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NOTIZIE ESTRATTO da ARCHIVIO STORICO ITALIANO 2020/1 ~ a. 178 n. 663

ESTRATTO...Silvia Diacciati, L’immagine di Dante nel Palazzo del Bargello Pag. 3 Francesco Borghero, Il capitolo della cattedrale di Firenze pri-ma della Peste Nera (dalle imbreviature

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  • NOTIZIE

    ESTRATTOda

    ARCHIVIO STORICO ITALIANO2020/1 ~ a. 178 n. 663

  • ISSN 0391-7770

    FONDATO DA G. P. VIEUSSEUXE PUBBLICATO DALLA

    DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA TOSCANA

    ARCHIVIOSTORICO ITALIANO

    663 Anno CLXXVIII

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    p. I

    Anno CLXXVIII

    Fasc.663

    ISSN 0391-7770

    FONDATO DA G. P. VIEUSSEUXE PUBBLICATO DALLA

    DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA TOSCANA

    ARCHIVIOSTORICO ITALIANO

    663 Anno CLXXVIII

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    Fasc.663

    ISSN 0391-7770

    FONDATO DA G. P. VIEUSSEUXE PUBBLICATO DALLA

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    ARCHIVIOSTORICO ITALIANO

    663 Anno CLXXVIII

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    Anno CLXXVIII

    Fasc.663

  • Amministrazione Casa Editrice Leo S. Olschki

    Casella postale 66, 50123 Firenze • Viuzzo del Pozzetto 8, 50126 Firenze e-mail: [email protected] • Conto corrente postale 12.707.501

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    2020: Abbonamento annuale - AnnuAl subscriptionPrivati

    Italia € 105,00 (carta e on-line only)

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    ARCHIVIO STORICO ITALIANODirettore : Giuliano Pinto

    Vicedirettori :Renato Pasta, seRGio toGnetti

    Comitato di Redazione :MaRio ascheRi, Duccio BalestRacci, Gianluca Belli, Fulvio conti,

    Daniele eDiGati, enRico Faini, antonella GhiGnoli, Rita Mazzei, MauRo MoRetti, RoBeRto PeRtici, MauRo Ronzani, Renzo saBBatini, loRenzo tanzini, Diana toccaFonDi, clauDia tRiPoDi, anDRea zoRzi

    Segreteria di Redazione :chRistian satto, veRonica vestRi

    Comitato scientifico :MaRia asenjo Gonzalez, Maxine BeRG, jean BoutieR, RinalDo coMBa,

    elisaBeth cRouzet-Pavan, Fulvio Delle Donne, RichaRD a. GolDthwaite, chRistiane KlaPisch-zuBeR, thoMas KRoll, jean-clauDe MaiRe viGueuR,

    halina ManiKowsKa, Rosalia Manno, luca MannoRi, siMonetta solDani, thoMas szaBó

    Direzione e Redazione: Deputazione di Storia Patria per la ToscanaVia dei Ginori n. 7, 50123 Firenze, tel. 055 213251

    www.deputazionetoscana.it

    I N D I C E

    Anno CLXXVIII (2020) N. 663 - Disp. I (gennaio-marzo)

    segue nella 3a pagina di copertina

    MemorieSilvia Diacciati, L’immagine di Dante nel Palazzo del Bargello Pag. 3Francesco Borghero, Il capitolo della cattedrale di Firenze pri-

    ma della Peste Nera (dalle imbreviature di ser Bonaccorso di Gerino del Cacciato, 1340-1346) . . . . . . . . . » 25

    Barbara Gelli, «Non bastando la morte dei morti, volsero vede-re che i vivi vivessero morendo». La congiura senese del 1456 tra immaginario politico e consenso popolare . . . . . » 85

    Roberto Pertici, Nazione e Stato nazionale nel pensiero di Ro-sario Romeo . . . . . . . . . . . . . . . » 109

    DocumentiMatteo Al Kalak, Generazioni riformatrici. Considerazioni a

    margine di un carteggio di L.A. Muratori . . . . . . » 137

    DiscussioniRemo L. Guidi, Gomes Eanes ovvero un fiorentino del Porto-

    gallo . . . . . . . . . . . . . . . . . » 157

    RecensioniIstván Zimonyi, Muslim Sources on the Magyars in the Second

    Half of the 9th Century. The Magyar Chapter of the Jayhānī Tradition (Lorenzo Pubblici) . . . . . . . . . Pag. 179

    Enrico Pisano, Liber Maiorichinus de gestis Pisanorum illu-stribus, introduzione e testo critico di Giuseppe Sca-lia, commento di Alberto Bartola, traduzione di Marco Guardo (Duccio Balestracci) . . . . . . . . . » 181

    Ennio Igor Mineo, Popolo e bene comune in Italia tra XIII e XIV secolo (Daniele Bortoluzzi) . . . . . . . . » 185

    Gabriella Albanese – Bruno Figliuolo – Paolo Pontari, Giovanni Villani, Dante e un antichissimo codice fiorentino della Commedia (Antonella Astorri) . . . . . . » 188

    Elena Maccioni, Il Consolato del mare di Barcellona. Tribunale e corporazione di mercanti (1394-1462) (Raúl González Arévalo) . . . . . . . . . . . . . . . . » 191

    Alessandro Nasi, Legazione alla corte di Giulio II 13 novembre 1505 - 19 giugno 1506, a cura di Emanuele Cutinelli-Ren-dina e Denis Fachard (Lorenz Böninger) . . . . . » 194

    Gigliola Fragnito, Rinascimento perduto. La letteratura ita-liana sotto gli occhi dei censori (secoli XV-XVII) (Elena Bonora) . . . . . . . . . . . . . . . . » 196

    Tamara Colacicco, La propaganda fascista nelle università in-glesi. La diplomazia culturale di Mussolini in Gran Bretagna (Francesca Puliga) . . . . . . . . . . . . » 200

    Notizie . . . . . . . . . . . . . . . . . » 203

    Summaries . . . . . . . . . . . . . . . . » 227

    Amministrazione Casa Editrice Leo S. Olschki

    Casella postale 66, 50123 Firenze • Viuzzo del Pozzetto 8, 50126 Firenze e-mail: [email protected] • Conto corrente postale 12.707.501

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    Daniele eDiGati, enRico Faini, antonella GhiGnoli, Rita Mazzei, MauRo MoRetti, RoBeRto PeRtici, MauRo Ronzani, Renzo saBBatini, loRenzo tanzini, Diana toccaFonDi, clauDia tRiPoDi, anDRea zoRzi

    Segreteria di Redazione :chRistian satto, veRonica vestRi

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    I N D I C E

    Anno CLXXVIII (2020) N. 663 - Disp. I (gennaio-marzo)

    segue nella 3a pagina di copertina

    MemorieSilvia Diacciati, L’immagine di Dante nel Palazzo del Bargello Pag. 3Francesco Borghero, Il capitolo della cattedrale di Firenze pri-

    ma della Peste Nera (dalle imbreviature di ser Bonaccorso di Gerino del Cacciato, 1340-1346) . . . . . . . . . » 25

    Barbara Gelli, «Non bastando la morte dei morti, volsero vede-re che i vivi vivessero morendo». La congiura senese del 1456 tra immaginario politico e consenso popolare . . . . . » 85

    Roberto Pertici, Nazione e Stato nazionale nel pensiero di Ro-sario Romeo . . . . . . . . . . . . . . . » 109

