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Da
"Melmoth, l'Uomo Errante"
di Charles Robert Maturin (1782-1824)
"Non me ne importa niente... sono sul ciglio di un
precipizio... mi ci devo tuffare... e che gli spettatori si
lamentino o meno, mi interessa poco."
"Eppure hai affermato che vuoi morire!"
"Voglio... macché, sono impaziente! Sono un orologio che da
sessant'anni segna gli stessi minuti, suona le stesse ore!
Non è forse ora che il meccanismo voglia essere
ricaricato? La monotonia della mia esistenza farebbe
desiderare qualsiasi cambiamento, fosse pure il dolore.
Sono stanco, e vorrei cambiare stato, ecco tutto (...) Ma se
condanni l'uomo alla sofferenza e all'idiozia insieme, si
sommano le pene dell'inferno e dell'annientamento. Per
sessant'anni ho maledetto la mia esistenza. Non mi sono
mai svegliato con una speranza, perché non avevo niente da
fare o aspettarmi (...) Chi, come me, riesce a ridurre la sua
infelicità condividendola come un ragno che diminuisce la
tensione del veleno che lo gonfia iniettandone una goccia in
ogni insetto che si dibatte, agonizza e muore come te nella
sua ragnatela"
"Il vecchio Melmoth era in uno stato di profondo torpore.
Gli occhi avevano perduto l'espressione sia pure incerta
che avevano prima; le mani, che si erano aggrappate 1
convulsamente alla coperta, avevano ora abbandonato la
debole presa tremante e si allungavano incerti come gli
artigli di un uccello morto di fame: scheletriche, gialle,
spalancate. John, per il quale la morte era uno spettacolo
insolito, pensò che il vecchio fosse soltanto assopito, e
spinto da un impulso che non tentò neppure di giustificare,
riprese la candela e si avventurò di nuovo nella stanza
proibita. I suoi passi svegliarono il moribondo che si drizzò
a sedere sul letto. John non se ne accorse, perchè era già
nello studiolo, ma udì il gemito, o piuttosto il rantolo che
gorgoglia e soffoca in gola annunciando l'orribile conflitto
fra le convulsioni del corpo e della mente. Rabbrividì, si
fermò, e mentre si voltava per andarsene gli sembrò di
vedere che gli occhi del ritratto, sui quali aveva fissato i
suoi, si muovevano. Allora tornò di corsa nella stanza dello
zio."
Da
"Io discendo nella barca del Sole"
2
di Eugen Drewermann
Dovremo anzitutto occuparci dell'esperienza della morte
ovvero dell'ineludibile riconoscimento di quanto sia
effimera la nostra vita, per comprendere chi siamo in
questa realtà mondana e cosa speriamo per la nostra
esistenza. Che cosa siamo noi uomini di fronte
all'onnipotenza della morte? Oppure, rovesciando la
domanda: cos'è la morte, questa presenza che sempre ci
accompagna, minacciosa e talvolta liberatrice, come abisso
o rifugio, come tomba o grazia, a seconda delle nostre
sorti?
Una cosa è certa: soltanto chi è tanto temerario da amare
alcunché su questa terra guarda preoccupato alla morte.
Soltanto chi è stato deluso nei propri pensieri può, infine,
3
giungere a cercare formalmente la morte. Eppure, proprio
in questo caso, ciò cui si anela è una vita più vera. Siamo
così arrivati al cardine di tutte le domande: quando viviamo
liberamente?
Il desiderio di abbandonare questo mondo ha trovato una
volta per tutte mirabile espressione in uno dei più antichi
testi letterari dell'umanità risalente alla cultura antico-
egizia, il "Dialogo di un uomo stanco della vita con la sua
anima":
"Oggi ho visto davanti a me la morte. Un malato risana, se
dopo la sventura ritorna nello spazio aperto. Oggi ho visto
davanti a me la morte come profumo di mirra quando
sediamo al riparo del sole nei giorni ventosi. Oggi ho visto
davanti a me la morte come profumo di loto quando
sediamo sulla riva dell'ebrezza. Oggi ho visto davanti a me
la morte come il cessare della pioggia quando il contadino
rientra a casa dal campo. Oggi ho visto davanti a me la
morte come un cielo rischiarato. Oggi ho visto davanti a
me la morte come colui che desideri rivedere la propria
casa dopo aver trascorso lunghi anni di prigione."
