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LA POESIA COME PRE/TESTO A TEORIA, PRATICA (E TECNICA) EVOLUTIVE Anno 2012 VERSO L’AZIONE LIBERA E LIBERANTE

Verso l'azione libera e liberante

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LA POESIA COME PRE/TESTO

A TEORIA, PRATICA (E TECNICA) EVOLUTIVE

Anno 2012

VERSO L’AZIONE LIBERA E

LIBERANTE

A TE CHE CERCHI: ALLA RICERCA DI BELLEZZA, INCANTAMENTO E POESIA

UNA POESIA COME PRE/TESTO A UN’ANALISI TEORICA E UNA PROPOSTA OPERATIVA

1. Genesi dell’incontro.

Voglio in primo luogo ricordare com’è nato quest’incontro: è nato dal fatto che, prima informalmente da parte di Ernesto e poi formalmente da parte di Bruna, sono stato invitato a riproporvi il testo della poesia con cui mi sono presentato a voi, qui, la prima volta, nell’autunno scorso; commentandolo, per comunicarvi un atteggiamento esistenziale, un’esperienza umana, una visione della vita, miei, anche come spunto, come occasione, per confrontarmi con i vostri. Adesso leggerò e commenterò la poesia: consideratelo come un test che facciamo insieme, per confrontarci con la teoria dell’esistenza che questa poesia testimonia. D’altra parte io faccio questo genere di incontri, anche se non molto spesso, quando trovo qualcuno che ha la pazienza di ascoltarmi e ascoltarsi.

2. Moderare come facilitare.

Intanto ringrazio voi della presenza, ringrazio l’Associazione per l’invito, e poi ricordo che qualche tempo fa ci si era orientati a dotarci di un moderatore, qualcuno che, finita la relazione, facilitasse lo scambio tra relatore e presenti; cioè promuovesse l’interlocutorio. In quella occasione, qualche cosa al riguardo aveva proposto Renzo, oggi qui presente, che mi risulta ci abbia un po’ riflettuto; e che vi sottoporrà qualcosa di suo; a suo parere l’attività di moderazione deve essere rivolta a favorire, in maniera quanto più possibile equilibrata e armonica, la crescita del gruppo; a questo scopo il moderatore dà e toglie la parola, non arbitrariamente e cervelloticamente, ma in funzione della lettura, che egli fa in tempo reale, delle necessità di crescita di un gruppo. Allora, se Renzo vuole specificare meglio...

3. Del prendere la parola in un gruppo.

Cari amici,

vi sottopongo alcune riflessioni sul tema del prendere la parola. Ricordate? Dopo un pungente confronto proprio su tale questione, qualcuno si chiedeva se fosse opportuno regolare diversamente il dibattito: introdurre un moderatore, stilare il programma della giornata, ecc..

Nulla di nuovo: questioni di questo genere si presentano ogni volta che persone si mettono insieme. Il primo pensiero è ricorrere ad una soluzione formale: stabilire un tempo agli interventi, limitarne il numero; ma se questo può andar bene in politica, dove la competizione e lo scontro sono quasi la ragione delle assemblee, figura un po’ stonato in un gruppo che si è costituito intorno alla parola stessa.

Per me un punto di partenza è che ogni gruppo di preghiera, di ascolto e di ricerca, com’è il nostro, si possa senz’altro definire uno spazio della parola. Uno spazio già aperto, dove si comunica anche quando non si parla, anche quando non si sta fisicamente insieme. Lo spirito di Adriana infatti arriva anche a chi non ha avuto la fortuna di conoscerla di persona, così come ci arrivano i suoi fiori e le ragnatele del porticato.Ora, prendere la parola dentro un gruppo di questo tipo, non può certo voler dire impadronirsi della parola, bensì prendere in consegna questo spazio già aperto, per il tempo e nel modo sufficienti a comunicare agli altri il nostro pensiero, o il nostro stato d’animo. Quindi occorre anche restituirlo, possibilmente in buone condizioni. Una cosa semplice da dire, difficile da attuare. In un gruppo, la parola non appartiene a chi la prende, non è una palla da conquistare, non serve a fare goal, non può trasformarsi in un monologo e neppure in un palleggio a due, fatto di numerose

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precisazioni, rilanci e rettifiche… Se abbiamo la sensazione che l’altro non ci abbia inteso perfettamente, non è obbligatorio ribattere puntualmente: qualche volta ci si può anche astenere, dando spazio al silenzio, magari facendo il proposito di spiegarci meglio in un’altra occasione, di rendere più chiare anche a noi stessi le nostre idee.

Lo scopo dei nostri interventi non può essere l’avere ragione o esporre la bella tesi, ma contribuire ad una conoscenza comune, che è la percezione di ciò che contemporaneamente anche gli altri pensano e sentono.Quando due interlocutori rimangono agganciati troppo a lungo, i primi ad essere insoddisfatti sono loro stessi, perché con questa partita a due in un certo senso si estraniano dal gruppo. Gli altri rimangono passivi, in attesa che le loro retoriche si esauriscano, ma l’atmosfera di comunicazione è già in frantumi e per il momento rimane difficile rimetterla in piedi.

È emerso che molti sentono bisogno di silenzio. Silenzio non é solo tacere, non è solo meditazione solitaria, pur necessaria e desiderabile. Il silenzio concerne anche il parlare. Vi sono discorsi “tuttattaccati” che non concedono respiro: anche quando sono poco concludenti, non prevedono interruzioni di sorta, dilagano: questo perché sono troppo agganciati all’io parlante, e poco agli uditori. Vi sono invece parole che risuonano perchè rimangono trasparenti rispetto ai pensieri, ai dubbi e alle emozioni che vi stanno dietro. Mi viene da fare un’analogia con la musica, dove il suono è strettamente connesso al silenzio, anzi proprio da questo viene modulato. Se anche un certo nostro parlare divenisse più silenzioso, forse riusciremmo a scendere più in profondità e a farci capire meglio, senza dover ricorrere a continue rettifiche. Lasciamo una buona volta anche gli altri il diritto di intendere ciò che noi “volevamo dire”.

Quanto al moderatore, posto che ve ne sia bisogno, non dovrebbe essere colui che tiene l’ordine, misura il tempo e riceve le prenotazioni degli interventi: sarebbe una funzione davvero riduttiva. Moderatore è chi cerca di cogliere il filo di senso che lega i vari discorsi, la tonalità affettiva (non necessariamente armonica) che corre tra i presenti, inclusi quelli che tacciono. Che ci sia questo filo di senso, perfino (forse soprattutto) tra due che si stanno beccando, non è un artificio di retorica, è invece una concreta forma di speranza. In qualche modo sappiamo che un senso c’è, pure quando emotivamente fatichiamo ad accoglierlo (anche per questo siamo credenti). Perché dunque non scavare un po’di più per trovarlo, senza fermarci alla superficie, alla forma narrativa? Sotto questa prospettiva, penso che tutti dovremmo esercitarci a moderare i nostri dibattiti. Perché non lo facciamo a turno? Compresi i timidoni ovviamente.

Scusate l’iniziativa di questo scritto, ma penso sia utile non far cadere l’occasione di scambiarci opinioni su un argomento importante. Prendere la parola non è una questione di metodo, ma di sostanza, e penso che dobbiamo ringraziare coloro che tempo fa l’hanno vivacemente sollevata, facendoci accelerare un po’ il batticuore (ogni tanto fa bene alla circolazione). È utile parlarne: la cosa più sbagliata sarebbe scappare (“non vengo più”) o celare le tensioni nel territorio del non-detto (“non è successo niente”). Vi ringrazio per l’attenzione.

Crotte di Strambino (Ivrea), 05/05/12 Renzo Bava

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4. Il pre/testo dell’incontro.Prendiamo subito in parola quello che ci è stato detto: vi propongo un minuto per svuotare la mente, per fare silenzio, e poi darò lettura di questa poesia.

(silenzio)Grazie, un bellissimo silenzio. Allora leggo la poesia: prima la leggo tutta; poi la leggo per strofe e la commento. Quando credete, voi potete intervenire, mentre faccio questo commento, oppure dopo.

a te che cerchi

a te che cerchi dentro l’esistenzabellezza incantamento e poesia

non importano titoli o diplomilibri stampati ideologie o credenze

piuttosto dir di no al dominio ciecoallo scambio sfibrante e diseguale

al gelido avoriato isolamento

piuttosto tracciar circoli iridatispirali intrecciate e luminose

pratiche perfette ed appropriate

a traversar l’umano lievemente

e galleggiar nell’essere leggeroe sprofondar nella natura immensa

e ascendere allo spirito infinito

qualunque cosa avvenga o ce ne venganell’ondeggiante danza della vita

non è questione di prendere o donarenon è questione di segno o di misuradi ragione o portata del suo flusso

importa aprirci al dono immeritatodell’esistenza come qui ed ora

importa decifrarne la strutturacome grazia beante e salutarecome unione felice e duratura

ed i suoi frutti lucida visionegioia rosata forza illimitata

conquisteranno noi pacificati

abbandonati nel divino amplessopersi a noi stessi e al mondo ed estasiati

e rapiti ed invasi e inebriatidalla bellezza e dalla poesia

del beato divino incantamento

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5. Rischio e responsabilità della conoscenza e della parola.

Premetto che vi parlerò, come sempre, liberamente, perché se non lo facessi falserei me stesso e ingannerei voi. Ma questa volta, in questa occasione, parlerò espressamente, in maniera articolata, e non incidentale, ed una volta almeno incidentata, e questo dovrebbe ridurre i margini di equivoco. E, infine, parlerò responsabilmente, o almeno cercherò di farlo: perché il processo della conoscenza è scabroso, i risultati della conoscenza non sempre sono graditi, e il tentativo di metterla in pratica spesso risulta rischioso. E quindi starò più attento, cercherò di fare di più e meglio di ciò che ho fatto fin qui con voi in passato in maniera occasionale, approfittando anche un po’ del fatto che oggi son da questa parte, qui in cattedra, anziché da quella parte, dove siete voi; anche se è solo un gioco della parti. Oggi io sto di qui, ieri ero di lì; oggi voi siete lì, ma domani potrete essere qui, perché vale il discorso che in un gruppo che funziona prima o poi tutti prendono la parola. Come ci ha appena ricordato Renzo, la parola non è proprietà esclusiva di nessuno e nessuno è il padrone della parola: piuttosto la parola dovrebbe sapere imporre il suo dolce signoreggiamento. Allora, torniamo alla mia poesia, per strofe separate.

a te che cerchi dentro l’esistenzabellezza incantamento e poesia

6. Ricercatori di…

Non tutti e non sempre cerchiamo Qualcosa nell’esistenza, non tutti e non sempre siamo ricercatori; spesso saremmo più appropriatamente definibili come amministratori, o possessori, o magari sfruttatori. E se poi ci accadesse di sentirci o ritrovarci amministrati o posseduti, o magari sfruttati, le cose non sarebbero molto migliori; ed a posto non ci sentiremmo comunque.

7. …Bellezza

Bellezza: fa pensare all’armonia, che riporta ad unità, integrazione, incorporazione. Termini allusivi forse di qualcosa che abbiamo esperito all’inizio della vita, quando eravamo incorporati nel corpo di una donna, nostra madre. Termini che potrebbero aiutarci a prefigurare quanto ci accadrà alla fine, quando saremo incorporati nel corpo della Grande Madre, la Terra. Unità, integrazione, incorporazione, i termini del nostro fantasma nel rapporto di coppia; nel rapporto d’amore uomo/donna, in gioco il tentativo di superare la distanza, meglio la differenza sessuale, e più in generale, la distanza, o meglio il mare, tra intento e risultato: questo è il fantasma che ci spinge a far l’amore, ad amare; e ad agire, ad operare, in termini altrettanto generali, qualunque impresa si intraprenda.

8. …Incantamento

Incantamento: l’incanto, che secondo i fondatori europei dell’antropologia (a partire da Marcel Mauss), si trovava nelle società tradizionali pre-capitalistiche; e che loro riscontravano, andando a studiare le società primitive extra-europee. Incantamento e incanto che io definirei come la magia di sentire che il qui e ora non è solamente tale, perché nel qui e ora possiamo avvertire la presenza di un sempre, ed un tutto: cioè nel relativo si può incontrare la presenza dell’assoluto. L’assoluto, che ci manca, secondo il fondatore della sociologia occidentale Max Weber, ormai da tanto tempo, e ci manca tanto più quanto più si sviluppa la società industriale capitalistica. E’ questo il fenomeno, il dato di fatto inequivocabile, che ha indotto a parlare di morte-di-dio: non una bestemmia, ma una sofferenza.

