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‘IURIS QUIDDITASLiber amicorum per Bernardo Santalucia [ESTRATTO] EDITORIALE SCIENTIFICA NAPOLI MMX

Reato ‘fatto criminoso’. E scusate l’errore

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‘IURIS QUIDDITAS’

Liber amicorum per Bernardo Santalucia

[ESTRATTO]

EDITORIALE SCIENTIFICA

NAPOLI MMX

No, non credo proprio che si sarebbe scusato chi per primo è ri-cordato, tra i giuristi del medioevo d’una qualche rinomanza, comeautore d’un abbaglio neppure troppo celebre; anzi, rimasto pratica-mente sconosciuto se non fosse stato per l’acribia filologica – e ancheper la connaturata avversione nei confronti dei legisti d’un certo tipo– con la quale gli umanisti, abbandonato il campo strettamente lette-rario, cominciarono ad applicare i loro strumenti affilati sulle fontidel diritto. No, non lo avrebbe fatto: oltretutto perché le scuse nonsi sarebbero bene sposate con l’altisonanza del nome e la bravura in-discussa del personaggio, la cui opera per secoli è stata non solo stu-diata, ma addirittura considerata ed usata come diritto vigente; e indiverse parti del mondo continua ad esserlo tutt’ora. Sì, è proprio lui,il fiorentino Accursio, l’autore della Magna glossa al Corpus iuris ci-vilis, il reus di cui si vuole dire. A cui s’accompagnerebbe un com-plice altrettanto famoso, e forse anche di più: Bartolo da Sassofer-rato; il quale ne avrebbe seguito le orme; ma non è proprio detto chesia incorso completamente nello stesso errore, come invece forsevorrebbe la malizia dei Culti, e come s’intenderebbe spiegare.

Tutto per un passo del Digesto che non sembrerebbe neppureparticolarmente oscuro, né difficile. È Modestino che descrive unaregola di sicuro più improntata al buon senso che non al rigor iuris:

Si diutino tempore aliquis in reatu fuerit, aliquatenus poena eius suble-vanda erit: sic etiam constitutum est non eo modo puniendos eos, quilongo tempore in reatu agunt, quam eos qui in recenti sententiam exci-piunt (D. 48.19.25.pr.).

A condizione però di non confondersi su quel reatus che ricorredue volte nel passo. È un vocabolo che Cicerone ed i suoi contem-poranei non conoscevano e che, stando al racconto di Quintiliano,avrebbe usato per la prima volta Messalla, oratore dell’età augustea:«Nam et quae vetera nunc sunt, fuerunt olim nova, et quaedam sunt

FEDERIGO BAMBI

Reato ‘fatto criminoso’.E scusate l’errore

in usu perquam recenti, ut Messala primus reatum, munerarium Au-gustus primus dixerunt»1; assume un significato tecnico non moltodiffuso, neppure nelle fonti giuridiche, in particolare nel Digesto: in-dica ‘lo stato, la condizione di reo’, cioè ‘la situazione di colui che sitrova formalmente accusato, per tutto il tempo in cui non è né as-solto, né condannato’, con tutte le conseguenze pregiudizievoli chene potevan derivare. Proprio in questo senso l’intende Modestino, eallora si capisce la ratio della norma che il giurista commenta: neiconfronti di chi è stato per lungo tempo in reatu, cioè in stato di ac-cusa, si dovrà tener conto degli effetti negativi di quella condizione,e pertanto al momento della irrogazione della condanna la penadovrà essere ridotta.

Diversa la lettura della voce, e conseguentemente dell’interopasso da parte di Accursio, come ci fa capire la glossa in reatu:

id est in expeditione poenae reatus, qui non recipit iterationem, ut ho-micidium. Est enim tunc poena sublevanda, id est differenda, & cumordine iudiciario imponenda (...). Accursius2.

Dal giurista del medioevo reatus viene messo sullo stesso pianosemantico di homicidium: non è più ‘la condizione del reo conse-guente all’accusa’, ma è ormai diventato ‘il fatto criminoso’. Delfraintendimento s’accorge Dionigi Gotofredo – ma non è il primo:cita infatti l’Alciato; e quest’ultimo a sua volta rimanda al Budeo:come vedremo – il quale nella sua edizione del Corpus iuris civilis an-nota:

In reatu esse quid, Accursius hic non vidit. Dic reatum statum esse &conditionem reorum: ut est habitus demissus, pannosus, squallidus.Hinc reorum sordes et sordidi rei dicuntur3.

Come conseguenza dell’interpretazione del glossatore tutta la

2 FEDERIGO BAMBI

1 Quint., Inst. 8.3.34.2 Glossa in reatu in l. Si diutino ff. de poenis [D. 48.19.25.pr.] (Digestum novum.

Pandectarum iuris civilis tomus tertius, Lugduni, Compagnie des libraires, 1566, col.1412).

3 Digestum novum seu Pandectarum iuris civilis tomus tertius, commentariis Ac-cursii explanatus, adiuncta sunt scholia Contii, & paratitla Cuiacii, accesserunt etiamauctiores ad Accursium Dionysii Gothofredi I. C. notae, Lugduni, sumptibus typo-graphicae Societatis, 1612, col. 1562.

Reato ‘fatto criminoso’. E scusate l’errore 3

legge Si diutino allora si trasfigura ad indicare qualcosa di diverso.Continua infatti la glossa:

Crimine autem commisso adhuc flagrante latius quibusdam crimen pu-niendi datur potestas: ut C. de raptu virginum l. I [C. 9.13.1] ubi autemquis longo tempore fuit in reatu, qui recipit iterationem: maiorem pati-tur poenam, quam si semel tantum commisit: ut in fugitivo erroneemansore & desertore & multis aliis;

dove reatus è ancora usato come sinonimo di crimen per far direal passo del Corpus iuris come debba essere maggiore la pena tutte levolte che per la natura del fatto criminoso il colpevole abbia partico-larmente insistito nella sua condotta lesiva: opinione certo da sotto-scrivere, questa, ma che è ben lontana dal modo di intendere reatus(e tutto il passo) che aveva il giurista romano Modestino.

Meno d’accordo saranno i giuristi più moderni su come Accur-sio seguita l’esposizione. Respinge, tra le altre, proprio la tesi di co-loro che – guarda caso azzeccando questa volta il senso originariodella norma –

dicunt in reatu, id est in carcere propter reatum minus puniendum,quam si ex recenti ibi fuerit: quasi ex quadam misericordia;

per poi riaffermare invece l’idea che condensa dal suo punto divista il principio ispiratore della disposizione:

ut primo dixi quod plus est puniendus qui heri fecit homicidium, quamqui fecit iam est decennium.

