Upload
independent
View
1
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
ANNAMARIA CARREGA
STORIE DI NOMI, PSEUDONIMI E MANTELLI.
FATE, ANIMALI E FANCIULLE PERSEGUITATE.
Una folla senza nome si accalca di fronte all’ospizio di Orléans
in attesa di ricevere la carità. Colui che sovrintende alla
distribuzione delle elemosine controlla che tra i postulanti non
vi sia alcun intruso, quando ai suoi occhi si disegna una strana
figura: si tratta di una giovane donna interamente avviluppata in
un mantello foderato di pelle animale e dotato di un cappuccio
che, accuratamente abbassato, ne dissimula il volto:
Molt est de simple contenance;Au plus qu’ele puet se tient close;
En hault lever sa chiere n’oseQu’aucun sa biauté ne veïstQu aucun ennuy li feïst. 1
L’anomalia introdotta nel contesto da tale presenza esercita
sull’elemosiniere, insieme alla diffidenza, un’incoercibile forza
d’attrazione. Interroga senza esitare la fanciulla sulle ragioni
di tale travestimento e la esorta a dichiarare la propria origine
e la propria provenienza:
Vint a celle qui se muce.Qu’est ce? – fet il -; as tu aumuce?
Tu par ez trop envelopee;Lieve la chiere. Ou fuz tu nee?2
1 JEHAN MAILLART, Le Roman du Comte d’Anjou, a. c. di Mario Roques,Paris, Champion 1974, p. 141, vv. 4634-38.2 Ivi, P. 142, VV. 4643-46.
1
Di fronte all’elusiva risposta
Sire – fet elle -, ne vous chaille.Je sui povre fame sanz faille3
con un gesto che appare deciso quanto obbligato, l’uomo le solleva
il cappuccio disvelandone, letteralmente, le sembianze: quella che
appare è una bellezza che soggioga, subito percepita come “spia”
di una natura e di una condizione che mal si conciliano con lo
statuto di mendicante che la fanciulla esibisce e rivendica.
L’episodio appartiene al Roman du Comte d’Anjou di Jean Maillart,
datato all’inizio del XIV secolo ed ambientato in un tempo di poco
precedente a quello in cui visse l’autore. La figura femminile è
quella della nobile protagonista, emblema di una virtù insidiata
che, al fine di preservarsi, non esita ad affrontare una nutrita
serie di mortificazioni e di rinunce. Occultare quella bellezza
che è stata la causa di reiterate sciagure è lo scopo dichiarato
del suo camuffamento.
Il passaggio su cui ci siamo soffermati, proprio in
virtù dell’apparente gratuità rispetto allo svolgimento della
vicenda e proprio perché difficilmente riducibile alla logica
interna all’intreccio, produce una sensazione “disturbante”. Sulla
figura dell’elemosiniere irretito fra sospetto ed attrazione
sembra proiettarsi la sensazione di straniamento che si impossessa
dell’accorto lettore di fronte a questa sorta di intrusione
immotivata all’interno del tessuto narrativo: si ha l’impressione
di trovarsi di fronte ad un residuo o forse, ma non è detto che le
3 .Ibid., VV. 4647-48.2
due cose si escludano, ad un segnale. In ogni caso in presenza di
una traccia.
Non a caso, gli studiosi che si sono anche recentemente cimentati
con il testo hanno cercato di ricondurre l’apparente gratuità
dell’episodio alla logica interna dell’intreccio, dimostrandone la
funzionalità a partire da categorie che potrebbero risultare
pienamente convincenti solo quando filtrate attraverso un’ottica e
alla luce di riferimenti più complessi e non sempre rassicuranti.
È ciò che qui tenteremo, sia pure sommariamente, di recuperare. 4
In effetti, colpisce, in questo esile frammento di testo, lo
straordinario accumulo di dettagli tanto più curiosi quanto più
strutturalmente privi di vera e propria necessità:
1. percezione dell’abito come travestimento e funzione
difensiva attribuitagli da colei che lo indossa
2. dialettica di dissimulazione e di svelamento che tale
travestimento comporta
4 CATHERINE ROLLIER-PAULIAN, L’esthétique de Jean Maillart. De la courtoisie au souci del’humaine condition dans Le Roman du Comte d’Anjou, Orléans, Paradigme2007, p. 194 n. 19, ritiene che il mantello dell’eroina possarecuperare una funzione narrativa, nonostante l’apparente gratuitàrispetto al contesto, in quanto «indice de reconnaisance»; secondola studiosa, infatti, «la scène où l’aumônier distingue l’héroïnedu reste des mendians est le prélude à la vraie scène dereconnaisance, celle où elle va révelér son identité à son oncle.Cette première scène permettra la seconde et sourtout elle seconstruit suivant le même schéma: signal d’alerte chez ledétenteur momentané de l’autorité, enquête, interrogatoire,transformation du statut de l’héroïne». Tuttavia, non è possibileignorare che «si l’héroïne ne s’était pas camouflée, sa beautél’aurait aussitôt trahie. Ainsi le manteau n’est qu’un détailinduisant un certain retard dans le rouage de la reconnaisance quiaurait eu lieu de toute manière. Son caractère fonctionnel n’estdonc pas de grande importance: il ne fait que maintenir un peuplus longtemps le suspense narratif».