"L'oltretomba è il luogo della nostra dimora, la meta del
cuore; la patria è l'occaso, approdo del nostro viaggio. Farò
un'ombra, sarà piacevolmente fresca, così potrai
compiangere le altre anime che hanno troppo caldo. Berrò
l'acqua alla fonte e lascerò sorgere l'ombra."
Esiste una terza via per affrontare la morte, che
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scaturisce direttamente dalla vacuità della vita ovvero
dall'inanità dell'esistenza. Questo modo di sperimentare la
morte è descritto da Hugo von Hofmannsthal in uno dei
suoi drammi in versi, "Il folle e la morte". Claudio, seduto
alla finestra, scruta la vita indaffarata della città e
medita sulla smorta e fredda aridità della propria
esistenza che non ha saputo trovare una ragione in alcun
sofisma, né un senso in alcuna dottrina:
"Come fiori divelti che una torbida
acqua trascina nei suoi gorghi, gli anni
della mia gioventù sono trascorsi,
e non sapevo che ciò fosse esistere.
Mi circondava un pallido crepuscolo,
ero oppresso nell'intimo, sconvolto,
sentivo freddo il cuore, opachi i sentimenti
e preclusa in strada ogni realtà:
non sorsero tempeste a liberarmi,
non fui travolto dagli alti marosi,
il dio non si levò sulle mie peste
su cui combatti finché vinci o posi."
E questa, la risposta della Morte:
"Quello che a tutti spetta a te fu dato,
vivere in terra una vita terrena.
In ciascuno di voi soffia uno spirito
che dà a questo caos di cose morte
la sua proporzione e di un deserto
fa il giardino su cui felicità
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fiorisce, ora vigore, ora disgusto.
Triste per te se appena oggi l'impari!
Si lega in questa terra e si è legati,
ci si espande in gioiose ore, si trema;
e si piange nel sogno e si è turbati,
si rinuncia, ancor trepidi di attesa,
caldi del soffio della vita, assorti
ma ogni cosa matura a me vien resa."
Non c'è interrogativo dell'esistenza umana che
resterebbe immutato davanti alla consapevolezza della
perenne presenza della morte.
Fra dolore, amore e noia, fra stanchezza, compassione e
accidia, fra disperazione, desiderio e smarrimento si
nascondono i tre diversi travestimenti in cui ci può
apparire la morte.
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di Piergiorgio Welby
"Io amo la vita [...] Io non sono né un malinconico né un
maniaco depresso - morire mi fa orrore, purtroppo ciò che
mi è rimasto non è più vita - è solo un testardo e insensato
accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche.
Il mio corpo non è più mio... [...] La morte non può essere
"dignitosa"; [...] l'eutanasia non è "morte dignitosa", ma
morte opportuna."
"Sua Santità Benedetto XVI ha detto che di fronte alla
pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza,
ricorrendo persino all'eutanasia, occorre ribadire la
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dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo
termine naturale. Ma cosa c'è di naturale in una sala di
rianimazione? Che cosa c'è di naturale in un buco nella
pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine?
Che cosa c'è di naturale in uno squarcio nella trachea e in
una pompa che soffia l'aria nei polmoni? Che cosa c'è di
naturale in in corpo tenuto biologicamente in funzione con
l'ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale,
idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale,
morte-artificialmente-rimandata?"
"La morte è sì, qualche cosa che ci spaventa, ma è anche
ciò che ci fa essere quello che siamo. Senza la morte, cioè
senza questo destino che ci accompagna e che fa sì che noi
dobbiamo finire nel nulla, cosa ne sarebbe delle nostre
speranze, dei nostri progetti, del fatto, per l'appunto, che
progettiamo in vista del nostro tramontare, che
progettiamo per salvarci da questo tramonto, da questo
naufragio? Sapendo però che naufragare dobbiamo."
