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Scuola e FORMAZIONE Trimestrale della Cisl Scuola – Taxe Perçue Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – 70% NE/PD anno XX n. 2 – apr/giu 2017 AFFINATI – AIELLO – BROCCA – BRUNI – COLOMBI – DE SILVESTRI – GASPARINI – GISSI – GOBBI KAISER – LAMA – LANGER – MANTEGAZZA – MORTARI – PAPA FRANCESCO – TOLA EDITORIALE SPECIALE CONGRESSO SINDACATO E SOCIETÀ n Eraldo Affinati n Luigino Bruni n Luigina Mortari n Chiamale, se vuoi, sperimentazioni DENTRO LE PAROLE n Interstizio n All’altezza del compito

Scuola · riflessione, ... Sulle strade di don Lorenzo Milani, Mondadori, 2016. Ha curato l’edizione completa delle opere di Mario Rigoni Stern, Storie dall’Altipiano, I Me-

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PD anno XX n. 2 – apr/giu 2017

AFFINATI – AIELLO – BROCCA – BRUNI – COLOMBI – DE SILVESTRI – GASPARINI – GISSI – GOBBI KAISER – LAMA – LANGER – MANTEGAZZA – MORTARI – PAPA FRANCESCO – TOLA

EDITORIALE

SPECIALE CONGRESSO

SINDACATO E SOCIETà

n Eraldo Affinatin Luigino Brunin Luigina Mortari

n Chiamale, se vuoi, sperimentazioni

DENTRO LE PAROLE

n Interstizio

n All’altezzadel compito

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Servono momenti di sosta. Nei percorsi lunghi e complessi dell’esistenza, sia per quella individuale che per quella di una organizzazione, è indispensabile, di tanto in tanto, fermarsi, riprendere forza, considerare la strada percorsa e quella ancora da fare. Per non tradire la vocazione

delle origini e non mancare le attese e le sfide che continuano ad esserci e che ancora verranno.Sono i tempi preziosi del portare a frutto l’esperienza accumulata e prepararsi al nuovo che appare; ripren-

dere energia, andare verso l’aperto.Per noi, Cisl Scuola, questo è avvenu-

to a maggio, al Congresso; un appunta-mento importante in cui, ogni quattro anni, attraverso la grande partecipa-zione degli iscritti si fa il punto sulle azioni condotte e le scelte fatte, sui ri-sultati ottenuti e gli insuccessi patiti; e così si ragiona e si parte con una visio-ne più chiara, la strategia più adeguata, l’organizzazione più adatta. Un lavoro sull’identità e sul progetto fra continuità e rinnovamento, fedeltà e innovazione.

Abbiamo cercato, nel nostro con-frontarci, di individuare un orizzonte più ampio verso il quale orientare la nostra

azione, proiettandola oltre l’ambito degli interessi im-mediatamente rappresentati. Collocando quindi anche questi ultimi in una dimensione che diventa più ricca di senso e di valore. Ci hanno aiutato in questo, fra gli altri, Eraldo Affinati e Luigino Bruni, partecipando ai la-vori congressuali. Con loro il colloquio continua anche sulla nostra Agenda. Parole per una economia civile e pensieri per l’educazione sono gli ambiti affidati alla loro riflessione. Agli spunti che mensilmente compa-iono nell’Agenda si accompagneranno gli approfondi-menti pubblicati sul nostro sito. Buon anno scolastico, buon lavoro.

Maddalena Gissi

Di giorno in giornocon la nostra agenda

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scuola e forMazione 3

“Più lentamente,più in profondità,con più dolcezza”

Alexander Langer

L eggerezza e forza, queste le caratteristiche delle pa-role necessarie per educare.

Leggère sono le parole dell’attenzione e della cu-ra, della speranza e dell’aiuto. Sono le parole della fidu-cia e dell’ospitalità.

Forti sono le parole dell’impegno e del compito, del-la fatica e dell’entusiasmo. Sono le parole dell’invito e del coraggio.

Poi capita, a scuola e fuori di scuola, che queste paro-le s’incontrano e si mescolano, s’incatenano e si confon-dono; e allora ci si accorge che il loro significato è uno ed è il significato della vita e dell’incontro.

Ce ne accorgiamo anche in questo numero della rivi-sta che dà conto, in particolare, del Congresso naziona-le Cisl Scuola di fine maggio e di cui sentiamo l’eco nei contributi di Eraldo Affinati, di Luigino Bruni, di Lui-gina Mortari.

E quasi in controcanto e in armonia troviamo le pa-role di Alexander Langer scelte per la rubrica Sestante. Goffredo Fofi, parlandone, diceva: “Se si dovesse chiu-dere in una formula ciò che Alex ci ha insegnato, essa non potrebbe che essere: piantare la carità nella politi-ca. Proprio piantare, non inserire, trasferire, insediare. E cioè farle mettere radici, farla crescere, difenderne la forza, la possibilità di ridare alla politica il valore della responsabilità di uno e di tutti verso la cosa pubblica, il bene comune, verso una solidarietà tra gli umani e tra loro e le altre creature”.

È di questo senso alto della politica che anche la scuo-la, il sindacato e noi ci occupiamo. (G.C.)

P R E S E N T A Z I O N E

Parole leggereParole forti LE

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I l filo rosso di questo numero di Scuola e Formazione è un discorso sui valori e sul fare comunità, tema al centro dell’impegno

congressuale della Cisl Scuola che, anche collegato con le tematiche e l’impegno confederale, è sviluppato nell’Editoriale di Maddalena Gissi e nella sintesi della sua ampia relazione. In Altre voci una presenza assolutamente straordinaria, sia per l’autore, che per il messaggio che ci invia: Papa Francesco sul valore della persona, sul lavoro “che fa vivere e porta avanti il mondo”, sulla necessità che il sindacato sia profezia. Voci importanti anche quelle dei tre ospiti intervenuti al nostro congresso: Eraldo Affinati, Luigino Bruni e Luigina Mortari. In Sindacato e società: la mozione finale del nostro congresso che disegna la linea strategica con gli impegni della nostra organizzazione collegandosi alla politica confederale che al suo congresso confermava la segretaria generale Anna Maria Furlan e la sua linea politica. Ritorniamo poi sul tema della mobilità dove il contratto vince e ce lo confermano i dati sui trasferimenti ottenuti direttamente su scuola, che sono la stragrande maggioranza. Beniamino Brocca, protagonista autorevole di una stagione importante della politica scolastica nazionale, ci propone, in Passaggi e orme, una prima riflessione, puntuale, documentata e critica sul ruolo della sperimentazione scolastica e su alcuni momenti decisivi del suo fiorire. Con Le storie, presentiamo una esperienza, condotta e coordinata da Massimiliano Colombi: le Antenne Sociali un’esperienza ammirevole da continuare, disseminare sviluppare. Con Luigi Lama continuiamo la nostra esplorazione sui fondamenti e i valori della Cisl. E poi l’appuntamento atteso con degli amici e autori fissi: Raffaele Mantegazza, Donato De Silvestri, Lorenzo Gobbi, Gianni Gasparini e Leonarda Tola.

AlexAnder lAnger

Il testo ha ispirato la copertina realizzata da eva Kaiser.

Caro San CristoforoIn SeStante

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G L I A U T O R I

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Eraldo Affinati, scrittore e insegnante. Insieme alla moglie, Anna Luce Lenzi, ha fondato la “Pen-ny Wirton”, una scuola gratuita di italiano per immigrati. Tra i suoi scritti ricordiamo Elogio del ripetente, Mondadori, 2013; L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Mondadori, 2016. Ha curato l’edizione completa delle opere di Mario Rigoni Stern, Storie dall’Altipiano, I Me-ridiani, Mondadori, 2003.Gaia Aiello, giornalista. Racconta l’esperienza condotta a San Pietro Clarenza da Rosaria Cata-nia e Liliana Di Bella.Beniamino Brocca, pedagogista e politico, più vol-te parlamentare e sottosegretario al ministero della Pubblica Istruzione. Docente presso l’Università di Bolzano e l’Università La Sapienza di Roma.Luigino Bruni, professore ordinario di Economia politica all’università Lumsa di Roma ed editoria-lista di Avvenire, è tra i maggiori studiosi della tra-dizione italiana dell’economia civile. Coordinatore del progetto Economia di comunione, è autore di saggi tradotti in una decina di lingue.Massimiliano Colombi, sociologo, coordinatore di AnteasLab, il laboratorio di Anteas per la ri-cerca, la formazione e la sperimentazione sociale.Donato De Silvestri, professore a contratto di Di-dattica e Progettazione Educativa presso l’Univer-sità di Verona. È autore di Lavorare per progetti e I progetti europei e la progettazione nel sociale in Messetti G. (a cura di), Didattica e progettazione. Indicazioni operative per l’educatore, QuiEdit, Ve-rona 2016.Gi(ov)anni Gasparini, sociologo (Università Cat-tolica di Milano) e scrittore a tutto campo, si firma Giovanni in sociologia e Gianni in letteratura. Alla natura e alle stagioni ha dedicato vari volumi, l’ul-

timo è Silenzi e colori della natura, Mimesis 2016.Lorenzo Gobbi, la poesia, Rilke, Chagall, la scrit-tura per l’infanzia e altre passioni. L’insegnamen-to, con amore, in un istituto professionale a Vero-na. Sua la traduzione, le note e la cura di Lettera a un giovane di Rainer Maria Rilke, con prefazione di Enzo Bianchi, edito da Qiqajon.Eva Kaiser, illustratrice e pittrice, nata (molto tempo fa) 1972, vive e lavora a Lipsia.Luigi Lama è stato responsabile nazionale della formazione della Fim Cisl dal 1991 al 1996, poi ha iniziato l’attività al Centro Studi Cisl, dove è tuttora, e si occupa della formazione dei nuovi di-rigenti. Dal 2005 è professore a contratto al master interfacoltà in Valutazione, formazione e sviluppo risorse umane dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni sono per lo più disponibili nel sito del Centro Studi Cisl.Raffaele Mantegazza, innamorato dei temi reli-giosi e di ogni forma di resistenza nei confronti dell’arroganza del potere. Ho scelto l’unico me-stiere che tenesse insieme la mia passione per lo studio e il mio amore per i giovani e dunque insegno Scienze umane e discipline pedagogiche all’università Bicocca.Luigina Mortari, docente di epistemologia della ricerca qualitativa presso la Scuola di Medicina dell’Università di Verona, Direttore del Diparti-mento di Scienze Umane.Leonarda Tola, tutta la vita a scuola senza il tem-po, credevo, per scrivere il libro della mia vita. Ba-stano i grandi che mi corrispondono, mentre solo io so le poesie che forse ho scritto: della perdita e dell’abbandono alla corrente e al Mistero. Scrivo righe contate, in obbedienza, per fare il compito. Come a scuola.

LA COPERTINAdi Eva Kaiser

San Cristoforoper il testo di A. Langer

CREdITI fOTOGRAfICIPag. 63 – Marisa Merlin, Interstizi2

In questo numero le immagini di Gesti quotidiani sono tratti da un filmato di presentazione

del 6° Congresso Cisl Scuola prodottoda Punto a Capo Coo’ee.

“Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto.”Alexander Langer

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eDiToriale

n All’altezza del compito – Maddalena Gissi ......................................................................................................................6

alTre voci

n Discorso ai delegati della Cisl – Papa Francesco .................................................................................................8

sesTanTe

n Caro San Cristoforo – Alexander Langer ..............................................................................................................................10

sinDacaTo e socieTà

6° congresso

n Generare valori – Sintesi della relazione di Maddalena Gissi ..................................................15

n Il sogno di un’altra scuola – Eraldo Affinati ................................................................................................................24

n La scuola e le sfide del mercato – Luigino Bruni .................................................................................................27

n Il sapere della cittadinanza – Luigina Mortari.........................................................................................................30

n Mozione finale ...................................................................................................................................................................................................................................33

Xviii congresso cisl

n Una conferma unanime per Annamaria Furlan .................................................................................................37

n Mobilità, il contratto vince: i dati lo confermano ............................................................................................38

Passaggi e orme

n Chiamale, se vuoi, sperimentazioni – Beniamino Brocca ..............................................................40

le storie

n “Antenne Sociali”: da soli a solidali – Massimiliano Colombi ...........................................43

n A San Pietro Clarenza il volontariato fa rete – Gaia Aiello ......................................................47

identità

n I fondamenti della Cisl: autonomia e contrattazione – Luigi Lama .......................48

i Giorni Della viTa

n La levatrice dell’adolescenza – Raffaele Mantegazza .............................................................................51

QuesTioni Di cliMa

n Apprendere ed insegnare le buone relazioni – Donato De Silvestri ...................54

senza obbligo di catene

n Ho bisogno di un sostegno – Lorenzo Gobbi .............................................................................................................58

DenTro le Parole

n Interstizio – Gianni Gasparini........................................................................................................................................................................63

TrenTariGHe

n Le domande più che le risposte – Leonarda Tola ........................................................................................66

Scuola e Formazione

Periodico della CISL SCUOLA

Anno XX n. 2 aprile-giugno 2017

direttore

Maddalena Gissi

direttore responsabile

Alfonso Mirabelli

coordinatore di redazione

Giancarlo Cappello

redazione

Domenico Caparbi, Stefano Curti,

Mario Guglietti, Gianni Manuzio,

segreteria di redazione

Daniela Amore

scrivi a: [email protected]

direzione e amministrazione

Via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma

Tel. 06583111 Fax. 06 5881713

grafica e impaginazione

Gigi Brandazza Graphic Line - Milano

[email protected]

stampa

Mediagraf S.p.A.

Via della Navigazione Interna, 89

35027 Noventa Padovana (PD)

Autorizzazione: Tribunale di Roman. 615 del 6.11.1997

Poste Italiane S.p.A.Spedizione in Abbonamentopostale – 70% NE/PDGratuito ai Soci - Copie 219.000

Tassa pagata - Taxe percue Roma

Internet: www.cislscuola.it

Associato all’USPIUnione Stampa Periodica Italiana

Consegnato in tipografia il 1 agosto 2017

S O M M A R I O

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Maddalena Gissi

L a nostra lunga e intensa stagione congres-suale si è chiusa il 1° luglio con la confer-ma di Annamaria Furlan alla guida del-

la Cisl, al termine di un congresso quanto mai ricco di stimoli e di emozioni, così come lo era stato quello della nostra federazione di catego-ria, svoltosi un mese prima a Castellaneta. A quest’ultimo, che chi è interessato può rivive-re pressoché integralmente attraverso la ricca documentazione video disponibile sul nostro sito internet, è dedicato ampio spazio in que-ste pagine, nelle quali si dà conto dei momenti salienti e delle decisio-ni assunte, a partire da quelle riguardanti l’ele-zione degli organi statu-tari cui è affidato per i prossimi quattro anni il governo della Cisl Scuo-la. In quello confedera-le, come già nel nostro, quantità e qualità degli interventi sono state ar-ricchite anche da nume-rosi contributi esterni che hanno trasforma-to per quattro giorni il Palazzo dei Congres-si all’Eur in un vero e proprio crocevia del di-battito politico, una volta tanto costretto a mi-surarsi sulle emergenze reali che investono la nostra società e il mondo e non sulle consuete schermaglie da perenne campagna elettorale cui siamo abituati ad assistere.

Tema centrale e filo conduttore dei lavori congressuali è stato il lavoro: da difendere, da promuovere, da garantire a tutti come fattore essenziale di realizzazione della persona. Una priorità assoluta per un sindacato che voglia e sappia “continuare a continuare a svolgere il suo ruolo essenziale per il bene comune”. Uso volu-tamente le parole che Papa Francesco, ancora una volta sorprendente per la capacità di unire

semplicità e profondità nel suo argomentare, ha rivolto ai delegati ricevuti in udienza alla sala Paolo VI la mattina del 28 giugno, prima che prendessero avvio, nel pomeriggio, i lavori del congresso della Cisl. Colpiscono per effi-cacia e bellezza alcune delle espressioni usate: l’individuo che si fa persona “quando fiorisce nel lavoro”, il lavoro come “forma di amore civile”, che fa vivere e porta avanti il mondo. Ed è tratteggiata, in modo essenziale e inequi-vocabile, la missione che a queste affermazio-

ni consegue, per quanti vogliano farsene carico agendo nella politica e nel sociale: “costruire un nuovo patto sociale umano, un nuovo patto sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagio-ne lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare. Il dono del lavoro è il primo dono

dei padri e delle madri ai figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la prima dote con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta”.

Altrettanto efficaci e dirette le espressioni usate da Papa Francesco per richiamare le “sfi-de epocali” che il sindacato è chiamato oggi ad affrontare e nelle quali sono in gioco il senso e il valore della sua presenza nella società. La sfida della profezia e dell’innovazione: dare voce a chi non ce l’ha, evitare ogni omologazione con istituzioni e poteri, mantenere un profilo di netta distinzione rispetto alla politica e non rinchiudersi nella rappresentanza di chi già dispone di diritti e tutele, ma farsi carico degli esclusi e degli ultimi, abitando e lottando non solo nei luoghi del lavoro, ma anche nelle tante

All’altezzadel compito

E D I T O R I A L E

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“periferie esistenziali” del nostro presente. “Il movimento sindacale ha le sue grandi sta-

gioni quando è profezia”: calate nel contesto di una discussione volta a stilare un bilancio delle cose fatte, ma soprattutto a delineare in pro-spettiva progetti e percorsi, sono parole che toccano in profondità intelletto e coscienza. Di ciascuno di noi e dell’organizzazione nel suo insieme.

Una “sfida della profezia” era stata per noi, in precedenza, anche quella legata alla figura di don Lorenzo Milani: la ricorrenza del cinquan-tesimo della morte ha contribuito a far sì che la sua vita e le sue opere diventassero un preciso punto di riferimento del nostro percorso con-gressuale, ma ancor più e più in generale del nostro impegno ad affermare un’idea di scuola che promuove libertà, giustizia, uguaglianza e dignità della persona. Aveva questo signifi-cato la salita a Barbiana come atto conclusivo dell’ultimo corso di formazione quadri svolto al centro studi di Firenze: un atto di omaggio e l’assunzione di un impegno, sapendo quanto sia difficile e faticoso mantenere nelle scelte personali e di organizzazione una linea di co-erenza quando i modelli sono così alti e nobili. Abbiamo provato sentimenti di gratitudine e di profonda commozione quando papa Fran-cesco ha pregato sulla tomba di don Milani, e poco prima su quella di don Mazzolari, e mai come in quest’occasione sono apparsi stonati e miopi i tentativi di piegarne il ricordo entro limiti angusti della polemica politica.

È nella cornice di queste grandi suggestio-ni che riparte, a congresso ultimato, il nostro cammino. La prima tappa che ci attende, im-pegnativa e difficile, è quella del rinnovo del contratto nazionale di lavoro. È difficile che i margini di manovra di cui disponiamo siano sufficienti per soddisfare appieno le attese di una categoria su cui non pesa soltanto l’abnor-me lasso di tempo trascorso dall’ultimo rinno-vo: è stata l’Ocse, nei giorni scorsi, a riproporre in tutta la sua evidenza la distanza esistente tra le retribuzioni degli insegnanti italiani e quelle di altri Paesi. Con l’aggravante di un andamento in negativo che ne ha visto calare del 7% il potere d’acquisto, mentre altrove si è registrata una tendenza opposta, con più o meno significativi incrementi. Gli stipendi dei docenti sono la spia di una condizione re-tributiva complessivamente inadeguata per tutti i profili operanti nel settore, dal collabo-ratore scolastico alla dirigenza. La questione

non riguarda unicamente i livelli di reddito che dalle nostre retribuzioni discendono, quanto piuttosto il livello di considerazione e apprezzamento che viene riservato a chi lavora nell’ambito del nostro sistema di istruzione, livello evidentemente diverso e più basso di quanto accada altrove. Ecco perché il rinnovo contratto, pur prendendo avvio in un contesto di risorse limitate, non può rimanerne soffoca-to se si vuol dare al personale della scuola non la soluzione – impossibile – di tutti i proble-mi, ma almeno un primo concreto e credibile segnale di rinnovata attenzione. Non sono mancate, nei giorni scorsi, prese di posizione apprezzabili da parte della ministra Fedeli e di altri esponenti politici di varia appartenenza. Ne prendiamo atto volentieri, in attesa che alle parole segua la verifica dei fatti.

L’accordo dello scorso novembre indica, per la parte economica, una priorità da rico-noscere alle fasce retributive più basse, quelle che più pesantemente hanno risentito degli effetti della crisi e del prolungato blocco del contratto. Contiene anche l’impegno esplicito a evitare che gli incrementi salariali possano essere vanificati dall’eventuale venir meno di benefici fiscali (gli 80 euro) in preceden-za riconosciuti: situazioni che andranno a tal fine attentamente verificate per approntare i necessari correttivi. È solo una delle tante questioni che saranno affrontate e discusse al tavolo della trattativa, con l’auspicio che que-sto possa prendere il via quanto prima e che trovi conferma, nel negoziato, la disponibilità manifestata dall’Amministrazione con la scelta innovativa di discutere con i sindacati i conte-nuti del proprio atto di indirizzo.

La Cisl Scuola giunge preparata all’appun-tamento del rinnovo contrattuale. Il dibattito congressuale è stata anche l’occasione per mettere meglio a fuoco obiettivi e priorità. Ogni contratto è una sfida, nella quale alla fine contano i risultati ottenuti, non le ambizioni dichiarate. Costruire risultati è sempre stata la nostra preoccupazione e il nostro obiettivo, anche in tempi e situazioni di straordinaria difficoltà; non sempre ci si riesce, ma capita anche, talvolta, di raccogliere frutti che vanno oltre le aspettative. Quanto ottenuto quest’an-no sulla mobilità ne è un chiaro esempio. L’au-gurio è che sia di buon auspicio per la tratta-tiva per il nuovo contratto: contiamo di saper essere anche in questa circostanza all’altezza del compito.

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C ari fratelli e sorelle,vi do il benvenuto in occasione del vostro

Congresso, e ringrazio la Segretaria Generale per la sua presentazione.

Avete scelto un motto molto bello per questo Congresso: “Per la persona, per il lavoro”. Perso-na e lavoro sono due parole che possono e devo-no stare insieme. Perché se pensiamo e diciamo il lavoro senza la persona, il lavoro finisce per di-ventare qualcosa di disumano, che dimenticando le persone dimentica e smarrisce sé stesso. Ma se pensiamo la persona senza lavoro, diciamo qualco-sa di parziale, di incompleto, perché la persona si realizza in pienezza quando diventa lavoratore, lavoratri-ce; perché l’individuo si fa persona quando si apre agli altri, alla vita sociale, quando fiorisce nel lavoro. La perso-na fiorisce nel lavoro. Il la-voro è la forma più comune di cooperazione che l’uma-nità abbia generato nella sua storia. Ogni giorno milioni di persone cooperano sem-plicemente lavorando: educando i nostri bambini, azionando apparecchi meccanici, sbrigando prati-che in un ufficio... Il lavoro è una forma di amore civile: non è un amore romantico né sempre inten-zionale, ma è un amore vero, autentico, che ci fa vivere e porta avanti il mondo.

Certo, la persona non è solo lavoro... Dobbia-mo pensare anche alla sana cultura dell’ozio, di saper riposare. Questo non è pigrizia, è un biso-gno umano. Quando domando a un uomo, a una donna che ha due, tre bambini: “Ma, mi dica, lei gioca con i suoi figli? Ha questo ‘ozio’?” – “Eh, sa, quando io vado al lavoro, loro ancora dormono, e

quando torno, sono già a letto”. Questo è disuma-no. Per questo, insieme con il lavoro deve andare anche l’altra cultura. Perché la persona non è solo lavoro, perché non sempre lavoriamo, e non sem-pre dobbiamo lavorare. Da bambini non si lavo-ra, e non si deve lavorare. Non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi. Ci sono molte persone che ancora non lavorano, o che non lavorano più. Tutto questo è vero e conosciuto, ma va ricordato anche oggi, quando ci sono nel mon-do ancora troppi bambini e ragazzi che lavorano e non studiano, mentre lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi. E quando non

sempre e non a tutti è ricono-sciuto il diritto a una giusta pensione – giusta perché né troppo povera né troppo ric-ca: le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni. O quando un lavoratore si ammala e viene scartato an-

che dal mondo del lavoro in nome dell’efficienza – e invece se una persona malata riesce, nei suoi limiti, ancora a lavorare, il lavoro svolge anche una funzione terapeutica: a volte si guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.

È una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quan-do dovrebbero farlo per loro e per tutti. Quando i giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle im-prese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità. È allora urgente un nuovo patto sociale umano, un nuovo patto sociale per il lavoro, che ri-duca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che han-no il diritto-dovere di lavorare. Il dono del lavoro è

A L T R E V O C I

La persona fiorisce nel lavoro. Il lavoro è la forma più comune di cooperazione che l’umanità abbia generato nella sua storia.

Discorso ai delegati della CislPaPa Francesco

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Vorrei sottolineare due sfide epocali che oggi il movimento sindacale deve affrontare e vincere. La prima è la profezia, e riguarda la natura stessa del sindacato … il movimento sindacale ha le sue grandi stagioni quando è profezia. La seconda sfida è l’innovazione: vigilare sulle mura della città del lavoro.

il primo dono dei padri e delle madri ai figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la pri-ma dote con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta.

Vorrei sottolineare due sfide epocali che oggi il movimento sindacale deve affrontare e vincere se vuole continuare a svolgere il suo ruolo essenziale per il bene comune.

La prima è la profezia, e riguarda la natura stessa del sindacato, la sua vocazione più vera. Il sindaca-to è espressione del profilo profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denun-cia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i di-ritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”. Come dimo-stra anche la grande tradizione della Cisl, il movi-mento sindacale ha le sue grandi stagioni quando è profezia. Ma nelle nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe critica-re. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia. Questa è la profezia.

Seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono del-le sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e pro-tegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innova-zione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.

Il capitalismo del nostro tempo non compren-de il valore del sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa. Que-sto è uno dei peccati più grossi. Economia di mer-cato: no. Diciamo economia sociale di mercato, come ci ha insegnato San Giovanni Paolo II: eco-nomia sociale di mercato. L’economia ha dimen-ticato la natura sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato anche perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nel-

le periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro. Pensiamo al 40% dei giovani da 25 anni in giù, che non hanno lavoro. Qui. In Italia. E voi do-vete lottare lì! Sono periferie esistenziali. Non lo vede lottare tra gli immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Non lasciatevi bloccare da questo. So che vi state impegnando già da tempo nelle direzioni giuste, specialmente con i migranti, con i giovani e con le donne. E questo che dico potrebbe sembrare superato, ma nel mondo del lavoro la donna è ancora di seconda classe. Voi potreste dire: “No, ma c’è quell’imprenditrice, quell’altra...”. Sì, ma la donna guadagna di meno, è più facilmente sfruttata... Fate qualcosa. Vi in-coraggio a continuare e, se possibile, a fare di più. Abitare le periferie può diventare una strategia di azione, una priorità del sindacato di oggi e di do-mani. Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non tra-sformi le pietre scartate dell’economia in pietre an-golari. Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike, “giustizia insieme”. Non c’è giustizia in-sieme se non è insieme agli esclusi di oggi.

Vi ringrazio per questo incontro, vi benedico, benedico il vostro lavoro e auguro ogni bene per il vostro Congresso e il vostro lavoro quotidiano. E quando noi nella Chiesa facciamo una missione, in una parrocchia, per esempio, il vescovo dice: “Fac-ciamo la missione perché tutta la parrocchia si con-verta, cioè faccia un passo in meglio”. Anche voi “convertitevi”: fate un passo in meglio nel vostro lavoro, che sia migliore. Grazie!

E adesso, vi chiedo di pregare per me, perché anch’io devo convertirmi, nel mio lavoro: ogni giorno devo fare meglio per aiutare e fare la mia vocazione. Pregate per me e vorrei darvi la benedi-zione del Signore.

(Aula Paolo VI, mercoledì, 28 giugno 2017)

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Presentazione

s e s t a n t e

Ho conosciuto Alex Langer e gli sono stato anche vicino ma non quanto avrei dovuto, e questo è uno dei grandi rimpianti della mia vita (ma dovrei anche aggiungere di aver sottovalutato l’incontro

con altre persone straordinarie, note e comuni, che ho avuto la ventura di conoscere e frequentare e del cui valore non mi sono accorto a sufficienza o alle quali non ho voluto bene abbastanza, ma questa è, credo, una tra-gedia molto comune...). Lo considero infatti una delle persone più bel-le, più generose e intelligenti che il movimento del ‘68 abbia prodotto. Aveva, diciamo così, dei privilegi di partenza: essere nato in una famiglia borghese in Sud-Tirolo/Alto Adige, bilingue, colta e di convinzioni mo-rali e religiose forti, tra cattolicesimo, protestantesimo ed ebraismo; aver studiato a Firenze, vicino a don Lorenzo Milani; aver preso parte attiva alla fase nascente del movimento del ‘68 e aver scelto come gruppo di ri-ferimento Lotta continua, che fu comunque, nel bene e nel male, il meno “bolscevico” dei gruppi nati dalla crisi del ‘68, ma aver scelto un proprio campo di azione ai margini del gruppo, che fu peraltro tra i più inquina-ti dal leaderismo carismatico. Infine, essersi trovato a dover sostenere un ruolo di primo piano nella reazione italiana al conflitto fratricida esploso nella ex-Jugoslavia post-titina. Così come aveva scelto di “far da ponte” nella sua regione tra “italiani” e “tedeschi”, così teorizzò, praticandola toto corde, una funzione di ponte tra i gruppi etnici in lotta, partendo da un’impostazione nonviolenta e tuttavia non astratta, che considerava in-dispensabile l’intervento per bloccare i violenti. Resto convinto che, mol-to più che le ragioni private, sia stata la difficoltà del ruolo che si era scel-to, la difficoltà di “far da ponte” nel pieno dei massacri, e il sentirsi non sufficientemente sostenuto da quel che restava dei movimenti, o da quel-li nuovi e transitori, ad aver spinto Alex al suicidio, ad aver fiaccato la sua capacità di resistenza. Resto altresì convinto che i suoi scritti (raccolti in Il viaggiatore leggero, editi da Sellerio e continuamente ristampati) siano la migliore eredità, se non l’unica, del movimento del ‘68, le cui teorizza-zioni iniziali erano sacrosante ma la cui deriva “gruppettara” e “lenini-sta” fu all’origine della sua breve durata, o meglio: del recupero dei suoi membri, in particolare i più centrali e prepotenti, nelle logiche della po-litica più tradizionale o del giornalismo di successo. Rileggere gli scritti di Alex Langer non ha oggi niente di nostalgico, è un modo di affronta-re anche questo presente, l’indicazione di un metodo basato sui valori di fondo delle tradizioni cristiana e socialista. La leggenda di san Cristofo-ro, che traghetta un fanciullo che è il salvatore del mondo ma il cui peso è quello della Storia e dell’Umano, fu cara a Langer per i motivi che spiega nello scritto che segue, ma, al contrario di san Cristoforo, egli a quel pe-so non ha retto. Gli è pesata più forte, credo, la solitudine che la Storia, le cui difficoltà aveva messo da subito in conto.