3
3. rifiuto della protagonista di dichiarare le proprie origini e
la propria identità
4. incoercibile forza seduttiva che si sprigiona dalla sua
bellezza, accentuata dall’alone di mistero che la ammanta
Un salto in avanti di quasi quattro secoli ci allontana
dallo spazio romanzesco per proiettarci su quello, per certi versi
contiguo, della fiaba. Ci si fa incontro un’altra “strana figura”
che, avvolta in un mantello di origine palesemente animale,
cammina solitaria alla ricerca di occupazione e di ospitalità.
Ancora una nobile fanciulla in fuga, ancora un mantello che ne
travisa le mirabili sembianze, causa ed origine di tutte le sue
sventure, ancora la condanna ad una condizione di marginalità. Ma
non si tratta più, come nel primo caso, di un “incidente
narrativo”, di una parentesi aperta e subito chiusa. Quest’abito,
lungi dal porsi come accessorio occasionale e momentaneo, è ciò
che conferisce a colei che lo indossa uno statuto durevole, è ciò
che letteralmente la “incorpora” e la confina, nella
considerazione comune, in uno spazio che ospita la categoria
dell’indifferenziato e, insieme, quella della differenza
irriducibile. La protagonista di questa storia si trasforma, per
così dire, nel proprio abito: il mantello animale che disegna con
il suo corpo una sorta d’interazione metamorfica, è ciò che la
individua, la distingue e la isola. L’abito si fa corpo ma,
soprattutto, il corpo si fa “nome”: la sventurata protagonista
della fiaba di Perrault, per tutti, anche per il principe che ne
scoprirà il reale incantevole aspetto e si ammalerà d’amore per
lei, sarà Peau d’Âne, Pelle- d’Asino.
4
Ma per comprendere più a fondo il senso della sequenza
abito-corpo-nome, con la rilevanza da essa assunta all’interno
della dinamica testuale, si rende necessaria una pur breve
digressione sulle particolari connotazioni simboliche che la
tradizione folklorica assegna a capi d’abbigliamento quali
cappucci e mantelli. Studi condotti sulla scorta di testimonianze
risalenti ai secoli XIII e XIV attestano come il possesso e l’uso
di tali accessori e capi di vestiario siano indizi non
occasionali di un rapporto privilegiato con la dimensione preter-
naturale, prerogativa di quegli esseri che, a vario titolo, si
situano lungo la linea, talora sfrangiata e indistinta, che fa
comunicare il mondo umano con un “altrove” dai contorni sfuggenti
e non direttamente identificabili con l’aldilà cristiano. Infatti
«il potere di conferire invisibilità, idealmente accordato, in
molte culture a […] cappucci e mantelli […], comporta sottrazione
di identità», ma consente il simultaneo manifestarsi «di
un’identità “altra” che ha cittadinanza non solo nello spazio
mitico, ma anche, verosimilmente, in quello rituale».5 Anche per
questo, la condizione di marginalità e di miseria cui non di rado
soggiacciono coloro che indossano il cappuccio agisce come “indice
di riconoscimento” e veicolo di significati supplementari. Tutto
ciò consente indubbiamente di collocare la funzione segnica di
mantelli e cappucci nell’ambito di un più generale simbolismo
della maschera, della larva, intesa nella sua duplice accezione di
“maschera”, appunto, e di revenant; a questo proposito, basti
pensare, per citare un esempio appartenente al folklore germanico,
che l’hellekeppelin, dotato del potere di conferire forza sovrumana e5 SONIA MAURA BARILLARI, Il cappuccio e l’hurepiaus. Materiali per uno studio dellessico della maschera nel medioevo, “L’immagine riflessa”, IX (2000), 1-2, pp. 19-39 ( in part. pp. 24-26).
5
invisibilità, è precisamente il cappuccio di Hellequin, figura
paradigmaticamente deputata a destabilizzare la frontiera fra il
mondo dei vivi e quello dei trapassati. Inoltre, occorrerà
ricordare come fra gli attributi ricorrenti di cappucci e mantelli
siano proprio la consistenza e l’origine animale. Fatta salva in
ogni caso la ratio carnevalesca delle maschere zoomorfe, con la rete
di richiami simbolici ad esse accreditati nel folklore medievale e
non solo, molti elementi ci inducono a cogliere nelle nostre
storie di virtù perseguitata il riverbero di un’altra vicenda che,
assai attiva e persistente nell’immaginario collettivo, declina
precisamente al femminile il tema della duplicità, ovvero della
contemporanea appartenenza a due nature e a due mondi di norma
ritenuti come non compatibili e non comunicanti.