    DocumentiMatteo Al Kalak, Generazioni riformatrici. Considerazioni a

    margine di un carteggio di L.A. Muratori . . . . . . » 137

    DiscussioniRemo L. Guidi, Gomes Eanes ovvero un fiorentino del Porto-

    gallo . . . . . . . . . . . . . . . . . » 157

    RecensioniIstván Zimonyi, Muslim Sources on the Magyars in the Second

    Half of the 9th Century. The Magyar Chapter of the Jayhānī Tradition (Lorenzo Pubblici) . . . . . . . . . Pag. 179

    Enrico Pisano, Liber Maiorichinus de gestis Pisanorum illu-stribus, introduzione e testo critico di Giuseppe Sca-lia, commento di Alberto Bartola, traduzione di Marco Guardo (Duccio Balestracci) . . . . . . . . . » 181

    Ennio Igor Mineo, Popolo e bene comune in Italia tra XIII e XIV secolo (Daniele Bortoluzzi) . . . . . . . . » 185

    Gabriella Albanese – Bruno Figliuolo – Paolo Pontari, Giovanni Villani, Dante e un antichissimo codice fiorentino della Commedia (Antonella Astorri) . . . . . . » 188

    Elena Maccioni, Il Consolato del mare di Barcellona. Tribunale e corporazione di mercanti (1394-1462) (Raúl González Arévalo) . . . . . . . . . . . . . . . . » 191

    Alessandro Nasi, Legazione alla corte di Giulio II 13 novembre 1505 - 19 giugno 1506, a cura di Emanuele Cutinelli-Ren-dina e Denis Fachard (Lorenz Böninger) . . . . . » 194

    Gigliola Fragnito, Rinascimento perduto. La letteratura ita-liana sotto gli occhi dei censori (secoli XV-XVII) (Elena Bonora) . . . . . . . . . . . . . . . . » 196

    Tamara Colacicco, La propaganda fascista nelle università in-glesi. La diplomazia culturale di Mussolini in Gran Bretagna (Francesca Puliga) . . . . . . . . . . . . » 200

    Notizie . . . . . . . . . . . . . . . . . » 203

    Summaries . . . . . . . . . . . . . . . . » 227

  • FONDATO DA G. P. VIEUSSEUXE PUBBLICATO DALLA

    DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA TOSCANA

    ARCHIVIOSTORICO ITALIANO

    663 Anno CLXXVIII

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    DISP. I

    L E O S . O L S C H K I E D I T O R EF I R E N Z E

    2020

  • La rivista adotta per tutti i saggi ricevuti un sistema di Peer review. La redazione valuta preliminarmente la coerenza del saggio con l’impianto e la tradizione della rivista. I contributi che rispondono a tale criterio vengono quindi inviati in forma anonima a due studiosi, parimenti anonimi, esperti della materia. In caso di valu-tazione positiva la pubblicazione del saggio è comunque vincolata alla correzione del testo sulla base delle raccomandazioni dei referee.Oltre che nei principali cataloghi e bibliografie nazionali, la rivista è presente in ISI Web of Knowledge (Art and Humanities Citations Index); Current Contents, Scopus Bibliographie Database, ERIH, Jstor. La rivista è stata collocata dall’Anvur in fascia A ai fini della V.Q.R. e dell’Abilitazione nazionale, Aree 8 e 11.

  • Gian Maria Varanini, Verona, Spoleto, Centro Italiano di studi sull’Alto Me-dioevo, 2019 («Il medioevo nelle città italiane», 16), pp. viii-300. – Nell’ambito dell’ormai ricca collana di monografie urbane del CISAM il caso di Verona porta alcune peculiarità, legate alla vicenda della città e a ciò che la sua storia politica ha rappresentato per lo stesso schema generale della storia italiana. Non a caso l’autore sceglie qui, nella suddivisione standard tra ‘Profilo generale’, ‘Fonti scrit-te’ e ‘Il paesaggio urbano e le opere d’arte’, di privilegiare soprattutto la prima parte, dando luogo ad una lettura globale della storia veronese che va ben al di là di un inquadramento generale, e anzi suggerisce alcune chiavi di lettura di grande interesse.

    Tra queste vi è sicuramente la tradizione di continuità dei poteri pubblici, che vedono in Verona una sede privilegiata dal periodo ostrogoto e longobardo a quello degli imperatori germanici, attraverso le attribuzioni di un episcopato a forte gravitazione ‘imperiale’, fino alla stagione tardomedievale, che non per nulla avrebbe reimpiegato gli elementi del passato più antico, ad esempio nei ritratti dei sovrani della trecentesca fontana di piazza. Non era comunque una continuità solo di facciata, se è vero che gli studi di archeologia urbana altome-dievale (a Verona cospicui e fruttuosi forse come in pochi altri centri della peni-sola) hanno mostrato una evoluzione dal V e X sotto il segno di una sostanziale ‘tenuta’ del tessuto cittadino. Una storia del genere era alla base di una ulteriore peculiarità, cioè il legame mai reciso della città con il ‘suo’ territorio, per cui al cambiamento del significato stesso della territorialità del potere tra Alto medioe-vo e XI secolo le istituzioni cittadine trovarono uno spazio di espansione ‘aperto’ e relativamente vuoto di signorie territoriali laiche importanti, tale da consentire una ‘conquista del contado’ della quale il caso veronese è in effetti paradigmati-co. Restando sul periodo comunale, le vicende politiche della città nel XII secolo sono sostenute da una robusta espansione urbanistica, che giustifica la costru-zione di ben due nuove cinte murarie o sistemi di difesa con fossati nell’arco di meno di un secolo fino al 1230 circa. Una intensa trasformazione del tessuto urbano, ben fotografata dalla lista dei cives delle 58 contrade urbane del 1254, che tuttavia non sembra aver avuto una direzione progettuale esplicita da parte delle istituzioni cittadine. Sebbene la prospettiva sia probabilmente condizionata dal naufragio quasi totale della documentazione pubblica fino al tardo XIV secolo, sul quale si sofferma a lungo la parte seconda del volume, Verona sembra non conoscere quella spiccata progettualità urbanistica pubblica propria dei regimi di popolo di altri centri, anche meno rilevanti. In effetti tutta la dimensione ideolo-gica del comune ci sfugge o è per sua natura poco vistosa, e questo ha forse qual-cosa a che fare con l’emersione di una signoria precoce e molto solida, in con-

    NOTIZIE

  • 204 Notizie

    tinuità tanto con l’emersione dei ceti popolari, di cui in definitiva accompagnò l’evoluzione in un dinamico e variegato ceto di governo, quanto con la rete delle istituzioni religiose ed ecclesiastiche, che furono totalmente fagocitate dalle reti di potere scaligere, sul piano patrimoniale oltre che del linguaggio d’immagine.

    Questa singolare dialettica tra una cultura politica municipale poco vistosa nelle sue affermazioni (significativa anche la relativa debolezza della cronachisti-ca cittadina, specie se a confronto con il caso padovano) e la costruzione di un potere comunale molto saldo anche sul territorio, si traduce nella prosperità tar-domedievale, e non a caso è proprio nell’età più matura della signoria scaligera o nel periodo di soggezione veneziana che la ricchezza materiale di Verona trova il suo apice, avviando la città ad un ruolo se non di primato certo di grandissimo ri-lievo nel panorama delle città del Norditalia del Quattrocento. L’autore del volu-me, del resto, è uno degli storici che maggiormente hanno spostato l’attenzione della ricerca dall’età comunale a quella degli stati territoriali, quando un centro come Verona, lungi da perdere i punti di forza della sua identità municipale, tro-vava anzi contesti per molti versi favorevoli e adeguati ai suoi caratteri originali.