Goffredo Fofi

grandi letture

AlexLa

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Da “Il viaggiatore leggero”

Caro San Cristoforo,non so se tu ti ricorderai di me come io di te.

Ero un ragazzo che ti vedeva dipinto all’esterno di tante piccole chiesette di montagna. Affreschi

spesso sbiaditi, ma ben riconoscibili. Tu – omone grande e grosso, robusto, barbuto e vecchio – trasportavi il bam-bino sulle tue spalle da una parte all’altra del fiume, e si capiva che quella era per te suprema fatica e suprema gio-ia. Mi feci raccontare tante volte la storia da mia madre, che non era poi chissà quale esperta di santi, né devota, ma sapeva affascinarci con i suoi racconti.

Così non ho mai saputo il tuo vero nome, né la tua collocazione ufficiale tra i santi della chiesa (temo che tu sia stato vittima di una recente epurazione che ti ha degradato a santo minore o di dubbia esistenza). Ma la tua storia me la ricordo bene, almeno nel nocciolo. Tu eri uno che sentiva dentro di sé tanta forza e tanta voglia di fare, che dopo aver militato – rispettato ed onorato per la tua forza e per il successo delle tue armi sotto le inse-gne dei più illustri ed importanti signori del tuo tempo, ti sentivi sprecato. Avevi deciso di voler servire solo un padrone che davvero valesse la pena seguire, una Grande Causa che davvero valesse più delle altre. Forse eri stanco di falsa gloria, e ne desideravi di quella vera. Non ricor-do più come ti venne suggerito di stabilirti alla riva di un pericoloso fiume per traghettare – grazie alla tua forza fisica eccezionale – i viandanti che da soli non ce la faces-sero, né come tu abbia accettato un così umile servizio che non doveva apparire proprio quella «Grande Causa» della quale – capivo – eri assetato. Ma so bene che era in quella tua funzione, vissuta con modestia, che ti capitò di essere richiesto di un servizio a prima vista assai «al di sotto» delle tue forze: prendere sulle spalle un bambino per portarlo dall’altra parte, un compito per il quale non occorreva certo essere un gigante come te ed avere quelle gambone muscolose con cui ti hanno dipinto. Solo dopo

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Caro San Cristoforoalexander Langer

Scritti 1961-1995

Ed. Sellerio, 2011

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aver iniziato la traversata ti accorgesti che avevi accettato il compito più gravoso della tua vita, e che dovevi metter-cela tutta, con un estremo sforzo, per riuscire ad arrivare di là. Dopo di che comprendesti con chi avevi avuto a che fare, ed avevi trovato il Signore che valeva la pena servire, tanto che ti rimase per sempre quel nome.

Perché mi rivolgo a te, alle soglie dell’anno 2000? Per-ché penso che oggi in molti siamo in una situazione simile alla tua, e che la traversata che ci sta davanti richieda forze impari, non diversamente da come a te doveva sembrare il tuo compito in quella notte, tanto da dubitare di farcela. E che la tua avventura possa essere una parabola di quella che sta dinnanzi a noi.

Ormai pare che tutte le grandi cause riconosciute come tali, molte delle quali senz’altro importanti ed illustri, sia-no state servite, anche con dedizione, ed abbiano abbon-dantemente deluso. Quanti abbagli, quanti inganni ed auto-inganni, quanti fallimenti, quante conseguenze non volute (e non più reversibili) di scelte ed invenzioni rite-nute generose e provvide.

I veleni della chimica, gettati sulla terra e nelle acque per «migliorare» la natura, ormai ci tornano indietro: i depositi finali sono i nostri corpi. Ogni bene ed ogni atti-vità è trasformata in merce, ed ha dunque un suo prez-zo: si può comperare, vendere, affittare. Persino il sangue (dei vivi), gli organi (dei morti e dei vivi), e l’utero (per una gravidanza in «leasing»). Tutto è diventato fattibi-le: dal viaggio interplanetario alla perfezione omicida di Auschwitz, dalla neve artificiale alla costruzione e mani-polazione arbitraria di vita in laboratorio.

Il motto dei moderni giochi olimpici è diventato legge suprema ed universale di una civiltà in espansione illimi-tata: «citius, altius, fortius», più veloci, più alti, più forti si deve produrre, consumare, spostarsi, istruirsi... compe-tere, insomma. La corsa al «più» trionfa senza pudore, il modello della gara è diventato la matrice riconosciuta ed enfatizzata di uno stile di vita che sembra irreversibi-le ed incontenibile. Superare i limiti, allargare i confini, spingere in avanti la crescita ha caratterizzato in misura massiccia il tempo del progresso dominato da una legge dell’utilità definita «economia» e da una legge della scien-za definita «tecnologia» – poco importa che tante volte di

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necro-economia e di necro-tecnologia si sia trattato.Cosa resterebbe da fare ad un tuo emulo oggi, caro San

Cristoforo? Quale è la Grande Causa per la quale impe-gnare oggi le migliori forze, anche a costo di perdere glo-ria e prestigio agli occhi della gente e di acquattarsi in una capanna alla riva di un fiume? Qual è il fiume difficile da attraversare, quale sarà il bambino apparentemente legge-ro, ma in realtà pesante e decisivo da traghettare?

Il cuore della traversata che ci sta davanti è probabil-mente il passaggio da una civiltà del «di più» ad una del «può bastare» o del «forse è già troppo». Dopo secoli di progresso, in cui l’andare avanti e la crescita erano la quintessenza stessa del senso della storia e delle speranze terrene, può sembrare effettivamente impari pensare di «regredire», cioè di invertire o almeno fermare la corsa del «citius, altius, fortius». La quale è diventata autodi-struttiva, come ormai molti intuiscono e devono ammet-tere (e sono lì a documentarlo l’effetto-serra, l’inquina-mento, la deforestazione, l’invasione di composti chimici non più domabili... ed un ulteriore lunghissimo elenco di ferite della biosfera e dell’umanità).

Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: ral-lentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), atte-nuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza). Un vero «regresso», rispetto al «più veloce, più alto, più forte». Difficile da accettare, difficile da fare, difficile persino a dirsi.

Tant’è che si continuano a recitare formule che ten-tano una contorta quadratura del cerchio parlando di «sviluppo sostenibile» o di «crescita qualitativa, ma non quantitativa», salvo poi rifugiarsi nella vaghezza quando si tratta di attraversare in concreto il fiume dell’inversione di tendenza.

Ed invece sarà proprio quello ciò che ci è richiesto, sia per ragioni di salute del pianeta, sia per ragioni di giusti-zia: non possiamo moltiplicare per 5-6 miliardi l’impatto ambientale medio dell’uomo bianco ed industrializzato, se non vogliamo il collasso della biosfera, ma non possia-mo neanche pensare che 1/5 dell’umanità possa continua-re a vivere a spese degli altri 4/5, oltre che della natura e dei posteri.

La traversata da una civiltà impregnata della gara per superare i limiti ad una civiltà dell’autolimitazione, dell’«enoughness», della «Genügsamkeit» o «Selbstbe-scheidung», della frugalità sembra tanto semplice quanto immane. Basti pensare all’estrema fatica con cui il fuma-tore o il tossicomane o l’alcoolista incallito affrontano la fuoruscita dalla loro dipendenza, pur se magari teorica-mente persuasi dei rischi che corrono se continuano sulla loro strada e forse già colpiti da seri avvertimenti (infarti, crisi...) sull’insostenibilità della loro condizione. Il medico che tenta di convincerli invocando o fomentando in loro

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la paura della morte o dell’autodistruzione, di solito non riesce a motivarli a cambiare strada, piuttosto convivono con la mutilazione e cercano rimedi per spostare un po’ più in là la resa dei conti.

Ecco perché mi sei venuto in mente tu, San Cri-stoforo: sei uno che ha saputo rinunciare all’eserci-zio della sua forza fisica e che ha accettato un ser-vizio di poca gloria. Hai messo il tuo enorme patri-monio di convinzione, di forza e di auto-disciplina a servizio di una Grande Causa apparentemente assai umile e modesta. Ti hanno fatto – forse un po’ abu-sivamente – diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini): oggi dovresti ispirare chi dall’automo-bile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei pro-pri piedi! Ed il fiume da attraversare è quello che separa la sponda della perfezione tecnica sempre più sofisticata da quella dell’autonomia dalle pro-tesi tecnologiche: dovremo imparare a traghettare dai tanti ai pochi chilowattori, da una super-alimen-tazione artificiale ad una nutrizione più equa e più compatibile con l’equilibrio ecologico e sociale, dal-la velocità supersonica a tempi e ritmi più umani e meno energivori, dalla produzione di troppo calore e troppe scorie inquinanti ad un ciclo più armonio-so con la natura. Passare, insomma, dalla ricerca del superamento dei limiti ad un nuovo rispetto di essi e da una civiltà dell’artificializzazione sempre più spinta ad una riscoperta di semplicità e di frugalità.

Non basteranno la paura della catastrofe eco-logica o i primi infarti e collassi della nostra civil-tà (da Cernobyl alle alghe dell’Adriatico, dal clima impazzito agli spandimenti di petrolio sui mari) a convincerci a cambiare strade. Ci vorrà una spinta positiva, più simile a quella che ti fece cercare una vita ed un senso diverso e più alto da quello della tua precedente esistenza di forza e di gloria. La tua rinuncia alla forza e la decisione di metterti al ser-vizio del bambino ci offre una bella parabola della «conversione ecologica» oggi necessaria.

Per «Lettera 2000», Eulema editrice, febbraio-marzo 1990.

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S iamo Cisl Scuola perché siamo Ci-sl: un’appartenenza e un’identità che proprio vent’anni or sono, con l’uni-

ficazione dei due sindacati preesistenti, il Sinascel e il Sism, si sono fatte ancor più evidenti. Con l’acronimo Cisl collocato in testa, e non più in coda, nella nostra sigla e nel nostro logo.

Quella dei vent’anni è un’età favolosa, nella quale si compone la giusta miscela di maturità e di energia. Auguriamoci che questo valga anche per il compleanno del-la nostra organizzazione, che con questo congresso insieme celebriamo.

Nella Cisl portiamo la voce e la pas-sione di chi lavora in un settore di vitale importanza per i destini delle persone, e di rilevanza strategica per quelli dell’intera società, dell’intero Paese. Essere l’orga-nizzazione che raccoglie in quel mondo la maggioranza delle iscrizioni a un sin-dacato ci carica di grandi responsabilità, ma ci riempie anche di orgoglio. Da que-sto ampio radicamento, che ha sempre trovato un significativo riscontro anche nelle ricorrenti consultazioni elettorali per le Rsu, deriva la nostra forza.

Alle decine e decine di miglia-ia di persone che scelgono la Cisl Scuola noi diciamo qui il nostro grazie, rinnovando l’impegno ad essere sempre più all’altezza delle loro attese e della loro fiducia.

È fatto di persone vive, un sin-dacato come il nostro. Niente di tutto ciò che serve a rendere effi-cace e funzionale, a tutti i livelli, la nostra organizzazione potrebbe esistere senza l’apporto che in ter-mini di risorse ogni lavoratrice e ogni lavoratore ci dà, decidendo li-beramente di associarsi. Sono loro, e ce ne vantiamo spesso, la nostra unica fonte di sostentamento.

Dice Bruno Manghi in uno dei video che abbiamo proposto insieme alle tracce di riflessione in avvio del percorso con-gressuale: “Il nucleo sindacale è fatto di re-lazioni fra persone. All’origine del rapporto che si instaura col lavoratore c’è la fiducia nella persona che il lavoratore incontra quando si rivolge a un sindacato”.

Questa dimensione, in cui l’umanità prevale sull’apparato, è da sempre tipica della nostra organizzazione. Sono convin-ta che per ciascuno di noi le persone in-contrate hanno contato molto nella scelta di entrare a far parte del nostro sindacato, anche se poi naturalmente la scelta si è rafforzata prendendo più consapevolezza delle idee, dei valori, del modello di sinda-cato che la Cisl e la Cisl Scuola incarnava-no. Ma le persone e la loro qualità sono e restano decisive.

“Nella figura di chi fa sindacato – si legge nelle nostre tracce per il dibattito – deve tornare a essere ben visibile e dominante la dimensione del servizio: sotto questo profilo la Cisl Scuola, a tutti i livelli e con particolare evidenza a quello territoriale, ritiene di potersi proporre come modello in

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S I N D A C A T O E S O C I E T À

6° congresso

SinteSi della relazione di Maddalena GiSSi

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forza della sua diretta, concreta e quotidiana testimonianza”.

UN SINDACATONECESSArIO E UTIlE

Si sta diffondendo l’idea che oggi il sin-dacato non serve più; che non è di nessuna utilità per i lavoratori, né per il Paese. Lo stesso rifiuto che si è via via manifestato nei confronti dei partiti, investirebbe ora anche il sindacato. È una deriva da consi-derare con la massima attenzione, anche perché notevolmente sostenuta in un cir-cuito mediatico che molto spesso tende a creare la realtà, più che a descriverla. In ogni caso la realtà non va mai sfuggita o rimossa, ma guardata in faccia. Per affron-tarla, per modificarla, per non rimanerne travolti. La faccia della realtà sono per noi anche i volti, i tanti volti di coloro che da sempre, e in modo particolare nei mesi scorsi, nel momento in cui avevano biso-gno (lo conferma una ricerca recente della Cisl lombarda), hanno trovato noi, attivi e presenti in tutte le nostre sedi, affollate all’inverosimile a tutte le ore. Avevano bi-sogno di noi e noi c’eravamo! Non hanno certo trovato ascolto, né tanto meno solu-zione ai loro problemi, navigando online o frequentando qualcuno dei tanti circoli mediatici.

Hanno incontrato persone che li han-no accolti, ascoltati, consigliati, aiutati. Hanno incontrato e conosciuto il sinda-cato vero, non la descrizione che i suoi denigratori hanno interesse a diffondere! Di questo nostro essere un sindacato di persone per le persone dobbiamo essere fieri e orgogliosi!

lA lEzIONE DI BArBIANAIl 12 maggio siamo saliti a Barbiana,

concludendo in questo modo il nostro secondo corso di formazione per nuovi quadri al centro studi di Firenze. Insie-me ai corsisti, erano presenti quasi tutti i

componenti dell’Esecutivo Nazionale. La ricorrenza del cinquantesimo anniversario della morte ci ha dato una motivazione in più per rendere omaggio a una figura di straordinaria grandezza come quella di don Lorenzo Milani. Per alcuni si è tratto di un ritorno, per altri di una prima volta che emoziona, commuove, colpisce profondamente. Per tutti, l’occasione di riflettere sulla perenne novità di un modo di pensare e “fare” la scuola forse inegua-gliabile, ad oggi sicuramente ineguagliato. La scuola come strumento fondamentale di crescita in conoscenza e cultura, pre-messa indispensabile per l’emancipazione e il riscatto sociale. La motivazione come molla dell’apprendimento. La condivisio-ne come valore e metodo. Ma soprattutto il peso decisivo che nella relazione educativa esercitano la passione, la dedizione, la cura di chi al primo posto mette gli ultimi. L’ab-biamo considerata “la più bella lezione con cui concludere un percorso formativo che non intende limitarsi a fornire competenze, ma punta a suscitare motivazioni e promuo-vere valori alti, per un sindacato che sappia fare sempre più del ‘bene comune’ il proprio orizzonte di riferimento”. Quel sindacato che sempre più vogliamo e cerchiamo di essere.

UNA grANDE fUCINA DI IDEE pEr OBIETTIvI AmBIzIOSI

Questo congresso nazionale è una sosta importante nel nostro impegnativo e fati-coso cammino, insieme proveremo a fare in modo che sia una sosta rigeneratrice. Poi dovremo ripartire, con la massima de-terminazione nel nostro impegno perché si creino nuove opportunità per la scuola e la formazione, per il personale che ci la-vora, per il Paese.

Un obiettivo ambizioso? Sicuramente sì, ma obbligato e irrinunciabile. Ci sostie-ne, in un compito così arduo, il nostro radi-camento nel tessuto di un’organizzazione che pensa, si confronta e agisce offrendo in ogni circostanza ai suoi interlocutori proposte qualificate e serie, fuori da ogni vuota demagogia, animate da forti valori declinati nella concretezza di chi conosce il mondo del lavoro e i problemi delle persone.

Guardare a noi stessi è doveroso, per

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SINDACATO E SOCIETÀ

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correggersi, per migliorarsi: ma guai a rinchiudersi in una nicchia autoreferenziale! Guardiamo a noi stessi, ma solo per aprire me-glio il nostro sguardo verso la realtà che dobbiamo affrontare, verso il futuro.

lE NOSTrE prIOrITÀTra i doveri che abbiamo c’è so-

prattutto quello di restituire alle giovani generazioni un futuro che sia di speranza. Un impegno che si potrebbe concentrare in due paro-le: ambiente e lavoro.

Parlare di ambiente qui, a Ta-ranto, significa non aver bisogno di troppe parole per dire quanto il tema sia cruciale per i destini dell’uomo.

La sfida ambientale, peraltro, è insepa-rabile da quella educativa perché un’eco-logia integrale è fondata sulla possibilità di crescere nella consapevolezza delle proprie responsabilità e di agire di con-seguenza in maniera sostenibile e solidale.

Restituire ai giovani speranza di futuro spiega la centralità che la Cisl ha voluto assegnare al tema del lavoro, che rappre-senterà per tutti, e per una fase non breve, un’assoluta priorità.

La mancanza di lavoro è un’emergenza resa evidente da dati statistici che mettono i brividi. Non è solo un dramma personale di tanti, è un fattore di indebolimento del-la coesione sociale contro cui mobilitarsi col massimo di impegno e di energia.

A dirci l’importanza del lavoro, ma soprattutto il suo valore come fattore di realizzazione della persona è stato, anco-ra una volta con semplicità ed efficacia straordinarie, il Santo Padre papa Fran-cesco incontrando a Genova il mondo dei lavoratori. Parole semplici ed essenziali: non basta il reddito a dare dignità. Il vero obiettivo da raggiungere è il lavoro per tut-ti, perché ci sia dignità per tutti. Chi crede, vi ritrova un concetto che è ricorrente nel magistero sociale della Chiesa, il lavoro come atto che “appartiene all’opera della creazione”. Ma è un messaggio rivolto a tutti quello della sacralità del lavoro, l’am-monimento a non trasformarlo in merce, la denuncia di comportamenti indecenti che trasformano il lavoro, a causa della sua

penuria, da strumento di riscatto sociale in oggetto di ricatto sociale.

Il tema del lavoro noi lo sentiamo nostro per più d’una ragione, ma soprattutto per-ché vogliamo che ai bambini, ai ragazzi, ai giovani che frequentano le nostre scuole sia data la possibilità, una volta terminati i percorsi di studio, di avere credibili op-portunità di lavoro.

È una sfida che fa tremare i polsi quella del lavoro che manca: 12,3% è il tasso at-tuale di disoccupazione, era meno del 7% nel 2008. Per quella giovanile, nello stesso anno era al 20%, oggi è tornata a superare il 40%. Cifre che non hanno bisogno di commento. “Incognita lavoro” è, non a caso, il titolo del video di Leonardo Bec-chetti, proposto fra gli spunti di riflessione per il nostro dibattito congressuale. Ed è proprio Becchetti a ricordarci come le ragioni che rendono così dura e complessa la sfida lavoro siano essenzialmente due: il divario fra il costo del lavoro nelle diverse aree del pianeta, il processo di robotizza-zione che sempre più sostituisce la mac-china all’uomo. Fattori che impediscono di immaginare soluzioni facili in tempi brevi, richiedendo invece scelte politiche intelligenti e lungimiranti; il tutto aven-do ben chiara la dimensione sempre più globale in cui le questioni dell’economia, e non solo dell’economia, devono essere considerate e affrontate.

Rispetto all’emergenza lavoro, un ruolo strategico è assegnato al sistema di istru-zione e formazione. Certo non può essere la scuola, da sola, a farsi carico di un’emer-

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genza che investe in termini più generali competenze e responsabilità dell’eco-nomia, della politica, della società. Noi tuttavia le nostre responsabilità vogliamo assumercele fino in fondo, e questo signifi-ca anche sostenere attivamente azioni che possano favorire un più stretto legame tra formazione e lavoro. Sono i temi che ab-biamo affrontato e discusso, a fine mar-zo, nell’incontro con gli studenti all’Itis Galilei di Roma. L’iniziativa si inquadra in un più ampio progetto che come Cisl Scuola intendiamo promuovere e al qua-le siamo ora impegnati a dare continuità: un progetto finalizzato a rafforzare l’at-tenzione e l’impegno educativo da porre sulle tematiche riguardanti la complessità del mondo giovanile, sulle responsabilità sociali che ne conseguono e sui percorsi che possono favorire, a partire dal ruolo svolto dal sistema scolastico e formativo, un fecondo dialogo intergenerazionale.

I giovani sono il nostro lavoro e per questo devono stare al centro della no-stra attenzione. Non sono l’oggetto del nostro lavoro, ma il soggetto con cui la-voriamo. La scuola è il luogo dell’incrocio generazionale, spazio vivo in cui avviene la consegna della tradizione, dei valori, delle

speranze, del progetto di futuro. È il luo-go in cui l’umanità costruisce la sua storia e il suo racconto. Chi partecipa al lavoro di scuola, a qualsiasi titolo e in qualsia-si funzione partecipa alla costruzione di cattedrali. Qualche cosa che si innalza e resta dopo di noi. Facciamo un lavoro di cura, abbiamo un compito generativo: ci prendiamo cura della vita che verrà, del futuro che si affaccia. Sentendone la re-sponsabilità, e a volte il peso, dobbiamo sentire anche l’orgoglio di partecipare a una grande impresa.

INSTABIlITÀ, INCErTEzzA, INCOgNITE

Potrebbero essere queste le parole chiave che sintetizzano il clima politico vissuto nei quattro anni che ci separano dall’ultimo congresso. Anni quanto mai densi e ricchi di eventi, ma soprattutto di cambiamenti profondi e in larga parte imprevisti, che ci consegnano oggi uno scenario difficilmente analizzabile con i consueti canoni interpretativi.

Di una politica autorevole, credibile, responsabile e pulita abbiamo tutti quan-to mai bisogno. L’antipolitica, madre o figlia del populismo, si sconfigge solo con la buona politica. Quella che tutti dovrem-mo considerare come luogo naturale delle scelte, delle decisioni e delle responsabilità di governo. Una politica capace di sceglie-re e di decidere, e che delle decisioni e delle scelte risponde all’elettorato, è nell’inte-resse di tutti. Ma scegliere e decidere sono cosa diversa dalla presunzione di autosuf-

ficienza, dal ritenere di poter fare a meno di altri apporti, in modo particolare di quei soggetti che, come il sindacato, agiscono nel sociale.

l’EClISSI DEl DIAlOgO SOCIAlE

Sono tanti, e non da oggi, a considerare le relazioni sinda-cali e il dialogo sociale come un ingombrante armamentario del passato. Un elemento di freno e di inciampo, inutile ostacolo che indebolisce e rallenta l’azione di governo. È un’impostazione, que-sta, che ha fortemente caratteriz-

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SINDACATO E SOCIETÀ

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zato l’esperienza del governo Renzi, con qualche segnale di ripensamento nella sua fase conclusiva; non occorrono particolari sforzi di memoria per ricordare come un approccio simile avesse contraddistinto anche precedenti stagioni politiche. Ma il “nuovo che avanza” non sembra essere da meno, quando propone anche per il mondo del lavoro le suggestioni – assai pericolose – di una democrazia senza in-termediari, gestita attraverso tecnologie e modalità che danno l’illusione di essere direttamente protagonisti della scena. Emerge l’idea di una rappresentanza sin-dacale “senza organizzazione”.

Noi restiamo convinti che la presenza di un sindacato forte e ben organizzato sia una necessità per i lavoratori e per il Paese. Restiamo convinti che il sindacato sia un soggetto indispensabile per generare, at-traverso il dialogo sociale, unità e coesione: in particolare un sindacato come il nostro, come la Cisl; che non si limita a denuncia-re i problemi ma si impegna a risolverli; che non si innamora del conflitto, perché si pone sempre l’obiettivo di risolverlo, trovando punti di incontro, attraverso l’assunzione di impegni e responsabilità condivise, in un’ottica di interesse comu-ne, meglio ancora di “bene comune”.

A costruire legami, a fare unità e coe-sione, a “fare comunità”: a questo serve la contrattazione, davvero “generativa” del nostro modo di essere e fare sindacato. Per questo l’abbiamo considerata e definita “fattore essenziale per affermare e sostenere pratiche di buon governo”.

Per quanto appena detto, è chiaro che l’accordo del 30 novembre 2016, se cor-rettamente e coerentemente applicato, può segnare veramente un punto di svolta decisivo, per le affermazioni che contiene, per gli impegni che le parti vi assumono e per i percorsi che quell’intesa ha deline-ato, riconsegnando alla contrattazione il suo primato come fonte di regolazione del rapporto di lavoro pubblico in tutti i suoi aspetti, economici e normativi.

Il rinnovo del contratto nazionale, a quasi dieci anni dalla sua firma che risale al novembre del 2007, è in questo senso la prima e decisiva verifica.

Non ci si può nascondere che su questo rinnovo contrattuale si riversa un carico

di attese molto alto e non facilmente so-stenibile, considerando le risorse a nostra disposizione, e non solo questo: c’è infatti, in generale, un contesto pieno di emergen-ze spesso inedite, che ci impongono una visione più ampia di quella legata a schemi puramente rivendicativi.

Essere realisti non significa essere ri-nunciatari: ma abbiamo anche il dovere di non alimentare illusioni con promesse impossibili da mantenere. La nostra gente non ce lo perdonerebbe.

Abbiamo invece senz’altro bisogno di irrobustire a tutti i livelli la nostra capacità di elaborazione e di proposta. Se l’obiettivo è ridare dignità al nostro lavoro attraverso il contratto, correggendo i guasti prodotti da interventi di natura legislativa, allora dobbiamo essere capaci di fare meglio, nel nostro contratto, di quanto sia stato fatto attraverso la legge su tante questioni di grande rilevanza per i lavoratori e per il buon andamento del servizio. Tanto per citarne qualcuna: valorizzazione professio-nale e carriere, continuità e qualità della didattica, merito e valutazione. La legge le ha affrontate nei modi che sappiamo, rimetterci le mani significa affrontare un compito al quale dobbiamo giungere ben preparati. Al tavolo negoziale, insomma, ci verranno poste delle sfide che dobbia-mo essere pronti a reggere. Non dimen-tichiamo ciò che abbiamo fatto scrivere nell’accordo di novembre come uno dei fondamentali obiettivi: fare del contratto una leva di miglioramento e innovazione della Pubblica amministrazione.

gIUSTE TUTElE E qUAlITÀ DEl SErvIzIO

Per la scuola, quella del giusto equili-brio tra garanzie e tutele del personale e il dovere di assicurare all’utenza un servizio regolare, efficace e di qualità si è sempre posta come una questione su cui si ma-nifestano in modo particolare attenzione e sensibilità. Come per tutti i settori che investono la cura della persona (si pensi alla sanità), nel nostro caso per la minor età di quasi tutta la popolazione scolastica. Una questione, quella del giusto equili-brio, molto spesso portata alla ribalta nelle cronache, come accaduto la scorsa estate con la mobilità del personale docente. In

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quel caso, come già in altre occasioni, al-cuni dei commentatori non sono andati troppo per il sottile pur di dare in testa al sindacato, assecondando la moda del momento; così hanno sorvolato sulle vere ragioni del pasticcio, dovuto all’imposta-zione scriteriata data nella legge 107 al piano di assunzioni, costruito “a partire dal tetto anziché dalle fondamenta”, come da noi immediatamente denunciato fin dalla prima presentazione del progetto Buona Scuola.

Troppi si sono affrettati a stracciarsi le vesti, dimenticando la straordinarietà della situazione che si era determinata e la gravità del disagio vissuto da tantissime persone, che avrebbe meritato ben altro rispetto. Così come è apparsa talvolta a geometria variabile la denuncia del venir meno della continuità didattica, come se si trattasse di una condizione da promuove-re un po’ di più in alcune parti del Paese, un po’ meno in altre. Quasi nessuno, infi-ne, che abbia sottolineato come il princi-pale ostacolo alla continuità didattica sia la precarietà del lavoro, una precarietà che la legge 107 prometteva di cancellare e che si è invece riproposta in dimensioni identiche, se non addirittura aumentate, proprio nel primo anno di applicazione della legge.

SI rESpIrA UN ClImA NUOvOSe l’accordo del 30 novembre ha pro-

dotto un sensibile cambio di clima, un ana-logo effetto lo ha prodotto l’insediamento del governo Gentiloni e, per quanto più direttamente ci riguarda, di Valeria Fedeli alla guida del ministero dell’istruzione. La sua lunga esperienza di sindacalista l’ha sicuramente aiutata a rimettere sul binario giusto i rapporti tra amministrazione e sin-dacati: lo si è notato da subito e non abbia-mo avuto remore a riconoscere l’avvenuto ripristino delle condizioni per relazioni positive e costruttive con le parti sociali.

Consideriamo utile e positivo per tutti un rapporto condotto, come sta avvenendo, in termini di correttezza, franchezza e le-altà. Utile e costruttivo, e lo dimostrano i risultati di non poco conto ottenuti anche grazie al clima rinnovato in cui le relazioni sindacali si sono potute svolgere.

In particolare sulla mobilità siamo ri-usciti nell’impresa di porre rimedio ad alcune criticità della 107. Certi limiti pa-revano non superabili, li abbiamo forzati. Per esempio restituendo a ogni insegnante la possibilità, sia pure di trasferirsi diret-tamente su scuola, e non solo su ambito. Anche se in modo limitato, è una possi-bilità che la legge pareva escludere e che invece il contratto ci riconsegna.

Per quanto poi riguarda uno degli aspet-ti più controversi, la cosiddetta chiamata diretta, siamo riusciti a definire attraverso il contratto integrativo procedure che as-sicurano trasparenza e un diretto coinvol-gimento del collegio docenti nella indica-zione dei requisiti per l’individuazione del personale cui il dirigente scolastico deve affidare l’incarico nella scuola.