Un episodio riportato da Gautier Map nel De Nugis Curialium (1181-
1193) si rivela illuminante nella sua enigmaticità:
Videt eam igitur summa mane die dominica egresso ad ecclesiam Hennone,balneum ingressam, et de pulcherrima muliere draconem fieri, et in modicoexilientem a balneo in pallium novum quod ei puella straverat et inminutissima frusta dentibus illud concidentem, et inde in propriamreverti formam.6
La storia di Henno cum dentibus narra del matrimonio, allietato
peraltro da una ricca prole, fra un giovane aristocratico e una
misteriosa, anonima fanciulla di eccezionale eleganza e di
ineguagliata bellezza, incontrata in una foresta non lontana dal
mare. La madre di Henno, insospettita perché la nuora evita inizio
e fine delle funzioni religiose, sottraendosi così all’aspersione
dell’acqua benedetta e all’eucarestia, decide di spiarla
6 GAUTIER MAP, De Nugis Curialium, Oxford, éd. Montagne Rhode James, TheClarendon Press (Anectoda Oxoniensa n°. 14) 1914, IV, 9, p. 175.
6
attraverso un foro praticato nella parete della sua stanza.7 Nel
passo riportato è ripreso il momento in cui la donna vede la
fanciulla trasformarsi, a contatto con l’acqua, in un non meglio
definito draco per riprendere le proprie umane sembianze soltanto
dopo aver sminuzzato con i denti un mantello nuovo. Siamo di
fronte alla più antica attestazione scritta di quella tradizione
melusiniana che, com’è noto, riceverà la più autorevole
consacrazione letteraria fra la fine del XIV e l’inizio del XV
secolo ad opera, rispettivamente, di Jean d’Arras e di Coudrette.8
La presenza del mantello e/o del cappuccio, in relazione al
meccanismo di occultamento-rivelazione di un’identità e di una
natura inconfessabili, accanto ad una configurazione di costanti,
pur variamente organizzate e relazionate nei diversi testi e alla
luce dei differenti generi espressivi, fanno intuire, dietro i
profili femminili al centro delle nostre storie, altrettante
creature appartenenti ad un altrove all’interno del quale la
componente umana appare frammista con quella zoomorfa, quando non
interamente assorbita nella dimensione del mostruoso e del
terrifico. I due testi sin qui presi in considerazione, ubbidendo
7 Nelle successive elaborazioni letterarie della vicenda, ilmedesimo artificio consentirà allo sposo in persona di scoprire ilmostruoso aspetto di Mélusine. È peraltro degno di nota che nellaversione fiabesca di Perrault, il principe-cacciatore, proprio conmodalità simili, abbia il suo primo “incontro” con Pelle-d’Asino,contemplandola nascostamente nelle sue segrete, incantevolisembianze. Nella fiaba si compie, infatti, una sorta di inversionefra ciò che è esteriormente percepibile e ciò che deve restaresegreto, in una contro-metamorfosi che, proprio come nel caso diMélusine, avviene all’insaputa di tutti nei giorni conclusividella settimana.8 JEHAN D’ARRAS, Mélusine, Dijon, éd. Louis Stouff 1932 (Genève, Slatkine 1974). COUDRETTE, Le roman de Mélusine ou Histoire de Lusignan, Paris, Klincksieck 1982.
7
rispettivamente alle convenzioni del romanzesco e a quelle proprie
della fiaba letteraria, organizzano due differenti modalità di
“normalizzazione” e di “razionalizzazione” di un intreccio arcaico
e non “logicamente” riducibile, di uno scenario inquietante che
vede l’intromissione, nei confini del mondo familiare e
conosciuto, di una donna dalla natura non umana, o non
completamente umana, i cui poteri incontrollabili, indice di
un’origine oscura, spesso si accompagnano a tratti che ne
tradiscono l’appartenenza alla dimensione animale.9
Tra gli artifici narrativi che selezionano,
riposizionandoli e ricombinandoli, gli elementi dell’intreccio
originario, un ruolo tutt’altro che marginale è ricoperto dalla
componente onomastica: è possibile affermare che proprio
attraverso la lente, non di rado deformante, di un nome proprio,
di una designazione che agisca in sua vece, quando non di una sua
ingombrante assenza, il testo suggerisce il proprio grado di
“distanziamento” da un sostrato ineludibile, lo cela e lo evoca,
lo fa regredire o lo attualizza.
Lo schermo offerto dall’opzione per il “meraviglioso”, sottraendo
il testo all’imperativo della verosimiglianza, permette alla
narrativa fiabesca di raggiungere un grado di trasparenza
decisamente più marcato rispetto a quello compatibile con la
convenzione romanzesca. Per questa ragione riteniamo che dalla
9 Di notevole interesse, rispetto alle possibili modalità assuntedal rapporto fra l’animale e la “donna della foresta”, attestatedalla tradizione folklorica e dalla letteratura che ad essa fariferimento è la messe di informazioni contenute nello studio diCARLO DONÀ, Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del viaggio,Catanzaro, Rubettino Editore 2003, in part. il capitolo intitolatoLa caccia amorosa, pp. 415-521.
