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Antonio Di Grado
Vite parallele: Vitaliano Brancati, Elio Vittorini
Alla fine degli anni Trenta, poco oltre i massacri
della guerra di Spagna e poco prima di quelli del secondo
conflitto mondiale, il siciliano Elio Vittorini scopre che
“non ogni uomo è uomo”.
Semplice come un teorema, la sua spiegazione, come al
solito affidata a coinvolgenti metafore; e limpida, senza
contrasti, come la strada assolata ai cui estremi si
affrontano, nell’epopea western, l’eroe del Bene e
l’antieroe del Male assoluto, della sopraffazione,
dell’orrore.
Eccola:
Un uomo ride e un altro uomo piange. Tutti e due sonouomini; anche quello che ride è stato malato, è malato;eppure egli ride perché l’altro piange. Egli puòmassacrare, perseguitare, e uno che, nella nonsperanza, lo vede che ride sui suoi giornali emanifesti di giornali, non va con lui che ride masemmai piange, nella quiete, con l’altro che piange.Non ogni uomo è uomo, allora. Uno perseguita e l’altroè perseguitato; e genere umano non è tutto il genereumano, ma quello soltanto del perseguitato. Uccidete unuomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato,un affamato; è più genere umano il genere umano deimorti di fame.
(VITTORINI, 1974, vol. I, p. 645-6)
Nasce così, prima della guerra e della liberazione, la
letteratura che dovrà raccontarle, registrare gli orrori
dell’una e le speranze dell’altra; nasce, almeno un lustro
1
prima della data di nascita del neorealismo, il manifesto
del neorealismo. Molto poco realista, in verità, ché astratte
metafore, archetipi primitivi e simboli cifrati vi si
affrontano, sullo sfondo d’una Sicilia arcaica e ctonia.
Ma sono metafore mobilitanti, “furori” per il “mondo
offeso” e “lame” da arrotare per riscattarlo; sono
“simboli per l’umana liberazione”.
Quel libro era Conversazione in Sicilia; e molti giovani
intellettuali vi riconobbero i propri “astratti furori” e
il bisogno di “nuovi doveri”, di idealità e parole
d’ordine nuove; molti vi lessero in filigrana, a torto o a
ragione, il simbolo della falce e del martello, l’approdo
oltre il buio alla luce – che appariva dispiegata –
dell’ideologia e della militanza; molti impararono da
quelle enigmatiche epifanie la possibilità ben concreta e
prossima della “liberazione”.
Molti intesero che la letteratura non doveva solo
“consolare”, come da qui a poco scriverà il Vittorini del
Politecnico, non solo “piangere” al fianco di chi piange, ma
combattere a fianco di chi combatte. E intanto, da qui a
poco, prenderanno le armi. Vittorini correrà in
bicicletta, sfidando militi e SS, portando da un capo
all’altro di Milano i manifesti e i giornali clandestini
della Resistenza; il raffinato intellettuale Giaime Pintor
andrà a raggiungere i partigiani in montagna, e incontrerà
subito, protomartire della Resistenza, il fuoco nemico e
la testimonianza estrema, la morte.
2
Come il protagonista – Enne 2, che quella morte attende
armi in pugno nella sua stanza dove irromperà il nemico –
del successivo romanzo di Vittorini, significativamente
intitolato Uomini e no. Ed è già neorealismo. La liberazione
è avvenuta e legioni di giovani e di reduci depongono le
armi e impugnano la penna. Per continuare a combattere
scrivendo. Per raccontare le atrocità della guerra e il
caos dell’armistizio, l’epopea della lotta partigiana e
l’orrore dei campi di prigionia e di sterminio.