E qui si prende la stoccata – anche benevola, se vogliamo – diAndrea Alciato. Il quale, ben conoscendo i rischi ai quali poteva an-dare incontro il giurista che di mestiere cercasse di trarre dalla com-pilazione giustinianea norme per regolare un presente ben diverso daquello per il quale erano state concepite, ha forse pudore di pronun-ciarne il nome, ma non si trattiene dal criticarne l’opinione; perchéproprio non riesce a capire per quale motivo il decorso del tempodovrebbe far diminuire la gravità dell’illecito e quindi anche la pe-santezza della pena:

ut probare nostratium sententiam non possim, eius responsi argumentoattestantium, eum, qui post longum tempus, puta X vel XX annos ali-cuius facinoris accusatus est, mitiore poena puniendum, quasi gravitassceleris, temporis lapsu sit diminuta: quod certe ratione caret, satisque

reo esse debeat tanto tempore impune egisse. & ideo tarditas ultionis(...) gravitate poenae compensanda est4.

Ma tutto nasce dalla proprio cattiva interpretazione di reatus: seinvece lo si intende come ‘condizione di reo’, non si giunge a nessunaconseguenza assurda, anzi:

secus si diutius in reatu fuit: status enim & conditio accusati, quique dere capitali sua causam tanto tempore dixit, species poenae est, quae or-dinariam aliquatenus sublevare debet5;

ed è proprio questo il significato della parola che emerge ancheda altri passi del Digesto che il fondatore della Scuola culta indica aconferma6.

Qualche anno prima più dura era stata la reazione di fronte allainterpretatio medievale della legge Si diutino da parte di GuglielmoBudeo, che non s’era peritato a fare direttamente due nomi, quelli diAccursio e di Bartolo, come rappresentanti del genere dei giuristi cheper ignoranza avevano travisato il senso della norma, abituato ilprimo a contorti ragionamenti ondeggianti, costretto il secondo a ri-fugiarsi in una distinzione tra crimina:

Accursius & Bartolus Latini vocabuli ignorantia sensum huius responsiperverterunt. Existimavit enim Bartolus post Accursium reatum signi-ficare spatium maleficii perpetrandi quod Iurisconsultus iis verbis sta-tuerit mitius cum eo agendum qui longo intervallo inter reos defertur,hoc est diu post crimen admissum7;

mentre, come già sappiamo, ben diversa è l’accezione del voca-bolo (nella fonte romana):

4 FEDERIGO BAMBI

4 Andreae ALCIATI Parevrgwn iuris libri tres, Lugduni, apud haeredes SimonisVincentii, 1538, p. 88.

5 Ibidem.6 L. Is qui in reatu ff. ad legem Iuliam maiestatis [D. 48.4.11; Ulpiano]; l. Cum

ratio naturalis § ex bonis damnatorum ff. de bonis damnatorum [D. 48.20.7.2;Paolo].

7 Gulielmi BUDEI Altera aeditio annotationum in Pandectis ex libro quadrage-simo septimo Digest., Venetiis, Octavianus Scotus, 1534, c. 54; traggo da questoluogo anche i passi successivi di questo autore. Non s’avvede invece dello sbaglio diAccursio l’umanista senese Claudio Tolomei che alla corrotta lingua dei giuristi pra-tici dedica un’opera specifica: Claudii Ptolemaei Senen. De corruptis verbis iuris ci-vilis dialogus, [Siena, Simone Nardi, circa 1516].

Nos vero reatum esse dicimus statum & conditionem reorum, hoc est ha-bitum demissum, pannosum, squallidum & misericordiae aucupatorem,

e di questa triste condizione dell’accusato ben si dovrà tenereconto dunque al momento della commisurazione della pena:

Pars enim poenae esse visa est, longa temporis intercapedo in cospicuacalamitate & miseranda.

Ed invece, continua il Budeo, per incredibile errore si è diffusa,non solo tra i giuristi, l’opinione che reatus sia sinonimo di crimen,nonostante che sia così evidente la vera accezione del termine:

Errore autem miro haec opinio inter iurisperitos aliosque invaluit, utreatus pro crimine exaudiatur, cum clara sit huius vocabuli significatio.

Le parole del celebre umanista parigino vanno un poco sfrondatedai calori e dai colori della vis polemica. L’errore in fondo non eratanto sorprendente e straordinario: bastava dare un occhio – comenormalmente i culti fanno e come anche il Budeo certo sapeva – adaltre parti della compilazione di Giustiniano per capire che una taleestensione di significato ci poteva anche stare. Reatus nelle operedella giurisprudenza romana confluite nel Digesto è senz’altro ‘statoe condizione di reo’, ma nel Codice e nelle Novelle occhieggianoanche altri valori.

Come in quella costituzione di Costantino dove per gravi cri-mini si esclude ogni foro privilegiato per la classe senatoria perché«omnem enim huiusmodi honorem reatus excludit»:

Quicumque non illustris, sed tantum clarissima dignitate praeditus vir-ginem rapuerit vel fines aliquos invaserit vel in aliqua culpa seu criminefuerit deprehensus, statim intra provinciam, in qua facinus perpetravit,publicis legibus subiugetur nec fori praescriptione utatur. Omnemenim huiusmodi honorem reatus excludit (C. 3.24.1).

Qui reatus non può essere ‘condizione dell’accusato’ perché sista affrontando una questione che è preliminare a quella di un for-male atto di accusa nei confronti di un imputato: si tratta di una que-stione di competenza; e nella parola viene riconosciuto il significatodi ‘fatto criminoso’, ad esempio dallo stesso Andrea Alciato, che in-dica – come altri – anche il modello del fatto linguistico che ha ge-nerato l’ampliamento della sfera semantica. Tutto avviene con le pa-role con le quali si chiude il passo già visto sulla legge Si diutino:

Reato ‘fatto criminoso’. E scusate l’errore 5

sane reatus etiam pro facto ipso rei dicitur. Unde lex ait, omnem ho -norem reatus excludit, eo scilicet exemplo, quo & abigeatus factumipsum abigei Marcello Callistratoque8.

Allo stesso modo che da abigeus ‘ladro di bestiame’ si disse abi-geatus ‘il fatto dell’abigeo’ già in un frammento di Callistrato9, cosìreatus in quella lex del Codice indica ‘lo stesso fatto del reo’.

