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Da "Melmoth, l'Uomo Errante" di Charles Robert Maturin (1782-1824) "Non me ne importa niente... sono sul ciglio di un precipizio... mi ci devo tuffare... e che gli spettatori si lamentino o meno, mi interessa poco." "Eppure hai affermato che vuoi morire!" "Voglio... macché, sono impaziente! Sono un orologio che da sessant'anni segna gli stessi minuti, suona le stesse ore! Non è forse ora che il meccanismo voglia essere ricaricato? La monotonia della mia esistenza farebbe desiderare qualsiasi cambiamento, fosse pure il dolore. Sono stanco, e vorrei cambiare stato, ecco tutto (...) Ma se condanni l'uomo alla sofferenza e all'idiozia insieme, si sommano le pene dell'inferno e dell'annientamento. Per sessant'anni ho maledetto la mia esistenza. Non mi sono mai svegliato con una speranza, perché non avevo niente da fare o aspettarmi (...) Chi, come me, riesce a ridurre la sua infelicità condividendola come un ragno che diminuisce la tensione del veleno che lo gonfia iniettandone una goccia in ogni insetto che si dibatte, agonizza e muore come te nella sua ragnatela" "Il vecchio Melmoth era in uno stato di profondo torpore. Gli occhi avevano perduto l'espressione sia pure incerta che avevano prima; le mani, che si erano aggrappate 1

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Da

"Melmoth, l'Uomo Errante"

di Charles Robert Maturin (1782-1824)

"Non me ne importa niente... sono sul ciglio di un

precipizio... mi ci devo tuffare... e che gli spettatori si

lamentino o meno, mi interessa poco."

"Eppure hai affermato che vuoi morire!"

"Voglio... macché, sono impaziente! Sono un orologio che da

sessant'anni segna gli stessi minuti, suona le stesse ore!

Non è forse ora che il meccanismo voglia essere

ricaricato? La monotonia della mia esistenza farebbe

desiderare qualsiasi cambiamento, fosse pure il dolore.

Sono stanco, e vorrei cambiare stato, ecco tutto (...) Ma se

condanni l'uomo alla sofferenza e all'idiozia insieme, si

sommano le pene dell'inferno e dell'annientamento. Per

sessant'anni ho maledetto la mia esistenza. Non mi sono

mai svegliato con una speranza, perché non avevo niente da

fare o aspettarmi (...) Chi, come me, riesce a ridurre la sua

infelicità condividendola come un ragno che diminuisce la

tensione del veleno che lo gonfia iniettandone una goccia in

ogni insetto che si dibatte, agonizza e muore come te nella

sua ragnatela"

"Il vecchio Melmoth era in uno stato di profondo torpore.

Gli occhi avevano perduto l'espressione sia pure incerta

che avevano prima; le mani, che si erano aggrappate 1

convulsamente alla coperta, avevano ora abbandonato la

debole presa tremante e si allungavano incerti come gli

artigli di un uccello morto di fame: scheletriche, gialle,

spalancate. John, per il quale la morte era uno spettacolo

insolito, pensò che il vecchio fosse soltanto assopito, e

spinto da un impulso che non tentò neppure di giustificare,

riprese la candela e si avventurò di nuovo nella stanza

proibita. I suoi passi svegliarono il moribondo che si drizzò

a sedere sul letto. John non se ne accorse, perchè era già

nello studiolo, ma udì il gemito, o piuttosto il rantolo che

gorgoglia e soffoca in gola annunciando l'orribile conflitto

fra le convulsioni del corpo e della mente. Rabbrividì, si

fermò, e mentre si voltava per andarsene gli sembrò di

vedere che gli occhi del ritratto, sui quali aveva fissato i

suoi, si muovevano. Allora tornò di corsa nella stanza dello

zio."

Da

"Io discendo nella barca del Sole"

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di Eugen Drewermann

Dovremo anzitutto occuparci dell'esperienza della morte

ovvero dell'ineludibile riconoscimento di quanto sia

effimera la nostra vita, per comprendere chi siamo in

questa realtà mondana e cosa speriamo per la nostra

esistenza. Che cosa siamo noi uomini di fronte

all'onnipotenza della morte? Oppure, rovesciando la

domanda: cos'è la morte, questa presenza che sempre ci

accompagna, minacciosa e talvolta liberatrice, come abisso

o rifugio, come tomba o grazia, a seconda delle nostre

sorti?

