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ANNAMARIA CARREGA STORIE DI NOMI, PSEUDONIMI E MANTELLI. FATE, ANIMALI E FANCIULLE PERSEGUITATE. Una folla senza nome si accalca di fronte all’ospizio di Orléans in attesa di ricevere la carità. Colui che sovrintende alla distribuzione delle elemosine controlla che tra i postulanti non vi sia alcun intruso, quando ai suoi occhi si disegna una strana figura: si tratta di una giovane donna interamente avviluppata in un mantello foderato di pelle animale e dotato di un cappuccio che, accuratamente abbassato, ne dissimula il volto: Molt est de simple contenance; Au plus qu’ele puet se tient close; En hault lever sa chiere n’ose Qu’aucun sa biauté ne veïst Qu aucun ennuy li feïst. 1 L’anomalia introdotta nel contesto da tale presenza esercita sull’elemosiniere, insieme alla diffidenza, un’incoercibile forza d’attrazione. Interroga senza esitare la fanciulla sulle ragioni di tale travestimento e la esorta a dichiarare la propria origine e la propria provenienza: Vint a celle qui se muce. Qu’est ce? – fet il -; as tu aumuce? Tu par ez trop envelopee; Lieve la chiere. Ou fuz tu nee? 2 1 JEHAN MAILLART, Le Roman du Comte d’Anjou, a. c. di Mario Roques, Paris, Champion 1974, p. 141, vv. 4634-38. 2 Ivi, P. 142, VV. 4643-46. 1

Storie di nomi, pseudonimi e mantelli

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ANNAMARIA CARREGA

STORIE DI NOMI, PSEUDONIMI E MANTELLI.

FATE, ANIMALI E FANCIULLE PERSEGUITATE.

Una folla senza nome si accalca di fronte all’ospizio di Orléans

in attesa di ricevere la carità. Colui che sovrintende alla

distribuzione delle elemosine controlla che tra i postulanti non

vi sia alcun intruso, quando ai suoi occhi si disegna una strana

figura: si tratta di una giovane donna interamente avviluppata in

un mantello foderato di pelle animale e dotato di un cappuccio

che, accuratamente abbassato, ne dissimula il volto:

Molt est de simple contenance;Au plus qu’ele puet se tient close;

En hault lever sa chiere n’oseQu’aucun sa biauté ne veïstQu aucun ennuy li feïst. 1

L’anomalia introdotta nel contesto da tale presenza esercita

sull’elemosiniere, insieme alla diffidenza, un’incoercibile forza

d’attrazione. Interroga senza esitare la fanciulla sulle ragioni

di tale travestimento e la esorta a dichiarare la propria origine

e la propria provenienza:

Vint a celle qui se muce.Qu’est ce? – fet il -; as tu aumuce?

Tu par ez trop envelopee;Lieve la chiere. Ou fuz tu nee?2

1 JEHAN MAILLART, Le Roman du Comte d’Anjou, a. c. di Mario Roques,Paris, Champion 1974, p. 141, vv. 4634-38.2 Ivi, P. 142, VV. 4643-46.

1

Di fronte all’elusiva risposta

Sire – fet elle -, ne vous chaille.Je sui povre fame sanz faille3

con un gesto che appare deciso quanto obbligato, l’uomo le solleva

il cappuccio disvelandone, letteralmente, le sembianze: quella che

appare è una bellezza che soggioga, subito percepita come “spia”

di una natura e di una condizione che mal si conciliano con lo

statuto di mendicante che la fanciulla esibisce e rivendica.

L’episodio appartiene al Roman du Comte d’Anjou di Jean Maillart,

datato all’inizio del XIV secolo ed ambientato in un tempo di poco

precedente a quello in cui visse l’autore. La figura femminile è

quella della nobile protagonista, emblema di una virtù insidiata

che, al fine di preservarsi, non esita ad affrontare una nutrita

serie di mortificazioni e di rinunce. Occultare quella bellezza

che è stata la causa di reiterate sciagure è lo scopo dichiarato

del suo camuffamento.

Il passaggio su cui ci siamo soffermati, proprio in

virtù dell’apparente gratuità rispetto allo svolgimento della

vicenda e proprio perché difficilmente riducibile alla logica

interna all’intreccio, produce una sensazione “disturbante”. Sulla

figura dell’elemosiniere irretito fra sospetto ed attrazione

sembra proiettarsi la sensazione di straniamento che si impossessa

dell’accorto lettore di fronte a questa sorta di intrusione

immotivata all’interno del tessuto narrativo: si ha l’impressione

di trovarsi di fronte ad un residuo o forse, ma non è detto che le

3 .Ibid., VV. 4647-48.2

due cose si escludano, ad un segnale. In ogni caso in presenza di

una traccia.

Non a caso, gli studiosi che si sono anche recentemente cimentati

con il testo hanno cercato di ricondurre l’apparente gratuità

dell’episodio alla logica interna dell’intreccio, dimostrandone la

funzionalità a partire da categorie che potrebbero risultare

pienamente convincenti solo quando filtrate attraverso un’ottica e

alla luce di riferimenti più complessi e non sempre rassicuranti.