E non sono solo i Vittorini e i Pavese, o i più giovani
come Calvino o Fenoglio, comunque formatisi o nel decennio
precedente o tra le pagine della grande letteratura, e
pronti sì a pagare l’obolo alla Liberazione e alla
pedagogia neorealista, ma giusto per farne, ancora, grande
letteratura: a raccontare quelle esperienze decisive e
irripetibili, e a inventare il neorealismo, sono giovani e
subito obliati autori d’un libro solo, del diario della
loro individuale vicenda, che poco sanno e vogliono sapere
di letteratura, anzi inseguono una furente utopia di
azzeramento espressivo e opacità cronachistica, perché –
come aveva scritto Brecht – “discorrere d’alberi è quasi
un delitto, quando su troppe stragi comporta il silenzio”.
Libro tormentato e irrisolto, non a caso, Uomini e no. E
lacerato da una ferita, aperta e palese fin nell’assetto
grafico: da una parte le pagine in carattere tondo, ovvero
il romanzo della Resistenza e dei GAP a Milano; dall’altra
quelle in corsivo, in cui irrompe l’autore con il suo
3
vecchio Io decadente e lirico-mitico, e stende il suo
protagonista-partigiano sul lettino dello psicanalista, ne
cava ricordi e angosce; o gl’impone le proprie memorie e i
propri incubi. E se da una parte si fronteggiano “uomini e
no”, non-uomini nerovestiti e imbestiati contro pedagoghi
e catecumeni dell’engagement umanitario, dall’altra si
scatena e si consuma il Grande Amore, l’impossibile storia
d’amore fra Enne 2 e Berta, l’amour fou che non può che
realizzarsi nella morte.
Il fatto è che in quel libro si scontravano il
Vittorini-“uomo nuovo” e militante con il Vittorini-
scrittore e “coscienza infelice”. Lo stesso accadrà al
coetaneo e rivale Cesare Pavese, da Il compagno a La luna e i
falò, analoghe prove del fallimento del manicheismo
neorealista e dell’opposta insorgenza d’un mondo interiore
di fantasmi memoriali e brividi metafisici, di angosce
esistenziali e dubbi intellettuali, che nessuna
“liberazione” può riscattare e pacificare. E di una
letteratura che nessun impegno etico o politico può
asservire, né sostituire con la cronaca o con la
pedagogia.
Di queste ambivalenze, di questa letteratura che è
aspra battaglia delle idee ma anche mito, evocazione di
ombre, modulazione di inediti linguaggi, e che è
“militante” e al tempo stesso circonfusa di un’aura
iniziatica, e delle tre o quattro generazioni che di
queste ambivalenze si nutrirono, Vittorini fu indiscusso
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maestro e leader carismatico. Lo fu dal 1929, quando poco
più che ventenne dettava già ai suoi scalpitanti coetanei
slogan e anatemi, icone da imitare e zavorre da sgombrare,
fino agli anni Sessanta della vertiginosa modernizzazione
culturale, di cui fino alla sua scomparsa fu attivissimo
mediatore, come lo era stato del mito dell’America o dei
“furori” pre- e post-bellici.
Lo fu a costo di spendersi tutto e perfino di
appiattirsi (l’aveva capito Pavese, che contava di
batterlo sulla distanza) nel presente, da cui ricavava
istanze e slogan da restituirgli in forma di smaglianti
metafore, urgenti come “nuovi doveri”; ma lo fu anche per
la sua straordinaria capacità, animata da un gusto
inesausto dell’avventura intellettuale, di rigenerarsi e
ricominciare, di inseguire nuovi miti quando i vecchi si
rivelavano logori e strumentali.
E offriva in tal modo un paradigma, anzi una delle due
modalità antitetiche, dell’essere scrittore e
intellettuale nel Novecento delle ideologie totalitarie e
dei regimi, dei conflitti e dei massacri altrettanto
totalizzanti e, sulla zona franca dell’esercizio
letterario, incombenti come una minaccia di espropriazione
o una chiamata alle armi. Una delle due, si è detto:
attivistica e vitalistica come quel mito-Robinson che
marchiò fin dall’infanzia l’immaginario vittoriniano,
drastica e partigiana come le scelte di campo letterarie e
ideologiche e come gli impietosi autodafé che lo scrittore
5
siracusano impose alle tre o quattro generazioni che si
avvicendarono all’ombra della sua indiscussa leadership.