Una cosa è certa: soltanto chi è tanto temerario da amare

alcunché su questa terra guarda preoccupato alla morte.

Soltanto chi è stato deluso nei propri pensieri può, infine,

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giungere a cercare formalmente la morte. Eppure, proprio

in questo caso, ciò cui si anela è una vita più vera. Siamo

così arrivati al cardine di tutte le domande: quando viviamo

liberamente?

Il desiderio di abbandonare questo mondo ha trovato una

volta per tutte mirabile espressione in uno dei più antichi

testi letterari dell'umanità risalente alla cultura antico-

egizia, il "Dialogo di un uomo stanco della vita con la sua

anima":

"Oggi ho visto davanti a me la morte. Un malato risana, se

dopo la sventura ritorna nello spazio aperto. Oggi ho visto

davanti a me la morte come profumo di mirra quando

sediamo al riparo del sole nei giorni ventosi. Oggi ho visto

davanti a me la morte come profumo di loto quando

sediamo sulla riva dell'ebrezza. Oggi ho visto davanti a me

la morte come il cessare della pioggia quando il contadino

rientra a casa dal campo. Oggi ho visto davanti a me la

morte come un cielo rischiarato. Oggi ho visto davanti a

me la morte come colui che desideri rivedere la propria

casa dopo aver trascorso lunghi anni di prigione."

"L'oltretomba è il luogo della nostra dimora, la meta del

cuore; la patria è l'occaso, approdo del nostro viaggio. Farò

un'ombra, sarà piacevolmente fresca, così potrai

compiangere le altre anime che hanno troppo caldo. Berrò

l'acqua alla fonte e lascerò sorgere l'ombra."

Esiste una terza via per affrontare la morte, che

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scaturisce direttamente dalla vacuità della vita ovvero

dall'inanità dell'esistenza. Questo modo di sperimentare la

morte è descritto da Hugo von Hofmannsthal in uno dei

suoi drammi in versi, "Il folle e la morte". Claudio, seduto

alla finestra, scruta la vita indaffarata della città e

medita sulla smorta e fredda aridità della propria

esistenza che non ha saputo trovare una ragione in alcun

sofisma, né un senso in alcuna dottrina:

"Come fiori divelti che una torbida

acqua trascina nei suoi gorghi, gli anni

della mia gioventù sono trascorsi,

e non sapevo che ciò fosse esistere.

Mi circondava un pallido crepuscolo,

ero oppresso nell'intimo, sconvolto,

sentivo freddo il cuore, opachi i sentimenti

e preclusa in strada ogni realtà:

non sorsero tempeste a liberarmi,

non fui travolto dagli alti marosi,

il dio non si levò sulle mie peste

su cui combatti finché vinci o posi."

E questa, la risposta della Morte:

"Quello che a tutti spetta a te fu dato,

vivere in terra una vita terrena.

In ciascuno di voi soffia uno spirito

che dà a questo caos di cose morte

la sua proporzione e di un deserto

fa il giardino su cui felicità

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fiorisce, ora vigore, ora disgusto.

Triste per te se appena oggi l'impari!

Si lega in questa terra e si è legati,

ci si espande in gioiose ore, si trema;

e si piange nel sogno e si è turbati,

si rinuncia, ancor trepidi di attesa,

caldi del soffio della vita, assorti

ma ogni cosa matura a me vien resa."

Non c'è interrogativo dell'esistenza umana che

resterebbe immutato davanti alla consapevolezza della

perenne presenza della morte.

Fra dolore, amore e noia, fra stanchezza, compassione e

accidia, fra disperazione, desiderio e smarrimento si

nascondono i tre diversi travestimenti in cui ci può

apparire la morte.

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Da

"Lasciatemi morire"

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di Piergiorgio Welby

"Io amo la vita [...] Io non sono né un malinconico né un

maniaco depresso - morire mi fa orrore, purtroppo ciò che

mi è rimasto non è più vita - è solo un testardo e insensato

accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche.

Il mio corpo non è più mio... [...] La morte non può essere

"dignitosa"; [...] l'eutanasia non è "morte dignitosa", ma

morte opportuna."

"Sua Santità Benedetto XVI ha detto che di fronte alla

pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza,

ricorrendo persino all'eutanasia, occorre ribadire la

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dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo

termine naturale. Ma cosa c'è di naturale in una sala di

rianimazione? Che cosa c'è di naturale in un buco nella

pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine?