"Dio non mi ha mai ascoltato, mai. Nemmeno quando mio
padre, distrutto dal tumore alla laringe, tentava di
respirare ma i suoi sforzi si concludevano in un rantolo
strozzato che nemmeno il cortisone riusciva più a calmare.
E avevo chiesto a Dio di far cessare quel tormento, avevo
implorato piangendo: "Dio fallo morire, fallo morire
adesso". Che senso aveva quell'agonia? Possibile che
nessuno potesse far qualcosa per farla cessare? Mi ero
chiesto, angosciato, se non esistesse un limite a quello che
un uomo deve sopportare, ma neppure i medici mi avevano
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saputo rispondere."
"Ho paura di morire, ho paura di vivere. [...] Conosco solo la
morte degli altri: amici, familiari, sconosciuti... ma la mia?"
"La notte aspetto e la pace, aperta sulla finestra dei neon
pulsanti di chi ancora può, risale il viale d'alberi e oleandri.
Il suono di passi affrettati, spiati dai vetri gialli di chi non
può - di chi non dorme - resta sospeso nell'attesa di
un'alba impossibile. Foglie verdi già marciscono e i corpi e
l'aria intorno invocano un silenzio che nasconda la verità
delle cartelle cliniche, che allontani lo sferragliare
insolente dei carrelli della terapia. La notte è amica e
percorre lenta i corridoi vuoti, le corsie di respiri spenti, il
bisbigliare mistico incollato sulle labbra, le antiche
preghiere ritagliate tra i ceri accesi e l'incenso di chiese
infantili, vergogne sussurrate sulle grate ammuffite dei
confessionali. Penitenze consumate in fretta sotto la Via
Crucis, peccati e rimorsi lasciati affogare
nell'acquasantiera della consuetudine. Tutto finito. Oggi
non c'è perdono né penitenza, oggi esiste solo un castigo
incomprensibile, una pena troppo grande per qualunque
peccato. Anche il dolore è muto questa notte."
"L'orizzonte ha cucito col filo del silenzio i lembi del mare
e del cielo imprigionandoci in un sudario azzurro. Ognuno
cavalca solitario i propri incubi o i sogni che restano o
inventa altri mari e altre rotte. Aspettiamo una vela
lontana o un refolo di vento ma negli occhi rimbalzano
immagini di infantili paure: serpenti di mare, kraken,
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tritoni, sirene, gorghi mostruosi. In silenzio aspettiamo
che la notte spenga i nostri volti riflessi dall'opale infido
del mare."
"Come scrive Euripide nelle Troiane: Il non nascere - dico -
è uguale al morire, ma è meglio morire che vivere nel
dolore."
Welby, a pagina 65 definisce il silenzio di Dio assordante,
ma proprio per questo, "Chiederemo fino a quando cesserà
almeno l'ingiustificabile silenzio dell'Uomo."
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Da
"La Storia Infinita" di Michael Ende
"Sta' a sentire", gorgogliò la Morla, "Noi siamo vecchi,
piccolo, troppo vecchi. Abbiamo vissuto abbastanza.
Abbiamo visto anche troppo. Per chi sa tante cose come ne
sappiamo noi non c'è più nulla d'importante. Tutto si ripete
in eterno, il giorno e la notte, l'estate e l'inverno, il mondo
è vuoto e senza senso. Tutto gira soltanto in tondo. Ciò che
comincia deve finire, ciò che prende vita deve poi morire.
Tutto si compensa, Il Bene e il Male, Il Bello e il Brutto, la
Stupidità e la Saggezza. Tutto è vuoto. Niente è reale.
Niente è importante."
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Da
"La Rosa del Cavaliere"
di Joanna Makepeace
"In questo momento non saprei come evitare questo
destino, Arthur" rispose Rosamund debolmente. Era come
inebetita, svuotata di ogni capacità di provare emozioni: si
muoveva, respirava e parlava senza provare niente.
