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Barbara Calaba - Enrico Pagano
È in gioco la storia
Progetto didattico “La mia e la nostra storia. La scuola della memoria.
Progetto di scrittura autobiografica e di raccolta di storie di vita”
Classi seconde A, B, CScuola secondaria di primo grado
“Tanzio da Varallo”a. s. 2015-2016
Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea
nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia
© 2017 Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia
Vietata la riproduzione anche parziale non autorizzata
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Quand’ero bambina, amavo ascoltare i rac-conti di vita dei miei genitori. Mia madre serba-va nella memoria un ricco repertorio di ricordi familiari, da cui le piaceva attingere storie, a volte avventurose, altre divertenti, per intrat-tenere noi bambini, che ascoltavamo con par-tecipazione e ci confrontavamo con quello che veniva narrato.
Più tardi, negli anni dell’adolescenza, conob-bi la scrittura diaristica: riposto in un cassetto, custodivo un quaderno, sul quale mi piaceva annotare tutto ciò che colpiva la mia immagina-zione. Quell’esercizio era così piacevole per me, che mi intrattenevo a scrivere sul diario anche oltre l’ora in cui avrei già dovuto essere a let-to. Mentre registravo gli eventi più significativi della mia vita, comprendevo quanto il gesto di impugnare la penna e di fermarmi a porre ordi-ne nel tumulto di sensazioni e sentimenti che mi agitavano, mi aiutasse a far chiarezza nei pen-sieri che affollavano la mente.
Queste consuetudini sono state fondamenta-li per la mia crescita: sono convinta di aver ac-quisito maggiore consapevolezza di me nel cor-so del tempo, anche grazie all’ascolto dei ricordi delle persone che mi sono state accanto e alla continua riflessione interiore, che mi ha porta-ta, pur tra mille difficoltà e inciampi, a ottenere una più piena serenità e realizzazione.
Credo che il bisogno di ripercorrere il passa-to e di trasmettere agli altri i propri ricordi sia un’esigenza profonda di ogni uomo che desideri
dare valore a ciò che ha vissuto. Questo è stato lo sfondo emotivo e teorico che mi ha accompa-gnata durante l’esperienza di scrittura autobio-grafica fatta lo scorso anno nell’Istituto scola-stico dove insegno, nell’ambito del progetto “La mia e la nostra storia. La scuola della memoria. Progetto di scrittura autobiografica e di raccolta di storie di vita”.
La scuola è un luogo privilegiato per fare au-tobiografia, perché è lo spazio dove ci si incon-tra per parlare e riflettere insieme: all’interno di una buona classe, non ci si limita a far circolare le informazioni, ma si stabiliscono un dialogo e un confronto continui, che sono utili per pren-dere coscienza di concetti e valori.
Il progetto è stato proposto alle classi secon-de. I ragazzi inizialmente si schermivano, per-ché si ritenevano troppo giovani per poter fare un resoconto della propria vita, ma poi hanno compreso di avere molto da raccontare agli al-tri e di poter già trarre alcune prime conclusioni sulla propria infanzia. Da questo esercizio han-no ricavato la soddisfazione di scoprirsi cambia-ti alle soglie di una nuova fase della vita: l’ado-lescenza.
Un passaggio fondamentale dell’esperienza è consistito nella lettura dei testi autobiografici prodotti dai ragazzi. La possibilità di esprimere liberamente pensieri, desideri e sogni è stata ac-colta da alcuni con piacere, da altri con ansia e timidezza, ma credo che per tutti si sia trattato di un momento rasserenante: i ragazzi hanno
Prefazione
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fatto emergere una parte della loro interiorità e ne hanno ricavato la gradevole sensazione di essere stati ascoltati e accolti.
I loro testi sono stati “comunicati”, ovvero sono stati “messi in comune perché diventasse-ro dote di tutti” e costituissero materiale per ul-teriore ricerca: la condivisione dei ricordi è sta-ta emozionante non solo per chi ha raccontato, ma anche per chi, ascoltando, si è riconosciuto nelle narrazioni degli altri e ha ritrovato ricor-di perduti. Per ottenere questo risultato è stato fondamentale sospendere il giudizio e creare all’interno della classe un clima di accoglienza e di rispetto reciproci.
Per il progetto, i ragazzi hanno sviluppato il tema del gioco. È stato scelto questo argomen-to perché si è pensato che le esperienze ludiche - piacevoli e coinvolgenti come sono - lascino segni importanti nella memoria autobiografica delle persone e che, quindi, non sarebbe risulta-to troppo difficile per nessuno recuperare ricor-di emozionanti e divertenti.
Vorrei esprimere soddisfazione per aver at-tuato questo progetto di scrittura autobiografica nelle mie classi: mi ha profondamente emozio-nata vederlo realizzare e mi è parso che sia stato fatto un buon lavoro di educazione alla memo-ria in un tempo in cui è tanto diffusa la propen-sione a vivere solo nel presente e a consumare in fretta tutte le esperienze.
Vorrei che i miei allievi comprendessero quanto l’abitudine alla scrittura autobiografica comporti una migliore conoscenza di se stessi: si ricordino che, quando uno sforzo di introspe-zione sollecita la memoria, gli eventi del passato acquistano lo spessore che meritano, dal mo-
mento che siamo soliti ricordare solo ciò che più ci ha emozionati ed è stato importante per noi.
In conclusione, ringrazio la prof.ssa Anita Greco per avermi resa partecipe delle sue rifles-sioni sull’esperienza che abbiamo condiviso e per avermi ascoltata pazientemente durante la stesura di questo mio intervento.
Riporto le sue parole affinché le possiate conoscere: «A volte la scuola può diventare un meccanismo automatico: si entra in classe, si fa lezione e con difficoltà si entra in contatto con i nostri alunni. A volte ci dimentichiamo che do-vrebbero essere i nostri ragazzi. “Insegnare” è una parola meravigliosa, se non resta solo una parola. Credo fermamente nella scuola, dove dopo trentasei anni di insegnamento ho raccol-to esperienze e rapporti preziosi. La scuola do-vrebbe essere sempre un “universo magico di incontri”.
Il mio obiettivo, quando ero ragazzina e gio-cavo con le bambole, era diventare una “prof”. Ci sono riuscita, amo il mio lavoro di ogni gior-no e amo i miei ragazzi.
La memoria è la cosa più bella che ci sia data da tramandare ai nostri giovani… Riguardino il gioco, tristi eventi di guerra o difficoltà vissute, i ricordi sono preziosi; senza memoria… oh non resta più nulla!».
Mi unisco a lei nel ringraziare la dott.ssa Patrizia Rizzolo, la dott.ssa Barbara Calaba e il prof. Enrico Pagano, per avere, in un momento di gravi disillusioni sociali, rivalutato e creduto in “cose” belle.
Sabrina Frigiolinidocente responsabile del progetto
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Premessa
Nel progetto didattico sulla scrittura auto-biografica e la memoria abbiamo ritenuto utile proporre agli studenti una lezione di storia con-temporanea concepita con la funzione di dare profondità storica al tema del gioco e del tempo libero per consentire agli studenti di affrontare le azioni del progetto con migliore consapevo-lezza.
Sono partito, svolgendo la premessa alla le-zione, dalla distinzione fra tempo della scuola, tempo del lavoro e tempo libero: in generale gli studenti di oggi identificano nel loro vissuto scuola e lavoro, nel senso che interpretano l’e-sperienza scolastica e di studio come un blocco contrapposto, nella loro quotidianità, al gioco e al divertimento.
Non fu così per molte generazioni di italiani, fino a non molti decenni fa: per loro il tempo del lavoro interferiva con il tempo libero, sottraendone cospicue frazioni e assottigliandone la durata, non solo durante le vacanze scolastiche e stive. Tempo della ricreazione e tempo extra-scolastico non coincidevano, essendo quest’ul-timo spesso occupato da attività obbligate. La scuola, in termini assoluti, aveva minore cen-tralità nella formazione individuale e collettiva e rivestiva una funzione più strumentale rispet-to all’epoca contemporanea: era soprattutto un luogo dove si imparava a leggere, scrivere e fare di conto, una parentesi minima in senso tem-
porale nel corso dell’esistenza, la cui incidenza sul percorso di formazione e di educazione era molto meno rilevante di oggi.
La ricostruzione dei passaggi legislativi sul tema dell’obbligo ha mirato alla rappresenta-zione di un’evoluzione storica molto graduale, sulla cui efficacia reale nelle varie stagioni della storia italiana c’è molto da discutere, alla luce delle statistiche sull’alfabetizzazione del nostro Paese: il valore didattico fondamentale della ri-costruzione di questi passaggi consiste nel ren-dere consapevoli i ragazzi che il presente da loro vissuto è frutto di processi lunghi e complessi, non necessariamente lineari né in continuo e inesorabile progresso.
Questa azione del progetto si è data l’obietti-vo di aprire prospettive sul passato, di incurio-sire e generare interrogativi sul vissuto di altre generazioni, con la finalità di trasmettere a stu-denti che tra non molto dovranno assumersi re-sponsabilità come cittadini la convinzione che il futuro non si può costruire su basi solide senza conoscere la storia.
Per ancorare la lezione a un momento sto-rico di partenza ho scelto di partire dalla lette-ratura, il racconto del primo giorno di scuola di Enrico Bottini, il protagonista del libro “Cuore” di Edmondo De Amicis, una lettura che oggi è giudicata dai più come improponibile in ambito scolastico, ma che, utilizzata almeno come fon-te storica, ho giudicato funzionale agli obiettivi che ci siamo prefissi.
Da “Cuore” a “Carosello”
Note per un percorso su tempo della scuola e tempo libero nella storia degli italiani
di Enrico Pagano
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Il primo giorno di scuola17, lunedìOggi primo giorno di scuola. Passarono
come un sogno quei tre mesi di vacanza in cam-pagna! Mia madre mi condusse questa matti-na alla Sezione Baretti a farmi inscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna e andavo di mala voglia. Tutte le strade bru-licavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compra-vano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s’accalcava tanta gente che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tenere sgom-bra la porta. Vicino alla porta, mi sentii tocca-re una spalla: era il mio maestro della seconda, sempre allegro, coi suoi capelli rossi arruffati, che mi disse: - Dunque, Enrico, siamo separa-ti per sempre? - Io lo sapevo bene; eppure mi fecero pena quelle parole. Entrammo a stento. Signore, signori, donne del popolo, operai, uf-ficiali, nonne, serve, tutti coi ragazzi per una mano e i libretti di promozione nell’altra, em-pivan la stanza d’entrata e le scale, facendo un ronzio che pareva d’entrare in un teatro. Lo rividi con pia cere quel grande camerone a ter-reno, con le porte delle sette classi, dove passai per tre anni quasi tutti i giorni. C’era folla, le maestre andava no e venivano. La mia maestra della prima superiore mi salutò di sulla porta della classe e mi disse: - Enrico, tu vai al piano di sopra, quest’anno; non ti vedrò nemmen più passare! - e mi guardò con tristezza. Il Diret-tore aveva intorno delle donne tutte affannate perché non c’era più posto per i loro figliuoli, e mi parve ch’egli avesse la barba un poco più bianca che l’anno passato. Trovai dei ragazzi cresciuti, ingrassati. Al pian terreno, dove s’e-ran già fatte le ripartizioni, c’erano dei bambini delle prime inferiori che non volevano entrare nella classe e s’impuntavano come somarel-li, bisognava che li tirassero dentro a forza; e alcuni scappavano dai banchi; altri, al veder andar via i parenti, si mettevano a piangere, e questi dovevan tornare indietro a consolarli
o a ripigliarseli, e le maestre si disperavano. Il mio piccolo fratello fu messo nella classe della maestra Delcati; io dal maestro Perboni, su al primo piano. Alle dieci eravamo tutti in classe: cinquantaquattro: appena quindici o sedici dei miei compagni della seconda, fra i quali De-rossi, quello che ha sempre il primo premio. Mi parve così piccola e triste la scuola pensando ai boschi, alle montagne dove passai l’estate! An-che ripensavo al mio maestro di seconda, così buono, che rideva sempre con noi, e piccolo, che pareva un nostro compagno, e mi rincresceva di non vederlo più là, coi suoi capelli rossi ar-ruffati. Il nostro maestro è alto, senza barba coi capelli grigi e lunghi, e ha una ruga diritta sulla fronte; ha la voce grossa, e ci guarda tutti fisso, l’un dopo l’altro, come per leggerci den-tro; e non ride mai. Io dicevo tra me: - Ecco il primo giorno. Ancora nove mesi. Quanti lavori, quanti esami mensili, quante fatiche! - Avevo proprio bisogno di trovar mia madre all’uscita e corsi a baciarle la mano. Essa mi disse: - Co-raggio Enrico! Studieremo insieme. - E tornai a casa contento. Ma non ho più il mio maestro, con quel sorriso buono e allegro, e non mi par più bella come prima la scuola.
La pagina iniziale di “Cuore”, dedicata al primo giorno dell’anno scolastico 18811882 in una scuola torinese, è una fonte interessante per indagare differenze e continuità nell’organizza-zione educativa e nella psicologia studentesca di fronte all’esperienza del ritorno in classe.
La psicologia del protagonista è evidente sin dalle prime righe, nel contrasto fra la parola “sogno”, che racchiude l’idea dell’esperienza po-sitiva e nello stesso tempo fuggevole, e l’espres-sione “di mala voglia”, che sottolinea con forza espressiva indiscutibile l’assenza di entusiasmi di fronte alla riapertura dell’anno scolastico. As-senza di entusiasmi che deriva dal contrasto tra l’esperienza libera della vacanza in campagna, che allarga gli orizzonti, e lo scenario cittadino fatto di confusione, ressa, affollamento, calca
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interclassista, visto che signori e popolo condi-vidono gli stessi spazi e sono protagonisti dello stesso disordine che a fatica il bidello (oggi di-remmo il collaboratore scolastico, nel linguag-gio ipocrita che abbiamo adottato, trascurando che l’origine etimologica della parola risale ad-dirittura al francone e significa “messo di giu-stizia”) e la guardia civica, cioè il vigile urbano del tempo, tentano di contenere; a questo si ag-giunge il peso degli addii agli antichi maestri, quello della seconda e la maestra della prima. Il tema della continuità didattica non era al centro dell’organizzazione scolastica, evidentemente, dal momento che imperava una sorta di specia-lizzazione degli insegnanti sul singolo anno. C’è anche l’idea del tempo che passa, segnato dal colore più bianco della barba del direttore, ol-tre che dalla crescita e irrobustimento di molti ragazzi.
Le iscrizioni, anziché correre su vie virtuali come oggi, si facevano al momento, a dimostra-zione di un’approssimazione organizzativa che, soprattutto in città, poteva precludere la fre-quenza delle scuole più vicine logisticamente se si fosse arrivati tardi: si poteva correre il rischio di non essere accettati per mancanza di posti. Tra gli studentelli regolarmente iscritti alle pri-me classi sembrava sussistere un elevato grado di recalcitranza e par di vederli nella loro osti-nata determinazione a non cedere ai disperati tentativi di trascinarli in classe messi in atto da-gli accompagnatori. Oggi gli studenti arrivano in prima elementare, pardon, volevo dire nella prima classe della scuola primaria, da veterani, avendo in genere alle spalle alcuni anni di scuo-la dell’infanzia e di scene simili a quella descrit-ta in “Cuore” non se ne recitano più.
L’ala più docile della scolaresca deamicisiana invece si era già accomodata al proprio po-sto, ma al pensiero di essere abbandonata in am biente così ostile scoppiava a piangere, ob-bligando i genitori dal cuore tenero a tornare sui propri passi per consolare i figli, quando non per riportarseli a casa, per la disperazione delle
mae stre. Quanto tempo servì per portare tutto a regime e avviare il regolare corso delle lezioni non ci è dato sapere con precisione, ma ricavia-mo dal testo che, almeno per gli studenti delle terze, la fase che oggi definiremmo dell’accoglienza si completò alle dieci e le porte della clas se si richiusero dietro i cinquantaquattro cinquantaquattro! alunni affidati al maestro Perboni. Oggi, considerando che fra i compagni di classe di Enrico Bottini alcuni necessitereb-bero dell’assistenza di un docente di sostegno, come Crossi che aveva un braccio paralizzato, che i limiti di alunni per classe sono molto più ridotti e che puntuali misurazioni degli spa-zi dimostrerebbero l’impossibilità di ospitare una folla simile di studenti in un unico spazio, con quei numeri probabilmente di classi se ne farebbero tre e, a scanso di equivoci, aggiungo “per fortuna” dal punto di vista didattico. Ma siccome sono sempre in agguato i nostalgici del tempo che fu, convinti a prescindere che in pas-sato le cose andavano meglio, non mi stupirei di sentire ragionamenti che, partendo dalla tesi del nu mero eccessivo di docenti e dalla necessi-tà di risparmiare sulla spesa pubblica, finissero per proporre maxiclassi come la terza del mae-stro Perboni. È bene che costoro non sappiano che la legge di fine Ottocento prevedeva per gli anni della scuola dell’obbligo (prima e secon-da elementare) un numero di allievi per classe oscillante fra i settanta e i cento!
Un’altra differenza rispetto alle abitudini degli studenti contemporanei: le lezioni nella scuola di Enrico Bottini cominciavano il 17 ot-tobre, un mese più tardi rispetto alla consuetu-dine odierna. I regolamenti scolastici del 1888 e del 1895 prevedevano che la durata dell’anno scolastico decorresse dal 15 ottobre al 15 agosto dell’anno successivo; soltanto con il regolamen-to in vigore dal 1908 la data di inizio fu anticipa-ta al 1 ottobre, giorno in cui si ricorda San Remi-gio, per cui gli studenti che iniziavano la prima elementare furono definiti “remigini”. La data di rientro a scuola cambiò con la legge n. 517 del
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4 agosto 1977; con il decreto legislativo n. 112 del 31 marzo 1998 fu poi demandata alle singole regioni la determinazione del calendario scola-stico e quindi di inizio delle lezioni, con un mar-gine di autonomia decisionale lasciato ai singoli istituti che possono all’occorrenza anticipare il rientro. Anche sulla settimana scolastica si sono prodotte modificazioni: al tempo delle vicende narrate nel libro “Cuore” essa aveva due gior-ni di vacanza, la domenica e il giovedì, e que-sto perdurò per tutta la scuola dell’obbligo fino alla seconda metà degli anni sessanta. Dopo un periodo caratterizzato dalla distribuzione del-le lezioni su sei giorni settimanali, negli ultimi anni siamo passati generalmente alla chiusura nel fine settimana, adeguandoci ai ritmi sociali e alle richieste delle famiglie con qualche riper-cussione sulla qualità della didattica, ma questo è un mio parere che immagino controcorrente.