È ciò che qui tenteremo, sia pure sommariamente, di recuperare. 4

In effetti, colpisce, in questo esile frammento di testo, lo

straordinario accumulo di dettagli tanto più curiosi quanto più

strutturalmente privi di vera e propria necessità:

1. percezione dell’abito come travestimento e funzione

difensiva attribuitagli da colei che lo indossa

2. dialettica di dissimulazione e di svelamento che tale

travestimento comporta

4 CATHERINE ROLLIER-PAULIAN, L’esthétique de Jean Maillart. De la courtoisie au souci del’humaine condition dans Le Roman du Comte d’Anjou, Orléans, Paradigme2007, p. 194 n. 19, ritiene che il mantello dell’eroina possarecuperare una funzione narrativa, nonostante l’apparente gratuitàrispetto al contesto, in quanto «indice de reconnaisance»; secondola studiosa, infatti, «la scène où l’aumônier distingue l’héroïnedu reste des mendians est le prélude à la vraie scène dereconnaisance, celle où elle va révelér son identité à son oncle.Cette première scène permettra la seconde et sourtout elle seconstruit suivant le même schéma: signal d’alerte chez ledétenteur momentané de l’autorité, enquête, interrogatoire,transformation du statut de l’héroïne». Tuttavia, non è possibileignorare che «si l’héroïne ne s’était pas camouflée, sa beautél’aurait aussitôt trahie. Ainsi le manteau n’est qu’un détailinduisant un certain retard dans le rouage de la reconnaisance quiaurait eu lieu de toute manière. Son caractère fonctionnel n’estdonc pas de grande importance: il ne fait que maintenir un peuplus longtemps le suspense narratif».

3

3. rifiuto della protagonista di dichiarare le proprie origini e

la propria identità

4. incoercibile forza seduttiva che si sprigiona dalla sua

bellezza, accentuata dall’alone di mistero che la ammanta

Un salto in avanti di quasi quattro secoli ci allontana

dallo spazio romanzesco per proiettarci su quello, per certi versi

contiguo, della fiaba. Ci si fa incontro un’altra “strana figura”

che, avvolta in un mantello di origine palesemente animale,

cammina solitaria alla ricerca di occupazione e di ospitalità.

Ancora una nobile fanciulla in fuga, ancora un mantello che ne

travisa le mirabili sembianze, causa ed origine di tutte le sue

sventure, ancora la condanna ad una condizione di marginalità. Ma

non si tratta più, come nel primo caso, di un “incidente

narrativo”, di una parentesi aperta e subito chiusa. Quest’abito,

lungi dal porsi come accessorio occasionale e momentaneo, è ciò

che conferisce a colei che lo indossa uno statuto durevole, è ciò

che letteralmente la “incorpora” e la confina, nella

considerazione comune, in uno spazio che ospita la categoria

dell’indifferenziato e, insieme, quella della differenza

irriducibile. La protagonista di questa storia si trasforma, per

così dire, nel proprio abito: il mantello animale che disegna con

il suo corpo una sorta d’interazione metamorfica, è ciò che la

individua, la distingue e la isola. L’abito si fa corpo ma,

soprattutto, il corpo si fa “nome”: la sventurata protagonista

della fiaba di Perrault, per tutti, anche per il principe che ne

scoprirà il reale incantevole aspetto e si ammalerà d’amore per

lei, sarà Peau d’Âne, Pelle- d’Asino.

4

Ma per comprendere più a fondo il senso della sequenza

abito-corpo-nome, con la rilevanza da essa assunta all’interno

della dinamica testuale, si rende necessaria una pur breve

digressione sulle particolari connotazioni simboliche che la

tradizione folklorica assegna a capi d’abbigliamento quali

cappucci e mantelli. Studi condotti sulla scorta di testimonianze

risalenti ai secoli XIII e XIV attestano come il possesso e l’uso

di tali accessori e capi di vestiario siano indizi non

occasionali di un rapporto privilegiato con la dimensione preter-

naturale, prerogativa di quegli esseri che, a vario titolo, si

situano lungo la linea, talora sfrangiata e indistinta, che fa

comunicare il mondo umano con un “altrove” dai contorni sfuggenti

e non direttamente identificabili con l’aldilà cristiano. Infatti

«il potere di conferire invisibilità, idealmente accordato, in

molte culture a […] cappucci e mantelli […], comporta sottrazione

di identità», ma consente il simultaneo manifestarsi «di

un’identità “altra” che ha cittadinanza non solo nello spazio

mitico, ma anche, verosimilmente, in quello rituale».5 Anche per

questo, la condizione di marginalità e di miseria cui non di rado

soggiacciono coloro che indossano il cappuccio agisce come “indice

di riconoscimento” e veicolo di significati supplementari. Tutto

ciò consente indubbiamente di collocare la funzione segnica di

mantelli e cappucci nell’ambito di un più generale simbolismo

della maschera, della larva, intesa nella sua duplice accezione di

“maschera”, appunto, e di revenant; a questo proposito, basti

pensare, per citare un esempio appartenente al folklore germanico,

che l’hellekeppelin, dotato del potere di conferire forza sovrumana e5 SONIA MAURA BARILLARI, Il cappuccio e l’hurepiaus. Materiali per uno studio dellessico della maschera nel medioevo, “L’immagine riflessa”, IX (2000), 1-2, pp. 19-39 ( in part. pp. 24-26).