E l’altra? Per definirla occorrerebbe far scorrere,
lungo l’asse del secolo delle ideologie e dei regimi, due
vite parallele: quella di Vittorini e quella, che pur
dipanandosi dalle stesse radici e nello stesso volger
d’anni rimase nettamente distinta e mai convergente, di
Vitaliano Brancati. Un antagonismo reale, storico, questo
fra due autori che furono coetanei e conterranei, sul modo
d’intendere la funzione intellettuale e la produzione
letteraria: un’antitesi, dunque, che travalica i singoli
autori e fissa efficacemente due paradigmi novecenteschi,
radicalmente alternativi.
Brancati e Vittorini nascono a un anno, e a poche
leghe, di distanza: borghesi e urbane l’infanzia e
l’adolescenza del primo, da outcast e da autodidatta quelle
avventurose di Vittorini nel “mondo offeso” e favoloso
della Sicilia rurale. Ma analoghi i tempi, e i miti: la
loro è la prima generazione del “lungo viaggio” dentro il
fascismo, senza alternative, che canalizza le sue
inquietudini nell’alveo obbligato del “movimento”, del
“fascismo di sinistra”. Al culmine, nel 1933 Il garofano rosso
di Vittorini, nel ’34 la brancatiana Singolare avventura di
viaggio.
Due romanzi giovanili – e “fascisti”: il mito della
giovinezza come attivismo febbrile e indeterminata
inquietudine, la duplice iniziazione politico-sessuale di
6
Alessio danno corpo alla narrazione, traboccante d’ingenui
pronunciamenti e slogan squillanti, del Garofano
vittoriniano, mentre all’eros brutale e trasgressivo, alla
voglia di peccare fortiter e all’attivismo fazioso che, nella
Singolare avventura di Brancati, sono espressi da analoghe
figure di adolescenti irrequieti, fanno da contrappeso
l’ironia e il buon senso che in quelle pagine febbrili
riecheggiano dal fondo del “silenzio dell’Ottocento”,
ovvero dai tempi dilatati e rilassati, dalla proba
pacatezza e dalla verecondia piena di scrupoli d’un
idealtipico – e forse improbabile – ethos paleo-borghese.
E censure e stroncature toccarono in egual misura a
entrambi i romanzi: Brancati si dimette dalla redazione di
Quadrivio, dove il fascistissimo Interlandi aveva arruolato
una schiera di letterati isolani ma dove Chiarini aveva
stilato la scomunica di regime del romanzetto brancatiano,
e torna in Sicilia, inizia Gli anni perduti, si punisce, si
isola, si rinnova; Vittorini, viceversa, è il leader, è
l’attivista, il divulgatore, non può isolarsi, non cambia
registro, segue fino in fondo, incarna e patisce tutte le
tensioni e le contraddizioni del suo tempo e della sua
generazione.
Ma tentando di anticiparle, di illuminarle: nel 1941
escono i volumi, e guizzano le metafore, di Conversazione in
Sicilia e dell’antologia Americana. Dalla terra desolata degli
“astratti furori” germoglia la rigogliosa vegetazione dei
“simboli per l’umana liberazione”, e sbocciano il mito
7
libertario della frontiera, della natura convertita in
storia, e l’illusione interventista del Politecnico: la
cultura che “muove eserciti”, che impugna le armi – le
proprie, scovate chissà dove, e affilate sulla lama di
impolitici ardori esistenziali – contro le “sofferenze” e
le “offese”.
Ebbene, in quello stesso 1941 in cui Vittorini
antologizzava Hemingway e Faulkner, Brancati antologizzava
Leopardi (e l’anno dopo le Mémoires d’outre-tombe di
Chateaubriand). Non si potrebbe immaginare una scelta più
antitetica, come a dire tra ottimismo e pessimismo, tra un
progressismo generosamente ingenuo e uno scetticismo
tendenzialmente conservatore, e ancora tra le sirene
dell’engagement e i rovelli del dubbio, la pratica del
dissenso.