8
fiaba letteraria convenga partire, consapevoli delle asperità e
delle insidie di un percorso a ritroso.
Nella fiaba di Perrault un abito si fa corpo e un
abito-corpo si fa nome. Si tratta, in realtà, di un non-nome, di
una designazione che, negando la dignità di un antroponimo al
soggetto cui è riferita, relega quest’ultimo lungo la linea di
demarcazione che distingue l’umano dall’altro da sé ed agisce come
marchio di una diversità inquietante. La designazione onomastica
“copre”, traveste e segnala la stessa impossibilità del nome, ma
al contempo agisce come chiave d’accesso a quella stessa oscurità
che lo rende impossibile.
Nel significante Pelle-d’Asino si insinua la possibilità di un
interdetto che grava sul vero nome della protagonista, nome
ignoto, destinato a rimanere tale anche dopo la fausta conclusione
della vicenda che la vede convolare a nozze con il principe. Come
si evince dalla ricca documentazione prodotta, fra gli altri, da
Laurence Harf-Lancner, è proprio delle creature fatate, nel
momento in cui cercano di integrarsi nella comunità umana,
l’obbligo di celare il proprio nome, perché in esso è custodito il
segreto, che deve essere rigorosamente preservato, dell’origine
soprannaturale. 10 Allo stesso modo, la creatura fatata deve
sottostare ad un processo di metamorfosi-sdoppiamento che la
designazione onomastica, come nel caso specifico della fiaba di
Perrault , può ritrarre nel suo svolgimento, nel suo dinamismo,
con l’irrompere di un elemento decisivo di quell’animalità non di
rado legata ad una simbologia ipoctonia, della quale la fata
potrebbe in ogni momento riappropriarsi o dalla quale potrebbe
10 LAURENCE HARF-LANCNER, Les fées au Moyen Âge. Morgane et Mélusine. Lanaissance des fées, Paris, Librairie Honoré Champion 1984.
9
essere definitivamente posseduta. Inoltre, non è possibile
ignorare come la denominazione Pelle-d’Asino non faccia che
riproporre e reiterare quella logica metonimica che, come ha
sottilmente dimostrato Karin Ueltschii nel suo studio condotto sui
mitemi legati al tema della “fanciulla perseguitata” «rend en
effet compte plus largement du fonctionnement de la mémoire
mythique et de son évolution, qui passe par des fragmentations
puis des fusions nouvelles, ce qui dote précisément les motivs
mythiques de leur vitalité, de leur constante actualité et de leur
pérennité, tout en les rendant, à travers ces chaînes de
dislocation et de recomposition, de plus en plus complexes à
décrypter»11.
Nella fiaba di Perrault il corpo della protagonista appare
costituito a partire da un altro corpo o, più precisamente, da una
parte di quest’ultimo, e proprio nella designazione onomastica la
logica metonimica si estrinseca nella sua forma più compiuta:
nell’attimo in cui la protagonista viene individuata come Pelle-
d’Asino, la sua natura di metonimia o, meglio, di sineddoche
vivente, la sua essenza ibrida e insieme frammentata e parziale,
vengono sancite ed assunte in luogo di totalità. Il significante
Pelle-d’Asino convoglia un fascio di suggestioni che evocano il
tema della metamorfosi, del doppio, del sacrificio: l’animale la
cui pelle diventa parte costitutiva del corpo-nome del
personaggio, è un asino già dotato di magici poteri, un animale
fatato che, proprio su richiesta della fanciulla sarebbe stato
immolato. L’elemento onomastico, celando e rivelando insieme la
reale natura di colei alla quale è unanimemente associato, così
11 KARIN UELTSCHI, La main coupée. Métonymie et mémoire mythique, Paris,Champion 2010, p. 12.
10
come il manto animale che ne travisa il vero aspetto, ne
suggerisce altresì il legame con una dimensione “altra”,
evocatrice di intrecci mitico-rituali. In altre parole, il
compromesso metonimico, che il “nome” ribadisce e potenzia, fa
sopravvivere, adombrandola, la natura teriomorfa dell’eroina, la
sua inconfessabile ma ineludibile appartenenza ad una dimensione
non-umana.
Gli elementi sin qui evidenziati ci consentono di assegnare alla
protagonista della fiaba di Perrault uno statuto che va ben oltre
quello che la “lettera” ci consegna, ovvero quello di vittima
passiva in balia di forze soverchianti ed esclusivamente intesa a
sottrarre la propria virtù insidiata ad inconfessabili, ma
senz’altro terreni destini.