Invece, nella Novella XII di Giustiniano, probabilmente sull’in-fluenza d’un uso tipico degli scrittori cristiani10, il vocabolo diventasinonimo di ‘pena’:

ut necessitas sit eos quidem qui peccant sine reatu esse, eos autem quiinnoxii sunt tamquam peccantes puniri (Nov. XII, pr.)11;

L’esempio tratto dal Codice e questo della Novella, con la speci-

6 FEDERIGO BAMBI

8 A. ALCIATI Parevrgwn iuris libri tres, pp. 88 s.9 L. Oves pro numero ff. de abigeis [D. 47.14.3.pr.]: «Oves pro numero abac-

tarum aut furem aut abigeum faciunt. Quidam decem oves gregem esse putaverunt:porcos etiam quinque vel quattuor abactos, equum bovem vel unum abigeatuscrimen facere».

10 Cfr. Albert BLAISE, Lexicon latinitatis medii aevi, Turnhout, Brepols, 1975, s.v.: ‘peccato’; ma anche ‘stato conseguente al peccato, cioè obbligo che si assume da-vanti a Dio peccando’, a partire da Tertulliano; ed anche in San Tommaso (cfr. l’In-dex thomisticus di Roberto BUSA, anche on line: http://www.corpusthomisticum.org). Con il significato di ‘stato conseguente al peccato, obbligazione conseguenteal peccato’, il vocabolo compare per la prima volta in volgare: «Nel peccato si ha piùcose: l’una si è l’opera, l’altra si è la macula, l’altra si è il reato. L’opera passa e nonsi può fare più: puo’ne fare un’altra, ma quella non giammai, ma queste due cosenon passano, cioè la macula e ’l reato, cioè l’obligagione al ninferno. Passa il peccatoe l’opera, ma rimane la macula ne l’anima e l’obligazione, ma per la penitenzia sipurga questa macula, e è l’uomo liberato da quella obligagione» (1306) (GIORDANO

DA PISA, Quaresimale fiorentino (1305-1306), edizione critica per cura di CarloDELCORNO, Firenze, Sansoni, 1974, p. 302). Con il non distante significato di ‘con-seguenza del fatto criminoso che colpisce la persona del reo’ reatus si legge ad esem-pio in Samuele Pufendorf: «in delicto esse vel reatum tendentem in personam de-linquentis; vel obligationem ad restitutionem damni dati, quae in bona delinquentisfertur» (Samuelii Pufendorfii Elementorum jurisprudentiae universalis libri II,Francofurti et Jenae, sumptibus Johannis Meyeri, 1670, p. 173).

11 E la glossa reatu proprio alla medesima l. Pro incestis dudum nuptiis Auth. deincestis nuptiis [Coll. II.6.12] spiega, riusando il termine con il valore di ‘fatto cri-minoso’: «idest sine poena reatus» (Volumen locupletius quam antehac. Continetenim praeter posteriores tres libros Codicis, Novellas & Feuda, multa alia, Lugduni,Compagnie des libraires, 1567, col. 89).

ficazione del significato («reatus pro poena ponitur»), già nel Tre-cento sono riportati sotto la voce reatus dal Dictionarium utriusqueiuris di Alberigo da Rosciate12: segno ulteriore della riconosciuta po-lisemia della voce, tra tardo antico e medioevo, che deve avere avutoun ruolo non da poco in quell’errore del povero Accursio.

Quanto poi al compare del giurista fiorentino di cui s’era detto,Bartolo da Sassoferrato, a suo favore, e a dispetto del Budeo, vaspezzata una lancia. Poco interessato al testo giustinianeo, da com-mentatore Bartolo è tutto volto all’individuazione della ratio, delprincipio ispiratore della norma, per estenderla, e per formare istitutiche possano ricomprendere la molteplicità del reale, bisognosa di es-sere disciplinata. Nel commento di Bartolo13 alla legge Si diutino iltesto di Modestino è ormai lontano, ed il giurista non fa che ripeterela distinzione della glossa tra «delicta momentanea quae reiteratio-nem non recipiunt», «maleficia quae licet sint momentanea, sunttamen reiterabilia, ut in adulterio», e «delicta, quae non sunt mo-mentanea, sed habent actum successivum: ut aliquis est fugitivus»: ladiminuzione della pena per il decorso del tempo intercorso tra fattoed irrogazione della condanna, di cui diceva Accursio, potrà avereluogo solo per la prima classe (mentre per le altre due categorie –caso mai – la sanzione dovrà essere inasprita) e solo quando al tempodella commissione del fatto non sia stata intrapresa l’azione penale:perché se invece il passaggio del tempo e la mancata applicazionedella pena fossero dipesi, a processo iniziato, dal comportamento delreo, allora la sanzione dovrebbe essere più dura («Secus si in recentitempore fuit cognitum, sed propter eius absentiam & contumaciampoena fuit dilata»). Risponde con ciò Bartolo alla opinione di chi ri-teneva che la diuturnitas temporis sempre dovesse far aumentare lapena: con una distinzione che anche sarà nel merito criticabile, mache non trova più appiglio ormai, neppure in modo formale, sul-l’originario testo romano. E poi Bartolo nemmeno usa il vocaboloreatus, né nel senso di ‘condizione di reo’, né in quello accursiano di‘fatto criminoso’, preferendo la voce delictum oppure maleficium.

Reato ‘fatto criminoso’. E scusate l’errore 7

12 ALBERICI A ROSATE Dictionarium, ad utriusque iuris facilitatem pertingerenitenti maxime necessarium, rugosum quod prius erat et obscurum, octingentis etamplius quibus scatebat mendis repurgatum, splendet, Lugduni, Compagnie des li-braires, 1548, s. v.

13 BARTOLUS A SAXOFERRATO, In secundam ff. novi partem, Venetiis, apud Iun-tas, 1570, in l. Si diutino, ff. de poenis [D. 48.19.25], c. 201r.

Quindi, nella sostanza, davvero infondate nei suoi confronti appa-iono le accuse di tradimento del testo giustinianeo.

E poi: magari all’origine c’era stato davvero un errore d’inter-pretazione della legge romana dovuto a scarsa conoscenza del latino,ma in ogni caso l’occorrenza di reatus nella glossa alla l. Si diutino(ed anche in altri luoghi della Magna glossa14) dimostra che il signi-ficato nuovo di ‘fatto criminoso’ era nato e che – di sicuro con diffi-coltà – si andava diffondendo15.

Sicché la nascente lessicografia giuridica non perse tempo a darneatto. Il Dictionarium di Alberigo da Rosciate si limita a citare il passodi C. 3.24.1 senza dir niente del significato di ‘fatto criminoso’ che lìsi affaccia; ma altri lessici, a partire dalla metà del Quattrocento, benpiù si dilungano, sempre insistendo – conformemente alla loro ma-trice umanistica e poi culta – sulla contrapposizione tra il valore ori-ginario e puro di reatus nella giurisprudenza romana (‘condizione direo’) e quello nuovo e corrotto che si cominciava ad usare tra i giu-risti sulle orme d’Accursio (‘fatto criminoso’).

