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Antonio Di Grado Vite parallele: Vitaliano Brancati, Elio Vittorini Alla fine degli anni Trenta, poco oltre i massacri della guerra di Spagna e poco prima di quelli del secondo conflitto mondiale, il siciliano Elio Vittorini scopre che “non ogni uomo è uomo”. Semplice come un teorema, la sua spiegazione, come al solito affidata a coinvolgenti metafore; e limpida, senza contrasti, come la strada assolata ai cui estremi si affrontano, nell’epopea western, l’eroe del Bene e l’antieroe del Male assoluto, della sopraffazione, dell’orrore. Eccola: Un uomo ride e un altro uomo piange. Tutti e due sono uomini; anche quello che ride è stato malato, è malato; eppure egli ride perché l’altro piange. Egli può massacrare, perseguitare, e uno che, nella non speranza, lo vede che ride sui suoi giornali e manifesti di giornali, non va con lui che ride ma semmai piange, nella quiete, con l’altro che piange. Non ogni uomo è uomo, allora. Uno perseguita e l’altro è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato. Uccidete un uomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, un affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame. (VITTORINI, 1974, vol. I, p. 645-6) Nasce così, prima della guerra e della liberazione, la letteratura che dovrà raccontarle, registrare gli orrori dell’una e le speranze dell’altra; nasce, almeno un lustro 1

Vite parallele: Vitaliano Brancati, Elio Vittorini

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Antonio Di Grado

Vite parallele: Vitaliano Brancati, Elio Vittorini

Alla fine degli anni Trenta, poco oltre i massacri

della guerra di Spagna e poco prima di quelli del secondo

conflitto mondiale, il siciliano Elio Vittorini scopre che

“non ogni uomo è uomo”.

Semplice come un teorema, la sua spiegazione, come al

solito affidata a coinvolgenti metafore; e limpida, senza

contrasti, come la strada assolata ai cui estremi si

affrontano, nell’epopea western, l’eroe del Bene e

l’antieroe del Male assoluto, della sopraffazione,

dell’orrore.

Eccola:

Un uomo ride e un altro uomo piange. Tutti e due sonouomini; anche quello che ride è stato malato, è malato;eppure egli ride perché l’altro piange. Egli puòmassacrare, perseguitare, e uno che, nella nonsperanza, lo vede che ride sui suoi giornali emanifesti di giornali, non va con lui che ride masemmai piange, nella quiete, con l’altro che piange.Non ogni uomo è uomo, allora. Uno perseguita e l’altroè perseguitato; e genere umano non è tutto il genereumano, ma quello soltanto del perseguitato. Uccidete unuomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato,un affamato; è più genere umano il genere umano deimorti di fame.

(VITTORINI, 1974, vol. I, p. 645-6)

Nasce così, prima della guerra e della liberazione, la

letteratura che dovrà raccontarle, registrare gli orrori

dell’una e le speranze dell’altra; nasce, almeno un lustro

1

prima della data di nascita del neorealismo, il manifesto

del neorealismo. Molto poco realista, in verità, ché astratte

metafore, archetipi primitivi e simboli cifrati vi si

affrontano, sullo sfondo d’una Sicilia arcaica e ctonia.

Ma sono metafore mobilitanti, “furori” per il “mondo

offeso” e “lame” da arrotare per riscattarlo; sono

“simboli per l’umana liberazione”.

Quel libro era Conversazione in Sicilia; e molti giovani

intellettuali vi riconobbero i propri “astratti furori” e

il bisogno di “nuovi doveri”, di idealità e parole

d’ordine nuove; molti vi lessero in filigrana, a torto o a

ragione, il simbolo della falce e del martello, l’approdo

oltre il buio alla luce – che appariva dispiegata –

dell’ideologia e della militanza; molti impararono da

quelle enigmatiche epifanie la possibilità ben concreta e

prossima della “liberazione”.