    Lorenzo Tanzini

    Nathan Leidholm, Elite bizantine kinship, ca. 950-1204. Blood, reputation, and the Genos, Leeds, ARC Humanities Press, 2019, pp. 186. – Nel periodo compreso tra la fine della dinastia ‘macedone’ e l’inizio di quella dei Comneni, l’aristocrazia dell’impero romano d’Oriente, in stretta connessione con i cambiamenti perce-pibili a livello istituzionale, fiscale e socio-economico, conosce trasformazioni molto importanti. La gestione del potere e di tutti gli incarichi pubblici di rilievo diviene, nella Costantinopoli delle prime crociate, un affare interno alla dinastia regnante e ai pochi lignaggi ad essa connessi da legami di parentela e di affinità. A tutto ciò si aggiungono il venir meno del sistema ‘tematico’ collegato a una dif-fusa piccola proprietà fondiaria ora in via di dissolvimento, la trasformazione dei coltivatori diretti in concessionari parzialmente privi di alcune libertà personali, il reclutamento degli eserciti su base esclusivamente mercenaria, la diffusione della ‘pronoia’ (una delega fiscale e amministrativa concessa ai grandi possidenti in cambio di servigi di carattere militare), la mortificazione del ceto mercantile anche in seguito alle enorme concessioni fatte agli ‘alleati’ veneziani. Si afferma dunque tra XI e XII secolo una sorta di aristocrazia del sangue, quindi una nobiltà vera e propria, che pretende, con successo, di controllare tutte le leve del potere politico ed economico. Questi fenomeni, che fecero a suo tempo parlare di una occidentalizzazione e feudalizzazione del mondo bizantino basso medievale, è talmente noto da occupare un suo spazio anche nella manualistica universitaria sin dal tempo di Ostrogorsky.

    Il volume di Leidholm parte da queste premesse per analizzare nel dettaglio alcuni aspetti specifici. Per una risaputa carenza di documentazione amministra-tiva, la ricerca è svolta quasi essenzialmente su fonti di carattere storico-lettera-rio, professionale (testi di medicina ad esempio), normativo e religioso: è questo un elemento che purtroppo indebolisce la possibilità di analizzare le ricchezze

  • 205Notizie

    mobiliari e immobiliari delle aristocrazie, la concreta gestione dei loro patrimo-ni, le pratiche testamentarie e matrimoniali, ecc. e dunque mette a dura prova i pur lodevoli tentativi dell’autore di operare un confronto tra i lignaggi nobiliari bizantini e quelli dell’Europa occidentale, dove invece sono proprio gli ‘archivi familiari’ (arrivati sino a noi grazie alla mediazione di enti ecclesiastici) ad eserci-tare una funzione determinante nella ricerca.

    Nel primo capitolo si indaga la struttura tipica della famiglia bizantina, così come è rappresentata nelle fonti coeve e poi descritta dalla moderna storiografia. Nel secondo, l’oggetto di studio è il lessico generalmente associato al concetto di parentela. Nel terzo, si analizzano gli impedimenti al matrimonio tra consangui-nei alla luce della letteratura religiosa e della legislazione imperiale. Nel quarto, il concetto di consanguineità è sviscerato anche alla luce della letteratura medica tardo antica e medievale. Nel quinto, è il turno della diffusione dei cognomi e della pubblica fama dei lignaggi. Solo nel sesto e ultimo capitolo, le evoluzioni dei grandi lignaggi trovano una sostanziale collocazione (e finalmente una spie-gazione!) nelle vicende politiche, militari e istituzionali dell’impero.

    Come forse si evince da queste brevi note, si tratta in sostanza di un libro impostato ‘alla rovescia’. Eviscerare tutti i possibili particolari aspetti di un ma-cro fenomeno, la cui più chiara esplicitazione è relegata nell’ultima sezione del volume, esalta indubbiamente i procedimenti analitici, l’erudizione e le notevoli capacità esegetiche dello studioso. Al tempo stesso, però, un procedimento di questo tipo, oltre ad escludere dalla lettura tutti i non esperti in materia, de-nota una discutibile base epistemologica: il problema storiografico, infatti, ri-sulta chiaramente meno importante dei metodi e degli strumenti adottati per l’indagine.

    Sergio Tognetti

    Universitäre Gelehrtenkultur vom 13.-16. Jahrhundert. Ein interdisziplinares Quellen- und Methodenhandbuch, hrsg. Jan-Hendryk de Boer, Marian Fűssel, Ma-ximilian Schuh, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 2018, pp. 590. – Il volume che qui presentiamo è una ponderosa opera sulla storia della cultura universitaria europea tra Medioevo e Rinascimento, resa possibile dal patrocinio della Deut-sche Forschungsgemeinschaft. I curatori ricordano nell’introduzione le vicende preparatorie di questo ‘manuale’, lunghe come sempre, e i criteri elaborati nel corso degli incontri con i collaboratori, che hanno consentito di giungere ad una strutturazione molto razionale degli abbondanti materiali studiati per i singoli contributi – come si può immaginare di grande (e doverosa) sintesi.

    Il manuale non tratta che incidenter tantum il tema delle origini, ma le pre-messe da Parigi a Bologna (non aver trovato Palencia conferma la vastità del campo d’indagine) sono naturalmente ben presenti ai curatori delle singole se-zioni, concentrate quindi sull’ampio fenomeno delle università – come la Chiesa, l’istituzione ‘europea’ per definizione – ormai con un profilo istituzionale rico-noscibile. Il giusto criterio seguito è stato di consentire un approccio sistematico a una fenomenologia ricca e fluttuante nel corso del tempo. Il manuale si apre perciò con la sezione dedicata alla ampia ‘Amministrazione’ in senso lato, perché

  • 206 Notizie

    i temi da affrontare erano tanti. Si succedono perciò l’esame degli atti dei rettori, senati e facoltà, con immediata successiva precisazione dedicata alla corrispon-denza dotta nei suoi rapporti con l’ars dictandi, gli indici di libri conservati o di cui è pervenuta notizia, i consilia, i problemi patrrimonial-finanziari, le matricole, i libri delle ‘nazioni’, i privilegi, i ‘rotuli’ e le suppliche, per chiudere con le forme ormai elaborate di organizzazione conferite dagli statuti.

    La seconda sezione è più consistente (pp. 177-386), perché dedicata all’inse-gnamento e all’apprendimento, che ha un saggio unitario di base molto ampio (pp. 177-219), che introduce al panorama complessivo dei problemi posti dai vari settori di insegnamento, anche con ripresa dell’importanza degli istituti prima esaminati nel contesto didattico, e non trascurando discorsi ufficiali e prediche. I materiali didattici vedono in primo luogo privilegiate le disputationes con la forma della quaestio fondamentale per il metodo dialettico in via di progressivo affinamento. Seguono i testi elaborati per le lezioni, di nuovo sottoposti a una rapida evoluzione e standardizzazione grazie al sistema delle peciae. E infatti ai commentaria viene poi riservato uno spazio apposito, avendo essi con l’esperienza selezionato i testi di lunga durata, fondamentali per delineare la cultura univer-sitaria generalmente condivisa: solo i testi teologici, per i loro delicati problemi specifici, hanno avuto una trattazione a parte. Come l’hanno avuta i testi più generali, di introduzione alla pedagogia anche per singoli settori disciplinari (Mo-rale scolarium, Confabulationes, Modus studendi, ecc.). La sezione non poteva che concludersi con un giudizio complessivo sulla valutazione degli insegnamenti (esemplare la riproduzione a p. 367, con le note della Facoltà teologica parigina sulle dottrine luterane in tema di sacramenti) e di quella più incisiva: la censu-ra, che può seguirsi solo frammentariamente in base alle isole documentarie sopravvissute.