E allo stesso modo antitetica è la filosofia
brancatiana dei Piaceri, del saggista e del diarista, della
rivalutazione del “buon senso” e soprattutto delle “torri
d’avorio” contro le impure contaminazioni praticate dai
“funzionari”:
L’uscire dalla torre d’avorio è per un letterato unvizio perverso come, per alcuni mariti del sud, quellodi andare a donne a una certa ora della sera. Si escedalle quattro mura per non restare di fronte a sestessi, e perché il foglio bianco ci sbadiglia davanti,e perché all’amore per tutti gli uomini, che si ricava dalcontemplarli di lontano, si preferisce il piccolo odiopettegolo contro alcuni di loro (classi, nazioni,categorie) che si acquista nello strofinarsi con loro.
8
In fondo, si va a vivere perché non si sa che cosascrivere.
(BRANCATI, 1992, p. 364)
E ancora:
Quanto alle torri d’avorio, l’aria di un secolo sicondensa meglio entro di esse che in un ufficiopubblico. È una bella pretesa dei funzionari quella dicredere che, suonando una tastiera di campanelli, sirappresenti il proprio secolo meglio che suonando unpianoforte. In uno sbadiglio, ci può essere tantainsofferenza, tanto attivo buon gusto, un così precisoed esortativo giudizio morale, che un estensore dipratiche d’ufficio, se sarà di buona fede, dovràriconoscere che i suoi tempi dovranno più a quellosbadiglio che ai suoi colpi di penna sulla cartabollata.
(BRANCATI, 1992, p. 364-5)
È un ribaltamento polemico della retorichetta engagée dei
neorealisti, ma è anche un ancoraggio agli archetipi
fondanti della morale e della conoscenza laiche, alla
torre di Montaigne, all’orto di Candide. E mentre
Vittorini si scaglia nella mischia, osservando il suo
presente ad altezza d’uomo e interamente spendendovisi,
Brancati si apparta nel suo laboratorio di laiche moralità
e di analisi critiche, ma da quell’osservatorio inquadra
con lucido distacco fatti e misfatti della cultura e del
costume; mentre Vittorini corre tutti i rischi e cavalca
tutti i miti, sospeso senza rete sul filo delle ideologie
politiche e delle oltranze espressive che di volta in
volta gli appaiono più radicali, ma pronto ad abbandonarle
9
autocriticamente e a tentare nuove avventure quando ne
sconta gl’inganni, Brancati all’opposto si rifugia nel
microcosmo catanese, ma collocandolo al crocevia delle
tensioni novecentesche: il tempo perduto, l’inettitudine,
i temi d’obbligo della condizione “moderna”, ma caricati
di una inedita ambivalenza, regressivi e paralizzanti come
sono (e com’è il grembo nutriente e vorace della
provincia), ma al tempo stesso salutari antidoti (come
pure finiscono con l’essere) contro l’attivismo ottuso e
la bieca eugenetica delle dittature.
Quel guscio d’ostrica verghiano si riempie, in tal
modo, di contenuti e metafore dotati d’una smisurata
valenza simbolica: l’impotenza di Antonio Magnano, il
sonno comatoso di Giovanni Percolla, lo sbadiglio di Aldo
Piscitello e Domenico Vannantò svettano come sgargianti
vessilli al cospetto dei fanatismi, e dei trasformismi,
che hanno cruentato il secolo. E la lotta contro le chiese
e le ideologie (e le censure) è condotta a colpi di buon
senso da quei pavidi antieroi, cittadini esemplari di una
democrazia liberale fondata come si conviene sull’understate-
ment, su una inevitabile – ma quanto meno inoffensiva –
mediocrità.