Molti intesero che la letteratura non doveva solo

“consolare”, come da qui a poco scriverà il Vittorini del

Politecnico, non solo “piangere” al fianco di chi piange, ma

combattere a fianco di chi combatte. E intanto, da qui a

poco, prenderanno le armi. Vittorini correrà in

bicicletta, sfidando militi e SS, portando da un capo

all’altro di Milano i manifesti e i giornali clandestini

della Resistenza; il raffinato intellettuale Giaime Pintor

andrà a raggiungere i partigiani in montagna, e incontrerà

subito, protomartire della Resistenza, il fuoco nemico e

la testimonianza estrema, la morte.

2

Come il protagonista – Enne 2, che quella morte attende

armi in pugno nella sua stanza dove irromperà il nemico –

del successivo romanzo di Vittorini, significativamente

intitolato Uomini e no. Ed è già neorealismo. La liberazione

è avvenuta e legioni di giovani e di reduci depongono le

armi e impugnano la penna. Per continuare a combattere

scrivendo. Per raccontare le atrocità della guerra e il

caos dell’armistizio, l’epopea della lotta partigiana e

l’orrore dei campi di prigionia e di sterminio.

E non sono solo i Vittorini e i Pavese, o i più giovani

come Calvino o Fenoglio, comunque formatisi o nel decennio

precedente o tra le pagine della grande letteratura, e

pronti sì a pagare l’obolo alla Liberazione e alla

pedagogia neorealista, ma giusto per farne, ancora, grande

letteratura: a raccontare quelle esperienze decisive e

irripetibili, e a inventare il neorealismo, sono giovani e

subito obliati autori d’un libro solo, del diario della

loro individuale vicenda, che poco sanno e vogliono sapere

di letteratura, anzi inseguono una furente utopia di

azzeramento espressivo e opacità cronachistica, perché –

come aveva scritto Brecht – “discorrere d’alberi è quasi

un delitto, quando su troppe stragi comporta il silenzio”.

Libro tormentato e irrisolto, non a caso, Uomini e no. E

lacerato da una ferita, aperta e palese fin nell’assetto

grafico: da una parte le pagine in carattere tondo, ovvero

il romanzo della Resistenza e dei GAP a Milano; dall’altra

quelle in corsivo, in cui irrompe l’autore con il suo

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vecchio Io decadente e lirico-mitico, e stende il suo

protagonista-partigiano sul lettino dello psicanalista, ne

cava ricordi e angosce; o gl’impone le proprie memorie e i

propri incubi. E se da una parte si fronteggiano “uomini e

no”, non-uomini nerovestiti e imbestiati contro pedagoghi

e catecumeni dell’engagement umanitario, dall’altra si

scatena e si consuma il Grande Amore, l’impossibile storia

d’amore fra Enne 2 e Berta, l’amour fou che non può che

realizzarsi nella morte.

Il fatto è che in quel libro si scontravano il

Vittorini-“uomo nuovo” e militante con il Vittorini-

scrittore e “coscienza infelice”. Lo stesso accadrà al

coetaneo e rivale Cesare Pavese, da Il compagno a La luna e i

falò, analoghe prove del fallimento del manicheismo

neorealista e dell’opposta insorgenza d’un mondo interiore

di fantasmi memoriali e brividi metafisici, di angosce

esistenziali e dubbi intellettuali, che nessuna

“liberazione” può riscattare e pacificare. E di una

letteratura che nessun impegno etico o politico può

asservire, né sostituire con la cronaca o con la

pedagogia.

Di queste ambivalenze, di questa letteratura che è

aspra battaglia delle idee ma anche mito, evocazione di

ombre, modulazione di inediti linguaggi, e che è

“militante” e al tempo stesso circonfusa di un’aura

iniziatica, e delle tre o quattro generazioni che di

queste ambivalenze si nutrirono, Vittorini fu indiscusso

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maestro e leader carismatico. Lo fu dal 1929, quando poco

più che ventenne dettava già ai suoi scalpitanti coetanei

slogan e anatemi, icone da imitare e zavorre da sgombrare,

fino agli anni Sessanta della vertiginosa modernizzazione

culturale, di cui fino alla sua scomparsa fu attivissimo

mediatore, come lo era stato del mito dell’America o dei

“furori” pre- e post-bellici.