9. …Poesia

Poesia: la percezione di star costruendo qualcosa, questa è la radice greca della parola, costruire. Poesia è il sentimento che proviamo quando sentiamo che non stiamo solamente facendo

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tecnicamente qualcosa, o sottoponendoci socialmente a un comando, o a un compito, o intraprendendo cerebralmente un’operazione; cioè quando non stiamo semplicemente realizzando un comportamento a-sé-stante, ma stiamo costruendo qualcosa, con qualcuno, per noi stessi, per gli altri, qualcosa che ha un senso-suo-proprio. Quando cioè, soggettivamente od oggettivamente, da soli o in compagnia, per un attimo o per tutta intera una vita, percepiamo, usando le parole dell’antropologo Carlos Castaneda, di fare un sentiero che abbia un cuore, cioè un sentiero che ci realizza nella nostra umanità. La percezione di autentic/azione, come ampliamento, elevazione, affermazione dell’esistenza per essere, piuttosto che per avere, piuttosto che per consumare, piuttosto che per essere consumati, per essere posseduti. Puntando ed abbandonandoci ad Assoluto, Unità, Realtà: la terna che allude alla stessa Cosa, cioè al fatto che possiamo orientare la nostra vita ad essere, nel sentimento della bellezza dell’essere, in sintonia con il suo ritmo che ci fa cantare il cuore. La bellezza che, secondo qualcuno, sta tentando di salvare il mondo; che rallegra, solleva e consola. La bellezza che era, è, e sarà.

non importano titoli o diplomilibri stampati ideologie o credenze

10. …Consapevolezza

E qui veniamo al rapporto con la nostra consapevolezza, e quindi con il nostro io, e la nostra soggettività. Questa ricerca dell’unità indubbiamente chiede affinamento psico-fisico, questa ricerca di autenticità indubbiamente chiede conoscenza (anzi, saggezza, ispirazione, visione). Ma non necessariamente tutto questo è cerebrale, non necessariamente è scolastico, non necessariamente, utilizzando un concetto di Ivan Illich, conoscenza istituzionalizzata, astratta, frammentata, impacchettata, pre-confezionata; magari anche enciclopedica nel senso illuministico, oppure assolutizzata in una visione totalitaria, quale pretesa dalle ideologie ottocentesche, e neppure deve essere necessariamente una Fede come struttura dogmatica, autosufficiente, conclusa, autoreferenziale.

11. …Autonomia

Forse essa chiede qualcosa d’altro, qualcosa di più, che includa anche di cominciare a staccarci dai nostri titoli, dalle ns. certezze sociali, accademiche, ideologiche, teologiche. Cioè staccarci da quelle legittimazioni, da quelle identificazioni di superficie che ci vengono dal ruolo sociale, dalle appartenenze. Forse chiede la disponibilità a staccarci dalle appartenenze di famiglia, classe, categoria, professione; laiche, religiose, ecclesiastiche, civili, cioè a superare la istituzionalizzazione. Per procedere verso l’assoluto, l’unità, l’autenticazione. Ma come? Ora vediamo.

piuttosto dir di no al dominio ciecoallo scambio sfibrante e disegualeal gelido avoriato isolamento

12. Il fantasma di padroneggiamento.

O dominare o essere dominati, si è detto in Italia, in Europa, nel mondo in questi ultimi anni; ma forse anche negli ultimi secoli o nell’ultimo millennio. La legge della giungla; o forse peggio, perché, anche nella giungla ci sono rapporti alla pari, corali, di fraternità, reciprocità, complementarietà. Ma in Occidente si è ritenuto che, per realizzare l’umano, non si potesse far altro che dominare, ed in difetto, rassegnarsi a essere dominati. La prima cosa da fare è allora dir di no a

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questo crudele aut-aut. Perché crudele? Perché implica un partecipare alla violenza in senso attivo o passivo, come vittime o come carnefici. Ma anche insensato: perché, come insegna la psicanalisi, facente capo a Jacques Lacan, il fantasma di padroneggiamento, il credere cioè di poter padroneggiare l’esperienza, l’esistenza nostra, ed ancor più l’altrui, è un’illusione. Perché magari teniamo duro con noi stessi e con gli altri, un’ora individualmente, magari un secolo collettivamente, siamo fortissimi, durissimi, cattivissimi… poi un bel giorno od una brutta notte, abbiamo gli incubi, l’oppressione del senso di colpa, ci scappa detto o fatto qualcosa di sbagliato, controproducente, non in linea: ci sono i lapsus che entrano in gioco, ci sono gli eventi interiori ed esteriori, c’è il caso di cui si parlava stamattina, ci sono le conseguenze remote delle ns. azioni. E quello che vale individualmente, vale anche collettivamente, anche se per vedere la caduta di una città o di un impero, occorrono secoli o millenni. Ma, impercettibilmente, da un certo momento in poi, qualcosa comincia a sgretolarsi dentro, qualcosa comincia a disgregarsi, fuori. Così si prepara l’ implosione di una civiltà. La vita non è a nostra disposizione, la Vita è più grande di noi. Quello del padroneggiamento è un fantasma; è forse ora di smettere di vivere secondo il fantasma dell’io padrone, lo io posso, voglio e comando, che un tempo si attribuiva al re, ed oggi che il re è nudo, malauguratamente sembra essere diventato uno svarione universale. Domani faccio questo e faccio quell’altro, e tu fai questo e fai quell’altro; perché mi sei sorella, mi sei madre, mi sei moglie, mi sei figlia, mi sei collega, mi sei dipendente in qualche modo. Forse conviene smettere di fare tutto ciò.

13. Uscire dalla mentalità scambista.

E dir di no anche, ai rapporti basati sullo scambio più o meno uguale; che poi, se si diventa scambisti, in senso profondo, in senso radicale e metafisico, e non solo di costume economico, si ha sempre il desiderio di prendere di più di quello che si dà, perché non si ha mai abbastanza, lo sappiamo bene. Allora forse bisogna uscire, non soltanto dalla violenza del dominio, ma anche dall’opportunismo, dal calcolo, dalla commercialità dello scambio, e dal puntiglio della sanzione, del dente per dente, del quanto si dà e quanto si prende. Uscire fuori da una mentalità contrattualistica. Da una mentalità che confonde reciprocità etica con equivalenza indifferente. La società moderna in cui stiamo è basata sullo scambio di merci, sulla fruizione di servizi; ed i rapporti stanno diventando tutti di scambio, non solo i rapporti di lavoro, tutti i rapporti stanno diventando rapporti di scambio. Di scambio di oggetti e servizi diventati merci, cioè erogati in cambio di denaro. D’altra parte, se il rapporto non deve essere di dominio, e se non deve essere di scambio, come lo costruiamo quest’altro rapporto? Ci arriviamo fra poco.

14. L’ossessione dell’isolamento.

Ma, prima ancora, una osservazione. Occorre uscire dal dominio, uscire dallo scambio, senza finire nell’isolamento. L’isolamento è la torre d’avorio delle anime pulite, delle anime candide come immagino sia la vostra, come vorrei fosse la mia, tutti vorremmo avere una bella anima bianca. Però, per avere l’anima bianca, non basta isolarci. Anche quello dell’isolamento è un fantasma, o forse un’ossessione, che non corrisponde alla realtà. Infatti, provate a immaginare voi stessi e il vostro corpo isolati dal mondo circostante, manca l’ossigeno, manca l’umidità, manca l’alimentazione. Lo stesso a dirsi sul piano emotivo (gli altri ci rassicurano) e sul piano conoscitivo (quello che pensiamo è in gran misura dovuto a quello che hanno pensato altri prima di noi o attorno a noi). Quindi noi non siamo delle isole, non siamo autosufficienti, siamo inseriti in un tutto e dobbiamo essere responsabili nel rapporto con questo tutto. Isolarci nella nostra intimità, nella nostra intenzione, nel nostro piccolo buco non basta a cambiare il contesto in cui siamo, la dinamica in cui siamo presi, la società e la storia di cui noi siamo l’ultimo inconsapevole frutto, magari l’ultima inconsapevole rotella.

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15. Spessore dello storico-sociale.

La società che ci sta intorno, la storia che l’ha costruita, ci condizionano nel comportamento, hanno uno spessore, sono riportabili a sistemi (simbolico o culturale, relazionale o sociale, produttivo o economico) che si sono costruiti nei secoli, e vengono confermati giorno per giorno dal nostro comportamento, e stanno nelle ns. teste, orientando pensieri, analisi, valutazioni, aspettative, programmi. Quindi non basta l’isolamento, occorre qualcosa di più, e l’ umanesimo antropocentrico, come mediocre autarchica difesa di socialità e razionalità in via di impoverimento e scomparsa, non è all’altezza della sfida con la dis/umanità basata sul dominio e sullo scambio diseguale, e sulla mercificazione che è qualcosa di più dello scambio diseguale, perché ne è sia la fonte che l’effetto. La mercificazione diffusa: settori sempre più ampi della nostra vita sono sottoposti all’egemonia del denaro, tramite la monetizzazione. Monetizzati, cioè sottratti alla sfera della valutazione etica, dell’intendere, del sentire, dell’agire, e consegnati al dominio del dare-avere delle potenze mondane, simboleggiate appunto dal denaro e dalla sua egemonia.

piuttosto tracciar circoli iridatispirali intrecciate e luminosepratiche perfette ed appropriate

16. Recupero della circolarità.

Circoli: fa pensare a qualcosa che non abbia lo stigma del trauma quotidiano, della retta che si spezza. Il circolo fa pensare all’eterno ritorno, a ciò che ci rassicura; da un circolo, da una sfera, siamo usciti per nascere, ad un circolo, ad una sfera, torniamo alla fine. In circolo, continueremo a cercare; un circolo cercheremo di fare con i nostri fratelli; un circolo, cercheremo di fare per giocare, un circolo per sentirci alla pari; un circolo per definire uno spazio di relazione, un circolo, o un semi-circolo, o un’ellisse, stiamo facendo qua. Ma un’ellisse va anche bene, il circolo ne è solo l’espressione particolare.

17. Iride della differenza, bianco della totalità.

Iridati: perché nell’iride si dice che c’è tutto, perché nell’iride, e nella luce bianca che esso compone, stanno tutti i colori, come diceva Adriana in una delle lettere che ci ha mandato Bruna in questi mesi. Nel bianco ci sono tutti i colori, diceva lei, non bisogna aver paura del bianco, dell’inverno, del candore, della purezza, perché essi non parlano di una assenza, ma di una integrazione, di una perfezione. Quindi l’invito a far circoli iridati, è l’invito a fare circoli con la varietà della vita, circoli inclusivi della varietà dell’esistenza, della differenza, della molteplicità, della cangianza, del divenire.

18. Coniugare circolarità e spinta evolutiva.

Il circolo rassicura: ma se noi viviamo in maniera consapevole, in maniera intenzionale, se noi viviamo con un progetto, un intendimento, se non ci rassegniamo alla ripetizione, ma aspiriamo all’evoluzione, non auspicando logoramento ma rinnovamento, non limitandoci a confermare ciò che già siamo ma per essere meglio e di più, cioè se noi viviamo per oltre/passare noi stessi individualmente e collettivamente… allora dobbiamo cominciare a venire a capo di ciò che ci ha illusi. Perché ci siamo immaginati, tra Seicento, Settecento e Ottocento, qui in Europa, che si potesse progredire per linee rette. Poi tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, gli spiriti più avvertiti (dell’arte, della scienza, della filosofia, della religione) si sono resi conto che non è la linea retta la linea più breve tra due punti, nella concretezza della realtà gravitazionale e spazio-temporale dell’esistenza; la linea retta non è concessa agli umani. Gli umani, che stanno tra spirito e natura, in una realtà mediana che qui chiamiamo “storico-sociale”, devono muoversi secondo linee per così dire curve – si va per metafore, ben si intende, si

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va per figure; perché si sta parlando di ciò che va al di là dell’apparenza, della sua bruta consistenza materiale, della sua ingenua rappresentazione mentale. Si sta parlando della nostra vita, ed essa, per la sua appartenenza alla sfera dell’essere, chiede una consapevolezza maggiore. Qui sosteniamo che noi dobbiamo coniugare la nostra spinta all’evoluzione, all’avanzamento (declinata compulsivamente e razionalisticamente nel secolo scorso come spinta al progresso scientifico-tecnico lineare), alla circolarità, ripetizione, stabilità, continuità, proprie della Natura.

