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Quaderni Mamertini - 61 - Calabria d'altri tempi

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Rocco Liberti

Calabria d’altri tempi I

Quaderni Mamertini

61

Stampa presso la Litografia Diaco snc

Bovalino (RC) tel. 0964-670270

settembre 2005 (riveduto e corretto

Luglio 2016)

in copertina: mons. Alessandro Tommasini (Sala Capitolare di Oppido Mamertina)

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Monsignor Tommasini e la rivendica a Reggio del Tribunale Provinciale

in un inedito documento dell'ultimo scorcio del XVIII secolo *

Sono abbastanza noti l'aspra controversia che nei secoli oppose i reggini

ai catanzaresi per via dell'assegnazione di un importante ufficio, che avrebbe conferito all'una o all'altra popolazione un grosso titolo di prestigio e prima-to e i vari tentativi esperiti dai primi onde accaparrarselo definitivamente. Ne riassumiamo le fasi salienti. Nel 1582 i sindaci pro-tempore, Agamenno-ne Spanò, Annibale di Capua e Gio. Battista Lanatà convocarono un parla-mento degli eletti al fine di richiedere a re Filippo II di Spagna, il "Padrone" dell'epoca, il trasferimento del Tribunale Provinciale o Regia Udienza da Ca-tanzaro a Reggio. Essendo da ciò sortito un solenne impegno con la cittadi-nanza, quei governanti diedero incarico al magnifico Tommaso Dal Fosso di recarsi a Napoli dal vicerè e, impetrando quanto stava a cuore di tutti, pro-porre in cambio vantaggiose concessioni, quali potevano riuscire il paga-mento di 20.000 ducati estraibili dalle gabelle e da altre imposizioni, l'am-pliamento del carcere, la costruzione di un'apposita sede per il tribunale nonché delle abitazioni del preside e dei suoi ufficiali e il versamento dello stipendio per due anni allo stesso e agli impiegati a lui sottoposti. Era facol-tato ad assistere il postulante nella capitale l'avvocato Girolamo Crisanti.

La missione dei due reggini riuscì fruttuosa in pieno - le gerarchìe spa-gnole non si dimostrarono davvero insensibili al fascino emanato dal dio denaro - e, malgrado la viva opposizione dei Catanzaresi, la regia udienza nel 1584 fu effettivamente traslata nella città dello Stretto. Non passarono però che dieci anni appena e tutto doveva venire di nuovo rimesso in di-scussione. Nel 1594, difatti, a seguito di una disastrosa scorreria turchesca, che mise a nudo come Reggio si trovasse esposta a frequenti colpi di mano pirateschi, il tribunale venne portato prima a Seminara e, poi, definitivamen-te ancora a Catanzaro. A questa risoluzione, scrive lo Spanò Bolani, oltre al sanguinoso raid effettuato da Hassan Cicala, non furono estranee le mai so-pìte istanze dei catanzaresi e la volontà del vicerè conte di Miranda1. Sfuma-to così repentinamente e malamente il sogno dei reggini, non si attenuò però in loro il desiderio di riacquistare quanto avevano tenuto pur per brevissimo tempo e d'allora in poi non si contarono gli appelli e le querimonie fatti al solo scopo di far tornare in città il prestigioso istituto. Valga per tutti l'inter-

* Pubblicato in "Calabria Sconosciuta", a. 1981, nn. 14-15, pp. 27-29.

1 D. SPANÒ BOLANI, Storia di Reggio di Calabria, Cosenza 1977, vol. I, pp. 517 e ss.

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vento dispiegato da Giov. Angelo Spagnolìo, uno scrittore vissuto dal 1573 al 1645, che nel suo “De Rebus Rheginis” difese a spada tratta, anche se inu-tilmente, il buon diritto di Reggio a riavere il tribunale2.

Erano trascorsi quasi due secoli da quell'evento così mortificante per la loro città e appena cominciavano a rimarginarsi le ferite procurate dal grande flagello del 1783 quando i reggini, stimando i tempi ormai maturi per nuove soluzioni, ripresero a occuparsi con aumentata lena del mai accantonato problema e affidarono l'incombenza d'interessarsene presso il centro di po-tere di Napoli a un loro eminente concittadino, d. Alessandro Tommasini, futuro vescovo di Oppido e arcivescovo di Reggio, una forte personalità, di cui parecchio si sarebbe parlato negli anni a venire. Desumiamo ciò da una lettera inedita conservata nell'archivio vescovile di Oppido e che Giacinto Plutino e Antonio M. Palestino indirizzarono il 26 marzo del 1790 al prefato sacerdote, il quale in atto si trovava proprio nella capitale come segretario dell'arcivescovo Capobianco, nominato cappellano maggiore.

Il Tommasini, su cui vennero ad appuntarsi le mire dei due reggini, i quali molto probabilmente dovevano far parte del decurionato (il Plutino figura da altra fonte compratore di terre ecclesiastiche, incamerate dalla Cas-sa Sacra, per 10.000 ducati3, mentre il Palestino risulta essere stato sindaco dei nobili nel 1787-88)4, nonché quelle di tutto il Parlamento, lasciando da parte l'attività che avrebbe poi svolta nelle due circoscrizioni, delle quali sa-rebbe stato a capo, era persona assai quotata e stimata. Nato nel 1756 a Di-minniti di Sambatello, si avviò agli studi nel seminario arcivescovile, dove ebbe a protettore il mentovato Capobianco, che ne potè godere la buona predisposizione alla missione sacerdotale. A ordinazione ottenuta, nel 1778 si recò a Squillace richiamato da quel vescovo di estrazione reggina, mons. Genoese, che lo tenne quale suo segretario e insegnante di filosofia nel semi-

2 Sull'impegno dello Spagnolìo a favore di Reggio ved. in particolare gli studi di

Guido Miggiano (Un enigma del '500 da risolvere - Il trasferimento della Regia Udienza a Catanzaro - interessanti pagine dello Spagnolìo, "La Voce di Calabria", XXIX (1971), n. 2, p. 1; Il "De Rebus Rheginis" dello Spagnolìo e una vicenda del '1500 - Inconsistenti mo-tivazioni dei Catanzaresi per trattenere il Tribunale in quella città, ivi, n. 5, p. 3; Lo Spa-gnolìo e la Regia Udienza - La storia si ripete, ivi, n. 6, p. 3.

3 A. PLACANICA, Alle origini dell'egemonìa borghese in Calabria, Salerno-Catanzaro 1979, p. 105.

4 SPANÓ BOLANI, Storia di Reggio ..., II, p. 483. Il Palestino risultava decurione an-cora nel 1811 (ved. C. GUARNA LOGOTETA, Notizie cronistoriche di Reggio di Cala-bria dal 1797 al 1847 in continuazione della storia di D° Spanò Bolani, Reggio di Cal. 1891, II, p. 18), mentre il Plutino nel 1797 appare aver partecipato a quella proces-sione in cui avvenne l'uccisione del governatore Pinelli (ivi, I, p. 6, in nota).

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nario. Dopo alquanto tempo rientrò a Reggio e qui si ebbe gl'incarichi di in-segnante di teologìa e lingua ebraica e parroco di S. Gregorio Magno, oltre al titolo di arcidiacono. Condotto a Napoli, come abbiamo detto, continuò a studiare e, unitamente al canonico Barilla, principiò a tradurre dal greco gli “Atti di S. Stefano”, che in parte diede alle stampe5.

Dalla lettera in questione, dalla quale si evince chiaramente come i reggi-ni fossero risoluti a far risorgere dalle macerie la loro città e come bramasse-ro riavere il tanto sospirato tribunale, per ottenere il quale non avrebbero badato né a spese né a mezzi, si ricava in particolare come ogni loro residua speranza poggiasse ormai esclusivamente proprio sul Tommasini. Il sacer-dote, infatti, era per loro non solo uno zelante, ed appassionato ... Concittadino, ma per lo studio fatto intorno al caso, per gli strumenti e le aderenze, di cui poteva servirsi sul luogo, si rivelava l'unica persona in grado di procacciare quanto era nei desideri della popolazione.

Nel chiedere al futuro presule di adoperarsi in favore di Reggio, il Pluti-no e il Palestino vennero logicamente a consigliarlo in ogni senso, almeno per quanto rientrava nelle vedute loro e dei rappresentanti tutti dell'univer-sità, che d'altro canto avevano già provveduto a inoltrare delle suppliche in proposito. Non era più il caso di ricorrere a tribunali - un tentativo era stato già bocciato dalla real camera (nel 1778) - e bisognava guardarsi anche dal fare capolino nella segreteria del ministro Carlo De Marco, indubbiamente un fiero avversario della città. Faceva d'uopo invece contattare l'altro mini-stro Giovanni Acton, questo sì grande amico dei reggini, per come aveva dimostrato in passato e all'avvocato d. Lorenzo Iacuza, incaricato ufficiale del parlamento, spettava il compito di far comprendere all'autorevole ingle-se naturalizzato napoletano come il passo più importante da compiere per risollevare Reggio fosse proprio l'istituzione del tribunale. Altri amici si qua-lificavano allora il col. d. Antonio Alberto Micheroux e il col. Giovan Battista Arriola Y Manuel, ch'erano stati in Calabria al tempo del funesto terremoto e tanto si erano prodigati a pro delle infelici popolazioni, mentre risultavano amici personali dello Iacuza medesimo Ferdinando Corradini, regio uditore del tribunale di Catanzaro nel 1787 e poi ministro delle finanze e presidente della giunta di corrispondenza e Nicola Vivenzio, avvocato nel real patri-monio e membro della stessa giunta.

Ma ecco ora di seguito la lettera che abbiamo avuto la ventura di rintrac-ciare in archivio e che rivela nei suoi più minuti particolari l'intera vicenda:

5 C. ZERBI, Della Città, Chiesa e Diocesi di Oppido Mamertina e dei suoi Vescovi, Roma

1876, pp. 383-404; L. ALIQUÓ LENZI-F. ALIQUÓ TAVERRITI, Gli scrittori calabresi, Reggio Cal. 1955, alla voce Tommasini Alessandro.

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«Al Sig.r Can.co D. Alessandro Tommasini / Napoli Essendo noi stati da q° pubblico colle legitime forme incaricati di proseguire le suppliche

già preparate presso la M. del Sovrano per la restituzione del Tribunale in q.a Città per la me-tà di q.a Provincia, stimammo parte indispensabile dei n.ri doveri anche per il maggior utile di q.° sud.°Publico far capo da V. S. Ill.ma non solo come zelante, ed appassionato n.ro Con-cittadino, ma ben anco per li lumi che ha ella finora acquistato su q.° particolar negozio, e per li mezzi, ed aderenze che tiene per far andare avanti le raggioni, e motivi per li q.li mediante la sua efficacia si spera ottenersi l'intento, onde col più vivo del n.ro spirito la preghiamo, ecci-tando in lei il vero spirito Patriotico volersi à tutt'uomo impegnare, affinché si arrivi all'in-tento dipendendo da q.° più da ogn'altro mezzo la sollecita riedificazione di q.ta destrutta Cit-tà, per cui V. S. Ill.ma insiem con noi non ha risparmiato fatiche. Accingiamoci dunque da Veri, e Zelanti Cittadini à tale impresa per il bene, e vantaggio di q.a n.ra afflitta, e desolata Patria.

Qui si fecero su q.° particolare, e preventivamente, e posteriormente al publico Parlamen-to già tenuto sotto il di 21 dell'andante Mese delle Sessioni circa il danaro, che forse bisognerà così per spese, che per chi ci favorischa patrocinare, e si è determinato prima dalle Sessioni, ed indi dal Parlamento, che per adesso potessimo servirsi à tal uopo di certo danaro, e non ba-stando q° si diede al Parlamento la facoltà di far Tassa inter Cives, le sia tutto ciò d'avviso per sua intelligenza, e governo.

Nelle sud.e Sessioni fecesi ancora parola, della maniera come dobbiamo incaminarci per ottenere l'intento, e tra li molti discorsi il sentimento più applaudito si fu di scanzare per quanto sarà possibile decisioni di Tribunale, e specialmente della Real Camera, che altra volta ci fu contraria su questo particolare, giacché presto questi potranno facilmente prevalere le opposizioni, che forse, e senza forse ci farebbero li Catanzaresi, li quali si sanno, e possono aju-tarsi più di noi, conforme per esperienza con n.ro cordoglio ci rammentiamo. Bisogna dunque non affacciarsi punto nella Segreteria del Marchese de Marco, ma nella Segreteria del Cav.r Acton, il quale è portato à veder risorgere q.a Città, la quale l'ha sperimentato per suo Protet-tore nelle sue necessità, potrà esser, che da se stesso risolva il punto con una parola a n.ro fa-vore, che potrà forse farseli dire dalla M. della Regina 6, onde potrà subito proporla in Consi-glio di Stato, ed ivi subito determinarla, ò pure volendola rimettere per consulta, certamente la rimetterà al Consiglio delle Finanze in cui egli stesso presiede, ò Suprema Giunta, onde la Consulta riuscirà favorevole, ed indi il dispaccio, sempre che si arriverà egli à capitare, che il mezzo migliore per la riedificazione di questa Città ne sarà il Tribunale Prov.le onde su questo punto più che sù d'ogni altro dovrà far forza il Sig.r Avvocato, che favorisce per capacitare d.° Sig.r Acton; Le ragioni per fondar q.° punto non è necessario, che si replichino a V. S. Ill.ma ma, giacché oltre quelle dette q.li abbiam fatto parola à voce prima della sua partenza da qui, sà ella escogitarle, e produrle molto meglio, che noi.

Presso d.° Sig.r Acton oltre l'Avvocato, che dovrà informarlo, potrà ella avvalersi dei mezzi così del n.ro Caris.° Cav.r Micheroux, che del Sig.r Colonnello Ariola, dell'amore dei quali verso q.a Città ne siamo pur troppo sicuri, e che non isdegnano di proteggerci, che di altro, che ella stimerà esser suoi Amici, e Confidenti acciò anch'essi possano informarlo in n.ro favore. Così si pensa qui da noi; ella però, che è su la faccia del luogo se le sembra dover regolare altrimenti l'affare, lo regoli pure, giacché da noi si pretende l’intento, e non si cura

6 Si adombra in questo passo la grande amicizia che incorreva tra l’Acton e la regina.

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del modo, priegandola darci prima ragguaglio come pensa per n.ro regolamento. Per l'Avvo-cato, che guidar debba q.° negozio ci sembra esser opportuno il Sig.r D. Lorenzo Iacuza, il quale oltre l'esser Avvocato Ordinario di q.a Università, e specialmente nella causa di Samba-tello 7, nella quale si sta portando assai bene, pure essendo mezzo n.ro Paesano si porterà in q.a con maggior calore degl'altri, ed ancor perchè gode l'amicizia così del Sig.r Corradini, che del Sig.r Vivenzio, se mai dovremo esser tra le mani di Costoro; ad ogni modo però se si stima di V. S. Ill.ma doversi per q.a causa aggiungerne altro, lo facci pure, giacché da noi un tale affare si confida tutto nel di lei zelo, e spirito Patriotico; ma ciò doppo che ce lo notizierà, vo-lendo noi tener anche sodisfatti la parte più sana di questi Cittadini.

Il Sig.r D. Cesare Catizzone, che trovasi su le mosse della partenza per costà affine di cu-rarsi delle sue indisposizioni, le porterà le suppliche di diverse Università della Provincia, che abbiam potuto per q° fine esaccare, che li farà presentare quando, e dove stimerà ed in appres-so speriamo mandargliene dell'altre8. Stiamo attendendo indi lei riscontro, e regolamenti per poter portare in Porto q.o importantis.o affare, mentre col desiderio di molti suoi riveritis.i Comandi, con pienezza di stima ci confermiamo

D. V. S. Ill.ma/ Dev.mi ed oblig.mi Ser.i veri/ Giacinto Plutino/ Antonio M.a Pale-

stino/Reggio 26 marzo 1790».