Che cosa c'è di naturale in uno squarcio nella trachea e in

una pompa che soffia l'aria nei polmoni? Che cosa c'è di

naturale in in corpo tenuto biologicamente in funzione con

l'ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale,

idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale,

morte-artificialmente-rimandata?"

"La morte è sì, qualche cosa che ci spaventa, ma è anche

ciò che ci fa essere quello che siamo. Senza la morte, cioè

senza questo destino che ci accompagna e che fa sì che noi

dobbiamo finire nel nulla, cosa ne sarebbe delle nostre

speranze, dei nostri progetti, del fatto, per l'appunto, che

progettiamo in vista del nostro tramontare, che

progettiamo per salvarci da questo tramonto, da questo

naufragio? Sapendo però che naufragare dobbiamo."

"Dio non mi ha mai ascoltato, mai. Nemmeno quando mio

padre, distrutto dal tumore alla laringe, tentava di

respirare ma i suoi sforzi si concludevano in un rantolo

strozzato che nemmeno il cortisone riusciva più a calmare.

E avevo chiesto a Dio di far cessare quel tormento, avevo

implorato piangendo: "Dio fallo morire, fallo morire

adesso". Che senso aveva quell'agonia? Possibile che

nessuno potesse far qualcosa per farla cessare? Mi ero

chiesto, angosciato, se non esistesse un limite a quello che

un uomo deve sopportare, ma neppure i medici mi avevano

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saputo rispondere."

"Ho paura di morire, ho paura di vivere. [...] Conosco solo la

morte degli altri: amici, familiari, sconosciuti... ma la mia?"

"La notte aspetto e la pace, aperta sulla finestra dei neon

pulsanti di chi ancora può, risale il viale d'alberi e oleandri.

Il suono di passi affrettati, spiati dai vetri gialli di chi non

può - di chi non dorme - resta sospeso nell'attesa di

un'alba impossibile. Foglie verdi già marciscono e i corpi e

l'aria intorno invocano un silenzio che nasconda la verità

delle cartelle cliniche, che allontani lo sferragliare

insolente dei carrelli della terapia. La notte è amica e

percorre lenta i corridoi vuoti, le corsie di respiri spenti, il

bisbigliare mistico incollato sulle labbra, le antiche

preghiere ritagliate tra i ceri accesi e l'incenso di chiese

infantili, vergogne sussurrate sulle grate ammuffite dei

confessionali. Penitenze consumate in fretta sotto la Via

Crucis, peccati e rimorsi lasciati affogare

nell'acquasantiera della consuetudine. Tutto finito. Oggi

non c'è perdono né penitenza, oggi esiste solo un castigo

incomprensibile, una pena troppo grande per qualunque

peccato. Anche il dolore è muto questa notte."

"L'orizzonte ha cucito col filo del silenzio i lembi del mare

e del cielo imprigionandoci in un sudario azzurro. Ognuno

cavalca solitario i propri incubi o i sogni che restano o

inventa altri mari e altre rotte. Aspettiamo una vela

lontana o un refolo di vento ma negli occhi rimbalzano

immagini di infantili paure: serpenti di mare, kraken,

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tritoni, sirene, gorghi mostruosi. In silenzio aspettiamo

che la notte spenga i nostri volti riflessi dall'opale infido

del mare."

"Come scrive Euripide nelle Troiane: Il non nascere - dico -

è uguale al morire, ma è meglio morire che vivere nel

dolore."

Welby, a pagina 65 definisce il silenzio di Dio assordante,

ma proprio per questo, "Chiederemo fino a quando cesserà

almeno l'ingiustificabile silenzio dell'Uomo."

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Da

"La Storia Infinita" di Michael Ende

"Sta' a sentire", gorgogliò la Morla, "Noi siamo vecchi,

piccolo, troppo vecchi. Abbiamo vissuto abbastanza.

Abbiamo visto anche troppo. Per chi sa tante cose come ne

sappiamo noi non c'è più nulla d'importante. Tutto si ripete

in eterno, il giorno e la notte, l'estate e l'inverno, il mondo

è vuoto e senza senso. Tutto gira soltanto in tondo. Ciò che

comincia deve finire, ciò che prende vita deve poi morire.