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La saga di Allegra Drummond e delle sue sorelle, dotate di
poteri magici e di guarigione, e per questo motivo, odiate e
disprezzate dalle persone del volgo. Allegra, la madre e le
sorelle, per evitare le persecuzioni della Chiesa, si
rifugiano quindi nel magico mondo delle Highlands (una
sorta di Avalon), fino a che Merrick, signore feudale, non
si addentra nel regno magico, rapendo Allegra e
obbligandola a curare il figlioletto che ha perso
conoscenza dopo una caduta da un albero. O forse qualcuno
sta congiurando contro Merrick e suo figlio?
Le parti più belle del romanzo sono le scene di guarigione,
nelle quali Allegra, con l'uso delle erbe e della meditazione,
riesce a guarire le persone, e anche i discorsi e i pregiudizi
delle persone ignoranti che disprezzano ciò che non
conoscono chiamando Allegra "strega".
17
***
Sollevando il capo, Allegra vide la nonna che faceva salire
Kylia e Gwenellen nella parte posteriore del carro
affrettandosi poi a nasconderle sotto la coperta di
pelliccia.
Non appena anche Allegra e la madre furono rimontate a
bordo, Wilona fece schioccare le redini e il cavallino
ripartì a tutta velocità.
Lo sguardo di Allegra passava dalla madre alla nonna;
entrambe sembravano impaurite. "Ho fatto qualcosa di
sbagliato?" chiese.
"No, bambina, ma c'era troppa gente. Ti abbiamo avvertita
che noi non siamo come gli altri."
Allegra chinò il capo, contrita. "Mi dispiace. Ma la madre di
Jamie piangeva, e dentro di me sentivo che anche lui
piangeva. Voleva tornare da lei, l'ha proprio detto."
Nola attirò la figlia a sé e la abbracciò. "Non hai fatto
niente di male, Allegra. Ma ci sono persone che hanno
timore dei nostri doni."
"Perché?"
"Perché hanno dimenticato le antiche tradizioni. Hanno
scelto di ignorare e dimenticare i poteri di guarigione che
ci sono anche nel loro cuore."
Con aria solenne la bambina intrecciò le mani in grembo.
"Sono contenta che noi non li abbiamo rifiutati."
Chiuse gli occhi e si appoggiò alla madre, cedendo alla
debolezza che gravava su di lei.
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Da "Il Visionario" di Schiller
"Mi ero perso a guardarla", continuò. "Non si era accorta
di me e non si lasciò turbare dalla mia intrusione, tanto era
immersa nel suo raccoglimento.
Lei pregava il suo Dio e io pregavo lei. Sì, l'adoravo. Tutte
queste immagini di santi, questi altari, queste candele
accese non me l'avevano ricordato: solo allora, per la prima
volta, mi resi conto di trovarmi in un luogo sacro. Devo
confessarvelo? In quel momento credetti fermamente in
quello che la sua bella mano stringeva. Nei suoi occhi lessi
la risposta. Grazie al suo incantevole raccoglimento, che
me lo rese reale... E la seguii fino in cielo.
Quando si alzò, tornai di nuovo in me. In preda a un
timoroso smarrimento mi feci da parte, ma un rumore
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tradì la mia presenza. La vicinanza imprevista di un uomo
avrebbe potuto offenderla; ma niente di tutto questo
traspariva dallo sguardo che mi rivolse. Vi era solo pace,
una pace ineffabile, e un sorriso benevolo le aleggiava sulle
labbra. Scendeva dal suo cielo e io ero la prima creatura
che si offriva alla sua benevolenza. Era ancora sospesa
nell'universo della preghiera, non era ancora tornata sulla
Terra. In un altro angolo della cappella qualcosa si mosse.
Era una donna piuttosto anziana, che si era alzata da una
sedia proprio dietro di me. Fino a quel momento non mi ero
accorto di lei. Si trovava a pochi passi da me, e doveva
aver seguito tutti i miei movimenti. Ne fui sconcertato;
abbassai gli occhi e mi passarono davanti con un fruscio di
vesti.
La vidi percorrere la lunga navata della chiesa; la bella
figura eretta. Che incantevole maestà! Che nobile
portamento! Non è più la creatura di prima, ha nuove
attrattive, è un'apparizione completamente nuova. Si
allontanò lentamente; la seguii timidamente a distanza,
incerto se osare raggiungerla... O non devo? Non mi farà
più dono di un suo sguardo? Forse mi ha guardato quando è
passata davanti a me e io non sono riuscito ad alzare gli
occhi su di lei? Oh, come mi tormenta questo dubbio!"