Non conosciamo l'attività dispiegata dal Tommasini a Napoli a favore della sua città in seguito all'incarico avuto con la trascritta lettera, ma dob-biamo pur pensare che a nulla valsero i suoi buoni uffici, stante soprattutto la nomina a vescovo di Oppido appena due anni dopo. Quel ch'è invece cer-to è che nel 1798 la real camera della Sommaria dava un colpo di spugna alle residue speranze dei reggini respingendo ancora una volta la loro ennesima e plurisecolare istanza.

7 Non sappiamo di quale causa espressamente si tratti, ma Sambatello, come tutti i

casali, fu sempre insofferente del modo di amministrare dei Reggini. Ved. S. SCHIAVONE, Le antiche parrocchie dell'Archidiocesi di Reggio Calabria, Reggio Cal. 1977, p. 191.

8 Un tal personaggio era sicuramente quel medesimo, detto anche Cesare Cannizzo-ne, che nel 1770-71 aveva ricoperto la carica di sindaco dei nobili e si era venuto poi nel 1756 a trovare al centro di un clamoroso caso. Dovendo in quel tempo impal-mare la messinese Giuseppa Patti e non avendo voluto invitare alla cerimonia gli ufficiali del Reggimento Nazional Bari, allora di presidio in città, venne offeso gra-vemente da uno di essi, i quali si presentarono comunque al convito armati di tutto punto e, con fare strafottente, costrinsero alcune signore a danzare forzatamente con loro, abbassandosi poi ad altre soperchierie. L'episodio destò parecchio rumore a Napoli, da dove si diede immediatamente ordine d'imprigionare tutti coloro che si erano comportati così villanamente e trasferire al gran completo a Messina il reg-

gimento. SPANO’ BOLANI, Storia di Reggio ..., II, pp. 183-185, 482.

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Clamoroso caso nella Reggio ottocentesca-L'arcivescovo Cenicola accusato

di aver venduto la custodia in argento delle reliquie del patrono S. Lucio *

Mons. Alessandro Tommasini, vescovo di Oppido, mediatore di grande

esperienza e tatto, incaricato spesso dal re d'investigare diligentemente ogni aspetto delle controversie più spigolose insorte nella Chiesa della provincia reggina, nel 1801 si vide affidare un insolito compito9. Nella città dello Stret-to un paio di anni prima - era il 1799, anno assai ricordevole per le turbolen-ze createsi a motivo della nota spedizione sanfedista del cardinale Ruffo - l'arcivescovo fra Bernardo Maria Cenicola aveva alienato il reliquiario argen-teo che conteneva alcune spoglie del martire S. Lucio, patrono della stessa10, suscitando le ire dei fedeli, i quali se ne lagnarono con gli amministratori dell'università, che a bella posta vennero a convocare un pubblico parlamen-to. Si assunse le funzioni di paladino dell'offesa popolazione un privato cit-tadino, Francesco Antonio Serranò, il quale inoltrò un reclamo all'indirizzo del re a Napoli. Da qui l'ordine al Tommasini di svolgere accurate indagini e riferire. Il tutto risulta compreso in alcune testimonianze, che si conservano in un fascicolo presso la curia vescovile di Oppido.

Il Tommasini, non appena ebbe ricevuto la delicata incombenza, si mise subito al lavoro e, per poterne sapere di più e riuscire a trarre le conclusioni del caso, venne a scrivere con ogni circospezione agli amici che aveva lascia-to a Reggio, ma anche a qualcuno che nella vicenda era stato attore: il barone di Palizzi d. Tiberio de Blasio, d. Giacomo Tripepi, d. Francesco Scappatura, d. Felice Guerrera11, d. Agostino Spanò, cav. Francesco Bisignani, Pier Luigi Morisano, Domenico Sirti e Alessandro della Torre. Nella lettera che spedì in

* Pubblicato in "Calabria Sconosciuta", X (1987), n. 39, pp. 99-102.

9 Sul Tommasini e sugli impegni da lui svolti per ordine reale ved. R. LIBERTI, Gli

stretti rapporti plurisecolari di Bagnara con la diocesi di Oppido, "Calabria Letteraria", XXXIII (1985), nn. 1-2-3, pp. 102-109; A. PALMENTA, Alessandro Tommasini, Reggio Cal. 1986, passim.

10 S. Lucio fu acclamato patrono di Reggio nel 1721, quindi ancor prima che lo fosse l'attuale, la Madonna della Consolazione, che ne venne dichiarata nel 1743. Le reli-quie del santo furono inviate in Calabria dal gesuita reggino p. Giuseppe Foti, in at-to a Roma, sin dal 1680 e la richiesta perchè detto fosse riconosciuto patrono venne spedita dai sindaci alla S. Congregazione dei Riti nel 1714. I reggini del '700 non an-davano per il sottile in fatto di santi protettori se nel 1752 il parlamento si pronun-ziò favorevolmente alla scelta di S. Antonio da Padova quale ennesimo patrono. SPANO’ BOLANI, Storia di Reggio …, II, pp. 236, 240, 241.

11 Un Felice Guerrera nel 1785-86 e 1794-96 fu sindaco dei nobili di Reggio. SPANO’ BOLANI, Storia di Reggio ..., pp. 482, 484.

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data 22 ottobre 1801 da Oppido dal Piminoro, dove a volte risiedeva e, certo, anche in altre successive, come vedremo, officiò quanto le parti interessate avevano fino ad allora manifestato, sia le accuse del Serranò che le giustifi-cazioni del Cenicola, entrambe dichiarazioni che ognuno, evidentemente, avrebbe dovuto verificare alla luce di risultanze personali.

Questo il racconto dei fatti nella versione del presule in carica da appena un quadriennio, cioè dal dicembre 1797.

Nella visita pastorale che venne a svolgere nell'agosto del 1798 il Cenicola rinvenne alcuni argenti e subito dispose che, per effetto di un'ordinanza del 29 marzo precedente e in attesa che potessero essere consegnati al re tramite un commissario ad hoc, fossero custoditi in luogo acconcio. Trascorse un an-no e del commissario neppure l'ombra, ma intanto si era pervenuti al gen-naio del 1799, data in cui turbinosi avvenimenti si verificarono nel regno di Napoli per via della reazione impersonata dal raccogliticcio esercito sanfedi-sta, che venne a mettere a soqquadro principalmente la Calabria. Poichè

«sulle voci di quanto era accaduto ne' paesi invasi, vi era molto da temere per detti

argenti», non potendo attendersi aiuti dalla lontana Corte di Palermo, ove la

famiglia Borbone si era rifugiata, l'arcivescovo «pressato dalle pur troppo note

miserie della Città di Reggio, e dello stato indecente della chiesa Cattedrale», pensò

bene di vendere al migliore offerente il piccolo tesoro ottenendone 200 duca-ti. Ritornati alla normalità, informò il re di quanto occorso e sulla fine fatta

dal denaro, ch'era stato unicamente «impiegato in sollievo de' poveri, ed in bene-

ficio della Chiesa». Nel frangente, non rivelò però la questione dei reliquiari

dell'altare, ma lo fece volutamente perchè essi, essendo formati di sottilissima sfoglia d'argento apposta sul legno, avevano un valore irrisorio. Comunque, il re non trovò difficoltà ad approvarne l’operato con dispaccio da Palermo del 14 dicembre. Fu allora, opinandosi erroneamente che la Cassa di S. Lucio ap-partenesse alla città e ch'egli avesse indirizzato al sovrano un sorrettizio espo-sto, cioè che avesse carpito la buona fede altrui, che il sindaco dei nobili Do-menico Sirti il 27 luglio 1800 convocò in parlamento alcuni decurioni. Nell’occasione il verbale non venne nemmeno registrato, ma tuttavia fu in-viato ugualmente a Napoli da d. Giuseppe Miceli su richiesta del Serranò.

Assai diverso il discorso portato avanti da quest'ultimo, che il Cenicola qualificava non Nobile Patrizio, ma uomo ignobile dell'infima classe del popolo tutto venduto a d. Antonio Rettez, il vero responsabile d'ogni manovra e in combutta, oltre che con il citato Miceli, anche con d. Diego Polimeni.

All'epoca, di cui trattasi, tutte le regioni avevano spedito nella capitale i loro argenti senza punto attendere l'arrivo del commissario e in Reggio era stato tutto sempre tranquillo, in quanto la città si era mantenuta ligia alla

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Corona. Era ciò tanto vero che lo stesso arcivescovo, cosciente dell'apparte-nenza della "Cassa" all'università, aveva ostacolato la produzione del ricorso da parte di quest'ultima osservando che avrebbe provveduto a rifare il ma-nufatto. Non solo, ma a Palermo quegli aveva comunicato il falso pur di ot-tenere l'assenso sovrano alla sua condotta. Se la paura era tale che stesse per succedere il finimondo, era chiaro, il Cenicola avrebbe dovuto vendere an-che gli argenti di suo diretto possesso, ma non lo aveva fatto e allora le cose erano andate in tutt'altro verso. Il primo a rispondere al Tommasini fu Ago-stino Spanò, la cui missiva reca la data del 18 novembre 1801. Lo Spanò, che pur affermò di trascorrere gran parte del suo tempo in campagna, mostrò di saperla lunga sia sugli avvenimenti che sui personaggi che si contrappone-vano nella Reggio di quell'inizio secolo per delle beghe, che, se apparente-mente sembravano dettate da nobili sentimenti, sotto sotto forse dovevano nascondere retroscena poco edificanti. Il primo corrispondente ci sembra, comunque, piuttosto sincero, in quanto ci pare che giudichi imparzialmente uomini ed eventi dicendo pane al pane e vino al vino.

Il Cenicola soffriva di podagra, è vero, ma trattandosi di un fenomeno di-scontinuo, il malessere permetteva a chi n'era affetto di spostarsi liberamente potendo servirsi anche della carrozza. L'arcivescovo, evidentemente, era sta-to incolpato di non muoversi dalla sede e, quindi, d'interessarsi poco o nien-

te alla circoscrizione commessagli. «Predicò più volte con molto zelo nelle passate

emergenze del Regno, ma pure chiuse le mani a' bisogni de' poveri». Solo negli ultimi tempi pareva aver mutato atteggiamento. Faceva regolarmente la pubblica elemosina e aiutava zitelle povere a entrare nel Conservatorio12, ma non negava il suo obolo anche a quelle che nell'istituzione si trovavano già, come pure ad alcuni conventi di mendicanti. Spese molte migliaia per abbelli-re la chiesa all'interno e all'esterno e sia questa che la sacrestìa figuravano dotate di molte suppellettili. Non era vero poi ch'egli, secondo le accuse, si fosse preoccupato di erigere il suo Solio, e l'Orchestra perchè aveva ordinato benanco altri lavori, come la scala nella porta, che dalla chiesa immetteva nel palazzo13.

Per quanto concerneva più propriamente la materia attinente ai reliquiari e cassa d'argento - quest'ultima era di proprietà dei gesuiti e dopo la loro

12 Si tratta certamente del Conservatorio per l'educazione delle fanciulle povere fondato

nel 1612 dal cav. Francesco Monsolino ed Emanuele Morello e la cui direzione fu dagli stessi commessa agli arcivescovi pro-tempore. SPANO’ BOLANI, Storia di Reggio ..., pp. 466-468.

13 Tra l'altro, si addebitava all'arcivescovo che per il venerdì santo «fece un miserabil

sepolcro, ed un meschino apparato per la Gloria» (dalla risposta del sindaco Sirti).

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espulsione dal regno era finita prima alla parrocchia di S. Gregorio Magno e, quindi, alla cattedrale - l'arcivescovo era nel torto perchè non aveva agito come tutti gli altri e la sua asserzione di attesa del commissario suonava af-fatto ideale, in quanto la rivelazione a posteriori era stata fatta solo per calmare un po' le acque, agitate in seguito agli appelli e alle proteste dei reggini. Il presule aveva denunziato l'esistenza della cassa perchè la cosa aveva origi-nato molto rumore presso la cittadinanza, ma aveva bensì taciuto sui reli-quiari, la cui vendita per allora ancora s'ignorava. Mons. Tommasini doveva pur sapere che i reliquiari, contrariamente a quanto il Cenicola aveva detto, non erano d'un valore tanto indifferente, dato che lo stesso Capobianco per averli in restituzione aveva messo via tutta l'argenteria del suo Palazzo, che non era di picciol valore. Anche le spese affrontate per rifare il Quarto inferiore del Palazzo erano tali, ma il tutto non poteva mai ammontare a 3000 ducati, come si andava blaterando. Passando in ultimo al Serranò, lo Spanò comunicava ch'era esattissimo che quegli fosse persona fidata di d. Antonino Rettez, ma il suo ritratto non corrispondeva a quello descritto dal Cenicola. Non risul-tava nobile patrizio secondo l'antica rigorosa nozione di tal voce, ma - aggiungeva

quasi ironicamente - era «patrizio majorum gentium secondo l'ultima moda del Paese, in cui si danno del patrizio non i simili a lui solamente, ma anche i pesciven-

doli». Pur tuttavia, l'istanza da lui presentata non era frutto delle mene del Rettez e non si comprendeva fra gli atti malvagi. Era piuttosto l'azione d'uno scrupoloso, ma affezionato sacrestano.

Ê assai interessante ai fini storici quanto dichiarato dallo Spanò in merito al frangente bellico vissuto dal territorio reggino in occasione dell'impresa del Ruffo, che cozza completamente con il riferimento fatto dall'arcivescovo. Ecco ciò che si legge in proposito: «La Città di Reggio fu sempre fedele al suo Amabilissimo Sovrano (Dio Guardi) né mai vi

furono i da lui (dal Cenicola) decantati timori di nemiche irruzioni in questi lidi difesi pur troppo dalla vicina Sicilia, e dalle Potenze Alleate, che corseggiavano questi mari di maniera che l'E.mo Cardinal Ruffo detto Generale Vicario passar potè senza difesa veruna a fare il

riacquisto delle ribellate contrade del Regno». In verità, questi particolari resi noti da un cittadino di Reggio non fanno

una grinza e si ritrovano perfettamente in linea con quanto hanno scritto i tanti diaristi presenti, e non, allo sbarco dei sanfedisti - appena un pugno di gente - a Punta Pezzo. Esattamente un mese dopo lo sbarco rispose al vesco-vo Ilario Antonio De Blasio, probabilmente al posto del barone Tiberio pre-detto e che dal 15 agosto dell'anno precedente sostituiva il sanfedista Angelo Di Fiore quale assessore di Reggio14. Il De Blasio, a cui il Tommasini aveva

14 GUARNA LOGOTETA, Storia di Reggio Calabria …, I, p. 30.

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richiesto in data 28 ottobre 1801 soprattutto d'accertarsi se nell'apposito libro tenuto dal cancelliere della città fosse stato incluso il parlamento del 30 lu-glio 1800 convocato dal Sindaco de Nobili D. Domenico Sirti, e Socj, comunicò che in esso non aveva osservato alcuna iscrizione, ma che il Sirti con certifi-cazione data il 28 dicembre 1801 aveva fornito pieni lumi su come si erano svolti i fatti. In buona sostanza, stretta conseguenza del parlamento, ove si era discusso dei ricorsi da presentare ai tribunali competenti, fu che pochi giorni appresso il suo paesano e congionto D. Domenico Ramirez (si tratta, certo, del marchese omonimo, zio di due canonici della cattedrale, d. Giovanni e d. Pietro e ci si riferisce al Sirti)15 andò a trovare quel sindaco, onde avvertirlo che l'arcivescovo avrebbe provveduto a sanare la questione rifacendo a sue spese ciò che aveva alienato. Fu appunto per ciò e per evitare di allungare ancora la diatriba, con gli argenti rivendicati contemporaneamente dai citta-dini e dalla mensa arcivescovile, che il Sirti non solo non rivolse alcuna peti-zione al re, ma arrivò perfino a spingere il cancelliere ad astenersi dall'effet-tuare la dovuta registrazione nel libro dei parlamentari. Le affermazioni del De Blasio rivelano chiaramente come le indagini da lui esperite si siano limi-tate a un atto puramente tecnico e come mirassero a stabilire i fatti nella loro essenza giuridica. Il parlamento c'era stato, si era parlato degli argenti e si era deciso di rivolgersi al re, ma il sindaco, dietro promessa che tutto si sa-rebbe appianato, non aveva inteso far mettere nero su bianco.