Lo fu a costo di spendersi tutto e perfino di

appiattirsi (l’aveva capito Pavese, che contava di

batterlo sulla distanza) nel presente, da cui ricavava

istanze e slogan da restituirgli in forma di smaglianti

metafore, urgenti come “nuovi doveri”; ma lo fu anche per

la sua straordinaria capacità, animata da un gusto

inesausto dell’avventura intellettuale, di rigenerarsi e

ricominciare, di inseguire nuovi miti quando i vecchi si

rivelavano logori e strumentali.

E offriva in tal modo un paradigma, anzi una delle due

modalità antitetiche, dell’essere scrittore e

intellettuale nel Novecento delle ideologie totalitarie e

dei regimi, dei conflitti e dei massacri altrettanto

totalizzanti e, sulla zona franca dell’esercizio

letterario, incombenti come una minaccia di espropriazione

o una chiamata alle armi. Una delle due, si è detto:

attivistica e vitalistica come quel mito-Robinson che

marchiò fin dall’infanzia l’immaginario vittoriniano,

drastica e partigiana come le scelte di campo letterarie e

ideologiche e come gli impietosi autodafé che lo scrittore

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siracusano impose alle tre o quattro generazioni che si

avvicendarono all’ombra della sua indiscussa leadership.

E l’altra? Per definirla occorrerebbe far scorrere,

lungo l’asse del secolo delle ideologie e dei regimi, due

vite parallele: quella di Vittorini e quella, che pur

dipanandosi dalle stesse radici e nello stesso volger

d’anni rimase nettamente distinta e mai convergente, di

Vitaliano Brancati. Un antagonismo reale, storico, questo

fra due autori che furono coetanei e conterranei, sul modo

d’intendere la funzione intellettuale e la produzione

letteraria: un’antitesi, dunque, che travalica i singoli

autori e fissa efficacemente due paradigmi novecenteschi,

radicalmente alternativi.

Brancati e Vittorini nascono a un anno, e a poche

leghe, di distanza: borghesi e urbane l’infanzia e

l’adolescenza del primo, da outcast e da autodidatta quelle

avventurose di Vittorini nel “mondo offeso” e favoloso

della Sicilia rurale. Ma analoghi i tempi, e i miti: la

loro è la prima generazione del “lungo viaggio” dentro il

fascismo, senza alternative, che canalizza le sue

inquietudini nell’alveo obbligato del “movimento”, del

“fascismo di sinistra”. Al culmine, nel 1933 Il garofano rosso

di Vittorini, nel ’34 la brancatiana Singolare avventura di

viaggio.

Due romanzi giovanili – e “fascisti”: il mito della

giovinezza come attivismo febbrile e indeterminata

inquietudine, la duplice iniziazione politico-sessuale di

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Alessio danno corpo alla narrazione, traboccante d’ingenui

pronunciamenti e slogan squillanti, del Garofano

vittoriniano, mentre all’eros brutale e trasgressivo, alla

voglia di peccare fortiter e all’attivismo fazioso che, nella

Singolare avventura di Brancati, sono espressi da analoghe

figure di adolescenti irrequieti, fanno da contrappeso

l’ironia e il buon senso che in quelle pagine febbrili

riecheggiano dal fondo del “silenzio dell’Ottocento”,

ovvero dai tempi dilatati e rilassati, dalla proba

pacatezza e dalla verecondia piena di scrupoli d’un

idealtipico – e forse improbabile – ethos paleo-borghese.

E censure e stroncature toccarono in egual misura a

entrambi i romanzi: Brancati si dimette dalla redazione di

Quadrivio, dove il fascistissimo Interlandi aveva arruolato

una schiera di letterati isolani ma dove Chiarini aveva

stilato la scomunica di regime del romanzetto brancatiano,

e torna in Sicilia, inizia Gli anni perduti, si punisce, si

isola, si rinnova; Vittorini, viceversa, è il leader, è

l’attivista, il divulgatore, non può isolarsi, non cambia

registro, segue fino in fondo, incarna e patisce tutte le

tensioni e le contraddizioni del suo tempo e della sua

generazione.