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Sto leggendo "Phantoms!" di Dean Koontz (trovato per
caso al mercatino dell'usato, e pure scontato!)
e devo dire che è un libro che mi sta terrorizzando!
Di Koontz avevo già letto "In un incubo di follia", carino,
ma niente che in effetti mi restasse poi in testa, ma
questo "Phantoms!" è a dir poco agghiacciante, in certe
pagine!
La storia è incentrata su alcune orribili uccisioni compiute
da qualcosa di sovrannaturale, in una tranquilla cittadina,
Snowfield. Sarà appunto la protagonista, Jennifer, e la
sorellina di lei, Lisa, a scoprire che l'intera città è ormai
un cimitero!!!
"Jenny non voleva accrescere le paure di Lisa rivelandole i
suoi sospetti, ma quel percorso al buio innervosiva anche
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lei. A ogni passo, il tunnel sembrava diventare sempre più
stretto, soffocante. Percorso un quarto del passaggio,
avvertì l'orribile sensazione di non essere più sola con sua
sorella. Un attimo dopo, scoprì che qualcosa si muoveva
nella zona più scura, sotto il tetto, due o tre metri sopra
di lei. Non capì esattamente in che modo se ne accorse.
Udiva solo i propri passi e quelli di Lisa; non vedeva quasi
niente. Ma avvertì di colpo una presenza ostile, e alzò gli
occhi sul soffitto buio, e fu sicura che le tenebre
stessero... cambiando.
Scivolavano. Si muovevano. Su, fra le travi."
"Sul bancone da lavoro, nel mezzo della parte in marmo,
c'era un disco di pasta. Sulla pasta c'era una mattarello.
Due mani stringevano le estremità del mattarello. Due
mani umane, recise.
Lisa indietreggiò, andò a sbattere violentemente contro un
armadio di metallo. - Cosa sta succedendo? Cosa sta
succedendo?
Jenny si avvicinò al bancone, scrutò le mani con un insieme
di disgusto e incredulità: e con un terrore che non
concedeva più tregue. La mani non erano gonfie o contuse.
Possedevano ancora il colore normale della pelle, appena
venato di grigio. Il sangue (per la prima volta vedeva il
sangue) aveva tracciato una scia rossa di rivoli e goccioline
che dai polsi scendevano a macchiare il bianco della
farina."
23
- Pensavo che il mondo cominciasse e finisse al cancello
della fattoria, ed ero incline a diffidare di tutto il resto.
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Ma l'assedio si faceva prepotente: nelle notti di pioggia
erano le luci della città a sostituire il cielo. Bisognava
difenderci, bisognava salvare la nostra valle, a qualunque
costo, pensavamo... e così abbiamo deciso... - Gettò
un'occhiata a sua madre.
- Abbiamo deciso di innalzare sulla fattoria quello che
chiamavano un "cono di potere" - spiegò Winter, con voce
tranquilla.
- Saremmo ancora rimaste visibili, ma per così dire non
osservabili: la città avrebbe saputo che c'eravamo, ma
sarebbe passata oltre. Una tale condizione, tuttavia, è
assai difficile da creare e ancor più difficile da
mantenere. Ci occorreva una terza strega.
Myriam si sporse dalla poltrona, come in atteggiamento di
supplica: - Si lavora meglio come trio, capisci, poiché
vengono rappresentati i tre aspetti femminili.
- Io ero la vecchia - disse Winter.
- E io sarei stata la madre, e mia figlia la fanciulla.
27
"Chi erano davvero le streghe? Donne che, dopo aver
venduto l'anima al Diavolo, si servivano del proprio potere
per fare del male, oppure guaritrici, depositarie di una
sapienza tramandata di madre in figlia? Questo
incantevole romanzo, ambientato nell'Inghilterra del '600,
racconta la storia avvincente e tenebrosa di Issy, una
ragazzina alle prese con il lato oscuro della stregoneria,
ma anche con quello più benigno e luminoso. Tra crudeli
pregiudizi, Sabba notturni, cacciatori di streghe, segreti
ed intrighi, Issy riuscirà finalmente a trovare se stessa e
a scoprire verità ignorate, mentre le fiamme del rogo si
accendono ancora una volta, minacciose, per inghiottire una
nuova vittima."