Al 15 gennaio dell'anno successivo rimonta la risposta di Alessandro Del-la Torre, un personaggio che non si esimette dall'aggiungere parecchi altri dettagli sulla vicenda. A parere del Della Torre, l'arcivescovo non stava mol-to bene in salute e per undici mesi all'anno era costretto a letto ora da aspra podagra e ora da dolorosa chiragra, ma dacché era giunto a Reggio aveva pre-dicato in molte circostanze. Praticava delle elemosine e a ogni sabato si da-vano appuntamento accosto al suo portone tutti i poveri di Reggio. Offriva biancheria a coloro che n'erano in bisogno e si caricava del mantenimento di alcune persone del conservatorio. Si sapeva, peraltro, in giro ch'egli aveva speso per la suppellettile della chiesa una somma di lire superiore al mi-gliaio, come pure che aveva acquistato il legname necessario alla copertura del tetto. Circa reliquiari e cassa argentata del corpo di S. Lucio rispondeva tutto al vero, ma i primi, su cui erano impresse le armi di mons. Polou (1727-1756), eran cosa di picciolissima valuta e la cassa non si apparteneva alla citta-dinanza perchè, in seguito al grande flagello, essa era stata rinvenuta in un'antica ed impolverata Nicchia della Chiesa del Colleggio dei Gesuiti, i quali ul-timi avevano provveduto a foderarla in argento. Un parlamento apposita-

15 Ibidem.

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mente convocato era stato effettivamente tenuto, ma subito dopo ogni cosa era stata messa a tacere e il verbale non trascritto. In merito alla questione di Cavalli e Carozze il corrispondente si diceva poi a conoscenza ch'essi, per co-me gli aveva raccontato il cocchiere maggiore Francesco Campolo, erano sta-ti lasciati da mons. Capobianco agli stessi guidatori e che il Campolo poi li rivendette al Cenicola16. Il Della Torre, in ultimo, tenne a far sapere che il

Serranò era «un Galantuomo del Paese, in assai povera sorte, e che fa di tutto per

darsi da vivere, che è creatura e tutta dipendente da Rettes», il quale si trovava as-

sai in urto con l'arcivescovo, per motivi che gli sfuggivano. Con la medesima data risultano ancora due lettere appartenenti a Pier

Luigi Morisano e al cav. Francesco Bisignani, ma delle due è certo più inte-ressante la seconda, limitandosi il primo alla conferma delle attività pastorali e sociali dell'arcivescovo, nulla addizionando a quanto già palesato sulla ormai notoria vendita, ma soltanto che nella chiesa di S. Gregorio, dove la cassa era stata rinvenuta, il Tommasini era stato parroco e il Morisano, che mai quella nemmanco aveva sbirciato, filiano.

Il Bisignani, la cui missiva appare abbastanza pregna di partigianeria nei

confronti dell'imputato Cenicola, venne a rivelare che quest'ultimo era «tutto intento a mantenere la disciplina nel Clero, alla buona educazione della gioventù, ed a ispirare alla medesima il timore di Dio, ed il culto della Sagrosanta Religione; come

pure al sollievo de' poveri» e che viveva alla stregua di un vero alcantarino, quale d'altronde era. Doveva essere edotto certamente assai meglio di lui mons. Tommasini, ch'era stato cittadino di Reggio e parroco e canonico. Tut-tavia, rimaneva dell'idea che il comportamento dell'arcivescovo fosse tutt'al-tro che da biasimare. Avesse agito al pari di lui sua suocera, la fu d. Anna

Valentino Megale, che aveva perso centinaia di ducati per aver voluto «cac-ciare dalla casa, come ognuno faceva, tutti gli argenti, che teneva, e li mandò a na-scondere in un casino di campagna, dove le furono rubate, senza aver potuto appu-

rare il ladro!». Perciò, tutte le accuse formulate a carico di quegli erano solo figli dell'astio e del livore.

L'ultimo interlocutore del Tommasini fu il sindaco Sirti, che, sotto la data del 22 (gennaio?) 1802 venne a offrire dettagliate indicazioni sia per ciò ch'e-ra inerente al noto parlamento che per quanto riguardava la personalità stes-sa dell'arcivescovo. Il Cenicola era impedito ad effettuare le visite da una

noiosa podagra, però i parroci della circoscrizione erano quanto mai «zelanti,

la maggior parte, e ben istruiti de' proprj doveri; né la catechesi vien trascurata».

16 Secondo lo Spanò Bolani (ivi, p. 434), il Cenicola ereditò invece direttamente dal

Capobianco, suo predecessore nella cattedra vescovile, i suoi ricchi arredi, le sue car-rozze ed i suoi cavalli.

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Aveva bensì svolto le dovute prediche, «specialmente quando nelle passate criti-che circostanze tutta la Popolazione Reggiana divisa in più classi, in quattro susse-

cutivi giorni prestò in Chiesa il giuramento di fedeltà a Dio, e al nostro Sovrano». Era abbastanza caritatevole, ma di ciò che aveva sostenuto circa le spese per

la chiesa era visibile ben poco poichè «a quel che si vede ocularmente niente ag-giunse di nuova, e positiva fabbrica alle già fatte della Chiesa, e Sagrestia, neanche

qualche accomodo di poco momento». Risultava però un particolare veritiero

ch'egli avesse provveduto a restaurare l'episcopio, «che si era reso quasi inabi-

tabile, e molta spesa vi fu d'uopo per riattarsi». Di seguito come andò l'intera vicenda del negozio della cassa di S. Lucio

nei ricordi del sindaco Sirti, che sconosceva però del tutto il valore dei sei reliquiari d'argento. Era il 25 ottobre del 1799. Ricorrendo quel giorno la fe-sta del patrono S. Lucio, se ne esposero, come di solito si faceva, le reliquie che si sapeva riposte in una cassa d'argento. Essendosi la popolazione accor-ta ch’esse invece nell'occasione si ritrovavano in una cassa di legno, si agitò molto e richiese l'intervento del Sirti. Questi si recò subito dal segretario del Cenicola, d. Antonino Nunziante, il quale, avvisato di tutto l'arcivescovo, tornò a riferire a suo nome che quanto mancante sarebbe stato rinnovato al meglio. Per il momento ogni cosa si quietò, ma nel luglio dell'anno seguente, constatando che il presule, non solo non aveva mantenuto ciò che aveva promesso, ma aveva inviato al re una supplica al fine di ottenere il benepla-cito sulla vendita fatta, il sindaco si ripresentò ancora a protestare dal segre-tario, al quale disse chiaro e tondo che in caso d'inadempienza dell'impegno preso, era costretto a sua volta a rivolgersi al re. Si arrivò così al parlamento, col quale si decise d'interessare il sovrano, ma d. Domenico Ramirez si offrì lui di sostituire quanto era stato alienato e, quindi, non si diede corso alla pe-tizione e non si passò nemmeno il verbale sui libri di rito. Questi furono i motivi che spinsero il Sirti ad agire siffattamente e non perchè avesse avuto in casa due fratelli canonici, come da più parti si era insinuato.

Le documentazioni della curia vescovile di Oppido si fermano, nel caso, alle indagini avviate dal Tommasini e alle risposte fornitegli da alcuni corri-spondenti, per cui ancora oggi noi non conosciamo che piega abbiano potuto prendere nel prosieguo gli avvenimenti. Fa però d'uopo pensare che il Tommasini non abbia soffiato sul fuoco e che le procelle addensatesi sul re-gno di Napoli e prossime ad abbattersi con tutto il loro impeto abbiano fatto assai presto dimenticare una piccola contesa paesana. D'altronde, gli studiosi di cose reggine, cui è completamente ignota la faccenda, di cui ci siamo oc-cupati, dallo Spanò Bolani al Guarna Logoteta e al Russo, sono tutti concordi nel tramandare la santità di vita e l'impegno pastorale del Cenicola, un pre-

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sule, cui andrebbe ascritto il grosso merito di «essersi adoperato con tutte le sue forze nella difesa dei perseguitati dalla reazione del 1799 e di aver fatto quanto era in

suo potere per la difesa e la protezione dei suoi diocesani». E non è tutto!17

La Cattolica dei Greci di Reggio in un'ennesima lite tra il protopapa e

l'arcivescovo nel 1803, in un memoriale di mons. Alessandro Tommasini *

Mons. Alessandro Tommasini, vescovo di Oppido dal 1792 al 1818, una

personalità d'indubbio valore e pietà sempre richiesta dalle massime autori-tà laiche e religiose di qualificati interventi in vari delicati settori della vita ecclesiastica calabrese, il 14 dicembre 1803 venne investito dal cappellano maggiore, l'allora arcivescovo di Capua, di un compito, che, se non implica-va un'intromissione diretta, come tante altre volte capitato18, si presentava comunque alquanto gravoso per le difficoltà della ricerca.

Si trattava in breve di questo. D. Vincenzo Dainotto19, protopapa della chiesa palatina di S. Maria della Cattolica di Reggio, una chiesa, i cui titolari si erano venuti a trovare spesso nei secoli passati in attrito con gli arcivesco-vi, che mal tolleravano le loro prerogative rimontanti addirittura ai norman-ni, richiese al cappellano maggiore la concessione delle dimissorie, autorizza-zioni da vescovo a vescovo, relative a tre chierici, ch'erano stati promossi agli ordini minori dallo stesso mons. Tommasini nonché le pagelle di confes-sione per quattro canonici. Da qui le ire del presule reggino, mons. Bernardo Maria Cenicola, il quale protestò energicamente con maniere non molto proprie presso l'ufficio napoletano, il cui esponente principe, non sapendo che pesci pigliare, al fine di sbrogliare la matassa non trovò di meglio che appellarsi al

capace e colto vescovo di Oppido, dal quale pretese «un giudizio chiaro sugli articoli controvertiti per dovere di sua carica; onde l'affare possa decidersi su fonda-

menti stabili, e principi certi senza leder la verità; e la giustizia». Quattro i quesiti, ai quali il Tommasini fu tenuto a rispondere:

1) Le ragioni che avevano indotto il protopapa a inoltrare la richiesta della concessione delle dimissioni poggiavano su basi infondate?

17 F. RUSSO, Storia della archidiocesi di Reggio Calabria, Napoli 1963, II, p.149; III (1965),

pp. 227, 232, 233. * Pubblicato in "Calabria Sconosciuta", a. XIII-, n. 46, pp. 39-42. 18 Ved. soprattutto R. LIBERTI, Gli stretti rapporti plurisecolari di Bagnara con la diocesi

di Oppido, "Calabria Letteraria", XXXIII (1985), nn. 1-2-3, pp. 102-109. 19 Così in D. SPANO’ BOLANI, Storia di Reggio …, II, p. 452. Il Tommasini, invece, in

due diverse redazioni del memoriale, come si dirà appresso, lo indica nella prima come Daynotti, nell'altra come Pagnotta.

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2) Considerata la natura della sua chiesa, poteva il protopapa richiedere le pagelle per alcuni canonici della stessa?

3) Le ragioni vantate dal protopapa erano di carattere canonico e rispondeva al vero una permuta dei limiti della cura, che si dicevano fissati sin dall'i-nizio del passato secolo?

4) Quanti chierici occorrevano ad assicurare il regolare svolgimento delle funzioni nella chiesa, decorata al tempo dal sovrano di nobili Insegne?20 A queste domande il presule, avvalendosi della sua dotta preparazione

ecclesiastica e ricercando con competenza quanto poteva aiutarlo nell'impre-sa, rispose, datandolo 17 del 1804 (sarà 17 gennaio 1804)21, con un lungo e circostanziato memoriale, che dovette sicuramente appagare il suo postulan-te22. Per dare una valida risposta alla prima e più importante questione, nella quale stava peraltro tutto il nocciolo della faccenda, il vescovo si procurò quanto doveva riuscire la base di ogni discussione, cioè il noto diploma che il conte Ruggero avrebbe emanato nel 1112 all'atto della fondazione del tem-

20 Nel 1801, su precisa richiesta del Dainotto, Ferdinando IV aveva concesso alla Cat-

tolica vari privilegi (SPANO’ BOLANI, Storia di Reggio ..., ibidem). 21 Poichè un tale uso si riscontra in tanti altri documenti curiali, siamo del parere che

l'omissione del mese volesse indicare proprio che si era all'inizio dell'anno. 22 Per la stesura del presente articolo ci siamo serviti per la massima parte di quella

che stimiamo sia la copia del memoriale inoltrato al cappellano maggiore, a monte del quale si ritrova altro lavoro piuttosto disordinato, pieno di cancellature e note, dal quale presumibilmente il vescovo di Oppido avrà poi tratto il testo definitivo. Nella prima redazione, di gran lunga più ampia, dove fanno capolino non pochi er-rori, è naturale, il Tommasini mostra di conoscere molto bene autori (Diacono, Ba-ronio, Marzocchi, Malaterra) e documenti (la visita di mons. D'Afflitto del 1595) e, quindi, le vicende particolari dei periodi longobardo e normanno. Si rivela assai in-teressante una notazione riguardante il più antico libro parrocchiale della Cattolica. Scrive a proposito quel presule di aver avuto l'occasione di vedere personalmente un Liber Baptizatorum Archipresbiteralis Ecclesiae Sanctae Mariae de Catholica datato 3 gennaio 1634 e aver riscontrato un Archipresbiterum in persona dello spagnolo d. Giovan Battista Camaccio. Questi, ch'era stato confermato protopapa dal vicerè d. Antonio Alvarez de Toledo il 21 febbraio 1631 e se ne stava tranquillamente a Pa-lermo, andò a Reggio nel 1635 e rimase appena un mese, lasciando poi la cura a d. Lorenzo Regolino, che già da prima se ne occupava. Lo Spanò Bolani apostrofò il Camaccio come Comacchio e affermò che tale protopapa, nominato in seguito ad annosa vertenza tra l'università di Reggio e il vicerè, non si recò mai in sede e che suo successore fu Giuseppe Mari (SPANO’ BOLANI, Storia di Reggio ..., pp. 444-445). Dopo quanto detto prima, ci sembra assai più accettabile la testimonianza del Tommasini, che, come si vede, poggia su documenti autentici. Le due redazioni del memoriale sono conservate nell'archivio vescovile di Oppido Mamertina (AVO).

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pio greco di Santa Maria della Cattolica e che n'era, logicamente, il maggior vanto. Il documento, ch'era stato tradotto in latino dal greco nel 1498, nien-temeno che a Messina da Costantino Lascaris dietro incarico del protopapa Nicola Spanò, era inserito nel libro del protocollo del notaio messinese An-drea Azzarello, alla data del 10 febbraio di quello stesso anno e il Tommasini volle riportarlo per intero anche se poi di volta in volta venne a richiamarne le parti giovevoli al supporto delle varie tesi sostenute23.