Tornando al pensiero del narratore di “Cuo-re”, che abbiamo visto trasognato e sospeso nel ricordo delle vacanze, la presa di coscienza di quanto lo aspetta arriva inesorabile: lavo-ri, esami, fatiche per nove mesi. Davvero una prospettiva “tragica”, sia detto con ironia, che tro va consolazione nell’unico rifugio possibi-le di fronte a cotanta sciagura: la mamma. La quale, consapevole della sciagurata prospettiva esistenziale, invita il suo figliolo a essere ardi-mentoso, pronta a condividere il peso di un’im-presa ai limiti dell’impossibile: essere promossi alla successiva classe elementare. Basta questo all’ometto che, detto per inciso, qualche decen-nio dopo si sarebbe trovato di fronte alla guerra mondiale, per generare una felicità relativa, lesa dalla necessità di elaborare il lutto del passaggio a un altro maestro: un evento che og gi potrebbe essere criticato per interruzione della continuità didattica e che si associa a una percezione anche esteticamente riduttiva della scuola, che pare «non più bella come prima». Il senso estetico in realtà c’entra poco: a più riprese il protago-nista ha dialetticamente contrapposto gli spazi bucolici delle vacanze all’angustia del ritorno
in classe, sentimento aggravato dal fatto di tro-varsi a vivere in un ambiente cittadino. Diffi-cilmente uno studente di montagna o di cam-pagna avrebbe condiviso la pena con la stessa intensità, potendo pensare di agire negli spazi in cui gli studenti cittadini erano immersi solo per le vacanze. O forse anche per il piccolo stu-dente montanaro o contadino tornare a scuola era una piccola tragedia... In questo forse c’è meno distanza tra gli studenti di fine Ottocento e gli attuali, ma per onestà occorre aggiungere che fra i miei coetanei non ricordo persone par-ticolarmente felici di riprendere la scuola, me compreso, lo confesso, e neanche quando ho poi incominciato a fare l’insegnante la situazione è cambiata di molto…
La scelta di riesumare “Cuore”, ne sono consapevole, è un po’ demodé: il libro è finito all’indice dopo la distruzione critica che ne fece Umberto Eco. Un suo saggio del 1962 metteva in evidenza i limiti del messaggio deamicisia-no, incompatibile per ragioni patriottiche con i sussulti ideologici universalisti che avrebbero portato al movimento del Sessantotto Non c’e-ra proprio spazio, in quell’ondata culturale così radicale verso la tradizione, per il bonario so-cialismo deamicisiano, per il patriottismo post risorgimentale che si calava in un Paese anco-ra ben lontano dall’aver consolidato la propria unità, realizzata vent’anni prima ma ancora fra-gile. “Cuore” uscì di scena, nessuno ebbe più il coraggio di confessare pubblicamente di averlo letto, la sua lettura fu interrotta anche nelle fa-miglie più tradizionaliste, nella convinzione che il messaggio veicolato avrebbe potuto rovinare l’educazione di futuri “squali”, da preservare rispetto ai danni che potevano essere provocati dalla commozione per la storia del piccolo scri-vano fiorentino che lavorava di notte per aiutare il suo babbo e la famiglia, facendo precipitare il proprio rendimento scolastico a causa delle inevitabili dormite in classe, o del figliolo che raggiungeva la madre, emigrata in Argentina e malata, convincendola a farsi operare e guarire
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in “Dagli Appennini alle Ande”, per non parla-re dei bambini morti o amputati per la patria, come la piccola vedetta lombarda o il tamburino sardo.
Alla mia generazione di quasi sessantenni è stata riservata una delle ultime somministra zioni di abbondanti letture deamicisiane, in fa miglia ma soprattutto a scuola. Ricordo in par ticolare, alle elementari, le ultime ore del sa bato, dedicate alla lettura dei classici per ragazzi e l’imbarazzo che provavo quando, leggendo “Cuore”, si citava il nome del protagonista, coincidente con il mio: ogni volta il resto della classe si girava verso di me, che in quel momento avrei preferito subire una metamorfosi o semplicemente chiamarmi, che so, Edmondo... Con il tempo ho dimenticato “Cuore”, almeno fino al momento in cui Miche-le Serra si inventò l’omonimo giornale satirico. Invecchiando e provando una nuova tenerezza verso il bambino che sono stato, ho ripreso un po’ di interesse per il libro, soprattutto dopo aver letto il riconoscimento attribuitogli, al pari di Pinocchio, fra “i luoghi della memoria” del-la storia italiana, grazie alla lettura che ne dà Antonio Faeti, che ha il merito di evidenziare la necessità di interpretare il libro riportandolo al contesto in cui fu prodotto, di sottolineare i valori risorgimentali in cui credeva l’autore e il ruolo che egli attribuiva alla scuola per radicarli fra i giovani studenti di allora, destinati a esse-re i futuri cittadini italia ni, di mettere in rilievo il socialismo ingenuo di Deamicis, «un sociali-sta testimone, osserva to re, narratore» che «fu amato dai lettori che a lui sapevano di non pote-re e dovere chiedere di più». Chiedo scusa per la divagazione, ma in un progetto che ha messo al centro la scrittura autobiografica non ho potuto resistere alla ten ta zione di raccontare la soffe-renza patita per es sermi trovato, immeritata-mente e ripetutamen te, al centro dell’attenzione della mia classe del le scuole elementari a ogni pagina del libro “Cuore”.
Come ho precedentemente scritto, andando alla ricerca di un ancoraggio da cui far partire
una lezione su tempo della scuola, tempo del lavoro e tempo del gioco, la pagina iniziale del diario dell’anno scolastico 18811882 mi è sem-brata utile per innescare curiosità sul passato e profondità attraverso le epoche. “Cuore” può essere utilizzato come una testimonianza, con la consapevolezza che è necessario applicare filtri molto selettivi nell’uso di fonti soggettive e per di più letterarie, utili ad approfondire le cono-scenze su un periodo storico di cui non si posso-no rintracciare facilmente memorie di persone banalmente normali, come Enrico Bottini. La scelta progettuale si proponeva di indagare il te sto, proporsi interrogativi, cercare risposte, ma anche stabilire paralleli, aldilà dell’immen-sa, siderale, distanza culturale, ancor prima che temporale, che separa gli studenti della scuola dell’obbligo del XXI secolo dalle prime genera-zione di “italiani”, nati pochi lustri dopo l’unifi-cazione del Paese, e, nonostante questo, far ri-conoscere fili di continuità e non solo differenze fra studenti che non si sono generazionalmente sfiorati, nemmeno indirettamente. Questi gli obiettivi della prima tappa del percorso, seguita da una breve (per gli studenti) sintesi della sto-ria dell’obbligo scolastico e delle disposizioni di legge che lo hanno determinato, su cui vale la pena di soffermarsi un po’ più a lungo in questo scritto.
Breve storia dell’obbligo scolastico
La scuola frequentata da Enrico Bottini è quella disegnata dal conte Gabrio Casati, mi-nistro per la Pubblica Istruzione del Regno di Sardegna durante il governo presieduto da Al-fonso Ferrero Lamarmora, dal 19 luglio 1859 al 21 gennaio 1860, breve parentesi seguita alle dimissioni di Cavour in seguito all’armistizio di Villafranca. Fu emanata il 13 novembre 1859 da Vittorio Emanuele II nel pieno della seconda guerra di indipendenza e, dopo la proclamazio-ne del Regno d’Italia nel 1861, estesa gradual-mente all’intero Paese. Prevedeva la frequenta-
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zione di due cicli di scuola elementare, entrambi biennali: il grado inferiore, obbligatorio, che comprendeva le classi prima, cui ci si iscriveva a sei anni compiuti, e seconda; il grado superiore, facoltativo, con le classi terza e quarta. Il motivo per cui Enrico Bottini incontra pochi compagni provenienti dalla classe seconda nel nuovo anno scolastico sta proprio nel fatto che al termine del primo grado di istruzione la legge considerava assolto l’obbligo. Acquisita la licenza elementa-re al termine del quarto anno, il percorso poteva proseguire con la scelta fra istruzione tecnica e istruzione secondaria classica. La prima era fi-nalizzata a formare studenti per sbocchi lavo-rativi nel “pubblico servizio”, nelle industrie, nel commercio e nell’agricoltura e prevedeva un ciclo triennale, al termine del quale si pote-va accedere al mondo del lavoro o frequentare un nuovo ciclo triennale negli istituti tecnici. La seconda, finalizzata all’accesso all’università, prevedeva cinque anni di ginnasio e tre di liceo. Chi otteneva il diploma liceale poteva accedere all’istruzione superiore, cioè all’università, i cui studi all’epoca erano articolati in cinque facoltà: teologia, legge, medicina, scienze fisichemate-matichenaturali, lettere e filosofia. Il sistema prevedeva, inoltre, la possibilità di frequentare la scuola normale per la formazione dei maestri, cui ci si poteva iscrivere a 15 anni per le ragazze, a 16 anni per i ragazzi, la cui durata era stabilita in tre anni, con la possibilità, dopo due anni di corso, di abilitarsi per la patente del corso ele-mentare inferiore. L’obbligo scolastico poteva comunque essere assolto anche in ambito fami-liare, attraverso la “scuola paterna”, delegando cioè le famiglie a provvedere in autonomia, scel-ta che naturalmente tendeva a preservare i ram-polli delle famiglie nobili o facoltose dalla com-mistione sociale di cui dà un esempio virtuoso la classe di Enrico Bottini, dove convivono tra gli altri i figli di borghesi accanto a quelli di fer-rovieri, fabbri alcolizzati, ricchi commercianti, immigrati calabresi, lavandaie.
La svolta politica del 1876 con la Sinistra
storica al governo, Agostino Depretis a capo del governo e Michele Coppino ministro della Pubblica Istruzione si caratterizzò, in ambito scolastico, con l’estensione dell’obbligo a nove anni, pur rimanendo formalmente obbligatoria la frequenza del solo corso elementare inferiore. Di fatto il percorso scolastico diventava trienna-le, anche se non era esplicitamente diversificata l’articolazione dell’istruzione elementare pre-vista dalla legge Casati. L’attenzione dei nuovi governi non era concentrata sulla riforma del sistema scolastico, quanto sull’esigenza di ren-dere effettivo l’assolvimento dell’obbligo scola-stico e di intraprendere più seriamente la lotta contro l’analfabetismo, obbligando le famiglie a dichiarare alle autorità comunali le modali-tà dell’assolvimento, sempre possibile presso scuole pubbliche, private o in famiglia, pena l’ammenda. Lodevole nelle intenzioni e nelle affermazioni di principio, la legge Coppino non incise granché sull’alfabetizzazione degli italia-ni, non avendo né lo Stato né i comuni i mezzi adeguati per far rispettare i provvedimenti san-zionatori.
La scuola del primo Novecento e del fascismo
«Fatta l’Italia, dobbiamo fare gli italiani» è uno degli slogan più rappresentativi del com-plesso percorso storico del nostro paese dall’U-nità in poi. Non essendo ancora nata la Naziona-le di calcio, le cui vittorie ai campionati mondiali hanno consentito di vivere alcuni brevi momen-ti di assoluta concordia e orgoglio patriottico collettivo, l’impresa poteva essere demandata solo a due possibili esperienze: il servizio mi-litare, limitatamente alla parte maschile, di cui ci occuperemo in un’altra occasione, e la scuo-la. Nello scorcio finale del XIX e nei primi anni del XX secolo la domanda di alfabetizzazione e scolarità crebbe in misura esponenziale, con il passaggio da due milioni e mezzo di studenti elementari nel primo anno del XX secolo a tre
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milioni e settecentomila nel primo anno della guerra mondiale, anche per effetto dei provve-dimenti adottati con la legge Orlando nel 1904, che estendeva l’obbligo a 12 anni, prevedendo, in aggiunta ai quattro anni di scuola elemen-tare, altri due anni, la V e la VI elementare, la cosiddetta “scuola popolare” o in alternativa la prosecuzione degli studi previo esame detto “di maturità” sostenuto in quarta. L’espansione del sistema scolastico generò anche la necessità di una regia centralizzata: fino all’approvazione della legge DaneoCredaro nel 1911 si può dire che la scuola fu posta quasi esclusivamente nella competenza dei comuni; per effetto delle nuove misure le scuole comunali dei centri che non erano capoluogo diventarono statali.
Intanto era partita la riflessione sulla possibilità di unificare il triennio delle scuole tecniche e del ginnasio, stimolata dalla proposta del mi-nistro dell’Istruzione Bianchi e discussa nella commissione Reale (19051908), che aveva susci tato forti opposizioni in nome del rischio di de qualificazione dell’istruzione liceale. Sembrava sempre più impellente la necessità di una rior ganizzazione complessiva del sistema dell’i-struzione, di fronte all’incremento del numero degli studenti, che rivelava un bisogno culturale sempre più ampio e l’incapacità della struttu-ra scolastica pensata con criteri ottocenteschi di governare efficacemente il nuovo stato delle cose.
A reggere il Ministero dell’Istruzione furono chiamati Benedetto Croce, nell’ultimo governo Giolitti, e Giovanni Gentile, nel primo governo Mussolini. La riforma elaborata dal primo fu modificata e integrata dal filosofo siciliano se-condo una logica neoidealista; sarebbe sbaglia-to considerarla tout court una riforma fascista, anche se gli strumenti per la sua approvazione e applicazione erano riconducibili all’esigen-za di velocizzare e semplificare il percorso (ci sono esigenze e prassi politiche intramontabi-li...). Così, in seguito alla legge del 3 dicembre 1922, il governo ottenne una delega legislativa
a emanare decreti sulla riforma della pubblica amministrazione, scuola compresa, evitando il confronto parlamentare. Gentile, che fu mini-stro dal 31 ottobre 1922 al 1 luglio 1924, poté così agire senza contraddittorio e organizzare il sistema scolastico secondo nuovi criteri. L’i-struzione elementare veniva distinta in tre gra-di: preparatorio (tre anni), inferiore (tre anni), superiore (due anni); le classi oltre la V prende-vano il nome di “classi integrative di avviamento professionale”; si prevedevano istituti medi di 1° grado, cioè scuola complementare, ginnasio, corso inferiore dell’istituto tecnico e dell’istitu-to magistrale, e istituti medi di 2° grado, vale a dire liceo, corso superiore dell’istituto tecnico e dell’istituto magistrale, liceo scientifico e liceo femminile.
L’istruzione complementare prevedeva tre anni di corso dopo la V elementare senza ul-teriori sbocchi scolastici. L’istruzione classica prevedeva cinque anni di ginnasio (tre di cor-so in feriore, con materie italiano, latino, storia e geo grafia, matematica, una lingua straniera dal secondo anno e due di corso superiore con mate rie italiano, latino, greco, storia e geo grafia, matematica, lingua straniera). Dopo la V ginnasio si accedeva al liceo, dove era previsto l’in segnamento di lettere italiane, latine e gre-che, filosofia, storia ed economia politica, mate-matica e fisica, scienze naturali, chimica e geo-grafia, storia dell’arte.
L’istruzione tecnica, finalizzata alla prepara-zione ad alcune professioni, durava otto anni, articolata in quattro anni di corso inferiore e a quattro anni di corso superiore, con due indiriz-zi: commercio e ragioneria, preparatorio «all’e-sercizio di uffici amministrativi e commerciali», agrimensura, preparatorio alla professione di geometra.
L’istruzione magistrale, finalizzata alla pro-fessione di maestro, durava sette anni, di cui quattro costituivano il corso inferiore, in cui si insegnava italiano, latino (dal 2° anno), storia e geografia, matematica, lingua straniera, dise-
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gno, musica e canto corale, strumento musicale, e tre il corso superiore, che prevedeva l’insegna-mento di lettere italiane, lettere latine e storia, filosofia e pedagogia, matematica e fisica, scien-ze naturali, geografia e igiene, disegno, musica e canto corale, strumento musicale.
La riforma Gentile istituiva i licei scienti-fici, per «l’istruzione dei giovani che aspirino agli studi universitari nelle Facoltà di scienze e di medicina e chirurgia», la cui durata, dopo il ginnasio, era di quattro anni e le cui materie d’insegnamento erano lettere italiane e latine, storia, filosofia ed economia politica, matemati-ca e fisica, scienze naturali, chimica e geografia, lingua e letteratura straniera, disegno.
Infine, si prevedeva l’istituzione dei licei femminili, della durata di tre anni, destinati «alle giovanette che non aspirino agli studi su-periori» tuttavia desiderose di ricevere una più approfondita formazione di cultura generale. In questi licei si prevedeva l’insegnamento di lette-re italiane e latine, storia e geografia, filosofia, diritto ed economia, due lingue straniere (di cui una facoltativa), storia dell’arte, disegno, eco-nomia domestica, musica e canto, strumento musicale, danza.
La riforma gentiliana, come detto, non pre sentava caratteristiche riconducibili immediatamente all’ideologia fascista: mirava a con servare l’assetto sociale esistente stabilen-do percorsi scolastici molto differenziati e ob-bligando gli studenti a scelte molto precoci, ostacolando di fatto la mobilità sociale su base culturale. Unico ravvedimento, messo in opera dallo stesso Gentile, riguardò la possibilità di proseguire gli studi dopo la scuola complemen-tare con un biennio preparatorio all’iscrizione al liceo scientifico.
Il fascismo, assurto a regime dittatoriale, av viò una politica di ritocchi della scuola gentiliana, introducendo nel 1929 la trasformazione della scuola complementare in scuola di avvia-mento professionale, che prevedeva tre anni più due, con indirizzi agrario, commerciale, in
dustriale, artigiano, femminile e marinaro. L’azione più visibile e incisiva operata dal regime mussoliniano riguardò la fascistizzazione della scuola, con la chiusura di qualsiasi forma as so ciazionistica non conforme al regime e l’organizzazione della gioventù secondo i dettami del l’Opera nazionale Balilla. Dopo le leggi razzia li del 1938, che ebbero pesanti ripercussioni sulla vita scolastica di studenti e docenti ebrei, il fa-scismo, attraverso il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, approvò la “Carta della scuola”, che si proponeva di riformare profondamente la scuola gentiliana. L’ingresso del Pae se nella seconda guerra mondiale impedì l’attuazione di quanto previsto, che a grandi li-nee modificava l’assetto scolastico introducendo, dopo l’obbligo elementare, una scuola artigiana triennale priva di sbocchi per le realtà pe riferiche e rurali, una scuola professionale triennale con possibile accesso a una scuola tec nica biennale priva di ulteriori sbocchi, una scuola media di durata triennale con lo studio del latino per l’accesso ai licei classico, scientifi-co e artistico, nonché all’istituto magistrale e tec-nicocommerciale, indirizzi tutti quinquennali e tutti variamente aperti all’università, men tre restavano quadriennali altri istituti tecnici quali l’agrario, l’industriale, per geometri e il nautico. L’unica eredità lasciata dalla riforma di Bottai fu la scuola media definita “unica”, benché in realtà non assorbisse tutte le possibilità di prosecuzio-ne degli studi, che iniziò la sua storia nel 1940.
Il progetto pedagogico del fascismo: formare soldati obbedienti
Il fascismo attuò il progetto pedagogico di trasformare i cittadini in soldati, introducendo l’obbligo della formazione politica e militare sin dalla più giovane età, secondo una prassi comu-ne a molti regimi dittatoriali.
Parallelamente all’introduzione delle leggi “fascistissime”, con cui erano state eliminate tutte le libertà e instaurata definitivamente la
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dittatura, il regime organizzò l’Opera nazio-nale Balilla (Onb), rifondata e rilanciata nel 1926, a cui fu affidata l’educazione fisica nelle scuole e l’or ganizzazione dell’educazione poli-tica giovani le. I giovani dagli 8 ai 18 anni era-no suddivisi in “balilla”, “balilla moschettieri”, “avanguardi sti”, “avanguardisti moschettieri”; dal 1929 l’Onb fu messa alle dirette dipendenze del Ministero dell’Educazione nazionale, assu-mendo anche la gestione del patronato scolasti-co, delle scuole rurali e degli asili. Le ragazze a loro volta furono suddivise in “piccole italiane” e “giovani italiane”. Dal 1930 anche i più picco-li entrarono nel sistema, divenendo “figli della lupa” (dai 6 agli 8 anni), mentre i giovani dai 18 ai 21 anni componevano la “gioventù fascista”. Tutte le or ganizzazioni furono unificate nel 1937 nella Gio ventù italiana del Littorio (Gil), sotto la direzione del segretario del Partito fascista.
“Balilla” era il soprannome di Giovan Batti-sta Perasso, un giovane genovese che sollecitò la popolazione della sua città a ribellarsi contro gli austriaci che la occupavano tirando sassi contro i soldati. Il suo esempio fu seguito dalla popolazione e il 10 dicembre 1746, dopo cinque giorni di lotta, Genova fu liberata. Un eroe che ebbe la pro pria epopea risorgimentale e che il fa sci smo ripescò come esempio di intraprendenza giova-nile e attaccamento alla patria, facendolo diven-tare un’icona pervasiva di tutto il tempo, scola-stico ed extrascolastico. A scuola, ad e sem pio, ci si esercitava con l’aritmetica attraverso proble mi così formulati: «Nel cortile della Scuola vi so no adunati 24 Balilla. Il Comandante ordina di met-tersi in riga per tre per marciare. Quante terziglie sono in marcia?». Ma anche gli idoli del calcio venivano ricondotti al mito: Giusep pe Meaz za, il più noto calciatore della Na zionale campio-ne del mondo nei mondiali svol tisi in Italia nel 1934, era soprannomina to “il Balilla del gol” e i ragazzi potevano in qualche mo do riprodurne le gesta giocando al “calcio balilla”, un termine sopravvissuto alle epurazioni anche linguistiche intervenute dopo la caduta del fascismo.
