27
PREFETTI DI FERRO IN ANNI DI PIOMBO Politica, storia e Sicilia in Il prefetto di ferro di Pasquale Squitieri Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in fondo al cuore. (Alexis de Tocqueville, La democrazia in America) I fioretti del Santo d'Assisi devono essere sostituiti dall'arma legittima che spari tempestivamente, e dalla spada della Legge che, con taglio netto, estirpi il male prima che invada il tessuto sociale. Le parole della seconda citazione che poniamo in esergo non costituiscono una delle tante tirate retoriche di Ai ferri corti con la mafia, il libro in cui Cesare Mori espone il racconto romanzato del suo duello con la piovra siciliana, né fanno parte della sceneggiatura un po’ spaghetti-western approntata con l’aiuto di Ugo Pirro da Pasquale Squitieri per la trasposizione cinematografica del libro di Arrigo Petacco su Mori, Il prefetto di ferro. Queste parole furono invece pronunciate dal Procuratore Generale della Corte d’Assise di Bologna, Domenico Bonfiglio, nella sua relazione inaugurale dell’anno giudiziario 1975. Le riportiamo poichè le riteniamo esemplari, soprattutto perché pronunciate da un “servitore dello stato” che può certo definirsi “democratico” (Bonfiglio fu vittima di un attentato intimidatorio nel 1976 ad opera di Ordine Nero, un’organizzazione appartenente alla galassia dei gruppuscoli neofascisti), di quel clima diffuso di “legge ed ordine” da perseguire ad ogni costo e con ogni mezzo che si coagulò già a partire dal 1974 in un inasprimento autoritario

PREFETTI DI FERRO IN ANNI DI PIOMBO. Politica, storia e Sicilia in Il prefetto di ferro di Pasquale Squitieri

Embed Size (px)

Citation preview

PREFETTI DI FERRO IN ANNI DI PIOMBO

Politica, storia e Sicilia in Il prefetto di ferro di Pasquale Squitieri

Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in

fondo al cuore.

(Alexis de Tocqueville, La democrazia in America)

I fioretti del Santo d'Assisi devono essere sostituiti dall'arma legittima che spari

tempestivamente, e dalla spada della Legge che, con taglio netto, estirpi il male prima che

invada il tessuto sociale.

Le parole della seconda citazione che poniamo in esergo non

costituiscono una delle tante tirate retoriche di Ai ferri corti con la

mafia, il libro in cui Cesare Mori espone il racconto romanzato del

suo duello con la piovra siciliana, né fanno parte della

sceneggiatura un po’ spaghetti-western approntata con l’aiuto di Ugo

Pirro da Pasquale Squitieri per la trasposizione cinematografica

del libro di Arrigo Petacco su Mori, Il prefetto di ferro. Queste parole

furono invece pronunciate dal Procuratore Generale della Corte

d’Assise di Bologna, Domenico Bonfiglio, nella sua relazione

inaugurale dell’anno giudiziario 1975. Le riportiamo poichè le

riteniamo esemplari, soprattutto perché pronunciate da un

“servitore dello stato” che può certo definirsi “democratico”

(Bonfiglio fu vittima di un attentato intimidatorio nel 1976 ad

opera di Ordine Nero, un’organizzazione appartenente alla galassia

dei gruppuscoli neofascisti), di quel clima diffuso di “legge ed

ordine” da perseguire ad ogni costo e con ogni mezzo che si

coagulò già a partire dal 1974 in un inasprimento autoritario

della legislazione penale: in quell’anno venne infatti varata la

legge che raddoppiava i termini della carcerazione preventiva,

poco tempo dopo fu reintrodotto l’interrogatorio di polizia, nel

1975 fu approvata la legge Reale definita da Lelio Basso una

«licenza di uccidere concessa alla polizia con garanzia di impunità […] una legislazione

che ci riporta indietro di anni, più indietro del codice Rocco»1. La famigerata legge

Reale costituiva soltanto il punto più clamoroso di un’operazione

che culminerà nella cosiddetta “legislazione di emergenza”2 che non

agiva soltanto sul piano militare, né si limitava semplicemente a

ristrutturare la macchina repressiva e giudiziaria; a distanza di

anni crediamo sia possibile affermare che essa fu una forma della

politica, una modalità di risposta alla crisi sociale, che costituirà

un paradigma di governo negli anni a venire: «La risposta alla rivolta

sociale fu l'edificazione del sistema dell'emergenza. La nozione di "emergenza", concepita

inizialmente come esigenza economica, divenne una categoria dello spirito, per poi

estendersi al campo giuridico, sociale e politico. Si trasformò in uno strumento per

governare il conflitto all'interno di una nuova concezione della democrazia come spazio

blindato composto da territori recintati oltre i quali non era consentito fuoriuscire. La1 L. Basso, Intervento al senato della repubblica del 15 maggio 1975, in 625. Libro bianco sulla leggeReale, a cura del Centro di Iniziativa Luca Rossi, Milano, 1990, p. 333. Per dareun’idea del carattere di questa legge, riteniamo utile riportare un altro passo dell’intervento di Basso: «Ho sentito altri colleghi, tra cui il senatore Branca, autorevolissimo in questa materia, ricordare l’incostituzionalità di certi articoli: la violazione dell’art. 13 per quanto riguarda il diritto di perquisizione senza le garanzie previste in questo articolo, che richiedono sempre in ultima analisi una decisione dell’autorità giudiziaria, mentre in questo caso si ammette la perquisizione anche senza dar notizia ad essa. Secondo me è poi violato l’art. 28 sulla responsabilità dei pubblici ufficiali, che non possono essere perseguiti penalmente senza certe autorizzazioni[…] È certamente violato l’art. 3 sull’uguaglianza, perché qui si creano due giurisdizioni: quella per tutti noi, modesti cittadini, e quella per gli agenti di pubblica sicurezza. È certamente violato l’art. 27 sulla presunzione di innocenza, l’art. 112 che obbliga il pubblico ministero ad iniziare l’azione penale, mentre qui si proibisce di iniziarla senza un’autorizzazione superiore. E che dire dell’art. 17 che riconosce incondizionatamente il diritto di riunione senza armi, mentre voi aggiungete il divieto del casco che un’arma non è? Che dire dell’estensione del confino agli avversari politici? Che cosa dell’art. 10 della costituzione sull’asilo politico che è nettamente violato proprio nell’articolo che lo richiama?» ivi, p. 335.2 Usiamo tale definizione chiaramente in senso polemico. Come abbiamo visto i primi provvedimenti riconducibili allo spirito della legislazione speciale si collocano in un momento molto precedente al “pericolo terrorista”, mentre d’altra parte la legge Reale resterà in vigore per 15 anni.

legalità era il nuovo filo spinato che designava in modo assolutamente rigido lo spazio

dell'agire legittimo. Il conflitto veniva messo a nudo, spogliato di ogni rappresentanza che

ne tentasse un recupero in termini di dialettica sociale e politica, per divenire una

questione di ordine pubblico, di codice penale. Per avere legittimità i movimenti sociali

dovevano rientrare nel recinto stabilito dalle rappresentanze istituzionali, oppure subire la

criminalizzazione»3. Anche il Pci, che all’indomani degli eccidi di

Avola e di Battipaglia si era fatto promotore di mobilitazioni per

il disarmo della polizia e l’11 gennaio 1973 aveva condotto una

durissima battaglia parlamentare contro il fermo di polizia

proposto dal governo Andreotti, fu portato, sull’onda della scelta

berlingueriana del “compromesso storico”, ad attenuare fortemente

la sua opposizione alle leggi liberticide. Senza esprimere, poiché

non è questo il luogo, un giudizio storico-politico sulla scelta

dei governi di solidarietà nazionale4, né sull’effettiva necessità

di una legislazione speciale per affrontare il terrorismo e sugli

esiti e conseguenze di essa, crediamo sia possibile concordare con

quanto scrive Ginsborg: «Più il partito si avvicinava al governo rafforzando la sua

alleanza con la Dc, più cercava di stabilire con forza le proprie credenziali come

“responsabile” partito di governo. Qui Berlinguer compì uno dei suoi più gravi errori. Nei

trent’anni di vita della Repubblica gli attivisti del Pci erano sempre stati presi di mira dalle

misure repressive della polizia; dal 1976 in poi, invece, il partito divenne il più zelante

difensore delle tradizionali misure di legge e di ordine, anziché farsi campione delle

campagne per i diritti civili. Un esempio emblematico di tale atteggiamento fu l’appoggio3 P. Persichetti, O. Scalzone, Il nemico inconfessabile, Odradek, Roma, 1999, p. 6.4 Il compromesso storico è comunque da interpretarsi fondamentalmente come la risposta di Berlinguer al pericolo di una soluzione “cilena” (in Cile, nel 1971,il governo socialista e democratico di Allende era stato rovesciato dal colpo distato fascista del generale Pinochet) alla crisi italiana. Come scrive Ginsborg,«una tendenza di questo genere si era manifestata anche in Italia a partire dal 1969, quando all’attivismo studentesco e operaio si contrapposero la strategia della tensione, la mobilitazione dell’estrema destra, il deterioramento della situazione economica. Le forze reazionarie del paese stavano cercando di creare “un clima di esasperata tensione” che aprisse la strada a un governo autoritario o perlomeno a una svolta durevole a destra», P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino, 1999, p. 479.