Ancor prima di stabilire quale fondazione il principe normanno avesse avviato e con quali criteri fosse stata concepita, il vescovo stimò utile passare in rassegna i motivi che, secondo lui, l'avevano originata. Una tale istituzio-ne poteva ragionevolmente procedere da molti fattori: la floridezza goduta dalla città nel periodo di quei greci, che ne avevano fatto la sede del ducato e avevano innalzato la sua Chiesa al grado di metropolìa; la sùbita accettazio-ne da parte dei reggini del predominio instaurato da Ruggero, il quale, dopo

23 Quasi certamente, il Tommasini mutuò il documento dal “De Protopapis” di Giu-

seppe Morisani (Napoli 1768), che lo ha riportato interamente e all'epoca appoggiò in pieno il diritto della città di Reggio, mentre le predette notizie le avrà ricavato, oltre che dallo stesso, anche da P. P. RODOTÁ, Dell'origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, Roma 1768, I, pp. 403-409. Lo Spanò Bolani, che riproduce del pari il diploma di Ruggero e ripete il particolare della traduzione eseguita in Mes-sina (ivi, pp. 439-442), scrive che dell'autenticità di un tal documento erano in molti al suo tempo a dubitarne ed elenca alcuni motivi: il primo Ruggero non possedette mai Reggio; il titolo di maestà appioppatogli non era in uso all'epoca e, nel caso, veniva concesso solo a re e imperatori; il Lascaris era già morto nel 1493; nel di-ploma non si parla di fondazione, ma di riordinamento.

1) Autore del diploma non è il primo Ruggero, ma il secondo, che, prima d'intitolarsi duca di Calabria e di Puglia e, quindi, re di Sicilia etc., conservò per molto tempo il titolo di conte trasmessogli dal padre. Ruggero II, infatti, assunse il titolo di duca di Calabria solo nel 1127 alla morte del cugino Guglielmo e quello di re nel 1130.

2) Noi conosciamo il documento soltanto nella sua traduzione latina effettuata nel XV secolo, quando il titolo di maestà era pienamente usato e non sappiamo come esso fosse stato reso nella lingua originale.

3) Ci è noto il particolare della trascrizione del diploma soltanto dal Morisani e dal Rodotà e stimiamo che nessuno abbia avuto la possibilità di riscontrare l'atto nota-rile originale. Per cui, non sappiamo se la data del 1498 sia quella esatta e se non siasi trattato, nel caso, di qualche refuso.

4) Appunto perchè si parla di riordinamento e non di fondazione occorre pensare al secondo Ruggero e non al primo. D'altronde, la data 6620 è chiara. Si tratta del 1112. Nella prima redazione del memoriale il Tommasini aveva scritto che la Catto-lica era stata fondata nel 1060 anche se il diploma reca una data successiva. Mostra di credere a una tale eventualità lo storico p. Francesco Russo (Storia della Archidio-cesi di Reggio …, I, Napoli 1961, p. 261 nota 8.

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la conquista della città aveva pensato bene di assumere il titolo di duca di Puglia e di Calabria; il distacco della stessa metropolìa dall'ubbidienza al pa-triarca di Costantinopoli e il provvedimento di soggezione diretta al papa; l'avvento del rito latino e il suo rinvigorimento a opera dei normanni dopo le tante traversìe sofferte a causa delle frequenti invasioni saracene; l'ottimo comportamento perseguito da Ruggero nei confronti dei greci, che avevano accettato docilmente la sua signorìa e che lui, di conseguenza, non aveva esi-tato a colmare di benefìci; infine, il desiderio di evitare le difficoltà insite in un forzato cambio di rito imposto ai preti greci.

Ciò posto e facendo appello a una regola sulle chiese privilegiate dettata da papa Alessandro III nonché allo stesso diploma, venne a ricavare l'idea di

una «Cappella Reale, Libera ed esente dalla giurisdizione del Vescovo Diocesano, e

da ogn'altra che non sia la Regia inerente alla Sovranità, e dalla medesima delegata» in tutto uguale alle altre, soprattutto alle regie cappelle istituite dallo stesso Ruggero nel regno meridionale e di un protopapa dei greci come Capo o Pre-lato della chiesa e Proto Cappellano della Regal Cappella, la cui nomina era stata riservata alla città di Reggio. Era questo un privilegio, che, malgrado la Chiesa avesse più volte decretato la soppressione del diritto di Collazione lai-ca dei benefici, aveva una sua validità. Non godevano anche allora i monarchi napoletani del diritto di nomina del titolare dell'arcipretura di Altamura? Si trattava in entrambi i casi di particolari favori elargiti a quei normanni che avevano reso così importanti servigi ai pontefici, a cominciare da Urbano II, il quale aveva nutrito tanto affetto nei confronti del primo Ruggero.

Fatte queste debite premesse, l'incaricato oppidese venne a dichiarare come, a seguito della concessione ruggeriana, la nomina dei protopapi, con inizio da Pietro I fosse stata sempre di natura laica e come a chiudere la boc-ca a ogni opposizione bastasse la sentenza pronunciata il 22 maggio 1726 dal cappellano maggiore alla fine di una lunga controversia giurisdizionale in-tercorsa tra l'arcivescovo e la città unita al protopapa. Infatti, un tale lodo non faceva che ribadire come la Cattolica risultasse di regio patronato e, quindi, come la nomina del protopapa, che n'era a capo, spettasse unicamen-te alla città, con esclusione assoluta dell'arcivescovo, il cui potere non rag-giungeva nemmeno i preti e i chierici che da quegli dipendevano24.

24 Scrive il Rodotà (ivi, p. 407) che contro tale sentenza si scagliò Antonio Zavarroni

da Montalto, allora vicario generale dell'arcivescovo reggino e successivamente ve-scovo di Tricarico, il quale nel 1730 a Napoli e nel 1735 a Roma fece diffondere una sua dissertazione apologetica a riguardo. Il Rodotà, nel riportare ciò, si pronunziò, senza entrare nel merito, a favore della sentenza emanata dal cappellano maggiore.

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Enucleato questo primo importante giudizio, il Tommasini si pose il pro-blema di stabilire a chi spettasse il compito di ordinare i chierici assegnati alla Cattolica durante il periodo della dominazione dei greci di Bisanzio, e, quindi, di conoscere gli sviluppi successivi. Riferendo come la Chiesa non avesse mai digerito la commistione dei due riti, dichiarò che la nomina dei protopapi da parte dei vescovi greci fu un punto fermo fino al 1564, cioè fino al decreto di Benedetto XIV, che lo stabiliva senza incertezze. Quindi che, venendo a diradarsi sempre più la presenza di sacerdoti ordinati col rito greco e a motivo di altro decreto di Pio IV, che aveva ridotto i superstiti all'ubbidienza ai vescovi latini, era avvenuta una gran confusione dei ruoli, situazione in cui aveva approfittato, tra il 1590 e il 1611, l'arcivescovo reggi-no mons. Annibale De Afflictis. Questi, infatti, anche se nelle documentazio-ni aveva continuato ad affermare essere stata la Cattolica fondata da Rugge-ro e trovarsi in soggezione a patronato regio, s'intromise nel governo della stessa e dispose a suo piacimento. Da quel tempo gli urti tra il presule e la città proprio non si contarono e nel 1650 si diede il via a quella vertenza che abbiamo visto terminare nel 1726. Mons. Tommasini riunì in un secondo ca-pitolo le risposte dirette ai due primi quesiti rivoltigli dal cappellano mag-giore, risposte che risultano pertanto confortate da una ricapitolazione sommaria di quanto detto nel precedente e da appropriati riferimenti a nuo-vi atti e a nuovi esempi, sui quali non è però il caso di dilungarsi.

In merito alle prime domande il vescovo oppidese non venne sfiorato da dubbio alcuno che il protopapa della Cattolica non fosse abilitato a richiede-re le dimissorie e le pagelle e scrisse al suo superiore di essere del parere che a quell'istituzione fossero connesse tutte le prerogative, che in atto godevano le reali cappelle di Napoli, Caserta e Portici sia per diritto di fondazione che per effetto di una bolla emanata da papa Benedetto XII proprio in merito alle cappelle reali. Per cui, quel protopapa si trovava ad aver agito in piena con-formità alla norma. Assai diverso invece il responso al terzo quesito. Rugge-ro, nell'atto di fondazione, assegnò al protopapa solo il Sacro Ministero della Lode Divina e della pubblica preghiera, non quello della cura di anime, che, an-che se perseguìta da un economo curato approvato dall'Arcivescovo, e benvisto al Protopapa, si qualificava per un abuso vero e proprio, di cui non si cono-sceva alcun titolo. Nessun protopapa aveva mai osato o voluto fregiarsene e la sua origine, ch'era stata possibile Per un sistema di buona fede adottato, ed armonia fra i passati Arcivescovi e i Protopapi, doveva essere avvenuta fra il buio de' bassi tempi, e fra le vicende afflittive di quella Città.

Non possedendo documenti di sorta, cui appigliarsi, il Tommasini pur tuttavia si sentì in dovere di dire la sua anche in merito al problema della cu-ra delle anime esercitata dalla Cattolica. Secondo il suo intendimento, il nu-

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meroso elemento greco dimorante in città, una volta che quella chiesa aveva dovuto subire in epoca normanna il mutamento di rito, dovette sicuramente avere un proprio pastore con sede a Reggio o a Messina, cui far capo e che dovette incaricare della cura spirituale delle famiglie greche della città o lo stesso protopapa o altro prete greco. Tutto ciò però fino al 1564 o poco oltre. Difatti, la costituzione Romanus Pontifex di Pio IV del 10 febbraio di quell'an-no, revocando ogni privilegio concesso ai greci del regno, diede il via a un progressivo abbandono del rito e a una del pari crescente sottomissione all'ubbidienza latina. Rimonta poi intorno al 1584 l'operazione decisiva. A mons. De Afflictis, in un'epoca infausta per le invasioni de' Turchi, onde gl'in-cendj e le rovine a quella Città, e la fuga de' suoi Cittadini, non parve vero allora di poter assoggettare al suo potere la Cattolica, il protopapa e il clero dipen-dente, per cui quegli in un'occasione chiamò le prime due istituzioni rispet-tivamente chiesa arcipretale e arciprete e forse assegnò loro un nuovo ambi-to per la cura d'anime allargando quello che prima aveva compreso soltanto le famiglie greche. Da tale azione, peraltro non biasimata dal Tommasini, che la disse dovuta alle dure circostanze dei tempi e al fatto che il rito greco era ormai agli sgoccioli, discese la lite risolta poi, come noto, nel 1726.

In riguardo al terzo quesito il vescovo di Oppido, dopo essersi ancora in-trattenuto a divagare sul governo della Cattolica sia in periodo greco che in quello latino, sostenne decisamente che quella non aveva né per diritto né per dovere il carico della cura di anime, soprattutto perchè ciò era dipeso da una disposizione dell'arcivescovo e non per volere del fondatore. Quindi, quanto vantato dal protopapa non poteva poggiare su alcun fondamento ca-nonico. Nell'affermare ciò non temeva di porsi in antitesi ad alcuni Canonisti nazionali, che solo per un equivoco avevano inserito quella chiesa nella Classe delle Prelature di Seconda Specie, a un registro approntato dal vicerè duca d'Ossuna nel 1583 dietro ordine di Filippo II e a “Le notizie di Chioccarelli”25.

Passando al numero dei chierici utilizzati per lo svolgimento del servizio della Cattolica, il Tommasini fece presente che di essi, pur previsti dal di-ploma ruggeriano, non era stata mai fissata una quota precisa. Per il periodo greco era lecito pensare a una quantità indeterminata, ma per quello succes-sivo si dava il caso che si fosse provveduto di volta in volta secondo necessi-tà. In risposta, infine, al quarto quesito, col quale si richiedeva un parere sul numero di chierici ritenuti necessari, il presule, tratte le debite considerazio-ni, si dichiarò dell'idea di designarne una cifra di 12, otto ordinari e quattro soprannumerari, con i secondi supplenti dei primi, scelti secondo i meriti di

25 Molto probabilmente, si tratta di Bartolomeo Chioccarello, autore di “Archivio della

Regia giurisdizione del Regno di Napoli”, Venezia 1721.

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antichità, e Servizio, e Lodevole condotta, con assegnazione al servizio a partire dal noviziato.

Non conosciamo come terminò la contesa e quale fu l'influenza esercitata dal memoriale approntato dal Tommasini, ma essa sicuramente rappresentò soltanto un episodio perchè gli archivi, soprattutto quello curiale reggino, ci fanno grazia di ulteriori accapigliamenti tra arcivescovi e protopapi26.

Quello che i Meridionalisti forse non seppero mai-L'Associazione

Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno nel mirino della Chiesa *

Nel primo decennio del nostro secolo, in un periodo in cui più acuti si

erano fatti i contrasti sociali e religiosi, con un movimento modernista sempre più agguerrito e con molti giovani pervasi da un'ansia di fare qual-cosa a favore del sempre dimenticato Sud, nasceva quell'Associazione Na-zionale per gli Interessi del Mezzogiorno d'Italia, che doveva diventare al-tamente benemerita nei confronti di derelitte popolazioni ancora abbando-nate a se stesse nell'ignoranza e nella superstizione. Era il 1° marzo del 1910 e a gettare le basi ufficiali di tale istituzione si trovarono in una sala del Se-nato a Roma un gruppo di animosi cresciutisi nel cenacolo fogazzariano della Valsolda e tempratisi nel recare aiuto ai terremotati calabro-siculi del 1908. Presidente onorario venne eletto Pasquale Villari, uomo politico di vaglia e meridionalista insigne, ma della partita erano anche personalità non meno illustri, quali Leopoldo Franchetti, che assunse le redini di presi-dente effettivo, Giustino Fortunato, il bardo della letteratura meridionalisti-ca, Alfonso Casati e Aiace Alfieri, le colonne della rivista “Il Rinnovamento”, Gaetano Salvemini, storico e giornalista, il duca Tommaso Gallarati Scotti e Umberto Zanotti Bianco, oltre naturalmente a tanti altri.

L'Associazione, che si offriva alla ribalta con un programma più che ambizioso e di grande lungimiranza, procurò sin dall'inizio tanto bene e non si contano davvero le iniziative avviate dai suoi componenti anche nel-le più sperdute e irraggiungibili plaghe, nelle quali le parole scuola e libro per merito loro venivano a essere pronunciate forse per la prima volta. Ep-pure, un ente così provvidenziale, che si sostituì addirittura a uno Stato quanto mai carente ai fini della promozione culturale e sociale di popola-zioni ancora obbligate a vivere nell'analfabetismo e nell'errore e che il For-

26 F. TURANO, Attività musicale nella Cattolica dei greci di Reggio nel XIX secolo, "Cala-

bria Sconosciuta", VII (1984), nn. 27-28, p. 75.

* Pubblicato in "Calabria Sconosciuta", X (1987), n. 38, pp.55-57.

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tunato considerava «l'unica forza finora organizzata in Italia per il risveglio delle

provincie meridionali», al suo primo apparire suscitò forti preoccupazioni in seno alla gerarchia ecclesiastica. Questa, infatti, intenta com'era a lottare quell'eretico movimento di cattolici protestatari, che pensava di armonizza-re la dottrina cristiana con le teorie moderne e Pio X, nell'enciclica “Pascen-di”, denominò propriamente Modernismo, vedeva il male dappertutto e fiu-tò, quindi, anche nell'associazione appena costituitasi l'ennesimo pericolo, che rimandava alla corrente, i cui capifila erano pur sempre lo stesso Fo-gazzaro, il Buonaiuti e il Murri. Impensieriva il Vaticano soprattutto la pre-senza in una tale consorteria di gente come il Franchetti, ch'era di origine ebraica e del trio Alfieri, Casati e Gallarati Scotti, direttori scomunicati di quel Rinnovamento27, ch'era stato varie volte criticato e condannato28.