Sotto il ruolo e la sembianza di fanciulla
perseguitata, l’eroina della fiaba di Perrault sembra celare ben
altra natura: quella di un essere sospeso fra l’al di qua e un al
di là dai connotati sfuggenti cosicché risulterà inevitabile
invocare l’ascendenza ferica dell’intreccio, annoverando Pelle-
d’Asino alla ricca e variegata famiglia di creature soprannaturali
discendenti dall’archetipo Melusine, la cui pervasiva suggestione
si estende oltre i confini della letteratura medievale
propriamente fantastica.
Su questa doppia polarità, puntualmente rinvenibile
nelle protagoniste femminili delle fiabe riconducibili al tipo AT
510 B, non manca di esercitare il proprio ruolo determinante il
rapporto con la sfera animale: ora in termini di contiguità
metonimica, altrove, con maggior trasparenza rispetto
all’intreccio archetipico, come sia pure momentanea
identificazione, in altri casi, più velatamente, in forma di
11
sbiadita e residuale affinità sentimentale. È comunque
significativo che, in relazione al diverso grado di accentuazione
di specifici elementi, e agli eventuali meccanismi di selezione ed
omissione, un ruolo coerente e non occasionale venga assegnato
alla designazione onomastica a dimostrazione della rilevanza che
quest’ultima ricopre nella costituzione del testo e della sua
specifica fisionomia. Due esempi, assunti qui come campioni, al di
fuori di ogni pretesa di esaustività e senza voler sfiorare la
vexata quaestio relativa ai legami di parentela o di derivazione fra i
testi,12 sono senz’altro offerti dalla nota fiaba di Giambattista
Basile e da quella presente nella raccolta di Jacob e Wilhem
Grimm.13 Nella prima, accreditata peraltro come più antica
articolazione scritta dello schema Pelle-d’Asino, l’omissione del
tema del sacrificio animale, momento culminante della serie di
prove con cui la protagonista tenta di solito di neutralizzare le
inconfessabili brame paterne, consente di “scavalcare” il
compromesso metonimico del travestimento in favore della
dichiarata assunzione metamorfica delle fattezze di un’orsa. Con
lo zoonimo che dà il titolo alla fiaba l’eroina verrà indicata ed
appellata a partire dal momento in cui, deposte le originarie
sembianze, e sottrattasi alla persecuzione paterna, entrerà a far
parte dello scenario che comprende, oltre al principe-cacciatore
che vorrà accoglierla presso di sé, anche altri personaggi12 Si veda, in particolare, a proposito dei rapporti fra Pelle d’Asinodi Perrault e la presunta fonte rappresentata dalla fiaba diBasile, L’orsa, MARC SORIANO, I racconti di Perrault, trad. it, di A.Talamonti,Palermo, Sellerio 2000.13 GIAMBATTISTA BASILE, L’orsa, Racconti di orchi, di fate, di streghe. La fiabaletteraria in Italia, a.c. di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori 2008, pp.216-231. Jacob e Wilhelm Grimm, Fiabe, trad. it. Pref. di GiuseppeCocchiara, trad. it. di Clara Bovero, Torino,Einaudi 1992, pp.245-248.
12
inevitabilmente attratti dalla sua mitezza e dalla sua
intelligenza. È evidente, tuttavia, come il termine “orsa” non
assuma, tuttavia, il carattere di vera e propria designazione
onomastica; come indica peraltro l’iniziale minuscola con la quale
compare senza eccezioni nel testo e nel titolo, esso agisce
piuttosto come “trasparente” rinvio alla presunta appartenenza ad
una specie, ad un’entità animale la cui fortuna simbolica, sul
piano antropologico e culturale, si deve proprio alla pericolosa e
inquietante affinità con l’elemento umano. Se, in apparenza, la
fiaba di Basile affronta più direttamente e senza veli il tema
della metamorfosi, senza il ripiego verso artifici e allusioni di
tipo metonimico, è pur vero che ciò è reso possibile dal registro
giocoso e ironicamente distanziante che regola l’intero congegno
narrativo e ne definisce orizzonte culturale e finalità
comunicativa. Ed è esclusivamente a tale registro che si deve la
possibilità di alludere ad uno dei temi più scabrosi riverberati
dall’intreccio archetipico, vale a dire quello di un possibile
rapporto erotico fra l’animale e il protagonista maschile della
storia. In realtà, il nucleo centrale della vicenda sembra
ritagliare all’interno della cornice propriamente narrativa, una
sorta di spazio ludico-carnevalesco, all’interno del quale il
ruolo principale, illusionistico ed ingannevole, è affidato
proprio alla maschera-orsa; tutto ciò, beninteso, sotto lo sguardo
consapevole e compiaciuto di un pubblico, che fin dall’inizio è
stato messo al corrente della verità, poiché del personaggio che
si nasconde sotto la «tela di questa pelle setolosa» egli conosce
la precedente, autentica natura, la stessa che il nome proprio,
Preziosa, con le sue ovvie e scontate connotazioni, garantisce e
ammanta di attribuzioni superlative. La parvenza animale, si offre
13
pertanto al lettore con i tratti rassicuranti di una condizione
mendace e provvisoria, e il significante orsa sarà suscettibile,
sin dal titolo della fiaba, di una lettura furbescamente
antifrastica: l’orsa è in realtà, la non-orsa, è colei che
ingannevolmente si mostra come tale. La sua natura animale è solo
presunta, effetto di una sorta di travestimento, all’insegna del
ribaltamento carnevalesco.