Ma tentando di anticiparle, di illuminarle: nel 1941

escono i volumi, e guizzano le metafore, di Conversazione in

Sicilia e dell’antologia Americana. Dalla terra desolata degli

“astratti furori” germoglia la rigogliosa vegetazione dei

“simboli per l’umana liberazione”, e sbocciano il mito

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libertario della frontiera, della natura convertita in

storia, e l’illusione interventista del Politecnico: la

cultura che “muove eserciti”, che impugna le armi – le

proprie, scovate chissà dove, e affilate sulla lama di

impolitici ardori esistenziali – contro le “sofferenze” e

le “offese”.

Ebbene, in quello stesso 1941 in cui Vittorini

antologizzava Hemingway e Faulkner, Brancati antologizzava

Leopardi (e l’anno dopo le Mémoires d’outre-tombe di

Chateaubriand). Non si potrebbe immaginare una scelta più

antitetica, come a dire tra ottimismo e pessimismo, tra un

progressismo generosamente ingenuo e uno scetticismo

tendenzialmente conservatore, e ancora tra le sirene

dell’engagement e i rovelli del dubbio, la pratica del

dissenso.

E allo stesso modo antitetica è la filosofia

brancatiana dei Piaceri, del saggista e del diarista, della

rivalutazione del “buon senso” e soprattutto delle “torri

d’avorio” contro le impure contaminazioni praticate dai

“funzionari”:

L’uscire dalla torre d’avorio è per un letterato unvizio perverso come, per alcuni mariti del sud, quellodi andare a donne a una certa ora della sera. Si escedalle quattro mura per non restare di fronte a sestessi, e perché il foglio bianco ci sbadiglia davanti,e perché all’amore per tutti gli uomini, che si ricava dalcontemplarli di lontano, si preferisce il piccolo odiopettegolo contro alcuni di loro (classi, nazioni,categorie) che si acquista nello strofinarsi con loro.

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In fondo, si va a vivere perché non si sa che cosascrivere.

(BRANCATI, 1992, p. 364)

E ancora:

Quanto alle torri d’avorio, l’aria di un secolo sicondensa meglio entro di esse che in un ufficiopubblico. È una bella pretesa dei funzionari quella dicredere che, suonando una tastiera di campanelli, sirappresenti il proprio secolo meglio che suonando unpianoforte. In uno sbadiglio, ci può essere tantainsofferenza, tanto attivo buon gusto, un così precisoed esortativo giudizio morale, che un estensore dipratiche d’ufficio, se sarà di buona fede, dovràriconoscere che i suoi tempi dovranno più a quellosbadiglio che ai suoi colpi di penna sulla cartabollata.

(BRANCATI, 1992, p. 364-5)

È un ribaltamento polemico della retorichetta engagée dei

neorealisti, ma è anche un ancoraggio agli archetipi

fondanti della morale e della conoscenza laiche, alla

torre di Montaigne, all’orto di Candide. E mentre

Vittorini si scaglia nella mischia, osservando il suo

presente ad altezza d’uomo e interamente spendendovisi,

Brancati si apparta nel suo laboratorio di laiche moralità

e di analisi critiche, ma da quell’osservatorio inquadra

con lucido distacco fatti e misfatti della cultura e del

costume; mentre Vittorini corre tutti i rischi e cavalca

tutti i miti, sospeso senza rete sul filo delle ideologie

politiche e delle oltranze espressive che di volta in

volta gli appaiono più radicali, ma pronto ad abbandonarle

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autocriticamente e a tentare nuove avventure quando ne

sconta gl’inganni, Brancati all’opposto si rifugia nel

microcosmo catanese, ma collocandolo al crocevia delle

tensioni novecentesche: il tempo perduto, l’inettitudine,

i temi d’obbligo della condizione “moderna”, ma caricati

di una inedita ambivalenza, regressivi e paralizzanti come

sono (e com’è il grembo nutriente e vorace della

provincia), ma al tempo stesso salutari antidoti (come

pure finiscono con l’essere) contro l’attivismo ottuso e

la bieca eugenetica delle dittature.