5

invisibilità, è precisamente il cappuccio di Hellequin, figura

paradigmaticamente deputata a destabilizzare la frontiera fra il

mondo dei vivi e quello dei trapassati. Inoltre, occorrerà

ricordare come fra gli attributi ricorrenti di cappucci e mantelli

siano proprio la consistenza e l’origine animale. Fatta salva in

ogni caso la ratio carnevalesca delle maschere zoomorfe, con la rete

di richiami simbolici ad esse accreditati nel folklore medievale e

non solo, molti elementi ci inducono a cogliere nelle nostre

storie di virtù perseguitata il riverbero di un’altra vicenda che,

assai attiva e persistente nell’immaginario collettivo, declina

precisamente al femminile il tema della duplicità, ovvero della

contemporanea appartenenza a due nature e a due mondi di norma

ritenuti come non compatibili e non comunicanti.

Un episodio riportato da Gautier Map nel De Nugis Curialium (1181-

1193) si rivela illuminante nella sua enigmaticità:

Videt eam igitur summa mane die dominica egresso ad ecclesiam Hennone,balneum ingressam, et de pulcherrima muliere draconem fieri, et in modicoexilientem a balneo in pallium novum quod ei puella straverat et inminutissima frusta dentibus illud concidentem, et inde in propriamreverti formam.6

La storia di Henno cum dentibus narra del matrimonio, allietato

peraltro da una ricca prole, fra un giovane aristocratico e una

misteriosa, anonima fanciulla di eccezionale eleganza e di

ineguagliata bellezza, incontrata in una foresta non lontana dal

mare. La madre di Henno, insospettita perché la nuora evita inizio

e fine delle funzioni religiose, sottraendosi così all’aspersione

dell’acqua benedetta e all’eucarestia, decide di spiarla

6 GAUTIER MAP, De Nugis Curialium, Oxford, éd. Montagne Rhode James, TheClarendon Press (Anectoda Oxoniensa n°. 14) 1914, IV, 9, p. 175.

6

attraverso un foro praticato nella parete della sua stanza.7 Nel

passo riportato è ripreso il momento in cui la donna vede la

fanciulla trasformarsi, a contatto con l’acqua, in un non meglio

definito draco per riprendere le proprie umane sembianze soltanto

dopo aver sminuzzato con i denti un mantello nuovo. Siamo di

fronte alla più antica attestazione scritta di quella tradizione

melusiniana che, com’è noto, riceverà la più autorevole

consacrazione letteraria fra la fine del XIV e l’inizio del XV

secolo ad opera, rispettivamente, di Jean d’Arras e di Coudrette.8

La presenza del mantello e/o del cappuccio, in relazione al

meccanismo di occultamento-rivelazione di un’identità e di una

natura inconfessabili, accanto ad una configurazione di costanti,

pur variamente organizzate e relazionate nei diversi testi e alla

luce dei differenti generi espressivi, fanno intuire, dietro i

profili femminili al centro delle nostre storie, altrettante

creature appartenenti ad un altrove all’interno del quale la

componente umana appare frammista con quella zoomorfa, quando non

interamente assorbita nella dimensione del mostruoso e del

terrifico. I due testi sin qui presi in considerazione, ubbidendo

7 Nelle successive elaborazioni letterarie della vicenda, ilmedesimo artificio consentirà allo sposo in persona di scoprire ilmostruoso aspetto di Mélusine. È peraltro degno di nota che nellaversione fiabesca di Perrault, il principe-cacciatore, proprio conmodalità simili, abbia il suo primo “incontro” con Pelle-d’Asino,contemplandola nascostamente nelle sue segrete, incantevolisembianze. Nella fiaba si compie, infatti, una sorta di inversionefra ciò che è esteriormente percepibile e ciò che deve restaresegreto, in una contro-metamorfosi che, proprio come nel caso diMélusine, avviene all’insaputa di tutti nei giorni conclusividella settimana.8 JEHAN D’ARRAS, Mélusine, Dijon, éd. Louis Stouff 1932 (Genève, Slatkine 1974). COUDRETTE, Le roman de Mélusine ou Histoire de Lusignan, Paris, Klincksieck 1982.

7

rispettivamente alle convenzioni del romanzesco e a quelle proprie

della fiaba letteraria, organizzano due differenti modalità di

“normalizzazione” e di “razionalizzazione” di un intreccio arcaico

e non “logicamente” riducibile, di uno scenario inquietante che

vede l’intromissione, nei confini del mondo familiare e

conosciuto, di una donna dalla natura non umana, o non

completamente umana, i cui poteri incontrollabili, indice di

un’origine oscura, spesso si accompagnano a tratti che ne

tradiscono l’appartenenza alla dimensione animale.9

Tra gli artifici narrativi che selezionano,

riposizionandoli e ricombinandoli, gli elementi dell’intreccio

originario, un ruolo tutt’altro che marginale è ricoperto dalla

componente onomastica: è possibile affermare che proprio

attraverso la lente, non di rado deformante, di un nome proprio,

di una designazione che agisca in sua vece, quando non di una sua

ingombrante assenza, il testo suggerisce il proprio grado di

“distanziamento” da un sostrato ineludibile, lo cela e lo evoca,

lo fa regredire o lo attualizza.