acritico dato al governo per il rinnovo della legger Reale sull’ordine pubblico, contro la

quale il Pci aveva votato nel 1975. Sui temi cruciali che riguardavano i giovani politicizzati

– il diritto a manifestare, i poteri della polizia, la detenzione preventiva, la riforma

carceraria – i comunisti mantennero un silenzio che non lasciava presagire niente di

buono»5. Il culmine di tale progetto di ordine pubblico si colloca

nel 1977, quando la quasi totalità delle forze politiche

rappresentate in parlamento approverà appunto la cosiddetta

“legislazione d’emergenza”. Essa, come scrivono Luigi Ferrajoli e

Danilo Zolo, «diventa la base dell’accordo fra i partiti dell’arco costituzionale ed è

stata la condizione per la cooptazione del Pci nell’area “democratica” o di governo; per la

prima volta nella sua storia il Pci si è dichiarato favorevole a un massiccio restringimento

delle libertà e delle garanzie costituzionali e si è impegnato in campagne ideologiche –

ultima quella del “referendum” sulla legge Reale – dirette ad alimentare consenso

popolare nei confronti del processo di restaurazione autoritaria»6. È in questo5 Ivi, p.512.6 L. Ferrajoli, D. Zolo, Il caso italiano in L. Ferrajoli, D. Zolo (a cura di), Democrazia autoritaria e capitalismo maturo, Feltrinelli, Milano, 1978. Crediamo sia interessante notare che, accanto alla necessità di dimostrare la più assoluta fermezza nei confronti del terrorismo delle Brigate Rosse per evitare di prestare il fianco a propagandistiche accuse di contiguità ideologica, sul consenso dato alla legislazione d’emergenza dal Pci è possibile abbia agito, sianei gruppi dirigenti sia, soprattutto, nella base del partito sia, più in generale, in gran parte della cultura di sinistra che ad esso si riferiva, l’illusione (che era già stata dei gruppi socialisti che avevano votato la leggeReale nel 1975) di un possibile uso “antifascista” di essa che potesse contrastare la perdurante impunità degli assassini di Piazza della Loggia, dell’Italicus, ecc. In realtà essa era pienamente funzionale alla democristiana teoria degli “opposti estremismi” e l’eloquente parallelo storico con cui Bassotentava di aprire gli occhi ai socialisti doveva rivelarsi pienamente fondato: «Non dite, come è stato affermato da un dirigente socialista che il voto favorevole missino a questa legge, che sarebbe antifascista, è un’autoflagellazione. I missini sanno quello che fanno[…] Come è stato ricordato da qualche giornale, mi pare, gli articoli che si richiamano alla legge Scelba mai applicata sembrano le grida manzoniane, nessuna delle quali veniva applicata ma ciascuna delle quali si richiamava a una precedente grida non applicata; e queste grida si inseguivano di volta in volta come rischiano di inseguirsi questi richiami alla legge Scelba che non trovano mai un complesso organico di magistratura e polizia per poter essere applicati Ci sono del resto precedenti illustri, primo tra tutti quello della repubblica di Weimar con la legge eccezionale che il cancelliere democristiano Wirth fece emanare dopo l’assassinio per mano nazionalista di Rathenau e di cui il giurista democratico Radbruch disse: “La preoccupazione del proletariatoche anche questa ordinanza che è rivolta contro il radicalismo di destra, verrebbe poi rivolta contro la sinistra, è completamente infondata”. L’esperienza invece, come è noto, ha detto tutto il contrario», L. Basso, op. cit., p. 332.

clima unanimistico di tendenziale unificazione del quadro politico

a difesa dello “stato democratico”, è in questo scenario,

ovviamente anche “culturale”7, di una democrazia autoritaria che cercava

di superare la propria crisi proponendosi come restauratrice di un

inflessibile legalitarismo proprio mentre istituzionalizzava a

fondamento dei rapporti tra lo Stato e i suoi cittadini una

pratica sostanzialmente “illegale” nella costruzione e

legittimazione della quale il Pci si fece coinvolgere8, che deve

essere collocata la realizzazione di un film come Il prefetto di ferro;

per esso, uscito significativamente nel 1977, anno, come abbiamo

visto, della “legislazione d’emergenza”, ma anche dell’esplosione

dell’ultimo grande movimento di massa prima del “riflusso”,

crediamo possa valere, mutatis mutandis, quanto Jacques Rancière

7 «Si mette in moto non soltanto un meccanismo processuale e legislativo che fa a pezzi “lo stato di diritto”, ma anche un formidabile apparato dei media, una cultura, un modo di leggere e di falsificare la storia[…]»,N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 665.8 I motivi del coinvolgimento in questa operazione di una forza come il Pci furono molti e complessi. Ne abbiamo già accennati alcuni; possiamo aggiungere il riemergere di una vena culturale stalinista che non era ancora stata del tutto cancellata, la predilezione tradizionale per uno stato forte che in parte ad essa era collegata, l’ansia di rispettabilità, la perdita parziale dell’egemonia nelle fabbriche a favore del sindacato («Il sindacato, unico strumento di mediazione tra il potere della classe operaia e il sistema dei partiti diventava anche la principale cinghia di trasmissione tra la società civile e lo stato, indebolendo così in maniera drammatica e irreversibile il tradizionale potere dei partiti, e in particolare quelli di sinistra.[…]Le forme di lotta, la “conflittualità permanente”, i movimenti che portavano avanti il conflitto sul salario, sul reddito, sui servizi, sul consumo produttivo della forza lavoro, erano quasi tutti autonomi e indipendenti dal sistema dei partiti. L’unica forza che tentava contraddittoriamente di rappresentarli era il sindacato nelle sue varie articolazioni» N. Balestrini, P. Moroni, op. cit., pp. 661-662), una tragica incomprensione delle forze vive che emergevano nella società italiana, dei loro problemi, dei loro bisogni, dal movimento studentesco a quello femminista, a quello dei “non garantiti”; l’incapacità di capire, più in generale, che «il movimento di protesta che aveva investito la società italiana fin dal 1968 si era mostrato, quasi a dispetto delle sue originali intenzioni rivoluzionarie, il principale responsabile di quel riformismo ce aveva avuto luogo dopo il 1969[…] Tra il 1976 e il 1979 questo straordinario e composito movimento di protesta fu distrutto. Il terrorismo porta con sé unagran parte della responsabilità per l’abbandono di traguardi collettivi e per il trionfo del “riflusso”. Esso tolsequalsiasi spazio politico alla protesta sociale, rendendo inevitabile la sola scelta tra l’accettazione dello status quo e le bande armate. Una gran parte di responsabilità, su di un piano diverso, risiede però anche nella mancanza di mediazione politica offerta dai partiti di sinistra e dai sindacati. Il nesso tra protesta e riforma, in questi anni, non fu assolutamente compreso dalla sinistra», P. Ginsborg, op. cit., p. 539.

scrive a proposito di Cadaveri eccellenti (1976) di Rosi: «Il film è

affascinante perché non è una finzione del compromesso storico ma questo compromesso

allo stato di finzione. La doxa politica marxista che permeava un tempo i film di Rosi 9

(l’inchiesta che risale dai fatti ai rapporti di dominazione sociale) si riduce all’esilità di una

finzione completamente letteraria e apolitica del potere. Ma la finzione

cospirazione/inchiesta libera a sua volta la sua politica spontanea: positivazione politica

immediata del buon inquirente, passaggio dall’apparato corrotto allo stato sano dotato di

polizia popolare10 e dalle masse manipolate alle masse ben dirette. La produzione della

finzione è immediatamente doxa politica. Si ritrova la storia di un delitto come pura