Non è di secondaria importanza, ed è stato fattore decisivo per il buon esito di un confronto molto difficile, la capacità dimostrata dalle organizzazioni sindacali di condurre e concludere unitariamente la trattativa. L’unità è certamente un punto di forza e le condizioni per mantenerla e rafforzarla sono sostanzialmente due:l piena autonomia dell’agire sindacale,

liberi da condizionamenti di natura politica o ideologica,

l disponibilità a dialogare e confrontarsi in termini di pari dignità.Se queste condizioni ci sono, l’unità non

è un problema e diventa, per tutti, una risorsa in più.

lEggE 107, CAmBIArE SI pUò E SI DEvE

Restano tante le cose che non vanno di una riforma della scuola quanto mai con-testata, assai poco condivisa da un corpo professionale cui tocca gioco forza attuar-la. Le ragioni del nostro dissenso abbiamo cercato di dirle in tutti i modi, gridandole anche tante volte nelle piazze. Con pre-se di posizione assunte dall’intero arco delle associazioni professionali, pronte a

Generare valori

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muoversi unite pur essendo espressione di filoni culturali e di pensiero anche molto lontani fra loro, si è denunciato il rischio di un mutamento delle caratteristiche fondamentali cui si ispira il sistema scola-stico italiano, fissate normativamente fin dai tempi dei decreti delegati, ossia la sua fisionomia di Comunità Educativa gestita collegialmente dalle sue componenti pro-fessionali e dalla stessa utenza, mediante il Consiglio di istituto e, sotto il profilo tecnico, dal Collegio dei docenti, titolare delle scelte educative e della programma-zione didattica e culturale.

Se abbiamo scelto per il nostro congres-so il motto “Fare comunità”, è proprio per ribadire quell’idea di scuola, che riflette un’idea di società includente e non divisi-va. In cui l’accento è posto sui legami che la tengono unita e coesa, non sull’esaspera-zione dei fattori di competizione interna.

L’idea di scuola che ci muove, con la legge 107 ha corso e corre gravi rischi di manomissione.

Tra i tanti, ne abbiamo eviden-ziato due, quelli costituiti dalle modalità di assegnazione della scuola di servizio ai docenti e quelli connessi alle procedure co-siddette “premiali”. Su entrambe le questioni abbiamo cercato di arginare ogni possibile deriva fa-cendo ricorso alle uniche leve di cui possiamo disporre: quella della contrattazione, che direttamente ci appartiene, e quella del protago-nismo professionale che si esprime individualmente e collegialmente nelle nostre scuole.

Sull’assegnazione di sede, ri-vendicato il merito di aver assicu-rato col contratto integrativo oggettività e trasparenza delle procedure, insieme al riconoscimento di un ruolo importante al collegio dei docenti, manteniamo le nostre riserve, ripetutamente manifestate e mo-tivate, per un meccanismo che crea più problemi di quanti ne voglia risolvere. Su un bene comune come la scuola è quella del dialogo, dell’ascolto, della massima condivisione la via giusta da seguire. Non ci stanchiamo di ripeterlo.

Su premialità e bonus: premesso che la legge stessa prevede una verifica dopo il

primo triennio di applicazione, e ribadito che per noi la materia, in quanto legata alla retribuzione del personale, va ricon-dotta pienamente all’ambito negoziale, riteniamo che serva un ripensamento più generale che aiuti a fondare la valorizza-zione professionale su basi più solide di quelle costituite dall’introduzione di qual-che elemento di concorrenzialità interna al sistema. Basi più solide in termini di credibilità e consenso sono la premessa indispensabile per una “premialità” che possa rivelarsi autenticamente efficace. E qui, come non richiamare ancora una volta le parole di papa Francesco, nella sua visita genovese: “La meritocrazia: si usa una parola bella, merito, ma sta diventando una legittimazione etica della diseguaglian-za, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono ma come un merito, de-terminando un sistema di vantaggi e svan-taggi cumulativi”. Non ho proprio nulla da aggiungere: abbiamo tutti, e tanto, da riflettere.

Il pErSONAlE ATALa legge 107 ha acceso i suoi fari pre-

valentemente sulle figure del docente e del dirigente. Poco o nulla ha detto sul personale educativo e Ata. Visto come è andata agli altri, lo si potrebbe consi-derare uno scampato pericolo. Fuor di battuta, al settore dei servizi amministra-tivi, tecnici e ausiliari si continua a riser-vare un’attenzione marginale, quando va bene. Quando va meno bene, e capita purtroppo molto spesso, le condizioni di lavoro del personale subiscono aggravi e

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penalizzazioni che toccano direttamente i lavoratori, ma si riflettono inevitabilmente sulla qualità del servizio erogato all’uten-za. Alle problematiche del personale Ata abbiamo dedicato di recente specifiche iniziative volte a segnalare le più imme-diate emergenze e in generale, come già detto, la necessità di veder considerata in modo adeguato l’importanza delle funzio-ni svolte, di cui manca da parte di molti adeguata consapevolezza. Il lavoro dei col-laboratori è sempre più legato al sostegno alla didattica e alla cura della persona; per gli assistenti amministrativi e tecnici non si può non tener conto di che cosa compor-tino le attribuzioni legate all’autonomia delle istituzioni scolastiche e l’impatto con le nuove tecnologie e lo sviluppo delle atti-vità di laboratorio. Di questa mancanza di consapevolezza dà prova il divieto di sosti-

tuire il personale assente: una norma che ignora totalmente cos’è la gestione di una scuola e come nella scuola si lavora. Una norma che va assolutamente cancellata. Al personale Ata e alle sue problematiche la nostra organizzazione ha riservato atten-zione e spazio crescenti. Chiediamo che anche la politica faccia altrettanto.

I DIrIgENTI SCOlASTICIIl disagio professionale dei dirigen-

ti è stato manifestato e sottolineato con un’azione impegnativa svolta a tutto campo, dalle Commissioni parlamentari all’interlocuzione con la Ministra e con i vertici amministrativi del Ministero, sino al lavoro attento e costante effettuato nei territori.

La nostra azione ha ottenuto alcu-ni primi importanti risultati: il Fun che aveva subito pesanti decurtazioni, sarà finanziato per l’esercizio finanziario 2017 con ulteriori 10 milioni di euro, mentre la retribuzione di risultato continuerà per quest’anno scolastico ad essere corrisposta in base al sistema delle fasce, invece che in esito ai risultati del nuovo sistema di valu-tazione. Il Ministero inoltre ha accettato di convocare dei tavoli tecnici per affrontare il tema degli adempimenti amministrativi soverchianti che travolgono dirigenti e se-greterie (spesso sottodimensionate e prive di Dsga) e sottraggono inutilmente molto tempo a quella funzione di leadership edu-cativa che invece appare tanto sottolineata nel sistema di valutazione dei dirigenti.

Anche la Ministra ha riconosciuto che nel nuovo contratto dei dirigenti scolastici dovranno trovare so-luzione sia la generale questione retributiva che l’assurda differen-ziazione interna alla categoria che attualmente vede ben tre diversi livelli stipendiali per lo stesso im-pegno e le stesse responsabilità.

Come dimostrano anche le re-centi vicende che la cronaca ci ha restituito, occorre inoltre inter-venire sulle responsabilità anche penali attribuite al dirigente scola-stico in tema di sicurezza sul luogo di lavoro. È tristemente noto che gli Enti locali spesso sono assenti nella manutenzione degli edifici e

Generare valori

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La nostra storia, la nostra identità, i nostri valori, il nostro impegno

sindacale, il nostro mestieredi scuola ci portano a sapere

e dirci che l’alba verrà e cheil quando dipende anche da noi.

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non può essere attribuita al dirigente sco-lastico una responsabilità per la quale non ha poteri di intervento.

lA fOrmAzIONE prOfESSIONAlESull’importanza e sul valore di un ef-

ficace sistema di IeFP la Cisl Scuola ha sempre avuto idee e posizioni chiare. Laddove il sistema della IeFP è stato tra-scurato dalle amministrazioni regionali, l’insuccesso, l’abbandono e la dispersione scolastica hanno toccato percentuali altis-sime ed insostenibili per un paese la cui economia è tra le otto maggiori al mondo. Laddove, invece, la IeFP ha avuto la giusta attenzione, si sono avuti risultati rilevanti in termini di occupazione giovanile: oltre il 60% dei ragazzi ha trovato stabile col-locazione nel mondo del lavoro a solo sei mesi dalla qualifica e dal diploma.

Il sistema dell’IeFP regionale non è più “la non scuola”, rappresenta oltre ad una buona seconda chance di recupero del drop out, una prima scelta di accesso diretto al secondo ciclo. La Cisl Scuola si è resa protagonista di questo profondo cambiamento.

La competenza esclusiva regionale favorisce la frammentazione del sistema, relegando la IeFP in un ruolo ancillare e marginale, e non proiettato anche in un quadro di riforme europee più ampio.

Insieme alla Cisl, in continuità con l’impegno condiviso a far crescere il li-vello qualitativo dei lavoratori in servizio e dei futuri lavoratori, chiederemo che si estendano in tutto il territorio nazionale le buone pratiche già presenti in alcuni territori, garantendo la permanenza delle istituzioni formative e la loro crescita su tutto il territorio nazionale.

lA SCUOlA pArITArIAOltre 13.000 scuole paritarie e circa

14.000 istituzioni educative private pre-senti nel Paese rappresentano da sempre per la Cisl Scuola una realtà che non può essere trascurata. Siamo sempre stati, per oltre 200.000 lavoratori, un punto di rife-rimento importante e affidabile; dobbia-mo saper intercettare in modo sempre più puntuale i loro bisogni e le loro necessità, continuando a porci all’ascolto del loro disagio, intervenendo con sempre mag-

giore efficacia e professionalità. La scuola pubblica non statale non

può e non deve essere terreno di caccia e di affari di associazioni poco o per nulla rappresentative, firmatarie di una galassia di contratti di sottotutela che stanno ripor-tando indietro di anni l’intero sistema e con loro i lavoratori. È ora di contrastare, nelle sedi opportune e con l’ausilio delle grandi associazioni che con noi da sempre firmano i migliori Ccnl di settore, questo fenomeno che, purtroppo, giustifica e so-stiene chi con faciloneria e approssimazio-ne è ancorato a vecchi e stantii pregiudizi e pregiudiziali.

l’AlBA ChE vErrÀAl termine di questa riflessione politi-

co sindacale di avvio Congresso, mi pare necessario tornare a indicare lo spirito e l’atteggiamento di fondo che devono gui-dare i ragionamenti e il lavoro di questi giorni e, ancor più i percorsi e gli impegni che l’organizzazione si dovrà dare per la nuova stagione che si aprirà.

Credo che, come sentimento guida, do-vremmo prendere la forza del coraggio e della speranza.

Gli aspetti di criticità, trasformazione, problematicità, difficoltà di questo tempo e delle sfide che ci aspettano (sfide sociali e politiche, ma per noi gente di scuola, anche sfide educative) possono indurci a sentimenti di paura, a ripiegamenti e at-teggiamenti puramente difensivi e di chiu-sura, se non di rassegnazione e impotenza.

Non possiamo evitare l’impressione di doverci muovere in contesti di smar-rimento, di diffusa indifferenza morale, di debolezza e incertezza della politica, di difficoltà a costruire l’idea di un nuo-vo umanesimo in grado di generare uno sviluppo sostenibile, equo, solidale. Tutto questo può spingerci dentro lo scenario evocato da Isaia in cui chiedere: “Senti-nella, quanto resta della notte?”.

Ma la nostra cultura, la nostra storia, la nostra identità, i nostri valori, il nostro impegno sindacale, il nostro mestiere di scuola ci portano a sapere e dirci che l’alba verrà e che il quando dipende anche da noi. Intanto, ognuno, potrebbe dire con Emily Dickinson: “Non sapendo ancora quando l’alba verrà, lascio aperta ogni porta”.

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D on Lorenzo Milani morì il 26 giugno 1967 a Firenze nella casa di via Ma-saccio 208, a soli quarantaquattro

anni, stroncato dal linfoma di Hodgkin. Ad accudirlo furono gli scolari, ai quali, scrisse nel Testamento, aveva voluto più bene che a Dio, sperando nella Sua benevola com-prensione.

Quattro mesi dopo venne condanna-to, in quanto difensore degli obiettori di coscienza, accusati di viltà da un gruppo di cappellani militari toscani, ma il reato fu considerato estinto perché lui era de-ceduto. Il testo che aveva scritto ai suoi giudici, prima ancora di quello indiriz-zato alla famosa professoressa, è uno dei grandi risultati della letteratura italiana del Novecento, non solo e non tanto per ciò che dichiara sull’idea di patria, chiesa, scuola, storia, giustizia e responsabilità, ma per come lo esprime.

In quale altra opera di quegli anni po-tremmo ritrovare un controllo stilistico così potente del sentimento partecipativo realizzato sul campo vivo delle operazio-ni?

Il Meridiano pubblicato da Monda-dori, già in libreria, con la direzione di Alberto Melloni, autore della splendida introduzione (Federico Ruozzi e la ni-pote Valeria Milani Comparetti sono gli altri curatori), in cui viene raccolta tutta la produzione milaniana, lo dimostra ap-pieno.

Don Lorenzo (che Melloni chiama μ, il mi greco, nel tentativo di preservare il nome dalla insopportabile consunzio-ne semantica a cui è andato incontro) ci consegna una scrittura-azione perfino più originale di quella pasoliniana: una goccia del sangue per come ha saputo legare pa-rola e esperienza.

Tutti potremmo dire ciò che vogliamo,

Il sogno di un’ altra scuola

S I N D A C A T O E S O C I E T À

6° congresso

Eraldo Affinati

Tre vociper un cammino

I l fascino di una conversazione sta nel palleggio delle voci, nelle sor-prese e nelle invenzioni dell’in-

contro, nelle giravolte del discorso, nel gioco dei rimandi, nel ritmo spez-zato delle domande – dei rilanci – dei ritorni. Se poi la conversazione diven-ta veramente quello che il suo nome indica, cioè un camminare insieme verso la stessa meta, allora si fa com-pagnia, intesa, amicizia.

È quello che è successo al Congres-so nazionale Cisl Scuola celebrato a Castellaneta Marina dal 29 maggio al primo giugno di questa tarda pri-mavera. La segretaria generale Cisl Scuola Maddalena Gissi ha discorso di società, scuola educazione con tre ospiti importanti che ci hanno aiuta-to a individuare e disegnare prospet-tive per una azione sindacale capace di interpretare e dare sostanza al tito-lo voluto per il congresso: Fare comu-nità, generare valori. Sono stati e han-no conversato con noi: Eraldo Affina-ti, Luigino Bruni, Luigina Mortari.

Difficile tuttavia riportare, attra-verso una trascrizione lineare, la vi-vacità, la freschezza e l’articolata complessità di quelle conversazio-ni. Preferiamo allora proporre alcu-ni brevi testi degli stessi autori, tra-scelti da scritti composti intorno al periodo del nostro congresso e che ri-prendono idee e ragionamenti svilup-pati anche con noi.

Un grazie per quella loro presenza e per questo loro contributo.

E Pag. 24Eraldo Affinati

E Pag. 27Luigino Bruni

E Pag. 30Luigina Mortari

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Scriveva di getto e poi spediva, così come viveva: a fondo perduto, senza curarsi del risultato che avrebbe potuto conseguire, ma avendo fede nell’azione che stava realizzando.

certo, ma poi dovremmo essere pronti a pagare il prezzo del risarcimento nel caso in cui commettessimo un danno. Il corpo non può e non deve venire preservato: così diventi credibile.

Ecco la prova. Un anno e mezzo prima della fine Nadia Neri, giovane professo-ressa napoletana, gli chiede consigli. Sta per risponderle Carla (14 anni), ma il priore, vincendo il dolore della malattia, con la lingua screpolata, le ossa rotte, la mano tremante, capisce che deve farlo di persona.

Si alza dalla brandina, prende la pen-na in mano e ci regala un altro gioiello: «Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio… Ai partiti di sinistra dagli soltanto il voto, ai poveri scuola subito prima d’esser pronta, prima d’esser matura, prima d’essere laureata, prima d’esser fidanzata o sposata, prima d’esser credente. Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene. Ora son troppo malconcio per rileggere questa lettera, chissà se ti avrò spiegato bene quello che volevo dirti».

L’ultima frase è forse ancora più im-portante delle precedenti (sfolgoranti, che ultimamente ho letto alle ragazze del liceo Poerio di Foggia, qualcuna di loro dopo aveva gli occhi lucidi). Don Loren-zo infatti fu uno scrittore epistolare, nel solco più puro della nostra tradizione (senza tornare alle epistole petrarche-sche, basti pensare a Foscolo, alle Ultime lettere di Jacopo Ortis), con una differenza essenziale: non ricopiava in bella.

Scriveva di getto e poi spediva, così come viveva: a fondo perdu-to, senza curarsi del risultato che avrebbe potuto conseguire, ma avendo fede nell’azione che stava realizzando.

Allora noi oggi, dopo la scom-parsa di quello che ho definito l’uomo del futuro (anche pen-sando ad una battuta da lui ri-volta al cardinale Ermenegildo Florit che lo aveva sempre osta-colato: «Io sono più avanti di lei di cinquant’anni»), dovremmo chiederci perché don Milani con-tinua a dividere: c’è chi lo ama e

chi lo rigetta. Tra gli attacchi più famosi ricordiamo almeno il celebre articolo di Sebastiano Vassalli (Don Milani, che ma-scalzone, uscito venticinque anni fa su Re-pubblica).

Nelle settimane scorse, sulle pagine del supplemento domenicale del Sole 24 Ore, Lorenzo Tomasin (Io sto con la professo-ressa, 26 febbraio) e Paola Mastrocola (Uscire dal donmilanismo, 26 marzo), pur con accenti diversi, gli hanno attribuito la responsabilità del presunto sfacelo della scuola italiana, come se lui fosse davvero il padre spirituale dell’egualitarismo in-

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differenziato di marca sessantottina e non invece il fustigatore incompreso di ogni possibile negligenza e pressapochismo educativi, fino al punto di aver redargui-to un insegnante troppo permissivo, che non aveva saputo tenere a freno i suoi stu-denti, scrivendogli: «La scuola deve esse-re monarchica assolutista e è democratica solo nel fine».

Chi pensa che la scuola italiana di oggi sia figlia sua, dovrebbe chiedersi cosa di-rebbe il priore di Barbiana dei Test Invalsi che vorrebbero certificare le competenze dei nostri studenti spingendoli, dopo aver letto un brano di letteratura, a mettere la crocetta giusta fra A, B e C. Il prete del Mugello sapeva fino a che punto una ri-sposta corretta possa non corrispondere a una preparazione adeguata. Viceversa, una risposta sbagliata non dovremmo mai gettarla nel cestino.

Di fronte a tutte le incombenze buro-cratiche a cui sono sottoposti i docenti del nostro Paese, chiusi nell’angolo del tem-po scandito dalla campanella, del giudizio siglato dal voto, rimasti peraltro gli unici a dover ricondurre gli adolescenti ai valori dell’applicazione e del rigore in un mon-do che li spinge altrove, quale sarebbe la reazione del priore? Con ogni probabilità farebbe una pernacchia.

Di certo non si riconoscerebbe nella riduzione di qualsiasi obiettivo didattico. Mandava gli studenti all’estero affinché imparassero le lingue (anche l’arabo in Al-geria). Voleva ottenere il massimo in ter-mini di preparazione culturale (gramma-tica compresa), ma soprattutto puntava a far brillare gli occhi degli scolari. Questo

gli costò caro perché non tutti, anche ai suoi tempi, lo apprezzarono. Molti gli si rivoltarono contro, compresi certi ragaz-zi. E lui si prese le bastonate. Educare significa ferirsi. Andare là dove sai che ti fa male. Così ci possiamo spiegare anche un’altra delle sue celebri battute, forse la più amara: «Le maestre sono come i pre-ti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire. È bello vedere di là dall’uscio della propria casa. Bisogna soltanto esser sicuri di non aver cacciato nessuno con le nostre mani».

Va bene, ma oggi dove starebbe don Lorenzo Milani? Non ci ha lasciato meto-di, piuttosto energia allo stato puro. Una sapienza del fare scuola. Ecco perché io, anche sulla scorta di una foto che lo ri-trae a Barbiana con un bambino congo-lese in braccio, sono andato a cercarlo in giro per il mondo: nei villaggi africani, in certe bettole indiane, alla periferia di Pe-chino. Ne ho colto il riverbero negli occhi di un disertore russo. Ho rivisto in Africa i nuovi ragazzi di Barbiana. A Berlino gli adolescenti ribelli. A Città del Messico gli alunni svogliati.

Nel mondo arabo i bambini perduti. Sono stato a Ellis Island a parlare coi fantasmi degli immigrati italiani. E a Hi-roshima, vicino all’ipocentro dove bru-cia la fiamma perenne, ho ripensato al fatto che il priore leggeva ai suoi piccoli contadini le lettere che Claude Eather-ly, il pilota americano pentito, spediva a Günthers Anders, filosofo tedesco. Ho avuto qualche problema a ritrovare don Milani nella chiesa di oggi, ma tutte le volte che restavo deluso dai parroci ro-mani mi consolavo osservando la foto-grafia sopra di loro: quella di Papa Fran-cesco, il primo fra gli alti prelati vaticani a indicare don Lorenzo quale punto di riferimento essenziale per credenti e non credenti, nell’ottica e nello spirito di un cristianesimo militante concepito alla Dietrich Bonhoeffer: non una medicina spirituale per guarire dalle nostre malat-tie interiori, ma un incrocio di sguardi di cui prendersi cura.

(La Repubblica, 10 aprile 2017)

Il sogno di un’altra scuola

SINDACATO E SOCIETÀ

Oggi dove starebbe don Lorenzo Milani? Non ci ha lasciato metodi,

piuttosto energia allo stato puro. Una sapienza del fare scuola.

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L a cultura delle grandi imprese sta oc-cupando il nostro tempo. Le catego-rie, il linguaggio, i valori e le virtù del-

le multinazionali stanno creando e offrendo una grammatica universale adatta a descri-vere e produrre tutte le storie individuali e collettive “vincenti”. Così, nel giro di pochi decenni la grande impresa, da luogo prin-cipe dello sfruttamento e dell’alienazione, è divenuta icona dell’eccellenza e della fio-ritura umana.

In un tempo come il nostro, in cui le pas-sioni collettive sopravvissute al Novecento sono quelle tristi della paura e dell’insicu-rezza e dove regnano sempre più incontra-state le passioni dell’individuo, la cultura prodotta e veicolata dalle imprese globali è lo strumento perfetto per incarnare e po-tenziare lo spirito del tempo. Niente, infatti, come l’azienda capitalistica è capace oggi di esaltare i valori dell’individuo e le sue passioni. Ecco allora che le parole del “bu-siness” e le sue virtù stanno diventando le buone parole e le virtù dell’intera vita socia-le: nella politica, nella sanità, nella scuola. Merito, efficienza, competizione, leadership, innovazione sono or-mai le uniche parole buone di tutta la vita in comune. In mancanza di

altri luoghi forti capaci di produrre altra cultura e altri valori, le virtù delle imprese si presentano come le sole da riconoscere e coltivare fin da bambini.

Le imprese fanno spesso cose buone, ma non possono né devono generare tutti i valori sociali né l’intero bene comune. Per vivere bene c’è bisogno di creazione di valore diverso dal valore economico, perché esistono valori che non sono quelli delle imprese e il bene comune è ecceden-te rispetto al bene comune generato dalla sfera economica.

Tutto questo lo abbiamo sempre sapu-to, ma oggi lo stiamo dimenticando. La gestione della crisi greca ed europea ne è eloquente segnale. Ma anche ciò che sta accadendo negli ambiti della cura, del-la scuola, nel mondo del volontariato, nell’economia sociale, e persino in alcuni movimenti cattolici e chiese, ci dice che le virtù economiche stanno progressivamen-te rimpiazzando tutte le altre, che ven-gono sostituite anche perché presentate dalla cultura aziendale globale come vizi

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Le imprese fanno spesso cose buone, ma non possono né

devono generare tutti i valori sociali né l’intero bene comune.

Per vivere bene c’è bisogno di creazione di valore diverso dal valore economico, perché esistono valori che non sono

quelli delle imprese.

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6° congresso

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(ad esempio, la mitezza, la misericordia ...). Dobbiamo, poi, prendere atto che la “colpa” di questo impressionante riduzio-nismo non è solo, né forse principalmente, delle imprese, delle società di consulenza globali o delle business school che sono i principali vettori di questa monocultura.

C’è una grande responsabilità oggetti-va della società civile che non riesce più a creare sufficienti luoghi extra-economici capaci di generare nei giovani e nelle per-sone virtù diverse da quelle economiche.

La scuola, ad esempio, dovrebbe esse-re, insieme alla famiglia, il principale con-trappeso della cultura aziendalista, perché è proprio della scuola insegnare ai bambi-ni e ai giovani soprattutto le virtù non uti-litaristiche e non strumentali, che valgono anche se (o proprio perché) non hanno un prezzo.

E invece stiamo assistendo in tutto il mondo a un’occupazione della scuola da parte della logica e dei valori dell’impresa (merito, incentivi, competizione ...), con dirigenti, docenti e studenti che vengono valutati e formati ai valori delle imprese.

E così applichiamo l’efficienza, gli in-centivi e il merito anche nell’educazione dei nostri figli e nella gestione delle nostre

amicizie (basta frequentare i Paesi nordi-ci, dove questo processo è più avanzato, e vedere come si stanno trasformando in questo senso anche la vita comunitaria, re-lazionale e l’amicizia).

Il deficit antropologico che oggi si spe-rimenta nella vita economica e civile non si colmerà occupando con le “nuove” virtù economiche il vuoto lasciato dalle antiche virtù non-economiche, ma gene-rando e rigenerando antiche e nuove virtù eccedenti l’ambito economico e azienda-le, che consentiranno la fioritura integrale delle persone, dentro e fuori il mondo del lavoro.

L’economia ha sempre avuto bisogno di virtù, cioè di eccellenza areté). Fino a pochi decenni fa, però, le fabbriche e i luoghi di lavoro utilizzavano patrimoni di virtù e di valori che si formavano al di fuo-ri di essi, nella società civile, nella politica, nelle chiese, negli oratori, nelle cooperati-ve, nei sindacati, nelle botteghe, nei mari, nei campi, nella scuola e soprattutto nelle famiglie.

Era in questi luoghi non economici, ret-ti da leggi e principi diversi da quelli delle imprese e del mercato, che si formavano e riformavano il carattere e le virtù delle persone, le quali dentro le imprese trasfor-mavano i loro capitali personali in risorse produttive, imprenditoriali, manageriali e lavorative.

Senza dimenticare quell’immenso patri-monio rappresentato dalle donne – mamme, figlie, mogli, sorelle, suore, zie, nonne – che dentro le case formavano, amavano, accu-

divano, generavano e rigeneravano ogni giorno ragazzi e uomini, che quando varcavano i cancelli dei luoghi di lavoro portavano con loro figure femminili invisibili ma realissime, che offrivano e donava-no alle imprese servizi di altissimo valore, anche economico, a costo aziendale zero.

In due-tre decenni stiamo esaurendo questo stock secolare di patrimoni etici, spirituali, civi-li, senza essere ancora capaci di generarne di nuovi. E così nelle imprese arrivano in genere per-sone con patrimoni morali scarsi, fragili e poco munite delle virtù

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SINDACATO E SOCIETÀ

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essenziali nella vita lavorativa, nel lavoro di gruppo, e soprattutto nella gestione dei rapporti umani, delle crisi e dei conflitti.

Le imprese, allora, per continuare a produrre ricchezza e profitti, si sono attrezzate per creare esse stesse quei va-lori e quelle virtù di cui hanno un vitale bisogno. Quasi nessuna di queste virtù e valori è inedita, essendo piuttosto la rie-laborazione e il riadattamento di antiche pratiche, strumenti e principi riorienta-ti – e qui sta il punto chiave – agli scopi dell’impresa postmoderna.

Ma è proprio qui che si aprono sfide decisive, forse la più importante, da cui dipenderà fortemente la qualità della vita economica, personale e sociale dei pros-simi decenni. Ieri, oggi, sempre, ci sono virtù essenziali alla buona formazione del carattere delle persone, che vengono prima delle virtù economiche e di quelle dell’impresa. La mitezza, la lealtà, l’umil-tà, la misericordia, la generosità, l’ospitali-tà sono virtù preeconomiche, che quando sono presenti consentono anche alle virtù economiche di funzionare. Si può vivere senza essere efficienti e particolarmente competitivi, ma si vive molto male, e spes-so si muore, senza generosità, senza spe-ranza, senza mansuetudine.

In un mondo occupato dalle sole virtù economiche, come rispondiamo alle do-mande: «che ne facciamo degli immerite-voli?», «che fine fanno i non-eccellenti?», «dove mettiamo i non-smart?». Non tutti siamo meritevoli allo stesso modo, non tutti siamo talentuosi, non tutti siamo ca-paci di “vincere” nella competizione della vita. Il mercato e l’economia hanno le loro risposte a queste domande. Nei mercati chi non è competitivo esce, nelle azien-de di successo chi non cresce è “fuori dal gruppo”.

Ma se la sfera economica diventa l’in-tera vita sociale, verso dove “escono” i perdenti delle competizioni, quale “fuori” accoglie chi non cresce o cresce diversa-mente e in modi che non contano per gli indicatori delle performance aziendali? L’unico scenario possibile è l’edificazione di una “società dello scarto”. Restiamo persone degne anche quando siamo o di-ventiamo immeritevoli, inefficienti, non competitivi. Ma questa dignità diversa la

nuova cultura dell’impresa non la cono-sce. Le virtù economiche e manageriali nei lavoratori hanno bisogno di altre virtù che le imprese non sono capaci di genera-re. Le virtù economiche sono autentiche virtù se e quando accompagnate e prece-dute dalle virtù che hanno nella gratuità il loro principio attivo.

È qui che il grande progetto della cul-tura aziendale di crearsi da sola le virtù di cui ha bisogno per raggiungere i propri obiettivi incontra un limite invalicabile: le virtù, tutte le virtù, per crearsi e fio-rire hanno un vitale bisogno di libertà e di eccedenza rispetto agli obiettivi posti dalla direzione dell’impresa. Non saremo mai lavoratori eccellenti se smarriamo il valore intrinseco delle cose, se non ci li-beriamo dalla servitù degli incentivi. Le virtù economiche delle imprese non si tra-sformano in vizi se si lasciano, umilmente, affiancare da altre virtù che le ammansi-scono e umanizzano. Solo imparando a sprecare, inefficientemente, tempo con i miei dipendenti posso sperare di diventa-re un manager veramente efficiente. Solo riconoscendo umilmente che i talenti più preziosi che possiedo non sono frutto del mio merito ma tutto dono (charis), posso riconoscere i veri meriti miei e degli altri.