Lo schermo offerto dall’opzione per il “meraviglioso”, sottraendo

il testo all’imperativo della verosimiglianza, permette alla

narrativa fiabesca di raggiungere un grado di trasparenza

decisamente più marcato rispetto a quello compatibile con la

convenzione romanzesca. Per questa ragione riteniamo che dalla

9 Di notevole interesse, rispetto alle possibili modalità assuntedal rapporto fra l’animale e la “donna della foresta”, attestatedalla tradizione folklorica e dalla letteratura che ad essa fariferimento è la messe di informazioni contenute nello studio diCARLO DONÀ, Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del viaggio,Catanzaro, Rubettino Editore 2003, in part. il capitolo intitolatoLa caccia amorosa, pp. 415-521.

8

fiaba letteraria convenga partire, consapevoli delle asperità e

delle insidie di un percorso a ritroso.

Nella fiaba di Perrault un abito si fa corpo e un

abito-corpo si fa nome. Si tratta, in realtà, di un non-nome, di

una designazione che, negando la dignità di un antroponimo al

soggetto cui è riferita, relega quest’ultimo lungo la linea di

demarcazione che distingue l’umano dall’altro da sé ed agisce come

marchio di una diversità inquietante. La designazione onomastica

“copre”, traveste e segnala la stessa impossibilità del nome, ma

al contempo agisce come chiave d’accesso a quella stessa oscurità

che lo rende impossibile.

Nel significante Pelle-d’Asino si insinua la possibilità di un

interdetto che grava sul vero nome della protagonista, nome

ignoto, destinato a rimanere tale anche dopo la fausta conclusione

della vicenda che la vede convolare a nozze con il principe. Come

si evince dalla ricca documentazione prodotta, fra gli altri, da

Laurence Harf-Lancner, è proprio delle creature fatate, nel

momento in cui cercano di integrarsi nella comunità umana,

l’obbligo di celare il proprio nome, perché in esso è custodito il

segreto, che deve essere rigorosamente preservato, dell’origine

soprannaturale. 10 Allo stesso modo, la creatura fatata deve

sottostare ad un processo di metamorfosi-sdoppiamento che la

designazione onomastica, come nel caso specifico della fiaba di

Perrault , può ritrarre nel suo svolgimento, nel suo dinamismo,

con l’irrompere di un elemento decisivo di quell’animalità non di

rado legata ad una simbologia ipoctonia, della quale la fata

potrebbe in ogni momento riappropriarsi o dalla quale potrebbe

10 LAURENCE HARF-LANCNER, Les fées au Moyen Âge. Morgane et Mélusine. Lanaissance des fées, Paris, Librairie Honoré Champion 1984.

9

essere definitivamente posseduta. Inoltre, non è possibile

ignorare come la denominazione Pelle-d’Asino non faccia che

riproporre e reiterare quella logica metonimica che, come ha

sottilmente dimostrato Karin Ueltschii nel suo studio condotto sui

mitemi legati al tema della “fanciulla perseguitata” «rend en

effet compte plus largement du fonctionnement de la mémoire

mythique et de son évolution, qui passe par des fragmentations

puis des fusions nouvelles, ce qui dote précisément les motivs

mythiques de leur vitalité, de leur constante actualité et de leur

pérennité, tout en les rendant, à travers ces chaînes de

dislocation et de recomposition, de plus en plus complexes à

décrypter»11.

Nella fiaba di Perrault il corpo della protagonista appare

costituito a partire da un altro corpo o, più precisamente, da una

parte di quest’ultimo, e proprio nella designazione onomastica la

logica metonimica si estrinseca nella sua forma più compiuta:

nell’attimo in cui la protagonista viene individuata come Pelle-

d’Asino, la sua natura di metonimia o, meglio, di sineddoche

vivente, la sua essenza ibrida e insieme frammentata e parziale,

vengono sancite ed assunte in luogo di totalità. Il significante

Pelle-d’Asino convoglia un fascio di suggestioni che evocano il

tema della metamorfosi, del doppio, del sacrificio: l’animale la

cui pelle diventa parte costitutiva del corpo-nome del

personaggio, è un asino già dotato di magici poteri, un animale

fatato che, proprio su richiesta della fanciulla sarebbe stato

immolato. L’elemento onomastico, celando e rivelando insieme la

reale natura di colei alla quale è unanimemente associato, così

11 KARIN UELTSCHI, La main coupée. Métonymie et mémoire mythique, Paris,Champion 2010, p. 12.

10

come il manto animale che ne travisa il vero aspetto, ne

suggerisce altresì il legame con una dimensione “altra”,

evocatrice di intrecci mitico-rituali. In altre parole, il

compromesso metonimico, che il “nome” ribadisce e potenzia, fa

sopravvivere, adombrandola, la natura teriomorfa dell’eroina, la

sua inconfessabile ma ineludibile appartenenza ad una dimensione

non-umana.