19. L’umano tra rito e mito.

Ma una circolarità polarizzata, dilatata, trasfigurata, sublimata dal mito, per realizzare più-umanità, nel senso di più autentica e compiuta, più elevata e profonda, più innocente e più scaltra. Più vicina (sempre per modo di dire) all’Assoluto, capace di dissolvere idoli e macchinazioni. E poiché all’umano non è consentito sottrarsi al rito, fare a meno del mito, allora conviene che noi si faccia ricorso, per esprimere la ns. proposta, alla figura di un avanzamento a spirale, perché la spirale nasce appunto dalla sommatoria di un avanzamento rettilineo e di un movimento circolare. Ecco perché qui si parla di spirali. Ma questo percorso, individuale e collettivo, soggettivo ed oggettivo (ed inter/soggettivo) di trasformazione della consapevolezza e del mondo dell’uomo che cerca il Divino; questo percorso (di una esperienza) non può essere affidato a libri, ideologie, credenze, ma, come scrivo, a pratiche perfette ed appropriate; ad azione, re/lazione, inter/azione.

20. Occorre appropriatezza e perfezione.

Pratiche perfette ed appropriate. Perché perfette, perché appropriate? Perché si può anche agire molto sconsideratamente, impropriamente. Si può agire non secondo natura (secondo la ns. natura, la natura umana), ma in maniera violenta, non rispettando la curvatura del reale, in maniera dis/umana, crudele, inappropriata. E quindi appropriata nel senso di “secondo natura”; poi, un’altra volta, bisognerebbe problematizzare il concetto di natura in generale, e natura umana in particolare, poiché l’umano sta tra il naturale e lo spirituale, nella sfera individuata, secondo J. Lacan, dal linguaggio, e secondo i pre-socratici, dal logos.E perfetto: perfetto vuol dire compiuto, cioè pratiche che siano tarate per raggiungere lo scopo. Lo scopo qui indicato come bellezza, incantamento e poesia che ci guidano, attraverso molteplicità e divenire dell’esistere, all’Uno, all’Assoluto, alla Totalità per la nostra autentic/azione, per divenire cioè, niente di più e niente di meno che ciò-che-siamo.

a traversar l’umano lievemente

21. Il ramo verde dell’umano.

E qui entra in gioco il concetto di umano. A traversar l’umano lievemente, cioè, come dire la leggerezza dell’essere; come dire che l’umanità non è data una volta per tutte, l’umanità non è qualcosa che si possiede, non è qualcosa che si ha. L’umanità, come hanno detto molto bene gli esistenzialisti, non è un dato di partenza, cioè noi non nasciamo umani, l’umanità la si costruisce. Se noi non siamo quel rametto storto di cui parlava I. Kant, siamo sicuramente un rametto verde, che può crescere dritto o storto, rigoglioso o debole, sano o malato. Noi nasciamo immaturi, dipendenti intellettualmente, emotivamente, praticamente. Non autonomi, in/sipienti, in/sicuri, in/digenti. Abbiamo bisogno di afferm/azione, assicur/azione, aliment/azione, che cerchiamo prima in ns. madre, poi tra terra e cielo, tramite la ns. azione. E’ essa che può permettere la nostra realizz/azione, oppure dare luogo alla ns. reific/azione.

22. Umanità non gratuita, né garantita, né pre-determinata.

Come notava Pico della Mirandola, noi, diversamente dai ns. antenati animali, la ns. natura ce la dobbiamo costruire, felicemente o infelicemente, essa non è pre-determinata. Inoltre, diversamente da quanto asserito da molti moralisti, per essere umani, non basta essere giusti, comportarsi secondo

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le regole, fare quello che hanno fatto i ns. padri, o che fanno i ns. simili. Non basta cioè essere razionali e sociali. Non basta seguire alla lettera un decalogo per essere umani, occorre inseguire lo spirito, l’esempio di Gesù, le sue indicazioni, assomigliare al Divino, sintonizzarci, armonizzarci, ispirarci ad Esso. Ma questo assomigliare (questo affiatamento, questa sintonizzazione) non si può raggiungere ed acquisire una volta per tutte. La stonatura ci aspetta dietro l’angolo. La conversione non è una fulminazione sulla via di Damasco: è un percorso lento, lungo, impervio, e forse interminabile. Non è che uno fa qualcosa di appropriato e buono, e diventa buono per sempre, nel senso che poi il giorno dopo, l’ora dopo, il mese dopo potrà limitarsi a ripetere la stessa cosa, che risulterà ancora buona. Non sarà così, perché la ns. esistenza (come soggettività ed oggettività), la ns. umanità sono estensibili e/o contraibili, degradabili e/o elevabili, assecondabili e/o contrastabili, rispettabili e/o umiliabili. Possiamo andare incontro a meno esistenza, più esistenza; possiamo divenire umani, più-che-umani, men-che-umani. L’umanità si matura e si costruisce. Una questione di qualità, non di quantità.

23. Oltre l’umanesimo, tra men-che-umano e più-che-umano.

Cercando pratiche perfette ed appropriate. Non ci è garantita l’umanità: ci è garantito l’involucro dell’uomo, e credo anche, per così dire, il germe dell’umano; ma tutto il resto richiede una spinta ed un affidamento. Richiede, cioè, di intendere, sentire, operare sempre più appropriatamente. Richiede volontà, intelligenza, sentimento. Questo ci permette di traversare il mondo umano perché tutto ciò lo dobbiamo fare in un contesto complessivo, in una società che sembra stia tra l’umano, il dis/umano ed il sub/umano. Ora provo a spiegarmi. Se per umano intendiamo l’essere animale, razionale, sociale, siamo sicuri che noi viviamo in una società che ha come modulo l’umano? Ma avete presente il grado di confusione mentale in cui tutti, a partire da chi vi parla, rischiamo di stare giorno per giorno? La difficoltà ad avere lucidità, a mantenerla, ad allargarla, la difficoltà ad agire razionalmente? E poi, razionalmente, dopo Freud e la psicanalisi, è ancora possibile credere all’assoluto della ragione? Con quello che c’è sopra e quello che c’è sotto la ragione, con tutto ciò che di fisico, psichico e spirituale, sta tra cielo e terra, sopra e sotto, davvero noi pensiamo che l’essere umano si comporti in maniera razionale? E poi, se anche ne fosse capace, potrebbe farlo? Siamo in una società ragionevole?

24. Socialità e corporeità, da recuperare e sublimare.

E poi, sociali: ma siamo sicuri di essere in una società dove gli uomini e le donne sono sociali o addirittura socievoli? In una città come Torino ci sono approssimativamente 400mila nuclei familiari: di questi 400mila, circa 200mila sono costituiti da persone singole, circa 100mila da coppie senza figli, circa 100mila da coppie con figli. Noi siamo in una società talmente sociale e socievole che non regge più nemmeno il suo nucleo base, la famiglia ristretta, ridotta all’osso. C’è un problema di socialità grande come il mondo, o almeno come il ns. continente. Siamo in una società conviviale, usando il termine coniato da Ivan Illich? Non mi pare proprio, siamo in una società dell’arraffa-arraffa, “ognuno per sé e Dio per tutti”. Quindi la ns. socialità è da ricostruire. Quanto poi alla animalità, lo stato della salute (psico-fisica, individuale e collettiva) può dirci molte cose circa l’inadeguatezza di tale attribuzione rispetto agli autentici animali, sia per difetto che per eccesso. E, per finire, come si fa a costruirsi un’esistenza autentica, se insieme a convivialità, fraternità, operosità, non si dispone di creatività, gioia, entusiasmo?

25. Plasticità ontologica.

Quindi una umanità da costruire (o ri/costruire) senza cadere nella improprietà di sostenere che l’essere umano è l’unico essere in cui l’esistenza costruisce l’essenza. Improprietà e contraddizione logica che risente di un residuo metafisico e antropocentrico, e separa natura e divenire umani, da natura ed evoluzione di tutti gli altri esistenti. La differenza tra noi e loro sta soltanto in una ns.

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maggiore plasticità ontologica. Inoltre, sia per noi che per loro, è la stessa categoria di essenza che non regge. La ns. umanità, chiede un’affermazione continua: non ha né la sicurezza dell’oggettività effettuale, né la sicurezza del fondamento meta-oggettivo, quello che una volta si dava per scontato.

26. Il linguaggio, la linea di confine tra essere ed esistere.

Cioè una volta si diceva che noi siamo sì creature precarie, però c’era qualche cosa di più solido, più assoluto ed eterno in noi, quello che si chiamava anima. Qualcosa di più solido, assoluto, duraturo: il fondamento metafisico. Io credo che si possa fare dell’ontologia criticamente avvertita, senza cadere nella ingenuità della metafisica. Io credo che si possa parlare di essere ed esistere e l’ho fatto qui già svariate volte, e un giorno o l’altro, se vorrete, proverò a problematizzare davanti a voi il loro rapporto, che si manifesta ed articola nel linguaggio. Ma non credo che noi si possa padroneggiare il ns. fondamento, sempre che esso possa essere reperito ed esperito. Noi esistiamo, e vogliamo esistere autenticamente, dirigendo la ns. esistenza, ed ampliando la ns. esperienza, polarizzate, dilatate e sublimate dall’Uno, Assoluto, Bello, Luminoso: il Divino.

27. Il Divino, non fondamento, ma matrice e magnete e fonte, e orizzonte e meta e foce.

Però non siamo noi che possediamo questo magnete, è questo magnete che ci orienta; non siamo noi che possediamo questa fonte, è questa fonte che ci alimenta. Neppure siamo noi i padroni dell’esistenza, questo fiume ad ogni istante sempre nuovo, ed insieme perenne; tanto meno siamo noi i padroni dell’essere; quindi nessuno può sperare di sistemarsi definitivamente sulle spalle del cosiddetto Fondamento. Perché “cosiddetto”? Perché, secondo le scienze fisiche contemporanee, esso semplicemente non avrebbe luogo, non “esisterebbe”. In una materia tutta bucata come una gruviera, materia che non è poi soprattutto materia, ma energia, o che forse non è soprattutto energia, ma, dicono in Oriente, in ultima analisi coscienza, o anche, tutto al contrario, solo apparenza. Il fatto è che, come dice J. Lacan, (del)l’apparenza ec/siste, (del)la materia con/siste, (de)l simbolico in/siste, nella ns. esperienza: solo il Divino è. E’, ma non alla portata della ns. coscienza, finch’essa è separata, ed appannata, se non addirittura ottenebrata. Nella precarietà del ns. esistere, che fare?

e galleggiar nell’essere leggeroe sprofondar nella natura immensae ascendere allo spirito infinito

28. Il degrado totalitario della metafisica, da religiosa, a politica, a finanziaria.

Questa è l’indicazione. L’essere, qui inteso nel senso dell’esistere (scusate questa licenza poetica) è leggero nel senso che non è stabile, non è una volta per tutte, non è garantito. C’è un problema di affermazione, non c’è stabilizzazione garantita, né dalla Chiesa, né dallo Stato, né dal Partito, né dalla Finanza. Della meta non disponiamo, né disporremo, almeno in questo spazio-tempo. Ed è una impostura ingrassarci su, garantendola, una idolatria identificarla, un inganno letale sacrificarcisi. La metafisica è nata come religiosa, è diventata laica, giuridica come ideologia dello Stato nazionale, politica come ideologia della rivoluzione, economica come ideologia del mercato, sociale come ideologia della finanza. Io vi invito a non rassegnarvi a queste metafisiche, antiche e nuove: hanno in comune il tentativo di giustificare il dominio sull’umano, sono empie e truffaldine. Sono tendenzialmente totalitarie, in maniera più o meno dichiarata o dissimulata.

e sprofondar nella natura immensae ascendere allo spirito infinito

29. Spirito e soggettività.

Ora entrano in gioco due concetti: quello di natura e quello di spirito; qui vengono dati per scontati ma non lo sono dappertutto; in ambienti cerebral-razionalistici il concetto di spirito fa storcere il

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naso. Noi parliamo di spirito e qui non lo problematizzo; molto semplicemente lo uso per riferirmi ad uno spazio, ad una realtà cui allude l’esperienza della nostra sfera soggettiva. Lo spirituale è forse ulteriore rispetto al soggettivo, ma il soggettivo ci parla dello spirituale. Il soggettivo non è materico e non è esterno a noi, e quindi non è riportabile alla sfera di natura e di oggettivo. Da tale sfera è perciò da considerarsi autonomo, e, come vedremo, complementare.