Le imprese non possono costruire il buon carattere dei lavoratori, perché se lo fanno non generano persone libere e feli-ci come dicono e forse vogliono, ma solo tristi strumenti di produzione. Le imprese possono solo accogliere, rafforzare, non distruggere le nostre virtù. Non possono fabbricarle. Come con gli alberi. Come con la vita. È questa una delle leggi più sorprendenti della terra: le virtù fiorisco-no se sono più grandi e più libere dei no-stri obiettivi, anche di quelli più nobili e grandi.

(La foresta e l’albero, Vita e Pensiero, 2016)

Le imprese non possono costruire il buon carattere dei lavoratori, perché se lo fanno non generano persone libere e felici come dicono e forse vogliono, ma solo tristi strumenti di produzione. Le imprese possono solo accogliere, rafforzare, non distruggere le nostre virtù.

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UNA DIffErENTE POLITICA DELL’EDUCAzIONE

I l fare comunità, il costruire qualcosa perché tutti trovino un senso condiviso richiede però un riorientamento della

cultura attuale. Lo stato attuale delle cose rende non dilazionabile la ricerca di una nuova politica che gestisca secondo una vi-sione differente la cosa pubblica metten-do al centro la ricerca di ciò che consente il continuo miglioramento delle condizio-ni di vita per tutti senza cedimenti agli in-teressi personalistici e senza compromes-si piegati alle logiche di affermazione dei vari gruppi.

Al centro di una buona politica cul-turale c’è una buona cultura dell’educa-zione, perché senza menti educate non c’è la possibilità di coltivare la civiltà. È urgente ripensare le politiche formative perché le istituzioni deputate alla forma-zione dei giovani stanno attraversando una crisi sensibile.

Le istituzioni formative, che dovreb-bero muoversi secondo linee utopiche e atopiche allo stesso tempo, riflettono e a loro volta rinforzano l’ethos individuali-stico che caratterizza il tempo presente. C’è un approccio individualistico allo studio, e in generale alla vita. Un indivi-dualismo che viene nutrito dal prevalere di uno spirito competitivo, dall’idea che una vita degna di essere vissuta è quella in cui ci si afferma nella propria singo-

larità e unicità indipendentemente dalle traiettorie esistenziali degli altri. Questa interpretazione del senso dell’esistenza dimentica che la nostra sostanza è inti-mamente relazionale e che per questo la realizzazione personale è intimamen-te connessa a quella degli altri. Il senso della comunità, dell’esser-con-l’altro in una visione che accomuna e in un pro-getto da condividere, è cosa da rimettere al centro della politica e, quindi, anche delle politiche della formazione.

L’educazione è una pratica e in quanto tale ha bisogno di una teoria che la infor-mi. Una buona teoria dell’educazione è mossa dall’intenzione di mettere i giova-ni in grado di coltivare la migliore forma di vita possibile.

Centrale è la capacità da parte del-la teoria dell’educazione di individuare buone esperienze educative, potenzial-mente capaci di far fiorire le possibilità esistentive di ciascun essere umano den-tro una visione intimamente relazionale e politica dell’esistenza. L’educazione non può essere ridotta al solo, seppure im-prescindibile, piano dell’istruzione, cioè del facilitare l’apprendimento dei vari linguaggi culturali, ma deve essere mossa dall’intenzione di facilitare lo sviluppo di ogni aspetto della persona: cognitivo, affettivo, estetico, spirituale, etico e po-litico1.

In linea con la cultura individualisti-ca che sta alla base delle politiche libe-ristiche si registra, invece, una pratica educativa impoverita, minimalista, che si occupa di sviluppare solo quelle compe-tenze che servono a una società che tutto misura in termini economici e di affer-mazione di sé.

È ormai pervasivo un modello bancario della formazione, che risulta evidente in questo momento storico in una eccessiva

Il sapere della cittadinanza

S I N D A C A T O E S O C I E T À

6° congresso

Luigina Mortari

L’educazione non può essere ridotta al solo piano

dell’istruzione, ma deve essere mossa dall’intenzione di

facilitare lo sviluppo di ogni aspetto della persona.

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enfasi sulla competizione e sulla acquisizione di prestazioni tecni-cistiche. Quello che viene definito «banking model of education» (Marullo e Edwards, 2000, p. 746) incrementa uno spirito individua-listico e altamente competitivo: in classe lo studente agisce per sé, e anche quando gli accade di trovarsi coinvolto in lavori di gruppo que-ste situazioni vengono interpretate non nella prospettiva dello svilup-po di uno spirito comunitario, ma come occasioni per rendere più efficiente il processo di apprendi-mento. Tutto quanto non è rubri-cabile dentro il modello bancario non è riconosciuto come valore, anzi è percepito come disutile.

Un indizio di questo orientamento alle logiche del mercato è la svalutazione di tutti i saperi umanistici a vantaggio delle scienze, e in particolare di quelle a voca-zione tecnologica. È riconosciuto valore solo a quelle forme di apprendimento che consentono di acquisire i linguaggi scienti-fici, e soprattutto quelli più spendibili nel mondo del lavoro, e le abilità tecnologiche in cui si riconosce la società postmoder-na, ma non si coltiva l’intelligenza sociale, né l’intelligenza del cuore e ancora meno l’intelligenza etica, quella che rende com-prensibile il valore dell’impegno e della responsabilità, con la conseguenza del di-lagare di una forma di analfabetismo delle competenze di civiltà.

Il compito di una istituzione formati-va è invece quello di predisporre buone esperienze di apprendimento che offrano contesti dove sviluppare la capacità di pen-sare, di sentire e di agire con competenza nel mondo con gli altri.

Si insiste molto in questa cultura dell’efficienza sulla pianificazione, sul monitoraggio e sulla valutazione dei contesti di apprendimento. Una sensata programmazione del processo formativo delinea percorsi di apprendimento ben strutturati, dove risultano ben chiare le competenze che si intende sviluppare, quali conoscenze concettuali e procedu-rali da acquisire. Ma anche la migliore programmazione del processo di appren-dimento non basta a rendere significati-

va un’esperienza. Decisivo risulta essere invece il radicare i processi di apprendi-mento nella realtà.

Come già segnalava Deweey, il limite dei contesti di apprendimento formali è rappresentato dal rischio di essere arti-ficiali, lontani dalla vita. Importante per un progetto educativo che intende nutri-re la crescita personale è l’adozione del «principio di imparare mediante l’espe-rienza» (Dewey, 1993, p. 7), condizione che si realizza organizzando un contesto di apprendimento secondo la forma del laboratorio di cose della vita. Ciò richie-de secondo Dewey una «nuova filosofia dell’esperienza» (ivi, p. 8). Ma cosa è l’esperienza? E come mettere al centro l’esperienza?

L’esperienza non è il semplice accade-re del nostro esserci nel mondo. Non ba-sta trovarsi coinvolti in un’attività perché si possa parlare di esperienza. C’è espe-rienza quando il vissuto viene accompa-gnato dal pensare che cerca di compren-dere quello che accade di vivere di dare un senso al nostro esserci nel mondo. Fare esperienza vuoi dire dunque agire e pensare quello che si agisce. Mettere l’esperienza al centro del processo edu-cativo significa mettere al centro la pos-sibilità di una presenza vera, quella che ci pone in contatto con i problemi reali, che fa stare con il pensiero non nelle teo-rie già date, ma nel mezzo della vita.

Diversi sono i modi per agganciare la formazione al reale. Certamente utile alla costruzione di ambienti di appren-dimento che risultino significativi per lo

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studente è cercare nel reale i problemi rilevanti e portarli in aula usandoli come leva a partire da cui costruire le sequenze di apprendimento. Ma è possibile anche portare la scuola/l’università nella realtà, cioè far germinare i processi di appren-dimento dal contatto diretto con i pro-blemi della realtà facendo dell’ambiente circostante un laboratorio di pensiero e di azione.

Rispondono a questa prospettiva le metodologie didattiche ispirate ai principi dell’“experiential learning”, espressione che indica una teoria educativa che assume come centrale il principio di valorizzare l’esperienza diretta delle cose e dei con-testi del mondo della vita, così da nutrire i processi formativi di stimoli reali. Molte pratiche formative patiscono il limite dello “stare nella ragione”, cioè confinate dentro un approccio astratto, anziché dello “stare nella realtà”, cioè in dialogo con i proces-

si reali della vita (Zambrano, 1996). Per “experiential learning” si intendono quelle esperienze formative che coinvolgono gli studenti in attività finalizzate a facilitare l’acquisizione di competenze attraverso l’impegno in problemi reali e secondo modalità che coinvolgono lo studente in una serie differenziata di compiti come: percorsi problem-based, ricerche guidate, simulazioni e progetti espressivi (Wurdin-ger & Carlson, 2010).

Nelle varie forme di apprendimento esperienziale c’è, però, il rischio che la scuola/l’università si rapporti in modo meramente strumentale al contesto ester-no, vale a dire usando il mondo circostante solo come serbatoio di questioni da inve-stigare e di risorse cognitive. C’è invece un modo di raccordare la formazione scolasti-ca e universitaria alla realtà andando oltre un uso strumentale della realtà ambientale, e questa condizione si realizza quando si va all’esterno non solo per comprendere ciò che accade nel mondo considerardo l’ambiente come un laboratorio funzionale a rendere l’apprendimento significativo, ma per portare nella comunità qualcosa che possa contribuire al miglioramento dell’ambiente stesso. Si parla in questo caso di “service learning” (SL) o “com-munity service learning” (CSL)2.

Il SL viene definito come una pratica didattica che consente agli studenti di apprendere dall’esperienza vissuta in un contesto reale e allo stesso tempo di par-tecipare alla vita di una comunità attra-verso il coinvolgimento attivo all’interno di esperienze di servizio metodicamente organizzate per incontrare i bisogni reali del contesto; questa pratica didattica ha lo scopo di arricchire ciò che viene inse-gnato a scuola situando l’apprendimento degli studenti oltre la classe e all’inter-no della comunità (Furco, 1996, p. 1). Secondo Sigmon (1994), solo quando servizio e apprendimento si rapportano secondo un equilibrio ponderato e si raf-forzano l’un l’altro si può parlare di ser-vice learning; quando invece una delle due dimensioni pesa più dell’altra, allora si hanno altre interessanti esperienze, ma non un SL vero e proprio.

(Service Learning. Per un apprendimento responsabile, Franco Angeli, 2017)

Il sapere della cittadinanza

SINDACATO E SOCIETÀ

Andare oltre un uso strumentale della realtà ambientale, considerardo l’ambiente come

un laboratorio funzionale a rendere l’apprendimento significativo, ma per portare

nella comunità qualcosa che possa contribuireal miglioramento dell’ambiente stesso.

1) Nella letteratura pedagogica nord-americana, dove un sensibile rilievo viene riservato a teorizzare l’importanza di non limitare la formazione solo al piano dell’apprendimento delle competenze di-sciplinari, ma di promuovere lo sviluppo di ogni forma di intelligen-za sociale, si parla di “prosocial-education” per indicare quelle azio-ni educative finalizzate a sviluppare l’educazione alla relazione con l’altro, che prende di volta in volta forme diverse: “character edu-cation”, “cooperative learning”, “moral development”, “citizen-ship education”, “service learning”, “social and emotional lear-ning” (Brown et al., 2012, p. XIII). L’educazione ad apprendere i saperi e l’educazione pro-sociale vanno considerate i due aspetti co-stitutivamente necessari dell’agire educativo. 2) In letteratura (Furco e Root, 2010; Kielsmeier, 2010; Hart e King, 2007) è ampiamente condivisa la tesi secondo la quale le esperien-ze di SL possono essere organizzate a ogni livello di scuola.

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Il Congresso nazionale Cisl Scuola, riuni-to a Castellaneta (TA) nei giorni 29, 30, 31 maggio e 1 giugno 2017, approva la relazio-

ne della segretaria generale Maddalena Gis-si, arricchita dai contributi dell’ampio dibat-tito e dall’intervento della segretaria genera-le Cisl Annamaria Furlan. Il congresso riba-disce in particolare la fondamentale esigenza di un’intensa e partecipata sinergia tra cate-goria e confederazione. Considera meritevo-li di grande attenzione tutti i contributi por-tati da esponenti esterni che hanno arricchito di contenuti e di stimoli il dibattito.

In ragione della sua natura confederale, la Cisl Scuola esprime attenzione e preoc-cupazione per il contesto internazionale ca-ratterizzato da diffuse emergenze di carat-tere umanitario, sociale ed economico, che comportano il complessivo indebolimento del tessuto sociale. La crisi, tuttora in atto, aggravata delle situazioni di guerra e di po-vertà di molti paesi, porta alla fuga milioni di persone alla ricerca di sicurezza attraver-so l’emigrazione nei paesi europei.

L’evidente debolezza del “sistema Euro-pa” nell’affrontare la richiesta di accoglien-za e di dignità di chi si presenta ai suoi con-fini si traduce in forme di insicurezza diffu-sa e in una forte ripresa di temi razzisti, anche nel nostro Paese. La scuola e la formazione profes-sionale in tale contesto sono chia-mate a svolgere un ruolo di pri-maria importanza sotto i profili dell’accoglienza, dell’inclusione e dell’istruzione per l’acquisizio-ne dei diritti di cittadinanza.

Con la drammaticità di questi scenari il sindacato confederale deve necessariamente misurarsi nel definire le proprie strategie a ogni livello.

L’efficacia dell’azione sinda-cale si è manifestata nell’accordo del 30 novembre e nel Ccni sulla

mobilità, cui ha contribuito anche un rin-novato clima nelle relazioni sindacali. Ora diviene urgente e improrogabile l’emanazio-ne degli atti di indirizzo per il rinnovo dei contratti dei diversi comparti del Pubblico impiego.

I contratti che riguardano il personale della scuola, bloccati ormai da troppi anni, richiedono un rinnovo che consenta un ade-guato riconoscimento, anche retributivo, di tutte le professionalità operanti nella co-munità scolastica: personale Ata, educativo, docente e dirigente. Occorre recuperare alla disciplina negoziale materie che sono state impropriamente fatte oggetto di incursioni di tipo legislativo e convogliare sul tavolo contrattuale tutte le risorse economiche che a vario titolo affluiscono al comparto, indi-viduando anche adeguati spazi di welfare contrattuale.

Il Congresso considera le Rsu/Rsa d’isti-tuto e i Terminali associativi risorse preziose per l’organizzazione, chiamate a svolgere pienamente e attivamente il loro ruolo di rappresentanza anche attraverso la contrat-tazione di tutte le risorse del salario accesso-rio, a qualsiasi titolo erogate. Per questo si ritiene fondamentale ridefinire le materie di

Mozione finale

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contrattazione di 2° livello.Il Congresso impegna la Cisl Scuola ad

avviare interventi di supporto e formazio-ne alle lavoratrici e ai lavoratori impegnati in ruoli di rappresentanza, anche nella pro-spettiva dell’imminente rinnovo Rsu previ-sto nel 2018.

Il Congresso esprime l’esigenza che l’articolato dei nuovi contratti sia chiaro nell’enunciare diritti e doveri dei lavoratori, riconoscendo e valorizzando le varie attività che nella scuola vengono svolte da tutto il personale per garantire l’efficacia e la qua-lità del servizio, presupposti indispensabili per esiti di successo scolastico.

Ribadisce la necessità e l’importanza di valorizzare pratiche di collaborazione e collegialità che sono premesse di percorsi educativi efficaci e garanzia della migliore qualità di un’offerta formativa volta all’in-clusione e al successo formativo di tutti gli allievi.

Occorre promuovere e valorizzare la cul-tura della partecipazione democratica di tutte le componenti dell’istituzione scolasti-ca per riaffermare con forza un modello di scuola intesa come comunità educante.

Procedure e modalità di valutazione van-no ricondotte all’interno di un sistema di re-gole condivise nelle sedi appropriate, quali il contratto collettivo di lavoro e la contrat-tazione d’istituto.

Solo attraverso percorsi di condivisione che vedano attivamente coinvolto tutto il personale nella programmazione e gestione delle attività scolastiche, su cui innestare an-che il riconoscimento di nuove articolazio-ni professionali e puntando a far emergere buone pratiche, già ampiamente diffuse, ri-guardanti i processi di miglioramento mes-si in atto in coerenza con il Piano triennale dell’offerta formativa e con il Rav e PdM, si potrà realizzare una scuola davvero buona.

Il Congresso sottolinea l’urgenza di una revisione dei Regolamenti per le supplenze al fine di comporre le garanzie di tutela dei

diritti dei lavoratori precari con l’esigenza di assicurare il diritto all’istruzione e alla formazione, salvaguardandone gli aspetti di continuità e garantendo adeguati livelli di professionalità del personale. È a tal fine indispensabile, fra l’altro, che le graduatorie siano pubblicate e fruibili con tempi certi e comunque funzionali ad un avvio regolare dell’anno scolastico.

Il Congresso valuta molto positivamente, per la sua rilevanza politica, l’aver ricon-dotto in sede contrattuale la definizione dei requisiti per l’assegnazione dei docenti da ambito a scuola, assicurando, in tal modo, il massimo di trasparenza e oggettività alle procedure e soprattutto coinvolgendo il Collegio docenti nei processi decisionali.

Il Congresso ritiene indispensabile pro-seguire nel tentativo di ottenere interventi modificativi della legge 107/15 per quegli aspetti su cui si registrano le più evidenti cri-ticità. Afferma la necessità di un serrato con-fronto sui provvedimenti con cui si dovran-no rendere operative le deleghe attuative della legge 107, intervenendo puntualmente nel merito dei loro contenuti. Decisiva sarà l’interlocuzione sul Testo Unico in mate-ria d’Istruzione, delega ancora inespressa, in relazione alle funzioni e ai compiti degli Organi collegiali, da ridisegnare in coeren-za con i processi decisionali di una nuova governance.

Il Congresso individua a tal fine come aspetti di particolare rilievo:l l’esclusione della scuola primaria e

dell’infanzia dagli interventi su Forma-zione iniziale e Reclutamento del perso-nale della scuola, lasciando irrisolti per tali settori i problemi del personale pre-cario che per la secondaria hanno trovato positive risposte nella definizione della fase transitoria;

l il rischio di veder sacrificato il valore di-dattico ed educativo del segmento 3- 6 anni, ampiamente riconosciuto in tutta Europa, nell’ambito del sistema integrato 0-6, che comporta una forte correlazione con le politiche di welfare e dei servizi alla persona;

l sul decreto per l’Inclusione, le criticità rappresentate dalla mancanza di defini-zione dei livelli essenziali di prestazione, la scarsa responsabilità degli Enti Locali, gli eccessivi processi di decentramento

Mozione finale

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verso le strutture di Ambito.Relativamente al personale

Ata, il Congresso denuncia il diffuso disagio che il settore vive in conseguenza di interventi che hanno sempre più aggravato le condizioni di lavoro, mentre con-tinua a esserne negato il giusto riconoscimento. Assenza di con-corsi, organici insufficienti, risor-se contrattuali sottratte, percorsi di valorizzazione professionale bloccati e mancata stabilizzazio-ne del personale precario fanno da sfondo a una condizione la-vorativa che sconta quotidiana-mente anche i pesanti limiti di funzionalità e organizzazione del sistema dati dall’impossibilità di sostituzione degli assenti a causa delle disposizioni contenute nella legge di stabilità 2015.

Il Congresso denuncia, altresì, la situa-zione di disagio che investe la dirigenza scolastica, su cui si fa sempre più gravoso il carico di adempimenti e responsabilità, an-cor meno sostenibili in un contesto che vede addirittura ridotte in modo significativo le retribuzioni. In modo particolare, preoccu-pano gli obblighi e le responsabilità poste in capo al dirigente in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, in assenza di risorse in-dispensabili per ottemperare a quanto pre-scritto dalle leggi.

Incertezza e instabilità, unitamente agli ec-cessivi carichi di lavoro, coinvolgono oramai tutto il personale scolastico e vanno affrontate insieme arginando così le possibili situazioni di forte disagio che possono talvolta deter-minare condizioni di stress lavoro correlato.

In questo contesto occorre assicurare il massimo coordinamento tra le iniziative di mobilitazione già avviate in relazione a spe-cifiche problematiche di settore dei Ds e del personale Ata e quelle che potrebbero ren-dersi necessarie per le altre professionalità operanti nella scuola: a tal fine il rinnovo dei contratti potrà essere lo strumento risoluti-vo e unificante dell’intero sistema. Occorre ricercare le condizioni per percorsi condivi-si unitariamente con le altre organizzazioni sindacali su obiettivi da sostenere con un forte coinvolgimento delle strutture a ogni livello e in stretto rapporto con le Confede-razioni.

Il piano straordinario di assunzioni del-la legge 107 non ha eliminato il precariato e non ha dato adeguate risposte ai bisogni delle scuole attraverso l’organico di poten-ziamento, funzionale solo allo svuotamento delle graduatorie ad esaurimento, trascu-rando completamente la scuola dell’infan-zia, gli Insegnanti di Religione e il personale educativo e Ata.

La politica degli organici e la loro attribu-zione non possono ridursi ad un mero calcolo matematico; va invece consentita la piena re-alizzazione dell’autonomia scolastica in rela-zione ai reali bisogni espressi dalle scuole per contrastare la dispersione scolastica, favorire l’acquisizione di maggiori competenze disci-plinari e di cittadinanza, perseguire il miglio-ramento dell’offerta formativa.

Il Congresso riconosce nei percorsi di alternanza scuola-lavoro una metodologia didattica che permette allo studente un pri-mo approccio al mondo del lavoro, con cui misurarsi efficacemente attraverso esperienze didattiche in ambienti esterni alla scuola. Si valuta positivamente l’iniziativa assunta dalla Cisl e dalla Cisl Scuola sia svolgendo un ruolo di sollecitazione e facilitazione dell’incontro fra sistema scolastico e sistema produttivo, sia nella progettazione di percorsi in cui le strut-ture sindacali intervengano come soggetto promotore e ospitante.

Il Congresso afferma la necessità di ricol-locare la formazione in servizio di tutto il personale in una logica di sistema, che esclu-da approcci di tipo episodico e frammenta-rio, come avvenuto con l’assegnazione del bonus dei 500 euro per i docenti di ruolo.

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Non è più tempo di “aggiornamento”, sem-mai di “sviluppo professionale” dei docenti e del personale dirigente e Ata. Occorre tra-guardare un nuovo senso della “formazione continua” per tutto il personale, inteso non solo come “dovere” da assolvere, ma come opportunità rivolta a un progetto personale e collettivo di crescita professionale, capace di orientare le scelte educative della scuola.

Il Congresso ritiene che la pluralità dell’offerta formativa (sistema di istruzione

e sistema di Istruzione e Formazione Pro-fessionale – IeFP) possa dare risposte sod-disfacenti alle nuove necessità della società globalizzata. Per questo è importante che tutte le filiere educative e formative siano

impegnate in sinergia e con pari dignità nel territorio per un effi-cace rapporto con il Mercato del Lavoro e il recupero dei giovani drop out e dei neet. A tal fine si auspica l’estensione delle buone pratiche, già presenti in alcune regioni, garantendo la perma-nenza delle istituzioni formative e la loro crescita in tutto il terri-torio nazionale.

Il Congresso riconosce che la scuola paritaria è parte costitu-tiva e insostituibile del sistema dell’istruzione pubblica nel no-stro Paese, pertanto è necessario che sia ricondotta all’interno di regole certe, sia di carattere nor-mativo che contrattuale.

Il Congresso impegna l’organizzazione af-finché nella costruzione del futuro soggetto interfederale nazionale (Scuola, Università Afam e Ricerca), conseguente all’accordo sui comparti della Pubblica amministrazio-ne dell’aprile 2016, gli organismi statutari di categoria restino il luogo privilegiato per il dibattito e il confronto dialettico, con la ga-ranzia di ampi spazi per condurre analisi ed elaborare proposte.Approvata all’unanimità

Mozione finale

SINDACATO E SOCIETÀ

GESTIQUOTIDIANI

12

i componenti del nuovoconsiglio generale nazionale

Gissi Maddalena, Barbacci Ivana, Cupani Concettina, Formosa Elio, Serafin Paola, Agabiti Alessandra, Aghemo Claudio, Agostini Brunella, Alessandro Vincenzo, Amoruso Domenico, Anastasio Michela, Ariu Maria Luisa, Bagiotti Giovanna, Barbolini Monica, Bartolini Anna, Basile Francesco, Belletti Bruno, Bellia Francesca, Bianchi Marco, Biolo Emanuela Sandra, Boccioletti Cristina, Boldini Attilio, Bonavita Salvatore, Botton Stefania, Bruccoleri Francesco, Brunati Carlo, Calafiore Simonetta, Calienno Roberto, Canuso Maria Giuseppa, Capra Monica Francesca, Carbone Arcangelo, Cardillo Carmelo, Cassata Vito, Cassetta Erica, Casto Rosa, Cervi Carlo, Colonna Rosanna, Colorà Paola, Corsaro Caterina, Cortazzi Maria Carmela, Cosentino Arturo, De Sanctis Claudio, Desiati Davide, Evangelista Faustina, Fanara Salvatore, Ferrazzoli Carlo, Foresi Anna Maria, Fosson Corrado, Fraternali Sandro, Galli Stefania, Garino Giovanni, Garoia Giancarlo, Gennaro Antonio Massimo, Gentile Albino, Gentilini Maria, Ghillani Federico, Giammanco Matteo, Granata Mario Stefano, Groccia Enzo, Guido Giovanna, Inglima Salvatore, Lamorte Donato, Leonardi Monica, Leotta Leonardo, Maddalena Franco, Maga Elena Rita, Maiorano Domenico, Manco Maria, Marconi Brunella, Maretto Mariano, Merico Elisabetta, Merotto Teresina, Micuccio Alfonso, Migliore Giovanni, Milione Silvana, Moio Giuseppe, Mossa Franca, Nalesso Paolo, Olivieri Teresa, Pagliarisi Ferdinando, Pellegrino Antonietta, Penna Maria Grazia, Piccolo Antonella, Purita Maria Concetta, Rebonato Alessio, Romano Maria, Sambruna Massimiliano, Scapicchio Gesualdo, Serra Maria Luisa, Sorge Michele, Tortiello Fiorella, Treccani Luisa, Vannucci Giovanni, Varengo Attilio, Velani Antonella, Vitale Raffaele, Vozza Cosima, Zangheratti Alessandra.

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scuola e formazione 37

I l XVIII Congresso confedera-le, tenutosi al Palazzo dei Con-gressi dell’Eur a Roma dal 28

giugno al primo luglio, si è conclu-so con la conferma di Annamaria Furlan alla guida della Cisl. La sua elezione è avvenuta con un voto pressoché unanime da parte del Consiglio generale, riunitosi su-bito dopo la chiusura dei lavori congressuali. Il Consiglio ha pro-ceduto a eleggere anche gli altri componenti della segreteria (Pie-ro Ragazzini, Giovanna Ventura, Gianluigi Petteni, Maurizio Pe-triccioli, Angelo Colombini e An-drea Cuccello).

Per la Cisl Scuola faranno parte del Consiglio generale, oltre alla segretaria generale Maddalena Gissi, anche Ivana Barbacci, Tina Cupani, Elio Formosa, Paola Se-rafin, Monica F. Capra e Elisabet-ta Merico.

“Sono molto contenta. Avremo una grande responsabilità nei pros-simi anni perché le cose da fare sono tante. Ma lo faremo con grande uni-tà come lo è stato il nostro Congres-so” ha detto la Furlan subito dopo

la sua riconferma.Le giornate congressuali sono

state animate da un intenso dibat-tito e arricchite dagli interventi di numerosi e autorevoli rappresen-tanti delle istituzioni, della politi-ca, della cultura, dell’economia. Di grande impatto le testimonian-ze portate al congresso da soggetti e associazioni operanti nel campo del volontariato in attività rivolte alle fasce sociali più deboli ed emarginate, con uno spazio dedi-cato al contrasto alla violenza sulle donne che è stato anche l’occasio-ne per presentare la “Piattaforma Cisl sulla prevenzione della violen-za sulle donne e sui minori”.

Nella sua ampia relazione in-troduttiva Annamaria Furlan ha evidenziato le priorità che orienteranno l’azione della Cisl nell’immediato futuro, partendo da lavoro e fisco. Sul fisco si è detta pronta a definire con Cgil e Uil una piattaforma unitaria, sostenuta e condivisa con lavoratori e pensio-nati, con l’obiettivo di una “radi-cale” riforma del fisco che preveda un taglio dell’Irpef su dipendenti

Una conferma unanimeper Annamaria Furlan

S I N D A C A T O E S O C I E T À

XVIII CONGRESSO CISL

e pensionati, nel quadro di una complessiva semplificazione del sistema fiscale. Sul lavoro, tema centrale dell’intera stagione con-gressuale, ha affermato che la sua mancanza sta togliendo ai giovani il diritto di sognare, di progettare una vita. Un Paese che dissipa i suoi giovani perde se stesso, ha detto la Furlan. La Cisl vuole essere al servizio del loro prota-gonismo, del loro riscatto, della riconciliazione con il loro futuro. Sulla controversa questione del reddito minimo garantito, ha ri-badito che la via maestra è anche in questo caso il lavoro: è questo che dà dignità all’esistenza, non reddi-ti minimi a pioggia, non assistenza gratuita. È tempo di puntare non più solo su un sistema di tutele per difendere il posto di lavoro. È tempo di costruire un sistema di tutele per la persona nel lavoro. È tempo di passare dal tutelare il lavoratore nel suo posto di lavoro a tutelare il lavoratore in quanto soggetto sociale. Questo è il senso più proprio e più profondo dello slogan del congresso (“Per la per-sona, per il lavoro”).

I contenuti del dibattito e le scelte “di linea” compiute dal Congresso sono alla base dell’am-pia mozione conclusiva, che insie-me alla relazione di Annamaria Furlan è disponibile sulle pagine del nostro sito.