Gli elementi sin qui evidenziati ci consentono di assegnare alla

protagonista della fiaba di Perrault uno statuto che va ben oltre

quello che la “lettera” ci consegna, ovvero quello di vittima

passiva in balia di forze soverchianti ed esclusivamente intesa a

sottrarre la propria virtù insidiata ad inconfessabili, ma

senz’altro terreni destini.

Sotto il ruolo e la sembianza di fanciulla

perseguitata, l’eroina della fiaba di Perrault sembra celare ben

altra natura: quella di un essere sospeso fra l’al di qua e un al

di là dai connotati sfuggenti cosicché risulterà inevitabile

invocare l’ascendenza ferica dell’intreccio, annoverando Pelle-

d’Asino alla ricca e variegata famiglia di creature soprannaturali

discendenti dall’archetipo Melusine, la cui pervasiva suggestione

si estende oltre i confini della letteratura medievale

propriamente fantastica.

Su questa doppia polarità, puntualmente rinvenibile

nelle protagoniste femminili delle fiabe riconducibili al tipo AT

510 B, non manca di esercitare il proprio ruolo determinante il

rapporto con la sfera animale: ora in termini di contiguità

metonimica, altrove, con maggior trasparenza rispetto

all’intreccio archetipico, come sia pure momentanea

identificazione, in altri casi, più velatamente, in forma di

11

sbiadita e residuale affinità sentimentale. È comunque

significativo che, in relazione al diverso grado di accentuazione

di specifici elementi, e agli eventuali meccanismi di selezione ed

omissione, un ruolo coerente e non occasionale venga assegnato

alla designazione onomastica a dimostrazione della rilevanza che

quest’ultima ricopre nella costituzione del testo e della sua

specifica fisionomia. Due esempi, assunti qui come campioni, al di

fuori di ogni pretesa di esaustività e senza voler sfiorare la

vexata quaestio relativa ai legami di parentela o di derivazione fra i

testi,12 sono senz’altro offerti dalla nota fiaba di Giambattista

Basile e da quella presente nella raccolta di Jacob e Wilhem

Grimm.13 Nella prima, accreditata peraltro come più antica

articolazione scritta dello schema Pelle-d’Asino, l’omissione del

tema del sacrificio animale, momento culminante della serie di

prove con cui la protagonista tenta di solito di neutralizzare le

inconfessabili brame paterne, consente di “scavalcare” il

compromesso metonimico del travestimento in favore della

dichiarata assunzione metamorfica delle fattezze di un’orsa. Con

lo zoonimo che dà il titolo alla fiaba l’eroina verrà indicata ed

appellata a partire dal momento in cui, deposte le originarie

sembianze, e sottrattasi alla persecuzione paterna, entrerà a far

parte dello scenario che comprende, oltre al principe-cacciatore

che vorrà accoglierla presso di sé, anche altri personaggi12 Si veda, in particolare, a proposito dei rapporti fra Pelle d’Asinodi Perrault e la presunta fonte rappresentata dalla fiaba diBasile, L’orsa, MARC SORIANO, I racconti di Perrault, trad. it, di A.Talamonti,Palermo, Sellerio 2000.13 GIAMBATTISTA BASILE, L’orsa, Racconti di orchi, di fate, di streghe. La fiabaletteraria in Italia, a.c. di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori 2008, pp.216-231. Jacob e Wilhelm Grimm, Fiabe, trad. it. Pref. di GiuseppeCocchiara, trad. it. di Clara Bovero, Torino,Einaudi 1992, pp.245-248.