    L’ultima lunga sezione (pp. 389-577) riservata al modo di esporsi (Repräsenta-tion), e perciò a farsi rappresentare, del mondo universitario, è forse destinata ad avere la più ampia consultazione, perché miscellanea: vi si procede dall’esame degli oggetti usati tutti i giorni esposti in vari musei, ai ritratti, agli edifici, ai monumenti sepolcrali, alle insegne, allo spazio della musica e dei testi letterari, alla storiografia e ai discorsi universitari.

    Questa sede non consente che una valutazione complessiva, che non può che essere positiva: il grande lavoro merita di essere conosciuto in altre lingue, perché è un contributo serio alla costruzione di una coscienza europea certa-mente da meglio delineare in un momento così difficile per l’Unione.

    Mario Ascheri

    Massa di Maremma e la Toscana nel basso Medioevo: zecche, monete ed economia, a cura di Monica Baldassarri, Biblioteca di Archeologia Medievale, 27, Comune di Massa Marittima, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2019, pp. 173 in quarto. – Il volume, articolato in 14 saggi, raccoglie gli atti del convegno Per una storia eco-nomica e sociale della Toscana bassomedievale: le monete e le zecche (Massa Marittima, 20-21 ottobre 2017), ai quali si aggiunge il Catalogo della mostra Monete e zecche

  • 207Notizie

    nella Toscana del Trecento, tenutasi nella stessa città dal maggio 2017 al gennaio 2018. Tali iniziative (convegno e mostra) intendevano celebrare il settimo cen-tenario dell’avvio della zecca di Massa Marittima con la coniazione del grosso d’argento da 20 denari.

    I contenuti sono il risultato di un incrocio di tematiche e di competenze, a partire ovviamente da quelle relative alla monetazione. Formano la prima parte del volume – quella di taglio numismatico – il bel saggio di Lucia Travaini («La zecca: tecnologia e sacralità, simbologia e identità»), il contributo di Massimo Sozzi («La zecca e le monete di Massa di Maremma») e quello di William Day («La zecca affidata: zecchieri italiani nelle zecche straniere del Trecento»). Infine Monica Baldassarri ci offre un quadro ricco e dettagliato, anche sul piano sto-riografico, delle zecche attive nella Toscana medievale, e delle monete coniate, dando spazio anche alla loro ubicazione all’interno di alcuni centri urbani (Luc-ca, Pisa, Massa, Firenze).

    La seconda parte del volume accoglie contributi di taglio archeologico, qua-si tutti collegati alla presenza della zecca in varie località della Toscana. L’analisi spazia dalle grandi città (Firenze), a centri minori come Montieri e altri castelli delle Colline metallifere, e naturalmente a Massa. Interessante in particolare il saggio di Monica Baldassarri e Isabella Carli su «Zecche clandestine e falsari nel Medioevo: dati storici e archeologici sulla Toscana e aree limitrofe».

    Nella III Parte troviamo cinque saggi che cercano di mettere a fuoco l’eco-nomia di alcune città toscane del tempo: Massa Marittima (Marco Paperini), Luc-ca (Ignazio Del Punta), Pisa (Alma Poloni), Arezzo (Gian Paolo Scharf ) e Volter-ra (Alessandro Furiesi); una relazione presentata al convegno, non pervenuta per gli atti, riguardava Firenze. Se in alcuni di questi saggi è messo bene in evidenza il rapporto tra monetazione cittadina e interessi del ceto mercantile locale, altri, pure interessanti, hanno un taglio più generico e il problema monetario resta sullo sfondo o è del tutto assente.

    Nel complesso il volume – che deve molto a Monica Baldassarri sia per la curatela della mostra e degli atti del convegno, sia per i suoi specifici contributi – rappresenta un buon biglietto da visita per chi auspica una stretta collaborazione nella ricerca storica tra studiosi con competenze e metodologie diverse come quelle che abbiamo or ora ricordato.

    Giuliano Pinto

    Simona Serci, Corona d’Aragona e Mediterraneo. Storia archivistica dei Regni di Sicilia, Sardegna e Napoli, Cargeghe (SS), Editoriale Documenta, 2019 (Biblio-graphica, 14), pp. 740. – Frutto di una tesi di dottorato in ‘Scienze librarie e do-cumentarie’ discussa nel 2016 presso l’Università di Roma «La Sapienza», questo enciclopedico lavoro merita più di un encomio: per l’ampiezza dello sguardo storico, l’approfondimento tematico e le notevoli capacità dimostrate nel conci-liare la sintesi con l’analisi, il particolare con il generale. L’oggetto della ricerca è costituito, da una parte, dalla genesi e dall’evoluzione plurisecolare degli archivi (cancellereschi, finanziari, patrimoniali e giudiziari) alimentati dai sovrani cata-

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    lano-aragonesi una volta che essi ebbero modo di estendere la loro sovranità nel Mediterraneo centrale, inglobando in successione Sicilia, Sardegna e Mezzo-giorno continentale; dall’altra, dall’evoluzione di alcuni archivi cittadini (in par-ticolare Cagliari, Palermo e Napoli, ma non solo) e dalla costituzione di depositi documentari facenti capo a importanti famiglie dell’aristocrazia feudale siciliana, napoletana e sardo-iberica. Attraverso le apparentemente aride vicende archivi-stiche viene dunque ‘riletto’ un Mediterraneo basso medievale durante il quale una parte consistente dell’Italia venne inquadrata politicamente, giuridicamente e culturalmente in un effervescente mondo iberico straordinariamente dinamico e intraprendente.

    Il volume è diviso in tre sezioni. Nella prima (Pratiche, consuetudini e legisla-zione negli archivi della Corona d’Aragona) si ripercorrono le vicende archivistiche catalano-aragonesi, dalla tarda età carolingia sino agli esordi di quella politica espansionistica che sarebbe culminata nella creazione della cosiddetta Ruta de las islas. Uno dei principali fili tematici è rappresentato dalla lenta, faticosa ma pro-gressivamente ineluttabile creazione di un deposito documentario finalmente accentrato, con un salto di scala ormai evidente tra la fine del XIII secolo e l’inizio del successivo: una sorta di concretissima metafora delle ambizioni e della consa-pevolezza politica sviluppate dai conti-re di Barcellona.

    Nella seconda parte (I processi di sedimentazione storica nei domini ‘italiani’ della Corona d’Aragona) l’Autrice si sofferma sulle articolate modalità con le quali i sovrani iberici e i loro grands commis seppero adattare alle esigenze di governo della Corona, e di amministrazione dei territori conquistati, istituzioni e pras-si adoperate per la produzione e la conservazione dei documenti da tempo se-dimentatesi in Sicilia (con la monarchia degli Altavilla prima, degli Svevi poi e da ultimo degli Angiò), in Sardegna (con il comune di Pisa, le signorie liguri, il giudicato di Arborea), a Napoli (con il lungo dominio angioino). Questa lunga sezione costituisce indubbiamente il cuore della ricerca, perché le evoluzioni del-le pratiche archivistiche sono indagate tenendo sempre lo sguardo rivolto alle vicende politiche, militari e finanziarie dell’Italia meridionale continentale e in-sulare, dall’età di Giacomo II a quella di Alfonso V.