Non trascorsero che quindici giorni appena dalla fondazione dell'Asso-ciazione, che subito in Vaticano si cercò di raggiungere le remote province meridionali ancor prima che vi ponessero piede i più qualificati rappresen-tanti. Se ne rese promotore l'energico pro-segretario di Stato, cardinale Ra-fael Merry Del Val, fedele esecutore delle direttive di papa Sarto e combat-tente instancabile contro il modernismo e le sue più o meno scoperte rami-ficazioni. Ci rende consapevoli di tutto ciò una lettera che l'eminente por-porato indirizzò proprio il 25 marzo del 1910 al metropolita reggino con la precisa disposizione di farne avere il contenuto a tutti i vescovi dipendenti. Una tale missiva, che non crediamo sia stata mai conosciuta, in quanto ri-servata e confidenziale, com'è detto in testa al foglio che la riporta, non ha bi-sogno di commenti perchè, date le notizie che fornisce, denuncia molto chiaramente qual era la situazione al tempo. Eccola, di seguito: «25 marzo1910 /Arcivescovado di Reggio Calabria/Eccellenza Reverendissima

Ricevo dalla Segreteria di Stato con preghiera di comunicarla ai Reverendissimi Vescovi suf-fraganei, la seguente lettera:

Ê stato riferito da persona che è in grado di saperlo, che è stata testé costituita un'Asso-ciazione pel Mezzogiorno d'Italia. Lo scopo di tale Associazione è, si dice, di redimere coteste popolazioni dalla superstizione ed educarle al bene. Ma considerando le persone che ne fanno parte e lo spirito a cui sono animate, ben si comprende dove si vuole andare a finire. Si tratta

27 Periodico semestrale milanese uscito nel gennaio 1907 al dicembre 1909, aveva per

sottotitolo “Rivista critica di idee e di fatti”. Cfr. P. CHIMINELLI, voce Rinnovamento (Il), "Enciclopedìa Cattolica).

28 Sull'Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno d'Italia ved. VARI, L'Associa-zione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d'Italia nei suoi primi cinquantanni di vita, Roma 1960; U. ZANOTTI BIANCO, Meridione e Meridionalisti, ivi 1964; T. GALLARATI SCOTTI, Umberto Zanotti Bianco, Roma 1963; G. ISNARDI, Frontiera calabrese, Napoli 1965, pp. 335-348.

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evidentemente di una nuova forma di diffusione di idee moderniste. Fanno infatti parte della Associazione suddetta uomini di varie religioni ed è presieduta in apparenza dal Barone Franchetti, ebreo, ma in realtà chi muove e dirige tutto sono Fogazzaro29 e il Duca Tommaso Scotti. Pare che ne sia fautore anche il governo, o, per lo meno, qualche persona molto facol-tosa. Per la propaganda verranno, a quanto si dice, in questi giorni in Calabria quell'Alfieri che pubblicava già a Milano "il Rinnovamento"; a questi si uniranno gli altri scrittori dello stesso periodico, per stabilirsi a Palmi30.

Il lavoro di propaganda, nei disegni dei fondatori, dovrebbe durare parecchi anni, essen-do la Associazione surriferita il principio di un'opera più vasta.

Vi sono anche dei cattolici che promettono di aiutarla da Napoli col Corriere e sembra che si aspetti aiuto anche dal "Corriere d'Italia"31. Tenuto conto della cultura e della disci-plina del clero di Calabria e di parte della Sicilia, v'è molto da temere da tale Associazione32.

Ed è perciò che mi affretto a darne notizia a V. S. Ill.ma e Rev.ma, perchè Ella ne renda tosto, colla dovuta riservatezza e prudenza, consapevoli i suoi Suffraganei, e tutti di comune accordo provvedono con zelo agli opportuni rimedii.

Coi sensi della più distinta stima passo poi a raffermarmi Di V. S. Ill.ma e Rev.ma/Servitor vero/Il Cardinal Merry de Val33

Coll'augurio di ottime Feste Pasquali/Fr. Rinaldo Arcivescovo34».

29 Antonio Fogazzaro, nato a Vicenza nel 1842 e ivi stesso deceduto nel 1911, fu allie-

vo dello Zanella, profondamente cattolico e dedito a opere benefiche, ma tra il 1864 e il 1873 ebbe una crisi religiosa. Si riprese nel 1873, divenne amico dei modernisti e si entusiasmò per le opere del Tyrrel ed i suoi ultimi libri, “Il Santo” (1906) e “Leila” (1910) incorsero nella condanna all'Indice. Cfr. F. MONTANARI, alla voce, "Enciclo-pedìa Cattolica).

30 Non sappiamo nulla sulla residenza a Palmi di membri dell'Associazione, ma in effetti la partenza dell'Alfieri per la Calabria fu approvata dal Consiglio solo nella seduta del 18 aprile successivo. Alfieri esplicò la sua attività a pro dell'istituzione in regione fino alla primavera del 1912, quando si dimise a causa della direzione di lavori stradali, che gli era stata offerta. VARI, L'Associazione Nazionale ..., pp. 9, 21.

31 Il Corriere potrebbe risultare il “Corriere del Mattino” diretto da Martino Cafiero e non il più noto “Corriere di Napoli” rinato nel 1911 per merito di Eduardo Scarfoglio. Il Corriere d'Italia, fondato nel 1903 da Gaetano De Felice, malgrado nel 1908 fosse entrato a far parte dell'Unione editoriale romana d'ispirazione cattolica, nel 1911 non venne riconosciuto dalla Santa Sede, unitamente ad altri, conforme alle diretti-ve papali. Dopo aver aderito al Centro Nazionale, sostenitore del Fascismo, nel 1929 cessò le pubblicazioni. E. LUCATELLO, voce Giornalismo Cattolico, "Enciclo-pedìa Cattolica".

32 Su disciplina e cultura del clero in Calabria nel periodo ved. P. BORZOMATI, Aspetti religiosi e storia del movimento cattolico in Calabria (1860-1919), Roma 1970.

33 Il Del Val, di famiglia spagnola, nacque a Londra nel 1865 e morì a Roma nel 1930.

Così scrive di lui R. U. Montini (alla voce in "Enciclopedia Cattolica"): «Interprete fe-delissimo della volontà papale, egli condusse la dura lotta contro il modernismo sino alla

sua vittoriosa conclusione».

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Nicotera nei libri parrocchiali *

Nicotera, una cittadina che da molti si ritiene erede dell'antica Medma e

conserva in buona parte l'originaria fisionomia medioevale, col suo archivio parrocchiale può offrire agli indagatori una ben scarsa messe di notizie, ma queste, come spesso accade, si rivelano sempre utilissime al fine di fare il punto su uomini, cose e fatti relativi ad almeno tre secoli della sua storia. L'inesistenza di buone fonti, quali platee, tavole censuarie, stati delle anime, lettere, atti notarili ecc. e la mancanza di parecchi registri nella serie dei bat-tesimi, matrimoni e defunti va imputata certamente al terrificante fenomeno tellurico del 1638, seguìto dal noto attacco turchesco nonché all'incendio che il 21 ottobre 1759 distrusse completamente il duomo e il palazzo vescovile. I libri baptizatorum di Nicotera hanno inizio col 1638, naturalmente dopo il sacco effettuato dai pirati, mentre i libri coniugatorum principiano dal 1678 e quelli dei morti risultano rimontare appena al 1695.

Nei vari registri nessuna nota, neppure postuma, appare sui due tragici avvenimenti del 1638 e lo stesso deve dirsi in occasione del terremoto del 5 febbraio 1783, ch'è ricordato semplicemente in qualche caso con la frase Post flagellum terraemotus. Ma, se per i primi due fatti ci si deve necessariamente convincere che le doverose registrazioni andarono perdute nell'incendio del 1759 o in qualche altro disastroso frangente, per il grande flagello siamo certi ch'esso dovette interessare la cittadina solo di riflesso lamentandosi scarsis-simi e lievi danni, limitati per lo più al duomo, all'arco della Porta Grande e ai conventi di S. Maria delle Grazie e di S. Francesco di Paola35. Difatti, risul-tarono allora appena 14 morti e 70.000 ducati di danni36.

Se per i nicoteresi il "grande flagello" non rappresentò una grande cata-strofe, come invece avvenne per tantissimi altri paesi di Calabria, un evento funesto si trovò a turbare la cittadina nel 1822, allorché si verificò una morìa insolita. Perirono ben 223 cittadini, contro i 98 dell'anno prima e i 94 del sus-

34 È mons. Rinaldo Rousset. Il documento si trova in AVO. * Premiato a Nicotera e pubblicato in "Calabria Letteraria", XXVII (1979), nn. 7-8-9,

pp. 62-64 e "Studi Meridionali", XII (1980), nn. 1-2, pp. 43-51 (erroneamente indicato quale autore Natale Pagano)

35 D. TACCONE GALLUCCI, Monografìa delle diocesi di Nicotera e Tropea, Reggio Cal. 1904, p. 30; D. CORSO, Cronistoria Civile e Religiosa della Città di Nicotera, reprint Ni-cotera 2003, p. 123.

36 D. CARBONE GRIO, I Terremoti di Calabria e di Sicilia nel secolo XVIII, Napoli 1884, p. 147.

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seguente. Le punte più alte si registrarono nei mesi di ottobre, novembre e dicembre, rispettivamente con 36, 29 e 20 decessi. Del luttuoso fatto esiste sul liber coniugatorum apposita annotazione, che riportiamo di seguito: «Exeunte anno millesimo octingentesimo vigesimo secundo haec scribere lubet. Exeuntis

anni tribus ultimis mensibus, civitas nostra parvulorum praecipue, magnam perpessa est jac-turam. Eodemque temporis spatio diem obiere, tot tantique homines bonae famae quorum no-mina legi possunt in libro hoc. Faxit Deus ut incipiente anno millesimo octingentesimo tertio, post tot mala nobis bona veniant. Datum die 31 ms Xbris 1822. ad futuram hominum memo-

riam. F. Massari archidiaconus»37.

Nel 1859, in occasione di una furiosa tempesta che si abbatté sull'abitato, venne compiuto un atto di grande abnegazione. Con supremo sprezzo del pericolo Pasquale Lavalle alias Patanna si calava con una scala dentro una casa fatiscente del vico del Tamburro, proprio sotto l'arcivescovado, dove per il crollo di un muro il tetto incombeva su due disgraziati coniugi, Fran-cesco Marzano e Rachele Vigliarolo (questa era incinta) e a uno per volta riu-sciva a portare in salvo i malcapitati. A perpetua memoria del fatto il parro-co del tempo scrisse la sua brava registrazione, che riportiamo in parte: «Memorandum. Primo mane hujus diei, quae est vigesima mensis novembris precurrente

Dominica XXIVa post Pentecostes/ labentis anni millesimi octingentesimi quinquagesimi noni, tempestas valida per totam noctem validioribus ventis, imbribus quae intermissis rui-nas, et cludes minitando, dum adhuc ingravescit. Ego ad missam pro/ populo celebrandam, concionemque habendam hanc ... Cathedralem Ecclesiam ire pergebam. At in deserto Templo, et ex utraque parte ab austri ... et aquilone januis reparatis admiratus vix ut ingrederem; ulu-latus simul et clamores, quasi erumnus frequens populus tumultuarie deploraret, exterriturs audivi. Et illico sculurum iter vulgo del Tamburro dicturum, unde clamor exoriebatur , prae-ceps aggressus, in viam protinus descedi, ibique .... quid miserabile, imo horribili visu aspexi. Casa erat in vico vulgo decto "sotto il vescovado, quondam Sacerdotis Ioannis Calò/ qui Neapolim migratus appetit sub die .../ vetustate tabescens, super quam non paucis ab hinc annis suum habitaculum deluto compacto ipse Sacerdos temere, nullaque arte constructum imponere voluit. Irtius lupae murus ex latere arientis, unde ventorum impetus vehementis-sime propulsabat, per totam noctem concussus, rimisque hinc inde fatiscens, dum pocus al-besceret/ ... / uno ictu corruerat, precipitaverat, comminutusque difflaverat, ad incum usque -

Sed, mirum!, mutuo nexu juncti tecti trabes, implum superiori, dum caderent, quasi tegu-

mentum dedere lectulo incolae Francisci Marzano ejusque uxoris praegnantis Rachel Viglia-rolo, qui mortis jam imminente periculo exanimes exterriti ejulatibus flebilique voce exlaman-do pro viribus opem quescebant ... Concussione casus, excitati primi adfuerunt, et subito fac-

37 (trad.: Sul finire del 1822 piace scrivere queste cose. Trascorsi gli ultimi tre mesi

dell'anno, la nostra città sopportò una grande perdita, specialmente di fanciulli. E nel medesimo tempo morirono tanti e tanti uomini di buona fama, i cui nomi si possono leggere in questo libro. Faccia Iddio che l'anno 1823 che sta per cominciare, dopo tante disgrazie ci porti cose buone. 31 Dic. 1822. A futura memoria degli uo-mini. F. Massari arcidiacono).

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ta moltitudo, quasi mente expertes, et quid facerent nescientes, et alterorum murorum meta ruinae opem ferre verentes, flendo, ejulando, conclamando de summo dicrimine frustra lamen-tabatur. Attamen in tanta multitudine stupefacta/ memorata dignum!/ Paschalis Lavalle alias Patanna exurgens, et nimis fraternae charitatis ardore incussus scalam subito arripuit, appli-cuitque ruinis, per quam inter tot ... pericula ascendens, et bis descendens cum pregnante

prius, cum marito postea miseros coniuges de propinqua morte in salvum reduxit. etc.».

I registri parrocchiali più importanti riescono sempre, logicamente, quelli dei defunti e, in particolare, fanno per così dire notizia le registrazioni di morti violente, avvenimenti che possono accordarsi a eventuali fatti d'arme. Anche i registri di Nicotera non fanno eccezione alla regola e ci forniscono una discreta serie di dati interessanti. Il primo caso che ci si offre è quello del sacerdote Francesco Domenico Arena, che l'1 luglio 1700 veniva ucciso all'e-tà di 30 anni in una non meglio specificata Torre (probabilmente, la torre co-stiera di Capo S. Pietro). Altro sacerdote ammazzato risulta d. Domenico Raona, un religioso appartenente ai quadri della cattedrale, che all'età di 38 anni periva colpito ictu scopuli. Era il 21 ottobre 1734. Di un colpo di schiop-po finivano pure il napoletano Gennaro Francesco Tuscano di a. 40 il 27 gennaio 1719, Francesco Adilardo di a. 23 il 9 nov. 1728 in loco dicto lo stritto della rena e Domenico Pizzuto oriundo di Monteleone. Quest'ultimo cadeva colpito a morte a 35 anni il 29 marzo 1733.

Un singolare caso è quello di Domenico Martello di a. 37 da Scilla, regi-

strato alla data dell'8 agosto 1714. Nella relativa particola è detto «transaltus

fuit in hac civitate a piratis suae faseli38, quia necatus fuerat». Al proposito, pen-siamo che non ci siano dubbi di sorta. Il Martello, ucciso in qualche scara-muccia mentre si trovava sul suo battello, venne scaricato nella spiaggia ni-coterese dagli stessi pirati. Nel frangente, si trattava di pirati comuni o di turcheschi? Non possediamo alcuna prova in merito, ma il Valente, che ha passato in rassegna tutti i contatti avuti da seguaci della Mezzaluna con la costa nicoterina, non segnala per quel tempo un avvenimento del genere39.

Dopo l'uccisione del sacerdote Raona dovranno trascorrere ben 65 anni prima che in Nicotera si debba verificare un caso di morte violenta. Occorre-rà attendere, infatti, fino al 1799, l'anno in cui il sanfedismo porterà il terrore nelle nostre contrade. S'inizia il 14 febbraio con Andrea Coppola (a. 30), ma-rito di d. Maria Rosa Francone e fratello al futuro vescovo di Oppido, Fran-

38 L'estensore della nota è incorso in un errore evidente, in quanto faselus o phaselus è

di genere maschile. 39 G. VALENTE, Calabria Calabresi e Turcheschi nei secoli della pirateria (1400-1800),

Chiaravalle C. 1973.