finzione della domanda di potere»11. Al di fuori di questa

contestualizzazione storico-politica risulta impossibile

comprendere la rilettura storica della figura di Cesare Mori e la

particolare modalità di rappresentazione del rapporto tra mafia e

fascismo in Sicilia che vengono realizzate nel film. D’altra parte

il clima da “compromesso storico” sembra manifestarsi

9 Questo vale, se non per i precedenti film di Squarzina, certamente per diverseopere sceneggiate da Ugo Pirro (la petriana trilogia del potere, ad esempio).10 L’elemento della polizia popolare non è presente nel film di Squarzina (in realtà appare difficile trovarlo anche nel film di Rosi) ma, curiosamente e significativamente, fa parte della strategia antimafia del Mori storico: il prefetto, infatti, si impegnò a fondo in una campagna che definì «educatrice e sociale» rivolta soprattutto ai contadini che esortava a difendersi armi in pugno contro i malviventi: «Reagire alla malvivenza direttamente con ogni mezzo, comprese le armi; considerare la reazione alla malvivenza in atto, e al delitto in corso contro la vita e gli averi dei cittadini non solo come un diritto ma soprattutto come un dovere». Il culmine di questa sua attività è rappresentata dalla famosa adunata dei campieri di Sicilia del 6 agosto del 1927:«quasi tutti legati alla mafia, i campieri sono finiti in buona parte in carcere o al confino mentre i superstiti, ovunque guardati con sospetto, sono praticamente senza lavoro.Mori, che non può ovviamente sostituirli con altrettanti poliziotti, decide alla fine di indurre la categoria a schierarsi dalla sua parte. Il6 agosto del 1927 tutti i campirei di Sicilia sono convocati per un raduno nella piana di Roccapalumba. Se ne presentano 1322, tutti a cavallo, con la doppietta a tracolla. Mori, anche lui a cavallo, li passa in rassegna come fosse un piccolo esercito[…]Campieri di Sicilia! Chiunque voi siate, da dovunque venuti e qualunque siail vostro credo spirituale, io so di parlare a uomini e a uomini usi a essere tali nel senso più maschio della parola[…] Io vi propongo qui, davanti a questo santo altare, di riprendere il vostro lavoro di un tempo. Ma ad un patto: d’ora in poi il campiere deve essere coraggioso e onorato, pronto anche a dare la vita in difesa di quanto viene affidato alla sua custodia». Le citazioni sono tratte da A. Petacco, Il prefetto di ferro, Mondadori, Milano, 1975, p.176 e p.181-182. 11 L’immagine fraterna. Conversazione con Jacques Rancière in G. M. Gori (a cura di), La storia al cinema, Bulzoni, Roma, 1994, p.215.

simbolicamente anche nella composizione del gruppo di autori del

film12, che unisce intellettuali decisamente “a sinistra” come

(allora) Squitieri e Pirro con uno storico come Arrigo Petacco le

cui prospettive di ricerca, per quanto rispettabili, solo qualche

anno prima sarebbe stato difficile immaginare a fondamento di

un’opera dei primi due. Anzi, lo spostamento di uno Squitieri che

da firmatario nel 1971 della lettera aperta di autodenuncia

inviata al Procuratore della Repubblica di Torino e pubblicata su

Lotta Continua per protestare contro la messa in stato di accusa

di militanti e direttori di questo giornale per istigazione a

delinquere13 passa nel 1977 a cantore dello stato forte, e, ancora

di più, la distanza che corre tra l’inquietante incarnazione del

potere poliziesco data da Pirro nella figura dell’ispettore di

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e la “rassicurante”

epifania di una salvifica giustizia di stato personificata nel

Mori nel Prefetto di ferro, costituiscono la più eloquente misura

dell’oscillazione subita da una parte della cultura di sinistra in

quegli anni.

12 Questo anche al di là della volontà consapevole degli autori. È un dato oggettivo che il film fu recepito in tal modo: «Non si direbbe che Squitieri voglia mettere in risalto la miopia politica di Mori e la sua presunzione di tagliare per sempre un cancro secolare mandando le forze dell'ordine all'assalto d'un paese. Il film ha soprattutto lo scopo di invocare lo Stato fortee di denunciare i legami, di ieri e di oggi, fra i notabili di Roma e l'onorata società della Sicilia.», G. Grazzini, in «Il corriere della Sera», 2 ottobre 1977; «Scaramucce campali, rastrellamenti, cavalcate, assedi, sensazionali processi di gruppo: il film sfrutta tutto ciò con bel piglio narrativo, accostando così al proprio messaggio anche il grosso pubblico. Forse, in questa chiave, il personaggio centrale risulta eccessivamente giustificato nelle sue componenti di durezza senza riguardi e fanatismo legalitario» , G. Braghi, in «Il Messaggero», 2 ottobre 1977;13 Nella lettera aperta si scriveva: «Testimoniamo pertanto che, quando i cittadini da lei imputati affermano che in questa società “l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di repressione della lotta di classe”, noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono “se è vero che i padroni sono dei ladri, è giusto andare a riprendere quello che hanno rubato”, lo diciamo con loro. Quando essi gridano “lotta di classe, amiamo le masse”, lo gridiamo con loro». Da sottolineare soprattutto il passaggio finale: «Quando essi si impegnano a combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino allaliberazione dai padroni e dallo sfruttamento”, ci impegniamo con loro».

Importante è anche collocare il film all’incrocio tra il filone

del cosiddetto “cinema civile”14(o, più malignamente, di “consumo

impegnato”…) e il genere western15. Il primo, se certamente da una

parte significò un generoso tentativo di denunciare al grande

pubblico il gioco del potere, la corruzione e i legami tra i

partiti di governo, in particolar modo la Dc, e la delinquenza, in

una parola l’ipocrisia e il pericolo antidemocratico della “ragion

di stato”, dall’altra si poneva in gran parte dentro l’istituzione,

cedendo alla tentazione, per usare di nuovo le parole di Rancière,

di una «raffigurazione del potere sotto forma di cospiratori occulti, di telefonate

lontane, di microfoni nascosti, di vetture misteriose che escono dal cortile di ville dagli alti

muri e scattano all’improvviso per investire gli inquirenti troppo curiosi [che ha]

qualcosa a che vedere con la grande cospirazione internazionale con la quale si misura il

14 «Rileggere il cinema italiano della svolta degli anni settanta significa ritornare su una vera e propria frattura tra due modi di pensare il cinema e la sua funzione sociale. La prima di queste modalità […] prospetta una rivoluzione nelle arti, che sia parte integrante[…]di una più generale rivoluzione politica e sociale,e pensa questa rivoluzione artistica anzitutto e fondamentalmente come rivoluzione delle forme. La seconda modalità, che si situa sul cammino iniziato con i film più popolari del neorealismo e proseguito con produzioni genericamente “drammatiche” e “autoriali”, e con la parte più impegnata della commedia italiana, assegna invece al cinema il compito di seguire, accentuandole, le trasformazioni del costume italiano in senso progressista[…]La prima appare ispirata a una progettualità forte, che investe il sociale nel suo complesso, dalla politica al costume, alla cultura e all’arte; mentre la seconda appare più appagata da un’operazione parziale, tesa a rinsaldare piccoli e meno piccoli spostamenti di opinione pubblica, nel quadro di una sostanziale indifferenza per le utopie, e soprattutto di un sostanziale conformarsi allo status quo per quanto riguarda l’istituzione del cinema, delle arti e più in generale della cultura», G. De Vincenti, Politica e corruzione nel cinema di consumo in L. Miccichè (a cura di), Il cinema del riflusso, Marsilio, Venezia, 1997, p. 266. Il prefetto di ferro assume pienamente la problematica tematica di questo filone del “cinema civile” (problemi della giustizia, del sistema carcerario, della corruzione politica, la rivisitazione in chiave attuale dei temi della mafia e del fascismo ecc) che infatti lo accumuna a molti film prodotti in quegli anni: oltre ai film già citati, si va da A ciascuno il suo (1967) di Petri a Il sasso in bocca (1970) di Ferrara, da In nome della legge (1949) di Germi a Il giorno della civetta (1968) di Damiani, che forse è il più immediato antecedente del film di Squitieri, anche per il suo carattere western e la presenza di Claudia Cardinale. 15 In particolare il riferimento è a certo western di produzione ed ambientazione“messicani” che prende ad oggetto il periodo rivoluzionario, «laddove la retorica “soldadera” d’epoca è entrata nella liturgia corrente, e si esprime atraverso una sorta di brusca e torva concitazione di visi e di apparizioni», C.G. Fava, Il prefetto di ferro in «Bianco e nero», ottobre 1977, p. 123.

reporter Tintin»16. La scelta del regista di servirsi del genere western

va nella stessa direzione. Essa infatti imprime alla

rappresentazione un processo di astrazione semplificatoria che

finisce per condensare la dimensione storico-politico-sociale

della figura di Mori e della vicenda della Sicilia sotto la sua

prefettura in ciò che Sorlin chiamava segni17 che, se da un lato

hanno la funzione di comunicare immediatamente allo spettatore

certe coordinate generali circa il tempo e il luogo dell’azione,

dall’altro sono talmente generici da rendere impossibile

un’analisi storica minimamente approfondita (insomma, il rapporto

che intercorre tra la storia della Sicilia sotto il fascismo

durante la prefettura Mori e il film è paragonabile a quello tra

il western classico e il periodo della frontiera o della guerra

civile).