Lo scopo del regime fascista era quello di for-giare l’uomo in tutti i suoi aspetti, conforman-dolo a ideali e modelli precostituiti attraverso un’educazione totalitaria. Il tempo scolastico finiva così per integrarsi nell’ambito delle or-ganizzazioni di regime con il tempo extrascola-stico, che perdeva i connotati di tempo “libero”. Recitava infatti la “Carta della scuola”: «Nell’or-dine fascista età scolastica ed età politica coin-cidono. Scuola, Gil e Guf formano insieme uno strumento unitario di educazione fascista. L’ob-bligo di frequentarle costituisce il servizio sco-lastico, che impegna i cittadini dalla prima età ai 21 anni. Tale servizio consiste nella frequen-za, dal quarto al quattordicesimo anno, della scuola e della Gil e continua in questa fino ai 21 anni, anche per chi non segua gli studi». L’ob-bligo scolastico venne sostituito dall’obbligo di frequenza scolastica e di partecipazione alle or-ganizzazioni giovanili di regime. Fu istituito il libretto personale, atto a comprovare il servizio prestato nella scuola, nella Gil e nella Gioventù universitaria fascista (Guf), collegato al libret-to di lavoro, che costituiva il curriculum civile dell’italiano del tempo del fascismo. L’educa-zione alla guerra intrapresa dal fascismo ebbe la manifestazione più eclatante nell’istituzione del “sabato fascista”, avvenuta con regio decreto emanato il 20 giugno 1935, nel cui testo si di-sponeva la chiusura di ogni attività lavorativa e scolastica entro le ore 13 del sabato per con-sentire la partecipazione obbligata alle attività di carattere addestrativo prevalentemente pre-militare e postmilitare. E così le piazze e i luo-ghi stabiliti si riempivano di italiani e italiane in divisa, armati di moschetto o di cerchi in legno. Le riunioni, inquadrate nelle attività del partito, erano occasione per lezioni di dottrina fascista, per praticare sport e dare sfoggio della propria abilità. I ragazzi facevano volteggi, maneggiava-no il moschetto, si lanciavano attraverso cerchi di fuoco. Le ragazze, in camicetta bianca e gon-na nera, facevano roteare cerchi, clave, bandiere e si esibivano nella corsa e nel salto. Per i ma-
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schi valeva lo slogan «libro e moschetto, fascista perfetto». Il libro, tuttavia, era il testo unico per le scuole elementari, quello su cui si insegnava la grammatica ricorrendo, nel caso delle diffe-renze tra predicato nominale e verbale, a esem-pi come questi:
«il Duce è laboriosissimo il Duce lavorail Duce è un vincitore il Duce ha vintoil Duce è un grande condottiero il Duce gui-
da l’ItaliaIl Duce è il fondatore dell’Impero il Duce ha
fondato l’Impero».Il moschetto, ufficialmente denominato “Mo-
schetto regolamentare Balilla modello 1891 ri-dotto”, era messo tra le mani dei fanciulli già dall’età di 6 anni, affinché imparassero a familiarizzare con le armi, sul modello di quanto ac-cadeva in Germania con la Gioventù hitleriana.
La stagione della Repubblica e l’isti-tuzione della scuola media unica
Dopo la conclusione della guerra, con le elezioni del 2 giugno 1946, in concomitanza con il referendum istituzionale tra repubblica e mo narchia, divenne operativa l’Assemblea costituente, che diede al Paese il testo della Co-stituzione entrata in vigore dal 1948. Il dettato costituzionale, oltre a prevedere libertà di in-segnamento, a riconoscere il diritto di istituire scuole private senza oneri per lo Stato e a stabilire il principio del diritto allo studio per i meritevoli anche se privi di mezzi, fissava in al-meno otto anni la durata dell’obbligo scolastico, portandolo a 14 anni. Ci vollero alcuni an ni però prima che si provvedesse a introdurre nell’ordi-namento scolastico la scuola media uni ficata, articolata in tre anni di studio: nell’a. s. 196061 partì la sperimentazione su 304 classi, con la legge 31 dicembre 1962 n. 1859 si unificarono tutti i corsi medi inferiori in un solo percorso triennale, che apriva l’accesso, previo esame di Stato, a tutti gli indirizzi delle scuole secondarie e portava a 14 anni l’obbligo scolastico. Entrava
così a regime la scuola media, che dall’a. s. 196364 divenne obbligatoria per tutti gli studenti e si conserva, nella sua architettura generale, fino ai giorni nostri, con i ritocchi apportati dalla legge n. 348 del 16 giugno 1977, che aboliva l’insegna-mento del latino, sopprimeva la distinzione per sessi dell’educazione tecnica e rendeva obbliga-toria l’educazione musicale, e dalla legge n. 517 del 4 agosto 1977, che sopprimeva la sessione autunnale di riparazione e stabiliva al 10 set-tembre l’inizio dell’anno scolastico. Nel 1979 fu emanato il decreto ministeriale 9 febbraio 1979 “Programmi, orari di insegnamento e prove di esame per la scuola media statale”, con cui si adeguavano ai tempi e ai cambiamenti sociali i contenuti delle discipline insegnate.
L’inizio dell’anno scolastico 19631964 fu così presentato dal “Corriere Valsesiano”: «Con la Messa celebrata in Collegiata dal can. Don Otti-ni al termine della quale il prevosto can. Don Grassi ha rivolto ai professori e studenti fervide parole di circostanza la mattina di martedì 1 ottobre ha avuto inizio anche nella nostra cit-tà l’anno scolastico 196364. Piazza Gaudenzio Ferrari e via M. T. Rossi hanno rivisto la teoria di giovani fare ressa all’ora delle lezioni, dopo la parentesi estiva. Si tratta ormai di un’autentica folla di studenti, perché non si è lontani dal vero affermando che presso le scuole cittadine la po-polazione studentesca è in aumento e compren-de oltre ai giovani varallesi anche quelli prove-nienti dai vari centri delle vallate.
Per quanto si riferisce alla scuola dell’obbli-go e in particolare alla prima classe della nuova scuola media unificata le iscrizioni sono state piuttosto numerose e sono ben sei le sezioni isti-tuite, parte delle quali hanno trovato sistemazione nel nuovo palazzo delle scuole medie e parte in quello di piazza Ferrari, in sostituzione della prima avviamento, ormai abolita. La Scuo-la di avviamento infatti prosegue solamente per gli allievi che l’hanno iniziata lo scorso anno e sarà limitata alle classi seconde e terze. Preside del la scuola il prof. Graziano Giacobino, preside
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della Scuola media statale. Dati più precisi circa l’assolvimento dell’obbligo da parte degli alunni dei paesi dell’Alta Valsesia si potranno avere tra qualche giorno, quando si avranno anche noti-zie dai posti di ascolto di Alagna, Scopello, Boc-cioleto e Fobello [...] La costante crescita della popolazione studentesca ed ora l’istituzione del-la scuola media obbligatoria pongono pure nella nostra città il problema della maggior disponi-bilità di aule. L’Amministrazione provinciale sembra aver rotto gli indugi e sta ponendo allo studio la realizzazione indispensabile di una nuo va ala per l’istituto tecnico. C’è da sperare che la pratica abbia lo svolgimento più sollecito, in considerazione altresì dei riflessi positivi che tale costruzione avrà per le altre scuole in lotta per lo spazio».
Arriva la televisione
Intanto però nella vita degli italiani, con il boom economico avviatosi negli anni cinquan-ta e giunto al culmine con l’inizio del successivo decennio, la spinta ai consumi aveva introdotto in molte case un nuovo potente soggetto capace di intrattenere il tempo libero dei giovani, e non solo il loro: il televisore.
Le famiglie italiane avevano incominciato a seguire modelli consumistici che ponevano al vertice della lista dei desideri l’automobile e gli elettrodomestici; dal 1954 erano iniziate le tra-smissioni televisive e se nei primi anni si era-no dotati di televisori quasi esclusivamente gli esercizi pubblici, favorendo le visioni collettive, con l’andare del tempo era sempre più frequen-te che i salotti delle famiglie italiane si dotasse-ro dei nuovi apparecchi, sintonizzati sull’unico canale di trasmissione in fasce orarie ridotte e dedicate ai vari tipi di pubblico. Il nuovo mezzo ben si prestava a catturare l’attenzione del pub-blico giovanile, giungendo a intrattenere quanti-tà sempre crescenti di giovani spettatori che po-tevano assistere a trasmissioni collocate in una fascia oraria che andava dalle 16.30 alle 17.30
per i più piccini, dalle 17.30 alle 18.30 per i più grandicelli: rispettivamente, la Tv dei bambini e la Tv dei ragazzi. L’organizzazione del tempo incominciò a strutturarsi intorno al tempo della scuola, in genere dalle 8.30 alle 13.00, sabato compreso, al tempo televisivo, nella fascia tardo pomeridiana, fino al limite estremo della gior-nata, scandito dalla trasmissione pubblicitaria “Carosello”, che andava in onda per una decina di minuti prima dello spettacolo che oggi defi-niremmo di prima serata. Andare a letto dopo “Carosello” fu, per i più giovani, un’abitudine diffusa e condivisa in tutto il Paese.
La Tv dei ragazzi fu un fenomeno straordina-rio, che cambiò completamente l’immaginario generazionale. In un’intervista a un gruppo di ragazzi del Sud tratta dalla trasmissione “Il cer-chio magico”, di Michele Gandin, realizzata nel 1962 e dedicata al rapporto tra gioco e bambino, alla richiesta di esprimere la propria preferenza tra gioco o televisione tutti optano per la secon-da, giustificando la loro scelta con la citazione di eroi della fantasia come Ivanhoe. L’avventu-ra, prima rappresentata attraverso le immagini costruite dalla lettura o attraverso i disegni del fumetto, trovava ora nuovi strumenti espressivi e linguaggi particolarmente accattivanti. I nuovi eroi giovanili che sollecitavano la fantasia erano animali dalle doti straordinarie come il caval-lo Furia, il delfino Flipper, i cani Rin Tin Tin e Lassie; personaggi della letteratura come il già citato Ivanhoe, cavaliere medievale ma di spi-rito romantico adattato dal romanzo di Scott, o il bandito californiano Zorro, dietro cui si cela-va un nobile di animo e di lignaggio, don Diego de la Vega, in lotta con la prepotente autorità spagnola che cercava invano di fermarne l’atti-vità di giustiziere a favore degli oppressi; figu-re dei cartoni animati come gli indimenticabili Tom e Jerry, Braccobaldo, gli Antenati, l’Orso Yoghi, Titti e il gatto Silvestro, Braccio di ferro; sceneggiati tratti da romanzi anglosassoni come “Robinson Crusoe” e “L’isola del tesoro”, ma an-che telefilm di ambientazione oratoriale come “I
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ragazzi di padre Tobia” o tornei a colpi di quiz fra rappresentanze scolastiche arbitrati da Febo Conti, autore della fortunatissima “Chissà chi lo sa”, che andava in onda il sabato pomeriggio; e ancora, per scimmiottare i grandi, una versione baby del festival di Sanremo, “Lo zecchino d’o-ro” condotta da Cino Tortorella, il Mago Zurlì, in compagnia di Topo Gigio, dello scolaro monello “Richetto” e del coro musicale dell’Anto niano di Bologna. E tante altre sarebbero le serie televi-sive per ragazzi da citare, almeno fino all’avven-to negli anni ottanta delle televisioni private. La svolta commerciale subita dalla Tv in quegli anni provocò cambiamenti strutturali del pa-linsesto, modificando le fasce orarie di trasmis-sione, dilatate fino a coprire l’intero corso delle ventiquattro ore. Sparirono la Tv dei bambini e la Tv dei ragazzi, si introdussero canali dedicati ai cartoni animati e nel tempo che una volta era destinato alle trasmissioni per i giovani si cam-biò decisamente registro, mandando in onda roba tipo “La vita in diretta”: con tutto il rispet-to per i professionisti che la realizzano e per gli spettatori che la seguono, un abbassamento di qualità indiscutibile.
Ma anche il modo di fare pubblicità è cam-biato radicalmente. Il modello proposto da una trasmissione come “Carosello”, che fu trasmes-sa dal 3 febbraio 1957 al 1 gennaio 1977, si ca-ratterizzava per l’abbinamento del messaggio promozionale di prodotti commerciali a una forma simile agli sketch del varietà, con il coin-volgimento dei più famosi attori del tempo (tra loro Ernesto Calindri, Nino Castelnuovo, Gino Cervi, Carlo Dapporto, Aldo Fabrizi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Tino Scotti, Ugo To-gnazzi, Totò) e la regia di insospettabili maestri della cinematografia (Pupi Avati, Ugo Grego-retti, Ermanno Olmi, Gillo Pontecorvo, Dino Risi, i fratelli Taviani, Lina Wertmüller), la pro-duzione di cartoni e pupazzi animati specifici (Calimero, Carmencita e Caballero, Jo Condor e il Gigante amico, il Pirata Pacioccone i cui testi erano scritti da Francesco Guccini, niente-
dimeno gli abitanti del pianeta Papalla, l’ippo-potamo Pippo, Topo Gigio, Capitan Trinchetto), personaggi e macchiette rimasti nella memoria anche oltre la trasmissione, come alcuni modi di dire che ripetiamo a volte senza saperne l’o-rigine pubblicitaria («contro il logorio della vita moderna», «basta la parola», «Le stelle sono tante, milioni di milioni...», «Con la ricetta del-la nonnina, zucchero, latte, fior di farina...», «Come mai non siamo in otto? Perché manca Lancillotto», «Carmencita, sei già mia, chiudi il gas e vieni via», «Metti un tigre nel motore!», «Düra minga!»).
Qualche riflessione conclusiva
Siamo naturalmente portati a proiettare sui nostri ricordi luci particolari che creano effet-ti speciali e trasfigurano la realtà. Ricordiamo “Carosello” e ne parliamo, ma non facciamo al-trettanto a proposito delle occasioni in cui ci è stato vietato di assistere alla trasmissione come castigo per avere combinato qualche guaio o avere inanellato l’ennesima inadempienza ri-spetto ai compiti assegnati a scuola o tra le mura domestiche. Quante saranno state le sere in cui siamo finiti mestamente a letto a pensare che l’indomani saremmo stati costretti ad astenerci dai commenti nell’intervallo con i compagni di scuola, inventandoci guasti al televisore, inter-ruzioni dell’erogazione dell’energia, improbabi-li ragioni superiori che ci hanno distolto dalle comuni passioni dei mortali nostri coetanei?
Questo è lo scherzo principale che fa la me-moria, non solo quello di creare zone oscure, ma soprattutto quello di creare zone eccessivamen-te illuminate, in cui la luce è orientata a rendere un’immagine di noi che possa risplendere senza offuscamenti. Capita a tutti gli individui, ma an-che alle società: spesso tendiamo a rimuovere quanto del nostro passato potrebbe disturbare l’immagine che vogliamo far circolare di noi. L’abbiamo fatto come Paese costruendo il mito degli “italiani brava gente” e riducendo il nostro
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colonialismo in Africa, che fu tra i più feroci, a una serie di interventi portatori di civiltà, oppu-re dimenticando che fummo tra i massimi responsabili della seconda guerra mondiale, da cui uscimmo essendo costretti a combattere una guerra nella guerra per evitare di essere distrut-ti definitivamente.
Allenare la memoria non significa soltanto giovarsi di una risorsa che potrà esserci utile in-dividualmente nello studio, nel lavoro, in tutte le occasioni quotidiane in cui ne avremo biso-gno. Significa anche abituarsi a esplorare con onestà dentro la nostra storia, alla ricerca delle lezioni comuni e collettive che serviranno per
non ripetere gli errori del passato, per affronta-re le imprevedibili svolte della storia con il con-forto di saperci radicati in un sistema di valori costruito con l’esperienza.
Non so se gli studenti che hanno partecipato a questo progetto ne hanno ricavato i benefici formativi che abbiamo cercato di infondere; probabilmente ne potremo valutare le ricadute solo a distanza di molto tempo e magari dopo altri interventi simili. Il contadino che getta il seme non sa quante piante germoglieranno dal-la sua azione, ma sa che sicuramente qualcuna ne nascerà...
La mia e la nostra storia
La scuola della memoria
Progetto di scrittura autobiografica e di raccolta di storie di vita
di Barbara Calaba
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Da dove siamo partiti
Il progetto “La mia e la nostra storia” nasce dalla feconda collaborazione tra l’Istituto comprensivo di Varallo e l’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia. Queste due realtà, ac co munate dall’intento educativo volto alla valo rizzazione della memoria attraverso la scrittura autobiografica e la raccolta biografica, hanno individuato alcuni elementi su cui si è poi innestato il lavoro all’interno delle classi coinvolte dal percorso formativo.
La centralità della memoriaÈ situazione comune il fatto di dare per scon
tata la nostra capacità di conservare, dentro di noi, le tracce della nostra esperienza, potendole recuperare ogni volta che lo desideriamo o che ne abbiamo bisogno: sembra quasi che non ci si ac corga di riuscire a ricordare una quantità incredibile di informazioni e di eventi. Solo quando tale facoltà inizia a indebolirsi, ci si rende conto del suo ruolo nella nostra vita. Si provi a immaginare se, all’improvviso, la nostra mente si facesse vuota e non ricordassimo proprio più nulla: ogni
persona, ogni oggetto, anche il più pic colo dettaglio, perderebbe senso. Ci ritroveremmo senza agganci, persi in un mondo che ci risulterebbe estraneo, totalmente avulsi dalla realtà esterna: una sorta di volo nell’aria senza paracadute. È esattamente quanto ci suggerì lo psicologo statunitense Oliver Sacks: «Si deve cominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli dei ricordi, per capire che in essa consiste la nostra vita. Senza memoria la vita non è vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire»1.
Ecco allora emergere la necessità di valorizzare questa facoltà tipicamente umana, ma anche fragile, esposta al logorio del tempo e delle malattie: riconoscere la sua centralità nella nostra vita significa accrescere la consapevolezza del la sua rilevanza in ogni momento dell’esistenza.
Scrittura autobiograficaSi tratta di uno strumento privilegiato2 che ci
consente di valorizzare la memoria, e con essa an che noi stessi, la storia di cui siamo portatori e le tante storie che si intrecciano alla nostra. La scrittura di sé rappresenta un mezzo e un metodo che facilita lo sviluppo delle capacità cogniti
Il progetto
1 Oliver Sacks, neurologo, scrittore e accademico britannico, fu autore di numerosi bestsellers, molti dei quali hanno per oggetto persone con disturbi neurologici. Nel 1973 pubblicò Risvegli, che fu adattato in un film omonimo nel 1990.
2 Per approfondire queste riflessioni riguardanti il generativo intreccio di incontro, memoria e narrazione, si consiglia di consultare il sito della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (www.lua.it).
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ve e delle diverse forme di pensiero, oltre che di una sensibilità rivolta all’ascolto e alla raccolta delle te stimonianze di vita degli altri. Scrivere in maniera autobiografica consente di deporre sulla pagina quello che siamo, quello che abbiamo vissuto, offrendo visibilità e concretezza anche al nostro mon do invisibile, ovvero alle emozioni, ai ricordi, alla nostra interiorità. Del resto, è quanto sostiene anche la scrittrice francese Marie Cardinal, «le parole sono come astucci e tutte contengono materia vitale»3. Le parole, dunque, soprattutto quelle scritte, raccon tano di noi, di ciò che siamo stati e che andiamo divenendo; esprimono, se autentiche, la nostra essenza e la parte più vera di noi.
Scrivere è un gesto che richiede un tempo maggiore rispetto alla narrazione orale e questo facilita la riflessività, il pensiero, la consapevolezza. Offrire ai ragazzi la possibilità di raccontarsi attraverso le parole scritte significa dar loro modo di costruirsi degli strumenti volti al riconoscimento e alla valorizzazione di sé attraverso un incremento di autoconoscenza, di autostima e di consapevolezza.
Ascolto delle storie altrui nell’incontro per so nale
Se la scrittura autobiografica consente di valorizzare la propria storia di vita, al contempo essa incentiva la sensibilità e l’attenzione nei confronti delle testimonianze di altre persone. Si tratta di spostare lo sguardo da se stessi per volgerlo all’altro, nella consapevolezza dell’assoluta unicità e singolarità di cui egli è portatore,
ovvero, la propria esistenza. Ed è esattamente quanto ci suggerisce la filosofa Adriana Cavarero: «Ognuno di noi sa che chi incontriamo ha sempre una storia unica. E ciò è vero anche se lo incontriamo per la prima volta senza conoscere affatto la sua storia»4.