Cosi nel Vocabularium di Iodoco da Erfurt, che – anche con rie-laborazione di materiali precedenti – viene edito per la prima voltaproprio agli albori della stampa, e poi innumerevoli altre fino al

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14 Glossa in reatu in l. Cum ratio naturalis § ex bonis damnatorum ff. de bonisdamnatorum [D. 48.20.7.2; Paolo]: «id est post accusationem reatus»; glossa in reatuin l. Qui rei postulati § De illo videamus ff. de bonis eorum etc. [D. 48.21.3.8; Mar-ciano]: «id est in suspicione reatus»; cfr. anche glossa is qui in reatu in l. Is qui inreatu ff. legem Iuliam maiestatis [D. 48.4.11; Ulpiano]; oltre naturalmente allaglossa di cui alla nota 11. Più rispettosa dell’originario valore della parola la glossain reatu constitutus in l. Aufertur ei quasi § in reatu constitutus ff. de iure fisci [D.49. 14. 46. 6; Ermogeniano]: «etiam post accusationem inchoatam».

15 Con un valore simile reatus compare nel Liber Extra, c. Illa praepositorum,de accusationibus [X 5.1.3]: «Si vero aliquis est de monasterio praedicti abbatis, quipossit dicere, quod ad culpam reatumque eius pertineat: nos cum eis, quorum inte-rest, causam districte volumus perscrutari: ut vel condemnetur, vel absolvatur» (De-cretales D. Gregorii Papae IX suae integritati una cum glossis restitutae, Venetiis,1604, col. 1750). A proposito di questo canone la distinzione tra reato sempre intesocome ‘fatto criminoso’, e colpa sarà precisata da Felino Sandeo nella seconda metàdel Quattrocento: «Nota ulterius ibi, ad culpam & reatum. Notat glossa quod culpa& reatus ponuntur tamquam diversa, sed dicas, quod culpa ponitur pro delicto sineculpa [sic], puta, de negligentia, reatus vero importat delictum cum dolo» (FeliniSANDEI Commentariorum in decretalium libros V pars tertia, Venetiis, apud Gaspa-rem Bindonum, 1574, col. 684).

162216 ed oltre (e probabilmente anche con rimaneggiamenti), rea-tus

dicitur status atque habitus ipse reorum, antequam absolvantur autdamnentur cum squallidi, prolissa barba, de salute litigant, & rerumsuarum anxii satagunt. Iustin. tamen usus est pro poena, in auth. deincep. nup.; vulgo, autem accipitur pro crimine, eo modo quo abigea-tum dicimus, abigeorum delictum17.

Simili definizioni, ma arricchite da ampi saccheggi nelle opere delBudeo e dell’Alciato, si possono leggere ad esempio nel Prateio18 enel Calvino19.

L’impressione circa la diffusione di reatus ‘fatto criminoso’ – cioècome sinonimo di delictum o maleficium o crimen o excessus: soloper citare alcuni dei nomi con i quali nelle fonti del medioevo si di-ceva ‘l’illecito penale’ – che le definizioni di questi dizionari dannoal lettore è diversa da quella che si coglie scartabellando tra Quattroe Cinquecento, e anche oltre, nelle principali opere penalistiche.Vulgo, autem accipitur pro crimine parrebbe alludere ad una generalediffusione del vocabolo tra i penalisti o tra i giuristi tout court, qualevoce di genere per indicare l’illecito penale. E invece no: un tale usogeneralizzato proprio non si riscontra tra praticae e tractatus, ed in-fatti giustamente si è scritto che

ancóra alla fine del Settecento non esiste un tecnicismo di genere comereato, che nascerà poi da una voce latina classica piegata a un significatonon suo, ma per la classe più importante dei reati si fissa definitiva-mente il nome di delitto, riducendo al minimo le pigre sopravvivenze dimaleficio e di eccesso20.

Reato ‘fatto criminoso’. E scusate l’errore 9

16 Cfr. Piero FIORELLI, Vocabolari giuridici fatti e da fare, in «Rivista italianaper le scienze giuridiche» LXXXIV (1947), p. 299.

17 Vocabularium utriusque iuris (...). Accessit lexicon iuris civilis, in quo varii &insignes errores Accursii notantur, auctore Antonio Nebrissensi, Venetiis, apud Pau-lum Ugolinum, 1597, s. v., c. 255r.

18 Lexicon iuris civilis et canonici, sive potius thesaurus, de verborum, quae adius pertinent, significatione, P. PRATEIO ex variis collectore, Lugduni, apud Guliel.Rovillium, 1567, s. v., c. 166v.

19 Johannis KAHL alias CALVINI Lexicon iuridicum iuris caesarei simul, et cano-nici, feudalis item, civilis, criminalis, theoretici ac practici, Genevae, sumptibus Sa-muelis Chouët, 1670, s. v., vol. II, pp. 383 s. La prima edizione è del 1600.

20 Piero FIORELLI, L’italiano giuridico dal latinismo al tecnicismo, in P. FIO-RELLI, Intorno alle parole del diritto, Milano, Giuffrè, 2008, p. 121.

Magari nelle pagine dei penalisti reatus ‘illecito penale’ compariràpure, ma rimane nascosto in qualche capoverso secondario, in qual-che uso ridondante, o serve semplicemente per risolvere una que-stione di stile evitando una ripetizione: certo manca sempre quandosi tratti di fissare una definizione che dia un inquadramento generalead un certo istituto. Nonostante l’attenzione che la penalistica – al-meno a partire da un certo momento – dedica proprio all’aspetto ter-minologico e definitorio del suo oggetto, ai nomi con i quali può es-sere indicato il ‘fatto criminoso’: parole che occorre studiare a fondoper mettere a fuoco la specifica valenza tecnica di ognuna di loro. Èl’approccio tipico di Tiberio Deciani che dedica il primo libro del suoTractatus proprio allo studio dei nomi del ‘reato’21 con caratteristicometodo umanistico. Appunto: reatus non c’è; non solo come argo-mento principale di uno dei capitoli, ma neppure si trova usato quao là come semplice sinonimo di delictum o di crimen, pur senza es-sere stato ritenuto meritevole di una trattazione specifica. Vi si legge22

di peccatum, iniquitas, vitium, malitia, dolus, fraus, culpa, delictum,maleficium, crimen, excessus, facinus, scelus, flagitium, nequitia, ini-quitas, improbitas, noxa, probrum e opprobrium, iniuria: per ognunodei quali si specificano l’etimologia, il preciso valore tecnico, il carat-tere più o meno generale del significato. E sotto quest’ultimo profiloil vocabolo che meglio appare in grado di esprimere il ‘fatto crimi-noso in genere’, è semmai delictum che, secondo l’insegnamento tra-dizionale che risale alla Glossa, indica sia il fatto doloso che quellocolposo («delictum est tamquam genus generalissimum comprehen-dens omne peccatum voluntarium & involuntarium»), mentre cri-men s’addice solamente alle azioni commesse con intenzione malva-gia («crimen vero est genus subalternum continens ea tantum delicta,quae dolo sunt admissa, atque ideo voluntaria tantum»23), anche sespesso, avverte il Deciani, i giuristi tendono ad usare indifferente-mente i due vocaboli24: come farà lui stesso nel Tractatus. Nulla in-

10 FEDERIGO BAMBI

21 Tiberii DECIANI Tractatus criminalis, Venetiis, apud Ioannem, & AndreamZenarios, 1590, t. I, liber primus, cc. 1r-17r.