Per fare un esempio particolarmente significativo: il filtro di

questa stereotipizzazione mitizzante, che è tutta nei canoni del

genere,18 determina una forte codificazione del paesaggio

16 J. Rancière, op.cit., p. 208. Nel film di Squitieri questa banalizzazione semplificatrice si manifesta nella genericità quasi fumettistica delle sequenze in cui si rappresentano i notabili che prima sembrano approvare le gesta di Mori, poi cominciano a tramare nell’ombra contro di lui. Essi sono quasi completamente privi di connotazioni sociali, mentre la loro “sicilianità” dovrebbe essere suggerita dal motivo della Norma in sottofondo e dalle allusionicompiaciute a questioni di corna… 17 Cfr. P. Sorlin, Sociologie du cinéma. Aubier Montaigne, Paris, 1977 (trad. it. Sociologia del cinema, Garzanti, Milano, 1979, p. 50-56). 18 «Esiste nei film una possibilità di sublimazione che non è dovuta probabilmente all’apogeo di un movimento storico, ma a una forzatura estetica: alcuni personaggi situati in campo geografico o storico reale vengono trasferiti in una dimensione eterna o mitica. Oggetti e personaggi cessano di appartenere a un contesto storicamente logico, escono dalla Storia per diventare mitici […] L’utopia si trova quindi sempre al seguito di un movimento di superamento della Storia e del realismo», J.L. Leutrat, Carte del western, Le Mani, Genova, 1993, p.114. Naturalmente questo non significa che non esistessero westerns basati su una ricostruzione storica accurata: «La pubblicità di Ilcavallo d’acciaio (di John Ford, nda) proclama: “questa storia per immagini della prima ferrovia transcontinentale è esatta e fedele fin nei minimi dettagli, sia per quanto riguarda i fatti, sia per l’ambentazione”. Pare che il lavoro di ricerca per questo film si sia svolto alla biblioteca del Congresso, allo Smithsonian Institute, all’American Museum of Natural History, e che si sia ricorsi anche agli archivi delle compagnie Central e Union Pacific, alle biblioteche di New York, di Los Angeles, di San Francisco, di

siciliano, del quale passano nel campo del “visibile”19 soltanto

quei tratti compatibili col genere stesso20: così l’isola si

trasforma in uno scenario western: vasti altipiani adibiti al

pascolo, masserie isolate e autonome simili a ranches, aie ampie e

vasti recinti per gli animali e uomini a cavallo, sempre armati,

caracollanti al seguito di mandrie o di greggi lungo le trazzere

che si inoltrano a valle tra macchie di canneti e di fichi

d’india. L’ambientazione siciliana è completata da una valanga di

vecchi silenziosi con la coppola che fumano la pipa accanto alle

lupare appoggiate sul tavolo, di veli neri e di rosari…

Questo processo di tipizzazione di genere non può non coinvolgere

anche il contesto storico-politico che viene ampiamente

neutralizzato; infatti il fascismo è quasi completamente

scotomizzato dalla narrazione e anch’esso si presenta sullo

schermo soltanto nella forma esteriore dello stereotipo: la

fraseologia convenzionalmente enfatica dei rappresentanti del

potere fascista (arrivato sulla scena della trasferimento al

confino degli arrestati di Mori l’onorevole Galli declama: «uno

spettacolo degno della penna del D’Annunzio o dei colori del Boldini, eccellenza, uno

spettacolo forte e lirico insieme, uno spettacolo degno del fascismo!»), Giovinezza, le

insegne con il motto Me ne frego e il teschio col coltello tra i

denti, tutto lo scenario di cartapesta (letteralmente: gli

ornamenti architettonici fascisti nel film sono visibilmente

posticci) tipico del decorativismo fascista: aquile, fasci

Sacramento e di Omaha. Questi dati sembrano voler fornire tutte le garanzie del rigore scientifico che fu allabase del film. James Cruze ha detto che in I pionieri non vi era di falso “nemmeno un paio di favoriti”. I film storici di questo tipo devono possedere il gusto del dettaglio “archeologico”. I costumi e gli scenari sono punti essenziali, e la loro ricostruzione deve essere scrupolosa», ivi, p. 111.19 Vedi infra…….20 Con pochissime eccezioni: la brevissima sequenza dedicata alla zolfara dove lavora il figlioletto di Anna, la popolana di cui Mori cerca la fiducia, e la rappresentazione di Ganci durante l’assalto.

littori, scritte cubitali inneggianti al duce… Così diviene

inevitabile che della complessa e contraddittoria politica del

fascismo nei confronti della mafia si intuisca ben poco: il film

punta infatti sulla indignata ma generica denuncia delle

connivenze tra la malvivenza e un indistinto e compatto notabilato

politico-economico che serra i ranghi non appena si sente

minacciato sfruttando le proprie relazioni con il potere centrale.

Sicché per ricordare allo spettatore che Mussolini aveva qualcosa

a che fare con la rimozione del prefetto Mori, Squitieri si sente

obbligato alla didascalica scena finale, culminante in uno zoom

piuttosto appuyé sul volto del duce che ribadisce enfaticamente le

sue responsabilità.

Di tale processo di esteriorizzazione della rappresentazione del

fascismo che diluisce in una generica corruzione economico-

politica le responsabilità di classe e le dinamiche socio-

politiche che mossero la storia del fascismo siciliano è

esemplificativo il personaggio dell’onorevole Galli. Quest’ultimo

fa riferimento ad Alfredo Cucco, un uomo chiave per la

comprensione delle vicende del regime nella dimensione isolana.

Nel film egli viene presentato come facente parte, senza

contraddizioni, del gruppo di potentati a cui appartengono anche,

unici personaggi aventi una certa caratterizzazione economico-

sociale, un non meglio identificato barone e un don Nicolò

amministratore per conto del vescovo di una tenuta. Questi

personaggi sembrano condividere i medesimi interessi proprietari.

Dell’intero gruppo di potere, inoltre, l’onorevole Galli sembra

rappresentare il braccio politico21capace addirittura di salvarlo

dalle accuse di Mori tramite i propri agganci col governo romano.

Ora, la figura reale del Cucco è ben diversa e ripercorrerne le

vicende potrà aiutarci a ricostruire almeno a grandi linee i

rapporti tra mafia, fascismo e poteri locali in Sicilia e a

collocare all’interno di essi l’azione del prefetto di ferro

dandone una più esatta determinazione storica.

Cucco rappresentava l’homo novus del fascismo siciliano; emerso dai

ranghi del nazionalismo palermitano, per quanto avesse poggiato la

sua ascesa su forti legami con poteri consolidati come quello di

clientela accademica che lo univa al prof. Cirincione, oculista di

fama e deputato chiacchierato di Bagheria, è indubbio che la sua

autorità trovasse le sue radici all’interno del partito. Nel

dilemma transigenza-intransigenza nel quale il primo fascismo

siciliano, com’era naturale per un movimento che voleva essere di

massa di fronte alla viscosità delle precedenti reti clientelari e

alla continuità di potere sociale tipiche della Sicilia, si trovò,

Cucco si schierò più dalla parte della seconda che della prima.

Spregiudicato, combattivo, abile oratore egli diventa ben presto

federale della provincia di Palermo e allarga rapidamente la sua

sfera di influenza fondando un settimanale “La Fiamma” (1923) e,

in seguito, un quotidiano “Sicilia Nuova” (1925)22 di cui si serve

per stabilire un contatto regolare con l’opinione pubblica e per

portare avanti una campagna aggressiva contro i rappresentanti

21 Durante una riunione alle rimostranze di un notabile che osserva: «il governo dovrebbe tutelare il buon nome della Sicilia» egli risponde: «il governo vigila, barone stia tranquillo, vigila»; dopo che Mori arresta il gruppo di notabili è lui che effettua “un viaggio a Roma” il cui esito il film ci suggerisce essere la rimozione del prefetto. 22 L’attività giornalistica di Cucco è rappresentata nel film, dove l’onorevole Galli mostra a Mori diverse volte le prime pagine di un giornale intitolato appunto “Sicilia Nuova”.

politici e sociali del vecchio potere locale, polemizzando anche

duramente contro il fascismo romano, accusato (siamo ancora nel

periodo in cui Mussolini aveva ancora bisogno dei

“fiancheggiatori”) di continuare a privilegiare i vecchi notabili

a scapito delle forze emergenti del giovane fascismo siciliano: «Il

fascismo siciliano non è il fascismo dei pochi professionisti della politica che saltarono nel