Mettersi in ascolto dell’altro significa fare e -spe rienza di empatia, di rispetto incondiziona to, di ac cettazione di una narrazione che può anche assumere connotati assai differenti rispetto alle pro prie aspettative. Del resto, l’incon trare l’altro equivale sempre ad avventurarsi su un terreno sel vaggio, che non conosciamo e su cui possono accadere eventi imprevisti e destabilizzanti. Ci si incontra con il diverso da sé, in un percorso di riconoscimento reciproco della propria umanità, ma anche della propria soggettività.
Ascoltare il racconto di vita di una persona diventa anche occasione per riflettere sulla propria esistenza, in un gioco di risonanze e di specchi: le parole narrate diventano per l’ascoltatore occasione di riflessione, possibili piste da percorrere per meglio conoscersi. Scoprendo in tal modo che l’altro, pur nella sua diversità, non ci può essere mai completamente estraneo: egli parla anche un po’ di noi, del nostro sentire, delle nostre esperienze5.
Cosa abbiamo fatto
Il progetto ha coinvolto tre classi seconde del l’Istituto comprensivo di Varallo. In ciascuna classe è stato proposto, in orario scolastico, un percorso formativo6 volto alla sperimentazione
3 Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Milano, Bompiani, 1995.4 adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997,
p. 48.5 Questo pensiero si ispira alla filosofia del teologo, filosofo e scrittore spagnolo Raimon Pannikar. Egli, di
cultura indiana e catalana, fu autore di centinaia di articoli sul dialogo interreligioso.6 Il progetto si ispira ai principi indicati dalla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Si tratta di
un’associazione senza fini di lucro, fondata nel 1998 grazie all’iniziativa di Duccio Demetrio (già professore di Filosofia dell’Educazione e di Teorie e Pratiche della Narrazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, già preside della Facoltà di Scienze dell’Educazione) e di Saverio Tutino (inventore dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano). Essa si configura come una comunità di ricerca, di formazione e di diffusione della cultura della memoria, attraverso le tante declinazioni che essa può assumere.
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della narrazione di sé e alla raccolta di testimonianze altrui sulla tematica individuata, ovvero, il gioco. I passaggi su cui si è articolata tutta l’attività educativa sono stati i seguenti.
Incontri di scrittura autobiograficaAgli alunni sono state proposte delle solle
citazioni di scrittura con le quali sono stati chiama ti a riflettere e a raccontare i propri vissuti rispetto a un tema fondante dell’esistenza, vale a dire l’esperienza ludica, i momenti di svago e di gioco.
In questa attività di scrittura di sé si è voluto fa vorire la libera espressione del proprio mondo interiore. Ogni momento di scrittura è stato ac compagnato dalla successiva condivisione in grup po: ogni alunno, in piena libertà, ha avuto la possibilità di leggere a voce alta, ai propri compagni, quanto scritto. Quello della condivisione è sta to un momento importante, denso di emo zioni, in cui è avvenuto un reale scambio di esperienze e di vissuti. Ovviamente ogni gruppo classe è stato preparato ad affrontare la lettura/a scolto delle scritture prodotte con un corretto atteggiamento, ovvero, una postura di accettazione incondizionata, di astensione dal giudizio e dalla valutazione. Per coloro che hanno letto gli scritti, si è trattato di sperimentare uno spazio di espressione di sé e di superamento del ti more del giudizio altrui; per coloro che sono stati ascoltatori di queste letture è stato interessante scoprire quanto certi temi esistenziali siano comuni a tutti, seppur poi vissuti at traverso modalità individuali. L’esperienza raccontata arriva ad avere una forte risonanza in chi ascolta, suscitando emozioni, ricordi, vissuti personali.
Preparazione dell’incontro con i testi-moni individuati
Dopo aver scritto di se stessi, gli alunni sono stati chiamati a vivere l’incontro con una persona adulta alla quale domandare il racconto della propria esperienza di gioco in età bambina.
Per questo motivo, si è cercato di preparare una sorta di griglia di possibili tracce d’intervista, una scaletta sicuramente flessibile e duttile, in grado di dare sicurezza ai giovani intervistatori che, molti per la prima volta, si sono trovati nel ruolo attivo di ascoltatori e di biografi.
Gli adulti intervistati risultano di differente età e, dunque, rappresentativi di periodi culturali e sociali diversi: sono stati scelti nell’ambiente familiare o amicale degli alunni, dopo aver manifestato la loro disponibilità a raccontare di sé.
Raccolta di narrazioni di testimoni Dopo essere stati preparati a questo, gli
alunni hanno incontrato i loro narratori. I racconti sono stati in parte registrati su cellulari, in parte trascritti direttamente durante l’incontro. Questa esperienza è stata per molti degli intervistatori emozionante: di fronte al racconto di un adulto, i giovani hanno affrontato l’incognita della reazione emotiva non solo del narratore («e se si mette a piangere? se non ricorda più nulla? se parla poco? se parla in dialetto?»), ma anche la propria («se mi dimentico le domande? se non riesco a farlo par lare o a farlo smettere? se mi imbarazzo o commuovo?»). Si è trattato di porsi in un atteggiamento di ascolto reale, prestando attenzione non solo a quanto detto verbalmente, ma anche alle modalità espressive del narratore e al linguaggio non verbale (pianto, imbarazzo, tosse nervosa, agio o piacevolezza nel ricordo...).
Trascrizione delle testimonianzeUna volta raccolte attraverso la registrazione
sul cellulare, le testimoniante di vita sono state sbobinate, cioè trascritte su supporto cartaceo. Gli alunni si sono così confrontati con il faticoso lavoro della sbobinatura, che richiede il riascolto lento di tutta la registrazione al fine di poter scrivere ogni parola, ogni cosa detta. Si è trattato anche di imparare a tradurre il linguaggio dell’oralità (con tutte le sue espressioni tipiche)
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in una forma differente, quella scritta, che si caratterizza per altre regole linguistiche, per manifestazioni sue proprie.
Riflessione sull’esperienzaA conclusione del progetto, agli alunni è sta
to offerto un momento di metariflessione sull’esperienza vissuta: essi sono stati, cioè, sollecitati a scri vere quanto sperimentato lungo l’intero percorso formativo, prestando attenzione agli aspetti emotivi che li hanno accompagnati nelle diverse attività svolte. Non sempre è semplice, per ragazzi in età preadolescenziale, fermarsi, sostare dentro di sé e mettersi in ascolto dei propri movimenti interiori. È necessario che gli adulti, soprattutto coloro che hanno un ruolo educativo nei confronti dei più giovani, offrano occasioni in cui poter apprendere l’arte della riflessione, del silenzio, dell’ascolto di sé. Solo in questo modo si dà la possibilità ai ragazzi di riconoscere le risonanze personali di ogni esperienza vissuta, attribuendo un significato soggettivo alle stesse.
Oggetto, dunque, di queste scritture finali è stato il percorso stesso, con quanto di cambiamenti, acquisizioni, difficoltà e scoperte ha recato con sé: giudizio ovviamente del tutto individuale, legato al l’esperienza e alla percezione soggettiva di ciascun alunno.
Il tema di cui ci siamo occupati: il gioco
Diritto al giocoFammi giocare solo per giocoSenza nient’altro, solo per pocoSenza capire, senza imparareSenza bisogno di socializzareSolo un bambino con altri bambiniSenza gli adulti sempre viciniSenza progetto, senza giudizioCon una fine ma senza l’inizio
Con una coda ma senza la testaSolo per finta, solo per festaSolo per fiamma che brucia per fuocoFammi giocare per gioco7
Il termine “gioco” è di origine latina. Esso veniva indicato con la parola iocus
quan do indicava un passatempo spensierato men tre, se inteso come competizione agonistica, era chiamato ludus. Nella lingua italiana il vocabolo gioco ha finito poi per inglobare entrambi questi due significati, a differenza della lingua inglese che, invece, ha mantenuto le due parole distinte (play e game).
In generale, è stato affermato che per svolgere un’attività di gioco dobbiamo avere a disposizione delle specifiche risorse, come, ad esempio: materiali da maneggiare, compagni da coinvolgere, un regolamento da seguire, alcune competenze a cui attingere e, infine, il tempo, la voglia e uno spa zio adeguato... Non è necessario però possedere tutte queste variabili: infatti esistono molti giochi che non richiedono particolari attitudini e, volendo, abbiamo sempre l’opportunità di giocare da soli. Possiamo anche fare a meno delle regole, trastullandoci con dei semplici balocchi. E, paradossalmente, abbiamo pure la possibilità di divertirci davvero con pochissimo: spesso i giocattoli di fattura più semplice risultano più stimolanti, mentre oggetti molto sofisticati rischiano di renderci passivi fruitori, soffocando creatività e fantasia.
Perché il gioco? Perché decidere di concentrare l’attenzione su questo aspetto della vita che spesso sembra essere secondario e relegato a certe fasi dell’infanzia per poi essere superato nelle età successive? Perché chiedere a preadolescenti e adulti di volgere lo sguardo sul gioco fermandosi a riflettere su quanto esso ha rappresentato nella propria vita?
Proviamo a fermare alcuni pensieri che pos
7 Bruno Tognolini, Rime raminghe, Milano, Salani, 2013.
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sano aiutare a comprendere quanto la dimensione ludica sia indispensabile e formativa nel percorso di crescita personale, a qualsiasi età, e quanto essa influisca sul divenire uomini e donne consapevoli di sé e del mondo in cui ci si trova inseriti.
Il gioco è stimoloL’uomo necessita, in ogni fase della sua vita,
di stimoli, ovvero di impulsi alla sperimentazione, alla scoperta, all’invenzione. Del resto «noi cerchiamo stimoli per crescere, per capire chi siamo, per sapere chi sono gli altri. La mancanza di stimo li ci appiattisce, ci fa progressivamente inaridire, ci sprofonda nel grigiore, nella noia, nella passività e infine nella disperazione»8. Essere privati di stimoli equivale alla rinuncia: a conoscere se stessi e le proprie risorse, a diventare altro rispetto a chi siamo nell’oggi, a evolverci in forme nuove e, spesso, impensate.
I bambini, sin dai primissimi mesi di vita, hanno bisogno di essere incoraggiati a sperimentare se stessi e il mondo intorno a loro attraverso i canali sensoriali, in particolar modo il tatto: le carez ze e i “tocchi” della mamma, o di chi ne svolga le fun zioni, rappresentano un primo momento di co noscenza e di relazione. Anche le persone anziane richiedono di essere pungolate affinché le loro capacità e funzioni possano mantenersi attive e fun zionanti.
Occorre anche, però, segnalare che «la società e la cultura oggi più diffuse sono, in questo senso, ambivalenti: da un lato ci bombardano di stimoli di tutti i tipi e di ogni possibile intensità, fino a creare mondi virtuali per il sorgere di nuovi ed eccitanti stimoli, d’altra parte, però, corriamo sempre più spesso il rischio di essere
passivi, fruitori di pacchetti di stimoli già preconfezionati, in cui la nostra parte principale sembra essere quella di... compratori»9. Emerge, quindi, la necessità di vigilare sulle effettive possibilità di riuscire realmente a sfruttare i tanti stimoli che arrivano dal mondo esterno per arricchire la nostra capacità di conoscenza e di autodeterminazione.
Il gioco è creatività«Un atteggiamento creativo è la migliore ga
ranzia per la libertà personale»10: solo se ci si concede di allontanarsi dall’abitudine, dal conosciuto, da ciò a cui per abitudine ci ancoriamo, solo allora è possibile costruirsi una libertà interiore che consente di essere se stessi e di prendere decisioni in piena autonomia.
Il gioco, soprattutto quello simbolico, rappresenta indubbiamente un’occasione preziosa per utilizzare la fantasia e la propria capacità immaginativa, creando situazioni in cui tutto diviene possibile: il soggetto sperimenta la libertà di pensare e pensarsi senza vincoli o stereotipi, semplicemente affidandosi al proprio sentire. Anche tutte le attività svolte in un ambiente naturale favoriscono la creatività: «Il contatto con la natura, in particolare, è molto stimolante: i boschi, i prati, i torrenti, alimentano la fantasia del bambino e stimolano il gusto del mistero, il bisogno dell’invenzione e della scoperta»11.
Esiste uno stretto rapporto tra creatività e autodeterminazione: «Secondo lo studioso americano Maslow, i bambini sono dotati in particolare di creatività in quanto non hanno ancora molto assimilato stereotipi e cliché. Sono meno ini biti perché agiscono più spesso liberamente, senza voler assolutamente far rientrare il lo
8 raffaello rossi, Piccoli genitori grandi figli. Percorso di formazione per genitori ed educatori, Bologna, Edb, 2001, pp. 83-84.
9 Ibidem.10 MarCello Cesa BianChi - PalMa Bregani, Psicologia generale e dell’età evolutiva, Brescia, La Scuola,
1982, p. 122.11 Idem, p. 126.
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ro comportamento in schemi aprioristici o in pro grammi prestabiliti. Per questo il gioco del bam bino e le sue attività espressive spontanee sono molto crea tive. Solo se un individuo riesce a liberarsi dagli schemi, dai preconcetti, riesce ad essere inventivo»12. Ecco allora che lo svago ludico, in una sorta di gioco di specchi, grazie alla creatività e alla fantasia che lo contraddistinguono, facilita la costruzione della capacità di resistenza alle abitudini, alle convenzioni e ai luoghi comuni, stimolando, di conseguenza, l’autodeterminazione e l’autonomia di pensiero e di azione. In fondo, il giocattolo più grande che abbiamo ricevuto in regalo dalla nascita è il cervello, sede della nostra fantasia e della nostra creatività.
Il gioco è apprendimento delle regole e dei confini
Quando si gioca, inevitabilmente, si ha a che fare con il mondo delle regole. Spesso sono regole che ci si dà da sé, in maniera autonoma: basti pensare alle migliaia di differenti modalità di giocare con uno stesso materiale di gioco (pallone, biglie, dadi, mazzi di carte, bambole, ma teriali vari…). Altre volte, invece, sono regole intrinseche al gioco stesso ed essenziali per giocare con altri: le regole dei giochi più popolari nel mondo sono state codificate a livello internazionale e conoscerle è molto importante, perché consente di misurarsi con altre persone, fuori dalla stretta cerchia dei nostri conoscenti.
In ogni caso, colui che gioca sperimenta, apprende, inventa, obbedisce ad alcune regole e questo rappresenta un passaggio fondamentale nella vita poiché «la regola può essere definita come il punto di contatto tra il singolo e la società»13. Giocando, dunque, si apprende a relazionarsi con l’altro e a relazionarsi con il mondo
del limite: laddove esiste una regola, nasce la necessità di confrontarsi con essa.
Quindi, anche nei momenti di svago e di divertimento, inevitabilmente s’incontra la soglia che unisce e/o divide noi dal mondo: in tale situazione ognuno è spinto a ridefinire i propri confini, imparando a rispettarli e a rispettare quelli degli altri. Si tratta del faticoso percorso in cui ciascuno apprende di non essere al centro del mondo, bensì di trovarsi all’interno di una rete di relazioni in cui si rende necessario il rispetto di una serie di indicazioni e di norme. È possibile, dunque, affermare che se ci si abitua a rispettare le regole dei giochi, ci si esercita contemporaneamente a osservare le leggi che regolano la civile convivenza in cui ciascuno viene chiamato a inserirsi. L’attività ludica diviene così palestra di vita sociale. È esattamente quello che ci suggerisce Daniele Novara, fondatore del Centro psicopedagogico per la pace e la gestio ne dei conflitti di Piacenza: «Se educare vuol dire aiutare gli altri a costruire la propria autonomia, tale processo necessita, per così dire, di un territorio neutro, ossia di una zona sgravata il più possibile dalle psicologie individuali per diventare un’area di apprendimento alla vita, di sperimentazione delle proprie risorse, di vincoli non coercitivi ma definiti da un patto di “reciproco adattamento creativo”. Questo territorio neutro è il luogo delle re gole, dove nasce la consapevolezza della propria identità individuale separata da quella degli altri ma anche in grado di essere condivisa con gli altri»14.
Il gioco è libertàIl gioco, per essere tale, deve essere esperien
za di libertà, in fondo nessuno gioca se costretto! La libertà, in effetti, rappresenta una delle
con dizioni basilari del momento ricreativo. Essa
12 Idem, p. 120.13 rossella diana, Le regole del gioco. Manuale per educare al senso delle regole, Molfetta, La meridiana,
2005, p. 42.14 Prefazione di Daniele Novara, in r. diana, op. cit., p. 10.
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consente di distinguerlo da altre importanti attività umane: noi giochiamo quando possiamo stabilire, in modo autonomo, quando incominciare e quando interrompere un gioco. Inoltre, giochiamo quando la nostra finalità è di puro divertimento: totalmente liberi da scopi produttivi o economici, desideriamo svagarci con il semplice obiettivo di trascorrere un po’ di tempo in modo piacevole, in compagnia di noi stessi o di altri.
Nell’attività ludica ci si percepisce soggetto at tivo, regista assoluto di ciò che sta accadendo, detentore di un potere enorme che consente di de cidere se, come, quando giocare. Come ci ricorda il grande psicoanalista Bruno Bettelheim: «La dimensione “magica” del gioco deriva dalla sensazione, che il bambino ne ricava, di essere in quella sfe ra padrone assoluto di se stesso, benché non sia che un bambino, soggetto a tutte le restrizioni del mondo degli adulti»15. L’attività ludica diviene, allora, la possibilità per bambini e adulti di esercitare questa forma di libertà, spesso sconosciuta in altri ambiti e situazioni della vita. Senza dimenticare che questa dimensione di piacevolezza e di li bertà diviene anche occasione di sviluppo e di raf forzamento di capacità fisiche, manuali e intellettive.
Il gioco è relazione socialeSenza dubbio sia i bambini sia gli adulti pos
sono giocare da soli: a volte è piacevole dedicarsi a un’attività ludica nella sola compagnia di se stessi, assaporando la bella solitudine che consente di relazionarsi con la propria interiorità. Al contempo però è importante trovare la possibilità, il tempo e l’occasione per giocare insieme ad altri: nella re la zione con l’altro si apprende e si consolida lo spi rito di collaborazione e il rispetto dei rapporti all’interno del gruppo. Il gioco in gruppo consente di sviluppare capacità relazionali importanti per la crescita umana:
diventa così occasione per conoscere meglio se stessi in rapporto con l’altro e per individuare corrette e adeguate modalità comunicative.
In riferimento a queste riflessioni, emerge allora la centralità del gioco con altri: nessun giocattolo, per quanto invitante, fantasioso e interessante, potrà mai suscitare gli stessi stimoli cognitivi, creativi ed emotivi che procura il giocare insieme ad altre persone, non importa se coetanei o di differente età.
Il gioco è espressione simbolicaIl gioco simbolico, che compare nel bambi
no a partire dai due anni e mezzo, rappresenta un nuovo tipo di gioco, molto diverso da quello delle fasi precedenti. Si tratta del gioco del “fare finta”: i bambini imitano e mettono in scena, da soli o con altri, qualcosa che non c’è, ma che viene richiamato alla mente attraverso un oggetto o un gesto. Ad esempio, i bambini immaginano che un oggetto (una scatola) possa essere un’altra cosa (un camion) e quindi agiscono di conseguenza.
Con il gioco simbolico si esprime la capacità di richiamare alla mente qualcosa che non è presente e di utilizzare un oggetto al posto di un altro come suo “simbolo”: questa capacità è indizio di uno sviluppo cognitivo importante ed è specifica degli esseri umani. Diviene dunque fondamentale consentire a questa capacità di esprimersi, così come ci ricordano due esperti: «È necessario permettere all’individuo una libertà incondizionata di espressione simbolica. Il bambino esprime spesso, ciò che pensa e sente, nell’azione simbolica. Spontaneamente il suo mondo interiore si realizza in diverse immagini e in costruzioni della fantasia. In questo modo egli sperimenta una completa libertà psicologica e al tempo stesso tende ad instaurare le condizioni interiori della creatività costruttiva»16.
15 Bruno BeTTelheiM, Un genitore quasi perfetto, Milano, Euroclub, 1988, p. 238.16 M. Cesa BianChi - P. Bregani, op. cit., pp. 124125.