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cesco Maria40 e si continua il giorno successivo con Filippo Lupari di Palmi, marito di d. Francesca Muscari. Altri casi tragici sono pure le morti di d. Car-lo Antonio Cuccomarino di Melicucco (a. 66), d. Ferdinando Castagna di Sti-lo (a. 66), d. Francesco Cardea canonico della cattedrale di Mileto e di S. Ste-fano Crapino di Briatico, morti avvenute in prigione rispettivamente il 18 marzo, 19 marzo, 14 aprile e 6 maggio. Il 12 giugno del medesimo anno vie-ne rinvenuto sulla pubblica via il ventiduenne Michele Brosio, mentre il 17 agosto del 1800 è la volta di ben tre persone, che trovano la morte pure sulla pubblica via, ma sopra il giardino del mag. Giuseppe Antonio Soraci. Sono Antonio Comerci di Coccorino (a. 30), Antonino Crudo di Caroniti (a. 30) e Pasquale Crudo di Ioppolo (a. 21). Altro ucciso sulla pubblica via è il venti-settenne Giacomo Monaco, che viene rinvenuto il 14 settembre 1800 nei pressi del fiume S. Pietro. Il 18 febbraio 1805 Francesco di Leo (a. 26), perito di morte violenta, trova sepoltura nella chiesa di S. Maria delle Grazie extra moenia previa amputazione del capo e delle braccia41.

In mezzo a tante uccisioni, durante il periodo del cosiddetto decennio francese risulta solo un caso in cui i protagonisti sono rappresentati anche dalle forze d'occupazione, il 27 marzo del 1810 e a farne le spese è il ventu-nenne Rocco Morabito di Giovanni da S. Stefano di Calanna. Il Morabito, in-fatti, interfectus fuit a gallis in loco dicto la Fontana della Ruota. Uccisi da nemici, ab hostibus, cadevano, il 16 luglio 1821 Giuseppe Vecchio di Ioppolo (in Agro prope Sanctam Faustinam) e il 31 ottobre 1821 d. Giuseppe Capria del dottor fisico d. Domenico e di Domenica Del Vecchio (a. 28) (juxta viam quae vulgo dicitur Petto del lupo). A colpi di pugno periva il 28 agosto 1828 Domenico Brosio nativo di Comerconi, mentre ictu sclopi il 4 settembre 1828 era la volta del ventenne d. Giuseppe Gioffi.

Tra i protagonisti più in vista nella Nicotera dei tempi passati erano, na-turalmente, gli ordinari diocesani ed è scorrendo i vari libri defunctorum che si ha modo di riscontrane le relative particole. Il primo vescovo nicoterese a balzar fuori da tale fonte documentaria è Bartolomeo de Ribero, portoghese, annotato semplicemente quale Frater Bartolomeus. Tale presule risulta essere deceduto in suo Palatio episcopali il 9 nov. 1702 all'età di 60 anni. Successore del de Ribero fu Antonio Manzi, che, morto il 29 nov. 1713 a 70 anni veniva allogato in speciali sepulcro episcopali sito nella cattedrale. Il 25 gennaio 1725

40 Il fatto è narrato con ricchezza di particolari da Natale Pagano in “Mons. Francesco

Coppola nella spirale della bufera del 1799, in , bollettino del CSEP di Op-pido Mamertina (ciclostilato), I (1974), n. 1, p. 21.

41 Tali eventi sono narrati pure da Giacomo Monaco in un articolo dal titolo La som-mossa del 14 febbraio 1799 a Nicotera, "Calabria Letteraria", XIII (1965), nn. 1-2, p. 28.

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fu la volta di fra Gennaro Mattei dell'ordine dei minimi, perito a 69 anni e, il 20 ottobre dell'anno dopo, di fra Alberto Gualtieri, di a. 6042. Al Gualtieri se-guì fr. Paolo Collia, che venne a morte all'età di appena a. 50 il 25 luglio 173543. Dopo mons. Collia, il primo vescovo a essere registrato nel libro dei defunti nicoteresi fu mons. Giuseppe Vincenzo Marra, deceduto a 74 anni il

16 gennaio 181644, su cui esiste la seguente annotazione: «post annos viginti tres menses decem dies decem Pontificatus sui ex hoc spaeculo ... ut mos Episcopo-

rum est solemni pompa, ac lacrymis totius Cleri et populi prosecutum». Altro presule morto a Nicotera fu mons. Michelangelo Franchini, titolare

delle diocesi unite di Nicotera e Tropea, perito il 25 maggio del 1854 a circa 62 anni di età45. Anche di mons. Franchini si avverte la doverosa registrazio-ne sul libro dei morti: «D. Michelangelo Franchini qm D. Caroli Xaverii et qm D. Lucrezia Meo ... ex Patriciis

Picentinis, Anno 1792, die 21 Marzo Ad Infulas Ecclesiae Cathedralis Nicoteren, et Tropien A. 1832 assumptus, duas Sponsas amore ... principali, recto corde ad modum adamavit, ut una quaque deliciis affluens multa cum laetitia Sponsum suum dilectum vocabat. Dilectus meus mihi, et ego ille Plange nunc Sponsa vidua relicta, inde vestem lugubrem viduitatis

tuae. Friget - Sponsus jam non tuus, mors».

Un altro vescovo che si meritò una pomposa registrazione sul libro dei morti fu mons. Francesco Maria Coppola, cittadino nicoterese, ma presule di Oppido, che morì in quest'ultimo paese addì 11 dicembre 1851. Ecco l'anno-tazione di pugno dell'arcidiacono Giuseppe Antonio Preiti: «D. Franciscus M. Coppola D. Oratii filius ec nobilibus hujus Nicoteren Civitatis anno

1773 die vero duodecima mensis aprilis terra aspexit Dein ac Sacerdotalem dignitatem even-tus et a D.no Episcopo D. Vincentio Marra Theologali Praebenda insignitus, hoc munus mul-tis annis laudabiliter exercuit. Sed Deo majora de eo disponente, ad Infulam Cathedralis Ec-clesiae Oppiden assumptus, utpote potens opere, et sermone ad excolendam vineam Domini totis viribus incubuit; hinc laboriosum opus aggressus aedificandae Domus Dei, incepit, aedi-ficavit, consumavit opus triginta annorum, quod rudera inter sacra templa utriusque Cala-briae principem obtinet locum Sponsam praetiosis supellectilibus auro, et argento intextis, sacris imaginibus perbelle dipictis mirifice exornavit. Candelabris gravi pondere preclare ex-culptis, diversis, atque multis vasis argenteis, et presertim ostensorio affabre elaboratis, Eccle-siam vitavit. Ecclesiae Senatum preclaris viris undequaque solertis, quis doctrina, et pietate multum praestant, complevit. Episcopium, et Seminarium quasi ex integro excitavit. Inter

42 Il 19 dic. 1725 si registrò la morte in palatio Episcopali del mag. sig. Giuseppe Bellotti

di Milano, di a. 55, abitante in Nicotera. Chi era? Per il momento l'ignoriamo. 43 Sbaglia l'Ughelli (Italia Sacra, Roma 1662, tomo IX, pp. 412-413), che fissa la data di

morte di mons. Mattei al 10 gennaio 1718 e pure in errore figura il Taccone Gallucci (cit., p. 167), che vuole il vescovo Gualtieri assurto alla cattedra nicoterese nel 1728.

44 È incorso ancora in un gravissimo errore il Taccone Gallucci (ibid.), che ha posto mons. Collia prima di mons. Gualtieri, dicendolo vescovo di Nicotera sin dal 1726.

45 Il Taccone Gallucci (ibid.) scrive erroneamente che mons. Franchini morì a Tropea.

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morales virtutes Misericordiam in sublevandis pauperibus per ertaris dilexit, quod eminentio-ri modo enituit, quando per actum ultimae voluntatis Pauperes Christi, uti Filios, heredes misericorditer vocavit, quod non est auditum a saeculo. Ehu ineluctabile funus D. Franciscus Maria Coppola repentino morbo correptus, Sacri Olei unctione linitus cursum consummavit vocatus a Deo, ut coronam Iustitiae intraret in gaudium Domini sui. Eiusque corpus in illam Cathedralem Ecclesiam Oppiden delatum, et pristis de more solemniter persolutis totius moe-rore diecapis, ibi tumulatum fuit in novo sepulcro quod ipse exciderat, et ad fidem et memo-

riam»46.

Dai vari registri parrocchiali di Nicotera si possono rilevare anche gli ap-partenenti alle più note famiglie nobiliari del luogo e in certi casi si può sta-bilire pure l'inizio della maggiore fortuna del casato. I Coppola nel 1700 non vengono segnalati con particolari menzioni, ma nel 1716 Antonio, deceduto a 65 anni, è indicato quale magnifico. Lo stesso deve dirsi per i Lacquaniti, che solo nel 1729 annoverano una magnifica Barbara moglie del mag. Ber-nardo Coppola, deceduta in tale occasione a 35 anni di età. La famiglia Lau-reana appare insignita del titolo di magnifico per Livia e Giuseppe, periti ri-spettivamente nel 1711 e 1713, mentre l'Adilardi lo è sin dal 1706 con Clara, cui seguono Lucia (†1715), Giuseppe Domenico (†1716) marito di Girolama Marzano, Antonino (†1717) e Giuseppe (†1733) marito a d. Gerolama Zerbi. Degli appartenenti alla famiglia Brancia, il cui nome risulta preceduto dall'indicazione di magnifico, si rilevano nei libri della parrocchia Ciccia (†1706) e Antonio (†1713), mentre d. Giuseppe (†1856, a. 68), marito a d. Raf-faela Coppola, appare essere stato Iudex Regius primae classi jubilatus. Tra le altre famiglie nobiliari nicoterine è da tenere conto anche della Tropea (mag. Carmine †1726), d'Afflitto (mag. d. Toba moglie del mag. Carlo Tocco †1732) e Satriano (mag. Domenico †1732).

Dei forestieri, che per vari motivi scelsero Nicotera a sede del loro domi-cilio, i libri parrocchiali offrono l'agio di riscontrarne l'ultimo atto terreno. Sul finire del '600 è dato imbattersi in un'assai popolosa giudeca, evidente-mente il quartiere abitato dagli ebrei, mentre nei primissimi anni del secolo successivo si assiste a una lunga teoria di siculi, la solita manodopera sicilia-na, bisognosa di trovar lavoro e accorrente nei paesi calabresi disastrati. Ci si ricordi, a tal proposito, che Nicotera nel 1638 era stata sconquassata da un terribile moto tellurico. Degli altri forestieri che sui libri mortuorum vengono notati alla spicciolata, pensiamo sia il caso di ricordare il mag. Giuseppe La Morti (il cognome non si legge molto chiaramente) di Oppido (†1703, a. 60), il mag. Domenico Vinilacqua di Cosenza (†1703, a. 40), Lavinia o Laurina Gallo Patritia Messanensis (†1722, a. 60); Giov. Battista Basile natione gallus servus Principis Cosoliti (†1730, a. 30) (in questo tempo il principe di Cosoleto

46 PAGANO, Mons. Francesco Coppola ...

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era un rappresentante della famiglia Tranfo di Tropea)47 ; il mag. d. France-sco Maria Gorpalli di Genova, governatore della città (†12 nov. 1736, a. 58) e la di lui moglie Anna Maria Corti, deceduta a 51 anni a soli due giorni di di-stanza; Salvatore Ciancio Catanensis Serenissimi Nostri Regis miles (†1805, a. 32); Domenico Mauro di S. Lucido ad corpus, quod vulgo gendarmi appellantur pertinens (†1832).

Dopo aver detto degli uomini e dei fatti interessanti Nicotera rilevabili dai registri parrocchiali, non ci resta in ultimo che occuparci delle "cose" e in particolare, degli edifici più notevoli con le relative istituzioni ivi allogate.

Un ospedale o meglio Spedale, anche se, com'è logico arguire, affonda le sue radici in epoche remote, fa capolino dai vari libri solo dall'anno 1696. In tale fabbricato, nel quale i ricoverati erano parecchi e provenivano dai siti più disparati, il 30 giugno 1735, per come attesta la particola in riferimento,

«morì un todesco, nello spidale lo qual era christiano». La presenza di un tedesco, quasi certamente un soldato, non era certo una novità in Calabria dato che fino a un anno prima tutto il reame si trovava sotto sovranità austriaca48.

Degli edifici sacri fa spicco naturalmente la cattedrale, che, distrutta varie volte in seguito ai noti eventi di cui abbiamo detto, risorse sempre per inte-ressamento degli ordinari diocesani. Parroci della cattedrale, nella quale ri-sultano essersi effettuati seppellimenti di persone sin dal 1695, furono tra gli altri: d. Domenico Panzetta (†1695), abate Gian Battista Rombiolo (†1700)49, d. Vincenzo Terragna (sostituto, dal 1702)50, d. Antonio Amellina (sost. dal 1705)51, d. Pietro Arruzzolo (sost., dal 1709), d. Antonino Leone (sost., dal 1713), d. Leonardo Giovinazzo (sost., dal 1719)52, d. Giuseppe De Ayello (sost., dal 1728), d. Antonino Laureana (sost., dal 1745)53. Altri sacerdoti nico-teresi degni di buon ricordo sono: abate Domenico Fossataro (canonico,

47 I Tranfo erano titolari dell'altare patronale dell'Annunciazione nella cattedrale di

Nicotera (TACCONE GALLUCCI, Monografia delle diocesi di Nicotera ..., p. 28). 48 R. LIBERTI, Polistena nei libri parrocchiali, "Studi Meridionali", VIII (1976), III, p. 263. 49 Nel 1693 aveva ricevuto la dispensa per l'età, onde poter accedere al presbiterato

(RUSSO, Regesto ..., IX, p. 202). 50 Nel 1714 sarà provvisto del tesorerato (RUSSO, Regesto ..., X, p. 89). 51 Era oriundo siciliano. Nel 1715 interverrà in suo favore presso il cardinale Paolucci

al fine di contattare il reggente Gaetano Argento il vicario capitolare Giovanni Ni-

cola Adilardi a causa ch'era «molestato dai ministri regi e a salvaguardia della libertà ec-

clesiastica» (RUSSO, Regesto ..., IX, p115). 52 Nel 1725 otterrà il carico ufficiale della parrocchia in seguito alla morte di Giusep-

pe Tomarchiello (RUSSO, Regesto ..., X, p. 320). 53 Dai registri non emerge se i sostituti fossero parroci, economi curati o dei delegati.

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†1690, a. 60)54, Carlo Brancia (cantore, †1699, a. 55)55, d. Giuseppe Brancia (†1708, a. 80)56, abate d. Ambrogio Prenestino (doctor u.i.,†1720, a. 66)57, d.Antonio Ayello (canonico, †1724, a. 70), d. Giuseppe d'Arena (abate, †1727)58, abate d. Giovanni Nicola Adilardo (canonico teologo, †1733, a. 54)59, d. Nicola Antonio Tocco (cantore, †1736, a. 50).

Altre chiese erano quelle di Gesù e Maria (dal 1704; nel 1731 moriva fr. Giuseppe Rudinò a Casalenovo distretto della diocesi d'Oppido (sic!) eremitus eccle-siae Jesù et Mariae (a. 70); di S. Caterina (forse, l'oratorio di juspatronato dei Cipriani); nel 1706 decedeva d. Giuseppe Maremonti, priore di S. Caterina e di S. Giuseppe (nel 1732 e 1736 perivano rispettivamente fr. Antonino Pazza e fr. Carmine Porzio da Positano, eremiti in ecclesia S. Iosephi.