Tutto si compensa, Il Bene e il Male, Il Bello e il Brutto, la

Stupidità e la Saggezza. Tutto è vuoto. Niente è reale.

Niente è importante."

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Da

"La Rosa del Cavaliere"

di Joanna Makepeace

"In questo momento non saprei come evitare questo

destino, Arthur" rispose Rosamund debolmente. Era come

inebetita, svuotata di ogni capacità di provare emozioni: si

muoveva, respirava e parlava senza provare niente.

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Da "La spada delle Highlands" di Ruth Langan

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La saga di Allegra Drummond e delle sue sorelle, dotate di

poteri magici e di guarigione, e per questo motivo, odiate e

disprezzate dalle persone del volgo. Allegra, la madre e le

sorelle, per evitare le persecuzioni della Chiesa, si

rifugiano quindi nel magico mondo delle Highlands (una

sorta di Avalon), fino a che Merrick, signore feudale, non

si addentra nel regno magico, rapendo Allegra e

obbligandola a curare il figlioletto che ha perso

conoscenza dopo una caduta da un albero. O forse qualcuno

sta congiurando contro Merrick e suo figlio?

Le parti più belle del romanzo sono le scene di guarigione,

nelle quali Allegra, con l'uso delle erbe e della meditazione,

riesce a guarire le persone, e anche i discorsi e i pregiudizi

delle persone ignoranti che disprezzano ciò che non

conoscono chiamando Allegra "strega".

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***

Sollevando il capo, Allegra vide la nonna che faceva salire

Kylia e Gwenellen nella parte posteriore del carro

affrettandosi poi a nasconderle sotto la coperta di

pelliccia.

Non appena anche Allegra e la madre furono rimontate a

bordo, Wilona fece schioccare le redini e il cavallino

ripartì a tutta velocità.

Lo sguardo di Allegra passava dalla madre alla nonna;

entrambe sembravano impaurite. "Ho fatto qualcosa di

sbagliato?" chiese.

"No, bambina, ma c'era troppa gente. Ti abbiamo avvertita

che noi non siamo come gli altri."

Allegra chinò il capo, contrita. "Mi dispiace. Ma la madre di

Jamie piangeva, e dentro di me sentivo che anche lui

piangeva. Voleva tornare da lei, l'ha proprio detto."

Nola attirò la figlia a sé e la abbracciò. "Non hai fatto

niente di male, Allegra. Ma ci sono persone che hanno

timore dei nostri doni."

"Perché?"

"Perché hanno dimenticato le antiche tradizioni. Hanno

scelto di ignorare e dimenticare i poteri di guarigione che

ci sono anche nel loro cuore."

Con aria solenne la bambina intrecciò le mani in grembo.

"Sono contenta che noi non li abbiamo rifiutati."

Chiuse gli occhi e si appoggiò alla madre, cedendo alla

debolezza che gravava su di lei.

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Da "Il Visionario" di Schiller

"Mi ero perso a guardarla", continuò. "Non si era accorta

di me e non si lasciò turbare dalla mia intrusione, tanto era

immersa nel suo raccoglimento.

Lei pregava il suo Dio e io pregavo lei. Sì, l'adoravo. Tutte

queste immagini di santi, questi altari, queste candele

accese non me l'avevano ricordato: solo allora, per la prima

volta, mi resi conto di trovarmi in un luogo sacro. Devo

confessarvelo? In quel momento credetti fermamente in

quello che la sua bella mano stringeva. Nei suoi occhi lessi

la risposta. Grazie al suo incantevole raccoglimento, che

me lo rese reale... E la seguii fino in cielo.

Quando si alzò, tornai di nuovo in me. In preda a un

timoroso smarrimento mi feci da parte, ma un rumore

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tradì la mia presenza. La vicinanza imprevista di un uomo

avrebbe potuto offenderla; ma niente di tutto questo

traspariva dallo sguardo che mi rivolse. Vi era solo pace,

una pace ineffabile, e un sorriso benevolo le aleggiava sulle

labbra. Scendeva dal suo cielo e io ero la prima creatura

che si offriva alla sua benevolenza. Era ancora sospesa

nell'universo della preghiera, non era ancora tornata sulla

Terra. In un altro angolo della cappella qualcosa si mosse.

Era una donna piuttosto anziana, che si era alzata da una

sedia proprio dietro di me. Fino a quel momento non mi ero

accorto di lei. Si trovava a pochi passi da me, e doveva

aver seguito tutti i miei movimenti. Ne fui sconcertato;

abbassai gli occhi e mi passarono davanti con un fruscio di

vesti.