***29
Si faceva un gran parlare di Dio, ma quel che veramente
temevamo era il Diavolo. Le streghe vivevano nei villaggi e
nelle fattorie. Di notte, quando si radunavano per adorarlo,
Satana sorgeva dall'Inferno e camminava fra noi, nei
campi, nelle brughiere. Poteva capitarvi, per strada, di
sfiorare un uomo che l'aveva baciato solo poche ore prima.
Una volta certi ragazzi mi mostrarono un segno sulla
collina di Pendle, dove sostenevano che il Diavolo fosse
solito andare a passeggio; era l'impronta di uno zoccolo,
simile a quello d'una mucca, ma molto più grande. Pochi
metri dopo c'erano i resti d'un fuoco. I ragazzi mi
chiesero com'era il Diavolo, e dove mi aveva baciato. E
quando dissi che non l'aveva mai fatto, non vollero
credermi.
"Issy la bruciata!", mi schernì uno di loro. Così, mi
chiamavano. Però non osarono toccarmi.
"Non è stata colpa mia", mormorai. "è successo e basta."
"Tu hai grandi doni, Issy. Devi solo imparare a controllarli."
"Non ho fatto niente..."
"Mi hai salvato la vita."
"Non sono stata io, il cavallo è inciampato, è caduto, era
spaventata", balbettai. Ma era inutile. Non riuscivo a
convincere me stessa. "Ho visto il fuoco... Il fuoco del
sogno", aggiunsi.
"Era lì tutto il tempo."
Di nuovo Iohan annuì: "Quel fuoco è la chiave della tua
forza, Issy. E continua a mettersi fra te e i tuoi talenti
30
che Dio ti ha donato."
"Allora è vero... Sono una strega, proprio come dicono
loro."
Iohan sbuffò.
"Che cos'è una strega? Una che dissotterra cadaveri e
ammazza i neonati per farne unguenti, e getta il malocchio
sulla gente onesta perché non le obbedisce? Tu non fai
niente del genere, mi pare."
"Però posso fare altre cose... E tu... Il parroco ha detto
che sei una strega... che lo sanno tutti."
"Tu credi che io sia una strega?"
"Non lo so!"
"Chi è una strega? Dimmelo."
Conoscevo la risposta.
"Qualcuno che ha venduto l'anima al Diavolo."
"Allora ti garantisco che non sono una di loro, mai stata e
mai sarò... e neppure tu, qualunque cosa dicano gli
ignoranti. Non ho niente a che spartire col Diavolo, niente
a che spartire col male."
Era chiaro che mi consideravano uno di loro. Possedevo gli
stessi loro doni, i doni del dio che adoravano, doni di
guarigione e di malattia, di visione e di premonizione.
"In essi non c'è nulla di buono o di cattivo", mi spiegò
Iohan. "Così come si può condurre una vita buona o cattiva,
tu puoi usare i tuoi poteri per fare del bene o del male."
(...) Quella notte andai a letto con la mente in subbuglio.
Qualcuno si sbagliava, o era stato ingannato. Il parroco
Holden... Iohan? Non avevo modo di saperlo.
31
"La Signore dalle Camelie"
di Alexandre Dumas
Alle cinque del mattino, quando l'alba cominciava ad
apparire dietro le tendine, Margherita disse:
"Scusa se ti mando via, ma è necessario. Il duca viene
tutte le mattine; quando verrà gli diranno che dormo;
forse aspetterà che mi svegli."
Presi fra le mani la testa di Margherita le cui spalle erano
inondate dai capelli sciolti, e le detti un ultimo bacio,
dicendo:
"Quando ti rivedrò?"