Quel guscio d’ostrica verghiano si riempie, in tal

modo, di contenuti e metafore dotati d’una smisurata

valenza simbolica: l’impotenza di Antonio Magnano, il

sonno comatoso di Giovanni Percolla, lo sbadiglio di Aldo

Piscitello e Domenico Vannantò svettano come sgargianti

vessilli al cospetto dei fanatismi, e dei trasformismi,

che hanno cruentato il secolo. E la lotta contro le chiese

e le ideologie (e le censure) è condotta a colpi di buon

senso da quei pavidi antieroi, cittadini esemplari di una

democrazia liberale fondata come si conviene sull’understate-

ment, su una inevitabile – ma quanto meno inoffensiva –

mediocrità.

Timidi e indolenti antieroi, i personaggi di Brancati

impegnati a inseguire, lungo un dedalo di vie profumate di

zagara e di buone maniere, le loro innocue manìe o il

miraggio evanescente della Donna; al contrario delle

statuarie figure di Madri libertarie e nonni a cavallo che

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svettano, creando spessori ancestrali, nel “mondo offeso”

di Vittorini. E agli antipodi si collocano pure le due

officine narrative: ipotattica e avvolgente, raziocinante

e rigogliosa la sintassi di Brancati; paratattica ed

esclamativa, martellante e ripetitiva quella di Vittorini.

Mondi e linguaggi in netto contrasto, perché concepiti in

funzione di contrastanti ideologie, come ormai dovrebbe

apparire evidente: mentre Vittorini propone una cultura

attivistica e giacobina, tra utopia azionista e ortodossia

comunista, Brancati è un liberal, appartiene a quell’ari-

stocrazia di spiriti che Vittorini aveva condannato come

artefici d’una cultura “consolatoria” e perciò,

addirittura, come complici della barbarie nazista,

nell’articolo-manifesto Per una nuova cultura che squillava in

apertura del primo numero del Politecnico, il 29 settembre

del ’45. Eccola, quella vera e propria lista di

proscrizione, così come Vittorini spavaldamente la

snocciola: “Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda,

Huitzinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang

e Santayana, Valery, Gide e Berdiaev”.

Insomma, il Gotha della cultura europea (e non solo). E

di una certa cultura: quella moderatamente progressiva e

ostinatamente umanistica dei compagni di strada di

Giuseppe Antonio Borgese e dei maestri di Vitaliano

Brancati. Da Borgese, grande intellettuale siciliano di

formazione e interessi mitteleuropei, Brancati aveva

imparato a varcare i confini dell’Italietta fascista e

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delle sue autarchiche mitologie; ma ne apprendeva anche il

rigore imposto da scelte così drastiche e il senso

implacabile della responsabilità intellettuale, che aveva

indotto Borgese al rifiuto del giuramento di fedeltà dei

docenti universitari al regime e quindi all’esilio

americano, e avrebbe indotto Brancati alla rinunzia ai

successi romani, all’autoesilio in provincia, alla

drastica riconversione del proprio modo di pensare e di

scrivere.

Mentre sul carro dell’antifascismo i Vittorini, i

Pratolini, i Bilenchi trasporteranno il bagaglio invariato

dei loro furori populisti e delle loro metafore

iniziatiche, gli uni e le altre forgiati nel fuoco delle

controversie di regime, Brancati si rifarà piuttosto alla

pacata chiaroveggenza del moralismo liberale d’anteguerra,

o all’indole aristocratica ma coerente della grande

cultura borghese d’oltralpe. E mentre Vittorini farà i

conti col suo passato con il Diario in pubblico, la più

formidabile delle auotoassoluzioni rinverginanti,

l’accorta e selettiva antologia in cui anche i suoi

scritti più dichiaratamente fascisti venivano abilmente

ritagliati e montati in chiave antifascista, Brancati

denunzierà il trasformismo delle élites, pronte a saltare

sul carro del vincitore mutando spregiudicatamente

bandiera. Lo farà, tra l’altro, raccontando la patetica

vicenda del povero usciere Aldo Piscitello, il “vecchio

con gli stivali”, unico e sia pure istintivo antifascista

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della sua amministrazione eppure unica vittima

dell’epurazione post-fascista, dal momento che gerarchi e

subalterni, quanto mai compromessi col passato regime,

spudoratamente (e scaltramente) si dichiaravano frattanto

antifascisti.