22 Cfr., sul punto e sulla funzione dogmatica dello studio lessicale ed etimolo-gico nel Tractatus del Deciani, Michele PIFFERI, Generalia delictorum. Il Tractatuscriminalis di Tiberio Deciani e la “parte generale” di diritto penale, Milano, Giuffré,2006, pp. 148 ss.

23 T. DECIANI Tractatus criminalis, c. 10v.24 Anche nelle fonti giustinianee, rompendo così la tradizionale distinzione del

vece si dice di reatus. Lo stesso accade in autori precedenti e succes-sivi, e così anche in opere d’altro genere come le practicae crimina-les25: a stare agli indici, analitici e delle cose notevoli, e soprattutto aleggere certi luoghi “sensibili” di quei volumi, reatus, se c’è, rimanenascosto.

Sarà pure la ripetizione di uno stereotipo26, ma addirittura negliJuris criminalis elementa del Carmignani, il cui primo volume escenel 1808, pochi anni prima di quando reato sarebbe entrato in qual-che codice moderno, allorché si tratta dei nomi dei ‘fatti criminosi’,su reatus si continua a fare silenzio:

Hoc autem delicti genus [delictorum civilium] jus nostrum proprie re-spicit, idque aliis etiam nominibus designatur: dicitur enim maleficium,vel scelus, vel flagitium, vel excessus, vel crimen, vel facinus, vel noxa,vel injuria prouti vario sensu a juris Romani vel Ecclesiastici scriptori-bus sumitur27.

Reato ‘fatto criminoso’. E scusate l’errore 11

«diritto penale romano dell’età classica, tra delitti pubblici (tecnicamente detti cri-mina), perseguiti dallo stato per mezzo degli organi investiti dalla giurisdizione cri-minale e sanzionati con pena pubblica, corporale o pecuniaria, e delitti privati (qua-lificati, pur con qualche oscillazione, delicta o maleficia), perseguiti dall’offeso nelleforme del processo privato e sanzionati con pena privata, dovuta esclusivamente allaparte lesa» (Bernardo SANTALUCIA, Diritto e processo penale nell’antica Roma2, Mi-lano, Giuffré, 1998, p. 67).

25 Così ad esempio compulsando la Practica causarum criminalium di IppolitoMARSILI (Lugduni, apud Iacobum Giunta, 1546), il Tractatus de ordine iudiciorum(...) intitulatus Speculum aureum et Lumen advocatorum di Roberto MARANTA (Ve-netiis, Franciscus Bindonis excudebat, 1553), la Practica criminalis di Marco Anto-nio BIANCHI (Venetiis, apud Cominum de Tridino Montisferrati, 1567), la Practicacausarum criminalium di Ludovico CARERI (Lugduni, apud Gulielmum Rovillium,1589), per spingersi fino alla Praxis, et theorica criminalis di Prospero FARINACCI

(Lugduni, sumptibus Iacobi Cardon 1629-1635, in 4 parti) o al Commentarius adlib. XLVII et XLVIII Dig. de criminibus di Anton MATTEO (Genevae, sumptibusfratrum Cramer, 1760), e magari poi tornare al Quattrocento con il Tractatus de ma-leficiis di Angelo GAMBIGLIONI d’Arezzo (Venetiis, ad candentis salamandrae insi-gne, 1578); oppure – più comodamente – scorrendo l’ampia disamina che fa M. PIF-FERI, Generalia delictorum. Il Tractatus criminalis di Tiberio Deciani, pp. 149 ss.

26 Cfr., in particolare a proposito dei nomina delictorum negli Elementa iuriscriminalis di Francesco Maria Renazzi, M. PIFFERI, Generalia delictorum. Il Tracta-tus criminalis di Tiberio Deciani, p. 156.

27 Joannis CARMIGNANI Juris criminalis elementa, Pisis, excud. Nistri fratres eo-rumque socii, 18335, vol. I, p. 2; così come reatus mancherà quando di lì a poco ilgiurista si occuperà De criminum classatione (pp. 28 ss.). Una sessantina di annidopo la prima edizione degli Elementa, nel passo del Programma del Carrara che,

Insomma, è come se la parola con il significato di ‘illecito penale’fosse rimasta quasi esclusivamente confinata nelle pagine della glossad’Accursio e poi in quelle, spesso colme di acredine, dei lessici deiCulti.

E invece un bel momento reatus comincia a venire in superficie,magari cambiata la desinenza. Così sul finire del Seicento eccolo inuna pratica penale: «solo se sopravenissero alla Corte nuovi indicii, osi clarificasse meglio il suo reato, nel qual caso si richiama [il reo] e siforma un nuovo processo» (circa 1686)28, e poi nel secolo successivo:«In condannagioni de’ rei d’atroci delitti, quali soglion essere gli as-sunti, o delegati dal Consiglio di X, non praticasi già devenire a penepecuniarie, non adeguate a quella severa ammenda, che debbesi a stra-ordinari reati» (1732)29; «la parte attrice, quale presenti in giudizio lepartite di credito, o di danni sofferti, ed insti contra del delinquenteper il proprio risarcimento, si costituisce in reato di falsità, quando ec-ceda dolosamente le giuste misure» (1755)30; «per omissione si fosseroresi complici di tal reato» (1769)31; «Allorché il Reo avrà confessato ildelitto colle sue qualità, e che la sua Confessione sia verificata dagliAtti, si procederà alla contestazione del Reato coll’assegnargli il ter-mine alle difese, e in questo caso non vi sarà bisogno di formale legit-timazione di Processo, nè luogo a repetizione di testimonj» (1771)32.

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come quello in commento, si occupa della nomenclatura degli illeciti, reato c’è, manon ha ancora assunto completamente la sua specificità semantica rispetto a delitto,del quale viene considerato un semplice sinonimo: «Delitto, reato, offesa, crimine,malefizio: tutte parole adoperate dai cultori della scienza penale come sinonimi: nes-suno dei quali appaga il desiderio di chi vorrebbe trovare nella parola la definizionedella cosa: tutti indifferenti a chi si contenta di trovare nella parola il segno del-l’idea» (Francesco CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte gene-rale, Lucca, Tipografia Giusti, 1867, p. 38).