30. Natura ed oggettività.

Poi abbiamo il concetto di natura, lo diamo per scontato. La natura è immensa, nel senso che non è solo immensa come cosmo ma è immensa come le caverne che ospitano, per così dire, il ns. inconscio: i ns. sistemi bio-chimico, bio-fisico, bio-psichico. E’ una realtà immensa e non si tratta più, come si faceva nell’Ottocento, di negarla: si tratta di attraversarla. Quindi noi abbiamo il problema di un’esistenza autentica che ci avvicini all’essere, ma all’essere totale, cioè l’essere che non si pone come spirito e natura o soggettivo e oggettivo, ma come loro amplificazione ed oltrepassamento. Cioè l’essere come orizzonte, matrice e meta dell’esistere, non come rinuncia, più o meno imposta o più o meno necessaria, all’esistere. Quindi non è una concezione spiritualistica quella che io propongo, tanto meno materialistica; ma molto di più, una concezione dialettica o dialogica, comunque inter/attiva ed unitaria, di spirito e natura oltrepassati in alto, in basso, a sinistra e a destra. Dicono le scritture indiane che, arrivati a un certo punto, l’alto e il basso non si distinguono più, come forse la destra e la sinistra oggi in Occidente. Qui si propone di armonizzare, sublimare e concretare natura e spirito in qualcosa di ulteriore ed inclusivo. Andare oltre la dimensione del soggettivo e dell’oggettivo per realizzare qualcosa di ulteriore: io mi immagino sia il ns. identificarci/realizzarci/dissolverci nel Divino. Perché dal Divino spirito e natura partono, nel Divino si incontrano, e al Divino dovrebbero tornare; e noi con loro, anche se potrebbe costarci qualcosa…

qualunque cosa avvenga o ce ne venganell’ondeggiante danza della vita

31. L’esistenza come tras/form/azione e tra/duzione, tra nascita e morte.

E sì, perché l’esistenza, che noi non padroneggiamo, ha alti e bassi, costi e benefici, gioie e dolori. Ecco perché è ondeggiante: perché non è una costante, non possiamo esprimerla con una retta, fatta com’è di flussi e riflussi. Non sappiamo mai cosa ci deve arrivare, e comunque se ci arriva qualcosa di buono, come diceva Leopardi, poi arriva qualcosa di meno bello, al riso segue il pianto, e viceversa. Inoltre, e di più, l’esistenza è ondeggiante, perché si sviluppa tra due estremi: la nascita e la morte. Quindi è traduzione, trasformazione, distruzione e creazione, metabolismo e catabolismo, giorno e notte, conquista e ritirata, identific/azione ed alter/azione.

32. Il distacco necessario all’azione libera.

E che cosa ne arriva a noi? Noi non possiamo metterci a fare i ragionieri con la ns. vita: questa cosa non la faccio perché mi porta dolore, questa cosa non la faccio perché costa, questa cosa non la faccio perché non è sicura. Non è così che si vive la vita, bisogna viverla alla grande, bisogna viverla intensamente, se cerchiamo Gioia, Forza, Visione. Quindi si tratta di divenire capaci di distacco rispetto alla risultanza della nostra azione: che arrivino dolore, gioia, solitudine, compagnia, ri/conoscimento, dis/conoscimento…noi al Divino dobbiamo puntare, alla ns. autenticazione. Noi dobbiamo trovare il modo di comportarci appropriatamente e divenire capaci di quello che qualcuno (Aurobindo Ghose) ha chiamato azione libera, cioè l’azione che non è pura e semplice re/azione alle circostanze esterne o all’ impulso che ci viene da dentro. Dobbiamo smettere di agire per reazione, possiamo fare qualcosa di più e di meglio. A questo punto propongo di fermarci, siamo a metà della poesia, vi ho infarcito dei miei concetti e adesso sto zitto per un po’.

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Dibattito

(Caterina L.) E’ la difficoltà di cui parlava prima Bruna, del linguaggio. E’ come una iniziazione ogni volta, devi fare uno sforzo enorme.

(Bruna P.?) Sull’onda di quello che dicevi…mi veniva in mente Pascal.

33. Il logos aristotelico eccede la razionalità strumentale oggi dominante.

(Riccardo M.) Se posso, vorrei dire una cosa su certi passaggi. A un certo punto hai parlato dell’uomo come animale razionale e sociale, ma volevo fermarmi sul razionale e su questa controversa espressione aristotelica. Perchè sappiamo che Aristotele parlava di uomo come animale razionale, ma razionale nel senso di animale attraverso il quale passa il logos: questa era la dizione aristotelica esatta.

(RQ) Quindi in Aristotele il concetto di razionalità è più alto di quello che abbiamo noi adesso: noi abbiamo un concetto di razionalità, come razionalità strumentale, cioè come efficacia o efficienza.

(Riccardo M.) Il logos può essere una attività mentale differente dalla sola produzione di parole od anche dal raziocinio, diffèrente da come è stato accolto da parte della cultura latina. E noi abbiamo fatto la sintesi di uomo animale razionale in qualche maniera svilendo quella che era l’intuizione iniziale di Aristotele, per cui c’era il logos ma anche altre cose. Da filosofo tendo a salvare Aristotele (dall’appiattimento denunciato, ndr).

34. Dalla dialettica binaria e/o hegeliana a quella non-dualistica o adwaitica.

(Riccardo M.) L’altra cosa: mi è piaciuto molto come hai parlato della dialettica come dimensione dell’uomo, dialettica binaria (materia-spirito). Stiamo parlando della dimensione del Divino o se vogliamo della Coscienza. Mi piace molto il modo in cui tu hai parlato di questo termine “dialettica”, ma il termine mi dà l’idea di una costruzione meccanica che da due elementi di natura inferiore crea in maniera sintetica qualcosa di superiore. Con Panikkar, visto che si richiama l’Oriente, si utilizza una dialettica che è adwaitica, non-duale. E in questa relazione il terzo elemento non è un prodotto dei due, ma li trascende. Il divino potrebbe essere questo aspetto relazionale, non un prodotto ulteriore ad essi superiore. In condizione di lontananza e di alterità, la nostra è una sudditanza rispetto al Divino, una lontananza estrema. Siamo in contatto, ma in realtà siamo diversi. Ma non si può più usare la terminologia “essere supremo” della teologia medioevale. La dialettica hegeliana produce un terzo elemento che però sembra qualcosa di estraneo ai due produttori (della relazione, ndr).

35. La danza universale, il ritmo dell’essere.

(Riccardo M.) L’ultima cosa è quando parlavi dell’ondeggiare, non so se mi puoi rileggere i versi: qualunque cosa avvenga o ce ne venga / nell’ondeggiante danza della vita …

Questo mi ha fatto venire in mente il ritmo. Ultimamente rifletto molto su questa cosa, dedicandomi alla traduzione del pensiero di Panikkar. Il ritmo che ci può essere tra musica e silenzio, il ritmo che ci può essere tra le varie dimensioni dell’essere: secondo me l’ondeggiare in maniera armonica è danzare, può essere la relazione “adwaitica” (non-dualistica, ndr) della realtà; se è un ondeggiare ritmico è un ondeggiare armonico (non disordinato), quindi quella potrebbe essere la dimensione trascendente.

Poi volevo chiederti se puoi parlare un po’ di più dell’azione libera perché mi interessa molto.

(RQ) E’ un concetto che viene da Aurobindo, però è un concetto finale di un lungo percorso. Io me lo segno, però non so se potremo tornarci sopra perché in due parole non si riesce a sviluppare.

(Bruna P.) Cosa intendi per reale e cosa intendi per coscienza?

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(RQ) Possiamo mettere in connessione questa domanda con quella su spirito e natura, perché la mia lettura della realtà è nel suo complesso, unitaria. Dunque vorrebbe poter cogliere il reale come un tutto, passando dalla molteplicità e cangianza del reale alla unità e permanenza del Reale.

36. Parole che spiegano e/o nascondono.

(Renzo B.) In psicanalisi si parla di attenzione fluttuante. In una densità come quella che ci stai offrendo tu occorre che tu ci aiuti a digerire, se no facciamo indigestione. Io prima parlavo di parole trasparenti e mi viene in mente quello che diceva Wittgenstein, un po’ provocatoriamente: bisogna sempre chiamare il luogo da cui stiamo parlando. E’ qui che comprendiamo il senso di queste parole, perché le parole possono servire per spiegare, conoscere, parlare, comunicare, ma servono anche per nascondere. Le parole sono lo strumento migliore che noi abbiamo per nascondere. E se uno si vuole nascondere, si nasconde dove c’è la folla, non dove c’è rarefazione. Stai facendo tu il relatore, cerchiamo di diradare un pochino; possiamo anche prendere questa tua come una lezione, lavoro intellettuale, ma credo che il movimento, il filo che ci lega non sia necessariamente questo, ma mentre tu mi leggi una poesia e me la spieghi, una parte di me si chiede, cerca la tua immagine di te mentre scrivevi, dov’eri.

37. Poesia come autenticità pura ed ispirata…

(RQ) Alla base di questa poesia c’è un fatto. Una mattina mi sono alzato, ho trovato sul calendario che era l’onomastico di una persona che poco prima avevo conosciuto, una signora che come me scriveva delle poesie, e ci siamo conosciuti grazie ad un convegno. Questa signora mi aveva donato una sua raccolta di poesie, in cui si registravano episodi della sua adolescenza: come la bellezza dello stare in mezzo alla natura a primavera, la prima simpatia con un ragazzo, la tenerezza degli affetti domestici. Alcune di queste poesie erano, secondo me, stupende, perché erano la pura e semplice registrazione del suo vissuto. In altre poesie invece lo ricordava, ma lo giudicava anche, a mio parere prosaicamente e moralisticamente.

38. …liberata dal peso delle sovra/strutture.

Io ho voluto mandarle qualcosa di mio e le ho scritto questa poesia. Per esprimerle il mio desiderio di spingerla a ritrovare la bellezza, poesia ed incantamento della sua giovinezza, rimuovendo sopravvenute sovra/strutture cerebrali, ideologiche, moralistiche, e la loro espressione prosaica e sentenziosa. Poi, siccome era una persona non più giovanissima, che scriveva in maniera un po’ formale, ho usato l’endecasillabo; ne è venuta una poesia un po’ rigida, ma con una musicalità più facile da avvertire che non quella del verso libero vero e proprio. E’ rimasta però densa e contratta concettualmente, quasi ermetica: perciò si giustifica il mio impegno a spiegarvela.Ora passo alla seconda parte della poesia, che descrive le probabili conseguenza delle scelte esistenziali proposte nella parte precedente.

non è questione di prendere o donarenon è questione di segno o di misuradi ragione o portata del suo flusso

39. Condizione umana…

Non è questione di prendere o donare; non è questione di segno o di misura, di ragione o di portata del suo flusso (del flusso dell’esistenza). Torniamo ancora per un momento alla signora di cui prima. Mi sembrava avesse l’ossessione del voler bene a tutti e a tutto: in queste sue poesie c’era sempre l’Amore con la A maiuscola. Benchè io sia convinto che la struttura del reale sia una struttura d’amore (forse addirittura una struttura trinitaria), non sono tuttavia convinto che per la nostra autentic/azione si possano dis/conoscere i sentimenti diversi dall’amore. E non sono convinto che la strada per l’unità e l’armonia possa fuorcludere il conflitto. Qui c’è l’affermazione del fatto

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che non basta l’intenzione del voler bene, perché questo intendimento si scontra con realtà (interiori ed esteriori) che non ci permettono di voler semplicemente ed istantaneamente bene, ci chiedono di fare un percorso che ci metta in condizione di volere, bene, il bene nostro e/o altrui.

40. …e Divino Amore.