La vidi percorrere la lunga navata della chiesa; la bella

figura eretta. Che incantevole maestà! Che nobile

portamento! Non è più la creatura di prima, ha nuove

attrattive, è un'apparizione completamente nuova. Si

allontanò lentamente; la seguii timidamente a distanza,

incerto se osare raggiungerla... O non devo? Non mi farà

più dono di un suo sguardo? Forse mi ha guardato quando è

passata davanti a me e io non sono riuscito ad alzare gli

occhi su di lei? Oh, come mi tormenta questo dubbio!"

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Sto leggendo "Phantoms!" di Dean Koontz (trovato per

caso al mercatino dell'usato, e pure scontato!)

e devo dire che è un libro che mi sta terrorizzando!

Di Koontz avevo già letto "In un incubo di follia", carino,

ma niente che in effetti mi restasse poi in testa, ma

questo "Phantoms!" è a dir poco agghiacciante, in certe

pagine!

La storia è incentrata su alcune orribili uccisioni compiute

da qualcosa di sovrannaturale, in una tranquilla cittadina,

Snowfield. Sarà appunto la protagonista, Jennifer, e la

sorellina di lei, Lisa, a scoprire che l'intera città è ormai

un cimitero!!!

"Jenny non voleva accrescere le paure di Lisa rivelandole i

suoi sospetti, ma quel percorso al buio innervosiva anche

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lei. A ogni passo, il tunnel sembrava diventare sempre più

stretto, soffocante. Percorso un quarto del passaggio,

avvertì l'orribile sensazione di non essere più sola con sua

sorella. Un attimo dopo, scoprì che qualcosa si muoveva

nella zona più scura, sotto il tetto, due o tre metri sopra

di lei. Non capì esattamente in che modo se ne accorse.

Udiva solo i propri passi e quelli di Lisa; non vedeva quasi

niente. Ma avvertì di colpo una presenza ostile, e alzò gli

occhi sul soffitto buio, e fu sicura che le tenebre

stessero... cambiando.

Scivolavano. Si muovevano. Su, fra le travi."

"Sul bancone da lavoro, nel mezzo della parte in marmo,

c'era un disco di pasta. Sulla pasta c'era una mattarello.

Due mani stringevano le estremità del mattarello. Due

mani umane, recise.

Lisa indietreggiò, andò a sbattere violentemente contro un

armadio di metallo. - Cosa sta succedendo? Cosa sta

succedendo?

Jenny si avvicinò al bancone, scrutò le mani con un insieme

di disgusto e incredulità: e con un terrore che non

concedeva più tregue. La mani non erano gonfie o contuse.

Possedevano ancora il colore normale della pelle, appena

venato di grigio. Il sangue (per la prima volta vedeva il

sangue) aveva tracciato una scia rossa di rivoli e goccioline

che dai polsi scendevano a macchiare il bianco della

farina."

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- Pensavo che il mondo cominciasse e finisse al cancello

della fattoria, ed ero incline a diffidare di tutto il resto.

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Ma l'assedio si faceva prepotente: nelle notti di pioggia

erano le luci della città a sostituire il cielo. Bisognava

difenderci, bisognava salvare la nostra valle, a qualunque

costo, pensavamo... e così abbiamo deciso... - Gettò

un'occhiata a sua madre.

- Abbiamo deciso di innalzare sulla fattoria quello che

chiamavano un "cono di potere" - spiegò Winter, con voce

tranquilla.

- Saremmo ancora rimaste visibili, ma per così dire non

osservabili: la città avrebbe saputo che c'eravamo, ma

sarebbe passata oltre. Una tale condizione, tuttavia, è

assai difficile da creare e ancor più difficile da

mantenere. Ci occorreva una terza strega.

Myriam si sporse dalla poltrona, come in atteggiamento di

supplica: - Si lavora meglio come trio, capisci, poiché

vengono rappresentati i tre aspetti femminili.

- Io ero la vecchia - disse Winter.

- E io sarei stata la madre, e mia figlia la fanciulla.