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Dunque, la comparsa del gioco simbolico è indicatore di quanto la mente del bambino stia acquisendo nuove competenze, senza dimenticare che «contrariamente a quanto potrebbe sembrare, il bambino non confonde affatto la realtà con la fantasia, ma riesce a passare da una dimensione all’altra con grandissima semplicità e disinvoltura. L’invenzione del compagno immaginario non è segno di scarse o cattive relazioni sociali, e tanto meno di patologia. È invece un indicatore di buona capacità inventiva, che si accompagna anche a un buon esercizio del linguaggio»17.
In conclusioneDopo questo breve excursus sulle dimensio
ni caratterizzanti l’attività ludica, ci sembra di poter sottolineare come giocare non sia soltanto giocare: questa azione diviene anche cercare, costruire, immaginare, creare, comunicare, capire, collabora re... In realtà, possiamo ipotizzare che ciò che rende una certa attività un gioco non è il tipo di azioni che compiamo, ma è lo spirito con cui le svolgiamo. Per esempio, una stessa successione di calcoli aritmetici può essere fatta per studio, se siamo degli studenti impegnati in una prova d’esame, o per attività professionale, se siamo dei contabili che stanno cercando di far quadrare i conti, oppure per gioco, se siamo degli appassionati di enigmi matematici e stiamo cercando di risolvere un problema numerico.
Poiché il gioco consiste in un’attività non direttamente produttiva, si tende talvolta a non considerarlo degno delle persone “serie” bensì solo come una superflua modalità di impiego del tempo. In realtà, oggi, la maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che il gioco sia un’esigenza biologica innata nell’uomo così come in ogni altra specie animale e che, in quanto tale, costituisca un ottimo strumento
per combattere la noia e la depressione a tutte le età. Senza dubbio, il gioco racchiude in sé un altissimo valore formativo, volto alla conoscenza di se stessi e alla maturazione del rapporto con gli altri e con il mondo. Forse sono pro prio questi i motivi che hanno fatto dire a Lao Tzu che «il gioco è la medicina più grande».
Piccola storia del giocattoloIl gioco non appartiene in esclusiva al mondo
umano: molti animali, soprattutto i mammiferi, manifestano la tendenza istintiva a usare alcuni oggetti come giocattoli, svolgendo questi ultimi una funzione importante durante la crescita dei cuc cioli. Infatti, attraverso il giocattolo, i piccoli hanno modo di apprendere abilità e conoscenze che saranno loro necessarie una volta raggiunta l’et à adulta. Proviamo, ad esempio, a pensare a cucciolo di gatto che si diverte con un gomitolo di lana: ebbene, questo suo “divertirsi” consente di sviluppare quelle competenze che, soprattutto nella vita selvatica, saranno necessarie per la caccia e, dunque, per la sopravvivenza.
Non deve, dunque, stupire che l’uomo, fin dal l’antichità, si sia cimentato nell’utilizzo o nella pro duzione di oggetti specificatamente pensati al lo scopo ludico e ricreativo. Per questo motivo pos siamo dire che le origini del gioco sono antichissime: esso, praticamente, venne alla luce in coincidenza con la comparsa dell’uomo sulla Terra.
A conferma di questa ipotesi basterà pensare ai tanti reperti rinvenuti negli scavi archeologici di tutto il mondo e alle scene raffigurate su antichi affreschi e mosaici: queste testimonianze remote raccontano di numerosi strumenti di gioco, alcuni dei quali molto simili a quelli ancora utilizzati nell’epoca moderna.
Scopriamo così che i nostri antenati, già migliaia di anni fa, in Egitto, in Grecia e in tante altre parti abitate della terra si divertivano
17 silvia Bonino, Quando i bambini sono piccoli. Capire e affrontare con serenità i primi sei anni dei figli, Milano, Fabbri, 2012, p. 137.
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come noi con palle, palline, bambole, soldatini, cordicelle, trottole, birilli, carretti... insomma, con tutto l’armamentario classico con cui ogni bambino, in ogni epoca storica, si cimenta al semplice scopo di divertirsi e svagarsi.
I primi giocattoli furono costruiti con gli stessi materiali con cui venivano prodotti anche i primi utensili usati dall’uomo, ovvero, con pietra, legno o argilla. Fra gli oggetti con funzione di giocattolo ritrovati dagli archeologi, compaiono soprattutto (ma non solo) rappresentazioni in miniatura di per sone (bambole e soldatini), animali o strumenti usati dagli adulti. Nell’antico Egitto esistevano bambole fatte di pietra, porcellana o legno, con capelli finti e arti snodabili. Nell’antica Roma, le bambine giocavano con bambole di cera o terracotta e i bambini giocavano con archi e frecce fin ti.
Origini antichissime anche per lo yoyo, gioco che spesso viene scorrettamente considerato recente. Sembra che i primi, costruiti con il legno, risalgano alla Cina di duemilacinquecento anni fa; anche in Grecia, intorno al 500 a.C. vennero prodotti yoyo in legno, pietra o terracotta. Essi erano finemente decorati con immagini di dei ed erano legati ai passaggi rituali della crescita: nel momento in cui il giovane ne tralasciava l’uso entrava a pieno titolo nell’età adulta. Pure l’aquilone ha origine cinese e comparve, con grandissima diffusione, intorno all’anno 1000. Nel continente americano, invece, gli Incas, che non utilizzavano nella loro vita quotidiana la ruota, avevano però costruito un giocattolo simile al cerchio.
Anche i giochi più elaborati e complessi come il backgammon o gli scacchi, sono nati molto tempo fa: in particolare, tra i resti della città di Ur, in Mesopotamia, è stata rinvenuta una scacchiera corredata di dadi e pedine, risalente al 2500 a.C. circa. Purtroppo, però, non ci è possibile conoscere con esattezza le regole con cui si giocava in quei tempi, ma solo intuirle. Questo dipende dal fatto che nel passato il gioco non era considerata un’attività degna di
attenzione, non gli si riconosceva dignità e valore: per questo motivo sono pochissime le testimonianze scritte al riguardo che sono arrivate fino a noi attraverso i secoli.
Durante il Medioevo, la maggior parte dei giocattoli era realizzata in argilla, legno o cera: per questo motivo, i giocattoli costruiti in questo periodo non erano molto resistenti e si rovinavano col passare dei secoli, impedendoci di conservarne oggi degli esemplari intatti.
Nel corso del tempo i giochi hanno seguito un’evoluzione abbastanza lenta, per lo meno rispetto alla varietà delle tipologie: del resto, essi potevano essere prodotti solo a livello artigianale e, quindi, in quantità limitate.
La prima produzione commerciale di gio cat to li risale probabilmente al XV se colo in Germania. In particolare, la città di Norimberga vide il fiorire della produzione di bambole: quelle di pezza erano usate dalla gente comune, mentre quelle con costosi abitini erano spesso utilizzate dai governanti come doni per donne nobili o di stirpe regale. I tipici giochi tedeschi, oltre a quelli di ispirazione musicale come il flauto, erano rappresentati da sonagli e giocattoli con le ruote per i bambini più piccoli. Per quelli più grandi e, soprattutto, per coloro che aspiravano a diventare cavalieri, si utilizzavano soldatini, cavalli a dondolo, spade di legno e scudi.
La vera e propria svolta nella storia del gioco è iniziata verso la metà del XVIII secolo con la Rivoluzione industriale e, dunque, con la nascita delle prime aziende costruttrici di giocattoli in serie.
Negli anni venti e trenta i bambini, come spes so nel passato, inventavano da sé i propri pas satempi e lo facevano quasi sempre all’aria aperta. Data la miseria e le ristrettezze che caratterizzavano in quel periodo la vita di ampie fasce della popolazione, i giocattoli venivano co struiti con quello che c’era. Il più comune era il cerchio, che veniva ricavato dalle ruote di vecchie biciclette. C’era anche il monopattino, frutto dell’ingegno e della manualità degli stessi
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bambini che, una volta recuperati presso le officine i cuscinetti a sfera, montavano su di essi, ruote improvvisate, una tavola. C’erano anche i soldatini di carta, venduti dal cartolaio, collezionati e scambiati proprio come si fa oggi con le figurine. I giocattoli di una volta, contrariamente a quanto accade oggi, non erano a prova di bambino: si rompevano con grande facilità e, per questo motivo, molti adulti ritenevano che il comperare un gioco volesse dire buttar via i soldi18.
In seguito, grazie all’enorme sviluppo tecnologico del pianeta, il mondo del gioco ha subito ulteriori e numerose trasformazioni, frutto di progettazione sofisticata, della nascita di regolamentazioni orientate alla sicurezza, dell’applicazione di copyright. Altre innovazioni che hanno contribuito a cambiare il modo di giocare di milioni di persone sono state l’ideazione dei
cruciverba (nel 1913), dei giochi in scatola (nel 1935), dei videogiochi (nel 1971).
In questo nuovo contesto, anche il mondo del giocattolo si è uniformato alla velocità dei cambiamenti, diventando spesso un “fenomeno di costume”, ovvero uno specchio che riflette la società e i costumi di un determinato periodo storico. Si è sviluppato, ed è quasi universalmente condiviso, un nuovo atteggiamento nei confronti della millenaria attività del gioco. È nata, infatti, una nuova sensibilità e attenzione verso l’attività ludica, con il riconoscimento delle sue potenzialità e delle ricadute positive nel soggetto: di conseguenza, anche gli strumenti di cui essa si serve sono oggi ap prezzati e valorizzati. Questo nuovo interesse è sfociato nel collezionismo di giocattoli, fenomeno che non coinvolge tanto i bambini quanto il mondo degli adulti.
18 In “Focus Storia. Collection”, primavera 2012, pp. 25-26.
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Il mio gioco preferitoIl gioco è l’attività più importante di un bambino (Michel de Montaigne)
Martina Vittoni, II AIl mio gioco preferito da sempre è nascondino nella casa dei nonni. Il gioco consisteva nel nascondersi nei posti più impensabili. Io ci giocavo spesso, ancora adesso ci gioco, ma raramente perché ormai siamo cresciuti e nei posti dove ci nascondevamo non c’entriamo più. Il mio posto più bello dove potersi nascondere era sotto il lavandino dove la nonna riponeva il contenitore per lavare i piatti.
Matteo Buscema, II AIl mio gioco preferito di quando ero piccolino (anche se mi piace anche ora) era la palla. Sì, la palla. Adoravo quello strano oggetto rotondo tanto che me la portavo dietro ovunque andavo, persi no nel letto al posto dell’orsacchiotto. Era tutto per me. Una delle volte in cui mi ero scordato della palla piansi tutto il tempo. Stavo partendo per il mare, avevo tutto con me: valigia, secchiello e paletta, pistola ad acqua... tranne la mia stupenda palla bianca a strisce nere del “Real Madrid”. [...] Solo dopo essere arrivato nel fantastico mare della Sar degna mi ricordai di essa. Mi misi a piangere, ero disperato come Baggio nel sbagliare il rigore decisivo.
Leonardo Giacobino, II AIo ogni giorno tengo per me una o due ore per ascoltare musica sul letto, senza nessuno attorno; così ho modo di pensare a tutto quello che voglio con estrema libertà. La musica io l’ascolto molto attentamente perché così posso recuperare dal testo informazioni molto importanti per la mia vita e quindi pensare a sentimenti e emozioni sia positive sia negative che io penso abbiano cambiato il mio modo di fare e il mio modo di vivere. Io la musica l’ascolto in base al mio stato d’animo. Ad esempio, se sono arrabbiato, ascolto il genere rap, sia inglese sia italiano, che mi dà l’energia e la forza d’animo che uso per andare avanti; oppure ascolto musica pop quando sono rilassato.Inoltre, il cantautore in una canzone fa una sua piccola autobiografia perché racconta della sua vita e a volte qualche frammento della sua è molto simile alla mia e mi aiuta a pensare che io non sono l’unica persona a cui è accaduto quell’avvenimento.
Claudia Dealberto, II AQuando ero piccola, il mio gioco e il mio passatempo preferito era aprire il cassetto più basso del mobile e tirare fuori tutte le ciotole e le pentole che c’erano dentro. Me le mettevo tutte intorno e poi entravo nel cassetto; non era solo un gioco, per me significava aver raggiunto il mio scopo. Lo facevo anche perché così potevo
Le nostre parole
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fare anche un’altra cosa, mangiare le sigarette dei miei genitori senza che mi vedessero.
Agata Bozzo Rolando, II AOggi il gioco che preferisco è con gli animali (cani e gatti): mi piace farli divertire, correre e saltare, anche se a volte li faccio agitare troppo, diventano euforici e io finisco sempre per farmi male. Quando gioco con il mio gatto, mi graffia sempre e a volte morde anche. [...] Io solo quando sono con gli animali posso dire di stare veramente bene, quindi anche se spesso mi faccio male non mi importa!
Lorenzo Dionisi, II ADa piccolo mi divertivo un mondo a battere contro le cose, gli oggetti, e anche adesso, quando mio papà si ricorda di quello che facevo, andiamo sempre in garage con un pezzo di legno. Lo tagliamo facendogli due punte, usciamo in giardino con un altro bastone e... pum! il bastone picchia su quello con le punte e vola lontanissimo. Vince chi lo tira più lontano. [...] Mio papà mi disse una volta che questo gioco si chiama “lippa”: questo nome non me lo dimenticherò mai!
Virginia Borgarello, II AIl mio gioco preferito è costruire rifugi, capanne con lenzuoli e pezzi dei divani [...]. Entro dentro e mi nascondo da tutto e da tutti. Mi piace anche costruire rifugi con altri materiali come sedie, sco pe, bastoni per lavare il pavimento o coperte invernali.
Martina Nettis, II AAmavo moltissimo giocare con le bambole, soprattutto quelle di pezza che mi facevano la mamma e la nonna; le preferivo alle barbie di plastica perché me le avevano fatte loro e mi venivano in mente i racconti della nonna sulle bambole che usava lei. Mi piaceva moltissimo immaginare la mia vita e poi farla con le bambole: andavo a Parigi
dove cenano sulla torre Eiffel, andavo in piscina, e alle Hawaii [...].Mi ricordo ancora come le facevano: prendevano la stoffa rosa e facevano la forma del corpo per poi mettere l’imbottitura all’interno. Le cucivano, attaccavano la lana (che sceglievo io) per fare i capelli e poi mio papà prendeva i trucchi della mamma e disegnava la faccia. La parte più importante, dopo i capelli, era la scelta del vestito: la nonna mi mostrava tutte le stoffe e mi diceva: «Con questa potremmo fare così, con quest’altra sarebbe meglio fare così». Scelta la stoffa, ogni volta era un dilemma per me, cucivano il vestito e io lo infilavo alla bambola con cura, come fosse mia figlia.
Tommaso Lometti, II ADa piccolo, io e il mio fratellino Alessandro ci divertivamo un mondo a costruire la casa con i cu scini e le coperte. Ogni volta, quando non sape vamo cosa fare, io e Alessandro anda va mo nel la nostra cameretta e la riducevamo sem pre come una “discarica” per costruire il no stro picco lo mondo mor bidoso. Solo all’idea mi venivano i bri vidi alla gamba talmente ero felice e tutto arzil lo; gli ripete vo: «Su, forza, dobbiamo costruire il nostro mondo, non abbia mo tempo da perdere!». Arrivati al luogo della costruzione, prendevamo due cuscini per fare il tetto, le coperte come prote zio ne dai ladri (mamma e papà) e con il materasso il portone. Noi, per nasconderci dai ladri, andavamo sotto i letti e quando arrivavano gli saltavamo addosso come due scimmie per prendere una banana.
Gaudenzio Pagano, II AIl mio gioco preferito è la playstation che, quando fuori fa brutto, mi accompagna e mi rende felice [...]. Per i miei nonni sono solo porcherie perché pensano che giocando così si faccia del male a se stessi, ma non sanno che dietro a quello schermo quando gioco c’è un intero gruppo di persone in giro per il mondo che gioca insieme a me.
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Alice Rameletti, II BMettiamo subito in chiaro il fatto che io non ho mai giocato tanto con i giocattoli, ma, soprattutto, con la fantasia. Adoravo travestirmi e diventare tutto ciò che volevo: un’investigatrice, una fata, una principessa o un pirata. In più specifico il fatto che i miei giochi preferiti sono quelli a cui gioco con mia sorella, i quali sono sempre seguiti da un inevitabile litigio.
Alessandro Lometti, II B[...] È giocare a pallone in giardino in compagnia di mio fratello. [...] È il tipico e famoso gioco del calcio di cui noi maschi andiamo matti. Noi giochiamo in due modi: o porta a porta cioè che tutti e due i giocatori (in questo caso io e mio fratello) svolgono il ruolo di attaccanti e di portieri, oppure giochiamo ai rigori, di cui ci facciamo tantissime risate, quasi da schiattare.
Luca Costadone, II BQuando io scio mi sento libero, so che nessuno mi può dire niente. Lo sci è una cosa personale, senza imposizioni, quando vuoi andare, vai, quando non vuoi, non vai.
Rudi Jelassi, II BQuando avevo sei anni ero una birbante. La prima cosa che facevo era sgattaiolare nella camera dei miei genitori e prendere i trucchi di mia mamma. Poi mi truccavo, mi mettevo i tacchi; prendevo gli orsacchiotti e le mie bambole e li posavo sul letto. A quel punto iniziavo a “recitare”. Mia mamma, quando entrava in camera, vedendomi fare finta di essere una maestra, si metteva a ridere.
Irene Messina, II BQuando avevo circa otto anni, tutte le volte che andavo in piscina, al mare e al fiume, nuotavo sempre facendo finta di essere un delfino. Ogni tanto vado al mare anche adesso; quando nuo
to, mi sento libera, agile, mi sento proprio un delfino. [...] Ad alcuni può sembrare una cosa stupida, ma per me questo gioco è molto importante [...] non solo perché adoro gli animali, ma anche perché, secondo me, fa sentire un po’ i pensieri, la libertà e i sentimenti di quelle bellissime cretaure marine, che purtroppo vengono uccise spesso per colpa delle reti, del petrolio e per tutta la schifezza che noi persone buttiamo in mare.
Lorenzo Francesconi, II B[...] “Prendere” consisteva in qualcuno che doveva toccare una persona che correva nello spazio libero. Chi veniva preso doveva prendere a sua volta coloro che correvano via da lui. Ci giocavamo molto all’asilo, infatti tra i giochi da fare era il più votato [...]. Ora questo gioco non mi piace più perché sono cresciuto.
Youssef Es Sate, II BSotto casa mia, io ed i miei amici giocavamo alla corsa con le biciclette. Mi ricordo ancora che arrivavo sempre secondo, perché un mio amico era più grande e mi batteva; a volte mi arrabbiavo e facevo il furbo tagliandogli la strada, ma lui riusciva a superarmi lo stesso e mi sentivo inutile.
Valentina Rossi, II BQuando ero piccola adoravo giocare con mio nonno. [...] Con il pettine delle bambole pettinavo quei pochi peletti grigi che portava sul capo, con i quali facevo poi dei codini e treccine cortissimi. Per renderlo “più carino” gli facevo poi indossare coroncine di plastica dei costumi di carnevale, oppure varie collane fatte da me, e addirittura i braccialetti di plastica senza il filo, quelli durissimi che, non riuscendo a metterseli, usava come anel li. [...] Mio nonno continuo a ricordarlo in que sto modo, con i giochi ai quali lo obbligavo a giocare con me, impedendogli di guardare partite o altri programmi tv.
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Gabriele Valdez, II B[...] Io e il calcio siamo inseparabili: quando sono triste, lui mi rallegra; quando sono arrabbiato, lui mi tranquillizza... È una seconda mamma. Mia sorella, quando mi vede triste, si avvicina a me con un pallone e dice: «Vuoi giocare a calcio con me?». Io, quando sento quella frase, m’illumino e mi trasformo da “ragazzino arrabbiato” a “il ragazzino più felice del mondo”.
Lorenzo Zilio, II CUno sport che adoro è l’arrampicata su roccia. A me piace perché quando io scalo mi sento libero e non penso a nient’altro. Quando faccio delle “vie” lunghe per arrivare in cima, guardo giù, mi sento quasi un dio e poi è bello urlare «wow», sono riuscito ad arrivare in cima nonostante le difficoltà!
Miriam Alongi, II CIl mio passatempo preferito è disegnare a scoltan do della musica. È molto rilassante e oltre a ciò la musica mi dona l’ispirazione su cosa disegnare, ovviamente dipende dal tipo di musica. Mi piace moltissimo trascorrere il tempo libero con i miei ami ci, giocando ad “obbligo e verità”, al gioco della bottiglia, a nascondino o semplicemente par lare.