12

inevitabilmente attratti dalla sua mitezza e dalla sua

intelligenza. È evidente, tuttavia, come il termine “orsa” non

assuma, tuttavia, il carattere di vera e propria designazione

onomastica; come indica peraltro l’iniziale minuscola con la quale

compare senza eccezioni nel testo e nel titolo, esso agisce

piuttosto come “trasparente” rinvio alla presunta appartenenza ad

una specie, ad un’entità animale la cui fortuna simbolica, sul

piano antropologico e culturale, si deve proprio alla pericolosa e

inquietante affinità con l’elemento umano. Se, in apparenza, la

fiaba di Basile affronta più direttamente e senza veli il tema

della metamorfosi, senza il ripiego verso artifici e allusioni di

tipo metonimico, è pur vero che ciò è reso possibile dal registro

giocoso e ironicamente distanziante che regola l’intero congegno

narrativo e ne definisce orizzonte culturale e finalità

comunicativa. Ed è esclusivamente a tale registro che si deve la

possibilità di alludere ad uno dei temi più scabrosi riverberati

dall’intreccio archetipico, vale a dire quello di un possibile

rapporto erotico fra l’animale e il protagonista maschile della

storia. In realtà, il nucleo centrale della vicenda sembra

ritagliare all’interno della cornice propriamente narrativa, una

sorta di spazio ludico-carnevalesco, all’interno del quale il

ruolo principale, illusionistico ed ingannevole, è affidato

proprio alla maschera-orsa; tutto ciò, beninteso, sotto lo sguardo

consapevole e compiaciuto di un pubblico, che fin dall’inizio è

stato messo al corrente della verità, poiché del personaggio che

si nasconde sotto la «tela di questa pelle setolosa» egli conosce

la precedente, autentica natura, la stessa che il nome proprio,

Preziosa, con le sue ovvie e scontate connotazioni, garantisce e

ammanta di attribuzioni superlative. La parvenza animale, si offre

13

pertanto al lettore con i tratti rassicuranti di una condizione

mendace e provvisoria, e il significante orsa sarà suscettibile,

sin dal titolo della fiaba, di una lettura furbescamente

antifrastica: l’orsa è in realtà, la non-orsa, è colei che

ingannevolmente si mostra come tale. La sua natura animale è solo

presunta, effetto di una sorta di travestimento, all’insegna del

ribaltamento carnevalesco.

Più prossimo al procedimento impiegato nella fiaba di Perrault,

anche se ad esso non perfettamente sovrapponibile, è quello attivo

nel testo dei fratelli Grimm Allerleirauh, termine che, soggetto a

vari e non del tutto efficaci tentativi di traduzione in lingue

differenti dall’originale, “denomina” la protagonista ascrivendone

il variegato e composito aspetto, ad una dimensione ritenuta

incontrovertibilmente animale. In questo caso, la principessa

perseguitata dalle incestuose mire paterne chiede a quest’ultimo,

oltre ai tre canonici preziosi abiti, anche «un mantello fatto con

pellicce d’ogni sorta» al quale deve contribuire ogni animale del

regno. Ottenuto e indossato questo mantello, essa viene scambiata

per una «bestiola irsuta» dal principe-cacciatore che puntualmente

la incontra nella foresta e che per primo la designa con il

termine che dà il titolo al racconto. Tale designazione onomastica

conserva inalterati i legami, già evidenziati nel caso di Pelle-

d’Asino, con la dimensione del sacrificio, dello sdoppiamento

antropo-zoomorfo nonché della metamorfosi, ma in essa si manifesta

in forma, se possibile ancora più accentuata, il problematico

rapporto fra il tutto e le singole parti che lo compongono. Nel

“nome” Allerleirauh viene preservato quello che abbiamo indicato come

compromesso metonimico che consente alla fusione fra le due nature

di sfumare in una “semplice” sia pure inquietante contiguità;

14

ancora una volta, inoltre, la denominazione attribuita al

personaggio, concorre a tracciare intorno a quest’ultimo il

profilo della sineddoche. Tuttavia, nel momento in cui l’atto

sacrificale si sottrae ai caratteri di un’unicità irripetibile,

legata alla dichiarata sacralità di un singolo essere (l’asino

fatato nel caso di Perrault), per estendersi all’intero universo

animale, ciò che si impone proprio in virtù dell’indicazione

onomastica, è l’immagine ossimorica di una totalità frammentata e

ibrida, costituita sulla ricucitura di ciò che sopravvive delle

sue singole originarie componenti.

Il percorso a ritroso che abbiamo scelto di

intraprendere, ci riconduce dalla letteratura fiabesca al romanzo

medievale; ma prima di riapprodare a quello da cui siamo partiti,

è necessaria una riflessione preliminare su di un testo,

ascrivibile allo stesso genere, risalente alla fine del secolo

XIII, considerato il primo esempio in area francese di trattazione

letteraria del tema della virtù insidiata. Si tratta del romanzo

di Philippe de Rémi che fin dal titolo, La Manekine,14 dichiara la

rilevanza assunta in tale contesto narrativo dall’elemento

onomastico. Anche in questo caso non si tratta del vero nome della

protagonista, Joïe, peraltro reso noto all’inizio e “restituito”

con lo scioglimento conclusivo. Il termine con cui la protagonista

verrà designata, Manekine, suggerisce uno spettro di significati

riconducibili al tema del sacrificio, dell’espiazione e della

mancanza, ma anche a quello del doppio e, non ultimo, alla sfera

dell’animalità. Se il termine Manekine appare innanzitutto legato

alla forma piccarda manchot, ed è riferito alla menomazione, il14 PHILIPPE DE RÉMI, Le Roman de la Manekine, a.c. di Barbara N. Sargent-Baur, Alison Stones, Roger Middleton, Amsterdam-Atlanta, Rodopi1999.

15

taglio della mano che la fanciulla si è deliberatamente auto-

inflitta in seguito alla minaccia rappresentata da desiderio

incestuoso del padre15, è pur vero che anche in forza

dell’assonanza con mannequin, essa sembra aprire al tema del doppio

sostitutivo, puntualmente riscontrato nel testo attraverso

l’elemento del simulacro che viene arso al rogo in sua vece. Non

manca, infine, la suggestiva etimologia secondo la quale il

significante Manekine sarebbe «una forma modificata, forse sotto

l’impatto del motivo della mano tagliata, d’anekine, derivato da

ane/anette (piccola anatra)»16 incapsulando al proprio interno uno

zoonimo indicante il volatile più volte associato, anche sul piano

onomastico, a figure femminili avvolte da un alone sovrannaturale.