    La terza parte (Morfologie e provenienze: i complessi documentari) costituisce una vera e propria guida alla storia degli archivi regi di Cagliari, Palermo e Napo-li, a quella degli archivi civici (soprattutto della Sardegna) e a quella dei lignaggi baronali. L’Autrice in questo caso non si ferma sulle soglie dell’età moderna, ma conduce il lettore anche nelle dolorose vicende collegate alle dispersioni, agli sfoltimenti e alle vere e propri distruzioni di depositi archivistici tra XVI e XX secolo, sino alla catastrofe napoletana del settembre 1943.

    Il lavoro è completato e arricchito da: alcune tavole riepilogative di eventi storici, sovrani, alti ufficiali di cancelleria, complessi documentari, ordinamenti e articolazioni archivistiche; dettagliati elenchi di fonti manoscritte ed edite; bi-bliografie suddivise per geografie politiche; un accuratissimo indice di persone, luoghi e istituzioni.

    Sergio Tognetti

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    Albertino Mussato, De gestis italicorum post Henricum VII Cesarem (Libri I-VII), a cura di Rino Modonutti, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2018 (Edizione nazionale dei testi della storiografia umanistica – 12), pp. xliv-394. – La figura di Albertino Mussato (1261-1329) è stata a lungo nota agli studi per la sua fama come tragediografo, poeta laureato e membro illustre del cenacolo del co-siddetto preumanesimo padovano. In tempi più recenti la ricerca ha però piena-mente recuperato anche l’altro versante della sua personalità intellettuale, vale a dire la sua opera di storico. Questo si deve principalmente agli studi di Giovanna G. Gianola, che insieme al curatore di questo volume ha dato alla luce l’edizio-ne critica del De obsidione Canis Grandis e della Traditio civitatis Padue ad Canem Grandem, e che lavora adesso ad una nuova edizione (dopo quella muratoriana) delle Gesta di Enrico VII. La collana in cui compare il volume è la sede perfetta di un’operazione di questo tipo, che va come le altre uscite della serie a completare la disponibilità di testi umanistici poco noti o finora letti in edizioni inadegua-te, dando quindi un impulso decisivo alla valorizzazione del tema storico nella cultura umanistica. Rino Modonutti, già editore della breve opera mussatiana degli ultimi anni, il Ludovicus Bavarus, si cimenta qui nell’edizione dell’opera che l’umanista padovano intraprese come ideale seguito della storia d’Italia dopo la morte di Enrico nel 1313.

    In questo caso si tratta di un lavoro particolarmente arduo, per via di una tradizione manoscritta difficile che ci ha consegnato non di rado un testo corrot-to, in cui l’acribia del filologo deve esercitare integrazioni e congetture. L’accu-ratissimo apparato dell’edizione vera e propria rende conto di come il curatore abbia brillantemente affrontato queste particolarità. La difficoltà di stabilire con precisione il testo si estende per la verità anche alla definizione dei rapporti del De gestis con la restante opera mussatiana: sebbene il prologo dell’opera, com-posto probabilmente nel 1319, abbia un richiamo molto chiaro nella sua dedica a Pagano della Torre, vescovo di Padova, il resto dei primi VII libri ha una storia compositiva molto incerta, e il curatore ipotizza anzi che l’opera fosse intesa dal suo autore come tutt’uno con il De gestis Henrici VII, e che quindi la distinzione sia intervenuta soltanto con le vicende successive della tradizione. A ciò si ag-giunge la peculiare articolazione del testo, del quale la parte successiva al VII libro è testimoniata solo da un manoscritto con una storia incertissima, il che ha consigliato tra l’altro di iniziare il lavoro pubblicando qui per ora solo i primi sette libri.

    La disponibilità di una edizione accurata, sebbene per ora solo della prima parte dell’opera, permette certo di apprezzare le peculiarità della scrittura di Mussato, segnalate nella densa introduzione del curatore. L’autore del De gestis si dimostra senza dubbio uno storico vero, capace di unire con grande equilibrio e intelligenza il classicismo delle fonti con l’intento di comprendere i fatti della storia recente, nei quali peraltro Mussato (almeno quando tratta più da vicino le vicende della sua città) può contare anche sulla sua diretta esperienza di uomo politico, pur segnata da momenti di disgrazia e di esilio. La storia dell’Italia co-munale e regia negli anni ’10 del Trecento è del resto un momento particolarissi-mo, nel quale si addensano le trasformazioni dei regimi politici delle città e delle stesse identità politiche, ad esempio nella vicenda delle ‘parti’ guelfa e ghibellina.

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    A questo riguardo la scelta di Mussato di leggere il passato prossimo con la lente stilistica e lessicale della classicità degli amati autori latini non è una pura scelta estetica, ma sembra anzi un efficace spunto per concettualizzare le novità politi-che attingendo allo strumentario della storia antica, come avrebbero fatto i nomi più illustri della storiografia umanistica di molte generazioni più tardi. Il volume restituisce dunque agli studi non soltanto un prezioso strumento di conoscenza, ma anche l’opera di uno storico umanista che merita un posto d’onore nella cultura dell’Italia tardomedievale.

    Lorenzo Tanzini

    Alberto Luongo, Una città dopo la peste. Impresa e mobilità sociale ad Arezzo nella seconda metà del Trecento, Pisa, Pisa University Press, 2019 (Saggi e Studi), pp. 274. – Il volume si inserisce all’interno di un progetto di ricerca nazionale incentrato sul tema della mobilità sociale nel Medioevo italiano e prende dunque di petto uno dei nodi strutturali della storia economica e sociale tardo medievale: la ‘crisi’ trecentesca. La scelta di Arezzo si lega al seguente quesito: cosa accadde alle strutture produttive e commerciali, e come la loro trasformazione influì sui meccanismi della mobilità sociale (in ascesa come in discesa), dopo la grande pandemia del 1348 in un centro urbano di medio livello, per altro condizionato dalla vicinanza di una metropoli (Firenze) destinata a costituire uno stato regio-nale proprio nei decenni successivi alla metà del XIV secolo?

    Se noi prendessimo come parametro i livelli demografici di Arezzo stimati per l’inizio del Trecento, cioè 25-30mila abitanti, e li ponessimo a confronto con le 9mila anime accertate dalla Lira aretina del 1390 e i 4.100 abitanti censiti dal grande catasto dello stato fiorentino prodotto tra il 1427 e il 1429, l’impressione che ne potremmo ricavare è quella di una catastrofe senza attenuanti. Luongo, invece, concentrando la sua attenzione sulla seconda metà del XIV secolo e, a fronte della scomparsa presso che totale della documentazione comunale, lavo-rando con grande precisione tanto sui registri mercantili conservati all’archivio della Fraternita dei Laici quanto sui protocolli notarili aretini depositati presso l’archivio di stato Firenze, ci restituisce un quadro molto più sfumato e articola-to, capace di esaltare le congiunture relative a periodi medi e brevi, nei quali un ruolo importante fu esercitato da generazioni di imprenditori che, soprattutto tra gli anni ’70 e ’80, seppero sviluppare una manifattura tessile (lana e cotone) di respiro non locale.