’22 con prontezza nei ranghi di qualche fascio rurale […] Vi è quaggiù, una volontà nuova,

scaturita dalla partecipazione di ceti intellettuali ed economici che non ebbero mai legami

con le vecchie situazioni, pronta ed agile, provincializzata, che chiede soltanto di non

essere ostacolata. Riconoscimento che è mancato spesso, dentro il fascismo, a Roma;

perché è precisamente a Roma che il professionismo della vecchia politica può ancora più

di quanto non possa il giovane fascismo siciliano.»23 Quinto nel “listone” alle

elezioni del 1924, ma primo degli uomini nuovi del fascismo

isolano, Cucco aveva avuto buon gioco nel conquistarsi l’egemonia

cittadina e nel partito facendo leva su questo radicalismo

piccolo-borghese. La strategia doveva però essere diversa nella

lotta per il predominio elettorale nei comuni del circondario del

capoluogo, dove «la continuità del potere agrario e notabiliare, come d’altronde

dell’intermediazione mafiosa, era in grado di resistere agevolmente a qualsiasi pretesa di

conquista, piegando ai propri fini le spinte provenienti dal capoluogo»24. Cucco

stringeva così legami con personaggi come Ciccio Cuccia e Santo

Termini, sindaci di Piana degli Albanesi e di San Giuseppe Jato,

nel tentativo di sottrarre clientele all’apparato di potere di

Vittorio Emanuele Orlando e di Finocchiaro Aprile, senza troppo

guardare per il sottile circa la fama di capimafia che li

23 Il fascismo in Sicilia, in «Sicilia Nuova», 11 agosto 1926. Citato da S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo in M. Aymard e G. Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’unità ad oggi. La Sicilia, Einaudi, Torino, 1987, p. 391. Dal saggio di Lupo traiamo le informazioni per la nostra ricostruzione della carriera di Cucco.24 Ivi, p. 392.

circondava25. Addirittura nelle Madonie egli cercava ed otteneva

l’appoggio del barone Sgadari capo di un’amministrazione definita

dalla polizia «fascista-mafiosa»: quella di Ganci. Certamente

perciò la violenta polemica antimafiosa condotta dalle pagine di

“La Fiamma” risultava poco credibile. Tuttavia concordiamo

pienamente con quanto scrive S. Lupo: «La posizione personale di Cucco era

però, a quanto sembra, alquanto differente da quella dei vecchi notabili; nel senso che la

sua utilizzazione della mafia restava un fatto strumentale, come ad esempio dimostra la

vicenda delle contribuzioni forzate di Cuccia alla “Sicilia Nuova: “Mentre

apparentemente combatte la mafia e la delinquenza- notava nel ’25

un anonimo riferendosi a Cucco – sfrutta in maniera ignobile

questi elementi obbligandoli all’abbonamento sostenitore e alla

compra delle azioni del “Sicilia Nuova” [Anonimo dal titolo La Sicilia

fascista a Benito Mussolini, in ACS, Interni, Amministrazione civile,

Podestà: Palermo]. Questa posizione di forza nella trattativa con i capi elettori

derivava certo al Cucco da una legittimazione legata al suo ruolo nell’organizzazione

urbana del partito e non all’investitura dei collegi rurali. Da lui perciò non poteva

provenire nulla di simile all’esaltazione sicilianistica delle virtù della mafia, cui fu costretto

Orlando nel suo celebre discorso elettorale del luglio ‘25»26 Nonostante nel 1925 una

certa parte dell’alta mafia si fosse già mimetizzata nel nuovo

regime, l’appello alla fierezza e alla fedeltà presente nel

discorso di Orlando non poteva essere equivocato: era l’estremo

tentativo di mobilitare l’esercito delle coppole storte a difesa del

vecchio ordine clientelare27. Sebbene la vittoria di Cucco nel 192525 Ciccio Cuccia era il sindaco che tanto aveva irritato Mussolini nel corso del suo primo viaggio in Sicilia chiedendogli: «Voscenza, signor capitano, è con mia… è sotto la mia protezione. Che bisogno aveva di tanti sbirri?». Pare che il duce, arrabbiatissimo, non abbia risposto né abbia più rivolto la parola al mellifluo e ammiccante amministratore.26 S. Lupo, op. cit., pp. 392-393.27 Riportiamo per comodità del lettore il passo più eloquente del discorso: «Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata fino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma

fosse in parte dovuta all’appoggio dei mafiosi che abbandonavano i

vecchi referenti politici, tuttavia la battaglia antimafiosa sua e

del fascismo era meno di facciata di quanto si possa pensare. Essa

infatti, in quel momento, mirava a colpire, attraverso le cosche,

il sistema di potere orlandiano-nittiano e a liberare il fascismo

siciliano delle infiltrazioni più imbarazzanti e difficilmente

controllabili, divenute oramai inutili, almeno a fini

elettoralistici. La nomina di Mori a prefetto di Palermo si

collocava in questo contesto28, come il discorso di Mussolini in

occasione del suo viaggio in Sicilia nel maggio del 1924 faceva

già chiaramente comprendere29 con la sua insistenza sulla lotta

alla mafia come banco di prova per il nuovo stato rigenerato dal

fascismo. Insomma, l’operazione Mori aveva un carattere

squisitamente politico, come d’altra parte era avvenuto a Trapani,

a parti inverse (il prefetto usato in funzione progiolittiana

contro la fazione dei Nasi30). Anche la caduta del “ducino”, come

veniva soprannominato Cucco per i suoi atteggiamenti che

scimmiottavano quelli mussoliniani, solo parzialmente può

ricondursi alle sue “relazioni pericolose” con la mafia. A parte

indulge al debole, la fedeltà alle amicizie più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana,, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!»28 Bisogna tra l’altro ricordare che fu proprio Cucco, nell’agosto del 1925, a proporre il trasferimento di Mori da Trapani a Palermo, anche se naturalmente non fu certo il suo invito a determinarne la nomina a prefetto, decisa tra l’altro tempo prima.29 «L’Italia fascista debellerà la mafia […] Voi avete dei bisogni di ordine materiale che conosco: mi si è parlato di strade, di acque, di bonifiche, mi si è detto che bisogna garantire la proprietà e l’incolumità dei cittadini che lavorano. Ebbene, vi dichiaro che prenderò tutte le misure necessarie per tutelare i galantuomini dai delitti. Non dev’essere più oltre tollerato che poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una popolazione magnifica come la vostra», discorso di Agrigento del 9 maggio 1924, in B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, vol. XX, Firenze, 1959, p. 264.30 «Cesare Mori aveva precedenti eccezionali nella repressione della delinquenza mafiosa. Commissario nel Trapanese tra il 1904 e il 1914, si era distinto nella lotta all’abigeato, ma anche nella contrapposizione al partito di Nasi, la più radicali delle fazioni antigiolittiane isolane. “Vedi Trapani e poi Mori”, ironizzavano i nasiani riferendosi ai suoi metodi “energici”», S. Lupo, op. cit., p. 395.

l’eccesso di potere che aveva concentrato nelle sue mani e che gli

procurava pericolose antipatie e le rivalità interne al partito31,

ad essere decisivi furono, da un lato l’ostilità di Mori tipica

dei funzionari di carriera verso i nuovi ras del fascismo;

dall’altro, la decisione di Mussolini di riacquistare il controllo

sul partito liberandosi degli uomini che avevano acquisito

un’eccessiva autonomia e libertà di manovra. Ma soprattutto a

determinare la rovina dell’ex capo del fascismo palermitano fu

l’attivismo “sindacalistico” dei cucchiani, «il loro rifiuto di fare del

fascismo una mera riedizione autoritaria del moderatismo, […] le minacce ricorrenti di

nuovi “Vespri” rivoluzionari contro il latifondo»32 in una fase di revanche agraria

sostenuta da Mussolini: l’opzione di classe del fascismo nel

meridione e in particolare in Sicilia era infatti caduta sulla

proprietà agraria i cui interessi economici erano stati al centro

di una serie di provvedimenti molto importanti come il nuovo

protezionismo cerealicolo, la ridefinizione dei rapporti di forza

tra proprietari e capitale finanziario nella gestione della grande

progetto bonificatorio, la battaglia del grano con tutte le sue

implicazioni ideologiche. In questo quadro la lotta alla mafia si

configura essenzialmente come il tentativo del fascismo da una

parte di liberare il ceto proprietario da un fenomeno che, nato

31 Roberto Paternostro in particolare, autore del memoriale anti-Cucco di cui si servirà Mori per attaccare il capo del fascismo palerminato e centro di una sorta di congiura contro di lui che raccoglieva anche i dissidenti fascisti nazionalpopulistidel Miil (Movimento italiano impero e lavoro), cfr. S. Lupo, op. cit., pp. 407-409. Mori non ebbe certo scrupoli a servirsi di un avvocato arricchitosi difendendo mafiosi che si era opposto al suo arrivo a Palermo e di un movimento politico «composto in gran parte da pregiudicati, che si segnala per l’apologia della mafia quale presunto “sindacalismo” attraverso il quale i contadini “strappavano con la forza […] ai signorotti e feudatari locali i mezzi per vivere.», S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Ed. Donzelli, Roma, 1993, p. 148.32 S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit., p. 407. La collezione di “Sicilia Nuova” è piena di articoli radicaleggianti e sindacalistici: V. Alessi, L’assenteismo dei proprietari causa di statica agraria, 5 settembre 1925; Verso l’avvenire!, 15 gennaio 1926; G. Raimondi, Il fascismo in Sicilia, 1 maggio 1925, ecc.

per la sua tutela, in funzione anti-contadina, era sfuggito al

controllo ed era diventato un sistema parassitario pericolosamente

autonomo (i gabellotti tramite le intimidazioni decidevano il prezzo

degli affitti, le coppole storte gestivano i contratti delle

cooperative, ecc)33; dall’altra di saltare ogni mediazione nel

rapporto diretto con la classe dominante isolana.