Tale denominazione evoca quindi, accanto al tema della deformità

della protagonista, anche quello di una sua natura teriomorfa,

tratti entrambi appartenenti alle creature fatate, richiamando

ancora una volta l’archetipo melusiniano. A questo proposito non

sarà superfluo ricordare come, sul piano dell’intreccio narrativo,

l’animale mitico che, in qualità custode della mano mancante,

intrattiene un rapporto metonimico con la protagonista sia proprio

un pesce, ovvero l’essere che, in concorrenza con il drago-

serpente, costituisce la componente animale del corpo della stessa

Melusine. Il nome fittizio della protagonista, prendendo il posto

del nome reale e provvisoriamente cancellandolo, non soltanto

individua l’originaria appartenenza ad una dimensione “altra” e

inquietante di colei che si vuole destinata ad incarnare un’idea15 Per ulteriori suggestive ipotesi relative al significato e allapossibile etimologia del termine Manekine, si rinvia a UELTSCHI, Lamain coupée…, cit., pp. 124-126.16 PHILIPPE WALTER, Mythologie chrétienne. Rites et mythes du Moyen Âge, Paris,Entente 1992, pp. 55-58 e ID., Artù, l’orso e il re, Roma, Arkeios 2005,pp. 83-91.

16

di perfezione femminile ricalcata sul modello della santità. Esso

funge da chiave di lettura di un testo che, attraverso il filtro

del procedimento metonimico, comunica il proprio legame con

strutture narrative e antropologiche arcaiche, e non rimuove

totalmente il proprio radicamento nel sostrato mitico, proprio

perché questo potrà rivelarsi suscettibile di un reimpiego in

funzione celebrativo-edificante, in sintonia con l’immaginario

cristiano. La conversione dal meraviglioso al miracoloso cristiano

avverrà precisamente all’insegna della “ricomposizione” lungo una

linea che contempla, come altrettanti momenti di un percorso

iniziatico, tutti i mitemi evocati dallo pseudonimo della

protagonista: non a caso, nel momento dello scioglimento finale,

il cerchio si chiuderà sul riaffiorare del suo vero nome e

sull’abbandono del simulacro onomastico.

Il Roman di Philippe de Rémi è ritenuto l’ipotesto del

racconto da cui siamo partiti e sul quale è il momento di

ritornare.

L’intreccio del Roman du Comte d’Anjou, ancora costruito attorno al

motivo della fanciulla perseguitata, libera quest’ultimo dai

legami con il meraviglioso pagano così come dagli effetti

spettacolarizzati e spettacolarizzanti del miracoloso cristiano;

l’opzione consapevole a favore di un cristianesimo pragmaticamente

tradotto in comportamenti concreti in rapporto ad un contesto

storicamente determinato e riconoscibile, preclude il ricorso

dichiarato alla dimensione fantastica, sia pure filtrata

attraverso un nuovo immaginario religioso. Le scelte operate

nell’intreccio indicano una decisa resistenza nei confronti del

sostrato mitico e delle strutture narrative arcaiche soggiacenti.

Tuttavia, alcuni indizi disseminati all’interno della narrazione

17

inducono a pensare, più che ad un effettivo superamento del

fantastico, ad una sua rimozione che, come tale, è fatta anche di

segnali, di spie, di ritorni.L’episodio riportato all’inizio, con

l’immagine dell’eroina camuffata da un cappuccio di cui è facile

intuire la provenienza animale, 17 sembra offrirne, se non l’unica,

certamente una delle attestazioni più esemplari. Ammesso che il

mantello dotato di cappuccio, dono di una dama che l’aveva

caritatevolmente accolta in precedenza, risulti concretamente

giustificato dal clima invernale, in altre parole sufficientemente

assimilato al tessuto realistico del racconto, ci si chiede: da

dove nascono il senso di straniamento e l’inquietudine che

inducono l’elemosiniere a chiedere: «Qu’est ce? […]; as tu

aumuche?» (v. 4644), e di seguito (v. 4646) «Lieve la chiere. Ou

fuz tu nee?». Proprio da tale abbigliamento sembra scaturire

l’effetto ipnotico che colpisce l’osservatore inducendolo a

rivolgere domande che suonano in realtà come prese d’atto, dal

sapore quasi rituale, della natura extra-umana di quella che può

essere definita come una vera e propria “apparizione”.18

Il testo di Jean Maillart, sorta di romanzo di

formazione in cui istanze realistiche e finalità moralizzatrici

vengono fatte sapientemente convergere, ha in questo episodio la17 MAILLART, Roman…, cit., p. 139, v. 4547, «pelichon», termineindicante un abito di tessuto foderato di pelliccia che, comerileva Roques, p. 290 «n’est pas nécessairement un vêtementriche». 18 Come osserva KARIN UELTSCHI, Une parole mythique, “L’immagineriflessa”, N.S. XIX (2010), p. 88, «Fondamentalement, la questionrituelle interrogerait donc sur la nature de la personne à quielle s’adresse […]. Elle est performance – son caractère figéjustement le souligne – dans la mesure où par sa seuleénonciation, elle cherche à démasquer les figures travesties, àfaire tomber le voile, et à livrer ainsi au mpnde leur savoirmythique concernant la condition de l’Autre Monde»

18

propria cifra più riposta: è come se il rimosso, rappresentato

dalle radici mitico-folkloriche da cui pure trae le proprie

condizioni di esistenza, prendesse la propria velata, ma non per

questo innocua, rivincita. E la protagonista femminile della

storia, convertita in paradigma di virtù cristiane acquisite

tramite la rinuncia e la sofferenza, sembra additare la propria

natura incantata, i propri legami con il ferico, la propria

contiguità con la dimensione animale19.