Questo percorso può portarci al riconoscimento di conflitti anche molto pesanti, dentro di noi, fuori di noi, tra noi e il nostro prossimo, tra noi e la società. Conflitti anche molto pesanti: e questo amore divino (io ho anche scritto una raccolta di poesie intitolata “Al divino amore”), questo Divino Amore, è appunto l’amore divino, il Suo, non il nostro, umano. Ma essere capaci di partecipare al Divino Amore, cioè sublimare divinamente il nostro sentimento non è uno scherzo, e non è immediato, non è vero che da un momento all’altro diventiamo capaci del divino amore (magari perché ci siamo decisi a con/vertirci). E superare i conflitti non è uno scherzo, non è immediato, non è vero che da un momento all’altro superiamo i conflitti, dentro di noi, col prossimo, con la società: è un percorso da fare, non basta perdonarsi l’un l’altro. Occorre anche riparare, e…cambiare.

41. Un mare, anzi due oceani o due mondi, tra intenzione e comportamento.

Quello che intendo dire, insieme agli esistenzialisti e alla migliore arte del primo Novecento, è che occorre la riabilitazione di una categoria che è vicina a quella dell’amore, ma è diversa: la categoria della gioia. Perché in principio era la gioia, come intitola un suo libro Matthew Fox, con un’affermazione ed un gesto che gli sono costati cari. Perchè “strappare la gioia di vivere ai giorni presenti” (Prévert) rimane un programma attualissimo e validissimo: chi ha la gioia dentro è capace d’amare, chi ha l’intenzione d’amare, magari non è capace di gioia, e perciò magari anche d’amore. Insomma è una bella cosa la petizione di principio che dobbiamo voler bene a tutti, ma non è così semplice; quando si riassumono le massime evangeliche nei due punti: “ama Iddio con tutte le tue forze” e “ama il prossimo tuo come te stesso”, non credo ci si riferisca all’intenzione, e di essa ci si accontenti, perché tra l’intenzione e il comportamento c’è di mezzo: (di dentro) tutta la dimensione dell’inconscio e della mente, e (di fuori) tutta la dimensione dell’economico e del sociale. Di mezzo c’è tutto il mondo, interiore ed esteriore, soggettivo ed oggettivo: due mondi, due oceani, che il ns. spirito deve attraversare ogni volta attraverso l’azione, se non libera, almeno appropriata, o non troppo inadeguata. Quindi, metterci nelle condizioni di una società ispirata all’amore fraterno, e quindi da questo punto di vista evangelica, e quindi, e in questo senso, cristiana, vuol dire fare una svolta (così mi esprimo io nel mio libro), non di meno ma di più di una rivoluzione, non di meno ma di più di una riforma, non un balzo indietro, e neppure un balzo in avanti, ma una svolta che ci fa deviare dal percorso che, come Occidente, stiamo facendo da mille anni, un percorso che ci sta portando alla società come effettualmente è, che non è la società evangelica, conviviale, comunitaria, qui auspicata.

42. All’amore occorre l’energia della gioia.

E’ un percorso infinito, quello da fare, un percorso dentro di noi e all’esterno di noi, e qui entra in gioco la categoria della gioia, perché il voler bene veramente (a noi, agli altri) è un fatto anche e prima di tutto di energia. Quando siamo depressi, e/o repressi e/o oppressi, nel ns. voler bene si insinueranno sempre ed inevitabilmente, in qualche misura, sadismo e masochismo, violenza e/o carenza. Quindi il problema è un problema di energia, del poter fare, oltre che del saper fare e del voler fare. A mio parere chi è gioioso può essere amorevole con il suo prossimo in maniera distaccata, perché c’è pure il problema del distacco: cioè più noi ci impegniamo ad essere amorevoli, più fatica facciamo, e più…se il prossimo o il ns. io non ci son grati, diventiamo delle belve: è così che capita, anche se è spiacevole doverlo riconoscere.

43. Lungo, il percorso verso la letizia.

Se siamo amorevoli in maniera irragionevole, forzata, al di là delle ns. forze, se siamo carenti o addirittura dissociati, falsi e/o falsati, alla fine può finire in tragedia, perché possiamo im/plodere o e/splodere, svuotati o contrariati, perché l’etica deve fare i conti con i bisogni oltre che con le

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relazioni (perciò essa abbisogna di trovare o di realizzare una società ed una economia ad essa ispirate). Il fatto è che per portare il ns. sentire dal dualismo del livello vegetale (attrazione/repulsione), a quello del livello animale (amore/odio), a quello già molto più attenuato del livello psichico (benevolenza/compassione), puntando alla stabilità ed unità della francescana letizia, della mistica beatitudine, della yogica ananda, occorre accoppiare esperienza e coscienza in un lungo, forse interminabile, percorso. E’ questo che abitualmente avviene dentro di noi e attorno a noi? Basta guardarsi attorno: l’uomo che ama (od amava) che uccide la donna; la donna che amava (e più non ama) che avvelena (la vita del)l’uomo. Anche per il sentimento, come per la conoscenza, si tratta di passare (lo dico meglio nel mio libro) dalla primitività all’abitudine, dall’opinione all’ottimizzazione, dalla creatività alla pneumaticità, che non è quella della pubblicità delle gomme Michelin, ma è quella della leggerezza, frutto della invasione dello spirito.

44. Impervio, il percorso, verso l’illuminazione.

Quindi una cosa è il Divino Amore, una cosa è la ns. approssimazione, umana, speriamo non troppo umana, al Divino Amore. Analogamente, certo c’è la Verità Divina, essa coincide con la Realtà Totale, ma nel processo conoscitivo umano, partiamo dall’ignoranza, e poi dall’ignoranza andiamo all’opinione, e poi alla certezza razionale, e poi all’intuizione, e poi all’ispirazione e poi forse, chissà, qualcuno prima o poi, all’illuminazione. Non sono passaggi che avvengono quotidianamente; ecco, è quello che sto cercando di dire, ci vuole un percorso. E non basta aderire ad una Fede, bastasse, saremmo tutti in Paradiso in questo momento; perché certo qui siamo veri credenti tutti, o quasi.

45. Complesso, il percorso verso l’azione libera.

E lo stesso è a dirsi dell’azione, perché nell’azione noi partiamo da una situazione in cui siamo largamente condizionati dall’interno e dall’esterno; noi pensiamo di essere liberi, ma stiamo semplicemente ripetendo il ns. ruolo sociale giorno per giorno; esser capaci di azione libera implica una crescita della ns. umanità. Quindi, noi nasciamo da ns. madre, in/sipienti, in/sicuri ed in/digenti: immaturi e dipendenti, gettati al mondo nel dolore; imperfetti, ed il ns. percorso comincia di lì, dal venir meno dell’unità con la madre, dallo scontro con la mancanza e con il dramma della differenza, con tutta la vita davanti per cercare (davvero, invano?) di venirne a capo.

46. Neppure liberi di donare…

Perché parlavo di questo? Per il prendere ed il donare della poesia. Non è che uno è buono se dona, ed è cattivo se prende; uno ha bisogno di prendere? E prenda, col consenso di chi gli dà! Uno ha bisogno di donare? E doni, ma non per forza! Non come nei “Promessi sposi”, ed in certe famiglie, ed in certe Chiese, che bisogna fare il bene, o riceverlo, per forza. Cioè non dipende da noi se possiamo prendere o donare, dipende dalle circostanze. Non siamo neanche padroni del donare –è questo che sto cercando di dire-. Oltre a tutto, il bene ed il male sono relativi, sia sul piano soggettivo che oggettivo; almeno sino a che relativa rimane la coppia della ns. coscienza/esperienza, come coscienza/esperienza del ns. io, separata da quella altrui…e di Dio.

47. Neppur padroni in casa nostra…

(Luciano P.) E di cosa siamo padroni?

(RQ) Di niente, noi non siamo padroni di nulla. Il Divino è il Signore di tutto, noi non siamo padroni di nulla. Noi, sai cosa possiamo fare? Possiamo orientare la ns. esistenza ad essere, cioè orientarla al divino. Forse sto dicendo delle cose per voi terribili, abbiate pazienza. Noi non siamo padroni neppure della nostra soggettività, noi non siamo padroni neppure in casa nostra (S. Freud), cioè nell’ambito del ns. piccolo io, perché il ns. io, le ns. soggettività ed identità, non sono che l’effetto della ns. esperienza e delle ns. azioni, noi non siamo padroni neppure di noi stessi,

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figuriamoci se siamo padroni del mondo. Eppure si è costruita una società intera, la società che si sta mondializzando e globalizzando, sul fantasma della dominazione dell’uomo sulla natura, dell’io sull’esistenza, della razionalità sull’esperienza, e (non omettiamolo) dell’uomo sull’uomo, ed aggiungiamo perché ultimamente sta diventando evidente, del denaro su tutti. Ed è per questo che siamo così a mal partito, e rischiamo di scomparire come specie “umana”, o come specie tout-court.

48. Per la trasformazione del sistema culturale, sociale ed economico, in cui ci troviamo.

Poi, tornando al testo, non decidiamo noi i flussi della vita, ci sono gli alti e i bassi; abbiamo scoperto che noi uomini, come voi donne, siamo alle prese col flusso mensile, il bioritmo è mensile per l’uomo come per la donna. Ma ci sono altri ritmi, enormi, ritmi epocali: noi adesso siamo alle prese con una crisi capitalistica. Ma pensate che dipenda da Mario Monti e il suo Governo, o da noi qui, il farla passare? Il fatto è che la ns. economia produce oggetti e servizi, cioè mezzi, in maniera indifferente ai ns. scopi, ai ns. fini, come definiti (o del tutto ignorati) eticamente e culturalmente. A comandare la produzione (dei mezzi) è il denaro che cresce su sè stesso. Gli scopi degli esseri umani sono fuori dalla finalità del sistema economico. Quindi occorre tentare di costruire un sistema simbolico, non dell’uomo che comanda, o meglio del denaro che comanda l’uomo, ma dell’uomo figlio-di-dio; un sistema sociale non dell’arraffa-arraffa, ma della fraternità, convivialità, comunità; un sistema produttivo volto a produrre gli strumenti necessari ai fini della ns. realizzazione, della ns. autenticazione, in alternativa all’attuale reificazione: questa è l’ampiezza della sfida o invito a divinizzarci, che ci viene dalle massime evangeliche. Dall’umano tentando di avvicinare il Divino, beato, forte, luminoso. Allora, non dipende da noi quasi nulla, ma da noi dipende metterci nelle condizioni di essere permeati dalla grazia del Divino. Da noi dipende abbandonarci fiduciosamente alla sua azione: aspirare al Divino come spirito, nel grembo del Divino come natura, per contribuire, prendendo coscienza, e tramite azione ed inter/azione alla storia universale come Storia Divina.

49. Condannati al romitaggio?

(Luciano P.) Non sono per niente d’accordo. Questa è una visione troppo pessimistica e filosofica della vita. Se io non sono padrone dei miei pensieri, dei miei atti, delle mie azioni, sostanzialmente non posso costruire nulla; e quindi, per non errare, teoricamente non dovrei fare nulla, e quindi dovrei vivere come un eremita. A mio modo di vedere e pensare, un eremita è isolato dal mondo e vive benissimo per conto suo. Io devo essere padrone dei miei pensieri, delle mie azioni e della mia costruzione futura. Se la ragione tecnologica prevale sulla ragione umana, sostanzialmente c’è uno sbilanciamento: devo cercare di bilanciare questo, ma devo essere padrone di qualsiasi tipo di azione.

50. Il logos di natura, spirito e storia universale.

(RQ) C’è qualcuno che vuole intervenire su questo punto? C’è una posizione antitetica alla mia…

(Bruna P.?) Più che non siamo padroni dei nostri pensieri, non siamo i nostri pensieri, direi, siamo qualcosa di più.