Una chiave di lettura, questa dell’eterno trasformismo

italico, che risaliva a De Roberto e durerà fino a

Sciascia, lungo una linea peculiarmente siciliana di

demistificazione delle “magnifiche sorti e progressive”

millantate dal Potere. L’autore dei Vicerè aveva narrato

l’unità d’Italia come un’occasione mancata, vanificata

come fu da rapaci oligarchie pronte – pur di mantenere il

dominio – a balzare al momento opportuno dall’anticamera

del re Borbone al parlamento del nuovo regno d’Italia

(“Vedi? Quando c'erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré;

ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento”; o

meglio, con più brutale franchezza: “Ora che l'Italia è

fatta, dobbiamo fare gli affari nostri”); il Pirandello de

I vecchi e i giovani spostava più avanti quella stessa analisi,

agli anni Novanta dell’Ottocento segnati dagli scandali

politico-finanziari e dal tracollo delle idealità

risorgimentali; Brancati legge allo stesso modo la

transizione, anch’essa vanificata, dal regime fascista

alla Repubblica; e lo stesso faranno il Tomasi di

Lampedusa del Gattopardo e lo Sciascia del Quarantotto sempre

a proposito del Risorgimento, ma con ben diverse

accentuazioni: accoratamente nostalgiche quelle del

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principe palermitano, aspramente critiche (direi:

derobertianamente polemiche) quelle di Sciascia, che dal

Contesto a Todo modo e all’Affaire Moro perlustrerà con

altrettanto disincanto i recessi del Potere statale ed

ecclesiastico e nel deprecatissimo articolo sui

“professionisti dell’antimafia” paventerà l’immissione nei

ranghi dell’antimafia di uomini e metodi di matrice

mafiosa.

Sulla linea De Roberto-Brancati-Sciascia la repentina

conversione all’antifascismo di tanti nostri scrittori e

intellettuali sul finire degli anni Trenta e oltre non

poteva non essere guardata con sospetto, come un ulteriore

esempio di trasformismo. Certamente ingeneroso, quel

sospetto, nei confronti di vicende individuali vissute

all’insegna del travaglio intellettuale e morale, della

scelta da operare giorno per giorno tra sopravvivenza e

azzardo, della mancanza di conoscenze e approdi per quei

“furori” astratti perché segregati nella gabbia autarchica

e censoria del regime. Eppure quanto preziosa, quella

chiave di lettura, a smascherare l’immobilismo della

nomenklatura e la continuità della leadership intellettuale:

il trasformismo di molti, l’autoindulgenza di altri, tutti

corsi armi e bagagli al momento opportuno in soccorso del

vincitore, tutti pronti a riciclare in campo avverso lo

stesso immutato bagaglio di metafore e d’idee.

E un altro neorealismo, uno scrittore come Sciascia

potè attingere da Brancati; o meglio, altro dal

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neorealismo, dalle accensioni mitografiche e pedagogiche

d’un Vittorini o dall’opaca “nuova oggettività” degli

autori di tanti memoriali e requisitorie: era lo stile

lucidamente scettico e aspramente moralistico, maturato

prima e altrove da quei convulsi travagli e da quei

rapinosi entusiasmi, dei Brancati o Moravia, Alvaro,

Silone, Piovene, Bassani, Flaiano e di quanti, anziché

rovistare nella “frontiera” americana o nei cruenti

paradisi del socialismo realizzato, preferivano risalire

al moralismo vociano venandolo d’increspature

espressioniste di matrice mitteleuropea, o addirittura al

brancatiano “silenzio dell’Ottocento”, ovvero alla lezione

di laboriosa austerità, d’inflessibile rigore e di pudore

espressivo dei grandi di quel secolo.

In quel moralismo, professato da Brancati e

introiettato da Sciascia, si potrebbe pure intravedere una

certa qual impronta protestante: quella di cui Brancati

diede prova nelle sue drastiche scelte esistenziali e

letterarie, dettate da un senso assai esigente della

responsabilità individuale, e che in ultimo incarnò nella

sua Governante calvinista e nel «complesso di Cristo»

sofferto da quel Paolo “il caldo” luteranamente peccator et

iustus. Del resto a Caltanissetta, nel cuore assolato e

desolato dell’isola, il professore Brancati e lo studente

Sciascia avevano frequentato, come collega il primo e il

secondo come indimenticato maestro, un’inquieta figura del

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cristianesimo evangelico, il pastore (e scrittore) valdese

Calogero Bonavia.