Dovrebbe apparire oramai chiara la connotazione sociale e politica

dell’azione di Mori: sul distintivo che il prefetto appunta sul

petto dei campieri “redenti”34 sta scritto «la forza che difende la

produzione»; «l’accusa di associazione facilmente propinata a grossi gabellotti e miseri

contadini è invece risparmiata a latifondisti, perfino quando si prospetta la loro

connessione con delitti di sangue[…] Mori esibisce compiaciuto i ringraziamenti dei

latifondisti che hanno potuto elevare i canoni d’affitto, in qualche caso da 10 a 110000 lire

annue […] Il salvataggio dei latifondisti rappresenta l’elemento comune di tutti i processi

[…] In questo caso35 l’operazione antidemocratica e quella filoproprietaria coincidono

nell’equazione generale cara ai fascisti, democrazia = mafia. Viene il sospetto che in

alcune retate sia politico il vero collante tra la centinaia di persone poi magari

condannate per il solo reato associativo […] Possiamo pensare che gli undicimila

imprigionati (e quanti gli arrestati?) siano tutti mafiosi?»36

Crediamo sia evidente a questo punto come una rappresentazione

della vicenda Mori che non avesse precipitato nel “non-visibile”

la dimensione di classe e la strumentalità politica37 di essa

avrebbe potuto rivelare uno scottante parallelismo con (oltreché,33 Tuttavia, è da precisare che «nonostante la fragorosa campagna antigabellotto, gli agrari non intendevano (o non potevano o non sapevano) eliminare l’intermediario, accontentandosi di averlo rimesso al suo posto», S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit., pp. 404-405. Insomma,si trattava di riportare sotto il controllo dei proprietari quell’apparato che era loro sfuggito di mano, «donde le oceaniche adunate dei campieri, da Mori richiesti di un giuramento di fedeltà incondizionata agli interessi della proprietà», ivi, p. 403.34 Cfr. a questo proposito nota 10.35 La chiusura della cooperativa socialista di Barbato a Piana dei Greci che aveva preso in affitto i feudi sottratti all’ex-sindaco mafioso Cuccia. Ma la notazione vale per molti altri casi.36 S. Lupo, Storia della mafia, cit., pp. 150-155.

potenzialmente, l’occasione di un’incandescente denuncia de) la

vicenda della repressione antiterrorista. Ma l’impostazione della

ricostruzione storiografica è invece funzionale all’ideologia

manicheista proposta dal film, la quale oppone in modo astratto e

quasi metafisico il presunto ordine “neutro”dello stato

legalitario incarnato nel prefetto Mori al disordine sociale

dell’indistinta “camarilla” fascio-mafiosa.

Così l’opera di Squitieri, anche tramite l’attivazione di codici

iconografici e simbolici tipici del western38 nonché soprassedendo su

alcuni tratti della sua figura e accentuandone altri, fa di Mori

il rappresentante inflessibile e integerrimo della forza

civilizzatrice e ordinatrice delle istituzioni, che vengono

naturalmente presentate, mistificatoriamente come neutre (una

scena del film ci presenta un significativo dialogo; ad un

giovane zolfataru abbandonato dai genitori che gli dice, aprendo per

37 «L’operazione Mori ha due anime: quella poliziesca, tendente a demolire le organizzazioni mafiose e a riportare l’ordine dopo gli sconvolgimenti della fase guerra-dopoguerra, quella prefettizia, rivolta a combattere le aggregazioni di potere della periferia e a svirilizzare il partito.” Hanno seguito il sistema tenuto in Russia contro i seguaci di Lenin – avrebbe scritto nel ’39 un anonimo, con un’analogia veramente significativa. – Tutti gli squadristi e i fascisti veri sono stati messi fuori dal partito e perseguitati dalla Ps e dall’Ovra” […] In quest’ottica la vicenda di Cucco rappresenta uno degli episodi della vita rissosa e faziosa che dall’inizio alla fine caratterizza il fascismo siciliano, i cui protagonisti sono la calunnia e la lettera anonima, il “leghismo” parossistico che accompagna la demonizzazione del potere locale e, inevitabilmente, la stessa abolizione delle libertà politiche. L’accusa di queste eterne contese, che altrove vien detta affarismo o corruzione, a Palermo si chiama mafia. Soprattutto chi combatte veramente la mafia, come il prefetto Mori, può conoscere una simile operazione mistificatoria: “La qualifica di mafioso non soltanto venne sempre elargita con facile prodigalità per incomprensione, per ignoranza o per superficialità,ma venne spesso usata in perfetta malafede ed in ogni campo, compreso quello politico, come mezzo per compiere vendette, per sfogare rancori, per abbattere avversari, per stroncare iniziative, ecc (C. Mori, Con la mafia ai ferri corti, Ed. Mondadori, Verona, 1932, p.84). È proprio il caso di dire: de te fabula narratur.», S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit., p. 410.38 Ad esempio, non è certo casuale che, giusto all’inizio di un film le cui strutture figurative e narrative risentono fortemente dei canoni del genere, il piemontese, come i siciliani chiamano Mori, faccia il suo arrivo in Sicilia su untreno. Nel western esso rappresenta spesso l’emblema della funzione razionalizzatrice della avanzata civiltà tecnologica orientale, strumento di colonizzazione e avamposto di essa nei territori selvaggi e arretrati dell’Ovest. È inutile sottolineare in che modalità e con quali sottintesi tale mito si innesti nella situazione geopolitica italiana.

un momento uno squarcio eloquente sui motivi sociali della

refrattarietà alla collaborazione della popolazione siciliana:

«Voscienza parra di pace, di re, di Dio…Ma iu mancu sacciu di che parla. Iu sacciu sulu chi

li briganti mi dunanu lignati pi arrubbari i pecuri, lu patruni mi duna lignati picchì mi

l’hannu arrubbati, e li sbirri m’ammazzunu di lignati picchì vogghiunu sapiri li nomi di li

briganti. Chistu sacciu» Mori risponde: «Anch’io sono come te…Pure a me mi

lasciarono fuori da una chiesa… Per questo ho creduto sempre nello Stato, in una

giustizia che è al di sopra anche di tuo padre e di tua madre, che protegge tutti…»).

Nel film viene anche suggerita una particolare sensibilità sociale

del prefetto di ferro (le lamentele del gruppo di notabili contro

quello che viene chiamato «il prefetto contadino», la convocazione del

medico provinciale sollecitato a migliorare la distribuzione di

medicine nelle campagne, l’arresto del custode della zolfara che

aveva impedito ad Anna di portare da mangiare al figlio, ecc). Se,

almeno soggettivamente, tale raffigurazione, pur essendo un po’

parziale, non può dirsi infondata39 pure il significato storico e

il segno di classe della esperienza di Mori in Sicilia, come

abbiamo visto, sembra indiscutibile.

L’accentuazione di tale aspetto della figura di Mori va di pari

passo al ridimensionamento dei suoi legami con il fascismo che,

contrariamente alla vulgata, furono ben più complessi e profondi di

39 Petacco nel suo libro insiste molto su questo aspetto. Riporta ad esempio questo passo di una relazione dell’allora delegato di PS a Ravenna: «La disoccupazione, assai sentita in ogni stagione, si aggrava durante l’inverno in modo preoccupante e doloroso. Migliaia di uomini validi e robusti, in meritata fama di gagliardi lavoratori, si trovano condannati con le relative famiglie all’inerzia assoluta e ai maggiori stenti. Nessuna risorsa. Nessuna riserva. Unico capitale: le braccia, il paletto e la carriola forzatamente inoperosi. Resistono finché possono, poi scoppiano escendono in massa su Ravenna per dare alle Autorità la tangibile sensazione di come stanno le cose…», A.Petacco, op. cit., p. 48. Ma è obbligato ad aggiungere subito dopo che lo stesso autore di queste osservazione non si peritava di dar l’ordine di caricare i dimostranti con la cavalleria. In altri episodi, come a Trapani nel 1920, egli aveva certamente appoggiato il movimento contadino, ma, come osserva Lupo, «conservando l’ordine in modo da ottenere il plauso dei proprietari», cfr.G.C. Marino, Partiti e lotte di classe in Sicilia, De Donato, Bari, 1976, pp. 166-175.

quanto appaia nel film40. È bene notare che sia l’una e l’altro

contribuiscono a modellare la fisionomia di Mori secondo la

prospettiva a cui accennavamo sopra.