Più prossimo al procedimento impiegato nella fiaba di Perrault,
anche se ad esso non perfettamente sovrapponibile, è quello attivo
nel testo dei fratelli Grimm Allerleirauh, termine che, soggetto a
vari e non del tutto efficaci tentativi di traduzione in lingue
differenti dall’originale, “denomina” la protagonista ascrivendone
il variegato e composito aspetto, ad una dimensione ritenuta
incontrovertibilmente animale. In questo caso, la principessa
perseguitata dalle incestuose mire paterne chiede a quest’ultimo,
oltre ai tre canonici preziosi abiti, anche «un mantello fatto con
pellicce d’ogni sorta» al quale deve contribuire ogni animale del
regno. Ottenuto e indossato questo mantello, essa viene scambiata
per una «bestiola irsuta» dal principe-cacciatore che puntualmente
la incontra nella foresta e che per primo la designa con il
termine che dà il titolo al racconto. Tale designazione onomastica
conserva inalterati i legami, già evidenziati nel caso di Pelle-
d’Asino, con la dimensione del sacrificio, dello sdoppiamento
antropo-zoomorfo nonché della metamorfosi, ma in essa si manifesta
in forma, se possibile ancora più accentuata, il problematico
rapporto fra il tutto e le singole parti che lo compongono. Nel
“nome” Allerleirauh viene preservato quello che abbiamo indicato come
compromesso metonimico che consente alla fusione fra le due nature
di sfumare in una “semplice” sia pure inquietante contiguità;
14
ancora una volta, inoltre, la denominazione attribuita al
personaggio, concorre a tracciare intorno a quest’ultimo il
profilo della sineddoche. Tuttavia, nel momento in cui l’atto
sacrificale si sottrae ai caratteri di un’unicità irripetibile,
legata alla dichiarata sacralità di un singolo essere (l’asino
fatato nel caso di Perrault), per estendersi all’intero universo
animale, ciò che si impone proprio in virtù dell’indicazione
onomastica, è l’immagine ossimorica di una totalità frammentata e
ibrida, costituita sulla ricucitura di ciò che sopravvive delle
sue singole originarie componenti.
Il percorso a ritroso che abbiamo scelto di
intraprendere, ci riconduce dalla letteratura fiabesca al romanzo
medievale; ma prima di riapprodare a quello da cui siamo partiti,
è necessaria una riflessione preliminare su di un testo,
ascrivibile allo stesso genere, risalente alla fine del secolo
XIII, considerato il primo esempio in area francese di trattazione
letteraria del tema della virtù insidiata. Si tratta del romanzo
di Philippe de Rémi che fin dal titolo, La Manekine,14 dichiara la
rilevanza assunta in tale contesto narrativo dall’elemento
onomastico. Anche in questo caso non si tratta del vero nome della
protagonista, Joïe, peraltro reso noto all’inizio e “restituito”
con lo scioglimento conclusivo. Il termine con cui la protagonista
verrà designata, Manekine, suggerisce uno spettro di significati
riconducibili al tema del sacrificio, dell’espiazione e della
mancanza, ma anche a quello del doppio e, non ultimo, alla sfera
dell’animalità. Se il termine Manekine appare innanzitutto legato
alla forma piccarda manchot, ed è riferito alla menomazione, il14 PHILIPPE DE RÉMI, Le Roman de la Manekine, a.c. di Barbara N. Sargent-Baur, Alison Stones, Roger Middleton, Amsterdam-Atlanta, Rodopi1999.
15
taglio della mano che la fanciulla si è deliberatamente auto-
inflitta in seguito alla minaccia rappresentata da desiderio
incestuoso del padre15, è pur vero che anche in forza
dell’assonanza con mannequin, essa sembra aprire al tema del doppio
sostitutivo, puntualmente riscontrato nel testo attraverso
l’elemento del simulacro che viene arso al rogo in sua vece. Non
manca, infine, la suggestiva etimologia secondo la quale il
significante Manekine sarebbe «una forma modificata, forse sotto
l’impatto del motivo della mano tagliata, d’anekine, derivato da
ane/anette (piccola anatra)»16 incapsulando al proprio interno uno
zoonimo indicante il volatile più volte associato, anche sul piano
onomastico, a figure femminili avvolte da un alone sovrannaturale.