Timidi e indolenti antieroi, i personaggi di Brancati
impegnati a inseguire, lungo un dedalo di vie profumate di
zagara e di buone maniere, le loro innocue manìe o il
miraggio evanescente della Donna; al contrario delle
statuarie figure di Madri libertarie e nonni a cavallo che
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svettano, creando spessori ancestrali, nel “mondo offeso”
di Vittorini. E agli antipodi si collocano pure le due
officine narrative: ipotattica e avvolgente, raziocinante
e rigogliosa la sintassi di Brancati; paratattica ed
esclamativa, martellante e ripetitiva quella di Vittorini.
Mondi e linguaggi in netto contrasto, perché concepiti in
funzione di contrastanti ideologie, come ormai dovrebbe
apparire evidente: mentre Vittorini propone una cultura
attivistica e giacobina, tra utopia azionista e ortodossia
comunista, Brancati è un liberal, appartiene a quell’ari-
stocrazia di spiriti che Vittorini aveva condannato come
artefici d’una cultura “consolatoria” e perciò,
addirittura, come complici della barbarie nazista,
nell’articolo-manifesto Per una nuova cultura che squillava in
apertura del primo numero del Politecnico, il 29 settembre
del ’45. Eccola, quella vera e propria lista di
proscrizione, così come Vittorini spavaldamente la
snocciola: “Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda,
Huitzinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang
e Santayana, Valery, Gide e Berdiaev”.
Insomma, il Gotha della cultura europea (e non solo). E
di una certa cultura: quella moderatamente progressiva e
ostinatamente umanistica dei compagni di strada di
Giuseppe Antonio Borgese e dei maestri di Vitaliano
Brancati. Da Borgese, grande intellettuale siciliano di
formazione e interessi mitteleuropei, Brancati aveva
imparato a varcare i confini dell’Italietta fascista e
11
delle sue autarchiche mitologie; ma ne apprendeva anche il
rigore imposto da scelte così drastiche e il senso
implacabile della responsabilità intellettuale, che aveva
indotto Borgese al rifiuto del giuramento di fedeltà dei
docenti universitari al regime e quindi all’esilio
americano, e avrebbe indotto Brancati alla rinunzia ai
successi romani, all’autoesilio in provincia, alla
drastica riconversione del proprio modo di pensare e di
scrivere.
Mentre sul carro dell’antifascismo i Vittorini, i
Pratolini, i Bilenchi trasporteranno il bagaglio invariato
dei loro furori populisti e delle loro metafore
iniziatiche, gli uni e le altre forgiati nel fuoco delle
controversie di regime, Brancati si rifarà piuttosto alla
pacata chiaroveggenza del moralismo liberale d’anteguerra,
o all’indole aristocratica ma coerente della grande
cultura borghese d’oltralpe. E mentre Vittorini farà i
conti col suo passato con il Diario in pubblico, la più
formidabile delle auotoassoluzioni rinverginanti,
l’accorta e selettiva antologia in cui anche i suoi
scritti più dichiaratamente fascisti venivano abilmente
ritagliati e montati in chiave antifascista, Brancati
denunzierà il trasformismo delle élites, pronte a saltare
sul carro del vincitore mutando spregiudicatamente
bandiera. Lo farà, tra l’altro, raccontando la patetica
vicenda del povero usciere Aldo Piscitello, il “vecchio
con gli stivali”, unico e sia pure istintivo antifascista
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della sua amministrazione eppure unica vittima
dell’epurazione post-fascista, dal momento che gerarchi e
subalterni, quanto mai compromessi col passato regime,
spudoratamente (e scaltramente) si dichiaravano frattanto
antifascisti.