28 Prattica criminale, a cura di Lorenzo VIVALDO, «Atti della Regia Deputa-zione di storia patria della Liguria, sezione di Savona», XXIV (1942), Savona, Tipo-grafia savonese, p. 158.

29 Benedetto PASQUALIGO, Della giurisprudenza criminale teorica e pratica, Ve-nezia, presso Stefano Orlandini, vol. II, 1732, p. 174.

30 Bartolommeo MELCHIORI, Trattato dello spergiuro e della falsità, compostosecondo le leggi civili e venete, Venezia, presso Girolamo Dorigoni, 1755, p. 105.

31 Constitutio Criminalis Theresiana ouvero Constitutione Criminale di SuaSacra Cesarea Regia Apostolica Maestà d’Ungheria, e Boemia etc. etc. M. TheresaArciduchessa d’Austria etc., Vienna, stampata presso Giovanni Tomaso Nobile diTrattnern, 1769, art. 62, par. 4, p. 182.

32 Codice di leggi, e costituzioni per gli Stati di Sua Altezza Serenissima, Mo-dena, presso la Società Tipografica, 1771, libro 4°, tit. 9, art. 13.

Sarà però sempre una battaglia di retroguardia, un apparire e unoscomparire, e la parola non entrerà nell’uso davvero comune, comenome di genere, almeno per tutto il Settecento; si continuerà a pre-ferirgli maleficio, eccesso e soprattutto delitto. Ed infatti proprio aidelitti s’intitolerà l’opera più celebre dell’illuminismo penale ita-liano, all’interno della quale almeno tre volte ricorrerà anche reato,ma, appunto, sempre in posizione defilata perché il vocabolo che perantonomasia indica il fatto rilevante per la legge penale e suscettibiledi pena continua ad essere quel delitto che si legge nel titolo:

«Dei testimoni. Egli è un punto considerabile in ogni buona legisla-zione il determinare esattamente la credibilità dei testimoni e le provedel reato»; «Vi è un teorema generale molto utile a calcolare la certezzadi un fatto, per esempio la forza degli indizi di un reato»; «Pubblicisiano i giudizi, e pubbliche le prove del reato» (1764)33.

Anche nell’Ottocento la strada del vocabolo per divenire tecnici-smo di genere si presenta difficile. All’inizio a dire la verità parrebbeaddirittura spianata perché – pur mancando la voce nel codice penalenapoleonico del 1810 ed in quello parmense del 182034 – nel Codicedei delitti e delle gravi trasgressioni politiche pel Regno Lombardo-Veneto del 1815 reato viene usato proprio come ‘fatto criminoso ingenere’:

Anche il tentativo d’una grave trasgressione politica rende colpevolequando il compimento del reato non sia stato interrotto per volontà delreo, ma pel solo concorso di circostanze accidentali35;

mentre delitto, insieme a trasgressione, pur senza una esplicitadefinizione classificatoria, diventa species di quel genus:

Reato ‘fatto criminoso’. E scusate l’errore 13

33 Cesare BECCARIA, Dei delitti e delle pene, a cura di Gianni FRANCIONI, Mi-lano, Mediobanca, 1984 (Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, vol. I),rispettivamente pp. 55, 58, 59.

34 I quali entrambi distinguono i fatti rilevanti per la legge penale in crimini, de-litti e contravvenzioni, senza però adottare uno specifico tecnicismo di genere(caso mai si ricorre all’espressione violazione o trasgressione di legge): Codice deidelitti e delle pene pel Regno d’Italia, Milano, dalla Reale Stamperia, 1810; Codicepenale per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla, Parma, dalla Ducale Tipogra-fia, 1820.

35 Codice dei delitti e delle gravi trasgressioni politiche pel Regno Lombardo-Ve-neto, Milano, dalla Cesarea Regia Stamperia, 1815, parte II, § 6.

Qualunque violazione della legge va soggetta a risponsabilità. La legi-slazione però deve usare maggiore rigore per quelle violazioni che piùda vicino e in maggior grado recano pregiudizio alla comune sicurezza.Per distinguere tali azioni contrarie e direttamente opposte alla Leggedalle altre trasgressioni meno dannose, verranno comprese le primesotto la denominazione di delitti, le seconde di gravi trasgressioni di po-lizia36.

Invece, espressamente il vocabolo è elevato a categoria generaledell’illecito penale nel Codice per lo Regno delle Due Sicilie del 1819:

«Ogni reato sarà punito, secondo la sua qualità, con pene o criminali, ocorrezionali, o di polizia»; «Il reato soggetto a pene criminali chiamasimisfatto. Il reato soggetto a pene correzionali chiamasi delitto. Il reatosoggetto a pene di polizia chiamasi contravvenzione»37.

E tutto ciò avviene con una scelta perfettamente consapevole siadelle origini del vocabolo, sia della sua storia semantica, come ci in-forma proprio alla fonte colui che fu l’autore del libro del codice re-lativo alle leggi penali38, Niccola Nicolini; e lo fa con un’interpreta-zione “etimologizzante” che parte appunto dal significato originariodi reatus che tanto piaceva agli umanisti.

Reato è parola che solo da poco è entrata a far parte del patri-monio linguistico delle leggi del Regno, dal 181339, e se in origine era«lo stato e la condizion legale degli accusati fin tanto che non fosserocondannati o assoluti» – quindi non ci poteva essere un reus e dun-que un reatus senza una formale accusa presentata da un qualunquecittadino –, adesso

all’incontro per le leggi nostre il colpevole, senza bisogno di accusatoreche lo inscriva tra i rei, dal primo momento che va ad infranger la leggeha contro di sé più magistrati istituiti già per reprimerlo e punirlo. Egli

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36 Codice dei delitti e delle gravi trasgressioni politiche pel Regno Lombardo-Ve-neto, Introduzione, § I.

37 Codice per lo Regno delle Due Sicilie, parte seconda, Leggi penali, Napoli,dalla Real Tipografia del Ministero di Stato della Cancelleria generale, 1819, rispet-tivamente art. 1, c. I, e art. 2.

38 Aldo MAZZACANE, Una scienza per due Regni: la penalistica napoletana dellarestaurazione, in Codice per lo Regno delle due Sicilie (1819), Parte seconda. Leggipenali, Padova, Cedam, 1996, p. XXXIX.