Il convento dei frati minori, eretto per bolla del 1308 e danneggiato dal terremoto del 1783 (nel 1800 si effettuavano sepolture in diruta ecclesia) dà sue notizie a partire dal 1701. Tra i tanti monaci che lo abitarono si ricorda-no: fr. Pietro Rizzo (eremita, †1740 a circa 100 anni di età), Raffaele da Lago-negro (ex Provincialis Minorum Observantium, †1828, a. 66), padre Daniele Sar-lo (†1835, a. 33), sac. fr. Bernardo Mamone di Motta Filocastro (ex Provincialis Magisterii laurea insignitus, †1855). La chiesa attigua al convento risultava consacrata a S. Maria delle Grazie. A Nicotera esisteva anche un convento di padri basiliani, che aveva sede extra moenia e la cui chiesa era dedicata alla S;ma Annunciazione. Nel 1725 l'abate d. Nilo lo Pozzo, Religiosus regula Sanc-ti Basilij, a. 50, era sepolto nella chiesa dello stesso ordine. Della chiesa si hanno documenti dal 1704. Altri conventi segnalati dai libri parrocchiali so-

54 Nel 1664 era stato provvisto del canonicato (RUSSO, Regesto ..., VIII, p. 110). 55 Nel 1692 venne a godere dei proventi di una parte della cappellania di S. Biagio

nella chiesa di Nicotera (RUSSO, Regesto ..., IX, p. 188). 56Nel 1653 fu provvisto della chiesa o cappella di iuspatronato di S. Maria della Scala

prope et extra muros per rinuncia di Cesare Brancia (RUSSO, Regesto ..., VII, p. 310). 57 Il Prenestino ottenne il beneficio semplice di S. Venere nella chiesa parrocchiale di

Preitoni nel 1693, ma tre anni dopo ne fu escluso perchè asserto clerico. Successiva-mente, nel 1697 lo troviamo a Castiglione godere del beneficio semplice di S. Maria delle Grazie, di iuspatronato della famiglia Gori e di altro nella chiesa parrocchiale di Longobardi (RUSSO, Regesto ..., IX, pp. 215, 262, 274).

58 Nell'anno 1700 venne provvisto dl canonicato. 59 Giovanni Nicola Adilardi nel 1703 ebbe il canonicato, indi dal 1715 figurava vicario

capitolare. Nel 1718 contattava ancora il card. Paolucci perchè lo difendesse contro certe pretese del nuovo vescovo di Tropea, Mattei. Questi, a sua volta, denunziava i di lui fratelli alla corte. Tutto si era originato per un sequestro di pecore, che gli ap-partenevano, per assicurare il credito delle Cappelle e del Seminario, cosa per cui era sta-to da quelli denunciato come violatore dell'immunità ecclesiastica. Nell'occasione l'A-dilardi è detto ex-vicario (RUSSO, Regesto ..., IX, p. 392; X, pp. 115, 182, 183).

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no quelli delle clarisse (sono notati i decessi di sr. Francesca, sr. Michelina, sr. Tommasa Margherita e sr. Maria Cristina Ruffo, avvenuti rispettivamente nel 1808, 1820, 1824 e 1839 e di S. Francesco di Paola (una chiesa di S. France-sco di Paola è notabile nel 1696, anno in cui si effettuavano sepolture)60.

Il castello di Scilla vittima dei fulmini nel primo ottocento *

L'imponente maniero, che durante vari secoli fece da baluardo a un buon

tratto della costa tirrenica reggina, respingendo gli attacchi portati da terra e dal mare da nemici d'ogni razza, nulla potè nei primi anni del secolo XIX contro quelli provenienti dal cielo sotto forma di folgori dirompenti, che ap-portarono gravi distruzioni e morte. Un primo luttuoso evento si verificò il 12 luglio 1812. Allora fu come una prima avvisaglia. Il fulmine, che colpì il deposito delle polveri, mandò all'aria alcuni fabbricati interni e infierì soltan-to su due persone, il cui sacrificio venne esternato su una lapide ancor oggi bene in vista dentro la rocca. Si trattò del capitano Bonavita e del sottotenen-te Emanuel. Questa l'epigrafe che ricorda ai posteri il crudo episodio:

A. D. 1812 Questo Sasso Lettor T'insegna, e addita, Come trisulca folgore stridente, il Prode Capitano Bonavita, E il Bravo Emanuel sotto Tenente

In questo Forte ambo privò di vita, il dì dodici Luglio Anno corrente Commosso il Real Corso Reggimento Gl'erge in memoria questo Monumento.

Sull'avvenimento avremmo voluto saperne di più, ma il registro della parrocchia con le particole dei due decessi non è venuto fuori da una ricerca sul luogo. Conosciamo molto di più, invece, sull'altra disastrosa situazione causata da un secondo fulmine appena tre anni dopo, il 14 gennaio del 1815, quando dovettero lamentarsi sfasci nelle fabbriche e morti sia tra i militari che tra la popolazione civile. Allora saltò in aria il magazzino dove si custo-divano le polveri e gli enormi spezzoni finirono sulle case sottostanti fran-tumandone 10, dove trovarono orribile fine 5 famiglie e danneggiandone 33.

«Sub aedificiis Arcis Igneo Flumine destructis» restarono oppressi i cittadini Giuseppe Paladino (a. 72) con i figli Lucia (29), Domenica (23), Maria Rosaria (21), Maria Grazia (20), Mariana (16), Maria Antonia (14) e Caterina (11) e la moglie Rosa Longuardo (48); Domenico Arena (45); Domenico Giovanni Pa-ladino(62) con figli Cosima (14) e Pasqualina (19) e moglie Concetta Varbaro (45); Carmine Antonio Musolino (56) col figlio Giovanni (5) e la moglie Fran-

60 Cfr. N. PAGANO, Il Monastero delle Clarisse a Nicotera, "Calabria Sconosciuta", II

(1975), nn. 2-3, p. 3; idem "Calabria Letteraria", XXIII (1975), nn. 4-5-6. * Pubblicato in “Storicittà”, XII (2003) n. 120, pp. 58-59.

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cesca Vita (46); Santa Nunziata d'Elmia (31) moglie di Carlo Fava con la fi-glia Maria Angela Fava (10); Domenico L'Abbate (47) con i figli Giacoma (13), Antonio (12), Fortunato (11) e Santo (7) con moglie Grazia Boeti (46); Grazia Iuzzo (15).

I Militari disgraziati, come segnalato dal "liber mortuorum", ben 48 tutti inquadrati nel IV reggimento di fanteria leggera, così si distinguevano se-condo il paese di origine: da Sant'Anastasia di Napoli Pietro Sorano (a.30); da Capossena (?) di Salerno Giuseppe Salzano (21); da Carpino (FG) Giulio Savo (22); da Altavilla Irpina Francesco d'Onofrio (28); da Napoli Luigi Maz-za (35) e Andrea de Palma (22); da Missanello (PZ) Giuseppe Curcio (26); da Bariceti (?) Giacomo Caldoraro (22); da Nocera (quale?) Luigi Longobardi (22); da Sorbo (di Montella?, Avellino) Giovanni Fondanella (24); da Atella (PZ) Gaetano Farinaro (23); da Peucetia (?) Giuseppe Volpe (21); e Tommaso Natale (24); da Carovilli (CB) Eusebio di Francia (22); da Monte Asporto (?) Abbellini (Avellino?) Gaetano Sarno (21); da Galatone (AV) Fortunato de Benedetto (26); da Padula Nicola Bova (24); da Nardò Vito di Benedetto (23); da Conversano Vito dell'Erba (22); da Morcone Molise Antonio Velardo (23); da Oppido Siphei (?) Agostino Drago (27); da Monteforte Irpino Luca Valen-tino (21); da Nusco Giuseppe Biancolillo (23); da Canosa Giovanni Fajola (25); da Altano (?) Giuseppe Torino (22); da Putignano Giuseppe Angrisano (22); da Andria Vincenzo Sapone (20); da Minervino (quale?) Lorenzo Leone (19); da Bitonto Raffaele Mastropasqua (20); da Capurso (BA) Giovanni Ca-pobianco (20). Di altri 18 non si conoscevano né l'origine del paese né even-tuali genitori. Erano Giovanni Torella (25), Bernardo Vanni (26), Cosimo Rossi (22), Angelo Carosone (28), Vincenzo de Tullio (26), Michelangelo Guatta (24), Benedetto Gesseti (?), Mauro Pedone (?), Crescenzio Parsanese (23), Giovanni de Conza (25), Salvatore Catena (19), Pietro Mattucci (20), Domenico de Santis, Vito Oronzio Guglielmo, Francesco Rituro, Aniello Me-le, Filippo Daniele, Michele Piacente. Alcuni di questi ultimi furono riportati alla luce dopo parecchi giorni dal disastro. L'elenco ha termine con la triste

dicitura di pugno del parroco «Fin qui li disgraziati militari». Il Desvernois,

che fu un quasi testimone del crudo frangente, nelle sue memorie offre l'epi-sodio con tinte romanzesche e parla di più di 100 abitanti morti e che di 250 militari, che formavano il reggimento, se ne salvarono solo 5861.

61 N. P. DESVERNOIS, Un Generale di Napoleone nel Regno di Napoli - Memorie di N. Ph.

Desvernois 1801-1815, trad. di Giuseppe Misitano, Vibo Valentia 1993, pp. 188-189. Per la storia di Scilla nell’800 ved. R. LIBERTI, L’Ottocento: un’età di crisi e di rinasci-ta, “SCILLA storia cultura economia”, Soveria Mannelli 2002, pp. 89-128.

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Giuseppe Maria Pellicano (1876-1935) *

Giuseppe Maria Pellicano, nato a Gioiosa Ionica nel 1876 e morto nel 1935

appena sessantenne, autore di lavori in poesia, tra cui assai interessante “I canti della Ionia” e di alcuni romanzi, ivi compreso “Il Mare”, è ricordato so-prattutto come trageda per i suoi robusti drammi, nei quali espresse del pari un'alta opera di lirismo ed eccelsa musicalità.

Chi era il Pellicano? Scrisse Vincenzo Jentile in "Storia e Cultura della Lo-cride": un asceta solitario dell'arte e della vita. Ben vera questa affermazione quando si pensi che lo scrittore, pur godendo della fortunata amicizia di uomini della tempra di Giovanni Pascoli, Vincenzo Morello, Angiolo Silvio Novaro, Giulio Cesare Viola, Ercole Luigi Morselli e tanti altri non meno no-ti, i quali su di lui stesero pagine entusiastiche, fu per tutta l'esistenza un in-compreso, non avendolo alcuno mai capito, in particolare coloro che viveva-no nel teatro e per il teatro, a eccezione dei pochi, peraltro già citati.

Accostato, per il suo simbolismo, all'immaginifico, decadente D'Annunzio, che ai suoi tempi imperava nume incontrastato, il Pellicano ebbe l'unica con-solazione di ricevere il secondo premio in un concorso bandito a Napoli da Edoardo Scarfoglio, essendo relatore Benedetto Croce e la suprema gioia della rappresentazione teatrale di un'opera, quella bellissima e incantevole “Pastorale”, che è sicuramente il suo capolavoro, che fu eseguita nel 1927 al Mercadante di Napoli dalla Drammatica Compagnia Palmarini. All'accusa di dannunzianesimo si oppose allora Gaetano Sardiello, principe del foro reggino e scrittore a vario titolo, che, confutando i detrattori del gioiosano, affermò che quanto andava così etichettato non era stato inventato dal poeta

di Pescara e che «se in opere moderne la forma ha per sé stessa fascini, vibrazioni,

suadenze di bellezza, non per questo si deve pensare a D'Annunzio»62. Difatti, an-che se talvolta sembra essere stato tentato dai fascinosi miti dannunziani e nei suoi drammi risuonano le medesime tragiche vicende, il Pellicano espri-me un proprio stile e un ben delineato modo d'intendere la realtà della vita. È soprattutto in “La follìa di Adamo” ch'egli mostra di staccarsi nettamente dagli schemi imitativi attribuitigli.

In Pastorale, del 1926 ma edita nel 1928, certamente la sua più bella crea-zione, si adombra in forma allegorica la vicenda antica, ma sempre ricorren-te, di Caino e Abele. Nel caso, però, la soluzione finale è in senso contrario a

* Già in "Parallelo 38", VII (1967), 11, pp. 821-823; "La Città del Sole", II (1995), 6, p. 21. 62 "Nosside", VIII (1929), n. 2.

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ciò ch'è stato sancito dalla tradizione. Tutto ha termine con l'uccisione dello stolido e prepotente Caino da parte della Giustizia impersonata da un men-dìco, che esalta così la bontà e la carità dell'uomo. Nella storia è sapiente-mente delineata la personalità del Caino agricoltore, mai pago di opulenza e

spinto dal fato ad ammazzare il fratello pastore perchè invidioso di un «sor-

riso che era solo riflesso di dolcezza», allo stesso modo di quei «forti che uccisero Gesù, ch'era debole e misero, perchè intesero in lui una ricchezza diversa dalla loro ... che non poteva capirsi con le mani ... e diceva miseri i ricchi ... e ricchi i poveri

...». Finalmente, con Pastorale si rende piena giustizia agli Abele di tutto il mondo, eternamente perseguitati e trucidati dai loro Caino.

La forma lirica di questa visione tragica in tre atti raggiunge toni altamente drammatici e squisitamente armoniosi e si qualifica un inno alla bellezza del creato, alla semplicità dei costumi, alla giustizia e all'amore. La scena si svolge sempre ai piedi della Grande Montagna in un giorno che non si vedrà. Assieme ai grandi protagonisti agiscono tanti altri, pastori e contadini e tutti riecheggiano, coi loro canti, le belle, silvestri contrade della nostra regione. In merito a una tale composizione così si esprimeva uno dei più illustri

commediografi e critici italiani dell'epoca, Marco Praga: «Pastorale è un'opera di poesia che veramente mi ha sedotto, nella quale ho ammirato la nobiltà nella forma

e la scenica efficacia». Non riusciva da meno il Sardiello, che rilevava come es-

sa fosse addirittura un canto che «scende dalla montagna ... per raggiungere gli

uomini e penetrarne della sua forza gli spiriti» e che «Arreca i doni che lo spirito senza accorgersi più anela; quelli di cui più ha bisogno, il dono di amore, il dono di

giustizia» e che giudicava l'autore un sicuro padrone della lingua, delle fi-nezze e della rima. Vincenzo Errante, dicendosi entusiasta delle prime due tragedie del Pellicano (Mirra e Pastorale), ravvisava un qualche cosa di simile ai suoi tempi nelle fatiche di Ratti e Morselli.

“Mirra”, lavoro scritto nel 1925, ma pubblicato come il precedente tre an-ni dopo, nel 1928, tramanda in veste moderna l'amore incestuoso del re di

Cipro verso la propria figlia. La trama si svolge, infatti, «nel tempo nostro e In

una vasta campagna ionica; nella casa dei fratelli Hersel». Si narra di un biologo

perduto dietro un suo segreto sogno e che vuol «Fare uscire dalle mura di un

gabinetto scientifico il grido di redenzione umana» e, cioè, «Riuscire a dimostrare che l'Anima non è materia ... che lo Spirito non è la risultante attiva di una mesco-

lanza chimica ... sibbene è la forza concentrica di attività atomiche vaganti ...». An-

che se i veri protagonisti sono soltanto due, Tullio e Fiamma, agiscono di ri-flesso altri interessanti attori di un dramma antico quanto il mondo e terribi-le in ogni suo aspetto. Particolare importanza riveste quella implacabile ba-ronessa di Santa Marina, che, anche se mai appare in scena, ha un suo gran-

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de ruolo nel dipanarsi degli avvenimenti perseguitando Tullio fino a sospin-gerlo alle soglie della follìa. A un primo atto, in verità abbastanza forzato, specie nei lunghi dialoghi tra Tullio e il fratello Andrea, succede un continuo e vario altalenare di episodi, che danno all'opera un preciso e vibrante volto, finendo per attrarre sia il lettore che lo spettatore. Prolisse e noiose si rivela-no pure le troppe disquisizioni sull'anima e sulla sua immortalità.