    Dopo una corposa introduzione dedicata al tema della crisi tardo medievale nella storiografia italiana e internazionale e alla mobilità sociale come chiave interpretativa di quest’epoca, l’autore dedica il primo (e più importante) capitolo del libro al fenomeno più appariscente nella storia economica aretina del secon-do Trecento: la biografia professionale e la storia delle imprese tessili e commer-ciali del mercante Simo di Ubertino (1340 ca.-1393). Il personaggio, già al centro di un saggio di Giovanni Cherubini divenuto ormai un ‘classico’, viene ora inda-gato in un’ottica che mira a inglobare tutti i suoi collaboratori, soci e dipendenti per tracciare un quadro generale di quel gruppo di imprenditori aretini che sep-

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    pe coniugare la manifattura tessile locale con il grande commercio, fondando a Pisa filiali esplicitamente deputate all’esercizio della mercatura. Si trattò di una duplice innovazione per la storia di Arezzo, che in passato aveva guardato in ma-niera privilegiata (e forse anche obbligata) ai traffici con l’Umbria e le Marche, limitandosi da un punto di vista manifatturiero a produzioni di qualità modesta e proprio per questo destinate a soddisfare una domanda interna alimentata, prima del 1348, da una consistente popolazione urbana e rurale che viveva pre-valentemente del settore primario. Dalla fine degli anni ’60, invece, gli standard qualitativi presero ad alzarsi anche per l’utilizzo di pregiate lane importate dalla penisola iberica e la vocazione mercantile spinse nel grande porto tirrenico gli imprenditori aretini più dinamici. Pare assai probabile (ma Luongo non dispone di dati in proposito) che il miglioramento produttivo sia stato accompagnato anche da una riduzione sensibile dei quantitativi lavorati e messi sul mercato. Lo farebbe pensare anche la facilità con la quale Simo d’Ubertino e i suoi colleghi riuscirono a mettere in piedi nel 1372 una sorta di cartello indutrial-commercia-le, sciolto d’imperio dal comune per gli evidenti rischi di monopolio. E nello stes-so senso credo vadano interpretati i legami parentali (spesso acquisiti mediante oculate alleanze matrimoniali) che unirono tutti i maggiori imprenditori aretini del tardo Trecento gravitanti attorno a Simo di Ubertino, a partire dal grande mercante Lazzaro Bracci, a suo tempo indagato da Federigo Melis.

    Il secondo capitolo costituisce una sorta di prequel, perché l’autore, dopo aver tratteggiato il periodo per il quale le informazioni sono più abbondanti, si muove ora a ritroso, soffermandosi sulla situazione immediatamente successiva al 1348. Il confronto, non del tutto facile per la differenza quantitativa e quali-tativa delle fonti disponibili, ci restituisce un quadro molto meno dinamico. In pratica la città sembra aver fatto molta fatica a riprendersi dal profondo trauma lasciato dalla peste e solo con l’inizio degli anni ’60 si vedrebbero i sintomi della ripresa su nuove basi. Questa constatazione finisce per sottolineare ancora di più gli aspetti positivi descritti per gli anni ’70 e ’80.

    Il terzo e ultimo capitolo riassume la parabola dell’economia e della società aretina anche nell’ottica delle relazioni politiche fra Arezzo e Firenze, con una sottolineatura delle conseguenze lasciate più dal sacco del 1381, perpetrato dalle milizie mercenarie di Alberico da Barbiano, che dall’annessione di Arezzo alla re-pubblica fiorentina del 1384, vista anzi quasi come un evento pacificatore rispetto alle devastanti conflittualità interne legate alle lotte di fazione.

    Sergio Tognetti

    Tripulacions i vaixelles a la Mediterrània medieval. Fonts i perspectives comparades des la Corona d’Aragó, Roser Salicrú i Lluch (ed.), Barcelona, Publications de l’Aba-dia de Montserrat, 2019 (Textos i Estudis de Cultura Catalana, 231), pp. 426. – Il volume raccoglie i contributi di un seminario di ricerca promosso all’interno di un progetto finanziato dalla Generalità della Catalogna attorno alle tematiche concer-nenti l’arruolamento degli equipaggi, l’organizzazione degli armamenti marittimi, la gestione dei cantieri navali e le principali rotte di navigazione nel Mediterra-

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    neo medievale. Nello specifico l’area geografica di riferimento è soprattutto quella dell’Europa latino-mediterranea e l’arco cronologico interessato è propriamente quello del tardo Medioevo e della prima età moderna. Un po’ per il peso esercitato dall’ente promotore, un po’ per i cospicui depositi documentari, la maggioranza dei saggi ha come oggetto di indagine il mondo catalano-aragonese. Non manca-no tuttavia significative aperture su importanti realtà, come la Liguria e la Toscana. Alcuni saggi si prefiggono di fornire un sintetico profilo metodologico ed euristico su realtà di lungo periodo, altri si soffermano su casi ed eventi specifici.

    I lavori sono aperti proprio da un contributo dedicato da E. Basso alle fonti per lo studio degli equipaggi e delle navi liguri. Segue il puntuale saggio di J.V. Cabezuelo Pliego sull’armamento di alcune galee barcellonesi durante la guerra dei due Pietri (1359). G.T. Colesanti e R. Alaggio si occupano della documenta-zione inerente le flotte e le attività marinare nel regno di Napoli nella seconda metà del Quattrocento. Medesima impostazione è quella seguita da A. Díaz Bor-rás per Valencia fra XIV e XV secolo. J.M. Escribano Páez ci parla delle armate navali di Carlo V attraverso l’archivio privato di un provveditore e commissario addetto all’organizzazione della marina da guerra asburgica. L’arruolamento degli equipaggi sulle galee mercantili fiorentine del XV secolo è indagato attra-verso fonti sporadiche ma assai dettagliate da R. González Arévalo. Il movimen- to portuale di Valencia nella seconda metà del Quattrocento è analizzato da D. Igual Luis grazie a fonti fiscali decisamente descrittive. A. Musarra tratteggia le possibilità euristiche di registri di bordo delle navi genovesi, usando come spe-cimen un mastro in partita doppia del 1382. I carteggi datiniani permettono ad A. Orlandi di fornire particolari su costruzione, varo, compra-vendita e utilizzo di navi nel Mediterraneo occidentale fra XIV e XV secolo. M. Orsi Lázaro indaga l’arruolamento degli equipaggi, il ruolo organizzativo dei patroni e la documen-tazione amministrativa prodotta in occasione della conquista catalana di Alghero (1353-1354). Alla ricca documentazione trecentesca (soprattutto notarile) con-servata negli archivi ecclesiastici maiorchini è dedicata la relazione di A. Ortega Villoslada. Il mestiere dei carpentieri e dei calafati nella Catalogna tardo medie-vale è al centro del contributo di M. Pujol i Hamelink. Ancora su armamenti di specifiche galee aragonesi durante la guerra dei due Pietri nel 1358 si sofferma A. Reche Ontillera. Le notevoli potenzialità euristiche dei registri di arruolamen-to degli equipaggi barcellonesi sono indagate per il Quattrocento da R. Salicrú i Lluch. La cantieristica barcellonese nei primi anni del XVI secolo è analizzata da P.F. Simbula grazie alla contabilità pubblica facente capo al Maestro Razionale. M. Soberón si interessa al movimento portuale della capitala catalana fra 1439 e 1523 avvalendosi dei registri concernenti i pagamenti per i diritti di ancoraggio. Il profilo socio-economico dei patroni di nave nella Valencia tardo medievale è al centro del contributo di J.L. Soler Milla.