"Senti", rispose, "Prendi la chiavetta dorata che è sul
caminetto, vai ad aprire quella porta, metti la chiave al suo
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posto e vattene. In giornata riceverai una lettera con i
miei ordini; ricordati che mi devi obbedire ciecamente."
"Sì, e se già ti domandassi qualcosa?"
"Che cosa?"
"Che tu mi lasciassi quella chiave?"
"Mi chiedi ciò che non ho mai fatto per nessuno."
"Bhè fallo per me, perchè ti giuro che io non ti amo come ti
amavano gli altri."
"Va bene, tienila pure; ma ti avverto che sta in me far sì
che quella chiave non serva a niente."
"Perchè?"
"C'è un catenaccio all'interno della porta."
"Cattiva!"
"Lo farò togliere."
"Dunque, mi ami un poco?"
"Non so come mai, ma mi sembra di sì. Adesso, vattene;
casco dal sonno."
Rimanemmo per qualche secondo nelle braccia l'uno
dell'altra; poi me ne andai.
Le strade erano deserte, la grande città dormiva ancora,
una dolce frescura inondava i quartieri che il rumore degli
uomini avrebbe invaso dopo qualche ora.
Mi sembrava che quella città addormentata fosse mia;
cercavo nel ricordo i nomi di coloro ai quali fino allora
avevo invidiato la felicità; e tutti quelli che ricordavo mi
confermavano che nessuno era stato felice quanto lo ero
io.
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Da "La Contessa Nera" di Rebecca Johns
Un libro, che sotto forma di romanzo biografico, si
addentra nella vita e nella psiche di Erzsébet Bàthory,
soffermandosi anche nell'analisi della situazione socio-
politica dell'Ungheria del 1600, e della famiglia reale di
Erzsébet.
"Madre. Amante. Strega. Assassina. A volte il male è
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l'unico modo per difendersi."
"Era una dolce mattina brumosa di giugno e le grigie mura
in pietra degli spalti merlati erano cosparsi di licheni verdi
e tralci di edera in fiore. Una sottile nebbiolina bianca si
librava sul castello e sul ponte di legno che collegava la
fortezza con l'esterno. Gli ospiti non erano ancora partiti
e alcuni, ruzzolati sull'erba del giardino durante la notte,
si erano persino sistemati a gruppetti di due o tre a
dormire qua e là, avvolti nei mantelli. Mi nascosi dietro le
siepi di tasso per non farmi vedere, dirigendomi verso
l'ingresso principale del castello interno e oltrepassai il
ponte di legno sulla palude. Lì il sole fece capolino e
illuminò le canne di una luce dorata, mentre gli aironi si
muovevano silenziosi sulle loro gambe sottili in cerca di
pesci e rane, e gli insetti si levavano in volo al mio arrivo.
Alla fine raggiunsi le mura più esterne e di lì la strada che
conduceva oltre la palude in un declivio erboso. Un
boschetto di biancospini nascondeva parzialmente la vista
della pianura, ma l'odore penetrante del fango e delle
canne, l'aroma fertile della terra ancora intatta
permeavano ogni cosa."
37
Novalis: "Inni Spirituali"
"Poichè in segreto ero infermo, stavo sempre in lacrime,
con il cuore lontano e restavo soltanto per l'angoscia e
l'errore. Come dall'alto mi fu di colpo tolta la lastra dal
sepolcro e fu dischiuso il mio intimo cuore. Vi sono tempi di
tale angoscia, vi è un animo così tetro quando ogni cosa
mostra da lontano un volto da spettro. Qui strisciano
sfrenati terrori, piano, carichi d'ansia, e opprimono
profonde notti con greve peso l'anima."
38
Ray Bradbury "Ritornati dalla polvere" (2000)
E il vento cominciò. Spazzava il mondo come una gran
bestia invisibile che la terra sentì arrivare nella stagione
del lutto e dei lamenti, oscura celebrazione di cose che
trascinava con sé per disperderle... Vento di mare e onde
sibilanti rubavano la polvere che si posa sulle tombe, negli
occhi degli angeli di pietra, vuotandole di carne spettrale.
S'impadronivano di ornamenti funebri senza nome,
scuotevano gli alberi druidici, gettavano le foglie al cielo...
39