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"Chi erano davvero le streghe? Donne che, dopo aver

venduto l'anima al Diavolo, si servivano del proprio potere

per fare del male, oppure guaritrici, depositarie di una

sapienza tramandata di madre in figlia? Questo

incantevole romanzo, ambientato nell'Inghilterra del '600,

racconta la storia avvincente e tenebrosa di Issy, una

ragazzina alle prese con il lato oscuro della stregoneria,

ma anche con quello più benigno e luminoso. Tra crudeli

pregiudizi, Sabba notturni, cacciatori di streghe, segreti

ed intrighi, Issy riuscirà finalmente a trovare se stessa e

a scoprire verità ignorate, mentre le fiamme del rogo si

accendono ancora una volta, minacciose, per inghiottire una

nuova vittima."

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Si faceva un gran parlare di Dio, ma quel che veramente

temevamo era il Diavolo. Le streghe vivevano nei villaggi e

nelle fattorie. Di notte, quando si radunavano per adorarlo,

Satana sorgeva dall'Inferno e camminava fra noi, nei

campi, nelle brughiere. Poteva capitarvi, per strada, di

sfiorare un uomo che l'aveva baciato solo poche ore prima.

Una volta certi ragazzi mi mostrarono un segno sulla

collina di Pendle, dove sostenevano che il Diavolo fosse

solito andare a passeggio; era l'impronta di uno zoccolo,

simile a quello d'una mucca, ma molto più grande. Pochi

metri dopo c'erano i resti d'un fuoco. I ragazzi mi

chiesero com'era il Diavolo, e dove mi aveva baciato. E

quando dissi che non l'aveva mai fatto, non vollero

credermi.

"Issy la bruciata!", mi schernì uno di loro. Così, mi

chiamavano. Però non osarono toccarmi.

"Non è stata colpa mia", mormorai. "è successo e basta."

"Tu hai grandi doni, Issy. Devi solo imparare a controllarli."

"Non ho fatto niente..."

"Mi hai salvato la vita."

"Non sono stata io, il cavallo è inciampato, è caduto, era

spaventata", balbettai. Ma era inutile. Non riuscivo a

convincere me stessa. "Ho visto il fuoco... Il fuoco del

sogno", aggiunsi.

"Era lì tutto il tempo."

Di nuovo Iohan annuì: "Quel fuoco è la chiave della tua

forza, Issy. E continua a mettersi fra te e i tuoi talenti

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che Dio ti ha donato."

"Allora è vero... Sono una strega, proprio come dicono

loro."

Iohan sbuffò.

"Che cos'è una strega? Una che dissotterra cadaveri e

ammazza i neonati per farne unguenti, e getta il malocchio

sulla gente onesta perché non le obbedisce? Tu non fai

niente del genere, mi pare."

"Però posso fare altre cose... E tu... Il parroco ha detto

che sei una strega... che lo sanno tutti."

"Tu credi che io sia una strega?"

"Non lo so!"

"Chi è una strega? Dimmelo."

Conoscevo la risposta.

"Qualcuno che ha venduto l'anima al Diavolo."

"Allora ti garantisco che non sono una di loro, mai stata e

mai sarò... e neppure tu, qualunque cosa dicano gli

ignoranti. Non ho niente a che spartire col Diavolo, niente

a che spartire col male."

Era chiaro che mi consideravano uno di loro. Possedevo gli

stessi loro doni, i doni del dio che adoravano, doni di

guarigione e di malattia, di visione e di premonizione.

"In essi non c'è nulla di buono o di cattivo", mi spiegò

Iohan. "Così come si può condurre una vita buona o cattiva,

tu puoi usare i tuoi poteri per fare del bene o del male."

(...) Quella notte andai a letto con la mente in subbuglio.

Qualcuno si sbagliava, o era stato ingannato. Il parroco

Holden... Iohan? Non avevo modo di saperlo.

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"La Signore dalle Camelie"

di Alexandre Dumas

Alle cinque del mattino, quando l'alba cominciava ad

apparire dietro le tendine, Margherita disse:

"Scusa se ti mando via, ma è necessario. Il duca viene

tutte le mattine; quando verrà gli diranno che dormo;

forse aspetterà che mi svegli."

Presi fra le mani la testa di Margherita le cui spalle erano

inondate dai capelli sciolti, e le detti un ultimo bacio,

dicendo:

"Quando ti rivedrò?"

"Senti", rispose, "Prendi la chiavetta dorata che è sul

caminetto, vai ad aprire quella porta, metti la chiave al suo

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posto e vattene. In giornata riceverai una lettera con i

miei ordini; ricordati che mi devi obbedire ciecamente."