(RQ) Però questo drammatico aut-aut tra l’essere padroni e signori, e l’essere nulla, io non l’ho posto. Perché io ho parlato dell’umano come carente, immaturo, imperfetto, ma non come nulla, se no torniamo alla teologia del Seicento. Cioè io ho solo spezzato qualche lancia contro il fantasma di onnipotenza dell’umano e della ragione umana e della tecnica umana, e contro l’effettuale egemonia del denaro, che ci sta tendenzialmente annientando, dal di dentro, rubandoci il cuore, e dal di fuori, distruggendoci la terra. Non ho detto che l’umano sia nulla, e non possa nulla, anzi: ho proposto l’ideale di azione libera, tramite cui si intuirebbe cosa ci è concesso di fare; ma questo concetto in questo momento non lo posso sviluppare adeguatamente, e non lo voglio bruciare. Certo che si può fare, e molto, per noi stessi, o meglio per noi diversi: ma a determinate condizioni. Provo ad esemplificare con una analogia. L’ingegnere, il tecnico dell’industria fa, però non è onnipotente, perché il tecnico dell’industria fa utilizzando conoscenze tecnico-scientifiche; se

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agisce conformemente alle sue conoscenze, ottiene un risultato, se agisce pensando di poter fare a meno delle sue conoscenze, non realizza alcunchè. Analogamente, sul piano dell’umano: noi possiamo costruire la ns. umanità, e la dobbiamo costruire sia soggettivamente che oggettivamente, sia personalmente che socialmente, ma lo dobbiamo fare stando nella curvatura del reale (io ho usato questo termine), aderendo al logos della natura, dello spirito, e della storia: cioè comportandoci in modo appropriato, per attraversare soggettività, inter/soggettività ed oggettività, tutte piuttosto compromesse. Se ci comportiamo appropriatamente, noi troviamo la maniera di contribuire alla evoluzione umana storico-sociale, che a me risulta attualmente bloccata e/o distorta e/o repressa, procedendo verso il Divino, che ci sta dentro e fuori, o meglio che noi abitiamo, magari saltuariamente, incidentalmente, e mal disposti.

51. Uscire da onnipotenza virtuale ed impotenza effettuale.

Ma dobbiamo comportarci in maniera appropriata, perché altrimenti distruggiamo l’ambiente, la natura, la cultura, come stiamo oggi facendo: il ns. cuore, la ns. mente, il ns. corpo, il ns. spirito, stiamo distruggendo, logorando e sprecando la ns. umanità, a livello planetario. Perché? Perché ci siamo convinti (o qualcuno ci ha convinti) di essere onnipotenti, che potevamo fare quello che ci pareva secondo una ragione che all’inizio (del pensiero occidentale moderno) era poco meno del logos, poi è diventata la ragione assoluta, poi la ragione relativa ottimizzante, volta a fare il meglio possibile qualunque cosa ci si metta in mente; infine è diventata la ragione per fare (o non fare) ciò che serve non per produrre valore, ma per estrarlo, sottraendolo a chi lo produce: cioè la ragione del profittare il massimo possibile, dell’appropriarsi (con assoluta indifferenza al modo individuale, ed al costo collettivo) della maggior parte possibile del prodotto sociale, rapinando, rubando, truffando, espropriando. Ma se la razionalità corrisponde (com’era fino a ieri) ad efficienza, allora erano razionali anche i campi di concentramento, e le camere a gas. E se la razionalità (com’è diventata oggi) è ridurre intere fasce sociali e/o interi Paesi sul lastrico, annichilire la stessa economia reale con scorrerie finanziarie, costringendo i governi a prelevare decime di tipo medioevale…allora la razionalità sta distruggendo non solo la ns. umanità, ma sé stessa, come produttrice di mezzi per la sussistenza.

Adesso sarebbe interessante parlare di reale e coscienza; proviamo, se ci riusciamo, ad arrivarci, usando ancora una strofa o due del testo. Per finire di rispondere a te, Luciano, possiamo tutto, purchè ci mettiamo nell’ordine del flusso della grazia.

importa aprirci al dono immeritatodell’esistenza come qui ed ora

importa decifrarne la strutturacome grazia beante e salutarecome unione felice e duratura

52. Attori, non registi, né autori.

Noi possiamo compartecipare a tutto, ma non come protagonisti, registi, autori, ma come attori. Ma attori che stanno nella loro parte, cioè attori che riconoscono la regìa del Divino. Noi come attori possiamo partecipare alla storia, e contribuire ad edificare o trasformare cultura, società, economia. Possiamo cercare di farvi la ns. parte, ma prendendocela, trovandocela, inventandocela; perché la ns. parte, attenzione, non è quella che sembra ci sia affidata dalla struttura sociale dominata dalla terna profitto-tecnica-ideologia, che ci arruolano per un assenso quotidiano ad una pratica collettiva idolatrica ed autodistruttiva. La ns. parte ce la dobbiamo trovare diventando capaci di azione libera-

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liberatoria-liberante, tre qualificazioni distinte, ma tra di loro vicine e complementari, che restano da configurare.

53. Tra libertà e necessità opera sempre l’unico logos.

Noi per realizzare la nostra umanità, la ns. libertà, dobbiamo seguire traiettorie più profonde e sottili di quelle della natura. Dobbiamo affiatarci con quel logos che dà lo scopo alla natura, ma anche allo spirito e alla storia. La natura ha delle leggi di superficie, ma c’è un principio più profondo, a cui esse devono rispondere, e questo principio-scopo è il logos, che a sua volta esprimerà…il Divino. Nel Divino sta la radice del logos. Che autorizza, misura, giudica, giustifica…e consola.Schematicamente: il logos agisce nella natura attraverso la necessità, il logos agisce nella storia attraverso un mix di libertà e necessità, agisce nello spirito attraverso la libertà. Il logos agisce non solo per caso o nel caso, il logos agisce anche attraverso probabilità, necessità e destino, ed attraverso il sentire, l’intendere e l’operare dell’uomo, purchè essi si orientino alla loro stella polare, amplino il loro orizzonte, si affidino alla loro matrice: il Divino.

54. La Grazia di esser(ci).

Resta che alla base di tutto c’è il riconoscere che noi nell’esistenza, che ci si sia per la scelta o per la distrazione del papà o della mamma, nell’esistenza ci siamo, e questo è una Grazia. Il cui contrario è il nulla, non la disgrazia di un mondo più o meno sbagliato; la Grazia è nell’esserci, nell’esistere stesso. Come dice E. Severino, l’essere è, il non-essere non è, il nulla non è. La Grazia è che ci siamo. Anche se ci sembra di essere immersi in un molteplice divenire, che sembra muoversi in una direzione sbagliata, e che ci invita a fare i conti con il passato.

55. A proposito dell’Essere: le asserzioni paoline e le metafore giovannee.

Poi ci sono i tentativi di definire l’Essere, ed il suo rapporto con l’esistere, ci sono le filosofie e le teologie, c’è l’antico ed il nuovo Testamento. Io rimango fermo alla convinzione che una cosa è la teologia giovannea, che tu, Ernesto, hai richiamato stamattina benissimo; e un’altra cosa è la teologia paolina. Anche la modalità di linguaggio con cui si esprime la prima rispetto a quella con cui si esprime la seconda, marca una distanza, di mezzo c’è un mare: se una va per asserzioni dogmatiche, per certezze, l’altra va per sfumature metaforiche (come d’altra parte, secondo gli Evangelisti, parlava Gesù). Martellante, autoritaria (e maschilista), invece, la lingua delle Epistole.Sono due teologie diverse, forse due diverse esperienze del Divino, certo due differenti teorie dell’Essere. Io sono d’accordo che se noi siamo qui, è perché come civiltà occidentale, come Occidente, per contribuire alla futura società planetaria, dobbiamo ritornare alle ns. radici, ci costi quello che costi. E tra le ns. radici, a quella che ci ha permesso di non cadere nella barbarie più estrema alla caduta dell’impero romano, cioè a Gesù, primo ed unico maestro dell’Occidente, perfetto Figlio-di-Dio. Ma dobbiamo sfrondare secoli e secoli di travisamenti, secoli in cui si è costruita quella che giustamente Ernesto continua a chiamare Religione e non Fede.

56. Religione, Fede, Fiducia.

Io non la chiamerei Fede, andrei un po’ più in là, e magari (insieme ad Adriana), la chiamerei Fiducia. Un lavoro, una ricerca, un dialogo che stiamo cominciando a fare. Quello che io voglio dire è: voi state passando gli anni a leggere i Vangeli; io i Vangeli me li sono riletti tutti d’un fiato arrivando in India, e poi mi sono accorto che lo yoga che cercavano di praticare là, perfezionando le tre dimensioni della conoscenza, del sentimento, delle opere (intendere, sentire, agire), era pari pari l’insegnamento evangelico, l’invito a cercare il Divino attraverso la conoscenza (Luca), l’amore (Giovanni), le opere (Matteo).

57. Gesù, Figlio-di-Dio, Figlio-dell’Uomo.

Non voglio fare qui una discussione di lana caprina, riconosco che qui c’è molta buona volontà. Quello che io dico è: ma vi sembra che, da quello che dicono gli Evangelisti, Gesù si sia rappresentato come il fondatore di una religione e/o come un capo-popolo, anche solo come un

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Maometto? Ma ne è lontano mille miglia! Noi dobbiamo cercare di intendere quello che Egli ha cercato di farci arrivare. Gesù, Figlio-di-Dio come tutti noi, ma anche, emblematicamente, Figlio-dell’-Uomo, perché di noi il più perfetto, il più realizzato. Gesù ha siglato questa sua perfezione con ciò cui ci richiama spesso Ernesto, l’evento cioè assunto come la sua resurrezione. L’ha siglato, cioè come per dire: io, quello che ho detto e proposto, lo prometto e lo garantisco anche a voi; perché io, nonostante ciò che il mio corpo ha dovuto subire, ce l’ho fatta, io ho aperto una strada nuova.

58. Chi sta sbagliando nella lettura dell’oggi?

Allora, voglio dire: noi dobbiamo andare alla ns. radice, alla ns. radice c’è sicuramente il Nuovo Testamento (un po’ meno sicuro che debba esserci anche il Vecchio, quello del Dio-degli-eserciti), c’è la figura di Gesù, però dobbiamo avere il coraggio di attraversare la super/fetazione, la costruzione dogmatica-canonica-gerarchica, che si è costruita sopra la figura di Gesù, e noi dobbiamo farlo con naturalezza, onestà, intelligenza, responsabilità, senza strappi, ma anche con entusiasmo, libertà, creatività e coraggio. Occorre tenere conto che siamo in una civiltà (quella occidentale) che si dice cristiana. Ma a voi sembra che siamo davvero in una società cristiana? Noi dobbiamo deciderci: o siamo in una società che è cristiana, allora noi qui ci stiamo sbagliando, e tutto quello che ho sentito dire qui è falso, perché invita ad essere, pensare ed agire all’opposto di come si fa fuori di qui; oppure la società in cui siamo (occidentale, tardo-capitalistica, regressiva) non è cristiana, e allora bisogna fare i conti con chi nei secoli ha preteso di esserlo, cioè con noi stessi, col ns. passato. E con la violenza secolare esercitata al ns. interno, ed all’estero nelle colonie.

59. Possiamo, ancora e/o di nuovo, dirci cristiani?

E’ inevitabile questo percorso: perché o questa società è l’unica possibile, eterna e giusta, oppure è sbagliata e precaria, sta morendo e dobbiamo cambiarla. Dobbiamo deciderci. Tutto quello che sento qui mi spinge a maggiore umanità, ed anche a qualcosa di più, per me stesso e per il mondo intero. Possiamo ancora e/o di nuovo dirci cristiani o non possiamo? Dipende se gli diamo il significato evangelico, cioè cristiani in quanto evangelici, in quanto seguiamo le massime evangeliche, oppure se cristiani in quanto appartenenti ad una struttura-Chiesa gerarchica, canonica, dogmatica, niente meno che uno Stato con un vertice esecutivo, il Vaticano. Con la pretesa, oltre a tutto, di amministrare niente meno che la Grazia, che qui stiamo evocando. In quella struttura, da gran tempo, io non mi ci ritrovo, anche perché ampiamente compromessa con i poteri forti della società attuale, ma non solo a livello sociale ed economico –i soldi sporchi che finiscono in Vaticano per essere riciclati, quello è ovvio, fa mestamente sorridere, perché il meticciato del denaro è universale (ed includeva od include anche il denaro di Bin Laden e di Al Qaeda, come del Crimine e delle Mafie, come dovremmo ormai tutti sapere)-, ma anche a livello simbolico e culturale, perchè l’Occidente non sarebbe mai diventato quello che è se non si fosse basato sulla struttura ecclesiastica (gerarchica- teologica-ideologica) elaborata nei secoli. Orrore!