Una chiave di lettura, questa dell’eterno trasformismo
italico, che risaliva a De Roberto e durerà fino a
Sciascia, lungo una linea peculiarmente siciliana di
demistificazione delle “magnifiche sorti e progressive”
millantate dal Potere. L’autore dei Vicerè aveva narrato
l’unità d’Italia come un’occasione mancata, vanificata
come fu da rapaci oligarchie pronte – pur di mantenere il
dominio – a balzare al momento opportuno dall’anticamera
del re Borbone al parlamento del nuovo regno d’Italia
(“Vedi? Quando c'erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré;
ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento”; o
meglio, con più brutale franchezza: “Ora che l'Italia è
fatta, dobbiamo fare gli affari nostri”); il Pirandello de
I vecchi e i giovani spostava più avanti quella stessa analisi,
agli anni Novanta dell’Ottocento segnati dagli scandali
politico-finanziari e dal tracollo delle idealità
risorgimentali; Brancati legge allo stesso modo la
transizione, anch’essa vanificata, dal regime fascista
alla Repubblica; e lo stesso faranno il Tomasi di
Lampedusa del Gattopardo e lo Sciascia del Quarantotto sempre
a proposito del Risorgimento, ma con ben diverse
accentuazioni: accoratamente nostalgiche quelle del
13
principe palermitano, aspramente critiche (direi:
derobertianamente polemiche) quelle di Sciascia, che dal
Contesto a Todo modo e all’Affaire Moro perlustrerà con
altrettanto disincanto i recessi del Potere statale ed
ecclesiastico e nel deprecatissimo articolo sui
“professionisti dell’antimafia” paventerà l’immissione nei
ranghi dell’antimafia di uomini e metodi di matrice
mafiosa.
Sulla linea De Roberto-Brancati-Sciascia la repentina
conversione all’antifascismo di tanti nostri scrittori e
intellettuali sul finire degli anni Trenta e oltre non
poteva non essere guardata con sospetto, come un ulteriore
esempio di trasformismo. Certamente ingeneroso, quel
sospetto, nei confronti di vicende individuali vissute
all’insegna del travaglio intellettuale e morale, della
scelta da operare giorno per giorno tra sopravvivenza e
azzardo, della mancanza di conoscenze e approdi per quei
“furori” astratti perché segregati nella gabbia autarchica
e censoria del regime. Eppure quanto preziosa, quella
chiave di lettura, a smascherare l’immobilismo della
nomenklatura e la continuità della leadership intellettuale:
il trasformismo di molti, l’autoindulgenza di altri, tutti
corsi armi e bagagli al momento opportuno in soccorso del
vincitore, tutti pronti a riciclare in campo avverso lo
stesso immutato bagaglio di metafore e d’idee.
E un altro neorealismo, uno scrittore come Sciascia
potè attingere da Brancati; o meglio, altro dal
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neorealismo, dalle accensioni mitografiche e pedagogiche
d’un Vittorini o dall’opaca “nuova oggettività” degli
autori di tanti memoriali e requisitorie: era lo stile
lucidamente scettico e aspramente moralistico, maturato
prima e altrove da quei convulsi travagli e da quei
rapinosi entusiasmi, dei Brancati o Moravia, Alvaro,
Silone, Piovene, Bassani, Flaiano e di quanti, anziché
rovistare nella “frontiera” americana o nei cruenti
paradisi del socialismo realizzato, preferivano risalire
al moralismo vociano venandolo d’increspature
espressioniste di matrice mitteleuropea, o addirittura al
brancatiano “silenzio dell’Ottocento”, ovvero alla lezione
di laboriosa austerità, d’inflessibile rigore e di pudore
espressivo dei grandi di quel secolo.
In quel moralismo, professato da Brancati e
introiettato da Sciascia, si potrebbe pure intravedere una
certa qual impronta protestante: quella di cui Brancati
diede prova nelle sue drastiche scelte esistenziali e
letterarie, dettate da un senso assai esigente della
responsabilità individuale, e che in ultimo incarnò nella
sua Governante calvinista e nel «complesso di Cristo»
sofferto da quel Paolo “il caldo” luteranamente peccator et
iustus. Del resto a Caltanissetta, nel cuore assolato e
desolato dell’isola, il professore Brancati e lo studente
Sciascia avevano frequentato, come collega il primo e il
secondo come indimenticato maestro, un’inquieta figura del
15
cristianesimo evangelico, il pastore (e scrittore) valdese
Calogero Bonavia.