Ma anche Vittorini aveva personificato quello stesso

spirito nei Padri Pellegrini, fondatori della mitografia

americana, e nei loro “astratti furori” ferocemente

puritani, gravidi di severa rigenerazione e cruento

progresso. Il cosiddetto “moralismo”, del resto, è sempre

stato un’icona in cui isolare, santificandoli a debita

distanza, esempi inarrivabili – e perciò tanto venerabili

quanto intimidatori, e perciò fastidiosi – di moralità.

Del pari intimidatoria, e perciò felicemente rimossa,

tanto più dopo il Concordato tra il regime fascista e il

soglio pontificio, fu la questione sollevata da Gobetti e

Missiroli (e riecheggiata dai nostri scrittori: ma

risaliva quanto meno a Sismondi) della mancata Riforma

protestante in Italia, occasione fallita di assunzione

d’una coscienza civile e di una responsabilità morale non

alienabili a chierici assolventi, a mediatori politici, a

delegati all’interpretazione e al giudizio.

Anche le collaborazioni giornalistiche di Brancati e

Vittorini si dispongono nel tempo lungo due parallele che

hanno attraversato senza incontrarsi un secolo di politica

e cultura italiane, attestandosi sulle opposte trincee di

testate come l’Omnibus di quel Longanesi che fu il maieuta

della vocazione brancatiana all’indagine del costume e

alle microstorie gogoliane, e il Bargello fascista e

frondista dove la generazione che sarà neorealista, e che

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Vittorini guida e guiderà oltre le rotture della storia e

i traumi della coscienza, si aggiorna e si ricicla, freme

e sgomita, si mette in questione e tutto mette in

questione, sperimenta insubordinazioni espressive e

ideologiche che diverranno egemoni nel dopoguerra.

E nel dopoguerra altrettanto difformi saranno le scelte

dei due scrittori, come a dire tra i pacati “piaceri del

buon senso” e “del malumore” e il vertiginoso azzardo

dell’utopia, se Brancati elettivamente si affilia a

cenacoli come quello del Mondo di Panunzio, culla e tomba

di un’Italia laica, colta e moderna che forse non ci sarà

mai, e Vittorini dà vita (e morte) al suo Politecnico

fiammeggiante e traboccante di novità culturali e antichi

furori, inaugurando una linea di giornalismo culturale

militante e interventista che dal suo Menabò e dalla coeva

Officina si politicizzerà lungo l’arco degli anni Sessanta

come un’intera generazione che dalla letteratura e dal

cinema intanto approdava alle occupazioni e alle

barricate, sull’onda delle metafore e degli slogan attinti

da testate come i Quaderni rossi o i Quaderni piacentini.

O come la catanese Giovane critica, che fu la migliore

rivista meridionale della “nuova sinistra”: dove Franco

Fortini effettuava la sua Verifica dei poteri, decisiva per la

generazione (la mia) che si affacciava proprio allora alla

ribalta della storia, e dove Leonardo Sciascia

accoratamente si congedava, in un articolo bellissimo, dal

suo Vittorini, nei cui Gettoni – la collana di Einaudi – era

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stato arruolato e si era formato, dei cui furori si era

alimentato a partire dalle Parrocchie di Regalpetra fino al

memorabile Antimonio e a molti dei racconti del Mare colore del

vino, e la cui esigente tutela ora era sul punto di

abbandonare proprio in favore del magistero brancatiano,

da cui mutuava, al posto del culto ingenuamente

ottimistico della parola letteraria, una fede più

complessa e problematica nella funzione intellettuale. E

si accorgeva che non in “uomini e no” si può dividere

manicheisticamente il genere umano, se “uomini” si

riconoscono a vicenda il carabiniere e il mafioso del

Giorno della civetta; e che il Bene e il Male non si

fronteggiano su opposte trincee, se governo e opposizione

“malgovernano insieme”, invischiati nel medesimo viluppo

di colpe e di omissioni denunziato nel Contesto, o se

l’uomo-simbolo di quel groviglio di interessi e di

correità, l’Aldo Moro dell’Affaire, può improvvisamente

diventarne innocente vittima sacrificale.