Gianluigi Petteni, Piero Ragazzini, Giovanna Ventura, Annamaria Furlan, Maurizio Petriccioli, Angelo Colombini e Andrea Cuccello

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38 scuola e formazione

A bbiamo più volte affer-mato che l’azione contrat-tuale costituisce uno degli

strumenti più efficaci per affron-tare e gestire le tante criticità con cui ci si misura nell’applicazio-ne di una norma di legge conte-stata e controversa come la 107. La trattativa di quest’anno sul-la mobilità è stata sotto questo aspetto emblematica, con esiti su cui incide indubbiamente an-che il mutamento di clima nelle relazioni sindacali conseguente all’intesa preliminare sul rinno-

vo dei contratti pubblici del 30 novembre 2016 e al cambio di governo intervenuto dopo i ri-sultati del referendum sulle ri-forme costituzionali.

Sul numero precedente del-la nostra rivista, presentando e commentando il Ccni appena sottoscritto, avevamo usato que-sto titolo: “Mobilità, quando il contratto vince”. In particolare, mettevamo in evidenza – tra i punti di maggiore rilievo politico – l’introduzione della possibilità, per il personale docente, di chie-

Mobilità, il contratto vince:i dati lo confermano

S I N D A C A T O E S O C I E T À

questioni aperte

dere e ottenere trasferimento di-rettamente su un’istituzione sco-lastica, senza passare attraverso la titolarità di ambito ed evitando così di sottostare alla procedura della cosiddetta “chiamata di-retta”.

L’elaborazione dei dati rela-tivi ai movimenti del personale docente non lascia adito a dubbi nel confermare che l’operazione condotta al tavolo di trattativa è andata molto al di là della sua pur importante valenza simbo-lica. I trasferimenti sui singola scuola non sono infatti, come si sarebbe potuto ipotizzare, una quota residuale, ma rap-presentano una percentuale elevatissima, l’81,4%, dei mo-vimenti effettuati (in dettaglio: 84,6% nella scuola dell’infan-zia, 84,1% nella scuola prima-ria, 81% nella secondaria di I grado, 78,7% nella secondaria di II grado).

Esaminando altri aspetti, si constata che il movimento su ambito riguarda prevalente-mente i trasferimenti in altra provincia, che avvengono infatti

GESTIQUOTIDIANI

13

Tipologia movim. Trasf. su ambito Trasf. su scuola Totale mov.% %

nella provincia 4.227 43.709 47.9368,8 91,2

in prov. diversa 7.236 6.370 13.60653,2 46,8

11.463 50.079 61.54218,6 81,4

TOTALE DEI MOVIMENTI

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scuola e formazione 39

in maggioranza con tale modali-tà, anche se lo scarto rispetto ai trasferimenti su scuola non è poi così eclatante (56,5% contro 43,5% nella scuola dell’infan-zia, 54,6% contro 45,4% nella primaria, 51,3% contro 48,7% nella secondaria di I grado, 52,7% contro 47,3% nel II gra-do). Se ci si limita ai soli movi-menti in ambito provinciale, la percentuale dei trasferimenti su ambito si riduce notevolmente (solo il 5,1% dei movimenti nel-la scuola dell’infanzia, il 7,1% nella primaria, il 9,3% nella se-condaria di I grado, l’11% alle superiori).

I dati che riportiamo in questa pagina, desunti dalla documen-tazione fornita dal Miur, sono molto eloquenti e attestano la qualità del lavoro svolto in una trattativa di cui la Cisl Scuola è stata, anche in questa occasione, uno dei protagonisti più lucidi e determinati.

Resta la convinzione, tante volte espressa, che tutta la parte relativa alle modalità di assegna-zione della sede ai docenti sia uno dei capitoli più discutibili della legge 107, e che sarebbe quanto mai opportuna una sua profonda rivisitazione, conside-rato lo scarso o nullo vantaggio che per le scuole può derivare da procedure inutilmente farra-ginose e indubbiamente pena-lizzanti per il personale.

In attesa che si aprano spazi di riflessione e di possibile revi-sione dell’impianto normativo, fuori da arroccamenti “ideolo-gici” insensati e facendo piutto-sto tesoro di quanto rilevabile in sede di concreta applicazione della Buona Scuola, possiamo dirci soddisfatti dei risultati an-cora una volta ottenuti con lo strumento della contrattazione. Quello che abbiamo fatto può dirsi davvero un buon lavoro.

SECONDARIA DI II GRADO

SECONDARIA DI I GRADO

SCUOLA PRIMARIA

SCUOLA DELL’INFANZIA

Tipologia movimento

Trasferitisu ambito

Trasferitisu scuola

Totalemovimenti% %

Nella provincia 1.957 15.771 17.72811,0 89,0

In provincia diversa 3.056 2.741 5.79752,7 47,3

Totale 5.013 18.512 23.52521,3

Tipologia movimento

Trasferitisu ambito

Trasferitisu scuola

Totalemovimenti% %

Nella provincia 1.029 10.094 11.1239,3 90,7

In provincia diversa 1.723 1.638 3.36151,3 48,7

Totale 2.752 11.732 14.48419,0 81,0

78,7

Tipologia movimento

Trasferitisu ambito

Trasferitisu scuola

Totalemovimenti% %

Nella provincia 309 5.655 5.9645,2 94,8

In provincia diversa 838 644 1.48256,5 43,5

Totale 1.147 6.299 7.44615,4 84,6

Tipologia movimento

Trasferitisu ambito

Trasferitisu scuola

Totalemovimenti% %

Nella provincia 932 12.189 13.1217,1 92,9

In provincia diversa 1.619 1.347 2.96654,6 45,4

Totale 2.551 12.526 16.08715,9 84,1

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40 scuola e formazione

Beniamino Brocca«Q uesto istrumento, per volare, isperimenterai sopra un lago e por-

terai cinto un otro lungo, acciò che nel cadere tu non annegassi» (Leonardo da Vinci 2 72). Sono trascorsi quasi cinquecento an-ni da quando l’artista e scienzia-to toscano, sperimentò la validità dell’applicazione pratica di tecni-che e metodiche nel settore aero-dinamico. Lo fece con il naturale dubbio che l’ipotesi potesse an-che non superare la prova a cau-sa di eventuali errori di progetta-zione e di costruzione.

Il rischio di un insuccesso era ed è insito, pure, nelle sperimen-tazioni concepite e introdotte nel sottosistema scolastico italiano in tempi recenti. Il giudizio defini-tivo, sulle stesse, viene lasciato al lettore. Allo scrivente, invece, compete il compito di raccontare quanto è accaduto con l’aggiunta di qualche osservazione, opinabi-le, doverosamente espressa al fine di non essere accusato di detesta-bile ignavia.

1. LA FONTE ORIGINARIAIl Dpr 31 maggio 1974, n. 419

introdusse, per la prima volta nella scuola italiana la sperimen-

Chiamale, se vuoi,sperimentazioni

p a s s a g g i e o r m e

NON DISSIPARE LA STORIA

tazione e la ricerca educativa, ri-prendendo alcune indicazioni già presenti nella legge 10 luglio 1973, n. 477.

La sperimentazione, quale «espressione dell’autonomia didattica dei docenti», si dove-va esplicare sia come ricerca e realizzazione di innovazioni sul piano didattico sia come ricerca e realizzazione di innovazioni sul piano strutturale dell’assetto or-ganizzativo.

In riferimento a queste due polarità della sperimentazione scolastica erano definiti, negli articoli 2 e 3 del Dpr citato, i soggetti promotori, le modalità attuative, gli organi coinvolti e le risorse utilizzabili. Più preci-samente: in rapporto alla speri-mentazione didattica, essa veniva ideata e condotta dal docente, sentito il parere del consiglio di istituto e approvato dal collegio dei docenti; in rapporto alla spe-rimentazione strutturale, essa era promossa da uno dei diversi orga-ni collegiali e autorizzata dal mi-nistro della Pubblica Istruzione.

Si è molto discusso sulle finali-

tà, sul valore e sugli esiti di queste sperimentazioni, tanto che ripe-terne, ora, il contenuto suscite-rebbe una disputa, soprattutto, teorica la quale non incrinerebbe l’importanza e l’utilità dell’inizia-tiva. Torna, piuttosto, convenien-te precisare che la tentazione di costruire, attraverso le sperimen-tazioni, una via parallela alle ri-forme, è una distorsione dannosa per la istituzione scolastica.

2. I GRADI ASCENDENTIEliminando ogni sorta di pes-

simismo si può esaminare con obiettività ciò che è accaduto successivamente all’avvio delle operazioni sperimentali nell’ar-co di tempo compreso tra la fine degli anni settanta è la fine degli anni ottanta.

a) La scuola elementare (oggi scuola primaria) da sempre sen-sibile e attenta alle conquiste del-la psicologia e della pedagogia, nonché alle sollecitazioni del con-testo sociale e culturale, percorse questa nuova strada con profitto. Si immise in essa sulla base dei fondamentali forniti dalla legge n. 517/77 e senza disconoscere il “tempo pieno” di cui alla legge 24 settembre 1971, n. 820, impe-gnandosi a sperimentare nuovi saperi e nuove tecniche di didat-tiche per l’apprendimento inse-gnamento, presenti: nel principio della collegialità docente; nella composizione dei gruppi mobi-li; nell’adozione delle classi fles-sibili; negli interventi procedurali

Si è molto discusso sulle finalità, sul valore e sugli esiti di queste sperimentazioni, tanto che ripeterne, ora, il contenuto susciterebbe

una disputa, soprattutto, teorica la quale non incrinerebbe l’importanza e l’utilità dell’iniziativa.

RICERCA/ESPLORAZIONE

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scuola e formazione 41

differenziati; nel rinnovamento apprenditivo nell’area linguisti-ca e in quella matematica; nello sviluppo della creatività; nella sollecitazione delle motivazioni intrinseche.

b) La scuola media (attual-mente secondaria di primo gra-do) per una spinta proveniente... “dal basso”, furono richiesti e approvati vari tipi di sperimen-tazioni concernenti: l’uso delle tecnologie informatiche, l’in-troduzione della seconda lingua straniera; il ritorno all’insegna-mento del latino; l’avvio di corsi a indirizzo musicale. Accanto alle sperimentazioni (e in qualche modo a esse collegate) emersero nuove figure professionali, quali l’operatore pedagogico e l’opera-tore tecnologico che furono vali-di aiuti non solo per le iniziative dell’area tecnico-scientifica, ma anche per quella dell’inclusione delle disabilità e del recupero dei ritardi. Da questo punto di vista va pure contemplato il “tempo prolungato” che integrava in un unico modello le attività svilup-patesi nel corso degli anni.

c) La scuola secondaria supe-riore (ora secondaria di secondo grado) compì il massimo ricorso al Dpr 419/74 e la massima dif-fusione delle sperimentazioni. La spiegazione è molto sempli-ce: nel passato (e forse ancora

nel presente) questo grado del sottosistema scolastico – diver-samente dagli altri – fu relegato nel disonore della non decisione politica. La responsabilità dell’in-decisione non ricadeva tanto sul-le singole persone, quanto sugli organismi collegiali (istituzioni, associazioni, partiti …) e derivava da uno scollamento tra tre pote-ri: quello legislativo, ossessionato dalle spinte corporative e dalla seduzione delle forze culturali e sociali; quello esecutivo, paraliz-zato dalle divisioni interne sulle diverse proposte e dalla scarsa competenza in materia; quello amministrativo, ripiegato nella difesa dell’esistente e nei calcoli opportunistici di corto respiro.

Le prime a cogliere l’occasio-ne per avviare un parziale am-modernamento sono le singole unità scolastiche. Nascono così le sperimentazioni autonome, mol-te delle quali rimasero tali, per anni, senza conformarsi ai piani predisposti dall’amministrazio-ne centrale. Esse apparteneva-no a due categorie: alcune erano minisperimentazioni (relative a qualche disciplina) altre erano maxisperimentazioni (relative all’intero piano di studio visto nel suo itinerario quinquennale).

Il proliferare del fenomeno in-dusse il ministero della P.I. a inter-venire con proposte progettuali e

con assistenza tecnica cercando di indirizzarlo verso formule unitarie e coerenti con i diversi ordini di scuola. Vennero così alla luce le cosiddette sperimentazio-ni coordinate (inizialmente con denominazioni diverse: globali, parziali, assistite) che, insieme al Piano Nazionale di Informatica avrebbero dovuto corrispondere a un disegno strutturale tracciato dal ministero.

3. IL CATALOGO TASSONOMICO

Sempre per quanto attiene alla scuola secondaria superiore l’espansione progressiva delle sperimentazioni coordinate rag-giunse una diversa intensità nei quattro ordini di cui è composta:a) il 34% nell’ordine classico;b) il 38% nell’ordine tecnico;c) il 26% nell’ordine professio-

nale;d) il 18% nell’ordine artistico.

Forse può essere interessante segnalare, nell’ambito dell’istru-zione tecnica, le molteplici pe-culiarità degli istituti – per ogni indirizzo – e precisamente il nome del progetto è la percen-tuale di unità coinvolte negli anni ottanta: agrari (Cerere: 90%); aeronautici (Alfa: 100%); nauti-ci (Nautilus: 85%); commerciali (Igea: 45%); geometri (Cinque: 40%); periti aziendali (Erica: 45%); programmatori (Mercu-rio: 30%); elettronici (Ambra: 90%); meccanici (Ergon: 92%); chimici (Deuterio: 80%); tessili (Aracne: 100%); grafici (Tempt: 100%); minerari (Geo: 100%); informatici (Abacus: 50%).

A questo punto si impongono due precisazioni: i termini nomi-nativi degli ordini, degli indirizzi, dei progetti... sono quelli in vigore negli anni ottanta; le percentuali dei quattro ordini rappresentano le rilevazioni compiute all’inizio del processo sperimentale, men-

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42 scuola e formazione

Chiamale, se vuoi, sperimentazioni

passaggi e orme

tre quelle dei numerosi indirizzi dell’ordine tecnico sono state registrate verso la fine del ciclo.

4. GLI ERRORI SISTEMICIA fronte delle numerose spe-

rimentazioni attuate è logico chiedersi quale fu l’esito dell’im-mane intervento che attraversò il sottosistema scolastico per più di un decennio. Le ragioni per fornire un “responso” partono dal costo economico affrontato nella realizzazione dei progetti sperimentali per arrivare, poi, all’attesa sospirata degli alunni, dei docenti e delle famiglie di un ammodernamento che poteva essere apprestato utilizzando il contributo delle sperimentazio-ni.

Il “bilancio” di queste ultime, nel suo insieme, non fu esaltante. Anzi, per alcuni settori fu delu-dente.

a) Nella scuola elementare: ef-ficace. Non solo per merito delle sperimentazioni ma anche degli orientamenti e delle disposizio-ni della, già citata, legge 4 agosto

1977, pietra miliare, snodo elo-quente e atto di sapienza pedago-gica nel progresso delle istituzio-ni educative, la scuola elementare riuscì a rinnovare i suoi curricoli e la sua organizzazione con il Dpr 12 febbraio 1985, n. 104, recan-te i Programmi didattici e con la legge 5 giugno 1990, n. 148, re-cante l’Ordinamento della scuola elementare.

Fu un successo rilevante, frutto di grandi intese politiche, diventando fiore all’occhiello dell’Italia, purtroppo, successi-vamente e ottusamente dissipato e gettato – dopo un decennio di intelligente impiego – nella disca-rica delle immondizie.

b) Nella scuola media: inesi-stente. Nonostante alcune «buo-ne pratiche» emerse in taluni isti-tuti e l’aiuto derivante dalla legge 16 giugno 1977, n. 348, la scuola media non trasse profitto alcuno dalle sperimentazioni attuate: «anello debole» del sottosistema scolastico quale era, tale è rima-sta. Come nulla fosse accaduto.

c) Nella scuola secondaria: esiziale. In quest’ultimo grado del sottosistema scolastico, il cospicuo numero di sperimen-tazioni sopra elencate non pro-dusse i provvedimenti legislativi necessari e auspicati, di innova-zione. Anzi si verificò un aggravio delle condizioni e delle qualità di

apprendimento-insegnamento, rilevato, più volte, dalle indagini Ocse-Pisa.

I motivi sono da attribuire a svariati fattori tra i quali primeg-giava la fragilità delle suddette sperimentazioni; fragilità che derivava da errori di natura siste-mica, quali: - l’assimilazione della sperimen-

tazione con la riforma, quando era ed è rigorosamente dimo-strata la diversità sostanziale e funzionale tra le due. Infatti, la prima è propedeutica alla seconda la quale è di spettan-za del Parlamento e non dei direttori generali del Miur;

- l’assenza totale di un monito-raggio serio e scientificamente programmato e condotto, per cui non si conobbe mai la leva-tura dei risultati;

- la mancanza di una giustifica-zione pedagogica sulle scelte attinenti alle finalità, ai saperi, alle tecniche, agli strumenti dell’insegnamento;

- la riduzione della sperimenta-zione, soprattutto nell’istru-zione artistica, a una manu-tenzione dell’esistente, vero esempio di trasformismo gat-topardesco;

- il conflitto deleterio tra le spe-rimentazioni dell’istruzione tecnica e quelle dell’istruzio-ne professionale, ambedue tendenti a una “invasione di campo”;

- la difformità – tra le sperimen-tazioni dei diversi ordini di scuola – di linguaggio, anche negli indirizzi aventi la mede-sima natura, e nei contenuti delle medesime discipline.

Se è vero quanto afferma T.S. Eliot che …

«finire è ricominciare.La fine è là donde partiamo».Allora non c’è scampo: si do-

vrà ritornare sull’argomento per completarlo.

GESTIQUOTIDIANI

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scuola e formazione 43

Massimiliano Colombi

“Antenne Sociali”: da soli a solidali

l e s t o r i e

S ono questi alcuni dei volti e dei cuori che hanno interpel-lato le volontarie e i volonta-

ri di Anteas grazie all’attivazione di 18 “laboratori regionali”, lun-go tutto il nostro Paese1. Storie in molti casi di normale vita quoti-diana in cui le persone rischiano di finire “fuori radar” e di scivo-lare nell’invisibilità per poi torna-re visibili solo a fronte di eventi drammatici. Potremmo dire sto-rie che sfiorano le nostre famiglie e la vita delle nostre comunità, chiamando in causa il nostro esse-re figlie e figli, padri e madri, ma-riti e mogli, compagne e compa-gni. Nello stesso tempo ci sentia-mo chiamati in causa anche per le nostre responsabilità di cittadi-ne e di cittadini, di figure educati-ve, di persone che pensano come propria la responsabilità di tesse-re legami di comunità.

In un contesto culturale in cui sembrano prevalere i sol-venti sui collanti, in cui l’altro è molto spesso una minaccia e in cui la logica della convenienza appare l’unica possibile. Anche per questo rischiare l’incontro, esporsi all’altro con una postura che privilegia l’ascolto non è stato facile. Eppure il lavoro “corpo a corpo” di ricerca della persona sola, di paziente costruzione dell’incontro e di ascolto attento sono stati elementi di un proces-so generativo che ha restituito umanità ai singoli volontari e, attraverso loro, a tutta l’Associa-

“Sono sola. Mia figlia non ha tempo per venire, mi telefona tut-ti i giorni nel tratto di strada che da casa va in ufficio. I nipoti non vengono mai a trovarmi. La solitudine fa impazzire. Credo in Gesù e mi compensa la solitudine dandomi tanto coraggio. Oggi, a causa del terremoto, sono sola in questo palazzo di 9 ap-partamenti, sono scappati tutti via. Prima sentivo camminare e mi faceva compagnia” (F., 84 anni, vedova da 5)

“Mi pesano molto i rapporti con gli altri per la scarsa qualità degli affetti, anche la compagnia di troppa gente mi è poco gradita. La fatica maggiore, se così possiamo chiamarla, è non avere un lavoro e perciò la improduttività […] le istituzioni dovrebbero attivare iniziative per cui il pensionato non venga considerato un peso, ma piuttosto una risorsa” (C., 72 anni, separato, vive solo, ha due figlie sposate che abitano lontano)

“È stato con la cooperativa fin tanto che faceva qualche lavoret-to tecnico, quando ha iniziato a fare lavori con gli animali, non accettando questo lavoro, ha iniziato a fare ‘casino’ e quindi è tornato a casa. Poi grazie all’assistente sociale ho conosciuto altre famiglie e abbiamo fondato l’Anffas. Adesso facciamo laboratori e piscina o altri piccoli lavori. Abbiamo fatto un corso di cucina, preparavano e mangiavano. Ora ha un gruppo […] La solitudi-ne è tanta perché da sempre sei guardata con commiserazione. Qualcuno mi dice che sono molto forte ma forse è più vero che sono disperata. Tante volte non dormo, ho preso farmaci. Tante volte vedo che fa cose strane, non riesce a vestirsi ecc. […] A noi servono i trasporti e l’Anteas ci aiuta. Dopo va bene tutto: abbia-mo bisogno di un’area dove realizzare la sede che non deve essere isolata ma al centro di un agglomerato di persone che accetti i ragazzi” (A., 65 anni, famiglia con un ragazzo disabile)

buone pratiche

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44 scuola e formazione

zione. Anteas ha accettato l’invi-to di Papa Francesco di porsi “in uscita” per provare ad abitare le “periferie esistenziali” con uno stile caratterizzato dal desiderio di coinvolgersi, di accompagna-re, senza aspettare ma mettendo in campo la capacità di prendere l’iniziativa. Grazie all’intelligenza e alla passione, che hanno consen-tito di superare paure e pigrizie, i volontari hanno visto i frutti del loro impegno e l’associazione ha sperimentato una rinnovata capacità di agire in quanto sog-getto sociale significativo per migliorare la qualità della vita di tante persone e di tante famiglie. In questa logica possiamo dire che l’Anteas ha riscoperto una propria vocazione specifica: es-sere l’Associazione competente nell’incontro delle persone sole

e non ingabbiata nelle tante reto-riche intorno alle solitudini che mettono la coscienza a posto sen-za aver osato l’esposizione dentro la concretezza della vita quotidia-na. In questo movimento verso il “fuori” abbiamo incontrato tante disponibilità e presenze competenti: volontari di altre associazioni, assistenti sociali dei Comuni, medici di famiglia, sacerdoti, sindacalisti, commer-cianti di prossimità. È emersa una rete di soggetti sociali che in

larga maggioranza ha condiviso la sfida e accettato di mettersi in cammino per pensare comunità più attente, più inclusive e per questo più solidali.

Come afferma Sofia Rosso, presidente nazionale di Anteas, “siamo partiti per incontrare gli anziani soli e ci siamo ritrovati immersi in tantissime storie di solitudini che riguardano i gio-vani che progressivamente si ritirano dalla scuola, dal lavoro e dalla società; le famiglie con

sono celestina, ho 72 anni. Vivo da sola, con una pensione di re-versibilità. ero in pensiero, vi aspettavo. sì, vivo da sola anche se ormai non ci vedo quasi più, sono abituata a girare per casa col mio girello e il bastone. Ci sono dei giorni che vedendomi così, sola e con tutti i problemi di salute che mi ritrovo, mi vengono delle crisi di sconforto, e allora piango, piango molto. Mi domando se vale la pena vivere, in queste condizioni, o se è meglio che Dio mi prenda, così non do’ più fastidio a nessuno... Cerco di tirare avanti, ma è dura. Non posso leggere, la televisione la sento, ma vedo poco le figure, quindi la lascio accesa per sentire almeno parlare, e aspetto che la sera chiamino i miei figli. Per il mangiare, mi basta poco, in qualche modo ce la faccio. tiro avanti, tanto tra poco è Natale e allora avrò i miei figli e nipoti per la casa. Voi venite più spesso se potete, mi fareste un gran piacere.

“Antenne Sociali”: da soli a solidali

le storie

L’ANTEAS (Associazione Nazionale Tutte le Età Attive per la Solidarietà) è un’associazione di volontariato e di promozione sociale promossa dalla Fnp Cisl articolata su tutto il territorio nazionale. Condotta dagli anziani, è aperta all’incontro con i giovani e con tutti coloro che condividono l’impegno della solidarietà civile e sociale, rompendo il muro esistente tra le generazioni. Da sempre ANTEAS privilegia at-tività che nascono come risposte a bisogni locali, agendo su quattro grandi macro-aeree:Salute: Incontri di prevenzione per migliorare gli stili di vita – Educazione alimentare – Ginnastica dolce, ballo e mo-vimento – Ambulatori sociali per misurare la pressione e altri piccoli interventi – Memory training, corsi per il rafforzamento della memoriaAssistenza: Assistenza domiciliare leggera – Attività di cura della persona e di aiuto domiciliare per le persone non auto-sufficienti – Sostegno alle persone nei centri anziani – Anima-zione in case di riposo ed rsa – Emergenza estate – Sicurezza domestica e sicurezza dei parchi – Trasporto sociale, trasporto disabili e anziani in macchine attrezzate – Farmaci a domicilio – Nonni vigile per la sorveglianza degli alunni davanti alle scuole

per le famiglie e i malati di Alzheimer – Banco alimentare per dare sostegno alle famiglie indigentiSociale: Segretariato sociale, consulenza fiscale e buro-cratica – Centri telefonici di ascolto per persone sole o in difficoltà – Servizi in biblioteche e musei – Mantenimento e cura del verde pubblicoCultura e tempo libero: Università della terza età – Corsi di computer e di lingue straniere – Cineforum e teatro – Gite fuoriporta – Attività di integrazione con gli extraco-munitari – Insegnamento degli antichi mestieri ai giovani, laboratori artigiani e di sartoria – Corsi di cucina – Gestione circoli sociali, attività ricreative – Mostre, concorsi foto-grafici, di prosa e di poesia

Anteas NazionaleVia Po, 19 – 00198 ROMA – Tel. 06.44881101 http://www.anteas.org/ – [email protected]

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ragazzi difficili che escono fuori dai circuiti sociali perché hanno tempi ed esigenze diverse rispet-to alle altre famiglie; le persone che improvvisamente vengono colpite da malattie senza scampo e molto spesso si trovano da sole a fare i conti con la scarsa acco-glienza e trasparenza dei sistemi di assistenza e di cura; le famiglie che più di altre hanno pagato le conseguenze della lunghissima crisi e faticano a chiedere aiuto per pudore e vergogna; le tantis-sime comunità colpite dal terre-moto”. L’elenco potrebbe essere ulteriormente arricchito quasi a testimoniare che la solitudine non scelta e l’autoisolamento sono davvero una piaga rilevante del nostro tempo.

Anteas vuole proseguire su questa strada. Ce lo hanno chie-sto le persone che abbiamo in-contrato:

“Ora sono qui a farmi questa bella chiacchierata, mi avete spie-gato di cosa si occupa l’associazio-ne e il servizio che presta ma so-prattutto conosco le persone con le quali se avrò bisogno mi daranno il loro aiuto. Mi date il numero del vostro cellulare?” (S., 76 anni)

“Per una persona sola sapere che durante il giorno c’è qualcuno

mi chiamo Bianca, ho 82 anni e sono stata sposata con Alfonso per cinquant’anni poi, 7 anni fa, ci ha lasciati. Adesso vivo di ricordi. Pensare a tutti gli anni trascorsi con mio marito mi commuove. Ho due figli, il maschio vive nei pressi di Macerata, la figlia, invece, da 30 anni vive in Valtellina, perché, appena diplomata all’isef ebbe una supplenza in provincia di sondrio e ha messo su famiglia lì. Quello che adesso mi pesa è la solitudine, tanto tanto. Questo non riesco a superarlo. la mattina c’è sempre qualcosa da fare in casa, nel pome-riggio, ci sono ore vuote. Cerco di organizzarmi, trovo un pretesto per uscire, per andare al centro.

Da qualche anno, mi sono presa l’impegno, non me lo ha imposto nessuno, di andare a trovare una mia compagna di scuola che è disa-bile. Non mi tira su di morale, perché ogni volta che la incontro vedo che peggiora sempre, ma serve per far compagnia, e per ringraziare Dio di stare bene, anche in questo periodo di terremoto. il martedì mattina, sono impegnata in ospedale come volontaria. Mi costa un po’, perché mi devo alzare presto, ma quando sono in ospedale ci sto volentieri. Ho chiesto di non essere inviata in reparti dove ci sono veramente sofferenti, di solito sto con persone, tante volte anziani, che chiedono informazioni. i momenti che mi pesano di più, sono quelli quando torno a casa, dopo la spesa o un’uscita, e trovare tutto spento e nessuno che mi chiede com’è andata, il momento dei pasti, qualche volta parlo da sola... Mangiare insieme è bello, qualche volta viene mio figlio e uno dei nipoti. se non prendo iniziative, penso che nessuno si interesserebbe di me. Quando c’era mio marito, non abbiamo mai avuto amici, lui aveva orari molto particolari, rientrava tardi. Anche io ero impegnata, quindi non ho mai coltivato amicizie.

Ho iniziato a frequentare l’Università della terza età, e quelle uscite che organizza il Comune, non estive, piccole gite pomeridiane, ec-cetto una, che dura tutta la giornata. Mi sono detta: mi servirà per passare un pomeriggio diverso, per incontrare persone. Mi trovo bene. All’università, ho scelto psicologia sociale e mi è piaciuta la prima lezione, poi vediamo il seguito. le persone sole hanno bisogno di compagnia, anche telefonica. Quando non so cosa fare, mi chiedo sempre chi posso chiamare. tante volte chiamo mia cugina, che vive a Bologna e ha tanti problemi di salute.

Mi chiamo Antonio, ho 76 anni e non ho mai fatto male a nessuno. Vivo in una casa diroccata, che molti anni fa è andata a fuoco, ma è casa mia e da lì non voglio andarmene. Grazie per avermi chiesto se avevo piacere di parlare un po’ con voi. Non sono entrato in bar, perché tanto sapete quello che dicono: se entro, hanno il coraggio di mandarmi fuori perché puzzo. È vero, non mi lavo molto, ma non ho l’acqua calda: il riscaldamento costa e io non ho soldi, salvo la pensione minima che mi danno, di circa 300 euro al mese. Mi scaldo con una stufa a legna. ogni tanto, qualcuno mi regala della legna o, se ce la faccio, vado a procu-rarmela lungo le rive dei fossi. Non sto bene in questo periodo, veramente è da sempre che non sto bene. Mi hanno sempre trattato con disprezzo in paese, ma io non ho mai fatto del male a nessuno. Da qualche anno, ho un tumore, per questo vi ho chiamato, voi dell’Anteas, per portarmi in ospedale per le cure. i servizi sociali a volte mi portano, spesso, però, mi dicono che non possono. sapete perché? Hanno paura che sporchi loro l’auto. Non me lo dicono in faccia, ma dicono che dovrei lavarmi più spesso, perché ho un odore particolare. Me lo dicano, almeno, che faccio schifo. Per me sono sempre impegnati, per gli altri, invece, c’è sempre disponibilità. scusatemi, mi sto sfogando. Almeno voi non mi avete detto né che puzzo, né che non potevate venire. tanti auguri per Natale, per me sarà un giorno come tanti, come questo. se volete ci vediamo qualche altro giorno, almeno parlo con qualcuno. Non vi do’ la mano, non voglio sporcarvi...