"Sì, e se già ti domandassi qualcosa?"

"Che cosa?"

"Che tu mi lasciassi quella chiave?"

"Mi chiedi ciò che non ho mai fatto per nessuno."

"Bhè fallo per me, perchè ti giuro che io non ti amo come ti

amavano gli altri."

"Va bene, tienila pure; ma ti avverto che sta in me far sì

che quella chiave non serva a niente."

"Perchè?"

"C'è un catenaccio all'interno della porta."

"Cattiva!"

"Lo farò togliere."

"Dunque, mi ami un poco?"

"Non so come mai, ma mi sembra di sì. Adesso, vattene;

casco dal sonno."

Rimanemmo per qualche secondo nelle braccia l'uno

dell'altra; poi me ne andai.

Le strade erano deserte, la grande città dormiva ancora,

una dolce frescura inondava i quartieri che il rumore degli

uomini avrebbe invaso dopo qualche ora.

Mi sembrava che quella città addormentata fosse mia;

cercavo nel ricordo i nomi di coloro ai quali fino allora

avevo invidiato la felicità; e tutti quelli che ricordavo mi

confermavano che nessuno era stato felice quanto lo ero

io.

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Da "La Contessa Nera" di Rebecca Johns

Un libro, che sotto forma di romanzo biografico, si

addentra nella vita e nella psiche di Erzsébet Bàthory,

soffermandosi anche nell'analisi della situazione socio-

politica dell'Ungheria del 1600, e della famiglia reale di

Erzsébet.

"Madre. Amante. Strega. Assassina. A volte il male è

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l'unico modo per difendersi."

"Era una dolce mattina brumosa di giugno e le grigie mura

in pietra degli spalti merlati erano cosparsi di licheni verdi

e tralci di edera in fiore. Una sottile nebbiolina bianca si

librava sul castello e sul ponte di legno che collegava la

fortezza con l'esterno. Gli ospiti non erano ancora partiti

e alcuni, ruzzolati sull'erba del giardino durante la notte,

si erano persino sistemati a gruppetti di due o tre a

dormire qua e là, avvolti nei mantelli. Mi nascosi dietro le

siepi di tasso per non farmi vedere, dirigendomi verso

l'ingresso principale del castello interno e oltrepassai il

ponte di legno sulla palude. Lì il sole fece capolino e

illuminò le canne di una luce dorata, mentre gli aironi si

muovevano silenziosi sulle loro gambe sottili in cerca di

pesci e rane, e gli insetti si levavano in volo al mio arrivo.

Alla fine raggiunsi le mura più esterne e di lì la strada che

conduceva oltre la palude in un declivio erboso. Un

boschetto di biancospini nascondeva parzialmente la vista

della pianura, ma l'odore penetrante del fango e delle

canne, l'aroma fertile della terra ancora intatta

permeavano ogni cosa."

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Novalis: "Inni Spirituali"

"Poichè in segreto ero infermo, stavo sempre in lacrime,

con il cuore lontano e restavo soltanto per l'angoscia e

l'errore. Come dall'alto mi fu di colpo tolta la lastra dal

sepolcro e fu dischiuso il mio intimo cuore. Vi sono tempi di

tale angoscia, vi è un animo così tetro quando ogni cosa

mostra da lontano un volto da spettro. Qui strisciano

sfrenati terrori, piano, carichi d'ansia, e opprimono

profonde notti con greve peso l'anima."

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Ray Bradbury "Ritornati dalla polvere" (2000)

E il vento cominciò. Spazzava il mondo come una gran

bestia invisibile che la terra sentì arrivare nella stagione

del lutto e dei lamenti, oscura celebrazione di cose che

trascinava con sé per disperderle... Vento di mare e onde

sibilanti rubavano la polvere che si posa sulle tombe, negli

occhi degli angeli di pietra, vuotandole di carne spettrale.

S'impadronivano di ornamenti funebri senza nome,

scuotevano gli alberi druidici, gettavano le foglie al cielo...

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Quando Timothy si sporse a guardare, autentica chimera

di carne e sangue, la grande armata di polvere sepolcrale,

di ragnatele, ali, foglie ottobrine e fiori di cimitero scese

sui tetti, mentre intorno alla collina ombre di altre

creature attraversavano la strada... ululando alla Luna.

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