L’opera di Squitieri sottolinea ripetutamente, se non

l’antifascismo, almeno l’a-fascismo del prefetto: lo spettatore

viene informato, d’emblée, della coraggiosa opposizione contro le

squadracce fasciste dell’allora prefetto di Bologna, che in

effetti costituì uno degli ultimi tenaci baluardi contro il

dilagare del potere e della violenza mussoliniana nell’Italia del

192241; quando l’onorevole Galli gli porge un distintivo fascista

egli lo rifiuta con eloquenti parole: «La ringrazio, ma ho sempre pensato

che fascisti si è o non si è, con distintivo o senza»; all’arrivo a Ganci della

camionetta fascista42 dopo l’arresto dei briganti Spanò, il

“luogotenente” di Mori, li guarda dicendo sprezzante: «Eccoli là, e ti

pare che non arrivavano…Vedrete che domani tutti i giornali diranno che sono stati i

fascisti a liberare Ganci…». Inoltre il film insiste molto sulla cultura

“istituzionale” del piemontese (a Spanò che gli dice: «Di me non

sospettano nulla… Cioè non sospettano che sono persona vostra», Mori risponde

inflessibile: «Maggiore Spanò, voi non siete persona mia, perché io non ho persone

mie. Voi siete un ufficiale dei carabinieri di cui lo stato si fida, fino a prova contraria. Noi

siamo due dipendenti statali, punto e basta») come a voler contrapporre alla

vischiosità “siciliana” della dimensione familistica o di clan dei

40 D’altra parte, l’approssimazione grossolana nella rappresentazione del fascismo di cui abbiamo parlato rende certamente più semplice sorvolare sulle compromissioni di Mori con esso. 41 Cfr. il brillante racconto della “resistenza” moriana a Bologna fatto in A. Petacco, op. cit., pp. 9-15 e 19-29.42 L’arrivo di Galli-Cucco «in camicia nera e casco aviatorio» si è realmente verificato,così come il suo tentativo, dalle pagine di “Sicilia Nuova” di farsi passare come uno dei principali collaboratori di Mori nella clamorosa operazione è storicamente veritiero. Pare che sia stato il prefetto stesso, con benevolenza interessata, a lasciare da parte la verità, guadagnandosi così la temporanea riconoscenza di Cucco…

rapporti interpersonali proposta da Spanò la “nordica”,

burocratica correttezza di algide relazioni professionali.

Ancora una volta però le cose stanno in maniera un po’ diversa.

Lupo scrive ottimamente: «Siamo davanti ad un servitore dello Stato nella sua

continuità; ma anche ad uno di quei “tecnici” nittiani che, non diversamente da un Serpieri

o un Beneduce, videro nel totalitarismo la grande possibilità di mettere a frutto le loro

competenze senza i vincoli del sistema parlamentare, e che quindi credettero nel fascismo

come regime tecnocratico e modernizzatore43, pur conservando una certa diffidenza nei

confronti del partito.»44 In questo contesto, la particolare sensibilità

di Mori per i rapporti tra Stato e masse finiva per fare del

prefetto un efficace fattore di legittimazione e uno straordinario

catalizzatore di consenso per il regime. Innanzitutto, Mori era

ben lontano dall’essere quel funzionario schivo che il film vuol

suggerire (all’onorevole Galli che gli annuncia il sostegno della

stampa egli risponde, diffidente: «Avrei preferito meno clamore»). Anzi,

il prefetto che passava sotto gli archi di trionfo con la scritta

Ave Cesare, che aveva imposto il suo ritratto in tutte le scuole

siciliane accanto a quelli del re e di Mussolini, dimostrava una

certa megalomania (che tra l’altro, sarebbe stata una delle cause

della sua caduta in disgrazia presso il duce). Nei suoi atti,

nelle sue dichiarazioni, nelle modalità stesse con cui impostava

le sue operazioni di repressione45 si manifestava una costante

43 Questo aspetto di “innovatore” anche nel campo propriamente tecnico si manifesta nel film nell’abile uso che Mori fa delle nuove tecnologie della comunicazione a fini repressivi: vedi ad esempio l’uso del telegrafo per segnalare la posizione della banda Dino. 44 S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit., p. 397.45 Il film ne mostra due esempi significativi, accentuandone ovviamente i caratteri western. Il primo è il duello tra Mori e Capecelatro, che è una “liberainterpretazione” di un reale scontro a fuoco avvenuto a Trapani che Petacco racconta così: «[Mori] ha preso l’abitudine di andarsene in giro per la campagna a dorso di cavallo,col moschetto a tracolla. In una di queste scorrerie solitarie si imbatte in Francesco Castro, un brigante […] Castro è mrglio armato di Mori: ha due pistole e un fucile automatico Watterley. Ma è destinato ad avere la peggio. Dopo un lungo inseguimento Mori lo blocca ai piedi di una rupe. Il bandito scende da cavallo, si

esigenza di consenso.«In tale prospettiva l’azione di un prefetto dev’essere non

“campagna di polizia in più o meno grande stile, ma insurrezione di coscienze, rivolta di

spiriti, azione di popolo” [C. Mori, op. cit., p. 242]. Davanti ai rischi di

impopolarità della repressione, a possibili reazioni di tipo sicilianista, Mori rimane

attentissimo a cercare presunti punti di contatto, un codice di comunicazione con la

cultura vero o presunta delle masse. Per lui, come per Pitrè, esiste un’omertà buona che

corrisponde al concetto di virilità, i cui corollari onorifici sono da considerarsi valori

nazionali e fascisti; si tratta solo di eliminarne la superfetazione delinquenziale. “La

omertà ha in se stessa i mezzi specifici per combattere le proprie degenerazioni. Quindi

richiamarsi – questo intendo dire – alla fierezza per reagire alla prepotenza; al coraggio

per reagire al delitto; alla forza per reagire alla forza; al moschetto per reagire al

moschetto.”46 Si noti il crescendo sino alle equazioni finali per cui la forza rappresenta di

per sé un valore a prescindere dalle finalità che persegue: ciò che Mori ritiene di

aver capito dei codici culturali siciliani somiglia molto, troppo,

a quello in cui crede il fascismo.»47 E ancora: «Per realizzare la

riconquista dei valori folklorici lo Stato deve guadagnarsi il “rispetto” dimostrandosi più

mafioso dei mafiosi, donde le operazioni stile Gangi, gli inutili spiegamenti di forze, le

minacce truculente di rappresaglie sui beni, sulle donne dei latitanti[…] E viceversa

l’esaltazione dell’autodifesa individuale e sociale, della braveria (mafiosità, nel senso di

Pitrè) di chi, proprietario o contadino non cede e impugna le armi contro la

delinquenza[…] È questa idea di nazionalizzazione delle masse che rende veramente

fascista e totalitaria l’azione “moresca”.»48

ripara dietro un tronco e apre il fuoco. È un duello all’ultimo sangue che dura quasi un’ora. Alla fine Francesco Castro è freddato da una palla in fronte», A. Petacco, op. cit., pp. 52-52. Il secondol’assedio di Ganci le cui valenze “spettacolari” furono esaltate dal corteggio di giornalisti che Mori si era trascinato dietro. Il successo dell’assedio non riguardò perciò soltanto la lotta alla criminalità, ma contribuì a destare l’ammirazione generale per il regime fascista, anche in campo internazionale.46 Ivi, p. 244. Probabilmente è superfluo notare quanto queste parole del cacciatore di padrini Mori somiglino a quelle del “mafioso” Vittorio Emanuele Orlando. 47 S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 145. Il tondo è nostro.48 S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit., p. 398.

Insomma, Mori fonda la sua “azione educatrice” (e la sua

propaganda) sui valori più retrivi di quella che lui crede essere

la cultura popolare siciliana e, tramite questo costante

ammiccamento, finisce per farsi banditore, consapevole o

inconsapevole poco importa, della più tipica mentalità fascista;

esattamente il contrario del Mori costitutivamente “antifascista”

e “antisicilianista” che viene mostrato nel film49.

