241/1990 Maria José Zampano ed Elisa Bellomo

Il contenuto delle disposizioni in materia amministrativa è particolarmente

eterogeneo e segue il trend legislativo della semplificazione amministrativa, dalle misure

semplificative per i soggetti con invalidità all’agenda per la semplificazione. Degna di nota

è sicuramente la volontà di rendere i servizi amministrativi più accessibili ai cittadini.

Maggiormente significative, tuttavia, sono le disposizioni che avrebbero inciso sui

presupposti di esercizio del potere di riesame della PA. Le modifiche degli artt. 21

quinques e 21 nonies della l. n. 241/1990, non confluite nel decreto legge, avrebbero

ristretto i presupposti di legittimità dell’esercizio del potere di riesame della PA e

avrebbero così tutelato, in modo più efficace e pervasivo, il legittimo affidamento dei

soggetti privati e la certezza del diritto. Sul punto si evidenzia che tali obiettivi potrebbero

essere meglio perseguiti con un intervento organico del legislatore sulla legge generale sul

procedimento amministrativo ed in particolare, come rilevato da recente dottrina, con una

nuova modifica dell’art. 2 bis della l. n. 241/1990 diretta a rendere effettiva la

responsabilità della PA per inosservanza del termine di conclusione del procedimento.

152

In sede di conversione del d.l. il legislatore ha colto tale problematica: non si fa più riferimento alla

“decisione”. Ora la somma può essere disposta dal giudice solo in presenza di “motivi manifestatamente

infondati”.

Recent working papers

The complete list of working papers is can be found at http://polis.unipmn.it/index.php?cosa=ricerca,polis

*Economics Series **Political Theory and Law Al.Ex Series

Q Quaderni CIVIS

2014 n.216** Elena Ponzo et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.5/2014

2014 n.215 Gianna Lotito, Anna Maffioletti and Marco Novarese: Are better students really less overconfident? - A preliminary test of different measures

2014 n.214* Gloria Origgi, Giovanni B. Ramello and Francesco Silva: Publish or Perish. Cause e conseguenze di un paradigma

2014 n.213** Andrea Patanè et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.4/2014

2014 n.212** Francesco Ingravalle et al.: L’evento. Aspetti e problemi

2013 n.211** Massimo Carcione: La garanzia dei diritti culturali: Recepimento delle norme internazionali, sussidarietà e sistema dei servizi alla cultura .Case study: La valorizzazione della Cittadella di Alessandria e del sito storico di Marengo.

2013 n.210** Massimo Carcione: La garanzia dei diritti culturali: Recepimento delle norme internazionali, sussidarietà e sistema dei servizi alla cultura

2013 n.209** Maria Bottigliero et al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.3/2013

2013 n.208** Joerg Luther, Piera Maria Vipiana Perpetua et. al.: Contributi in tema di semplificazione normativa e amministrativa

2013 n.207* Roberto Ippoliti: Efficienza giudiziaria e mercato forense

2013 n.206* Mario Ferrero: Extermination as a substitute for assimilation or deportation: an economic approach

2013 n.205* Tiziana Caliman and Alberto Cassone: The choice to enrol in a small university: A case study of Piemonte Orientale

2013 n.204* Magnus Carlsson, Luca Fumarco and Dan-Olof Rooth: Artifactual evidence of discrimination in correspondence studies? A replication of the Neumark method

2013 n.203** Daniel Bosioc et. al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.2/2013

2013 n.202* Davide Ticchi, Thierry Verdier and Andrea Vindigni: Democracy, Dictatorship and the Cultural Transmission of Political Values

2013 n.201** Giovanni Boggero et. al. (DRASD): OPAL – Osservatorio per le autonomie locali N.1/2013

2013 n.200* Giovanna Garrone and Guido Ortona: The determinants of perceived overall security

2012 n.199* Gilles Saint-Paul, Davide Ticchi, Andrea Vindigni: A theory of political entrenchment

2012 n.198* Ugo Panizza and Andrea F. Presbitero: Public debt and economic growth: Is there a causal effect?

2012 n.197 Matteo Migheli, Guido Ortona and Ferruccio Ponzano: Competition among parties and power: An empirical analysis

2012 n.196* Roberto Bombana and Carla Marchese: Designing Fees for Music Copyright Holders in Radio Services

2012 n.195* Roberto Ippoliti and Greta Falavigna: Pharmaceutical clinical research and regulation: an impact evaluation of public policy

2011 n.194* Elisa Rebessi: Diffusione dei luoghi di culto islamici e gestione delle conflittualità. La moschea di via Urbino a Torino come studio di caso

2011 n.193* Laura Priore: Il consumo di carne halal nei paesi europei: caratteristiche e trasformazioni in atto

2011 n.192** Maurilio Guasco: L'emergere di una coscienza civile e sociale negli anni dell'Unita' d'Italia

2011 n.191* Melania Verde and Magalì Fia: Le risorse finanziarie e cognitive del sistema universitario italiano. Uno sguardo d'insieme

2011 n.190 Gianna Lotito, Matteo Migheli and Guido Ortona: Is cooperation instinctive? Evidence from the response times in a Public Goods Game