Ma c’è di più: Jean Maillart, con una scelta che non ha mancato e

non manca di suscitare interrogativi e perplessità, ci presenta

un’eroina senza nome. Priva del nome di battesimo, così come di

qualsiasi simulacro onomastico, individuata esclusivamente dal

titolo nobiliare di contessa, essa assolve pienamente a

quell’esigenza di tipizzazione paradigmatico-generalizzante di cui

l’intentio exemplaristica del testo dà ragione e che in gran parte

richiede. Tuttavia, l’assenza dell’elemento onomastico appare

funzionale anche in altre direzioni: a differenza di Philippe de

Rémi, che permette di scorgere in controluce il codice mitico-

rituale per dimostrarne la convertibilità in direzione cristiana,

Jean Maillart stende su di esso un velo di opacità. Se nel più

19 Meno “irriducibile” alle ragioni logico-espressivedell’intreccio appare l’affermazione contenuta ai vv. 2442-43, «nesemble pas fame, mes fee, / celle qui la dessouz habite»,attribuita ad uno dei personaggi maschili che alla vista dellabellezza della protagonista, subiscono effetti quali la perdita dicoscienza e di senso del tempo. Lo stesso si può dire della «troplaide figure, / noire et velue, qui a teste / d’ours ou de chienou d’autre beste» (vv. 3408-10) che la giovane avrebbe messo almondo. Nel primo caso, non è escluso si tratti di sempliceassunzione di un registro iperbolico per attrazione della topicacortese-arturiana; nel secondo, si tratta di uno stravolgimentodella verità prodotto dalla malvagia Contessa di Chartres,antagonista dell’eroina.

19

antico fra i due testi lo pseudonimo della protagonista

contribuisce ad introdurre un effetto di trasparenza che permette

di scorgere arcaici ed arcani scenari, in Jean Maillart sarà la

cancellazione dell’elemento onomastico a denunciare la presenza di

un rimosso. Si sa che uno pseudonimo, come ogni forma di

travestimento, maschera o simulacro, può svelare in realtà proprio

ciò che nasconde; ma consegnandoci un’eroina senza nome, l’autore

del Roman du Comte d’Anjou lascia intatto intorno ad essa l’alone

d’indeterminatezza, componente tutt’altro che secondaria del suo

soverchiante ed indecifrabile potere di seduzione. Se il

travestimento del nome può descrivere e ripercorrere il vuoto,

l’imperfezione, l’ignoto attorno a cui prende forma la figura

della creatura fatata, nel testo di Jean Maillart il nome sembra,

paradossalmente, alludere a tutto ciò attraverso la propria

assenza; assenza che suona come una riproposizione tacita e

sfuggente di ciò che, nelle vicende che riguardano le creature

incantate, rappresenta un tabu.

Quali conclusioni è possibile trarre da questo excursus

fra fiaba e romanzo, tra intenti dichiarati e irruzioni del

rimosso, fra figure femminili su cui sembrano convergere

differenti se non opposte polarità?

La narrativa fiabesca, spazio, letterariamente carnevalizzato

dell’inverosimiglianza autorizzata, consente i riaffiorare, pur

attraverso il compromesso metonimico, di echi smorzati ma

persistenti, di legami allentati ma non totalmente recisi, di

connivenze inquietanti, insomma, con un substrato mitico che la

forma medievale del romanzo aveva ora filtrato, ora riorientato,

ora parzialmente o quasi totalmente rimosso in forza di strategie

di natura ideologica, etica o estetica.

20

È proprio della letteratura fiabesca restituirci, ingranditi e

fors’anche felicemente deformati, quei dettagli che il romanzo,

ora ricomponendoli in nuove figure, ora relegandoli sullo sfondo o

ritraendoli di scorcio, aveva camuffato e resi quasi

impercettibili. In questo modo, Pelle-d’Asino potrà rivelarsi

“progenitrice” e non, come vuole un assunto comune, “discendente”

della casta fanciulla senza nome ridotta in povertà, intesa a

celare pudicamente le proprie sovrumane attrattive sotto un manto

di pelle animale.

Indice degli autori

Barillari S.

Basile G.

Coudrette

Donà C.

Grimm J. E W.

Harf-Lancner L.

Jeahn d’Arras

Maillart J.

21

Map G.

Perrault Ch.

Philippe de Rémi

Rollier-Paulian C.

Roques M.

Soriano M.

Ueltschi K.

Walter Ph.

Indice dei nomi

Allerleirauh

Joïe

Manekine

Orsa

Pelle –d’Asino

Prezioza

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