    Sergio Tognetti

    Hoc nomen vite eterne. Sigilli conservati nell’Archivio della certosa di Farneta, a cura di Graziano Concioni, Lucca, Pacini Fazzi, 2018, pp.  190. – Il volume, pubblicato postumo all’interno della collana curata dall’Accademia Lucchese di

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    Scienze, Lettere e Arti, con prefazione di Raffaello Nardi e presentazione del Priore della certosa di Farneta, è il f rutto di una ricerca a più mani che aveva trovato il suo cardine in Graziano Concioni, già curatore, nel 2016, de Il ‘Liber defunctorum’ della Certosa di Firenze.

    Il suo lavoro più recente consiste nella raccolta inedita di 115 esemplari di sigilli di varia tipologia provenienti dall’archivio del monastero di Farneta. Il ma-teriale, di cui viene offerto un riepilogo nelle prime pagine dell’opera, è stato selezionato tra quanto sopravvissuto del patrimonio sedimentatosi all’indomani dell’espulsione certosina dalla Grande Chartreuse e del conseguente stabilimen-to a Lucca, tra il 1903 e il 1940, della Casa Generalizia dell’Ordine; sullo sfondo, la Francia anticongregazionista dei primi del Novecento. All’interno dell’arco tem-porale individuato (secoli XIV-XX) si intersecano le storie di 55 certose europee in un’area compresa tra Francia, Italia, Spagna, Germania, Svizzera, Slovenia e Belgio; esse costituiscono inoltre, in base alla data di fondazione, le sezioni in cui vengono ripartiti i sigilli, tra i quali si segnala sia la pubblicazione di raffigurazio-ni di esemplari appartenenti a quattro case – Venezia, Maggiano, Pontignano, Haïn – di cui prima d’ora non era giunta testimonianza sia, in appendice, di un calco del sigillo reale di Carlo I d’Angiò.

    La presentazione di ogni singolo sigillo, con foto, descrizione e nota sui per-sonaggi eventualmente correlati, è preceduta da un’introduzione all’istituzione, di cui vengono fornite denominazione, titolatura e ubicazione, assieme a una sintesi degli eventi più rilevanti della sua esistenza – nella maggior parte dei casi ormai conclusa – e talvolta, anche foto d’archivio. L’approfondimento è neces-sariamente lasciato al lettore, che viene indirizzato verso strumenti più adatti, quali i quattro tomi editi tra 1913 e il 1919 de Maisons de l’Ordre des Chartreux: vues et notices; l’opera di A.Gruys, Cartusiana: un instrument heuristique, uscita tra il 1976 e il 1978; o ancora, la più aggiornata e completa Nouvelle Bibliographie Cartusienne, terminata nel 2007. La presenza, piuttosto frequente, di matrici o impronte analizzate da Gustave Vallier nell’autorevole precedente Sigillographie de l’Ordre des Chartreux et Numismatique de Saint Bruno (Montreuil-sur-Mer, 1891), viene segnalata accanto alla datazione tramite il numero progressivo utilizzato in tale sede.

    L’entità del campione preso in considerazione ha senz’altro dei limiti quanto a possibilità di analisi, e infatti, al di là della presa in esame dei singoli pezzi, lo studioso può limitarsi a proporre qualche osservazione di carattere generale e a rilevare qualche spunto d’interesse, come nel caso dell’andamento dei materiali utilizzati o della presenza costante dell’iconografia mariana, senza alcuna pretesa di esaustività. Tuttavia, come dichiarato dallo stesso Concioni, l’agile volume non vuole essere una pubblicazione specialistica, ma un contributo consapevo-le e appassionato per la divulgazione e la valorizzazione dell’eredità culturale dell’Ordine. Tale interesse si inserisce in una più ampia fioritura della sigillogra-fia certosina, arricchitasi a partire dai primi anni duemila grazie ai contributi di Éloi Delbecque comparsi all’interno degli Analecta Cartusiana.

    Sara Cambarau

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    Bertrand Jestaz, Documents pour servir à l’histoire de la Renaissance à Venise, Roma, École française de Rome, 2019 (Sources et documents publiés par l’École française de Rome, 10), pp.  616.  – Dopo una lunga e proficua carriera come professore di paleografia e storia dell’arte, l’Autore presenta in questa corposa edizione i f rutti delle sue ricerche durate quattro decenni negli archivi veneziani, soprattutto nell’Archivio di Stato. Non si tratta tanto di una raccolta di documen-ti (745) utili alla storia politica, diplomatica o economica, quanto piuttosto di fon-ti per la storia culturale in senso largo, per un arco cronologico che va all’incirca dalla metà del XV secolo alla fine del successivo. Le due principali sezioni del libro coprono l’architettura civile non solo veneziana, ma anche di Brescia, Pado-va e altre località, mentre le fonti per l’architettura religiosa comprendono, oltre Venezia, Crema, Legnago, Ravenna e San Benedetto Po. I capitoli della seconda parte sono più brevi e toccano varie professioni come quella degli architetti o dei proti, i tessitori di seta e ricamatori, i fonditori, i monetari, gli incisori, gli orologiai, ingegneri, orafi, pittori, pittori, scultori («taiapetra»), vetrai, gioiellieri, collezionisti e mercanti d’arte. Molte notizie inattese possono essere tratte da questa collezione. Tra gli orafi incontriamo nel 1485 ad esempio il f rate France-sco Colonna, l’autore della Hypnerotomachi Poliphili (1499), come artigiano che aveva fabbricato un paio di tenaglie («forcipes», «una molettina d’oro»), che alla fine del 1485 ed insieme ad uno «spechio d’arzentto» venivano mandate come doni al sultano della Turchia (pp. 352-353). Uno degli ultimi capitoli è dedicato alla stampa, con ricche fonti per la maggior parte inedite e sconosciute dal 1490 al 1597, tra cui inventari e privilegi di stampare certi testi (pp. 541-556).

    Grazie all’esperienza dell’Autore, le non sempre facilmente leggibili fonti in antico veneziano sono edite in modo impeccabile, rendendo in questo modo un grande servizio a chiunque voglia seguire l’Autore su questa strada; gli altri documenti tratti dai registri notarili o dell’amministrazione pubblica, cioè dai Consigli, si leggono naturalmente in lingua latina. Un utile Glossario venezia-no-francese, una bibliografia con i riferimenti ai testi citati in precedenza (ma spesso solo ora presentati in forma corretta), e un Indice generale con i nomi della località e dei nomi propri chiudono l’utilissimo volume.

    Lorenz Böninger

    Leonardo in Dialogue. The Artist Amid His Contemporaries, edited by Francesca Borgo, Rodolfo Maffeis e Alessandro Nova, Venezia, Marsilio, 2019, pp. 470, con ill. a colori e b./n. f.t. – Il volume nasce da una conferenza tenutasi al Kunsthi-storisches Institut di Firenze nel settembre 2015. L’idea di fondo non è quella di analizzare tout court la figura «ingombrante» e le opere di Leonardo ma, proprio affidandosi a non-leonardisti, di esplorare la complessità della sua opera, soppe-sare la sua eredità di teorico e artista attraverso un approccio comparativo che si percepisce in tutte le pagine di questo bel volume. Leonardo che dialoga, perciò, mediante le sue opere con i suoi contemporanei ma anche con i suoi predeces-sori e con i posteri: nel libro vengono analizzate le diverse realtà artistiche viste attraverso la figura prismatica dell’artista (Borgo, Maffeis, Nova).

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    Dal libro si evince chiaramente come Leonardo fosse pienamente inserito nell’ambiente culturale del suo tempo. Sintomi dell’influenza che esercitò la scultura di Andrea del Verrocchio sull’artista sono rintracciabili sia nella minu-ziosa resa dei capelli (Lugli) che nella plasticità e nel potenziale comunicativo riconosciuto alle immagini; immagini che implicano la partecipazione diretta dello spettatore per superare i limiti della materialità fisica (Kohl).