D’altra parte la pretesa di presentare un personaggio come Mori

come il modello dell’implacabile difensore della legalità statale50

la dice lunga sul dispositivo ideologico alla base del film; così

l’indiscriminata violenza quasi barbarica con cui fu condotta la

repressione antidelinquenziale in Sicilia, se non può essere

completamente scotomizzata, tuttavia viene sostanzialmente

giustificata dalla necessità di confrontarsi con la brutalità del

dominio mafioso, brutalità che viene strategicamente ribadita in

diverse scene a partire da quella, posta giusto ad apertura del

film, del massacro della famiglia dei contadini che avevano

collaborato con Mori; così il lacerante conflitto tra mezzi

(illegali) e fini (ripristino dello stato di diritto) viene

proiettato nel contrasto tra l’inarrestabile volontà di giustizia

di Mori e la pretestuosità delle obiezioni giuridiche avanzate dal

49 Vedi sopra.50 Lupo riporta e commenta un dialogo molto istruttivo che si svolse tra Mori eun campiere in occasione dell’adunata oceanica alla quale abbiamo fatto cenno:«Mori: “Se vedendoti con questo distintivo (quello con su scritto «La forza che difende laproduzione», nda) ti chiamassero sbirro?” – Il campiere: “Voscenza m’ave a scusare ma in tale caso cisparo”; il prefetto è soddisfatto («bravo» [C. Mori, op. cit., p. 338.]) non essendo evidentementeinteressato al concetto di legalità ma solo al recupero di una fedeltà e di una forza. Tutto questo inoceaniche adunanze durante le quali risuona immancabile l’appello all’autodifesa individuale e sociale,l’esaltazione del coraggio di chi, proprietario o contadino, non cede e impugna le armi […] Mutatismutandis, il lombardo Mori ricorda il toscano Fanfani che durante la campagna contro il divorziorichiamerà (inutilmente) il rischio delle corna ai cittadini di Caltanissetta per strumentalizzare la loro pauradella libertà sessuale femminile», S. Lupo, Storia della mafia, cit., pp. 145-146.

procuratore pavido e corrotto, col risultato dunque di

depotenziare quel conflitto, significativamente, della sua tragica

problematicità. Ecco come Francesco Renda descrive questi aspetti

dell’operazione Mori: «[essa] non fu solo una grande operazione di polizia

contro la delinquenza organizzata […] fu anche la prova generale di un disegno politico

reazionario per istaurare un regime terroristico di oppressione popolare capace di

spezzare qualunque resistenza. Sotto il pretesto di combattere la mafia, fu posto il bando

ai principi generali del diritto, alle garanzie costituzionali dello Statuto albertino, alla

osservanza dell’habeas corpus dei cittadini, alle salvaguardie processuali penali, alla

corretta applicazione della stessa legge di pubblica sicurezza. Interi corpi dello Stato, nel

presupposto di far valere la legge, non ebbero scrupolo a operare fuori dalla legge e

anche contro la legge. Mori, scrivendo e pubblicando quelle singolari memorie cui diede il

titolo Con la mafia ai ferri corti, non ebbe neppure lo scrupolo di tacere sul

come egli personalmente più volte violò di proposito il codice, oltre che l’etica del pubblico

funzionario.»51

Parole che non sono valide soltanto per l’epoca di Mori52.

51 F. Renda, Storia della Sicilia dal 1870 al 1970, vol. II, Sellerio, Palermo, 1999, pp. 383-384.52 È possibile avanzare l’ipotesi che il forte legame tra la raffigurazione di Mori proposta dal film e l’attualità ad esso contemporanea si spinga oltre una dimensione esclusivamente ideologica e nasconda un preciso referente storico? Sarebbe troppo peregrino concretizzare tale ipotesi sostenendo che la rappresentazione del Mori squitieriano alluda ad un personaggio come il generaleDalla Chiesa, il cui padre partecipò alle campagne di Mori, che prese parte allaResistenza, che fu lungamente impegnato durante il dopoguerra nella lotta al banditismo campano prima e siciliano poi (in quell’occasione ebbe a che fare anche col bandito Giuliano e fece arrestare Liggio e gli assassini del sindacalista Placido Rizzotto)? Quel generale Dalla Chiesa che ritornò il Sicilia tra il ’66 e il ’73 (assicurando alla giustizia boss del calibro di Gerlando Alberti e Frank Coppola), che nel 1974 represse nel sangue la rivolta del carcere di Alessandria (6 morti) e creò a Torino una struttura antiterrorismo capace (anche grazie alla collaborazione di un personaggio come Silvano Girotto, “frate mitra”) di catturare Franceschini e Curcio, fondatori delle BR, ma sciolta nel 1976 per la pressione delle polemiche sui metodi, l’autonomia e i poteri speciali di cui il nucleo godeva? Quello stesso generale che, nel 1977, nonostante (o forse proprio per) le sue responsabilità nella strage di Alessandria fu nominato, suscitando anche stavolta feroci polemiche, Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e di Pena per ricevere infine, l’anno successivo, poteri eccezionali per la lotta al terrorismo?

Quale fu l’eredità lasciata dal prefetto di ferro?

Il film, nelle ultime sequenze, sembra alludere, da una parte,

nella scena del congedo ufficiale di Mori, ad una gattopardesca,

invincibile capacità di rigenerazione del potere politico-mafioso

e, dall’altra, all’irredimibilità, una volta partito il piemontese,

della condizione di sfruttamento della popolazione siciliana,

simboleggiata dalla partenza del figlio di Anna, presentata come

unico modo di liberarlo dalla «maledizione» che grava sull’isola.

L’improbabile figura di questa contadina interpretata dalla

Cardinale è l’emblema di una Sicilia che, forse un po’

corrivamente, passa da una fiera riottosità di fronte alla

“seduzione” di Mori («Non siamo con loro…Ma manco con voi. Voscienza dice che

è venuto a liberarci dalla miseria, ma ora c’è più fame di prima» dice Anna a Mori,

il che è certamente un modo per sottolineare i limiti di un’azione

esclusivamente legalitaria che trascuri la dimensione sociale del

problema mafia) alla fiduciosa soggezione all’ “uomo forte”(la

richiesta di aiuto per il figlio, accompagnata dall’immancabile

baciamano) per poi cedere alla rassegnata constatazione che nulla

potrà mai cambiare (lo sconsolato distacco dal bambino)53.

Per quel che riguarda il primo aspetto, nella realtà storica «il

ruolo politico della mafia, come elemento di mediazione tra le classi sociali, e tra lo Stato

e la società locale, esce molto ridimensionato dall’operazione Mori»54, anche se

53 Tuttavia è necessario segnalare che il film non è univoco in questa rappresentazione di una popolazione siciliana rassegnata a subire passivamente le prepotenze mafiose. L’opera di Squitieri infatti mostra la ribellione rabbiosa dei contadini spinti dalla fame contro i campieri mafiosi e i briganti,denunciando con coraggio anche il coinvolgimento della Chiesa in quegli interessi proprietari che di quelli si servivano per meglio tenere a bada . Anche se dobbiamo aggiungere che portare sugli schermi la questione contadina nel 1977 non aveva certo lo stesso effetto dirompente che avrebbe avuto trentanni prima, a causa della perdita di centralità di essa nel contesto socio-economico italiano dell’epoca.54 S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, cit., p. 403.

quest’affermazione va intesa, come abbiamo visto, nel quadro della

continuità del potere agrario-proprietario sostenuta dal fascismo,

tanto che è possibile spiegare la persistenza dell’auctoritas mafiosa

di personaggi come Calogero Vizzini, Genco Russo o Michele Navarra

con il loro insediamento in territori caratterizzati da una debole

presenza proprietaria; altrove, invece, proprio il ritorno alla

conduzione diretta fu la molla sociale che innescò lo

smantellamento del potere dei gabellotti mafiosi55.

Quanto al secondo aspetto, ci permettiamo di concludere con le

seguenti parole di Francesco Renda, che ci rivelano anche un’altra

dimensione, ben più profonda anche se involontaria, delle

conseguenze dell’opera educativa “più mafiosa dei mafiosi” di

Mori: «Diversamente dai proprietari mafiosi, verso i quali pur con qualche strappo ed

eccezione verificatisi al tempo di Mori il regime fascista adopera il guanto di velluto, i

contadini mafiosi compiono la loro parte di rieducazione a proprie spese, dentro le

carceri, dove stabiliscono contatti con i condannati politici, comunisti per lo più,

apprendendo che c’è un modo nuovo – e diverso da quello mafioso – per conseguire il

rispetto di se stessi, e la propria emancipazione dalla servitù e dal bisogno. Insomma, tra

le conseguenze della lotta alla mafia nel periodo fascista c’è anche la profonda

incrinatura che l’istituzione mafiosa in quanto tale subisce nel sentimento generale delle

popolazioni campagnole.»56

55 Cfr. ivi, pp. 403-404. É interessante notare che a questo fenomeno il film accenna nel mutamento di fronte del sindaco di Ganci che,«capito dove tira il vento», viene ad offrire la sua collaborazione e a mettersi sotto la protezione di Mori.Questo personaggio, come abbiamo visto, allude al barone Sgadari, «antico manutengolo e protettore di banditi[rifiutò anche un contributo dello stato per l’illuminazione pubblica, perché il brigante Ferrarello, rappresentato nel film col nome di Albanese, voleva che le strade rimanessero al buio; «così sono più sicure», diceva, nda], ma anche in qualche modo loro ostaggio; che media a lungo nei rapporti tra le autorità e i latitanti, finché riesce a liberarsi della scomoda compagnia di questi ultimi consegnandoli a Morie a Spanò. Inutili le lamentele degli ex briganti, tutti guardianie gabellotti, che affermavano di aver compiuto opera meritoria d’ordine, in difesa della proprietà!», ivi, p. 404. Infatti, non è casuale che proprio Ganci rappresenti uno dei luoghi di maggiore continuità delpotere territoriale del ventennio.56 F.Renda, op. cit., p. 382.