60. A/traverso il totalitarismo nichilistico.

La politica totalitaria del secolo scorso non è infatti che il ribaltamento secolare di una ideologia altrettanto totalitaria, e l’economia tardo-capitalistica attuale non è che il degrado ed il ribaltamento dell’ideologia dell’illuminismo. Quindi se noi vogliamo emanciparci dall’economia mercificante attuale e dalla politica totalitaria del secolo scorso, che si stanno coniugando in un nuovo totalitarismo nichilistico (come da me denunciato nel mio libro), dobbiamo anche emanciparci dalla teologia totalitaria e dogmatica dei secoli precedenti l’illuminismo. Io credo che questo sia ciò che dice Ernesto, ma il percorso che dobbiamo fare non può essere soltanto cerebrale, deve essere esperienziale, cioè dobbiamo farlo col cuore, e farlo insieme, e sperimentalmente, praticandolo; non basta che lo facciamo ognuno seduto a tavolino: è questo che sto cercando di dire. Io adesso mi siedo a tavolino e divento anticlericale: sai che roba! L’ha già fatto la borghesia dell’Ottocento, e sai che risultati ha ottenuto! Cioè non basta fare i conti con la teologia dogmatica, dobbiamo fare i conti con il razionalismo illuministico; ma non soltanto o soprattutto con i loro testi

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di ieri, ma con la pratica che essi hanno indotto nell’oggi, nella mentalità e nel comportamento collettivi. Poiché il razionalismo illuministico (piuttosto ottenebrato, a dire il vero; e tramite figure anche di piccola statura, gli gnomi della finanza) è quello che tiene in piedi l’economia, un’economia che non è più il frutto più o meno avvelenato della cultura borghese, ma l’apprendista stregone che si è autonomizzato dalla borghesia che lo ha tenuto a balia, e che la sta degradando, e scomponendo in un ceto parassitario (il cosiddetto 1%, contro cui manifesta Occupy Wall Street) ed in una managerialità quanto meno irresponsabile (più o meno quel 10%, che col suo lavoro garantisce, a sé stessa condizioni di favore sociale, e all’1% di cui sopra la rendita di cui gode). L’economia, la politica, la tecnica in cui siamo immersi sono il residuo, il frutto avvelenato del sogno illuministico, il delirio della ragione. Quello che stamattina ci è stato detto “non è il caso”. Ecco, penso anch’io che non sia il caso, che si debba prendere un’altra strada, che si debba cercare ispirazione nel Divino. Per aprirci ai suoi frutti, di cui parla la ns. poesia nel finale:

ed i suoi frutti lucida visionegioia rosata forza illimitataconquisteranno noi pacificati

abbandonati nel divino amplessopersi a noi stessi e al mondo ed estasiati

e rapiti ed invasi e inebriatidalla bellezza e dalla poesia

del beato divino incantamento

61. Il Divino, dove e come ha parlato, e magari continua a parlarci?

E il Divino, in Occidente, dove parla? Parla, ha parlato certamente, attraverso la Scrittura; però, mi sia concesso di dirlo, ha parlato e parla anche attraverso la Natura. E nel mondo? Ha parlato e parla attraverso le Scritture, ce ne sono altre, oltre la nostra, anche più antiche. Però… non è che ci viene in mente che parli anche attraverso i ns. spiriti, i ns. cuori, le ns. azioni, la potente coppia di coscienza ed esperienza? Quando si dice che il Divino si manifesta come amore, vuol dire che parla al cuore, dal cuore, con il cuore (ns. e di chi ci ama): noi lo possiamo corrispondere oppure no. Ed anche: la consapevolezza, l’intelligenza: siamo sicuri che non servano? E l’agire e l’inter/agire dei mille e mille gruppi di volontariato, di formazione e ricerca, di assistenza e promozione, di iniziativa e di lotta per i diritti, i beni comuni, la costituzione, l’emancipazione, la pace? E l’agire (intra ed extra) sindacale per la difesa delle condizioni di lavoro e di vita della gente modesta (il cd. 90%), e contro l’autocelebrazione della élite dominante (il cd. establishment), tramite le grandi opere e la messa in scena del potere?

62. L’Al-di-là e l’al-di-qua, separati e autarchici?

Poi c’è il divino amplesso: l’unione col divino, quello che cerchiamo tutti. Il problema è –ecco, ancora una cosa per ridurre il margine di equivoco- , il divino amplesso, l’unione col divino, io non ho mai detto che possa aver luogo in questo spazio-tempo, restando nel dualismo di coscienza separata e apparenza mondana. Però abituiamoci a ridiscutere il rapporto tra l’al-di-qua e l’Al-di-là. Il rapporto tra immanenza e trascendenza è da intendersi come indissolubile e contestuale, perché se l’Al-di-là mi è rappresentato come qualcosa che arriva dopo la morte, e l’al-di-qua come ciò in cui viviamo prima della morte, non mi convince. Infatti tutto quello che ho detto finora è per significare che l’Al-di-là lo dobbiamo trovare nell’al-di-qua, perché l’Assoluto ci serve qui ed ora, noi ne abbiamo bisogno oggi, non dopodomani, e chissà dove. Ma questo non vuol dire che l’Assoluto, nella sua pienezza, noi lo si possa realizzare nello spazio-tempo in cui ci troviamo, grazie alla vita; però non vuole neanche dire che si realizzerà

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dopo e fuori di essa, grazie alla morte. In questione è un livello di coscienza, un modo di esistenza, una forma-mondo. Tra il prima e il dopo, tra il qui e l’altrove, c’è un rapporto indissolubile, definito da due termini: coscienza e mondo, che tra di loro si tengono e si modificano l’un l’altro. Due termini, a ben vedere, complementari.

63. Ulteriorità ed interiorità, a/traverso ed oltre questo spazio-tempo.

L’Al-di-là potrebbe essere esito di ulteriorità, non di posteriorità; di interiorità ed energia, non di disgregazione e deficit. Qualcosa che chiede un surplus di energia, non che consegue al suo venir meno. Io non posso affidare l’Al-di-là alla mia morte, io la mia morte la devo preparare, io non sono nato per la morte, io sono nato per la vita. La Grazia mi ha dato la vita, la vita è strutturata in questo spazio-tempo, con un inizio ed una fine, ma siamo sicuri che quest’inizio e questa fine siamo ineluttabili? Oppure questa fine può essere forzata, come almeno una volta c’è stato detto anche stamattina, che sia stata forzata (e come anche altre tradizioni, ad esempio quella sciamanica, testimoniata da Castaneda, ci dicono sia stata forzata, ed ancora lo possa essere)… Se questa porta può essere forzata, se è stata forzata almeno una volta, se qualcuno continua a forzarla, forse possiamo cominciare a forzarla anche noi, o almeno possiamo metterci nell’atteggiamento di provare a forzarla. Perché, forse, c’è modo e modo di morire, e, prima ancora, c’è modo e modo di vivere. E possiamo chiederci se davvero la morte sia un passaggio obbligato, oppure se grazie ad una ulteriorità di coscienza ed azione, ed esperienza, noi possiamo in qualche modo tras/mutarla. Cioè possiamo in qualche modo modificarne fisionomia, funzione ed esito; trasformarla, che questo significhi più o meno che evitarla.

64. Il fenomeno-evento ci parla del reale…

E qui vengo a dir qualcosa a proposito di che cosa noi intendiamo con reale e coscienza. Quello che sto cercando di dirvi è che, in prima istanza, è reale ciò che registriamo come fenomeno-evento nella ns. esperienza (grezza). Quindi il reale in prima istanza corrisponde alla ns. percezione di questo tavolo, dei ns. corpi, di questa stanza. Ma qui interviene la fisica moderna che ci dice che sì, sembra che ci siano stanze, sedie, corpi, però poi, se scavi…scavi…scavi, la consistenza della materia non corrisponde all’apparenza degli oggetti, ed il confine tra me e te, tra me e il tavolo, tra me e l’edificio, tra la terra e il cielo è un pochino più labile di quello che ci si immaginava. Quindi il reale non corrisponde alla configurazione dell’esistente. Corrisponderà allora al confine metafisicizzato, alle pretese identità (le cd. entità) dei soggetti e degli oggetti? E sotto o sopra la consistenza e la configurazione fisica del mondo, ci sarebbe un meta-mondo di entità meno variabili, ultra o meta-fisiche? Ci sarebbe cioè la duplicità di un reale fisico e di un Reale metafisico?

65. …che si definisce nella costruzione di soggettività ed oggettività, come coscienza e mondo.

Una volta la si vedeva così, ma oggi non la si vede usualmente in questi termini. Non è che qui ci sia il tavolo e da qualche altra parte l’ idea del tavolo, come si è creduto per tanto tempo, non è che ci siamo noi esseri umani e poi da qualche parte l’idea dell’essere umano. In realtà l’ immagine delle cose nasce contestualmente alla loro scorporazione dal tutto, cioè con la loro determinazione o definizione. Ma questo processo di determinazione oggettuale è lo stesso attraverso di cui si costruisce la soggettività, ed il mezzo o tramite intermediario è il pensiero, la nominazione, il linguaggio. Un mondo non può esistere che per una coscienza, ed una coscienza non può insistere che su un mondo.

66. Polidimensionalità del reale e del Reale, il Qualcosa d’Altro.

Ma l’uno e l’altro non sono che rappresentazioni di Qualcosa d’Altro. Questo Qualcosa d’Altro, al pensiero moderno si presenta come materia e/o energia, ma sempre ad una coscienza che ne fa il proprio oggetto. Come la stessa realtà fisica può presentarsi in forma solida, liquida, gassosa, plasmatica, ignea (i cinque stati della materia secondo la fisica attuale, corrispondono approssimativamente ai quattro elementi della filosofia pre-socratica –aria, acqua, terra, fuoco-, cui si aggiungeva il logos), così possiamo immaginare che, non solo il reale, ma anche il Reale, sia

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polidimensionale. Una dimensione del Reale potrebbe essere la materia; da Einstein in poi abbiamo scoperto che la seconda può essere l’energia; e dall’Oriente ci propongono che la terza sia la coscienza. Cioè la consapevolezza, non come presenza a noi stessi di certi ricordi o di certe situazioni, ma come Autocoscienza del Tutto.

67. Il Reale, il Qualcosa d’Altro, costituente e trascendente la coppia di realtà e coscienza.

La terza dimensione potrebbe essere la consapevolezza intesa in senso profondo, come luce di verità. Il Reale, cioè il Divino, sarebbe Sat-Chit-Ananda, cioè Autoconsistenza-Autocoscienza-Autocompiacimento, od anche, in altre parole, Forza-Luce-Beatitudine. Può esserci consapevolezza in un tavolo o in una pietra? La cultura indiana dice di sì, c’è un po’ di consapevolezza anche nella pietra. Può esserci consapevolezza in un gatto? Tutti quelli che hanno un gatto (mi pare anche Adriana) sostengono di sì, c’è consapevolezza nel gatto (certo più che nella pietra). Può esserci in un uomo anche se ci sembra stolto o malato o in mala fede? Secondo me sì, magari non tanta, magari sciupata, magari ottenebrata. La ns. consapevolezza noi la possiamo dilatare, diminuire, offuscare, rendere più nitida? Possiamo. Andando per gradi, una volta si diceva che c’era una consapevolezza angelica: sì, credo che si possa poco alla volta recuperare anche la immagine, o figura, della visione angelica. E poi c’è la consapevolezza onnicomprensiva, la consapevolezza cioè che appartiene alla Totalità: probabilmente quella è la terza dimensione del Reale. Cioè il Reale, il Divino, in profondità (per così dire) sarebbe l’uno, stabile ed eterico, ed in superficie (per così dire) il molteplice, cangiante e materico, e, negli strati intermedi (sempre per così dire) sarebbe energia, vibrazione, flusso, onda, ritmo, danza, cioè gioia, a relazionare amorosamente, per così dire, profondità e superficie. Si potrebbe dire, metaforicamente e schematicamente: una struttura d’amore vivente, una e trina. Trascendente e immanente, ed incessantemente creativa-metamorfica e dissolutiva-ricapitolativa.