Ma anche Vittorini aveva personificato quello stesso
spirito nei Padri Pellegrini, fondatori della mitografia
americana, e nei loro “astratti furori” ferocemente
puritani, gravidi di severa rigenerazione e cruento
progresso. Il cosiddetto “moralismo”, del resto, è sempre
stato un’icona in cui isolare, santificandoli a debita
distanza, esempi inarrivabili – e perciò tanto venerabili
quanto intimidatori, e perciò fastidiosi – di moralità.
Del pari intimidatoria, e perciò felicemente rimossa,
tanto più dopo il Concordato tra il regime fascista e il
soglio pontificio, fu la questione sollevata da Gobetti e
Missiroli (e riecheggiata dai nostri scrittori: ma
risaliva quanto meno a Sismondi) della mancata Riforma
protestante in Italia, occasione fallita di assunzione
d’una coscienza civile e di una responsabilità morale non
alienabili a chierici assolventi, a mediatori politici, a
delegati all’interpretazione e al giudizio.
Anche le collaborazioni giornalistiche di Brancati e
Vittorini si dispongono nel tempo lungo due parallele che
hanno attraversato senza incontrarsi un secolo di politica
e cultura italiane, attestandosi sulle opposte trincee di
testate come l’Omnibus di quel Longanesi che fu il maieuta
della vocazione brancatiana all’indagine del costume e
alle microstorie gogoliane, e il Bargello fascista e
frondista dove la generazione che sarà neorealista, e che
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Vittorini guida e guiderà oltre le rotture della storia e
i traumi della coscienza, si aggiorna e si ricicla, freme
e sgomita, si mette in questione e tutto mette in
questione, sperimenta insubordinazioni espressive e
ideologiche che diverranno egemoni nel dopoguerra.
E nel dopoguerra altrettanto difformi saranno le scelte
dei due scrittori, come a dire tra i pacati “piaceri del
buon senso” e “del malumore” e il vertiginoso azzardo
dell’utopia, se Brancati elettivamente si affilia a
cenacoli come quello del Mondo di Panunzio, culla e tomba
di un’Italia laica, colta e moderna che forse non ci sarà
mai, e Vittorini dà vita (e morte) al suo Politecnico
fiammeggiante e traboccante di novità culturali e antichi
furori, inaugurando una linea di giornalismo culturale
militante e interventista che dal suo Menabò e dalla coeva
Officina si politicizzerà lungo l’arco degli anni Sessanta
come un’intera generazione che dalla letteratura e dal
cinema intanto approdava alle occupazioni e alle
barricate, sull’onda delle metafore e degli slogan attinti
da testate come i Quaderni rossi o i Quaderni piacentini.
O come la catanese Giovane critica, che fu la migliore
rivista meridionale della “nuova sinistra”: dove Franco
Fortini effettuava la sua Verifica dei poteri, decisiva per la
generazione (la mia) che si affacciava proprio allora alla
ribalta della storia, e dove Leonardo Sciascia
accoratamente si congedava, in un articolo bellissimo, dal
suo Vittorini, nei cui Gettoni – la collana di Einaudi – era
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stato arruolato e si era formato, dei cui furori si era
alimentato a partire dalle Parrocchie di Regalpetra fino al
memorabile Antimonio e a molti dei racconti del Mare colore del
vino, e la cui esigente tutela ora era sul punto di
abbandonare proprio in favore del magistero brancatiano,
da cui mutuava, al posto del culto ingenuamente
ottimistico della parola letteraria, una fede più
complessa e problematica nella funzione intellettuale. E
si accorgeva che non in “uomini e no” si può dividere
manicheisticamente il genere umano, se “uomini” si
riconoscono a vicenda il carabiniere e il mafioso del
Giorno della civetta; e che il Bene e il Male non si
fronteggiano su opposte trincee, se governo e opposizione
“malgovernano insieme”, invischiati nel medesimo viluppo
di colpe e di omissioni denunziato nel Contesto, o se
l’uomo-simbolo di quel groviglio di interessi e di
correità, l’Aldo Moro dell’Affaire, può improvvisamente
diventarne innocente vittima sacrificale.