La terza ed ultima tragedia pubblicata dal Pellicano (un epilogo tragico, dal titolo Il Sogno di Gesù, è rimasto inedito), “La follìa di Adamo”, composta nel '27, fu data alle stampe nel '29. Si tratta, nel caso, di un lavoro di tipo av-veniristico, nel quale l'azione si svolge Oggi, o fra cento anni: su la più alta vet-ta. Vi opera una folta schiera di persone riunite in tre distinti gruppi: uomini folli, uomini savi ed esploratori del cielo, tutti alla ricerca del vero significato della vita e del segreto della sua origine. Anche nel terzo parto teatrale, al-quanto diverso dai precedenti, la musicalità non abbandona lo scrittore cala-brese. Protagonista si offre ancora la natura con i suoi miti straordinari: la creazione, il peccato, Adamo pentito del male arrecato a Eva e a tutti gli uo-mini e, quindi, alla ricerca del perdono, la spiegazione umana dell'arrivo di un salvatore e l'uomo roso dal tarlo del sapere, che vuole conoscere sempre di più e che, dai primi ingenui sospetti, viene a chiedersi: chi è Dio?

Con l'ultima fatica il Pellicano raggiunge il massimo del simbolismo. Per lui Adamo, ossìa l'uomo, è disperato perchè, con la sua inestinguibile sete di conoscenza, ha negato ai figli quanto c’era di bello nel creato e, di conse-guenza, perchè col tempio del Mistero potè edificare solo il vestibolo della Morte. Sugli altri attori dell'umana, eterna vicenda: il direttore del manicomio alla ricerca della sua verità negli occhi dei folli e la madre insana, Eva, da sempre sulle piste del suo Adamo, aleggia, pure se un po' da lontano, la figura del grande tentatore, Lucifero, ma soprattutto si propone l'aspirazione degli uomini ad andare incontro alle stelle, in un mondo che li renderà immortali, perchè l'uomo, a dispetto della sua pochezza, pretende sin dalla sua origine di vivere perennemente come un Dio, il mito da cui è nata la sua perdizione.

Non possiamo chiudere queste note senza rivolgere un pensiero al Pelli-cano, a un uomo che, conscio dei suoi ideali e della sua capacità, sempre più ignorato dai maggiori esponenti della cultura, schivo di mendicare quanto per valore gli spettava, si chiuse in sé rifiutando di pubblicare i residui lavo-ri. Il trageda gioiosano merita davvero che lo si tolga dall'oblìo, in cui gl’invidi l’hanno posto e le sue opere hanno sicuramente il diritto di essere accolte, per gli accenti di piena, dolce melodìa. Esse si stagliano nitide su di un piedistallo sia in relazione alla spettacolo scenico che come fatica di vera poesia. Scrisse ancora Vincenzo Errante a proposito dell’operazione cultura-

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le dello scrittore: «È la Poesia, la divina poesia scacciata fuor dai palcoscenici da

tanti odierni profanatori del Tempio, che rientra trionfalmente sulla scena».

Un libro alla volta:

Antonio Tripodi, In Calabria tra Cinquecento e Ottocento *

Ho conosciuto, nel senso reale della parola, Antonio Tripodi nel 1982 a

Mileto in occasione del convegno sui beni culturali indetto dalla Deputazio-ne di Storia Patria, ma per la verità avevo cognizione di lui da molto più tempo. Egli si era già fatto un nome nel campo degli studi storici e dapper-tutto non si parlava che della sua solerte, ordinata, instancabile attività di ri-cerca presso gli archivi pubblici e privati della regione. Era, infatti, segnalato quale un vero segugio alle prese con le piste più varie. Era talmente apprez-zato come tale che una volta il direttore di un archivio di stato, al quale ave-vo rivolto una domanda in merito ad atti conservati nell'istituzione da lui diretta, un po' tra il serio e il faceto, ebbe a rispondermi con un invito a indi-rizzarmi piuttosto all'ing. Tripodi, perchè era lui il vero padrone dei segreti delle carte che vi si conservavano. Ma non era solo di quell'archivio il pa-drone. Lo era anche di tantissimi altri. In effetti, non c'è archivio pubblico in Calabria, di cui egli non sappia vita e miracoli, ma è anche sicuro che non gli sono sconosciuti quelli di fuori regione, che raggiunge con veloci raids negli scarsi momenti che gli permette lo svolgimento della professione.

Dapprima è stato il tempo della raccolta e Tripodi, invero, ha preso a pie-ne mani da rogiti, platee, corrispondenze e quant'altri documenti inediti che dir si voglia sulla storia dei nostri paesi. Quindi, è passato allo studio degli stessi e alle iniziali pubblicazioni. Sono perciò venute fuori l'interessante la-vorò su Dasà e tutta una serie di articoli, che hanno visto la luce su quotate riviste. Infine, la nomina a socio della Deputazione di Storia Patria per la Ca-labria è arrivata a confermare al nostro ingegnere il crisma di studioso serio e dedito a indagini con caratura prettamente scientifica. Tripodi è partito, come detto, dalla ricerca relativa al natìo loco, poi siccome ... l'appetito vien mangiando, a poco a poco si è andato entusiasmando sempre più, tanto che le sue fatiche hanno riguardato perfino il più sperduto angolo della regione. È divenuto, perciò, come si dice, un competente e numerosi sono stati i con-vegni organizzati dalla Deputazione in collaborazione con altri enti che da

* Intervento pronunciato nell'omonima manifestazione organizzata dall'Istituto della

Biblioteca Calabrese di Soriano Calabro e dal Comune di Dasà e tenutasi in quest’ultimo centro, nella sala della Biblioteca Comunale l'11 novembre 1995.

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un decennio in qua l'hanno visto relatore fecondo. Lo ricordo presente a Reggio, Catanzaro, Paola, San Nicola da Crissa, Rizziconi, Gioia Tauro.

Dopo tanti incontri che ci hanno visto quasi sempre insieme, eccoci ora a Dasà per avviare il discorso sulla presentazione di quello che potrebbe esse-re il primo di una lunga serie, il volume “In Calabria tra Cinquecento e Otto-cento”, che per sottotitolo reca opportunamente "Ricerche d'archivio". Con esso l'autore, che ha inteso riunirvi tantissimi suoi lavori, peraltro dal 1982 apparsi su riviste specializzate come Historica, Brutium, Incontri Meridiona-li, Rivista Storica Calabrese, raggiunge un duplice scopo. Se da un lato ha il piacere di vedere in un corpus unico le sue frondi sparse, dall'altro viene ad agevolare al massimo studiosi e studenti evitando loro una fatica più che improba. È noto che solo in pochi centri urbani esiste una biblioteca degna di questo nome e che spesso anche in quelle più rispettabili le collezioni delle tante riviste risultano, quando non assenti del tutto, perlomeno monche.

Tripodi offre con l'odierna pubblicazione il destro di potersi servire uni-vocamente e senza dispersioni di sorta di una precisa fonte al fine di tastare il polso alle popolazioni di varie plaghe, che in tre secoli ne hanno provato

di cotte e di crude. Dice bene Maria Mariotti nella presentazione: «È il popolo calabrese - specialmente delle Serre e del Marepotamo, del Poro e del Lametino - che racconta la globalità delle vicende sperimentate nella durezza, precarietà, arretratezza e pure vivacità

dei suoi "tempi moderni"».

Il ricco materiale documentario che oggi propone Tripodi è necessaria-mente frammentario, ma il tentativo di unire tematicamente le pur diversifi-cate ricognizioni si rivela altamente apprezzabile e permette di poter usu-fruire in modo mirato di ogni riferimento per successive fatiche. Esso non rimane però cosa a sé stante e ogni singola trattazione risulta confortata in pieno da una bibliografìa esauriente e aggiornata alle ultimissime edizioni. Naturalmente, tra gli articoli pubblicati in rivista e quelli che fanno parte dell'odierna raccolta, si frappongono dei doverosi ritocchi, che traggono lin-fa da nuove investigazioni, più recenti opere a stampa e giudizi riespressi alla luce di ulteriore matura riflessione.

In un primo settore lo studioso ha compreso tutte le notizie inerenti alla vita religiosa dei paesi presi in esame e, puntualizzando ogni particolare, ne è venuto rilevando gli aspetti più significativi. Però, anche se si dà ampio spazio alle maggiori entità urbane, quali Tropea, Pizzo, Soriano, Nicotera e Arena e, quindi, a chiese e conventi di un certo peso, ne sono al centro Dasà ed i beni culturali ed artistici, il suo vero pallino. Emergono, peraltro, inte-ressanti addentellati con una congerie di paesini, di cui oggi dai più non se ne rammenta nemmeno il nome, come Pronia, Alafito, Bracciara, scomparsi nel vortice di calamità sempre imperversanti, ma che al tempo segnalato

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hanno espresso anche loro individualità alle prese con i problemi di ogni giorno. Davvero opportuna la pubblicazione per intero di atti come il con-cordato intercorso tra i cittadini e il vescovo di Tropea nel 1556. La seconda parte è stata consacrata alle tradizioni religiose del popolo, che si estrinseca-no variamente e in modo alquanto colorito dalle tante spigolature di storia dei paesi delle zone indagate. Gran risalto è dato allo svolgimento delle feste patronali, e non, ai singoli culti, processioni, liti tra congregati, ai protettori nobili (tra i più in vista Concublet, Caracciolo, Paravagna, Pignatelli) e, oltre al solito trattamento di favore riservato a Dasà, l'impegno si fissa su altre realtà degne di ricordo come Nocera Terinese, Monteleone e Sinopoli.

Per il terzo comparto lo scrittore dasaese ha lasciato di occuparsi del lato religioso della vita per offrirsi tutto ai rapporti civico-economici delle popo-lazioni operanti nei secoli XVI-XIX. È in questo contesto ch'egli dà il meglio, in quanto evidenzia un microcosmo davvero pulsante. A parte gli eventi ri-dondanti, come il passaggio dell'esercito austriaco, si appalesa sempre più chiara e calzante una serie di fatti minimi, che consente proprio di misurare il tempo nella sua essenza. È, infatti, tutto un alternarsi di soprusi, remissio-ni di querele, giochi d'azzardo, doti a pompa, arresti per debiti, maritaggi, sequestri, tradimenti, atti mafiosi, affrancamento di schiavi, commerci, ap-prendistato e tante altre peculiarità che fanno presente il tran tran quotidia-no delle epoche rivisitate. D'importante si avvertono i capitoli relativi all'ul-timo periodo di esistenza di Rocca Angitola (1762-1772) e al lavoro che si di-spiegava nella tonnara di Bivona. Anche nel susseguente spazio si staglia una filza di operazioni ricorrenti, ma a risaltare sono l'arte, l'artigianato e le attività costruttive, che danno modo di mettersi in mostra - tra una folla di scalpellini, argentieri, stagnatari, organisti, scultori, pittori, fonditori di cam-pane - a tanti valentuomini come Scrivo, Zaffino, De Lorenzo e Arbascià. La parte finale dell'illustratissimo libro è riservata alle tremende calamità che nello scorrere dei secoli hanno afflitto le comunità dei territori interessati. Tra tante, sono degne di nota la carestìa del 1765 e il terremoto del 1783, che hanno messo davvero a dura prova la resistenza della povera gente.

L'opera, nella quale ben si enumerano le tante pecche del calabrese del passato, intenzionali o meno, non riporta in primo piano solo un campiona-rio del male, in quanto da tanto dinamismo si può facilmente dedurre come quegli si sia spesso adoprato ad agire per il meglio cercando in sé le forze adatte ad inserirlo in una realtà diversa e produttiva. È ciò che, peraltro, scrive la stessa Mariotti in prefazione. Riesce talmente aderente a quello che viene fuori dall'analisi di Tripodi il pensiero del Presidente della Deputazio-ne, che lo proponiamo integralmente quale veicolo capace d'instillare nell'a-nimo di ognuno la volontà di reagire a una vieta rassegnazione:

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«Il paziente scavo documentario di Antonio Tripodi aggiunge un serio contributo alle in-dagini storiche in corso che correggono e integrano lo schema convenzionale di una Calabria fatalmente e totalmente inerte e parassitaria. Ma la sfumata immagine di operosità, mobilità, solidarietà che emerge dall'inesorabile cancellarsi di un mondo ormai in via di sparizione, può forse offrire qualche valida traccia a chi spera ancora nella possibilità di rigenerazione civile

della regione».

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INDICE

- Monsignor Tommasini e la rivendica a Reggio

del Tribunale Provinciale in un inedito documento

dell'ultimo scorcio del XVIII secolo pag. 3

- Clamoroso caso nella Reggio ottocentesca:

L'arcivescovo Cenicola accusato di aver venduto

la custodia in argento delle reliquie del patrono S. Lucio “ 8

- La Cattolica dei Greci di Reggio in un'ennesima lite

tra il protopapa e l'arcivescovo nel 1803,

in un memoriale di mons. Alessandro Tommasini,

vescovo di Oppido ” 15

- Quello che i Meridionalisti forse non seppero mai-

L'Associazione Nazionale per gli Interessi

del Mezzogiorno nel mirino della Chiesa “ 21

- Nicotera nei libri parrocchiali “ 24

- Il castello di Scilla vittima dei fulmini nel primo ottocento “ 32

- Giuseppe Maria Pellicano (1876-1935) “ 34

- Un libro alla volta: Antonio Tripodi, In Calabria tra Cinquecento e Ottocento ” 37

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Collana "Quaderni Mamertini" 8 - Da Roubiklon a Lubrichi 1998 9 - Messignadi 1999 10 - 5 febbraio 1783 Magnum ludum “ 11 - Tortora “ 12 - Castellace “ 13 - Sanfedisti Giacobini Briganti nella Piana di Gioia 2000 14 - Ajeta “ 15 - Il culto della Madonna della Catena nell'Italia Meridionale “ 16 - Zurgonàdi “ 17 - Pirateria e guerra di corsa “ 18 - Terranova (di San Martino del Monte) - II - 2001 19 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido - II - “ 20 - Cosoleto “ 21 - Sitizano “ 22 - Le confraternite nell'area della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi 2002 23 - La cattedrale di Oppido Mamertina “ 24 - Pedàvoli “ 25 - I Vescovi di Oppido Mamertina-Palmi - II - “ 26 - Paracorìo “ 27 - Rizziconi e Drosi “ 28 - Tresilico “ 29 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido - III - “ 30 - Palizzi e Villa San Giovanni nel primo ventennio del XX secolo “ 31 - Palmi “ 32 - Seminara “ 33 - Polistena “ 34 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido - IV “ 35 - Geppo Tedeschi l'usignuolo d'Aspromonte ed altri poeti autentici 2003 36 - Percorsi storici delle Comunità della Piana di Terranova – I - “ 37 - Una Comunità tra fede e malafede – Oppido Mamertina e la “sua” diocesi “ 38 - Percorsi storici delle Comunità della Piana di Terranova – II - “ 39 - Piminoro IIa edizione “ 40 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido – V- “ 41 - Feudi e feudatari nella Piana di Terranova “ 42 - Percorsi storici delle Comunità della Piana di Terranova – III - “ 43 - Fede e Società nella Diocesi di Oppido-Palmi – II - “ 44 - Percorsi storici delle Comunità della Piana di Terranova – IV- “ 45 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido – VI - “ 46 - Vita economico-sociale nella Piana di Terranova nei secc. XVII-XX(I) “ 47 - Oppido secentesca 2004 48 - Vita economico-sociale nella Piana di Terranova nei secc. XVII-XX (II) ” 49 - A Oppido nel Settecento “ 50 - Vita economico-sociale nella Piana di Terranova nei secc. XVII-XX (III) “ 51 - Oppido nell’Ottocento “ 52 - Vita economico-sociale nella Piana di Terranova nei secc. XVII-XX (IV) “ 53 - Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido – VII- 2005 54 - Oppido nel Novecento “

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55 - Arte nelle Comunità della Piana di Terranova “ 56 - Fede e Società nella Diocesi di Oppido-Palmi – III - “ 57 - Fede e Società nella Diocesi di Oppido-Palmi – IV - “ 58 - Fede e Società nella Diocesi di Oppido-Palmi – V - “ 59 - Cina chiama Calabria “ 60 - Il caso Rocco De’ Zerbi “