68. L’azione del Divino: evolutiva, enigmatica, cumulativa.

Il Divino, così approssimato, non sta solo o soprattutto nel settimo cielo, sta in ogni punto, sta in ogni momento, sta nel qui e ora. Anzi, detto meglio: ogni punto, ogni momento (ed ogni coscienza) stanno nel Divino. Quindi il Divino è qui e ora; e se noi non siamo in grado di attingerlo qui ed ora come fonte, tuttavia esso sta agendo in questo momento, dentro di noi, attorno a noi, fuori di noi; tramite noi, insieme con noi, contro di noi. Noi non siamo in grado di percepire l’azione in corso del Divino, però gli effetti della sua azione li possiamo intravedere, purchè apriamo gli occhi, dentro di noi, fuori di noi, attorno a noi. Sembra che il Divino possa agire evolutivamente, come nei processi naturali; possa agire attraverso il bene ed il male, attraverso la gioia e il dolore dell’umano, enigmaticamente, come nei processi storico-sociali; possa procedere cumulativamente, come nelle illuminazioni ed ottenebrazioni interiori, dello spirito. I risultati della sua azione si possono vedere, purchè apriamo gli occhi. Tant’è che, tornando a te, Luciano, qualcuno ha scritto che nella notte della modernità solo un Dio ci potrà salvare.

69. Niente di nuovo sotto il sole?

(Luciano P.) Due flash a cui non desidero risposta. Per poter emergere ad un punto di coscienza e ad un punto di maturità, bisognerebbe bloccare tutte le nascite, studiare a fondo tutte le problematiche….in una maniera razionale si può proseguire. Secondo: la differenza esistente tra la materia (mentale) tecnica e la materia (mentale) filosofica è questa: la filosofia trova tante parole per cui il vero corrisponde al nulla, e il nulla corrisponde al vero, in ogni caso;, mentre, nella materia tecnica, se non c’è sequenza logica non si va avanti, ci si blocca. Stop, non desidero risposta. E concludo con una citazione: “Vanità, vanità e nient’altro che vanità. Niente di nuovo sotto il sole”.

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70. Un percorso di decenni, da proseguire.

(Ernesto V.) Io sottoscrivo quello che hai detto, Riccardo, sono completamente d’accordo, tranne che per qualcosa dello stile e del linguaggio; ma questi sono dettagli. Ho visto tra l’altro, in questa poesia, descritto molto bene il percorso che da sempre l’uomo fa, che è anche il percorso che Adriana ha fatto lei stessa personalmente, di spiritualità; mi sembra tu abbia tracciato con queste tematiche ed argomentazioni un cammino di discussione che potrebbe prendere i prossimi vent’anni.

71. Una evangelicità refrattaria alle super/fetazioni.

RQ – E’ un percorso secolare, anche toglierci dalla palude in cui siamo. Io però vorrei dire una cosa a te Ernesto in particolare, perché quello che hai detto mi fa molto piacere, avevo temuto che il margine di equivoco, anche in relazione a certi miei interventi occasionali, fosse diventato troppo ampio, invece mi sembra che tu abbia colto il filo rosso della mia ricerca-proposta. Quello che hai detto tu adesso rispetto ad Adriana l’ho sentito anch’io, è per questo che mi sono messo in contatto con voi, perché ho avvertito in Adriana una spiritualità orientata in senso evangelico, refrattaria o quanto meno non compromessa con la religione cosiddetta cattolica nelle sue super/fetazioni dogmatiche, gerarchiche e canoniche. Questa spiritualità libera e questo vedere nel Divino l’esaltazione, la perfezione, l’intensificazione dell’umano piuttosto che la sua negazione, è quello che mi ha fatto pensare di potermi avvicinare a voi portando il mio piccolo bagaglio.

72. Una sfida secolare, una svolta necessaria.

E quello che tu dici è verissimo nel senso che oltre/passare la decadenza dell’Occidente che sta distruggendo il pianeta è certo una sfida secolare. Che ci avviassimo sulla strada della ns. decadenza si è cominciato a scriverlo circa 150 anni fa, tra gli altri O. Spengler con il suo libro “Tramonto dell’Occidente”. E’ da un po’ che ci dicono che siamo sulla strada sbagliata, anche altri autori l’hanno detto. S. Freud ha segnalato, il disagio, il malessere, proprio della società disciplinare in cui si era trovato ad operare. F. Nietzsche non si è ripreso dal trauma di quanto aveva capito, K. Marx l’ha detto chiaramente, che andavamo ad autodistruggerci per contraddizioni interne; lo ha fatto con uno schema razionalistico, antagonistico e/o economicistico, ma l’ha fatto; ed ha lottato tutta la vita per evitarlo, ed al suo funerale non c’era che un pugno di persone (ma, tra quei pochi, C. Darwin). Ed io vorrei che ci si mettesse su questa strada con un impegno esplicito e programmatico.

73. Migliorare la qualità della vita nostra ed altrui.

Auspicherei quindi che si concepisse di accoppiare alla dimensione etico-spirituale-teologica che tu coltivi e che tu proponi al mattino, nei ns. incontri, una fascia di tempo da dedicare ad una traiettoria di presa di coscienza ed analisi storico-sociale-civile, per non rimanere nell’intimismo, nel velleitarismo, o nella frustrazione. Le energie interiori e spirituali a cui tu ti riferisci e che tu mobiliti, con i tuoi bellissimi commenti del Vangelo, dovrebbero avere un corrispettivo in una crescita di consapevolezza rispetto alla condizione economico-sociale-culturale-ambientale in cui ci troviamo, in modo che noi, al mattino da te edificati, e spinti a gustare, per così dire, la leggerezza dell’essere, al pomeriggio si possa costruirci gli strumenti per modificare, sulla base della ns. esperienza, la qualità della ns. esistenza e del sociale in cui siamo immersi.

74. Un com/unita/rismo non ingenuo, ulteriore.

Tu, Ernesto, dici spesso “non bisogna avere fretta, non ci sarà mai fine, questo capiterà prima o poi…”: è tutto vero quello che dici. Anch’io lo penso, perché propongo un comunitarismo non ingenuo, che mi azzarderei a definire com/unita/rismo ulteriore. All’unione col Divino puntiamo ad arrivare, ma se ci arriveremo, non ci arriveremo tutti insieme, e probabilmente non nello spazio-tempo in cui siamo, ma se non ci lavoriamo su, se non partecipiamo al grande movimento planetario che è in corso –anche nel ns. Paese- per trasformare la ns. cultura, la ns. società e la ns. economia, noi perdiamo un’occasione di crescita, perché da questa crisi si uscirà, se se ne uscirà, in maniera

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lenta, impegnativa, drammatica. Dalla grande crisi precedente si è usciti con i totalitarismi (nazista, fascista e stalinista) e con la Seconda Guerra Mondiale. Noi dovremmo partecipare a questo movimento, che si sta sviluppando in maniera più evidente dall’inizio di questo secolo, anche nel ns. Paese, dopo il G-8 di Genova e le Due Torri di New York. Due episodi del 2001 che hanno aperto non solo un secolo, ma un’epoca intera, almeno qui nel ns. Paese.C’è tutto un sistema simbolico che sembra spaccato tra spiritualismo e materialismo, ma in realtà è unito da un’egemonia razionalistico-regressiva. Tale mi sembra anche lo spiritualismo dell’attuale Pontefice (Fede e Ragione salveranno il mondo, come una volta Trono ed Altare, mi sembra la riedizione di un’Alleanza per nulla Santa); e razionalistico-repressivo mi sembra il materialismo della Finanza. A me sembra che noi, nella ricerca del Divino, dobbiamo uscire sia dal razionalismo culturale che dall’opportunismo politico, dalla rassegnazione civile, dalla collusione sociale. Presto.

75. Oltre la teologia dogmatica, oltre la diffrazione chiesa/società.

In questo momento lo si comincia a fare un po’ dappertutto, anche in ambito marxiano cominciano a farlo, solo che fanno fatica a uscire dai loro dogmi. Ma anche noi (in ambito cristiano) facciamo fatica a uscire dai ns. dogmi. Un giorno o l’altro io vorrei con te discutere sui concetti-base della teologia paolina. D. Bonhoeffer (il promotore della Chiesa confessante nella Germania nazista, martire in un lager) è stato messo ai ferri corti con la propria cultura (protestante) dal nazismo, e noi siamo messi ai ferri corti (con la ns. indifferenza ed. inerzia etico-civili) dalla crisi che è in corso. Bonhoeffer ha dovuto fare una bella “spending review” sulla teologia (protestante) della sua educazione, ed è arrivato (non ad un azzeramento ma) ad una purificazione della teologia, al punto da arrivare a dire una frase che tu hai ripetuto una volta, che suona più o meno così “Pregare Dio, e poi fare quello che è giusto davanti agli uomini”. Che vuol dire venire a capo della struttura ecclesiastica, intesa come potere secolare (incrementando, nel contempo, l’ecclesìa, come comunione dei credenti). E’ un percorso iniziato: la diffrazione, la dicotomia tra società civile e società religiosa non è obbligatoria, si può ridurre come dimostrano tra gli altri movimenti, nel ns. Paese, quello delle Comunità di Base.

76. Recuperare il filone dell’analisi socio-politica.

(Ernesto V.) Sono d’accordo, quello che tu dici è vero, però è importante dare il senso che è un percorso che Adriana ha sempre fatto, noi dobbiamo recuperarlo, riprendere un filone che Adriana ha sempre curato, c’era mensilmente un politico, un sociologo, tra tutte le amicizie che Adriana aveva. Tu sei arrivato dopo la morte di Adriana e ci siamo un po’ spostati sul filone teologico.

RQ – Ah, ma allora scopro l’acqua calda, sfondo una porta aperta, ne sono felice.

Crotte di Strambino (Ivrea), 5 maggio 2012 Riccardo Quarello

77. Un doppio modulo ermeneutico: commento di Ernesto Vavassori.31.08.2012

Caro Riccardo,

sono temi, questi che hai riassunto in versi, che rappresentano il cammino che ciascuno deve intraprendere se vuol portare alla luce la sua vera identità, se vuol rinascere dall’alto come disse Gesù a Nicodemo, se vuol trovare quel nome scritto nei cieli di cui parla il Vangelo, o quel ciò che saremo, di cui parla la prima lettera di Giovanni, che non è stato ancora rivelato, nel senso che la nostra identità è nel futuro, nell’ad-venire, in quell’ ad-ventus che costituisce la natura di quel Dio che Gesù chiamava Padre.

E’ il percorso che mi sembra abbia caratterizzato anche la storia personale di Adriana, storia maturata nel clima pre e post-conciliare, che l’ha portata a recuperare il divino nel cuore

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dell’umano e, paradossalmente, a distanziarsi dall’umano nella forma della solitudine e del silenzio, proprio per sentire più in profondità l’autentica fame e sete di ogni umano.

Ed è bello mantenere nel nostro percorso il doppio modulo ermeneutico da percorrere: quello dei simbolismi e delle metafore bibliche, archetipi eterni e universali, e la presa di coscienza che può nascere da una analisi storico-sociale-civile, quasi una traduzione, per il nostro oggi, dell’eterno linguaggio storico-salvifico, superando così l’idolatria che la religione crea intorno alla figura di Gesù; un cammino, quindi, di doppia fedeltà: a Dio e all’uomo.

Il velo del tempio, che si squarciò in due, da cima a fondo, alla morte di Gesù, mi sembra rappresenti bene l’opera di svelamento da una parte (svelare l’ipocrisia e la separazione operata dal sacro con l’imposizione di divieti e di doveri) e dall’altra parte di ri-velazione (rimettere il velo) operata dall’umanità di Cristo, unica e definitiva mediazione possibile tra l’uomo e il Dio di Gesù.

Essere cristiano non significa essere un uomo religioso, significa essere un uomo integro. Gesù è il ritratto di questa integrità, e questo è il motivo per cui egli è, per me, nella sua piena umanità, l’espressione più alta di Dio.

Dal tempio alla Chiesa, intesa come la comunità di quanti hanno scelto di dare senso alla propria vita in riferimento a Gesù, la comunità dei chiamati dal dono d’amore di Cristo: questo mi sembra il percorso che ci sta davanti, che la storia oggi ci chiede, e che ha avuto nella vita concreta di Adriana un luminoso esempio.

Questo esempio è il tesoro che non vorremmo smarrire, ma sviluppare e offrire a coloro che hanno fame e sete di autenticità e…in primis …a noi, che abbiamo conosciuto personalmente Adriana.

Ciao, Ernesto

(Questo testo ricalca presentazione, commento e dibattito relativi alla ns. poesia “A te che cerchi…”, tenutisi su invito dell’Associazione “Amici di Adriana”, il giorno 5/05/12, a Crotte di Strambino (Ivrea), presso l’eremo di Adriana Zarri, stampato come “Incontri di Primavera 2012”)

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