Gabriella Palomino, II CIl mio passatempo preferito è ascoltare la musica, mi aiuta a sentirmi meglio e, se a volte sono ar rabbiata o triste, mi basta per sentirmi meglio. Ho molte canzoni preferite e quando sono sola a casa, a volte, canto a squarciagola. Anche questo mi fa sentire meglio, perché mi sfogo. Prima di dormire ascolto musica per quindici minuti e poi a nanna... zzzzzzz!
Elia Pizzetta, II CUno dei miei giochi preferiti è andare in bici da solo ed esplorare tutto quello che mi circonda. Questo mi diverte molto perché stacco la spina
e mi posso rilassare. Alcune volte, quando capita, prendo la bici e vado dove il vento mi porta, ma la cosa più bella è che si trova sempre un posto nuovo da esplorare: è una gioia e non ci sono parole per descriverla. A volte esco con gli amici così il divertimento raddoppia, ma da solo è tutta un’altra cosa perché nessuno ti dice niente, sei libero e puoi divertirti.
Gemma Brentazzoli, II CMi piacciono le avventure! Mi piace, talvolta, mettermi un po’ in pericolo, mi piace costruire. Insomma, mi piace molto divertirmi! Mi piace soprattutto vivere avventure all’aria aperta. Nel giardino di casa mia c’è un fiumiciattolo, che diventa per me un gioco speciale. Attraversarlo per il lungo e per il largo è divertentissimo. Mi sento molto brava alla fine di queste avventure, soprattutto quando sono con i miei fratelli, perché insieme inventiamo giochi divertenti e diversi.
Gloria Carmellino, II CIl mio gioco preferito è sicuramente leggere, anche se più che altro è un passatempo, quindi diciamo che leggere è un passatempo giocoso. A molte persone non piace leggere ma preferiscono i film. Io amo leggere e penso che senza la lettura la vita di ogni persona sia più povera.
Giacomo Soster, II CIl mio gioco preferito è la playstation. Quando sono stressato dalla scuola o da qualcosa d’altro, mi metto a giocare: in questo modo, oltre a divertirmi, mi tolgo lo stress.
Lucrezia Gianina, II CIl mio gioco preferito è nascondino che si può fare ovunque, all’aria aperta ma anche in casa. È un gioco di strategia, che comunque diverte moltissi mo. Mi piace soprattutto perché nessuno può essere escluso non essendo un gioco ad eliminazione. Ci si gioca a tutte le età e ad ogni occasione.
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Giocare è come...Il gioco è un’attività libera, circoscritta, incerta, improduttiva, regolata e fittizia.(Roger Caillois)
Lorenzo Zilio, II CMi è venuta in mente un’immagine: una persona è in cima ad una montagna altissima e comincia a gridare a gran voce senza pensieri, sfogandosi. Secondo me è un’immagine che può rappresentare il gioco perché quando ti diverti ti sfoghi e non pensi a nulla.
Virginia Lunardi, II CGiocare è come un aquilone che vola su nel cielo... libero e allegro, colorato e socievole.
Francesco Faggian, II CGiocare per me è come correre in un prato, volare in libertà, tuffarsi da uno scoglio o saltare in alto e assaporare quel momento in cui sembra di rimanere sospesi nel vuoto.
Daniele Vertua, II CGiocare è come volare nella fantasia, spensierati, compiere quello che si vuole, liberi da tutto.
Gloria Carmellino, II CGiocare è come viaggiare senza una destinazione precisa e non sai dove ti potrà portare. È bello divertirsi ma dopo un po’ ci si sente stanchi e bisogna fermarsi, magari facendo merenda.
Lucrezia Gianina, II CGiocare è come cambiare ogni giorno il mondo in cui vivi perché ogni volta inventi un gioco nuovo.
Samuele Mantovani, II CGiocare è come essere liberi, senza nessuna regola perché il gioco è libertà e puoi inventare ciò che vuoi.
Alice Rameletti, II BGiocare è come entrare in un altro universo, un altro mondo, dove puoi fare ciò che vuoi e diventare ciò che vuoi, con una libertà che ti apre tantissime strade e tu hai solo l’imbarazzo della scelta.
Simone Falmenta, II BGiocare è come la televisione: se la vuoi vedere, l’accendi, se non la vuoi vedere non l’accendi.
Serghey Torri, II AGiocare è come volare, come andare in un altro pianeta, come essere dei supereroi, come un quadro pieno di colori.
Agata Bozzo Rolando, II AGiocare è come volare con la fantasia perché quando giochi liberi tutte le tue emozioni.
Gaudenzio Pagano, II AGiocare è come abitare isolato da tutti, in tranquillità e felicità, senza nessuno che ti rovini la giornata.
Khalid Essat, II AGiocare è come svuotare una bottiglia.
Se io fossi un giocoIl gioco dell’oca, te lo ricordi? La vita procede pressappoco allo stesso modo. Lungo i bivi della tua strada incontri le altre vite, conoscerle o non conoscerle, viverle o non viverle a fondo o lasciarle perdere dipende soltanto dalla scelta che fai in un attimo; anche se non lo sai, tra proseguire dritto o deviare spesso si gioca la tua esistenza, quella di chi ti sta vicino.(Susanna Tamaro)
Gemma Brentazzoli, II CSe io fossi un gioco sarei “otto il maialotto” perché si mangia tanti piccoli hamburger e poi scoppia: questo gioco fa ridere e io quan
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do sono allegra invento parole strane e faccio scherzi.
Gloria Carmellino, II CSe io fossi un gioco sarei probabilmente un trenino perché non si ferma mai, continua a viaggiare senza interrompersi; a volte va più piano, altre più veloce e in discesa si lascia andare. Non lo fermerai mettendoci un ostacolo davanti, lui continuerà la sua corsa.
Gabriella Palomino, II CSe io fossi un gioco sarei palla birichina perché mi rappresenta. Sono vivace e molto sportiva, faccio molto movimento e nella palla birichina, infatti, ce n’è bisogno per schivare la palla.
Giacomo Soster, II CSe fossi un gioco sarei nascondino perché qualche volta sono timido.
Shila Ghannadzadeh, II CGiocare è come dipingere un quadro di mille colori utilizzando la fantasia e la creatività decidendo tu stessa come comporlo.
Samantha Dossi, II CIl gioco che mi raffigura di più è la dama: ho dei “lati scuri” (gli scacchi neri) che non tutti sanno comprendere, soltanto le persone che ten gono a me. La dama mi rappresenta anche perché se una persona entra nella mia vita, nel mio cuore, non può tornare indietro se non arriva fino in fondo.
Virginia Lunardi, II CIl giocattolo che mi rappresenta di più è un peluche, perché da piccola, non essendo molto socievole, mi ritrovavo spesso a casa senza nessun amico con cui giocare. Trascorrevo le ore a giocare e parlare con Poldo: ero davvero convinta che lui parlasse e che mi aiutasse a risolvere ogni problema, era il mio migliore amico. Poldo è ancora posizionato al bordo del
mio letto; mi spiace non avere più la fantasia di una volta e di dovermi tenere alcuni pensieri dentro me stessa.
Teodora Buda, II BSe io fossi un gioco sarei molto felice e mi piacerebbe essere tutti i giochi perché ad alcuni può piacere un gioco, ad altri no, e per far felice tutti sarebbe bello essere tutti i giochi. Incontrerei tanti amici e attraverso il gioco si inizierebbero nuove amicizie.
Margot Rosati, II BVorrei essere il “nascondino” dove le persone si cercano, perché io nascondo un po’ i miei sentimenti e a volte sono io la prima a doverli cercare.
Costanza Orlando, II BSarei la caccia al tesoro perché con gli indizi giusti scoprirei nuove emozioni.
Rudi Jelassi, II BVorrei essere “1, 2, 3 stella” perché mi piace il fatto che in pochissimi secondi devi cercare di stare fermo senza muoverti. Secondo me questo gioco ha un messaggio: devi goderti ogni istante della tua vita perché il tempo va avanti e sempre più velocemente.
Caterina Marguglio, II BVorrei essere sicuramente un aquilone, uno di quegli aquiloni che partono via con solo la lieve sollecitazione del vento, uno di quegli aquiloni grandi, possenti, magistrali, così da accogliere tutta l’aria che posso, così grande da provare ad afferrare le nuvole; vorrei essere così grande da sfuggire alle redini del padrone. Vorrei avere tutta quella voglia di libertà da fuggire via, senza paura di ciò che mi aspetta, solo voglia di scoprire, perché giocare è come vivere.
Giulia Piana, II BVorrei essere il nascondino perché io mi na
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scondo dalla gente, dai miei sentimenti o dai miei problemi, per farmi poi ritrovare da qualcuno. Io mi perdo/nascondo per poi ritrovarmi. A questo gioco ho anche legato una frase molto bella di un film che mi porta molti ricordi: «Ti devi perdere prima di ritrovare te stessa».
Lorenzo Dionisi, II ASarei i dadi perché hanno tante facce come me, a volte arrabbiato, a volte felice, curioso...
Claudia Dealberto, II ASarei nascondino perché mi nascondo sempre agli occhi degli altri e nascondo le mie emozioni non riuscendo ad esprimere quello che sento.
Davide Agrate, II ASarei uno yoyo, che gira sempre e poi gira ancora e si ferma quando lo fermi tu.
Tommaso Lometti, II ASarei il nuoto perché la mia mamma dice sempre che nuoto fra le nuvole e nei miei pensieri.
Martina Nettis, II ASarei una palla da basket: non puoi mai sapere se va a canestro o no, è misteriosa.
Virginia Borgarello, II ASarei un agente segreto perché sono silenziosa, timida, non mi faccio notare, sempre riservata e pronta a scoprire qualcosa.
I miei ingredienti per giocareNon sento il minimo desiderio di giocare in un mondo dove tutti si mettono a barare.(François Mauriac)
Lorenzo Zilio, II CPer me gli ingredienti fondamentali per un gioco sono: • Mezzo chilo di creatività• Qualche oggetto
• Un goccio di regole• 30 g di disciplina e controllo• Divertimento Q.B.
Gloria Carmellino, II CI miei ingredienti per giocare sono la vivacità e un pizzico di pazzia, ma senza dimenticare le regole, che danno anche loro un buon sapore. In aggiunta l’ingrediente segreto, un po’ speciale, ma che in realtà di segreto non ha niente: la fantasia!
Martina Degaudenzi, II CLa fantasia, perché senza di essa non si può immaginare e sognare il gioco; la creatività perché senza questa non si possono creare dei giochi; ma soprattutto i veri amici per divertirsi in compagnia e condividere momenti di felicità insieme.
Carlo Regis, II CÈ necessario essere in buona compagnia, con persone che ti fanno stare bene e divertire, perché insieme ai tuoi amici più cari ti senti veramente libero; poi la fantasia perché senza un po’ di stravaganza il mondo sarebbe decisamente monotono. Infine il sole, perché il cielo azzurro, il caldo e magari un po’ di venticello ti riempiono il cuore e ti rallegrano la giornata.
Pietro Rizzi, II B500 gr di amicizia, un pizzico di creatività e un bel luogo dove mescolare il tutto. Se manca la creatività... verrà insipido, se manca l’amicizia... non avrà gusto.
Valentina Rossi, II B50 gr di amore, 80 gr di amicizia, 2 gr di litigi, 1 kg di divertimento, 500 gr di sole, 5 kg di immaginazione, 6 cuori, 2 cervelli, zero grammi di elettronica, 20 gr di fiato e 300 sorrisi.
Caterina Marguglio, II BUna cosa che non può mancare è la voglia di
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libertà [...]. Non può mancare quell’infantile gioia che si presenta solo quando riusciamo veramente a dimenticare i problemi, le tristezze, soltanto per impegnarci su ciò che stiamo facendo e finalmente rompere un po’ gli schemi [...].
Lorenzo Dionisi, II AI miei ingredienti per giocare sono: la noia perché quando gioco da annoiato mi diverto di più, la passione per quel gioco, la curiosità per scoprire nuovi giochi, la fantasia per inventarne di nuovi, l’impegno per vincere.
Gioco acrostico
Martina Vittoni, II AGiocare Insieme Ordinatamente Con Originalità
Tommaso Lometti, II AGiocare In Ordine Con Onore
Gaudenzio Pagano, II AGiocando Insieme Occorre Capire Ordinatamente
Giulia Piana, II BGioire Insieme Ovunque Condividendo Ore
Alessandro Lometti, II BGioia Infinita Ora Colora Ovunque
Lorenzo Zilio, II CGioia Infusa O Condivisa Ora e Sempre
Carlo Regis II CGioire Insieme Oltre Comuni Orizzonti
19 Quello riportato dalla scheda nella pagina seguente è un ologramma (dal greco olos: tutto, intero). Si tratta di una lavoro che facilita il recupero, dentro di sé, di memorie e ricordi: effettivamente, all’interno delle classi, ha funzionato proprio bene, suscitando moltissimi ricordi. Agli alunni è stato distribuito questo foglio, su cui era sta-to disegnato un ovoide, che doveva essere compilato in ogni sua parte: ad ogni spicchio corrispondeva un tipo di memoria legata all’attività ludica. Dopo averlo compilato, ciascuno è stato sollecitato ad approfondire, attraverso lo strumento della scrittura, uno solo dei vari elementi.
Othman Essat, II C Gioco Immaginando Originali Coraggiose Opere
Ilaria Azzoli, II CGiocare Insieme Onestamente con Ognuno
Lucrezia Gianina, II CGiocare Insieme O Chiacchierare Ogni Istante
Spunti dall’ologramma19
L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare (George Bernard Shaw)
Alessandro Lometti, II BCaccia al lupo mannaro: è un gioco che praticavo da piccolo ed è uno dei pochi che è riuscito a trasmettermi emozioni ed insegnamenti che, ancora oggi, non ho dimenticato. Uno dei tanti insegnamenti è quello, visto che è legato alla caccia, della natura esterna e della conoscenza di quello che mi circonda perché tutto può cambiare da un giorno all’altro e perché il mondo è pieno di novità e anche di... insidie. È essenziale sapere che bisogna stare sempre all’erta.
Silvia Botta, II BDa piccola, nel cortile della nonna, insieme ai miei cugini, adoravamo costruire delle capanne intrecciando dei bastoni; per non fare cadere la tenda li infilavamo nel terreno e così facendo avremmo poi potuto mettere sopra le nostre giacche che fungevano da tetto. Adoravo giocare a quel gioco perché, una volta costruita una tenda, ci prendevamo la mano e costruivamo un intero villaggio fornito di fornelli,
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piastrelle e altre cianfrusaglie che trovavamo in giro. Una volta fatto il villaggio, tutti soddisfatti ci accampavamo, ognuno sotto la propria tenda. Poi si iniziava a giocare alla mamma, che facevo sempre io, con il super incarico di nutrire i figlioletti con intrugli di fango che tutti trovavano sempre squisiti! Mi rendeva sempre molto soddisfatta e non vedevo l’ora di coprire veramente quell’incarico!
Giulia Piana, II BPer me la musica non è un impegno, un dovere o qualcosa di stressante, si potrebbe definire un gioco. Quando l’ascolto, non so proprio bene cosa provo, so che mi fa sentire bene.Quando ero piccola mi divertiva tanto ascoltare quelle parole cantate su ritmi vivaci [...] mentre ora mi piace ascoltare la musica perché i testi (che sono a volte in italiano, ma spes
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so, in inglese) dicono parole che non abbiamo il coraggio di dire. La musica, poi, in qualche modo mi ha segnato: ancora adesso ricordo i testi/canzoni di quando ero bambina che mi ricordano l’infanzia. Bisognerebbe ringraziare la musica, le cuffiette nelle orecchie, le canzoni che ti entrano nel cervello facendoti dimenticare i problemi.
Davide Sagliaschi, II B[...] I miei genitori, quando esco di casa, mi chiedono dove mi dirigo; io rispondo: «Al parco, a giocare a nascondino con gli amici» e loro mi rispondono che è un po’ da piccoli. Ma io penso che quando uno ha una passione, o comunque qualco sa che gli piace, debba seguirla. Nessuno deve smettere mai di credere nelle sue passioni e non deve ascoltare quello che dicono gli altri.
Valentina Rossi, II BQuando ero in seconda elementare ero sempre distratta durante le lezioni da un gioco senza senso di mia invenzione: facevo muovere le penne e le matite, fingendo che la penna blu era il marito, quella rossa la moglie, quella nera nessuno sapeva chi fosse, e le matite fossero i figli. L’ordine di età lo decidevo in base alla loro lunghezza. L’astuccio era il loro letto; a volte facevo litigare quella nera con quella blu, a volte facevo cadere qualche cattivo dal banco (un burrone). Era un gioco senza senso, ma mi divertiva molto.
Costanza Orlando, II BQuando andavamo dalla mia prozia [...] io e mio fratello giocavamo in mezzo al giardino a Masterchef. Avevamo una pentola, una mia e una di mio fratello, piena d’acqua e andavamo in giro per il giardino in cerca di foglie, rami, fiori, erba e un po’ di terra. Tutto ciò andava inserito nella pentola insieme a della pasta e dopo averlo mescolato capitava che ce lo tirassimo addosso e ci sporcavamo tutti! Men
tre pranzavamo i nostri “capolavori” venivano messi al sole [...] per farli cuocere e, terminato il pranzo, venivano impiattati e assaggiati dalla prozia. Era bellissimo e divertentissimo giocare a fare i cuochi, non riesco a descrivere tutte le emozioni!
Lorenzo Zilio, II CSpesso, la sera, quando ero più piccolo, mia mamma veniva a darmi la buonanotte; io, quando se ne stava per andare, la fermavo e le dicevo: «Mamma, raccontami una storia!». Insistevo un po’ e alla fine lei me la raccontava.A volte se la inventava, altre raccontava delle favole classiche e a volte, invece, mi raccontava ciò che avevo fatto durante la giornata, solo che il protagonista aveva un nome diverso. Le prime volte ascoltavo e non capivo, credevo fosse una favola; poi ci sono arrivato pure io. A me piaceva ascoltarla e sorridevo: questo mi faceva addormentare con il sorriso, senza pensare a niente altro (non come oggi che spesso vado a dormire con mille pensieri in testa). Se siete tutti d’accordo, proporrei di ritornare a quei meravigliosi tempi.
Samuele Mantovani, II CQuando ero piccolo mia madre mi cantava una nin na nanna, in realtà non è il termine giusto. Lei mi cantava l’inno nazionale italiano: non mi ricordo cosa provavo, ma penso mi piacesse. Comunque, a tre anni o poco più l’inno lo sapevo tutto a memoria. Verso i tre anni ha iniziato a inventare storie che a me piacevano molto di più!
Gabriella Palomino, II CRicordo quando i miei genitori mi regalarono per la prima volta delle tempere, io chiamai subito i miei cugini per giocare; è stato un momento molto divertente. Io disegnavo e dipingevo delle figure davvero incomprensibili sulle loro facce, poi ci appiccicavo un foglio sopra così da far rimanere la
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sagoma della loro faccia. È stato un momento indimenticabile, anche se avevamo fatto molto caos in casa perché c’era tempera dappertutto!
Lucrezia Gianina, II CDa piccola mi piaceva molto mascherarmi: solitamente mettevo un vestitino, raccoglievo i miei capelli in una lunga coda alta oppure in due codini laterali, mi mettevo del burrocacao colorato della mia mamma ed ero pronta! Un giorno scoprii un grande ripostiglio, che fino ad allora mi era sconosciuto, con tutte le scarpe della mamma e anche le borse: da allora, oltre al vestitino, mettevo sempre le scarpe con il tacco (certamente cercavo di non prendere quelle col tacco troppo alto), ma l’accessorio che più arricchiva il mio look era la borsa in cui mettevo tutti i miei giochi.
Samantha Dossi, II CDa piccola mi piaceva giocare a Ncis, i personaggi presenti erano una vittima, la polizia, un investigatore. Giocavo sempre al parco giochi o nel bosco, che preferivo rispetto al parco perché poteva dare l’impressione di un posto dove il killer si sentiva più a suo agio, senza nessuno che lo potesse vedere. La maggior parte delle volte giocavo con mio fratello minore Simone: a lui piaceva molto fare il killer, ma la maggior parte delle volte aveva paura perché io mi nascondevo e gli facevo scherzi, tanto per divertirmi.