Eppure è per quel tanto, o poco che sia, di affine tra

le scuderie giornalistico-intellettuali predilette da

Vittorini e da Brancati, che Sciascia potrà scrivere su

infervorate riviste militanti o – “nero su nero” – sui

compassati quotidiani dell’ufficialità borghese, e potrà

altresì militare a sinistra e criticare la sinistra,

assumendosi tutte le contraddizioni (e le tradizioni) che

a un intellettuale tocca addossarsi, e coniugando i due

modelli offerti dai suoi auctores in una scommessa forse

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insostenibile, se egli stesso finì con l’elidere un polo

di quella dialettica in favore della lezione brancatiana.

E come Brancati e Vittorini, anche Sciascia ricicla e

travasa, dalle pagine dei suoi libri a quelle dei giornali

o viceversa, concetti e metafore. Distinguere, per

comodità di esposizione, lo Sciascia narratore dal

saggista, dal polemista, dall’autore di erudite ricerche e

vibranti pamphlets, è perciò impossibile ma pure

fuorviante: si rischia, cioè, di smarrire un dato

assolutamente cruciale e fondante, ossìa l’unità e

continuità della scrittura di Sciascia, contaminata e

arricchita di saggismo nella sua sezione più propriamente

inventiva, affidata alle risorse creative e alle libere

associazioni della narrazione nella sezione critica ed

ermeneutica.

Ma come in Brancati, anche in Sciascia è il registro

analitico e raziocinante del saggista, è la digressione

erratica ma chiarificatrice, a prevalere sugli estri della

scrittura creativa, tutt’al contrario che in quel potente

mitografo che fu Vittorini, che nelle prose d’autore

forgiava le sue metafore riassuntive e mobilitanti, i

coinvolgenti “simboli per l’umana liberazione” che poi

illumineranno sia le note critiche di Americana sia le

colonne rosse e nere del Politecnico.

Lasciavano il segno, quelle metafore; e vibrano anche

oggi d’implacato furore. E siamo proprio certi, del resto,

che la chiave che abbiamo finora privilegiato, quella

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della contrapposizione tra intelligenza critica e generoso

attivismo, tra analisi disincantata e furente utopia, sia

l’unica utilizzabile per leggere oggi l’antitesi, che

resta netta e inconciliabile, tra quei due paradigmi

d’intelligenza critica, di moralità e di stile? E possiamo

davvero stabilire, con serena certezza, se ci mancano di

più i lucidi argomenti di Vitaliano Brancati o i generosi

azzardi di Elio Vittorini?

Bibliografia essenziale:BRANCATI V., Opere, 2 vol., Milano: Bompiani, 1987-1992.BRANCATI V., Racconti, teatro, scritti giornalistici, Milano:Mondadori, 2003.CARTA A., Una casa visitata dai ladri. Lo spazio urbanonell’opera di Vitaliano Brancati, Acireale-Roma: Bonanno, 2009.CATALANO E., La metafora e l’iperbole. Studi su Vittorini,Bari: Progedit, 2007.DI GRADO A., Il silenzio delle Madri. Vittorini da‘Conversazione in Sicilia’ al ‘Sempione, Catania: Edizioni delPrisma, 1980.DI GRADO A., ‘Quale in lui stesso alfine l’eternità lo muta’.Per Sciascia dieci anni dopo, Caltanissetta-Roma: Sciascia,1999.DI GRADO A., La lotta con l’angelo. Gli scrittori e le fedi,Napoli: Liguori, 2002.ONOFRI M., Storia di Sciascia, Roma-Bari: Laterza, 1994.PERRONE D., Vitaliano Brancati. Le avventure morali e i‘piaceri’ della scrittura, Caltanissetta-Roma: Sciascia, 2003.SCIASCIA L., Opere, 3 vol., Milano: Bompiani, 1987-1990.

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VITTORINI E., Le opere narrative, 2 vol., Milano: Mondadori,1974.

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