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che la va a trovare, credetemi, vuol dire tanto. E meno male che state portando avanti questo progetto che pensa un po’ a me e a quelli come me. Che Dio vi benedica” (M., 74 anni)

Ce lo stanno chiedendo anche quelle persone che facciamo più fatica ad incontrare: i giovani. In questa prospettiva ci rimettiamo in cammino lanciando una ricer-ca-azione che si pone l’obiettivo di incontrare specificamente quei giovani “ritirati” e di immaginare con loro alcuni percorsi “in usci-ta”. Su questa traiettoria abbia-mo già incontrato la disponibilità di Cisl Scuola e in particolare di Lena Gissi che in più occasio-ni ha rilanciato la possibilità di abitare insieme questa sfida educativa. Condividiamo infatti la prospettiva del professor Ivo Lizzola, docente di Pedagogia so-ciale all’Università di Bergamo, quando propone la possibilità di un “nuovo apprendimento di futuro” che chiama in causa un “pensare nel segno della conse-gna e dei buoni lasciti e nel segno di nuovi inizi”. In questa direzio-ne il lavoro di una Associazione è quello di allestire nuovi spazi di immaginazione per nuove conse-gne di futuro. Questo lavoro ci piacerebbe farlo insieme.

sono anna maria, ho 74 anni e sono vedova dal 24 dicembre 1999, data molto difficile da dimenticare, anche perché è la Vigilia di Natale. la morte a mio marito se l’è portato via in un attimo, improvvisamente, senza avere nemmeno il tempo, ricordo quella mattina, di prendere il caffè. Mi ha lasciato un vuoto enorme, senza capire nemmeno cosa mi fosse successo. i primi 7 anni sono stati duri, non l’ho accettata, eravamo una coppia tanto unita e facevamo tutto insieme, e ritrovarsi senza di lui da un momento all’altro è stata dura.Dopo 7 anni, ho ripreso il caffè, sì, dopo 7 anni. Non avevo più voglia di continuare, nonostante io sia mamma di tre figli e nonna di sei nipoti. il primo periodo, i figli erano molto presenti, così come i miei 4 fratelli, poi, giustamente anche loro hanno una famiglia e un posto di lavoro da mantenere, non hanno più potuto permettersi di stare troppo tempo a casa mia. e a questo punto, ho ricominciato pian piano a riprendermi e a rassegnarmi, a capire di dover ricominciare ad affrontare la vita andando di nuovo a messa come una volta, a fare due passi con qualche amica. Frequento molto la chiesa, che mi ha dato una grande forza, e partecipo alle iniziative che organizzano gli anziani dell’associazione, tipo il ballo e qualche gita...Al mattino, la prima cosa che faccio è quella di accendere la televi-sione e talvolta anche la radio. Confesso che amo molto ballare e, non lo nascondo, a volte, ballo da sola in cucina. Faccio colazione abbastanza presto, rimetto un po’ in ordine la casa, mi lavo qualche maglia. Poi comincio a pensare cosa mangiare a pranzo e, se ne ho voglia, esco a comprare qualcosa in salumeria. Dopo pranzo, mi fa compagnia la televisione mentre passo gran parte del mio tempo a fare l’uncinetto. le ore serali sono quelle che mi pesano di più. l’oro-logio sembra andare molto a rilento, forse perché sono sola e fino al momento di andare a letto mi sembra di aspettare un’eternità. Non mi vergogno a dire, che molto spesso con mio marito ci parlo come se fosse seduto vicino a me, sul divano. la domenica, ma non sempre, fortunatamente pranzo coi miei figli e nipoti che riempiono la casa, poi quando vanno via, purtroppo ritorno ad essere sola.Penso di avere ancora energie ma, avendo subìto un’operazione al ginocchio non molto tempo fa, non riesco ad uscire tanto, perlome-no finché non mi riprendo, anche perché sembra che anche l’altro ginocchio voglia fare i capricci ed ho un po’ paura. Fortunatamente, vivendo in un piccolo paese, ci conosciamo tutti e ci trattiamo come se fossimo veri parenti. i miei punti di riferimento, in particolare, sono le due sorelle che abitano proprio di fronte: hanno sempre un dolcissimo pensiero, quello di ricordarsi di me quando fanno un dolce o un panettone fatto in casa. ringraziando il signore, fino ad oggi sono sempre riuscita a risolvere i miei problemi da sola, anche perché sono autonoma. se mi dovesse servire un aiuto, un domani il più lontano possibile, spero che i miei figli e i nipoti mi stiano vicino. È solo in loro che credo.Di persone come voi, ce ne dovrebbero essere di più, quello che fate è veramente una bella cosa, e anche di grande aiuto per chi è solo. Fate iscrivere all’associazione più volontari e fate in modo che stiano più vicine alle persone, soprattutto a chi non ha figli. Perché per una persona sola, sapere che durante il giorno c’è qualcuno che la va a trovare, credetemi, vuol dire tanto. e meno male che state portando avanti anche questo progetto che pensa un po’ a me e a quelli come me. Che Dio vi benedica.

“Antenne Sociali”: da soli a solidali

le storie

1) Il progetto Antenne Sociali è stato re-alizzato in collaborazione con Fitus. Il coordinamento e l’accompagnamento scientifico sono stati realizzati da un’equi-pe di progetto che ha visto la partecipazio-ne del prof. Ivo Lizzola (Università di Ber-gamo), Silvia Brena (ricercatrice sociale, formatrice), Marco Zanchi (ricercatore sociale, formatore).

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Gaia Aiello

A San Pietro Clarenza il volontariato fa rete

“N on più soli ma solidali”, questo il titolo dell’even-to tenutosi sabato 3 giu-

gno 2017 a San Pietro Clarenza (Catania)per la presentazione del nuovo sportello di ascolto contro le solitudini, che vede coinvol-te in rete varie Associazioni ope-ranti nel sociale. L’iniziativa è stata promossa dall’Anteas San Pietro Clarenza nell’ambito del progetto nazionale “Antenne Sociali”. Una vera e propria “inversione di rot-ta” rispetto al volontariato classi-co: non più le persone che vanno dai volontari a chiedere qualco-sa, ma i volontari che vanno dalle persone ad offrire ascolto e com-pagnia.

Fino ad ora, infatti, l’Anteas si era occupata esclusivamente di organizzare attività e laboratori ricreativi e culturali, volti a sod-disfare le richieste dei propri soci. Mancava ancora qualcosa: un’at-tenzione a quelle persone che non avevano la forza di farsi avanti e chiedere aiuto.

Il progetto “Antenne Sociali” è diventato una guida che ha per-messo di trovare la strada giusta da seguire per allargare il raggio d’azione. In questo senso è stato fondamentale l’appoggio dei for-matori, Silvia Brena e Massimilia-no Colombi, che hanno seguito i volontari con grande disponibilità durante tutte le fasi del progetto.

Grazie al metodo informale

delle interviste, le persone si sono aperte, facendo emergere un forte bisogno di avere degli intermedia-ri che li guidino e li aiutino per poter usufruire di vari servizi.

Proprio da qui è nata una nuova idea: la creazione di uno “sportello di ascolto” che ricopra questo ruolo di intermediario tra i cittadini e le associazioni e che allo stesso tempo possa essere un pun-to d’incontro, coordinamento e scambio tra le associazioni stesse.

Lo sportello, aperto due volte a settimana, sarà gestito da volonta-ri, appositamente formati, pron-ti ascoltare le storie ma anche a cercare le persone e attivarsi per poter rispondere al meglio utiliz-zando le conoscenze, le capacità e l’esperienza specifica di ogni singola associazione.

Per poter realizzare un proget-to tanto ambizioso è stato neces-sario coinvolgere tutte le altre re-altà presenti sul territorio, tra cui la Parrocchia, la Misericordia, la Protezione Civile, la Biblioteca e l’Agesci.

L’Anteas si è assunta il compito di andare a parlare con tutte que-ste associazioni, una per una, pre-sentando il progetto e chiedendo collaborazione per la lotta contro la solitudine.

E le associazioni hanno rispo-

sto con entusiasmo, pronte ad im-barcarsi in questa nuova avventu-ra. Fondamentale poi l’appoggio dell’amministrazione comunale, resasi disponibile ad offrire una sede per lo sportello dotata di li-nea telefonica e internet.

In occasione dell’evento di presentazione, il settecentesco Caseggiato Mannino si è vestito a festa: il cortile è stato riempito con gli stand delle associazioni partecipanti, tra ombrelloni e pal-loncini, fiori e bandiere, un vero e proprio festival della solidarietà, dove il volontariato apre le porte alla gente, accogliendole ed ascol-tandole. Non più un volontaria-to “passivo” ma un volontariato vivo, attivo, festoso.

Questo evento non rappresenta affatto un punto di arrivo, la con-clusione di una bella esperienza da riporre in un cassetto: si tratta solo dell’inizio di un processo basato sulla collaborazione, l’intesa, il sostegno reciproco e, soprattutto, sulle persone: da una parte gli “an-tennisti”, volontari pronti ad cap-tare segnali, e dall’altra le persone sole, che sperano di essere viste ed ascoltate in una società che troppo spesso le lascia da parte.

È importante anche sottoline-are come gli accordi presi e la vo-lontà di collaborare non siano solo parole: i presidenti delle diverse associazioni, degli Enti e delle Isti-tuzioni, inclusa l’amministrazione comunale, hanno ufficialmente firmato un protocollo d’intesa tecnico per la realizzazione dello sportello, oltre ad una dichiarazio-ne d’intenti per la formazione di una rete di antenne sociali.

Una sintesi dell’esperienza è il motto dell’evento di giugno: “Avete visto cosa abbiamo realiz-zato da soli fino ad oggi. Adesso immaginate cosa possiamo realiz-zare insieme.”

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C’ è una domanda che rimane sempre attuale per il sinda-cato: «A che serve un sin-

dacato?».La Cisl risponde: «A tutelare

e promuovere gli interessi dei lavoratori, in primo luogo quelli che si associano per costituirlo e mantenerlo, senza essere costretto a subire le influenze di altri soggetti politici, economici o culturali».

In altre parole essere un’orga-nizzazione capace di dare espres-sione autonoma agli interessi che rappresenta e a questo fine intera-gire in autonomia con altri sogget-ti, nel rispetto che reciproci ruoli.

Con la parola «autonomia» si intende la capacità di pensare ed agire liberamente, senza subire imposizioni, formulando le pro-prie regole di comportamento ed attenendosi ad esse. In senso più ampio comporta la capacità di provvedere con mezzi propri alle proprie necessità, senza essere co-stretti a ricorrere ad altri e subirne gli eventuali condizionamenti. Per il sindacato significa trarre il pro-prio sostentamento dalle quote versate dagli iscritti, quindi non dipendere da altri che loro.

Questa definizione ci aiuta a capire scelte e comportamenti della Cisl, una organizzazione per la quale l’autonomia è una

I fondamenti della Cisl:autonomia e contrattazione

I D E N T I T à

cisl: un profilo

Luigi Lama

dei caratteri fondamentali del suo essere. La prima autonomia di un sindacato è quella dal padronato, sia esso privato quanto pubblico. A questa la Cisl affianca l’auto-nomia nei confronti dei partiti politici, dai governi e dallo Stato, rompendo una lunga tradizione di condizionamento del sindacato, esistente nel nostro paese come in molti altri. Nei confronti dei governi e dello Stato autonomia è valutazione del merito delle po-sizioni alla luce degli interessi dei lavoratori, senza né sudditanze né antagonismi preconcetti.

Il problema del rapporto fra sindacato e partiti non è importan-te solo nella fase costitutiva di un sindacato e nell’ambiente italiano. È sempre presente nella vita del sindacato e, sia pure con situazioni e soluzioni diverse, coinvolge, nel passato ed attualmente, tutte le esperienze sindacali. La Cisl affer-ma fin dalla sua nascita che la vita e le scelte del sindacato non devono essere determinate dall’esterno, non devono essere una “variabile dipendente” delle forze politiche, le quali, anche quando concorro-no a formare un tipo di società che può essere accettato dal sindacato,

hanno finalità diverse e rispondo-no a pressioni più complesse ed eterogenee. Negli anni cinquanta, quando nasce la Cisl, l’autonomia dai partiti assume un particolare valore. Il mondo del lavoro italia-no è diviso da profonde spaccature sul piano ideologico e politico e, pertanto, l’unica strada potenzia-le per recuperare l’unità sindacale è quella fondata sull’autonomia, con una organizzazione aperta ai lavoratori in quanto tali, indipen-dentemente dai loro orientamenti politici, in cui regole base fossero rispetto reciproco e rinuncia all’imposizione di una ideologia sugli altri orientamenti culturali.

È una scelta del tutto innova-tiva nella storia sindacale italiana. In precedenza vi erano state due confederazioni sindacali, la Con-federazione Generale del Lavoro (Cgl) di orientamento socialista e la cattolica Confederazione Ita-liana del Lavoro (Cil). La loro esperienza fu interrotta nel 1926 dal fascismo e quando, nel 1944, le maggiori forze politiche italiane decisero di costituire una nuovo confederazione unitaria antifasci-sta, nacque la Confederazione Ge-nerale Italiana del Lavoro (Cgil) che combinava le due sigle, oltre che le due esperienze. La nuova organizzazione durò pochi anni, travolta dagli aspri conflitti politi-ci connessi alla guerra fredda. Nel 1948 la “corrente cristiana” uscì e costituì la Libera Cgil. In seguito altre correnti lasciarono la Cgil e si aprì un dibattito sui connotati di un sindacato nuovo. La scelta non

Il problema del rapporto fra sindacato e partiti non è importante solo nella fase costitutiva di un sindacato e nell’ambiente italiano. È sempre presente nella vita del sindacato e, sia pure con situazioni e soluzioni diverse.

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La scelta dell’autonomia non basta dichiararla una volta per tutte, richiede la capacità quotidiana di risolvere il dilemma del rapporto con politica.

fu costituire un’organizzazione le-gata ad altri partiti, ma un sinda-cato che fosse autonomo da tutte le forze politiche. Questo in base alla considerazione che il contesto era profondamente mutato rispet-to agli anni precedenti la seconda guerra mondiale. La sconfitta del fascismo aveva permesso di ren-dere l’Italia una repubblica demo-cratica. Mentre all’inizio del nove-cento erano esclusi dal diritto di voto gran parte dei lavoratori1, dal 1946 il suffragio universale dava a tutti la possibilità di espressione politica diretta. Non c’era più bi-sogno di un sindacato che facesse da tramite per lavoratori privi di diritti politici. La cittadinanza era piena anche per loro e il sindacato poteva perseguire la sua specifici-tà, con un ruolo distinto dalle forze politiche nel nuovo sistema delle rappresentanze democratiche.

Il sindacato è una delle più importanti manifestazioni di vita-lità della società civile. Limitarne l’autonomia riduce la sua funzio-ne di espressione intermedia della società civile, schiacciata da altre organizzazioni o istituzioni pub-bliche, chiudendo un canale di espressione dei lavoratori in quan-to tali e mortificando la vita sociale.

La scelta dell’autonomia non basta dichiararla una volta per tutte, richiede la capacità quoti-diana di risolvere il dilemma del rapporto con politica. Il sindacato è spinto oggettivamente a stabilire rapporti con i partiti o ad assume-re iniziative di natura politica per un’ampia ed efficace tutela dei la-voratori nella società; d’altra par-te, il sindacato, proprio perché ha funzioni diverse rispetto a quelle dei partiti ed esprime gli interessi dei lavoratori di qualsiasi orienta-mento politico, deve, conseguen-temente, mantenersi autonomo dai partiti negli orientamenti che si dà, nelle decisioni che assume, negli uomini che lo dirigono.

Abbiamo detto che la Cisl ha

affermato con forza, fin dalla sua nascita, il principio dell’autono-mia. Ciò provocò ostacoli anche nei confronti degli interlocutori più vicini e anche «gli ambienti facenti capo alla Dc ed al “mondo cattolico”, che sebbene nel loro insieme concepivano il sindaca-to come indipendente dai par-titi politici, ne predicavano o la subalternità ideologica, o la sua sottomissione alle ragioni di un controllo sociale guidato dallo Stato (in definitiva dai partiti)»2. La figura di Giulio Pastore, pri-mo segretario generale, è sor-prendente. Pur profondamente radicato nel mondo cattolico, dirigente della Dc, come segre-tario generale della Cisl affrontò una complessa operazione poli-tica che apriva contraddizioni fra queste tre sue militanze. Il nucleo forte del progetto fu «concepire e costruire un sindacato che non avesse altra forza se non la forza stessa di essere una libera associa-zione di interessi collettivi; senza dunque alcun supporto o garan-zia che gli venisse dall’esterno di se stesso: da un riconoscimento legislativo o da una approvazione partitica, ma neanche – e questo è singolare – dal considerarsi rappresentante organico della categoria professionale o, na-turalmente e tanto meno, della classe»3. Una visione della natura del sindacato del tutto originale

rispetto alla tradizione italiana e allora nemmeno prevalente o particolarmente diffusa in campo internazionale, la cui validità sarà confermata dalla storia.

La logica della contrattazione si sposa bene con quella dell’autono-mia. La contrattazione funziona al meglio quando gli interlocutori si mettono su un piano di paritario di reciproco rispetto, senza pre-varicazioni o subordinazioni, per costruire assieme un accordo che sarà tanto più solido ed efficace quanto più ogni soggetto che è in-tervenuto nel processo lo sentirà come propria decisione. Questo non significa non riconoscere l’esistenza di differenze di ruoli, quindi di potere e responsabili-tà, nel processo di produzione di beni e servizi che la contrattazione ha l’obiettivo di regolare. Ma evi-denzia che, nel corso del processo contrattuale che ha l’obiettivo di costruire quelle regole (o modifi-care o specificare quelle esistenti, oppure verificarne l’adeguatezza e controllarne l’applicazione a fatti-specie concrete), gli interlocutori hanno pari dignità.

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I fondamenti della Cisl: autonomia e contrattazione

IDENTITà

Il fine del sindacato è la defini-zione di regole per il rapporto fra lavoratori dipendenti e datori di lavoro. Queste regole, se non ven-gono lasciate all’arbitrio del datore di lavoro, possono essere definite sostanzialmente in due modi: per legge o tramite la contrattazione collettiva. Nella storia sindacale italiana prevale in modo netto quest’ultima. Il contratto è la for-mula di regolazione del rapporto fra due o più parti che permette a ciascuna il massimo grado di pote-re autonomo e, allo stesso tempo, di assunzione di responsabilità. Entro i confini posti dalle leggi della collettività in cui operano le parti possono decidere come re-golare i loro rapporti. Per farlo c’è solo una condizione: l’unanimità. Un modo tutto particolare per far giungere ad una decisione vinco-lante i contraenti. Pensiamoci un attimo. Le parti per stipulare un accordo devono essere d’accordo. L’accordo esiste in quanto le parti assumono la decisione espressa come propria. Diversamente dalla sfera della politica, dove i conflitti vengono risolti dal principio di maggioranza, quando si affronta una trattativa la sua conclusione è un accordo. Che diventa espres-sione della decisione di chi lo sot-toscrive.

La regola della maggioranza è utile per definire i rapporti all’in-terno delle diverse parti sociali. Il governo e i suoi ministri sono frutto della maggioranza parla-mentare e dei voti degli elettori. La rappresentanza dei lavoratori, analogamente, assegna un peso in relazione agli iscritti ai vari sinda-

cati e ai voti ottenuti nelle elezioni delle Rsu. Il consenso alle orga-nizzazioni sindacali espresso con le iscrizioni e le elezioni Rsu non determina solo i rapporti di forza interni alla rappresentanza dei la-voratori, incide anche nel processo contrattuale dando informazione sulla estensione della rappresen-tanza sindacale e il suo radica-mento fra i lavoratori. I rapporti di forza fra le parti sono sempre rilevanti in un processo contrat-tuale. La quantità e la qualità delle mobilitazioni mostrano in maniera concreta il grado di consenso dei lavoratori verso le proposte sin-dacali. Non è a caso che alcune si chiamano “dimostrazioni”. Da un sindacato che non raccoglie iscritti e non riesce a mobilitare non ci si possono aspettare grandi risultati. Le forme di manifestazione sono varie e lo sciopero è la forma di pressione più tipica, che incide direttamente chiedendo un im-pegno visibile e costoso ai lavora-tori e comportando, in genere, un danno per i datori di lavoro. Nel caso dei servizi pubblici il danno immediato è spesso per gli utenti e quindi occorre una attenta comu-nicazione per ottenere il loro con-senso, facendo comprendere la co-erenza dei loro interessi con quelli che hanno generato la protesta dei lavoratori. Cortei, manifestazioni di piazza o altro hanno principal-mente lo scopo di far conoscere scopi e caratteristiche dell’azione sindacale attraverso iniziative che lo rendano “visibile”. Una visibili-tà che cambia secondo le situazio-ni e le epoche e che, oggi, si realizza per una quota importante (ma non

l’unica) nei mezzi di comunicazio-ne di massa tradizionali e, quelli potenti e pervasivi, dei social.

La contrattazione, nelle sue varie articolazioni nazionale, di settore, territoriale e aziendale, si pone il fine di governare gli inte-ressi delle parti mitigandoli con criteri di equità e solidarietà e con prospettive di sviluppo, in primo luogo dell’occupazione. Non esiste la ricetta della solidarietà e dell’equità da applicare in ogni tempo e ogni luogo. Per un verso sarebbe assurdo rifiutare la pos-sibilità di aumenti salariali per i lavoratori di un dato settore o azienda solo perché non possono essere estesi a tutti subito. Sareb-be solidarietà negativa. Dall’altro canto invece va contro il princi-pio della solidarietà rettamente intesa la teoria della «categoria di punta», cioè quella concezione che assegna piena correttezza e legittimità al comportamento di quelle categorie che vanno avan-ti nelle conquiste sindacali solo perché hanno la forza organizza-tiva per farlo, ignorando l’impat-to della loro iniziativa sugli altri lavoratori. Un comportamento sindacale corretto, coerente con l’interesse di tutti (anche della «categoria di punta» nel medio e lungo periodo), è che si vada avanti quando la situazione eco-nomica generale lo permette sen-za danneggiare gli altri.

Ci si muove sul filo di un diffici-le equilibrio che richiede passione e competenza.

1) Al momento dell’unità d’Italia il diritto di voto era ristretto ai cittadini maschi che avessero proprietà e reddito elevati; fu progressivamente ampliato riducendo la soglia di reddito, poi mettendo solo il limi-te della alfabetizzazione, infine, dopo la prima guerra mondiale, ammise tutti i cit-tadini maschi al raggiungimento del ven-tunesimo anno d’età. Le donne poterono votare la prima volta nel giugno del 1946. 2) Vincenzo Saba, Il problema storico del-la Cisl, Edizioni Lavoro, 2000. 3) Ibidem.

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Raffaele MantegazzaN ei primi mesi del 2017 la cronaca ha narrato una se-rie impressionante di epi-

sodi di violenza che hanno avuto come protagoniste persone gio-vanissime; dallo stupro colletti-vo di una quattordicenne da par-te di suoi coetanei, alle vessazio-ni sessuali di una banda di ragaz-zi nei confronti di un giovanissi-mo disabile, alle storie di fidan-zati respinti poco più che adole-scenti che feriscono o uccidono le loro compagne. Ovviamente molti sono i piani di lettura per questi e altri episodi, ma il fatto che riguardino persone alle so-glie della pubertà o poco oltre richiede anche un’analisi di tipo pedagogico. E non ci si può limi-tare a usare l’ormai inaccettabile termine “bullismo” una di quel-le parole-passepartout che han-no un significato del tutto oscu-ro ma sono infilate nei dibattiti come principi generali di spiega-zione e di semplificazione di re-altà molto complesse. Così come non regge l’analisi semplificatri-ce per cui a una società violen-ta corrisponde una adolescenza violenza, affermazione del tutto vera ma troppo astratta e che non rende conto della specificità del-le violenze adolescenziali.

Il tema che ci sembra emer-gere è la sempre maggiore pre-senza e addirittura della scon-tatezza della violenza fisica (e in seconda battuta psicologica) sullo sfondo delle esperienze di vita dei ragazzi e delle ragazze; non si tratta di una eccezione, di qualcosa di straordinario ma di un elemento del paesaggio,

La levatrice dell’adolescenza

I G I O R N I D E L L A V I T A

PEDAGOGIA IN CRONACA

un dato quasi scontato, che non sorprende più. Marx definiva la violenza “levatrice della storia” (il che non significa che la giu-stificasse); quello che ci sembra apparire sempre più chiaro è che essa è l’iniziatrice dei nostri ra-gazzi e ragazze al mondo adulto. Non solo levatrice della storia ma levatrice dell’adolescenza, dunque, codice d’ingresso all’età adulta.

Diventare grandi attraverso la violenza sembra essere la chiave di volta sempre più diffusa nei processi di crescita; che tu sia vittima o carnefice (o che rive-sta entrambi i ruoli), non sfuggi alla violenza se vuoi crescere. E anche se non lo vuoi, la incon-trerai comunque perché non c’è uno spazio nel quale Peter Pan o Pippi Calzelunghe possano na-scondersi e rimanere bambini o bambine per sempre.

È intanto interessante e scon-fortante notare come organizza-zioni criminali differenti come la criminalità organizzata da un lato, alcuni gruppi terroristici dall’altro utilizzino questa sorta di dimensione iniziatica della vio-lenza per i propri fini criminosi; da tempo gli studiosi della mafia e della camorra concordano con le forze dell’ordine nel sottoline-are come queste organizzazioni si servano di soggetti sempre più giovani e come si sia abbassata l’età media del “reclutamento”; lo stesso vale per le organizzazio-ni neofasciste e neonaziste per le

quali il “battesimo del fuoco” consistente nella prima azione criminale è proposto a ragazzi sempre più giovani; e la parte-cipazione di ragazzini ad azioni di terrorismo anche di stampo suicida è sempre più frequente nelle organizzazioni islamiste estreme1.

La violenza adolescenziale ha differenti forme; da quelle estre-me dell’omicidio o dello stupro, alle risse e alle minacce, fino a un clima diffuso che si respira nelle scuole e nei luoghi frequentati dai ragazzi e le cui conseguenze sono narrate per esempio nel bel romanzo Tredici di Jay Asher2, nel quale la protagonista, mor-ta suicida, invia tredici cassette registrate alle persone che, in un modo o nell’altro, l’hanno spinta al gesto estremo, con comporta-menti che vanno dalla violenza all’indifferenza, dallo scherno all’ipocrisia. A scuola gli ado-lescenti sembrano respirare la violenza, come sottolineato dal-la citazione seguente tratta da un romanzo di un giovane scrittore australiano: “respiro quell’odore dolciastro di sudore, pennarelli per la lavagna e paura. L’odore

Il tema che ci sembra emergere è la sempre maggiore presenza e addirittura della scontatezza della violenza fisica (e in seconda battuta psicologica) sullo sfondo delle esperienze di vita dei ragazzi e delle ragazze.

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La levatrice dell’adolescenza

I GIORNI DELLA VITA

della scuola superiore”3.Ma quali sono le caratteri-

stiche specifiche della violenza adolescenziale? Nonostante la giustificata enfasi sul cyberbulli-smo (vedi sotto), crediamo che il corpo fisico dell’altro sia ancora la prima superficie di applica-zione della violenza. Il corpo dell’altro richiama ovviamente il mio corpo: quel corpo che in età adolescenziale sta cambiando rapidamente, si sta modificando, e rispetto al quale mi sento così solo nel gestire le metamorfosi che lo riguardano. La difficoltà ad essere fino in fondo padrone del mio corpo, a sentirmi corpo, il timore per l’inadeguatezza, per la goffaggine di questo corpo nel quale fino a pochi mesi fa stavo così bene che lo davo per scon-tato; tutto questo mi spaventa e, in assenza di codici precisi di passaggi all’età adulta anche dal punto di vista della maturazio-ne sessuale (quella che Michel Foucault chiamava ars erotica) mi spiazza e mi turba. E allora

voglio che questo corpo sia forte, invincibile, che ne siano nascosti i tratti di debolezza, le caratteri-stiche infantili, le inadeguatezze: ed è proprio la mia vittima a rias-sumere in sé queste caratteristi-che. Nella classica dinamica del ritorno del rimosso nel rimoven-te, così magistralmente analizza-ta dalla Scuola di Francoforte a proposito del nazismo4, la violen-za aggredisce l’altro proprio nei tratti che egli/ella esibisce e che sono così simili ai miei tratti che voglio nascondere. I ragazzino più debole, il compagno effe-minato, la ragazzina brufolosa, tutti coloro che esibiscono un rapporto problematico con il proprio corpo sono scelti come vittime perché in questo modo il perpetratore nasconde le stesse problematiche vissute in pri-ma persona: colpendo il corpo dell’altro e colpendolo proprio al centro della sua debolezza fin-go di essere forte, e il pubblico (ricordiamo che le umiliazioni delle vittime sono molto più gradite dai perpetratori se sono pubbliche) si concentreranno sulla goffaggine della vittima e sulla forza del mio pugno e non vedranno i miei lati deboli. E se il pudore è segno di debolezza, accanto a una forma esagerata di esibizionismo che però nasconde una ancor più esasperata vergo-

gna di sé, constatiamo come una delle vessazioni cui i perpetratori sottopongono i ragazzi più pic-coli o più deboli consiste nell’ob-bligarli a denudarsi o a mostrare agli altri ragazzi i propri genitali. È una procedura inizialmente maschile ma oramai ereditata da tante ragazze.