39 Niccola NICOLINI, Della procedura penale nel Regno delle Due Sicilie, Na-poli, dalla Stamperia di M. Criscuolo, pt. I, vol. II, 1828, p. 709 n. 1.

dunque fin d’allora è costituito nella condizione di reato e di reo: que-ste voci dipingono vivamente e fin dal principio il suo stato legale. Perlo che restituite alla canonica ed all’etica le voci di peccato, di peccatore,e rigettate altre voci generali delle quali la nostra lingua è feconda, ilnuovo nostro codice ha dato ad ogni specie di violazione di legge, findall’istante che si tenta di commetterla, il nome di reato, del pari che ilnome di reo a colui che la commetta40.

Ancora, il codice penale sabaudo del 1839, che ripete la triparti-zione napoleonica tra crimini, delitti e contravvenzioni, incasella letre figure nella categoria generale del reato:

Qualunque violazione della legge penale è un reato. Il reato che la leggepunisce con pene criminali, è un crimine. Il reato che la legge puniscecon pene correzionali, è un delitto. Il reato che la legge punisce conpene di polizia, è una contravvenzione41.

Eppure la parola non aveva neppure allora conquistato la sua fi-sionomia definitiva e stabile. Come dimostrano le vicende della co-dificazione che proprio allora era in corso in Toscana. Nel Grandu-cato alla fine degli anni trenta, con una significativa inversione deiruoli, delitto torna ad essere nome di genere, mentre reato diventauno dei fatti criminosi che rientrano nella più ampia categoria. Nelprogetto di Istruzioni per norma dei redattori del nuovo codice pe-nale toscano del 1839, redatto da una commissione composta da Bal-dassarre Bartalini, Vincenzio Giannini, Cosimo Buonarroti, LuigiPezzella e Giuseppe Puccioni, si individuano cinque parti: «Disposi-zioni generali, Dei Misfatti e dei Reati in genere, Delle Pene in ge-nere, Dei Misfatti e dei Reati e delle Pene in specie, Delle trasgres-sioni in genere e in specie»; e nella relazione illustrativa si spiega agiustificazione della scelta sulla classificazione dei fatti criminosi:

I sottoscritti hanno creduto nella classazione suddetta scegliere delleparole proprie a dimostrare intuitivamente la differenza che passa neitre modi delle violazione della Legge penale. Hanno infatti ritenuto ilvocabolo delitto come rappresentante il genere, perché dalle leggi penaliin poi ogni infrazione al patto sociale è stata così designata: hanno pre-

Reato ‘fatto criminoso’. E scusate l’errore 15

40 N. NICOLINI, Della procedura penale nel Regno delle Due Sicilie, pt. I, vol. I,1828, p. 73.

41 Codice penale per gli Stati di S. M. il Re di Sardegna, Torino, Stamperia Reale,1839, art. 1, cc. I e II.

ferito la parola misfatto come rappresentante lo scelus o il facinus delLatini, e così la specie più grave fra le delinquenze, abbandonando l’al-tra di crimini non italiana, sebbene ritenuta da due Codici penali d’Ita-lia [quello parmense e quello sardo]. Hanno prescelta la parola reati perdeterminare la specie media delle infrazioni sulla legge penale, nontanto perché nel comune modo di sentire rappresenta una idea moltomeno imponente di quella che produce il misfatto, quanto perché nonsi accusasse la lingua italiana, non inferiore per certo a qualunque altravivente, di povertà ritenendo come hanno fatto i citati due Codici, e ilfrancese pure la parola delitti della quale si erano serviti per rappresen-tare il genere; ed hanno accettata la parola trasgressioni perché espri-mente la minima importanza politica, e perché consentita dalla praticae da tutti i codici moderni42.

Riallacciandosi alla tradizione più antica e prettamente italiana,dunque delitto ridiventa il nome di genere che comprende al propriointerno il reato, violazione della legge penale che quanto a gravità stain mezzo tra quelle più efferate, i misfatti, e quelle più lievi, le tra-sgressioni.

Ognun sa come finirono le vicende del codice toscano del 1853:con l’adozione di una bipartizione43 che confinava in codici separatii delitti e le trasgressioni: «Le azioni punibili a tenore del presente co-dice, si chiamano delitti. Le trasgressioni sono sottoposte ad altreleggi»44. Senza che nella lingua del legislatore trovasse spazio la pa-rola reato. Lo conferma, con le ragioni della scelta, Francesco Anto-nio Mori, che scriveva con la competenza di chi nella redazione delcorpo di norme aveva ben messo le mani:

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42 Lo stralcio è pubblicato da Daniela FOZZI, Carmignani e la codificazione pe-nale toscana, in Giovanni Carmignani (1768-1847). Maestro di scienze criminali epratico del foro, sulle soglie del Diritto Penale contemporaneo, a cura di Mario MON-TORZI, Pisa, Edizioni ETS, 2003, p. 172 n. 18. Cfr. sul progetto di Istruzioni ancheMario DA PASSANO, La codificazione penale nel Granducato di Toscana (1814-1860),in Codice penale pel Granducato di Toscana (1853), Padova, Cedam, 1995, pp.XXIII ss.

43 Propria anche della Leopoldina, ma che l’artefice del codice, il Mori, riprendedal codice penale del Baden del 1845, traducendo il tedesco Verbrechen con delitto:Sergio VINCIGUERRA, Fonti culturali ed eredità del codice penale toscano, in Codicepenale pel Granducato di Toscana (1853), p. CLII.

44 Codice penale pel Granducato di Toscana, Firenze, nella Stamperia Grandu-cale, 1853, art. 2, §§ 1 e 2.

Ogni azione punibile è certamente un reato; perché produce l’effetto,che l’incolpato di averla commessa venga presentato, come reo, al giu-dice criminale. Ma tutti sanno con quanto d’arbitrio e d’incertezza ilcodice francese, e tutti i codici, che lo presero ad esempio, separasseropoi il delitto dal crimine o misfatto. Questa suddivisione, la quale ha ildifetto di non essere fondata sulla intrinseca natura della cosa suddivisa,ma unicamente sulla partizione delle cose giudiziarie, è stata affatto tra-scurata dal toscano Legislatore: al quale è sembrato, che l’appellativo didelitto convenisse a tutte le azioni, che sono punibili secondo il codice,e quello di trasgressione, a tutte le azioni, che sono punibili secondo ilregolamento di polizia45.