Tale denominazione evoca quindi, accanto al tema della deformità
della protagonista, anche quello di una sua natura teriomorfa,
tratti entrambi appartenenti alle creature fatate, richiamando
ancora una volta l’archetipo melusiniano. A questo proposito non
sarà superfluo ricordare come, sul piano dell’intreccio narrativo,
l’animale mitico che, in qualità custode della mano mancante,
intrattiene un rapporto metonimico con la protagonista sia proprio
un pesce, ovvero l’essere che, in concorrenza con il drago-
serpente, costituisce la componente animale del corpo della stessa
Melusine. Il nome fittizio della protagonista, prendendo il posto
del nome reale e provvisoriamente cancellandolo, non soltanto
individua l’originaria appartenenza ad una dimensione “altra” e
inquietante di colei che si vuole destinata ad incarnare un’idea15 Per ulteriori suggestive ipotesi relative al significato e allapossibile etimologia del termine Manekine, si rinvia a UELTSCHI, Lamain coupée…, cit., pp. 124-126.16 PHILIPPE WALTER, Mythologie chrétienne. Rites et mythes du Moyen Âge, Paris,Entente 1992, pp. 55-58 e ID., Artù, l’orso e il re, Roma, Arkeios 2005,pp. 83-91.
16
di perfezione femminile ricalcata sul modello della santità. Esso
funge da chiave di lettura di un testo che, attraverso il filtro
del procedimento metonimico, comunica il proprio legame con
strutture narrative e antropologiche arcaiche, e non rimuove
totalmente il proprio radicamento nel sostrato mitico, proprio
perché questo potrà rivelarsi suscettibile di un reimpiego in
funzione celebrativo-edificante, in sintonia con l’immaginario
cristiano. La conversione dal meraviglioso al miracoloso cristiano
avverrà precisamente all’insegna della “ricomposizione” lungo una
linea che contempla, come altrettanti momenti di un percorso
iniziatico, tutti i mitemi evocati dallo pseudonimo della
protagonista: non a caso, nel momento dello scioglimento finale,
il cerchio si chiuderà sul riaffiorare del suo vero nome e
sull’abbandono del simulacro onomastico.
Il Roman di Philippe de Rémi è ritenuto l’ipotesto del
racconto da cui siamo partiti e sul quale è il momento di
ritornare.
L’intreccio del Roman du Comte d’Anjou, ancora costruito attorno al
motivo della fanciulla perseguitata, libera quest’ultimo dai
legami con il meraviglioso pagano così come dagli effetti
spettacolarizzati e spettacolarizzanti del miracoloso cristiano;
l’opzione consapevole a favore di un cristianesimo pragmaticamente
tradotto in comportamenti concreti in rapporto ad un contesto
storicamente determinato e riconoscibile, preclude il ricorso
dichiarato alla dimensione fantastica, sia pure filtrata
attraverso un nuovo immaginario religioso. Le scelte operate
nell’intreccio indicano una decisa resistenza nei confronti del
sostrato mitico e delle strutture narrative arcaiche soggiacenti.
Tuttavia, alcuni indizi disseminati all’interno della narrazione
17
inducono a pensare, più che ad un effettivo superamento del
fantastico, ad una sua rimozione che, come tale, è fatta anche di
segnali, di spie, di ritorni.L’episodio riportato all’inizio, con
l’immagine dell’eroina camuffata da un cappuccio di cui è facile
intuire la provenienza animale, 17 sembra offrirne, se non l’unica,
certamente una delle attestazioni più esemplari. Ammesso che il
mantello dotato di cappuccio, dono di una dama che l’aveva
caritatevolmente accolta in precedenza, risulti concretamente
giustificato dal clima invernale, in altre parole sufficientemente
assimilato al tessuto realistico del racconto, ci si chiede: da
dove nascono il senso di straniamento e l’inquietudine che
inducono l’elemosiniere a chiedere: «Qu’est ce? […]; as tu
aumuche?» (v. 4644), e di seguito (v. 4646) «Lieve la chiere. Ou
fuz tu nee?». Proprio da tale abbigliamento sembra scaturire
l’effetto ipnotico che colpisce l’osservatore inducendolo a
rivolgere domande che suonano in realtà come prese d’atto, dal
sapore quasi rituale, della natura extra-umana di quella che può
essere definita come una vera e propria “apparizione”.18
Il testo di Jean Maillart, sorta di romanzo di
formazione in cui istanze realistiche e finalità moralizzatrici
vengono fatte sapientemente convergere, ha in questo episodio la17 MAILLART, Roman…, cit., p. 139, v. 4547, «pelichon», termineindicante un abito di tessuto foderato di pelliccia che, comerileva Roques, p. 290 «n’est pas nécessairement un vêtementriche». 18 Come osserva KARIN UELTSCHI, Une parole mythique, “L’immagineriflessa”, N.S. XIX (2010), p. 88, «Fondamentalement, la questionrituelle interrogerait donc sur la nature de la personne à quielle s’adresse […]. Elle est performance – son caractère figéjustement le souligne – dans la mesure où par sa seuleénonciation, elle cherche à démasquer les figures travesties, àfaire tomber le voile, et à livrer ainsi au mpnde leur savoirmythique concernant la condition de l’Autre Monde»
18
propria cifra più riposta: è come se il rimosso, rappresentato
dalle radici mitico-folkloriche da cui pure trae le proprie
condizioni di esistenza, prendesse la propria velata, ma non per
questo innocua, rivincita. E la protagonista femminile della
storia, convertita in paradigma di virtù cristiane acquisite
tramite la rinuncia e la sofferenza, sembra additare la propria
natura incantata, i propri legami con il ferico, la propria
contiguità con la dimensione animale19.