Eppure è per quel tanto, o poco che sia, di affine tra
le scuderie giornalistico-intellettuali predilette da
Vittorini e da Brancati, che Sciascia potrà scrivere su
infervorate riviste militanti o – “nero su nero” – sui
compassati quotidiani dell’ufficialità borghese, e potrà
altresì militare a sinistra e criticare la sinistra,
assumendosi tutte le contraddizioni (e le tradizioni) che
a un intellettuale tocca addossarsi, e coniugando i due
modelli offerti dai suoi auctores in una scommessa forse
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insostenibile, se egli stesso finì con l’elidere un polo
di quella dialettica in favore della lezione brancatiana.
E come Brancati e Vittorini, anche Sciascia ricicla e
travasa, dalle pagine dei suoi libri a quelle dei giornali
o viceversa, concetti e metafore. Distinguere, per
comodità di esposizione, lo Sciascia narratore dal
saggista, dal polemista, dall’autore di erudite ricerche e
vibranti pamphlets, è perciò impossibile ma pure
fuorviante: si rischia, cioè, di smarrire un dato
assolutamente cruciale e fondante, ossìa l’unità e
continuità della scrittura di Sciascia, contaminata e
arricchita di saggismo nella sua sezione più propriamente
inventiva, affidata alle risorse creative e alle libere
associazioni della narrazione nella sezione critica ed
ermeneutica.
Ma come in Brancati, anche in Sciascia è il registro
analitico e raziocinante del saggista, è la digressione
erratica ma chiarificatrice, a prevalere sugli estri della
scrittura creativa, tutt’al contrario che in quel potente
mitografo che fu Vittorini, che nelle prose d’autore
forgiava le sue metafore riassuntive e mobilitanti, i
coinvolgenti “simboli per l’umana liberazione” che poi
illumineranno sia le note critiche di Americana sia le
colonne rosse e nere del Politecnico.
Lasciavano il segno, quelle metafore; e vibrano anche
oggi d’implacato furore. E siamo proprio certi, del resto,
che la chiave che abbiamo finora privilegiato, quella
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della contrapposizione tra intelligenza critica e generoso
attivismo, tra analisi disincantata e furente utopia, sia
l’unica utilizzabile per leggere oggi l’antitesi, che
resta netta e inconciliabile, tra quei due paradigmi
d’intelligenza critica, di moralità e di stile? E possiamo
davvero stabilire, con serena certezza, se ci mancano di
più i lucidi argomenti di Vitaliano Brancati o i generosi
azzardi di Elio Vittorini?
Bibliografia essenziale:BRANCATI V., Opere, 2 vol., Milano: Bompiani, 1987-1992.BRANCATI V., Racconti, teatro, scritti giornalistici, Milano:Mondadori, 2003.CARTA A., Una casa visitata dai ladri. Lo spazio urbanonell’opera di Vitaliano Brancati, Acireale-Roma: Bonanno, 2009.CATALANO E., La metafora e l’iperbole. Studi su Vittorini,Bari: Progedit, 2007.DI GRADO A., Il silenzio delle Madri. Vittorini da‘Conversazione in Sicilia’ al ‘Sempione, Catania: Edizioni delPrisma, 1980.DI GRADO A., ‘Quale in lui stesso alfine l’eternità lo muta’.Per Sciascia dieci anni dopo, Caltanissetta-Roma: Sciascia,1999.DI GRADO A., La lotta con l’angelo. Gli scrittori e le fedi,Napoli: Liguori, 2002.ONOFRI M., Storia di Sciascia, Roma-Bari: Laterza, 1994.PERRONE D., Vitaliano Brancati. Le avventure morali e i‘piaceri’ della scrittura, Caltanissetta-Roma: Sciascia, 2003.SCIASCIA L., Opere, 3 vol., Milano: Bompiani, 1987-1990.
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