La contesa tra delitto e reato quale voce di genere per designare‘la violazione della legge penale’ non si acquieta neppure durante lalunga fase che dopo l’unificazione porterà al primo codice penale ita-liano. Anche se proprio in essa troverà alla fine la sua composizione.Un momento culminante sta nelle discussioni che riguardarono ilprogetto De Falco che si svolsero tra il marzo del 1866 ed il dicem-bre nel 1867. Si era deciso di abbandonare nel costruendo codice latripartizione crimini, delitti e contravvenzioni in favore della toscanabipartizione, e parve allora che non avesse più ragion d’essere l’usodella parola reato,

intorno alla quale l’on. De Foresta osserva che se aveva opportunità,quando il codice recava la triplice distinzione de’ reati, come quella chesi prestava a designarli tutti indistintamente (nel che la locuzione ita-liana aveva un vantaggio sopra la francese), cessa ora una tale opportu-nità e comodità dopo abolita la detta divisione dell’articolo 1; laondenon essendo la voce reato una voce diffusa nell’uso comune e rispon-dendo invece assai meglio all’uso, come anche alla coscienza popolare,la voce delitto, che è anche scientifica, propone di adottarla46.

Nella seduta del 10 marzo 1866 la commissione approva, consi-derando anche il fatto che con il significato di ‘reato’ nel codice ci-

Reato ‘fatto criminoso’. E scusate l’errore 17

45 Francesco A. MORI, Teorica del codice penale toscano, Firenze, dalla Stampe-ria delle Murate, 1854, pp. 6 s. Cfr. anche Giuseppe PUCCIONI, Saggio di diritto pe-nale teorico pratico, Firenze, Tipografia di Luigi Niccolai, 1858, p. 34 s., dove ri-conferma che «la parola delitto è parola di genere che sta a rappresentare tutte le in-frazioni della legge penale».

46 Il progetto del codice penale pel Regno d’Italia, Firenze, Stamperia Reale,1870, vol. I, p. 58.

vile era stata sempre usata la voce delitto. Salvo poi cambiare avvisonel dicembre dell’anno successivo su iniziativa del Pessina, il quale,facendosi interprete di un generale uso linguistico ormai cambiato,propone

di mutare nel primo articolo del nuovo codice il nome dato dei fatti pu-nibili, chiamandoli reati invece che delitti. Dice che si eviterebbe ognianfibologia perché la voce reato ha un senso più generale, a cui le leggipenali di gran parte d’Italia e la scienza stessa ci hanno abituati47.

È contrario Pietro Ellero perché reato è voce anche troppo gene-rica, capace di ricomprendere «qualunque violazione di legge sancitada pena, e perciò anche le contravvenzioni o trasgressioni di minorconto non contemplate [allora] nel codice penale»; ed ancora il DeForesta «sostenendo non essere men generica quella di delitto, sia nelsenso tecnico della parola, che nel criterio volgare delle popolazioni,a cui del resto è quasi ignoto il vocabolo di reato», e richiamando tral’altro la tradizione giuridica toscana, il Dei delitti e delle pene delBeccaria e «l’uso in Francia di chiamar délit nel comune linguaggioanche forense qualunque reato». Ma di fronte all’insistenza del Pes-sina che agli argomenti addotti oppone soprattutto la diffusione delvocabolo nei codici dell’Italia meridionale e settentrionale, la com-missione acconsente alla modifica; e il nome di delitto viene addirit-tura bandito dalle pagine del progetto di codice, con completo ribal-tamento della scelta lessicale che invece era stata propria del codicetoscano del 1853, dove mancava – come s’è visto – reato.

Occorreranno molti altri progetti e molte altre discussioni pergiungere nel 1889 al primo codice penale unitario, ma questo dibat-tito segna comunque48 una vittoria importante di reato su delitto

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47 Il progetto del codice penale pel Regno d’Italia, p. 302.48 Pur nel quadro di una struttura diversa da quella del futuro codice Zanardelli,

che tratterà in un unico codice dei reati, distinti in delitti e contravvenzioni; mentreil progetto elaborato dalla commissione nominata dal ministro De Falco avrebbevoluto tenere separati – sul modello toscano – un Codice penale che incriminasse ifatti più gravi, i reati, da un distinto Codice di polizia punitiva che si rivolgesse aviolazioni minori, le contravvenzioni. Quando ormai non si era lontani dalla chiu-sura dell’iter legislativo del codice penale unitario, sull’opera della commissione DeFalco insiste la Relazione della commissione composta dai deputati (...) sul disegno dilegge presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti (Zanardelli) il 22 no-vembre 1887 “Facoltà al Governo di pubblicare il nuovo Codice penale per il Regnod’Italia”, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1888, p. 25, dove tra l’altro

quale termine di genere per indicare ‘qualunque violazione dellalegge penale’49.

Solo da questo momento in poi si può dire davvero che l’erroredi quel giurista del medioevo, il fiorentino Accursio, cominci a farsinorma, di lingua e di legge: per poi divenirlo finalmente con il codiceZanardelli. Il quale, tornando alla toscana bipartizione, dopoché iprogetti intermedi quasi tutti avevano optato per la distinzione, nellacategoria del reato, tra crimini, delitti e contravvenzioni50, prendeatto di un assestamento semantico e scientifico ormai consolidato, etronca per sempre ogni discussione: «I reati si distinguono in delittie contravvenzioni» (art. 1, c. II).

Reato ‘fatto criminoso’. E scusate l’errore 19

ricompare anche l’antico vocabolo maleficio: «Attirò [l’argomento della partizionedei reati] specialmente l’attenzione della Commissione ministeriale del 1866, e gli il-lustri uomini che la componevano deliberarono di rinunciare alla partizione accoltadal Codice [sardo] del 1859 dei reati in crimini, delitti e contravvenzioni, e di di-stinguere le infrazioni della legge in due grandi categorie, quelle, cioè, che a loro direcostituivano un vero e proprio maleficio, una offesa cioè al diritto, e quelle che ri-sultavano da azioni per sé medesime innocue, ma che potevano mettere in pericolola sicurezza dei cittadini, l’ordine pubblico. E si venne nel divisamento di denomi-nare reati quelle della prima categoria, e di rinviare ad un Codice di polizia punitivala seconda categoria d’infrazioni col nome di trasgressioni o contravvenzioni» (se-duta del 22/03/1888).

49 E reato proprio perché capace di indicare il «genere delle infrazioni giuridi-che» sarà magnificato come «vocabolo tecnico tutto particolare del linguaggioscientifico italiano» invidiatoci dagli stranieri (Antonio BUCCELLATI, Istituzioni didiritto e procedura penale, Milano, Ulrico Hoepli, 1884, p. 103). Cfr. anche del me-desimo autore, Guida allo studio del diritto penale, Milano, Vallardi, vol. II, 1866,p. 33.

50 Per un quadro riassuntivo della questione fino quasi alle soglie del codice uni-tario si veda Baldassarre PAOLI, Esposizione storica e scientifica dei lavori di prepa-razione del codice penale italiano dal 1866 al 1884, Firenze, Niccolai, libro primo,1884, pp. 10-15.