Shila Ghannadzadeh, II CRicordo che da piccola, quando tornavo da scuola, giocavo sempre alla maestra. Mi piaceva perché per una volta potevo immaginare di essere una mia insegnante e non solo un’alunna. Insegnavo a dei pupazzi a cui avevo assegnato un determinato nome e mi piaceva fare finta di distribuire ai miei alunni delle verifiche, fare dei dettati e scrivere delle spiegazioni alla lavagna, ricordo anche che creavo dei banchi con dei cuscini. A volte giocavo con mia
sorella e così lei poteva interpretare la maestra e io tutti gli alunni. Ora penso che sia proprio buffo che a quel tempo mi divertissi con così poco.
Francesco Faggian, II CTutti i giorni d’estate mi trovo sotto casa con i miei amici alle 15; prendiamo le biciclette e andiamo tutti insieme in un campetto di sabbia dove facciamo delle emozionanti partite di calcio. Quando stiamo insieme non mancano mai risate e situazioni divertenti. Terminate le partite andiamo a bagnarci e farci scherzi lanciandoci l’acqua sotto il caldo sole. Tornati a casa tutti bagnati facciamo partite a nascondino mimetizzandoci sugli alberi, tra i cespugli e dietro le macchine: anche in questi momenti non mancano discussioni e risate.Penso che divertirsi con gli amici sia la cosa più bella.
Gloria Carmellino, II CGli amici sono coloro che non ti fanno sentire sola. Loro per te ci sono sempre e ci saranno per tutta la vita e senza neanche bisogno di chiedere ci si aiuta a vicenda. Secondo me essere amici vuol dire volersi bene, non solo nel momento del bisogno ma per sempre. Ai veri amici non hai paura di dire quello che pensi, per loro non devi cambiare quello che sei. Loro sono capaci di essere sinceri con te e tu con loro; non abbiamo fatto alcuna promessa, ma sappiamo che l’altro non ci mentirà ne ferirà in alcun modo. Gli amici veri non sono quel tipo di persona che se non sei d’accordo con loro smettono di essere tuoi amici, perché con loro, anche dopo una litigata, saranno tuoi amici per sempre.
Lucrezia Zerbini, II AMi piace tantissimo, non posso farne a meno, giocare all’aperto che non è come giocare in casa: io, la montagna, le camminate... Mi piace sempre arrivare in cima, riposarmi per terra
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in mezzo al verde per qualche minuto, mangiare e subito ripartire e giocare libera e senza pensieri.
Virginia Borgarello, II AQuando io e la mia amica Martina ci troviamo a casa mia, giochiamo quasi sempre alle spie. Saliamo nella mansarda, prendiamo tutti gli oggetti che possono servirci, li mettiamo in una borsa, ci sediamo ad un tavolo e facciamo finta di ricevere chiamate dal nostro capo. Quindi cerchiamo su un computer finto i dati che ci vengono detti al telefono (li inventiamo al momento) e ci prepariamo per la nostra missione segreta: ci travestiamo con i vestiti da carnevale e diventiamo così irriconoscibili. A questo punto di solito io prendo la borsa con i nostri gadget e scendiamo nel salotto dove combattiamo o facciamo finta di morire o di essere intrappolate da qualcuno che è invisibile: questa è la specialità di Martina. Alla fine della missione torniamo alla base con un aereo privato (il divano) e solitamente muore qualcuno che lavora con noi, o per colpa nostra o perché i nemici gli hanno sparato. Tutte le nostre missioni sono accompagnate da dei grissini molto buoni.
Davide Ceccarelli, II AUn gioco che mi fa star bene è tirare pugni al “pungiball” perché se magari sono arrabbiato o nervoso mi sfogo con quello. Mi chiudo a chiave in camera, appiccico sopra al sacco la fo to di una persona che odio e faccio finta che sia quella persona. Poi, dopo due ore di continui calci e pugni sono sfinito e finalmente mi sono sfogato.
Gaudenzio Pagano, II ADormire, per me, è la cosa più rilassante che esista. Anche se io sono notturno e quindi dormo poco, quella volta che dormo tanto mi sento bene e pieno di energie per il giorno seguente. [...] Dormire è una parte fondamentale della nostra vita, infatti quasi la metà della giornata la passiamo dormendo; dormire è quella cosa che quando sei stressato ti sdrai sul letto e inizi a rilassarti. Senza quella parte della nostra vita sembreremmo tutti degli zombie.
Matteo Buscema, II ADa piccolo mi piaceva tantissimo arrampicarmi sugli alberi, specialmente su quelli grandi come pini, betulle, abeti. Non so come, ma alla fine di tutto arrivavo in cima, stanco ed affaticato, ma ci arrivavo. Salire sugli alberi mi aiutava a tirarmi su il morale perché da piccolo, facendone di tutti i colori, venivo sempre sgridato e castigato, venendo messo dai miei genitori in una stanza buia; furbo, scappavo uscendo dalla finestra e mi arrampicavo sul pino più grande dell’intera pineta. In più, sulla cima, si riusciva a vedere quasi l’intera città.
Petit onze20
Francesco Faggian, II CGiocare
È divertirsi,Giocare è allegria,
Sembra di volare con...fantasia!
20 Il “petit onze” è una tecnica inventata dalla scuola del poeta e scrittore surrealista francese André Breton. In francese, “petit onze” significa “piccolo undici”. In effetti, si tratta di comporre una sorta di poesia secondo un de-terminato schema: primo verso/una parola, secondo verso/due parole, terzo verso/tre parole, quarto verso/quattro parole, ultimo verso/una parola. L’idea del poeta surrealista era quella di contrastare la magniloquenza della poesia del suo tempo e costruire un “albero” di parole: se si scrivono le parole al centro del foglio, in alto una, procedendo oltre due, tre e quattro, concludendo sempre con una sola parola, si ha un piccolo albero di parole col tronco.
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Virginia Lunardi, II CGiocareÈ amare
Divertirsi, non pensareCorrere, urlare... questo è
Giocare!
Miriam Alongi, II CGiocare
È bellissimoPerché ti scateni,
Scacci i brutti pensieriDivertendoti
Agata Bozzo Rolando, II AGiocare
È divertirsiSoli, in compagnia,
volare con la fantasia, sognare!
Alessandro Lometti, II BGioco
Il divertimentoFantasia, creatività, immaginazioneEssere felici, spensierati, emozionati,
eccolo!
Poesie
Othman Essat, II CIl gioco è magiae anche un po’ di fantasia.Il gioco è bello come un acquerello,Il gioco è vita come una matita,ha un inizio e una fineil gioco non ha confine.
Gloria Carmellino, II CPerché si gioca? dice il bimbo,perché è divertente dice il papà,perché è tradizione dice il nonno,
perché ti fa bene, dice la mamma.E noi diciamo, perché il gioco è fantasia,perché il gioco è poesia,perché giocare ti fa sognare,perché di giocare non sai smettere.
Gabriella Palomino, II CGioco, gioco, sei tu che ci rendi feliciIn quei momenti noiosi e infelici.Sei tu che ci fai sentire in compagniaIn quei momenti di solitudine,sei tu la nostra gioia della giornatasei tu che mi rendi felice da quando sono nata.Palloni, corde, elastici e un giro sulla striaPane, allegria e molta fantasia.
Lucrezia Gianina, II CUn pallone, una corda noi utilizziamo,sempre e comunque noi giochiamo. All’oratorio o in giardino,con il nonno o con il cugino,di notte o di giornonoi giochiamo sempre, ne abbiamo bisogno.Non importa dove siamo,noi la fantasia sempre usiamo.Grandi o piccoli non importa:al mare al lago d’Ortasempre ci si può divertire giocando!
Samuele Mantovani, II CGiocare come volare,con la fantasia qualsiasi cosa potrai fare.I giochi son tantissimi, tutti diversi, alcuni bellissimi, altri col tempo persi. Il gioco è come la vitaspensierata, appassionantee a volte toccante.Il gioco è la cosa migliore,senza di lui niente faremmo per ore.Il gioco è essenzialee per questo lo dobbiamo conservare.
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Ennio Falmenta, classe 1942, intervistato da Simone FalmentaGli adulti avevano altro da fare; l’unica cosa è che di sera la nonna mi raccontava le fiabe.
Pierangelo Moscotto, classe 1936, intervistato da Claudia DealbertoSi giocava con cose semplici, ci accontentavamo di giocare al pallone, alle figurine, poi la corsa dei sacchi all’oratorio e la giostra. Non c’erano telefonini, si facevano passeggiate in bicicletta. Quando ricevevo un gioco che gli altri non avevano, sì che ero felice! Ad esempio, quando mio zio mi aveva regalato una spada di legno mentre andava di moda giocare ai quattro moschettieri.
Franca Chiarini, classe 1942, intervistata da Othman Essat, Giacomo Soster, Lorenzo Zilio, Andrea MonticcioloDa piccola giocavo a palla prigioniera, alla cam pana e d’estate a saltare sui mucchi del fieno. Oggi secondo me ci sono dei giochi molto belli da fare, ma ce ne sono altri che bisognerebbe eliminare. Non dico di eliminare il telefonino, infatti ci sono dei giochi che sono utilissimi per sviluppare l’intelligenza, mentre altri istigano troppo alla violenza e dovrebbero essere eliminati. Dove abitavo, in una frazione di Varallo, i miei coetanei erano tutti maschi e allora giocavo
anche io ai loro giochi: a nascondino, ad andare a rubare le mele del vicino e qualche volta a calcio. Mi ricordo di quella volta che sono salita su una pianta e poi mi sono fatta beccare dalla proprietaria che poi ha messo il filo spinato intorno all’albero per non farci salire più. Quando la mia mamma l’ha saputo, mi ha dato una bella battuta.Quando ero piccola la televisione non c’era, quando è arrivata a Varallo ero già una ragazzina. Ho cominciato a guardare la Tv dei piccoli quando i miei figli guardavano Mazinga Zeta.Non andavo in alta montagna, ma facevo tante passeggiate, ad esempio, da Varallo fino al Sacro Monte. Non mi è mai piaciuto giocare nei prati perché avevo paura delle bisce. Preferivo il mare per le gite.Quando si giocava era un’emozione perché non avevamo molti giochi. Anche per Natale ricevevamo un cestino con mandarini e spagnolette, un pezzetto di carbone e andava bene così. Ci accontentavamo di poco. Alla domenica, mi sedevo sulla panca sotto casa e contavo le macchine che passavano: una volta ne ho viste undici e mi sembravano tantissime.
Marco Carmellino, classe 1961, intervistato da Gloria CarmellinoGiocavo a pallone in cortile o con i soldatini, dipende dall’età. Oppure giochi da tavolo, oppure tiravamo con arco e frecce fatte con bac
Le parole degli altri
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chette degli ombrelli o fionde fatte con le camere d’aria della bicicletta. In realtà noi non inventavamo tanto, erano cose tradizionali imparate dai ragazzi più grandi o, addirittura, dai genitori. Anche noi guardavamo la televisione, ma non era come adesso che ci sono reti televisive dedicate ai ragazzi. C’erano solo i canali Rai e solo per due ore in tutta la giornata c’erano programmi per ragazzi chiamati “La Tv dei ragazzi”.
Cristina La Spina, classe 1973, intervistata da Gloria CarmellinoAvendo un letto a castello, mettevamo davanti una coperta e facevamo una capanna. Giocavamo a tennis e usavamo i pattini; a seconda della moda del cartone animato del momento imitavamo i protagonisti, ad esempio giocando a pallavolo oppure a tennis con le palline di spugna. C’è stata anche la moda dell’hulahoop e ci trovavamo al giardino pubblico.
Ada Bertoncini, classe 1934, intervistata da Lucrezia Gianina, Shila GhannadzadehUsciti da scuola si saltava la corda però non era una vera corda. Si andava in campagna a tagliare un pezzo di salice perché mio papà sennò ci sgridava se usavamo la corda perché doveva usarla lui per la campagna. Si giocava alla “settimana” in cortile: con un bastone si tracciavano le righe e lanciavamo un pezzo di vetro che trovavamo in giro. Andavamo anche sull’altalena. D’inverno, quan do gelavano le strade, prendevamo una cassetta o un’asse e andavamo sulla slitta. Secondo me un tempo c’erano tanti valori che adesso non ci sono più. Ad esempio, una volta con un’altalena giocavamo in tanti: un po’ io, un po’ te, ed eravamo felici. La sera facevamo il giro con la corda ed eravamo contenti. Era meglio allora di adesso: ora si sta davanti al piatto con il cellulare, non si ha più dialogo. Noi giocavamo tanto a prendere le lucciole a
maggio e si aspettava solo di andare al rosario per giocare con gli amici. Ho smesso di giocare quando a undici anni, finita la quinta elementare, sono andata a Borgosesia a guardare due bambini di sei mesi e tre anni tanto per guadagnare qualcosa. Io piangevo quando da Foresto dovevo andare fino a Borgosesia e mia mamma mi accompagnava fino al ponte e poi mi lasciava andare da sola a piedi. Leggevamo il libro “Cuore”: avevamo solo quello, altri libri non potevamo comprarli.
Carmen Cravello, classe 1927, intervistata da Samuele MantovaniSi giocava nel cortile di casa mia o nei cortili vicino casa, da piazza San Carlo fino alla funivia. Giocavamo a palla, a nascondersi, si andava anche un po’ in bicicletta.I miei genitori non giocavano, dovevano lavorare. I nonni giocavano a carte durante la guerra la sera, quando non si poteva uscire di casa.Oh, la mia bella gioventù che se n’è andata e non torna più!
Giovanni Brentazzoli, classe 1955, intervistato da Gemma BrentazzoliGiocare è uno dei migliori utilizzi del tempo libero oltre alla lettura. In casa nostra il gioco seguiva lo studio e i lavori a favore della casa. I nostri genitori esigevano fossero realizzati piccoli servizi proporzionati all’età di noi bambini, prima di poter dare inizio al cosiddetto tempo dell’ozio. Era difficile non essere onesto nel gioco visti i tanti improvvisati educatori che mi seguivano con i loro sguardi di premura e di riprovazione. Quando ero più giovane giocavo sovente agli indiani e ai cowboy dal vero o con i soldatini. Impersonavo poi ruoli sempre diversi all’interno di giochi organizzati dai fratelli dove per padrona regnava la fantasia che trasformava i
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singoli personaggi travestiti con stracci in personaggi ora prelevati dall’atmosfera familiare, ora dal mondo animale, ora dai libri di scuola. Un bastone ci faceva da spada, un cartone per scudo e un secchio come elmo. Da piccino i giochi che preferivo erano quelli praticati sulla spiaggia con l’ausilio delle biglie. Erano realizzati per noi bambini intrecciati percorsi sul litorale sabbioso dove poter svolgere gare. La costruzione poi di castelli di sabbia con percorsi sotterranei, fortificazioni, ponti levatoi e canali ci teneva impegnati per ore. I genitori si divertivano nell’esecuzione di questi capolavori di ingegneria che l’alta marea e il calpestio dei passanti trasformavano in macerie senza tempo.
Adolfo Pascariello, classe 1951, intervistato da Francesco FaggianFacevamo tanti giochi, nel senso che giocavamo a fare le capanne, costruire le capanne nei boschi, sia verso la Madonna del Cuore, a Varallo, oppure nei boschi di Alagna. Giocavamo a costruire dei mulinelli di legno da mettere sui piccoli corsi d’acqua per farli girare. Giocavamo a tirare con la cerbottana, andavamo a comprare dei tubi di plastica in un negozio di idraulico che c’era in via Carelli e poi facevamo dei coni di carta e giocavamo con questi coni di carta a fare centro con le cerbottane. Giocavamo con le figurine, c’erano diversi tipi di giochi. C’era “picchetto” nel quale si metteva la figurina contro il muro in piedi, poi bisognava colpirla con la propria figurina... se cadeva, tutte le figurine che c’erano in giro, erano di chi aveva colpito e fatto cadere il picchetto; si giocava a “palmetto” che significa che le figurine dovevano essere a meno di una spanna una dall’altra e tutte quelle che erano a meno di una spanna una dall’altra diventavano proprietà di quelle lì. Oppure si giocava a “mucchio”, che era sempre un sistema col quale si mettevano in palio un certo numero di figurine e poi si faceva una gara: chi arrivava più vicino al muro
vinceva tutto intero il pacchetto di figurine. Poi giocavamo a guardie e ladri quando eravamo all’oratorio, valeva tutta la città di Varallo, quindi spaziavamo dai Sebrei fino a Varallo Vecchio... E giocavamo ai cowboy e agli indiani, giocavamo al pallone, con piccole squadre fatte lì all’oratorio, un pallone di cuoio vecchio che si gonfiava ancora, non come adesso, si andava dal ciclista a farlo gonfiare e basta.Non c’era un gioco preferito, l’importante era stare insieme, giocare in compagnia con tutti questi amici con cui con gli uni andava bene una cosa, con gli altri ne andava bene un’altra, l’importante era passare delle ore in cui non si dovevano fare i compiti o studiare, ma stare all’aria aperta e divertirsi così.I giochi fatti con i videogiochi o i giochi fatti con la playstation, o i giochi fatti con il telefonino trovo che siano assolutamente spersonalizzati, non creano aggregazione, anzi fanno in modo che l’operatore giochi sempre solo contro se stesso, ma non si confronta mai con gli altri. È una cosa secondo me che al di là del fatto di sviluppare alcune doti di manualità e di sagacia o quello che vuoi, però sono meno partecipati di quanto non fossero allora; allora era un gioco completamente diverso perché era un gioco di compagnia, un gioco aggregante: mai di singoli, ma sempre di gruppo.Sono molto contento di avere avuto una nipotina che vive in un paese di montagna perché secondo me la possibilità di un paese di montagna è di offrire delle opportunità di contatto con gli animali, con la natura, con l’aria libera e aperta, rispetto alla città sono molto più rappresentate; e poi quello che mi mette tristezza è vedere dei bambini che magari giocano per un pomeriggio intero col telefonino, con la playstation o queste cose qua, senza comunicare tra di loro o con i genitori.Il primo gioco che mi ricordo credo che fosse una macchinina a pedali di legno e che era di mio fratello, poi era stata trasferita a me e nel giardino della villa dove abitava mia nonna mi
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divertivo andare, non più di tanto perché dopo un po’ mi stufavo, ma almeno qualche mezz’oretta mi piaceva andare in giro con la macchinetta a pedali.
Silvio Colpo, classe 1962, intervistato da Claudia DealbertoChiaramente il calcio, il pallone era il gioco preferito di noi maschi però mi ricordo le sere d’estate che si giocava molto, non so, a palla prigioniera, a nascondino, si andava in bicicletta, si facevano le gare, molti giochi con la palla contro il muro, la settimana. Eh bisognava far passare i pomeriggi, soprattutto d’estate quando non si andava a scuola e quindi ci organizzavamo. Il gioco che mi ricordo sicuramente più volentieri era una battaglia che facevamo con le cerbottane, dove c’era una cascina che aveva... era pr aticamente il castello che doveva essere assediato dagli assediatori. E quindi c’erano due squadre: una che difendeva la cascina e una squadra che l’attaccava sostanzialmente. Era una cascina piena di porte dove si poteva colpire dalle finestre, dalle botole, dai muri e chi veniva colpito dalla cerbottana era fuori praticamente... era morto, quindi di solito si rimaneva uno contro uno nello scontro finale. Quello lì era molto divertente, anche molto faticoso perché bisognava preparare tutte le pallottole al mattino e si giocava poi il pomeriggio. Raccontando provo... un po’ di nostalgia, nel senso che ci siamo divertiti molto da piccoli e sicuramente molto di più di come si divertono oggi i ragazzini che hanno meno possibilità e hanno anche forse più opportunità, ma fanno dei giochi sicuramente meno stimolanti dal mio punto di vista e poi magari loro si divertono uguale.D’inverno ricordo che facevamo delle grandissime gallerie nella neve, che era buttata contro il muro dagli spazzaneve Si passavano delle giornate intere a fare queste cose e poi una volta fatta la galleria, il gioco era terminato...
però era carina come cosa, perché eravamo tutti impegnati in questa attività, con un obiettivo preciso.
Miriam Barberis, classe 1971, intervistata da Virginia Borgarello, Martina NettisA me piaceva molto giocare con le Barbie perché io con mia sorella o con la mia amica inventavamo storie di cui ci sarebbe piaciuto essere le protagoniste.