Ma c’è di più: Jean Maillart, con una scelta che non ha mancato e
non manca di suscitare interrogativi e perplessità, ci presenta
un’eroina senza nome. Priva del nome di battesimo, così come di
qualsiasi simulacro onomastico, individuata esclusivamente dal
titolo nobiliare di contessa, essa assolve pienamente a
quell’esigenza di tipizzazione paradigmatico-generalizzante di cui
l’intentio exemplaristica del testo dà ragione e che in gran parte
richiede. Tuttavia, l’assenza dell’elemento onomastico appare
funzionale anche in altre direzioni: a differenza di Philippe de
Rémi, che permette di scorgere in controluce il codice mitico-
rituale per dimostrarne la convertibilità in direzione cristiana,
Jean Maillart stende su di esso un velo di opacità. Se nel più
19 Meno “irriducibile” alle ragioni logico-espressivedell’intreccio appare l’affermazione contenuta ai vv. 2442-43, «nesemble pas fame, mes fee, / celle qui la dessouz habite»,attribuita ad uno dei personaggi maschili che alla vista dellabellezza della protagonista, subiscono effetti quali la perdita dicoscienza e di senso del tempo. Lo stesso si può dire della «troplaide figure, / noire et velue, qui a teste / d’ours ou de chienou d’autre beste» (vv. 3408-10) che la giovane avrebbe messo almondo. Nel primo caso, non è escluso si tratti di sempliceassunzione di un registro iperbolico per attrazione della topicacortese-arturiana; nel secondo, si tratta di uno stravolgimentodella verità prodotto dalla malvagia Contessa di Chartres,antagonista dell’eroina.
19
antico fra i due testi lo pseudonimo della protagonista
contribuisce ad introdurre un effetto di trasparenza che permette
di scorgere arcaici ed arcani scenari, in Jean Maillart sarà la
cancellazione dell’elemento onomastico a denunciare la presenza di
un rimosso. Si sa che uno pseudonimo, come ogni forma di
travestimento, maschera o simulacro, può svelare in realtà proprio
ciò che nasconde; ma consegnandoci un’eroina senza nome, l’autore
del Roman du Comte d’Anjou lascia intatto intorno ad essa l’alone
d’indeterminatezza, componente tutt’altro che secondaria del suo
soverchiante ed indecifrabile potere di seduzione. Se il
travestimento del nome può descrivere e ripercorrere il vuoto,
l’imperfezione, l’ignoto attorno a cui prende forma la figura
della creatura fatata, nel testo di Jean Maillart il nome sembra,
paradossalmente, alludere a tutto ciò attraverso la propria
assenza; assenza che suona come una riproposizione tacita e
sfuggente di ciò che, nelle vicende che riguardano le creature
incantate, rappresenta un tabu.
Quali conclusioni è possibile trarre da questo excursus
fra fiaba e romanzo, tra intenti dichiarati e irruzioni del
rimosso, fra figure femminili su cui sembrano convergere
differenti se non opposte polarità?
La narrativa fiabesca, spazio, letterariamente carnevalizzato
dell’inverosimiglianza autorizzata, consente i riaffiorare, pur
attraverso il compromesso metonimico, di echi smorzati ma
persistenti, di legami allentati ma non totalmente recisi, di
connivenze inquietanti, insomma, con un substrato mitico che la
forma medievale del romanzo aveva ora filtrato, ora riorientato,
ora parzialmente o quasi totalmente rimosso in forza di strategie
di natura ideologica, etica o estetica.
20
È proprio della letteratura fiabesca restituirci, ingranditi e
fors’anche felicemente deformati, quei dettagli che il romanzo,
ora ricomponendoli in nuove figure, ora relegandoli sullo sfondo o
ritraendoli di scorcio, aveva camuffato e resi quasi
impercettibili. In questo modo, Pelle-d’Asino potrà rivelarsi
“progenitrice” e non, come vuole un assunto comune, “discendente”
della casta fanciulla senza nome ridotta in povertà, intesa a
celare pudicamente le proprie sovrumane attrattive sotto un manto
di pelle animale.
Indice degli autori
Barillari S.
Basile G.
Coudrette
Donà C.
Grimm J. E W.
Harf-Lancner L.
Jeahn d’Arras
Maillart J.
21