La procedura di umiliazione e di violenza che lega vittima e perpetratore adolescente o pre-adolescente può essere utilmente riassunta nel termine “mortifica-zione” preso nella sua pregnanza etimologica; mortificare qual-cuno significa “lasciarlo come morto” e proprio l’adolescenza ha bisogno di approcciare il tema della morte. L’adolescente sta vivendo un passaggio epoca-le della sua vita, si è lasciato del tutto e definitivamente alle spal-le l’infanzia e fatica a trovare riti di passaggio che permettano la chiusura dei conti con quell’età della vita. È proprio la morte dunque ad appassionare i ragaz-zi e le ragazze, dalla musica che ascoltano ai videogames con i quali si divertono; ed è la mor-te (apparente ma spesso reale5) dell’altro a provvedere un rito di passaggio tragico, a permettere di affrontare questa dimensione altrimenti taciuta. Sono grande perché so dare la morte, almeno quella sociale (qui ben si colloca il discorso del cyberbullismo e delle procedure di ostracismo sui social network), perché so mortificare, e questo mi permet-te di non affrontare il tema della mia morte, della mia fragilità. È una iniziazione abortita, ma è co-munque una tragica iniziazione, nella quale la violenza sostituisce la consapevolezza di sé e della propria esposizione al mondo, ai suoi colpi, alle possibili ferite che esso può provocare6. Piutto-sto che pensarmi debole ed espo-sto ai colpi del mondo preferisco colpire per primo; piuttosto che

GESTIQUOTIDIANI

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1) Rimandiamo all’articolo I jihadisti e i bambini-kamikaze: i «perfetti educatori» allo sterminio, in “Avvenire” del 23 ago-sto 2016. 2) Mondadori, 2007; ma vedi anche il ro-manzo di Jody Picoult Diciannove minu-ti, Tea, 2010; è anche interessante la lettu-ra del libro di Sue Klebold Mio figlio, Sper-ling & Kupfer, 2016; si tratta di un memo-riale scritto dalla madre del ragazzo che si rese colpevole della strage di Columbine: al netto di una lettura psicologistica per noi discutibile se non inaccettabile, si trat-ta di una eccezionale testimonianza. 3) Charlie Human, Apocalypse Now Now, Gargoyle, 2015, pag. 34. 4) Cfr. Theodor Adorno La personalità au-toritaria Milano, Comunità, 1982. 5) Cfr. il romanzo di Blake Morrison Co-me se, Fandango, 2005, ispirato al fatto di cronaca che vide nel 1993 in Inghilterra due ragazzini di dieci anni rapire e assas-sinare un bambino. 6) Sul tema della violenza come iniziazio-ne in un contesto di guerra cfr. John dos Passos, L’iniziazione di un uomo, Piano B, 2013. 7) Questo meccanismo è stato egregia-mente esemplificato nella novella di James Joyce La contropartita, in Gente di Dubli-no. Milano, Garzanti, 1982. 8) Consigliamo per esempio la lettura del romanzo di Sindiwe Magona, Da madre a madre, Baldini e Castoldi, 2015, la storia della madre di un giovanissimo assassino che scrive alla madre della sua vittima. 9) Fabrizio de Andrè, Canzone del Mag-gio e Nella mia ora di libertà, dall’album “Storia di un impiegato”.

pensarmi morto, ma in una meta-morfosi vitale, preferisco lasciare l’altro come morto.

Spesso si sottolinea l’im-portanza del gruppo come catalizzatore della violenza adole-scenziale. Oltre all’at-tivazione delle dina-miche gruppali ben note dalla letteratura, il gruppo permette un nascondimento e un anonimato, la perdita della dimensione della responsabilità diretta, la percezione del senso di prote-zione e di impunità. Ma il grup-po permette anche una ulteriore tragica torsione del concetto di violenza: nel cartone animato “I Simpson”, la prima volta che il bambino Martin Prince, primo della classe e di solito vittima dei bulli, partecipa a un’azione di gruppo consistente nel chiude-re un ragazzino nello spogliatoio delle ragazze, sostiene che tra le cose che l’hanno fatto maggior-mente godere c’è “il fatto che non ero io” ricorsività della violenza la vittima che diventa carnefice. Nel gruppo dei violenti posso essere ammesso e fare il salto da vittima a perpetratore se riesco a fornire al gruppo stesso una vitti-ma “più vittima” di me (è la classi-ca figura dell’identificazione con l’aggressore). Questa ricorsività della violenza costituisce forse il suo carattere più perturbante, e se è stata spesso studiata nei rap-porti intergenerazionali (per cui un padre violento sfoga sui figli la violenza che subisce dai pro-pri superiori, e rischia di creare un figlio che cercherà di sfogare la sua violenza sui più piccoli7), forse occorre concentrare i no-stri studi anche sul microcosmo adolescenziale nel quale queste dinamiche si ripetono con carat-tere ancora più perturbante.

Abbiamo così raggiunto quello

che forse è il tratto più preoccu-pante della violenza adolescenzia-le, ovvero il suo carattere ricorsivo e scontato; la violenza sembra es-

sere un anello che gira continua-mente su se stesso, una specie di nastro di Moebius che non ha mai fine e dal quale non si esce mai. La violenza è una trappola dalla qua-le non c’è via di uscita, conviene adeguarsi o si rischia seriamente di perdere tutto.

Quali le vie d’uscita? Difficile ovviamente indicarle rimanendo sul piano della pedagogia; quello che però sicuramente occorre è una figura adulta capace di esi-liare la violenza dai propri atti, capace di gentilezza, di amo-revole fermezza e di perdono8. Quello che occorre è un rito di iniziazione all’altruismo che non sacrifichi ma potenzi al massimo la concentrazione su di sé tipica dell’età adolescenziale dandole uno sbocco diverso da quello del-la violenza. Se la violenza è un rito iniziatico significa che al termine del rito c’è una immagine di adul-to violento, e della pervasività di questa immagine non possiamo proprio incolpare i ragazzi e le ra-gazze. La violenza ha il vantaggio del nascondimento dei propri tratti deboli per la costruzione di una identità forte e vincente, ha la caratteristica del far tacere la coscienza per far parlare i fatti nudi, ha la forza terribile della profezia che si autoavvera, ha il potere semplificante della veloci-tà di esecuzione, ha la seduzione

della soluzione semplice, che taglia ogni nodo gordiano e fa risparmiare tempo, pensiero e fatica. Siamo sicuri che queste

caratteristiche non descrivano fin troppo bene molti dei nostri rapporti con i ragazzi e le ragazze, a livello educativo? Non ci sembra, quando leg-giamo queste terribili notizie, di sentire la frase con la quale Fa-brizio de Andrè chiu-de due delle sue più

belle canzoni: “per quanto voi vi crediate assolti siete lo stesso coinvolti”9?

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La problematicità delle re-lazioni interpersonali e di gruppo ha assunto nella

scuola italiana una crescente rile-vanza: quasi sempre i guai che ci si trova ad affrontare sono dovu-ti a relazioni difficili tra colleghi, o tra dirigente e docenti, o con i genitori, con gli alunni o tra alun-ni (v. emergenza bulli-smo e cyberbullismo).

Ciò fa sì che una buona competenza nella loro gestione sia diventata un connota-to imprescindibile del profilo professionale tanto del docente che del dirigente scolasti-co. Dirò di più: io la metterei al primo po-sto tra i prerequisiti necessari per accede-re alla professione e ritengo che in questo senso si dovrebbero ripensare anche il percorso formativo di base ed i criteri di selezione del personale.

Del resto, autorevoli ricercatori (v. Reis e Collins1) sostengono che il contesto relazionale condiziona pesantemente i nostri processi cognitivi, emozionali e compor-tamentali e le conclusioni a cui sono giunte le neoroscienze co-gnitive ci portano ad affermare che gran parte della nostra vita e del nostro essere sono stretta-mente condizionati dal contesto relazionale in cui viviamo e dalla nostra adattabilità ad esso.

In un mondo così vasto e pro-blematico, proviamo a farci guida-re da alcune parole chiave: comu-nicazione, prossemica e difesa del territorio, cura ed ascolto, fiducia e autenticità.

la comunicazionePrendendo spunto da Edda

Ducci2, potremmo affermare che essere è comunicare e, di conse-guenza, ciò che non viene comu-nicato non esiste.

Dalla vasta ricerca sulla comu-nicazione, in cui una pietra milia-re è stata certamente posta dalla scuola di Palo Alto3, si possono isolare alcuni principi fondamen-tali:l è impossibile non comunicare;l il silenzio è una forma di comu-

nicazione;l i processi di comunicazione

interpersonale possono essere

simmetrici o complementari;l ogni comunicazione ha un con-

tenuto ed un aspetto metaco-municativo;

l è la comunicazione che ci con-sente di conoscere noi stessi e gli altri;

l gli errori di comunicazione si traducono in sentimenti ed atti

scorretti;l il feedback è l’uni-co modo di validare la nostra percezione;l ogni aspetto del-la comunicazione è strettamente interre-lato;l la comunicazione può diventare una pericolosa arma con cui distruggere l’altro.

Sono concetti mol-to noti, ma spesso sot-tostimati. Prendiamo

ad esempio il livello di prevalenza della comunicazione non verbale su quella verbale. Secondo Albert Mehrabain4 la dimensione non verbale (particolarmente corpo ed espressione facciale) incide-rebbe per il 55%, quella paraver-bale (volume, tono, ritmo) per il 38%, mentre il contenuto verba-le avrebbe un’incidenza di solo il 7%. Ne teniamo conto quando ci rapportiamo con i colleghi, o nei colloqui con i genitori, o nelle comunicazioni in classe?

Il guaio è che non abbiamo molti strumenti per capire come comunichiamo, salvo i feedback

Donato De Silvestri

Apprendere ed insegnarele buone relazioni

Q U E S T I O N I D I C L I M A

TRACCE E PROPOSTE

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che ci forniscono gli altri, ma an-che essi possono essere facilmente equivocati. Infatti, l’immagine che abbiamo della nostra comunica-zione deriva in larga misura da una nostra percezione del tutto soggettiva. Che impressione ab-biamo avuto la prima volta che abbiamo sentito la nostra voce registrata? A questa domanda i più rispondono di aver pensato che appari-va distorta, sfalsata, mentre quella degli altri risultava stranamente fedele. Le cose non migliorano certo quando vediamo i filmati in cui compariamo, special-mente se riproducono il nostro modo di conversare o di esporre. In compenso siamo dei giudici severi ri-spetto alla comunicazione altrui e non serve essere de-gli esperti di linguaggio del corpo per cogliere in loro una bu-gia o una reticenza, o il sostanziale disinteresse di chi ascolta. Ci sono poi i rischi connessi all’attribuire all’altrui comunicazione signifi-cati che non ha o non vorrebbe avere, evento che capita molto più spesso di quanto pensiamo. Mol-ti problemi relazionali nascono infatti dalla lettura di significati ostili in messaggi innocui. Su questo c’è anche chi ci gioca e afferma in continuazione di esse-re stato equivocato. In ogni caso l’esperienza insegna che possono accadere guai seri quando l’inter-locutore equivoca il messaggio o scambia una battuta ironica per un’affermazione seria. Per que-sto è vivamente sconsigliato fare della simpatica ironia sugli alunni: quasi mai ne colgono la simpatia. L’ambiguità della comunicazione emerge anche da un racconto di Maria Altieri Biagi, grande studio-sa della lingua e della grammatica italiane, a cui la figlia aveva chie-sto cosa ne pensasse dei jeans che indossava e che aveva comprato

l’anno prima. La madre aveva risposto: “Ti stanno a pennello”, pensando di comunicare: “non sei assolutamente ingrassata”. La figlia però si irritò moltissimo perché aveva capito: “Togliti dal-la testa di comperarne un paio di nuovi”. Un altro rischio consiste

nel fare un uso troppo frettoloso delle parole, specialmente quan-do si è emotivamente turbati. La parola in questi casi può diventare una vera e propria arma letale: sei il solito incapace o da te non ci si po-teva aspettare altro, pur se riferiti ad eventi circoscritti, si traducono in una denigrazione totale dell’in-dividuo. Goleman, a questo pro-posito, dice che non c’è nulla di peggio di dire ad una persona con tono sarcastico, sprezzante ed irri-tato :” Sai fare solo casino”.

In conclusione, comprendere meglio tutto ciò, lavorare per il ri-conoscimento del nostro stile di comunicazione e per il suo miglio-ramento è il primo necessario pre-supposto per far crescere anche la nostra competenza nella gestione delle relazioni interpersonali e di gruppo.

Prossemica e territoriLa prossemica è un’articola-

zione della psicologia che analiz-za i comportamenti in relazione allo spazio, al modo di collocarsi

in esso e di utilizzarlo, nonché alla vicinanza/distanza rispetto agli altri. Sono cose che non av-vengono mai casualmente e che rispondono a bisogni profondi o a regole anche solo informalmen-te condivise, le quali rispecchiano la cultura, il sesso, l’età, il ruolo,

l’appartenenza. Al Sud ci si bacia e ci si abbraccia di più di quanto lo si faccia al Nord e l’accettabilità del contatto fisico mette in gioco componenti che possono creare imbarazzi e pericolosi fraintendimen-ti. In Italia il contatto delle guance (con o senza ba-cio) anche tra uomini, che accompagna la stretta di mano o l’abbraccio quando ci si incontra, è considerato lecito e del tutto normale, ma lo stesso non accade altrove. Negli Usa una ca-

rezza data come simpatico gesto di vicinanza potrebbe pericolo-samente trasformarsi in un atto di molestia sessuale.

I territori rappresentano de-gli spazi che devono garantire adeguati livelli di privatezza e gli sconfinamenti sono considerati attacchi a cui possono seguire pericolose reazioni. Quando trat-to in aula questi argomenti sono solito chiedere: ”Qual è la prima cosa che fate quado arrivate su una spiaggia libera?” Le risposte sono normalmente: si pianta l’om-brellone, si dispongono le proprie cose. Ebbene, l’ombrellone assu-me simbolicamente il significato di un vessillo che indica possesso, come la bandiera americana pian-tata da Neil Armstrong nel lunare mare della Tranquillità. Disporre le proprie cose equivale di fatto a segnare il territorio, anche se in modo diverso da come fanno gli animali: non puoi passare nello spazio tra le ciabatte e la borsa per-ché equivarrebbe ad “entrarmi in casa”. Potremmo dire che l’occu-

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Apprendereed insegnarele buone relazioni

QUESTIONI DI CLIMA seduti nella propria casa sono degli efficaci termometri dell’an-damento della loro relazione, così come lo sarebbe anche la distanza dei figli nei confronti dei genitori.

In conclusione, se vogliamo ge-stire buone relazioni, dobbiamo saper rispettare territori degli altri ed evitare di reagire troppo im-pulsivamente alle invasioni altrui.

L’osservazione delle dinamiche in una piccola spiaggia di Ischia sono state anni fa un’interessante fonte di apprendimento. Quando ormai in tarda mattinata la spiag-gia era già stata interamente lottiz-zata, arrivava un’auto con il tetto ricolmo di ogni sorta d’oggetti e con a bordo una numerosissima famiglia. Loro non avevano alcu-na intenzione di collocarsi nello spazio più assolato e lontano dal mare. Si dividevano così in “com-mandos” composti di due persone e si addentravano tra la gente con lo scopo di riunire l’intero nucleo familiare nel più breve tempo pos-sibile e in un sito vicino al mare. Quando due di essi arrivano nel territorio di nessuno adiacente alla tua postazione, cercavano

il tuo sguardo, ti sor-ridevano e dicevano: “Buongiorno… pos-siamo metterci qui”. Al che tu ricambiavi il sorriso, il saluto e facevi volentieri posto spostando le tue cose. Qual era il segreto? Arrivavano portando-ti qualcosa, un sorri-so, un saluto. Iniziare

una relazione con un “dono” è una chiave che apre quasi tutte le porte.

ascolto, autenticità, fiducia

Rogers individua tre caratte-ristiche indispensabili per una buona comunicazione: un atteg-giamento incondizionatamente positivo, comprensione empatica

pazione di una spiaggia pubblica si traduce in una progressiva delimitazione di territori privati, che vengono presidiati e difesi da indesiderate invasioni. Anche il collocarsi nel-la terra di nessuno tra una postazione e l’al-tra può essere inteso come un’inaccettabile invasione.

Un bell’esempio delle dinamiche di tipo prossemico è l’uso dell’ascensore. Cosa accade quando entria-mo in uno di piccole dimensioni? Non puoi guardare degli estranei dritto negli occhi per-ché sarebbe troppo intimo. Per terra non guardi perché i piedi costituisco-no una parte privata. Se guardi in aria, rischi di essere scambiato per scemo e allora leggi quell’etichet-ta: portata massima, indirizzo del-la ditta che fa la manutenzione… Non te ne frega nulla di chi faccia la manutenzione, ma hai bisogno di sfuggire all’eccessiva intimità e che mina i confini del tuo spazio privato. è poi interessante notare che in Italia se l’ascensore è gran-de ci si dispone sul perimetro, con la schiena appoggiata alle pareti, mentre negli Usa si compongono delle file parallele, tutti con lo sguardo in avanti e ben attenti ad evitare contatti fisici. Le logiche dell’ascensore si ripropongono anche a scuola, o sul posto di la-voro, e condizionano fortemente le dinamiche relazionali. Gli open office all’americana creerebbero

non pochi problemi agli impie-gati italiani e un capo che osser-vasse troppo da vicino il lavoro di un dipendente, ne diminuirebbe l’efficacia. A tutti è capitato di per-dere la concentrazione durante un compito in classe per l’eccessiva vicinanza del professore. L’etolo-gia ha molto studiato le reazioni determinate da improvvise viola-zioni di spazio ad opera di pro-vocatori: affiancarsi ad un lettore in una biblioteca non affollata o

occupare lo stallo adiacente in un orinatoio pubblico in presenza di altri stalli liberi.

Dobbiamo poi considerare che le invasioni possono avvenire an-che in spazi virtuali, come il colle-ga che si intromette nella materia di tua competenza, o uno sguardo insistente o l’appropriarsi di frasi altrui. Secondo Crane, Russell e Griffin5, come i coniugi stanno

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e genuinità. Beck, dal canto suo,

sottolinea che la rela-zione si centra su pen-sieri e sulle emozioni oltre che sui compor-tamenti e che i pensieri negativi si traducono in distorsioni cognitive.

I rapporti che me-glio funzionano sono indubbiamente quelli basati sulla fiducia, ma quest’ultima va sempre conqui-stata. Quasi mai ci si fida a prima vista ed anzi la nostra cultura ci consiglia fin da bambini di diffida-re degli estranei perché potenzial-mente pericolosi. Come accoglia-mo il nuovo arrivato sul posto di lavoro? Di solito l’atteggiamento è “vediamo come si comporta”, ossia una giocata di sfiducia. Il Dilemma del prigioniero, un gioco ad informazione completa, è uno strumento molto efficace usato in contesto formativo per dimostra-re come normalmente ad una gio-cata di sfiducia corrisponda una giocata di sfiducia, che innesca un pericoloso circolo vizioso da cui è molto difficile uscire. Se inizia-mo le nostre relazioni diffidando dell’altro otterremo diffidenza, distacco e creeremo le basi per l’insorgere di eventi pericolosi. D’altronde, come dicevo, la fidu-cia va progressivamente costruita. Per farlo c’è la necessità di far piaz-za pulita dei pregiudizi, evitando però di risultare falsi o reticenti. C’è bisogno di autenticità. Le buone relazioni lo esigono: dob-biamo evitare la finzione, la piag-geria, l’opportunismo, mettendo invece in gioco il meglio di noi. E’ conseguentemente importante sostenere il proprio punto di vista, ma anche saper ammettere di aver sbagliato. Lo facciamo, a casa così come nell’attività lavorativa?

Poi l’ascolto. Noi stiamo bene con chi ci ascolta e saper ascoltare è un presupposto fondamentale

1) Reis H.T., Collins W.A., Relationships, Human Behavior, and Psychological Science, American Psychological Society, 2004. 2) Ducci A., Essere e comunicare, Anicia, 2003. 3) Bateson, Watzlawick e altri psicoterapeuti di Palo Alto hanno formulato cinque fon-damentali assiomi:

1. non si può non comunicare: qualunque cosa facciamo o non facciamo comunica ed è oggetto di interpretazione; 2. ogni comunicazione presenta due distinti due livelli: il contenuto e la relazione 3. la comunicazione dipende da come viene punteggiata, ossia dall’ordine che attri-buiamo ai contenuti. 4. la comunicazione si differenzia in analogica e digitale, nella prima rientra tutta la dimensione non verbale, mentre la seconda riguarda i segni, le parole, gli oggetti. 5. le interazioni tra comunicanti possono essere di due tipi: simmetriche o comple-mentari. Nelle prime gli interlocutori, si ritengono di pari livello, nelle altre si assu-mono posizioni subordinate o superordinate.

Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D. (1967), Pragmatica della comunicazione uma-na, Astrolabio, 1971. 4) Mehrabian, A., Silent Messages: Implicit Communication of Emotions and Attitudes, Belmont, CA: Wadsworth, 1981. 5) Grane D., Russel L., Griffin W., Personal space: An objective measure of marital qua-lity, «Journal of Marital and Family Therapy», 9, 325-327, 1983.

per costruire buone relazioni. L’ascolto deve ovviamente essere vero, attivo, empatico, nel senso che dovrebbe essere un’occasio-ne dialogica per conoscere l’altro, capirlo, condividerne le emozioni. Nel riquadro si riporta la parola ascoltare in cinese. Si noti che essa è composta di diversi segni che si-

gnificano: orecchio, tu, attenzione condivisa, cuore.

Concludendo, sono molte le piste che dovremmo saper per-

lustrare per diventare competenti nella ge-stione delle relazioni, ma non necessitano cambiamenti radicali o troppo onerosi: la solu-zione consiste nell’at-tivare piccoli processi di miglioramento. Per farlo è però necessario essere disposti a lavo-rare su di sé, perché se non impariamo a star

bene con noi stessi, non saremo in grado di star bene con gli al-tri. Ciò significa fare innanzitutto un’azione di autoriconoscimento dei nostri tratti, dei nostri stili, del-le nostre competenze e delle no-stre emozioni: quanto più capirai te stesso, tanto più comprenderai il mondo (Paulo Coelho).

I rapporti che meglio funzionano sono indubbiamente quelli basati sulla fiducia, ma quest’ultima va sempre conquistata.

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A rrivare a giugno, per un in-segnante, è una meta am-bita, a volte un miraggio:

su Facebook e nei nostri grup-pi WhatsApp, a settembre-ot-tobre, da qualche anno, ormai, girano vignette che ritraggono un gufo dalle penne ben com-poste e con il capellino da lau-reato americano (alcune varian-ti presentano anche gli occhiali tondi, il registro sottobraccio e una bacchetta in mano: strumen-ti d’altri tempi, che nessuno uti-lizza più, ma che fanno ancora parte dell’immaginario della no-stra cultura); la didascalia recita: “Insegnante a all’inizio dell’an-no scolastico”. Accanto, lo stes-so gufo: le penne arruffate, il cap-pellino finito chissà dove, i vesti-ti a brandelli e lo sguardo scon-volto (a volte, troviamo anche le lenti degli occhiali crepate, la la-vagna abbattuta, il registro strap-pato); si tratta di un “Insegnan-

te alla fine dell’anno scolastico”. Con il progredire dei mesi

di lezione, la stessa vignetta cambia didascalia mentre pas-sa da uno smartphone all’altro: “insegnante a maggio”, “inse-gnante a marzo”, “insegnante a gennaio”… In effetti, mai come quest’anno colleghi e collaboratori scolastici si sono confidati reciprocamente, già verso la fine del primo quadri-mestre, una stanchezza strana, inedita e soverchiante: le ipote-si sono state molte, e ciascuno ha avanzato le proprie; in tutte, però, si è avvertita la necessi-tà di un appoggio che sembra spesso non esserci più, di qual-cuno su cui fare affidamento; il desiderio di un… sostegno, appunto. Abbiamo bisogno di un sostegno, tutti, per “arriva-

re fino a giugno con le rose”, come scrisse il poeta Gottfried Benn: “Lente giornate. Tutto è come andato oltre. / E tu non chiedi se è fine, se è princìpio, /così forse le ore porteranno / te ancora fino a giugno con le rose”1. Non si tratta solo di arrivare a giugno in un modo o nell’altro, e non vorremmo arrivarci come il gufo della vi-gnetta, sopraffatto dall’inutilità del proprio sforzo: assente da sé, sconfitto. Ci ricorda ancora Benn: “Devi saperti immergere, devi imparare / un giorno è gio-ia e un altro giorno obbrobrio, / non desistere, andartene non puoi / quando è mancata all’ora la sua luce” – lo facciamo, sap-piamo farlo: ci immergiamo nella nostra professione, ne accettiamo le vicende alterne, le immense soddisfazioni e le umiliazioni meschine, da qua-lunque parte ci giungano. “Du-rare, aspettare, ora giù a fondo, / ora sommerso ed ora ammu-tolito, / strana legge, non sono faville, / non soltanto – guardati attorno: // la natura vuole fare le sue ciliegie, / anche con pochi bocci in aprile / le sue merci di frutta le conserva / tacitamente fino agli anni buoni”. È una fi-ducia che abbiamo, questa: sì, e ce ne nutriamo, nelle nostre ore migliori. Anche con tutti i suoi difetti, questa nostra scuola, che a volte così ferocemente ci fraintende, ha una bontà tutta sua: dà i suoi frutti, educa, salva molti adolescenti da destini di emarginazione e di disagio so-

Ho bisogno di un sostegno

S e n z a o b b l i g o d i c a t e n e

RISCOPRIRE GLI ORIZZONTI E LA SPERANZA

lorenzo gobbi

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Il docente di sostegno è una delle risorse migliori che la scuola può mettere in campo, specie con classi “difficili” e in contesti multiculturali.

fre il proprio aiuto e la propria competenza (ha una specializ-zazione in più rispetto agli altri docenti, fatta di Neuropsichia-tria infantile, Pedagogia specia-le, Psicologia dello sviluppo, Psicologia cognitiva e tanto altro) non solo al “caso” che

gli/le viene affidato, ma a tutti gli studenti, a tutti i colleghi, a tutte le famiglie (che trovano talvolta nel docente di sostegno un ottimo interlocutore). Deve reggere equilibri delicati: il rap-porto con la famiglia dell’alun-no disabile, ad esempio, che a volte chiede molto impegno anche dal punto di vista emo-tivo (oltre alla dedizione, a una disponibilità e a una flessibilità particolari e alla produzione dei materiali didattici necessa-ri): può esserci qualche velata diffidenza da vincere, magari per esperienze pregresse non del tutto positive; e il rapporto con gli specialisti, non sempre facilmente accessibili, spesso oberati di casi da seguire e tal-volta non pienamente “sinto-nizzati” sulle esigenze concre-te del lavoro in classe; vi sono poi i servizi sociali, le Asl, gli/le assistenti alla persona, i col-laboratori scolastici (può acca-dere che il mezzo di trasporto comunale o la famiglia tardino oltre l’orario delle lezioni, a chi viene affidato il ragazzo? Può essere legittimamente assen-

ciale (penso soprattutto al mio istituto professionale: non tutti, ma molti ricevono a scuola non solo delle competenze spen-dibili per ottenere un lavoro qualificato e ben pagato, ma soprattutto un modello di vita sano, onesto, positivo, adegua-to alla ricerca della felicità che ciascuno di loro porta in sé), semina cultura e con-sapevolezza, anche con i pochi mezzi che ha – e gli anni buoni verranno: l’allievo di vent’anni fa, per il quale tutti profetizza-vano un futuro fatto di nulla, incontra per strada il suo vecchio “prof” e racconta una vita buona, un lavoro onesto, un’avventura imprenditoria-le riuscita, una generosità che gli fa onore; ma guarda, chi l’avrebbe detto! Continua il poeta Benn: “Nessuno sa dove si nutrono le gemme, / nessuno sa se mai la corolla fiorisca – / durare, aspettare, concedersi, / oscurarsi, invecchiare, aprèslu-de”2. Appunto: nessuno può saperlo, ed è questo che ci spin-ge avanti; soprattutto, sostiene quegli insegnanti che operano con ragazzi disabili, la cui au-tonomia può crescere fino a un certo punto, la cui capacità cognitiva ha dei limiti invalica-bili, la cui risposta all’attività didattica si caratterizza per del-le complessità, a volte, difficili da reggere… gli insegnanti di sostegno. Le normative recen-ti e i pronunciamenti del Miur non fanno che ripetere che l’insegnante di sostegno è in-segnante della classe, non del solo alunno disabile: ha diritto di voto nel Consiglio di Clas-se, può svolgere la funzione di coordinatore e qualunque altra funzione nella scuola, of-

te, quel giorno, l’assistente alla persona, a chi chiedere aiuto? I collaboratori scolastici sono una risorsa preziosa e irrinun-ciabile). Può accadere che il do-cente di sostegno non si senta “considerato” sufficientemente dai colleghi: eppure, è una del-

le risorse migliori che la scuola può mettere in campo, specie con classi “difficili” e in contesti multicultura-li. Si ha l’impressione, a volte, che uno stig-ma sociale sia ancora in qualche modo pre-sente nei confronti dei ragazzi disabili, percepiti come “mi-nus habentes” – al-lievi “meno dotati”,

che non possono imparare gran che, e dunque “non dovrebbe-ro venire in scuole come questa, ma piuttosto stare tra loro e fare cose adatte a loro”… sono frasi che si sentono dire ancora, in qualche sala professori: sempre meno, per fortuna, ma… – e che questo stigma si rifletta su-gli insegnanti: anch’essi, che si dedicano a dei “minus”, pos-sono essere percepiti come dei “minus” (“Tu sei quello che porta in bagno gli handicappa-ti?”, è la battuta che circola sui forum delle famiglie dei ragazzi disabili per denunciare questa situazione. Di norma, l’inse-gnante di sostegno risponde: “Se è necessario, faccio anche questo. Perché, devi andare in

Nessuno sa dove si nutrono le gemme,

nessuno sa se mai la corolla fiorisca

durare, aspettare, concedersi,

oscurarsi, invecchiare, aprèslude

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Ho bisogno di un sostegno

Senza obbligo di catene

bagno?”). Per qualche docen-te, la scelta del sostegno, di fatto, è stata una scelta di ri-piego, nelle vicende intricate e difficili da raccontare che molti di noi hanno vissuto per poter conquistare un posto di ruolo o per poter continuare a lavora-re come supplenti; e più di un collega chiede loro: “Tornerai a matematica, l’anno prossimo, vero? Quanto devi aspettare ancora per chiedere il passag-gio di ruolo? Lo farai, ovvia-mente…”. Se alcuni docenti di sostegno si percepiscono come “minus” anziché come docenti altamente specializzati, è diffi-cile che il loro lavoro li soddisfi, e ancor di più che possano di-ventare quel “sostegno” di cui noi, i “curricolari” (nella realtà quotidiana, la distinzione non dovrebbe esistere, di per sé, come non esiste nella normati-va: siamo tutti insegnanti, sullo stesso piano), abbiamo tanto bisogno per diventare “comu-

nità”, per non sentirci soli e per smettere una volta per tutte di lavorare da soli.