Rita Zanoletti, classe 1938, intervistata da Giada Borro e Chiara MombelliAllora i giocattoli che avevamo erano solo quelle bambole, che ti avevo già detto l’altra vol ta, quindi: una bella che la usavo poco per non rovinarla, e una di pezza alla quale ho dato da bere, che poi si è tutta distrutta, e poi me ne hanno comprata un’altra e giocavamo con quella lì... Mio padre mi aveva fatto un lettino in ferro e la mettevamo dentro a dormire e... bom! Ma giocattoli veri e propri io non è che ne abbia proprio desiderato e come altro gioco potevamo... siccome a me piaceva tanto giocare, mi avevano insegnato a giocare con delle carte e giocare a dama. E giocattoli altri non è che ne desideravo perché ai tempi non c’era tanta scelta qui in montagna, eh! E quindi ci accontentavamo di quel poco che c’era lì.
Domenica Deleo (maestra Mimma), classe 1957, intervista da Serghey Torri, Riccardo MarchinaIo giocavo con la bambola, non c’erano i lego non c’erano giochi elettronici, avevo però delle costruzioni fatto di legno. Inoltre avevo un piccolo telaio di cucito che serviva per imparare anche ad usare l’ago e l’uncinetto, ma questo quando avevo 10 anni, perché prima avevo solo bambole.Noi inventavamo situazioni di gioco, nel senso che utilizzavamo i giochi che avevamo a disposizione e soprattutto noi bambine ci calavamo nel ruolo delle mamme. Noi giocavamo anche a cucinare, ma per finta, perché io non avevo il
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dolce forno, invece mia sorella che è nata qualche anno dopo di me, lei sì che aveva il dolce forno. Io avevo i pentolini giocattolo e per fare gli alimenti usavamo dei fili d’erba e dei fiori, ma a volte chiedevamo ai genitori se ci davano della pasta rovinata.Avevamo un cortile, e quindi ci ritrovavamo in automatico quando c’era bel tempo e si giocava, e non c’era bisogno di telefonarsi perché sapevamo che il punto di ritrovo era questo giardinetto e si giocava di solito a nascondino o bandierina.Mi piaceva tanto cucire, perché mia nonna faceva la sarta, quindi mi regalava i ritagli di stoffa ed io avevo imparato ad unirle e facevo dei lavoretti, ad esempio abbinavo i colori e facevo delle tovagliette e cuscini.Giocavamo fuori quando era bello ma mai ho giocato con le mie amichette dentro casa. C’era una nonna disponibile, alla quale chiedevamo di raccontarci delle storie e a me piaceva tanto ascoltarle.
Domenico Nettis, classe 1949, intervistato da Martina Nettis I giochi se li potevano permettere solo i ricchi, noi non eravamo né ricchi né poveri, ma non potevamo permetterceli. Li facevamo noi stessi, oppure giochi di fantasia. I miei giochi preferiti erano: la bicicletta di mio padre perché quando non la usava ci salivo, tutto storto perché non ci arrivavo [ride], e le biglie perché costavano poco.
Gianna Regis, classe 1936, intervistata da Agata Bozzo RolandoDa piccola facevo i giochi che fanno tutti i bambini quando sono piccoli, cioè nascondino e... la palla e... saltare la corda... Tutte quelle cose lì... fin che sono stata in Francia, poi quando sono venuta in Italia siccome c’era la guerra, non si poteva stare tanto fuori a giocare perché c’era pericolo di ricevere qualche confetto in testa, allora si stava rintanati un po’ e si andava
dalle suore. Io andavo tanto dalle suore con le mie sorelle, giocavamo a palla prigioniera, ai ladri, ladri e carabinieri.Durante la guerra si giocava un po’ meno perché bisognava rintanarsi un po’ presto perché c’era l’oscuramento e perché poi non era neanche salutare, allora si giocava da chi aveva il cortile o si andava a giocare dalle suore. Noi qui avevamo le suore di San Vincenzo a Varallo. Mia mamma ne aveva quattro di figli, non aveva tanto tempo di giocare con noi, perché aveva il più piccolo, mio fratellino che aveva due anni allora non aveva tanto tempo a disposizione la mia mamma e allora si giocava tra noi fratelli e sorelle e poi si andava come dico dalle suore. Si giocava a tanti giochi: si giocava alla settimana che era un gioco molto divertente e si tracciava una settimana con tutti... dal lunedì alla domenica, si prendeva un sassolino, si tirava in una casella poi si saltava, se si centrava... se il sassolino ti andava su una riga perdevi e dovevi ricominciare da capo.
Pier Giovanni Cavigioli, classe 1937, intervistato da Agata Bozzo RolandoE quelli ricchi avevano già qualcosa. Prendevano anche… quelli che avevano qualche soldo prendevano anche il calcio balilla quelle cose lì... Noi ci accontentavamo di avere un’arma magari... una rivoltella per giocare ai cowboy... fatta di legno.
Carlo Gualdi, classe 1955, intervistato da Chiara GualdiDa bambino mi piaceva costruire i miei giocattoli, il mio gioco preferito erano le armi primitive: arco, frecce e lance, che mi costruivo da solo. Cercavo di costruirle nella maniera più realistica possibile, documentandomi su di un’enciclopedia. Erano talmente realistiche che una volta ho tirato una freccia che si è piantata nel sedere di un gallo; per toglierla mio papà ha dovuto inseguirlo per tutto il prato dietro casa mia, poi ha inseguito anche me.
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A me piaceva soprattutto giocare da solo. Quando ero con i miei amici del mio quartiere, di solito si giocava a nascondino. C’erano giochi che gli adulti proibivano di fare? I giochi proibiti erano la lippa e la fionda, perché erano particolarmente pericolosi. Trovo i giochi moderni poco educativi e soprattutto troppo individualistici e non consentono di socializzare.
Flavio Pistore, classe 1971, intervistato da Sophia Pistore e Agata Bozzo RolandoGiocavo tanto con le macchinine, in particolare
con una Ferrari Testa Rossa. Giocavo sulla discesa dei box... Giocavo che in pratica la macchina la facevo scendere dalla discesa e doveva stare su una striscia di cemento senza uscire di strada.C’erano i lego, poi c’erano, va beh i giochi da tavolo, quelli Monopoli, Risico e poi c’era anche quello che non mi hanno mai regalato da piccolo, però avrei voluto averlo, era il Meccano, quello delle costruzioni.
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Ripensando all’esperienza
Metariflessione
Teodora Buda, II BAnche se non ho letto i miei racconti davanti alla classe, essendo troppo timida, è stato bel-lissimo ascoltare i miei compagni, sono stata molto attenta, era interessante. [...] L’intervi-sta è stata un po’ difficile, per essere sincera, a causa della persona intervistata. Quando ho iniziato a leggere una domanda lei già mi dice-va che non si ricordava niente [...]. Mi ricordo che verso metà dell’intervista l’ho guardata at-tentamente negli occhi e aveva le lacrime: non le ho detto niente, mi aspettavo che mi dicesse cosa sentiva, però non è stato così. Ha conti-nuato a dirmi che non si ricordava niente.
Silvia Botta, II BNon ho mai letto nulla di mio, trovavo che fos-sero cose che non sarei mai riuscita a dire e a leggere. Ho ascoltato con molta attenzione le storie degli altri, sembrava rispecchiassero la mia vita.
Davide Sagliaschi, II BMi è piaciuto molto ascoltare i racconti dei miei compagni. Nelle loro storie trovavo me stesso, mi venivano in mente episodi che mi facevano voglia di tornare a quell’età... però tornare a quell’età con la mentalità, con la “sapienza” che ho adesso. Mi divertirei un sacco, forse, anche più di adesso.
Alessandro Lometti, II BIo sono un ragazzo diciamo un po’ timido: infatti, quando sono andato a leggere i miei scritti ai miei compagni ero molto, ma molto, emozionato e, se devo essere sincero, anche un po’ spaventato. Però ho scoperto che è molto ri-lassante e mi ha aiutato ad aprirmi di più con il mondo intero, e non è un’esagerazione.[...] Una parte decisamente interessante è quel-la di dare parola agli altri ascoltandoli, anche divertendosi con loro. Posso dire che quando arriva il momento di ascoltare gli altri sono tutto orecchi anche dalla curiosità che ho di ascoltarli e sentire le loro opinioni. Nel fare le interviste ero molto emo zionato e decisamente curioso nell’apprendere i giochi, passatempi, attività dei tempi che io non conosco.
Irene Messina, II BScrivere di me stessa è stato molto bello, quan-do rileggevo ad alta voce i miei testi sentivo tutti i miei ricordi [...]. Leggere i miei scritti non è stato sempre facile perché in alcuni te-sti c’erano scritte le mie emozioni e avevo pau-ra che i miei compagni mi avrebbero preso in giro. Invece alla fine della lettura, vedendo che era piaciuto a tutti i miei compagni, ero felicis-sima [...].
Othman Essat, II CQuando stavamo intervistando la signora, ab-biamo notato che prima di iniziare l’intervista
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lei ci disse che non poteva esserci tanto utile perché non ricordava niente. Invece, quando abbiamo iniziato, lei è partita e non la ferma-va più nessuno. Abbiamo notato che provava molte emozioni: è tornata bambina e nelle sue parole anch’io mi sono trasformato in un bam-bino insieme a lei.
Lorenzo Zilio, II CQuando ho scritto di me, ma soprattutto quan-do ho compilato l’ologramma, devo dire che un po’ mi sono emozionato a ricordare la mia in-fanzia. Poi, quando ne ho parlato con i miei compagni, mi sono tornati in mente ancora altri mera-vigliosi ricordi che conservo gelosamente e di cui non cambierei una virgola. Io sono sempre andato a leggere perché penso che per tutti sia bello ascoltare e scoprire ciò che ciascuno com-binava da piccolo, magari anche con un bel sorriso. Inoltre adoravo ascoltare coloro che leggevano i propri scritti per capire se solo io sono un po’ “matto”, ma, per fortuna, mi sem-bra di non esserlo!
Lucrezia Gianina, II CFacendo l’intervista mi sono accorta che non è semplice far rispondere delle persone su un determinato argomento. Ogni persona può es-sere più o meno disposta a rispondere. La mia prozia è una persona molto solare e grazie a questo siamo riuscite facilmente ad intervi-starla: con una sola domanda generale è riu-scita a partire in quarta, poi abbiamo dovuto fermarla con domande più approfondite e pre-cise. Ha detto cose molto toccanti.La sbobinatura è stata un po’ difficile perché, oltre ad aver impiegato molto tempo, diceva delle parole in dialetto (parlava in modo natu-rale e scorrevole) che non conoscevamo e du-rante l’intervista ci spiaceva interromperla.
Miriam Alongi, II CAscoltare ciò che avevano scritto gli altri mi è
piaciuto e incuriosito molto, anche perché ho scoperto cose che non mi immaginavo nean-che. In quel momento non ho assolutamente staccato la testa pensando ad altro, sono ri-masta ad ascoltare con molta attenzione, come se dovessi apprendere una lezione... Anzi, no, quando ascolto una lezione sono meno concen-trata di come lo sono stata nell’ascoltare i miei compagni!
Francesco Faggian, II CÈ interessante conoscere le abitudini di un tem-po, confrontarle con quelle del giorno d’oggi e immortalarle in una registrazione per evitare che vadano perse. Sicuramente mio nonno era un po’ commosso ricordando quei momenti, anche se non lo di-mostrava esternamente. Non esitava, ci rac-contava qualsiasi episodio, si ricordava del suo passato.
Gloria Carmellino, II CScrivere un’autobiografia è facilissimo: non puoi sbagliare perché nessuno ti conosce me-glio di te stesso; almeno per me è piuttosto semplice, puoi decidere tu cosa scrivere, cosa far sapere agli altri su te stessa. L’unico pro-blema mio è che divago un sacco e devo spesso tornare indietro per cancellare parti che non c’entrano niente. Anche leggere davanti alla classe quello che hai scritto è facile perché sei tu che hai scritto quelle cose e se non vuoi che gli altri sappiano quello che hai scritto non devi necessariamente scriverlo. Sei libero di scegliere cosa scrivere.
Gemma Brentazzoli, II CFare le interviste mi ha permesso di conoscere un passato vivo ed energico, spesso trascura-to. Ho appreso anche nuovi giochi, modalità di divertimento, ma, soprattutto, che da una cosa piccola, anche inutile, si può ottenere mol-to, basta attivare la nostra fantasia e lasciarsi andare.
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Gabriella Palomino, II CQuando i miei compagni leggevano quello che avevano scritto io ascoltavo ogni singola pa-rola che usciva dalla loro bocca. È bello condi-videre con tutti ciò che si scrive e, in effetti, ci vuole anche un po’ di coraggio. I miei compa-gni sono stati molto bravi, hanno condiviso ciò che pensano, alcuni ci mettono molta passione nel condividere ciò che scrivono, altri meno.
Paolo Savia, II AMi sono sentito come un giornalista: intervi-stare e sbobinare è stato stupendo.
Martina Vittoni, II AAll’inizio non volevo fare l’intervista perché per me non aveva senso, ma ascoltando quello che diceva il mio intervistato è stato molto piacevo-le e mi sono divertita.
Martina Nettis, II AAscoltare l’intervista è stata la cosa che mi è piaciuta di più, era interessante, era come proiettarsi nel passato e mettersi nei panni di
qualcun altro e capire quanto una volta le cose erano diverse. La sbobinatura è stato il lavoro un po’ più noioso, ma comunque sono riuscita a ripercepire le emozioni che provavo e che pro-vava l’intervistato in quel momento.
Tommaso Lometti, II ANello scrivere mi sono impegnato molto, mi sono divertito, mi sono anche un po’ stupito di me stesso perché non pensavo di saper scrivere abbastanza bene, in pratica mi sottovalutavo non pensando alle mie capacità.
Matteo Buscema, II AMi sono impegnato a scrivere il più possibile cose di me e degli altri e ho trovato i miei rac-conti abbastanza piacevoli. Quando andavo alla cattedra per leggere il racconto ero sem-pre impaurito ma, alla fine, con un applauso dei miei compagni tornavo al posto soddisfat-to. Nell’ascoltare gli altri, invece, ero curioso nel sentire le loro storie perché ognuno di noi aveva un qualcosa di diverso dall’altro e ciò mi interessava molto.
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Siamo giunti al termine del racconto di que-sta esperienza educativa che ha cercato di favo-rire l’incontro tra diverse generazioni attraverso lo strumento della narrazione e lo scambio di memorie. È proprio l’incontro il filo rosso che ha accompagnato il nostro lavoro, dando un senso e una continuità alle varie fasi del progetto.
Innanzitutto, incontro con se stessi: scri-vere di sé significa essere in grado di fermarsi, di sostare e di guardarsi dentro, mettendosi in ascolto del proprio mondo interiore. In una so-cietà dove la fretta, l’immediatezza, il bombar-damento continuo di stimoli esterni sembrano rappresentare il paradigma vincente, ecco che il desiderio e la capacità di rallentare per “cammi-narsi dentro”, per costruire significati all’espe-rienza, per indagare la propria soggettività, ap-pare come una postura inattuale, decisamente in controtendenza rispetto ai processi lineari e veloci che di solito vengono richiesti.
Ben sappiamo come, in campo educativo, sia importante lasciare spazio anche a ciò che, pur sembrando obsoleto, indica una strada per uscire dal linguaggio della tribù, una strada che porti a un altro sguardo di rappresentazione del mondo e di approccio a esso. Ciò significa impa-rare a vivere anche le dimensioni del silenzio e della solitudine, così come ci suggerisce Adria-na Zarri: «La solitudine non è una fuga: è un
incontro, così come il silenzio è un continuo, ininterrotto dialogo. Non si sceglie la solitudi-ne per la solitudine ma per la comunione, non per stare soli ma per incontrarsi, in un modo diverso, con Dio e con gli uomini. Si potrebbe forse dire che la solitudine è la forma eremitica dell’incontro»21.
Il silenzio diventa occasione di prossimità con se stessi, possibilità di renderci più vicini e conoscibili a noi stessi in primo luogo.
C’è poi l’incontro con l’altro, con il suo volto, le sue parole, i suoi ricordi. Grazie alla narra-zione, si sono condivise esperienze e, del resto, la possibilità di scambiare storie non solo è una delle più antiche pratiche umane, ma può anche divenire un’azione sociale in grado di facilitare dialoghi e, talvolta, arrivare a lambire ambiti impensati. L’ascolto delle parole dell’altro fun-ziona da potente detonatore di ricordi ed emo-zioni: le narrazioni dell’uno divengono risonan-ze per l’altro, occasione per ritrovare dentro di sé esperienze e percorsi esistenziali. Lo diceva bene Gianni Rodari nella “Grammatica della fantasia”: «Il sasso nello stagno. Un sasso getta-to in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea, la barchetta di carta e il galleg-giante del pescatore. Oggetti che se ne stavano
21 AdriAnA ZArri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Torino, Einaudi, 2011, p. 28.
Conclusioni
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ciascuno per conto proprio, nella propria pace, sono come richiamati in vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra loro. Altri movimen-ti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smoven-do alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta oggetti che vi giacevano dimenticati, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia. Innumerevoli eventi, micro even-ti, si succedono in un tempo brevissimo. Non diversamente la parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagi-ni, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la me-moria, la fantasia e l’inconscio e che è compli-cato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, col-legare e censurare, costruire e distruggere»22.
Del resto, anche il teologo e filosofo spagnolo Raimon Panikkar sosteneva che «l’altro è sem-pre diverso da noi, ma non è mai completamen-te estraneo», ovvero, l’altro racconta sempre anche un po’ di noi, ci rivela aspetti sconosciuti o solo adombrati di ciò che siamo, di ciò che col-tiviamo dentro di noi. Per questo motivo, il con-fronto con l’altro diviene passaggio fondamen-tale per arrivare a una più autentica e profonda conoscenza di noi stessi.
Infine, l’incontro tra le storie soggettive di ognuno di noi e la Grande Storia, quella che tro-viamo nei libri e nei giornali. Nelle narrazioni personali viene raccontata la vicenda esisten-ziale del singolo, con quanto di gioioso, doloro-so, poetico, avventuroso ciascuno si è trovato a vivere. Sono proprio queste storie individuali a
nutrire, ad alimentare il dispiegarsi delle grandi vicende nazionali e transnazionali che tutti noi conosciamo come la Storia. Essa rappresenta il fondale su cui si muove l’esistenza della gente “comune”, ovvero di coloro che sono testimoni e portatori di memoria viva, che nasce dall’e-sperienza quotidiana, vissuta tra piccoli e gran-di eventi. Sicuramente, nel momento in cui una comunità decide di valorizzare il suo patrimo-nio di memorie attraverso la raccolta e la dif-fusione di esse, a beneficiarne è la sensibilità e l’attenzione nei confronti del singolo e della co-munità stessa.
Desideriamo concludere questo nostro lavo-ro, ricordando il meraviglioso libro di Italo Cal-vino, “Le città invisibili”, dove, parlando della città di Eufemia, l’autore scriveva: «Non solo a vendere e a comprare si viene a Eufemia, ma anche perché la notte accanto ai fuochi tutt’in-torno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice - come “lupo”, “sorella”, “tesoro nascosto”, “battaglia”, “scabbia”, “amanti” - gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di batta-glie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti atten-de, quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensa-re tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, la tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio»23.
Ecco, allora, che l’auspicio è quello di valo-rizzare l’incontro con l’altro, dove, davanti al fuoco acceso, sia ancora possibile imparare a condividere le proprie narrazioni, in un intrec-cio che vivifica l’esperienza di ciascuno e crea reti di legami e di appartenenza sociale.
22 GiAnni rodAri, Grammatica della fantasia, Torino, Einaudi, 1973, p. 7.23 itAlo CAlvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 2010.
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Indice
Prefazione p. 1
Da “Cuore” a “Carosello”. Note per un percorso su tempo della scuola e tempo libero nella storia degli italiani, di Enrico Pagano p. 3
La mia e la nostra storia. La scuola della memoria.Progetto di scrittura autobiografica e di raccolta di storie di vita, di Barbara Calaba
Il progetto p. 19Le nostre parole p. 29Le parole degli altri p. 42Ripensando all’esperienza p. 48Conclusioni p. 51
Finito di stampare nel mese di giugno 2017