Oggi, la scuola è viva se è un cantiere di relazioni molteplici, sane, costruttive: nessuno più del docente di sostegno può fare da “ponte” tra le diver-se componenti della comuni-tà scolastica, perché nessuno lavori più da solo. Se viene percepito come una presenza invadente e inopportuna, che “chiacchiera” con il disabile “disturbando” le lezioni, che diffonde appunti “facilitando” tutta la classe, che si alza, esce e rientra, che interviene “di-straendo”, nulla di tutto ciò è possibile; se il docente currico-lare si sente sotto osservazione, o peggio, sotto giudizio, se si sente “spiato”, se pensa che la classe sia affidata solo a lui e che chiunque altro vi entri con lui sia, alla fin fine, una sorta di intruso, se non vi è un rappor-to di stima e di fiducia, se non sussiste un patto di correspon-sabilità, il docente di sostegno ha sulle spalle un peso in più, enorme e insostenibile: sente la sfiducia (il collega, maga-ri, non gli dà le domande per la verifica, che l’insegnante di sostegno vorrebbe e dovrebbe poter semplificare come è suo

dovere, perché teme che questi le diffonda tra i ragazzi senza il suo consenso; non anticipa gli argomenti dell’interrogazione, rendendo impossibile la pre-parazione del ragazzo disabile, specie se è ad obiettivi minimi, benché anche gli obiettivi mini-mi siano sottoposti alla discipli-na della legge 104; l’insistenza per sapere almeno la tipologia della verifica può essere vista come un’invadenza inoppor-tuna – sembra impossibile, ma esiste ancora qualche inse-gnante che non anticipa né gli argomenti né le tipologie delle verifiche, in barba alle norma-tive), avverte che è considera-to “di troppo”; a volte, non sa nemmeno dove e come stare in classe (con quel docente deve uscire, perché se no ”distur-ba”; con l’altro, non può nem-meno parlare con il ragazzo che gli è affidato, ma deve mettersi in fondo all’aula e limitarsi a prendere appunti; con l’altro ancora, può girare per la classe e partecipare alla lezione attiva-mente, a vantaggio di tutti – e accade spesso: ci sono moltis-sime situazioni di positiva col-laborazione, e non sono più un caso raro). Gli equilibri sono molto delicati: qualche scuo-la opera scelte assolutistiche (sempre in classe, perché altri-menti “salta” l’inclusione; sem-pre fuori dalla classe, per non “disturbare le lezioni”), ma tut-to dipende da una molteplicità di fattori: il rapporto di fiducia e di stima con i colleghi, la loro percezione del docente di so-stegno come di “uno di loro” oppure no, la valorizzazione delle competenze del docente di sostegno, che non sempre, occorre dirlo, sa farsi valere come potrebbe (non sempre, ad esempio, si impegna a uti-lizzare una terminologia spe-cifica nella redazione del Pei e

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nei suoi interventi in consiglio di classe, dove può attrarre la stima dei colleghi mostrando la qualità della propria prepa-razione specialistica, che è al servizio di tutti: spesso, rinun-cia, si lascia andare, parla meno che può, come se la classe non lo riguardasse, come se qualche collega dalle vedute ristrette avesse pienamente ragione; si sa, non si può combattere con-tro i mulini a vento…); dipende, poi, dal caso che gli è affidato, dalle sue caratteristiche, dal rapporto con la fami-glia del ragazzo disa-bile… Serve un sano pragmatismo: non si possono adottare sche-mi predefiniti, perché tutto è da costruire anno per anno, volta per volta.

In una classe, un insegnante di sostegno che goda della sti-ma dei colleghi e che sia piena-mente coinvolto nella gestione della classe può portare molto: innanzitutto, diverse angola-zioni, punti di vista altrimenti impossibili da intercettare – le parole informali, le relazioni autentiche che si creano tra i ragazzi e tra i ragazzi e i docen-ti, nella loro realtà, viste tra i banchi, non dalla cattedra; può mediare, suggerire, perché può cogliere, avvertire con maggio-re precisione; può coadiuvare e supportare il curricolare pro-prio perché è meno legato alla forma, e perché trascorre mol-te più ore in classe. Più agisce come docente, per tutta la clas-se, più riesce ad assicurare una reale inclusione; affrontando con i colleghi il delicato equili-brio tra il diritto del disabile ad un servizio personalizzato e il diritto del resto della classe ad avere un docente di sostegno che sia docente della classe,

può provocare una profonda maturazione umana del consi-glio di classe, una crescita delle relazioni, una migliore qualità del tempo trascorso a scuola. Spesso, l’insegnante di soste-gno sa utilizzare tecnologie didattiche innovative (applica-zioni su Ipad che “girano” an-che su Lim, ad esempio; piat-taforme interattive, giochi di-dattici, verifiche in line, risorse

di varia tipologia), che possono essere ottime per tutta la clas-se, con gli adattamenti oppor-tuni; spesso, il coinvolgimento dell’intera classe nell’attività del ragazzo disabile può essere significativo anche dal punto di vista dell’apprendimento per tutti gli studenti, non solo per il disabile (e non solo dal pun-to di vista umano, “caritatevo-le”…): i ragazzi possono rifor-mulare concetti, semplificarli, collegarli, esprimerli diversa-mente, coglierne sviluppi e po-tenzialità che sarebbero passate in secondo piano, per porgerli al loro compagno disabile o ai compagni con Dsa certificati.

Se ce ne rendessimo conto, non accadrebbe che qualche insegnate di sostegno non si considerasse nemmeno un in-segnante, e nessun “currico-lare” potrebbero continuare a pensarlo (la visione “gerar-chica”, che vede il docente di sostegno un gradino al di sotto del curricolare, è del tutto in-

giustificata e… illegale!); e nemmeno che l’inse-gnante di sostegno venis-se utilizzato, qualche vol-ta, come supplente sem-pre a disposizione per sostituire colleghi assenti o non ancora nominati: in qualche scuola, purtrop-po, i docenti di sostegno svolgono un numero dav-vero alto di supplenze, trascurando tanto le loro

classi quanto gli studenti cer-tificati ai sensi della legge 104, che vengono privati del servi-zio che spetta a entrambi.

Penso al mio istituto profes-sionale: in classi difficilissime, da film americano (nel film, però, l’insegnante ben inten-zionato arriva e in pochi mesi conquista tutti; nella realtà ve-ronese, non è che vada sempre così, anzi!), è l’insegnante di sostegno, più di altri, a motiva-re e a coinvolgere, a far capire, a dialogare, a intercettare sus-surri, malesseri e prospettive di crescita, e soprattutto a dif-fondere, istante dopo istante, il valore dell’impegno e delle ragioni per cui facciamo scuo-la, tra gli studenti e tra di noi, così provati da ciò che questi ragazzi e queste ragazze fan-no in classe e sono fuori dalla classe – o sembrano essere: è lo svantaggio socio-economico che li ha portati qui, in seconda professionale a 18-19 anni; in tasca, alcuni hanno il coltello a

Più agisce come docente, per tutta la classe, più riesce ad assicurare una reale inclusione; affrontando con i colleghi il delicato equilibrio tra il diritto del disabile ad un servizio personalizzato e il diritto del resto della classe.

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Ho bisogno di un sostegno

Senza obbligo di catene

serramanico; hanno alle spalle storie che sono spesso terribili da raccontare, per il carico di sofferenza che hanno dentro; qualcuno sparisce strada facen-do, riappare per qualche gior-no, sparisce ancora; di qualche altro non è possibile rintraccia-re non tanto i genitori, ma neanche un familiare qual-siasi; quando entra il cane dell’antidroga, però, il bot-tino è minore di quel che ci si sarebbe aspettati…

Spesso, il docente di so-stegno deve fare un enor-me lavoro su se stesso: deve sostenere contraddizioni, difficoltà, fraintendimenti, fatiche. Non è poco: e le soddisfazioni enormi che può avere, spesso, gli sono costate un difficile periodo di inserimento, e grandi fatiche relazionali, a più livelli. A volte si trova di fronte a dirigenti sommersi da una miriade di impegni, che possono avere per que-sto troppo poco tempo da dedicare ai docenti di sostegno, i quali, invece, sono spesso por-tatori di problematiche estre-mamente complesse; a colleghi che non sempre lo apprezzano come sarebbe giusto e talvolta

non lo riconoscono pienamen-te nelle sue competenze specia-listiche e nelle sue potenzialità didattiche; a famiglie che, ma-gari, non accettano la disabi-lità del figlio; e a ragazzi che, in alcuni casi, vivono disabili-tà davvero gravi – con i quali passano molte ore e per i quali studiano strategie di migliora-mento, progettando attività per sviluppare un’autonomia labi-le, improbabile: c’è un limite oltre il quale la malattia, la sin-drome, la lesione cerebrale non permettono di spingersi. Però,

è evidente, per loro, che “la natura vuol fare le sue ciliegie,/anche con pochi bocci”: che c’è una pienezza di umanità che solo occhi ben allenati sanno scorgere e valorizzare, proprio in questi ragazzi – là dove è più evidente, in realtà. È questo che spiega la serenità, la sensi-bilità, la pacatezza, la pazienza e la lungimiranza di tanti inse-gnanti di sostegno, che diven-tano un punto di riferimento per i loro colleghi. “Nessuno sa dove si nutron le gemme”, scri-ve Benn, “nessuno sa se mai la

corolla fiorisca”: la disabilità li interroga li porta a generare in sé risposte che ci aiutano a vive-re. Viene alla mente il filosofo Emmanuel Mounier, che scrive così alla moglie (in tempo di guerra, a proposito della figlia gravemente cerebrolesa, per la quale non sussisteva alcuna speranza del benché minimo recupero): “Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bam-bina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’im-

mensità di mistero e di amo-re che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia?” (lettera del 20 marzo 1940 alla moglie Paulette). L’in-segnante di sostegno, a vol-te inconsapevolmente, è te-stimone di questo mistero: lo vive in prima persona, che se ne renda conto o no. Da qui, anche, ciò che può darci: la nostra umanità, a volte, è così ferita dal di-sprezzo, dal rancore, dalla stanchezza, dalla sfiducia, dalla disistima, che fatica a riconoscere la dignità della vita. La sua vicinanza, chis-sà, può ricondurci al cuore della nostra stessa dignità, perché testimonia e serve la dignità non solo dei ragazzi

disabili, ma anche degli altri ra-gazzi così fragili e insicuri, delle famiglie spesso ferite o barcol-lanti. Noi insegnanti dovrem-mo sapere quanto è preziosa, sempre, l’esperienza umana nel mistero del suo futuro: la fiori-tura imprevista, che ci sembra impossibile; il tempo che pas-sa, le generazioni che si danno il cambio nei decenni.

1) Gottfried Benn, Aprèslude, a cura di Ferruccio Masini, Einaudi, Torino 1994, p. 60. 2) G. Benn, Aprèslude, p. 62.

Spesso, il docente di sostegno deve fare un

enorme lavoro su se stesso: deve sostenere

contraddizioni, difficoltà, fraintendimenti, fatiche.

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Gianni GaspariniC ontinua il nostro viaggio dentro le parole. Cerchia-mo parole per riflettere sul-

la quotidianità, per formulare me-glio problemi e confronti, per sug-gerire idee e aprire prospettive.

Mettiamo a fuoco questa volta la parola interstizio, che si rivela di una ricchezza e polivalenza sorprendente. Il termine deriva dal latino interstitium, che ha corrispondenti in tutte le lingue romanze oltre che in inglese, e al-lude a ciò che “sta fra”, in mezzo: esperienze, fenomeni, situazioni, oggetti, elementi che come si dice in inglese sono in-between e in francese entre-deux. L’interstizio evoca quindi in prima istanza una dimensione spaziale, vale a dire lo spazio che separa due corpi o due parti di uno stesso corpo: in un’ottica socio-antropologica, o di scienze umane, sono in gioco qui fenomeni legati allo sposta-mento nel territorio come il viag-gio e il passaggio. Un significato ulteriore del termine è quello che coinvolge il tempo, in particolare l’intervallo di tempo tra due fat-ti o comportamenti: la poesia di Lorca citata in esergo1 esprime con toni surrealistici l’aspirazione vitale ad un intervallo silenzioso, come una sorta di sospensione del tempo quotidiano che interrom-pa il dominio delle ore, definite “i dodici fluttuanti numeri neri” che si contrappongono al bianco del silenzio. In chiave di scienze sociali e umane, le esperienze interstiziali che si possono citare al riguardo sono, oltre al silenzio come astensione da flussi inces-

Interstizio

D E N T R O L E P A R O L E

antropologia della vita quotidiana

santi di comunicazione verbale o sonora, l’attesa e la sosta.

Ma gli interstizi si prestano a ben altre illustrazioni: essi ci par-lano anche di fenomeni che rap-presentano l’eccezione rispetto alla regola, la periferia invece del centro, le esperienze al margine o di nicchia confrontate al main-stream. In questa ottica si presta ad essere analizzato un fenomeno complesso e significativo come il dono con le sue logiche rispetto a quelle del mercato e del welfare. “Interstiziali” in questo senso si possono considerare allora non solo le esperienze di soggetti mar-ginali ma quelle che riguardano fe-nomeni che non sono considerati centrali in una data società.

Una calzante applicazione di questa marginalità-interstizialità, che prevede un rovesciamento tra centro e periferia, è offerta da

una delle cinquantacinque Città invisibili di Italo Calvino, quella di Cecilia2. Nell’incontro che qui ha luogo tra un capraio e un cittadino risulta chiaro che ciò che per il pri-mo è centrale diventa al contrario periferico (marginale, interstizia-le) per il secondo, in una specu-larità tra città e campagna che si riflette sulla nominazione delle cose. Il capraio infatti, con grande sorpresa e scandalo del cittadino, non ricorda neppure il nome di quella che è definita dal suo inter-

Mi sono sedutoin un interstizio del tempo.Era un ristagnodi silenzio, di un bianco silenzio,anello formidabiledove gli astri cozzavanocon i dodici fluttuantinumeri neri.(Federico García Lorca)

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locutore l’illustre città di Cecilia, mentre conosce perfettamente e nomina quei luoghi di verde e di pascolo posti nei margini urbani che agli occhi del cittadino sono indistinguibili, non hanno impor-tanza e non posseggono un nome specifico. Il capraio, che si dichia-ra ignorante davanti al cittadino, in realtà ha il merito di insegnargli il valore dei margini e degli inter-stizi, nel momento stesso in cui lo invita a rivedere le proprie cate-gorie consolidate e gli impartisce una lezione di umiltà, dalla quale la centralità della città esce ridi-mensionata.

E, ancora, gli interstizi ci apro-no spiragli e finestre nei riguardi di tutta una serie di mondi o universi

a parte che sono in realtà sempre più intrecciati e compresenti con il mondo cosiddetto normale e della vita chiamata seria. Penso al giocare, al sognare e fantasticare, al ridere e all’umorismo, al rac-contare e allo scrivere, al teatro, al fare esperienze d’arte. Si trat-ta di “universi paralleli” che pur avendo un proprio senso specifico restano marginali-interstiziali nel quadro delle esperienze di vita de-gli interessati, a meno che questi ultimi ne abbiano fatto un interes-se professionale o lavorativo cen-trale, come nel caso dell’attore, dello scrittore, dell’artista.

Se mi è consentito citare la mia personale esperienza di ricerca-tore nelle scienze sociali, vorrei dire che da vent’anni non smet-to di stupirmi della ricchezza di campi, aree e prospettive che la parola in questione – interstizio, interstizi – apre, quando lo si ap-plichi alla quotidianità: si tratta di un termine che può diventare un vero e proprio concetto, uno strumento analitico da usare nel-le analisi di sociologia e antropo-logia culturale. Ricapitolando, credo si possa parlare di tre livelli di interstizi. Anzitutto, si posso-no scoprire “interstizi della vita quotidiana” in fenomeni che sono tipicamente intermedi tra altri, come si è accennato: tra questi l’aspettare, il sostare, il viaggiare nelle sue componenti di parten-

za-transito-arrivo, il camminare, il telefonare (oggi specialmente con il cellulare-smartphone, che amplia enormemente le funzioni della comunicazione telefonica orale), il corrispondere anche via e-mail, l’anticipare e il progetta-re, il tacere. In secondo luogo, vi sono fenomeni che richiamano l’interstizialità come marginalità: si è appena citato il donare nelle sue molteplici forme, ma anche il sorprendere/lasciarsi sorpren-dere, lo sbagliare, il trasgredire, il vivere da soggetti marginali nelle nostre società. In terzo luogo, poi, vi è tutta una gamma di mondi o universi paralleli che possono essere analizzati e studiati: oltre a quelli richiamati (gioco, sogno, umorismo, scrittura, teatro, arte), vanno ricordati anche la menzo-gna, il mondo infantile con il suo linguaggio e le sue credenze, il “vi-vere in altri mondi” (dalla realtà virtuale alla follia e alle allucina-zioni), il pregare come gesto mar-ginale che stabilisce collegamenti tra l’esperienza umana e l’Altro3.

L’interesse del termine intersti-zio, specialmente quando si rie-sce a usarlo come uno strumento concettuale nelle scienze sociali, è quello di fornire un supplemento di senso all’esplorazione dei feno-meni. Questo avviene soprattut-to nel senso di cogliere significati nuovi della realtà che sono in fieri, che stanno nascendo cioè in certe situazioni sociali e umane, dal bas-so: spesso questi processi hanno a che vedere con l’affermazione del valore della qualità della vita, che sta conquistando un crescente consenso nelle nostre società.

Lo schema offerto dagli in-terstizi della vita quotidiana può persino gettare nuova luce su un racconto, come ad esempio un classico qual è il Piccolo principe. Se rileggiamo il punto centrale del capolavoro di Saint-Exupéry – un classico non solo per il pubblico giovanile ma per tutti –, ci accor-

Interstizio

DENTRO LE PAROLE

L’interesse del termine interstizio, specialmente quando si riesce a usarlo

come uno strumento concettuale nelle scienze sociali, è quello di fornire un supplemento di senso

all’esplorazione dei fenomeni.

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giamo che nell’incontro che viene descritto nel cap. XXI tra il pro-tagonista e la volpe, che è a tutti gli effetti il maestro del Piccolo principe, vengono in evidenza una serie di fenomeni interstiziali senza dei quali l’incontro stesso non avrebbe potuto svolgersi.

Si tratta del viaggio, elemento di sfondo della narrazione: un viaggio da un minuscolo asteroide alla terra, esperienza di attraver-samento degli spazi siderali alla ricerca degli uomini e dell’ami-cizia, ma anche viaggio iniziatico che il protagonista intraprende per conseguire la saggezza. L’at-tesa è il secondo, essenziale ingre-diente interstiziale dell’incontro tra il Piccolo principe e la volpe; è l’attesa trepidante di chi aspetta col batticuore che arrivi l’ora di un appuntamento amoroso, come fa capire la volpe: “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e a inquietarmi…”. Il silenzio, già accennato come interstizio della vita quotidiana nei nostri sistemi governati da flussi incessanti di co-municazione, è un terzo elemento cruciale dell’incontro: esso viene esplicitamente evocato dalla vol-pe come mezzo per “l’addome-sticamento” reciproco, ciò che richiede pazienza e gradualità: “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono fonte di malintesi”. Completano la scena, o meglio una sua lettura in chiave di interstizi, la sorpresa e il dono: la prima, pur non es-sendo esplicitamente nominata, è presente nella prefigurazione e nell’attesa dell’incontro, la cui realizzazione costituirà una lieta sorpresa rinnovata ad ogni nuo-vo incontro; il secondo, il dono, è rappresentato anzitutto dall’ad-domesticarsi reciproco tra i due

interlocutori che richiede anzi-tutto l’offerta del proprio tempo. E c’è il dono ultimo, quello che la volpe non svela subito al suo interlocutore: “Quando ritorne-rai a dirmi addio, ti regalerò un segreto”. Si tratta del segreto che l’essenziale è invisibile agli occhi: qui è racchiuso un valore trascura-to dagli uomini che il Piccolo prin-cipe non dovrà più dimenticare.

Un ulteriore motivo di inte-resse che si aggiunge a quanto già detto è rappresentato da una certa affinità tra gli interstizi e le “pic-cole cose”, quella realtà dimessa della vita quotidiana che allude ai grandi valori. Simone Weil, in un frammento folgorante dei suoi Quaderni, ce ne parla quando ci invita a

Considerare sempre le piccole cose come una prefigurazione delle grandi; si evita così sia la negligenza sia la pignoleria.4

L’occuparsi delle piccole cose è considerato dalla filosofa francese come “la virtù dei bravi operai”, quella che spesso ci fa difetto. C’è dunque un legame tra piccolo e grande che è analogo a quello che possiamo osservare quando ci im-battiamo nelle esperienze inter-stiziali: apparentemente banali e poco significative, in realtà allusi-ve a valori di fondo, come quelli della libertà di espressione, della qualità della vita, dell’innovazione nell’interpretazione e nella pratica della vita sociale, della nascita di nuovi movimenti. Chi ha atten-zione agli interstizi assomiglia all’uomo metorios di cui parlava con ammirazione molti secoli fa

il filosofo Filone di Alessandria: si tratta di colui che stando sul cri-nale, in bilico tra opposti versan-ti, riesce ad avere una particolare acuità visiva.

E per concludere c’è un altro aspetto, un’apertura molto signi-ficativa a cui ci invita l’attenzione agli interstizi: si tratta della distan-za che nelle dinamiche interper-sonali intime intercorre tra due persone, come un vuoto o un dia-framma necessario tra due pieni affinché possa esercitarsi la libertà e la discrezionalità reciproca del-la relazione profonda. Lo esprime magistralmente il poeta libanese Khalil Gibran nel Profeta, quando afferma che l’amore degli sposi e degli amanti non deve essere fu-sionale ma tale da comportare un elemento di distanziazione, e cioè un interstizio:

Vi sia tra le rive delle vostre ani-me un moto di mare. Riempitevi a vicenda le coppe, ma non bevete da una coppa sola. … Cantate e dan-zate insieme e siate giocondi, ma ognuno di voi sia solo,

Come sole sono le corde del liu-to, sebbene vibrino di una musica uguale.5

L’interstizio assurge qui, si-gnificativamente, a fattore deci-sivo nell’esercizio della libertà di espressione legata ai sentimenti più profondi di ogni persona.

Era un ristagnodi silenzio, di un bianco silenzio,anello formidabiledove gli astri cozzavanocon i dodici fluttuantinumeri neri.(Federico García Lorca)

1) Tratta dalla suite “La selva degli orologi”, Poesie, Rizzoli, 1994, vol. II. 2) Italo Calvino, Città invisibili, Einaudi, 1972. 3) Rinvio specialmente a PLINT – Il Piccolo Libro degli Interstizi (Ed. Riuniti, 2005) e a Interstizi e universi paralleli (Apogeo, 2007). 4) Simone Weil, Quaderni, Adelphi, 1982, I, p. 377. 5) Kahlil Gibran, Il profeta, Guanda, 1976, p. 15.

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J osé Tolentino Mendonça, nato a Madeira (1965), vice rettore dell’università catto-

lica di Lisbona e consultore del Pontificio Consiglio della Cul-tura, è voce autorevole della letteratura portoghese ed eu-ropea. Tra il 2015/2016 Men-donça ha tenuto su Avveni-re la rubrica Chiamate in atte-sa, pagine poi raccolte dall’edi-trice Vita e Pensiero (ottobre 2016) in un libro che mantie-ne lo stesso titolo. Nell’intro-duzione l’autore chiarisce che le chiamate in attesa non so-no altro che le domande che nascono dall’ascolto interiore, dallo stupore davanti al grande enigma che ogni essere uma-no è per se stesso, dal silenzio in cui siamo immersi davanti all’evidenza del mistero; quan-do si fanno tacere le pre-occu-pazioni che ci dominano e si al-lontanano le paure. Il segreto è disporsi alla domanda, atto creativo più di quanto non sia la risposta: allora sentiamo che il cammino si apre e il viaggio non è finito perché “là dove ri-teniamo che stia la fine, il movi-mento della vita invece inizia”.

Quali domande? Le più anti-che del mondo, quelle che l’uo-mo si è sempre posto: Perché esisto, perché c’è il tempo, perché il giorno e la notte, l’amore, …il pianto e il riso, ...il viaggio? È l’insopprimibile bisogno di As-soluto, “Quel che resta di Dio” che si fa presente anche nel “pa-esaggio della modernità” contro ogni velleità di espungere l’ane-lito religioso dalla vita personale.

Le domande più che le risposte

T R E N T A R I G H E

Il libro contiene 45 riflessio-ni, ciascuna in meno di tre pa-ginette e tre sezioni che hanno titoli-guida: “Tornare a Casa non è facile”, “Mi chiedo, cosa ci salva?”, “Maestri dell’inaspetta-to”. Tutti gli spunti si leggono e si rileggono con facilità, anche separatamente, per la brevità del singolo “pezzo” e l’incisività della scrittura nella traduzione di Pier Maria Mazzola.

Nella terza parte, più letteraria, l’au-tore evoca donne e uomini di pensiero, figure emblemati-che della letteratu-ra, maestri e testi-moni. Mendonça confessa di avere simpatia in lette-ratura soprattutto per i “ribelli”, quelli che non si fermano a ciò che vedono ma spingono oltre le domande; i dissidenti come Pasolini: un credente, afferma senza esita-zione il teologo portoghese che predilige gli spiriti inquieti e in ricerca. È il caso del portoghese premio Nobel per la letteratura José Saramago.

Il teologo poeta, ben sapendo come lo stesso Saramago si pro-fessasse ateo, non si ferma alle etichette (credente/non creden-te), ma va in cerca delle tracce di una “spiritualità clandestina”, che alcuni studiosi attribuisco-no allo scrittore lusitano, la cui opera dissacrante non ha man-cato di suscitare reazioni di parte

cattolica. Scrive Mendonça: “La critica dello scrittore, in effetti, si esercita contro le rappresentazio-ni di Dio, contro le sue immagini ideologiche e storiche, più che sul Dio trascendente e irrappre-sentabile”. Così siamo condotti ad apprezzare in Saramago “un esercizio, ancorché abrasivo ed estremo di purificazione del lin-

guaggio religioso”.Con l’apertu-

ra mentale che gli viene dall’essere sempre stato un in-saziabile lettore di libri, e dunque del mondo, Tolentino varca la soglia del-le definizioni pre-concette e include dentro l’orizzonte salvifico le visioni antropologiche e le conseguenti rap-presentazioni let-terarie e artistiche

che si aprono all’ umano e al suo mistero. Rivisitati e messi sotto nuova luce altri grandi autori in odore di ateismo o di indifferen-za religiosa: Baudelaire, Pessoa, Cioran… Per finire con il musi-cista rock Bruce Springsteen e i protagonisti delle sue canzoni che: “declamano le loro (le no-stre) minuscole storie d’amore come monumentali epopee di grazia e redenzione”.

Figlio di pescatori, poeta tra oceano (atlantico) e cielo, Men-donça usa la parola per dare senso e unità. Perché la parola è divina, in-principio.

Leonarda Tola

José Tolentino MendonçaChiamate in attesa

Vita e Pensiero

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A bbiamo dimenticato che le stagioni si co-niugano come un verbo, e che per questo la primavera non è unicamente un fenome-

no esteriore, un sostantivo che anno dopo anno descrive la natura attorno a noi, ma è una realtà che io posso dire di me: «Io primavero», «Io (ri)comincio a primaverare». Per un verso, la prima-vera fa di noi i testimoni della rivitalizzazione del mondo. Dal filo d’erba alla vegetazione più ma-estosa, tutto passa attraverso un incredibile pro-cesso di ringiovanimento. La vita appare come tutto un germogliare, un contagio inarrestabile balzo in avanti. Il suo spettacolo aperto e solare ci riempie gli occhi. Per un altro verso, però, il nostro guardare non basta. Noi siamo testimoni ma anche protagonisti. Alla stregua degli alberi che troviamo lungo le strade o dei fiori selvatici che punteggiano qualsiasi scampolo di terreno, siamo pure noi chiamati a primaverare.

Uno dei modi di coniugare la primavera è la scoperta che ognuno di noi va facendo, a tempo e a fuori tempo, dell’alleanza tra l’esistenza e l’in-compiuto. Quando, d’un tratto, avevamo tutto per pensarci completi, finiti o realizzati, scopriamo che la vita è ciò che è aperto. La vera sapienza, quella che ci fa raggiungere il cuore della vita, è la sapienza degli inizi, del verde tenero, del pri-maverile, dell’incessante. Ha davvero ragione la massima di Lao-zi «Quando nasce, l’uomo è tene-ro e debole, quando muore, è duro e rigido. […] Perché ciò che è duro e rigido è servo della morte; ciò che è tenero e debole, è servo della vita». Il nostro giudizio finale e senza appello (con le idea-lizzazioni che vi proiettiamo sopra) è ingannevole, perché la ita è vita, in perpetua fioritura, è un’infi-nita successione di cominciamenti. Dal momento in cui nasciamo, siamo non solo pronti a morire ma soprattutto preparati a nascere, e tutte le volte che sarà necessario. Primaverare è perseverare in un atteggiamento di ospitalità nei confronti della vita. Accanto al previsto irrompe l’imprevedibile, che dobbiamo imparare ad accogliere. Mescolato a quel che scegliamo ci sopravviene ciò che non scegliamo e che dobbiamo comunque vivere, tra-sformandolo in opportunità e sfida per la fiducia. La primavera non ha un tracciato predeterminato: deborda sempre, e dobbiamo esservi preparati. Non si limita a rallegrare le aiuole ordinate a punti-

no. La sua inedita fioritura ci impone l’andamento del torrente, al di là della vita che noi credevamo addomesticata dai nostri calcoli. Poveri noi: cre-diamo di riuscire a dominare completamente il mondo con i nostri cinque sensi! Ce ne servireb-bero, in realtà, cinquemila per comprendere un solo frammento di quel che siamo.

Da quanto tempo non camminiamo più fi-schiettando, o con un filo d’erba tra le labbra, e basta, senza fretta né pretese, semplicemente credendo nel valore di essere e che questo ci dà la possibilità di stare, di vagare, di misurare il mo-mento soltanto con il peso e la leggerezza della marcia stessa? Quando ci rechiamo da un luogo a un altro, normalmente siamo vincolati ai motivi che giustificano quello spostamento. Ma – rico-nosciamolo – viaggi di questo tipo sono troppo corti. Primaverare non è questo.

C’è un altro viaggio, che inizia solo quando le domande su cosa ci stiamo a fare lì smettono di interessare. Stiamo, punto e basta. Siamo venuti. La definizione non viene dal sapere o dall’utilità, ma dall’essere stesso, dall’espressione profonda di sé. La sapienza di quelli che primaverano non consiste, perciò, in una conoscenza previa, ma in qualcosa che si scopre nell’abitare il cammino stesso.

Voce del verbo ‘primaverare’

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