    L’ambiente milanese fu uno dei più vividi e vibranti a livello artistico e cul-turale. Qui, Leonardo ebbe modo di dibattere/dialogare con l’amico Donato Bramante, inserendosi perfettamente nel discorso artistico del periodo (Peder-son), oppure di vedere la scultura lombarda in terracotta così espressiva e – in un dialogo reciproco – farsi ispirare (ed ispirare) per la rappresentazione dei suoi ‘moti dell’anima’, condividendo con essa la rete comunicativa e il coinvolgimen-to emotivo con l’osservatore (Becker-Sawatzky). Il clima intellettuale della cit-tà lombarda, inoltre, permise a Leonardo di entrare in contatto con i disegni architettonici che circolavano in quegli anni, quando numerosi artisti tedeschi furono chiamati alla realizzazione dell’imponente duomo tardogotico. Il meto-do disegnativo leonardesco presenta molti lineamenti in comune con la grafica tedesca: l’artista italiano recepì la procedura nordica e la riadattò alla sua impre-sa, eliminando – cioè – tutti gli elementi ‘regionali’ o ‘nazionali’ e creandone una universale (Burioni).

    A Venezia Albrecht Dürer si avvicinò alle incisioni tratte dai modelli grafici di Leonardo, dei suoi noti nodi e dei poliedri, sino a decidere di riprodurle, de-cisione alquanto insolita per il maestro tedesco (Fara). A Firenze Fra’ Bartolo-meo si dimostrò in dialogo costante con Leonardo e attestò una pronta ricezione dell’evoluzione stilistica, dello sviluppo concettuale e delle ultime speculazioni importate da Milano (Mozzati). A Roma, invece, grande impatto ebbero le teorie vinciane sulla pittura: questa volta è Raffaello ad essere chiamato in causa e ad avvicinarsi alle riflessioni leonardesche, ma egli non fu un «passive absorber» bensì cercò di assimilarle nella sua propria teoria (Kleinbub).

    L’ambiente culturale mantovano gravitante intorno alla marchesa Isabella d’Este non poteva non ricevere e apprezzare le suggestioni leonardesche. Qui il ritratto della marchesa realizzato da Leonardo diventa un dono per il re di Fran-cia e, inserito nel contesto politico e sociale di quei tormentati anni, acquista una pregnanza simbolica e politica, che va al di là della valenza estetica (Rebecchini). Ancora in questo ambiente, così aperto alle innovazioni artistiche, si formò il Correggio che, da subito, colse il senso delle ricerche leonardesche: l’attenzione alle espressioni articolate dei personaggi, il noto sfumato e l’iconografia non tra-dizionale. Egli prontamente le rielaborò e le portò con sé a Parma, contribuendo a diffondere la maniera leonardesca (Spagnolo).

    Le ricerche di Leonardo sono vaste e diversificate. Alcuni studiosi lo conside-rarono più come teorico che come artista. Oltre ai suoi più noti studi, nel volume si analizzano anche le ricerche da lui condotte in campi meno ‘frequentati’. Si parla, quindi, del suo modo di rendere e considerare la prospettiva, confrontato con quello di Jan Van Eyck, della sua esplorazione della natura, dell’enfasi sul dinamismo, della sua ricerca di una teoria matematica ottenuta attraverso il coin-volgimento diretto e visuale con la natura (Lehman). Inoltre vengono trattate

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    le sue riflessioni sul processo di formazione dei fossili, messo in relazione con il metodo di realizzazione degli stampi per le sculture, e le sue meditazioni sulle catastrofi geologiche e sull’estinzione della vita sulla terra (Heuer). Un affondo interessante viene fatto sul fascino provato da Leonardo, e da altri artisti, verso i sogni, che vengono caricati di significati profetici, enigmatici, considerati una speciale categoria di immagini, che diventano quindi fonte di ispirazione per le opere realizzate dall’artista (Keizer). Infine, viene analizzato l’interesse di Leo-nardo per le scale. Egli focalizza la sua attenzione sull’azione del corpo in quanto le scale richiedono delle pose particolari, ampiamente studiate da Leonardo: la scala disegnata per il castello di Chambord è l’apice di questi studi, dacché intera-mente progettata pensando a colui che la percorre (Cole, Yerkes).

    Nel libro non manca l’analisi dell’eredità lasciata da Leonardo, sia vista at-traverso le critiche a lui mosse dagli eruditi f rancesi del XVII secolo (Zorach), sia mediante lo studio del suo ritratto letterario delineato da Giorgio Vasari e Paolo Giovio. Quest’ultimo lamenta la mancanza di eredità del maestro: privo di allievi degni di nome, Leonardo «diventa una personalità fallita nel senso del ruolo storico della trasmissione del proprio ingegno alla generazione seguente». Con l’eliminazione dei concorrenti, poi, un’enorme distanza lo separa dagli altri artisti. Così «la sterilità storica di Leonardo diventa lo splendido isolamento che ancora oggi facilmente si associa alla concezione del genio» (Löhr).

    Valentina Pili

    La medialità della storia. Nuovi studi sulla rappresentazione della politica e della società, a cura di Giovanni Bernandini e Christoph Cornelissen, Bologna, il Muli-no, 2019 (Fondazione Bruno Kessler, Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, Quaderni, 104), pp. 352. – La medialità della storia raccoglie una serie di contributi legati al ruolo della rappresentazione nella società e nella politica con uno sguardo transnazionale, non limitandosi alla storia contemporanea, ma ampliando la visione dall’epoca moderna fino ai nostri giorni. Ribadisce quindi l’importanza dei media visuali nell’ambito degli studi storici contribuendo a una riflessione sul loro utilizzo corretto e sulle fonti storiografiche da utilizzare. Il ruolo dei media viene indagato sia dal punto di vista della costruzione della me-moria storica, soprattutto quando questa è priva di una solida base culturale, sia come elemento di condizionamento e evoluzione degli eventi. La prospettiva adottata dai saggi è transnazionale, sia in termini di confronto tra l’uso dei mezzi di comunicazione a livello nazionale o regionale, sia prendendo in esame conte-nuti mediali che hanno avuto un’eco internazionale, sia tenendo conto di mezzi mediatici con un potere e una diffusione che va ben oltre lo spazio nazionale, che per molto tempo è stato l’ambito privilegiato di ricezione del messaggio dei me-dia. Tutto questo si unisce alla ricerca dei punti di contatto tra le epoche storiche, che ci aiutano a dare profondità e storicizzare un fenomeno che si è intensificato soprattutto negli ultimi anni.

    Il volume divide i saggi in tre capitoli: Media e conflitto, Media e transnazio-nalità, Media e autorappresentazione.

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    Nella prima parte viene approfondito il rapporto tra i media e la guerra, che sempre, fin dall’epoca moderna, vede la rappresentazione e comunicazio-ne visiva come elementi del conflitto, strumenti consapevolmente utilizzati per rendere più efficaci le azioni belliche e diplomatiche. Interessante il saggio di Massimo Rospocher che prendendo in esame gli interdetti papali di epoca moderna e in particolare quello che colpì Venezia nel 1509, analizza l’uso della stampa per giustificare la guerra e per fomentare la rabbia popolare. Seppure i concetti propaganda e guerra mediatica sono difficilmente estendibili all’epoca moderna, è interessante vedere come la diffusione della stampa inizi a cambiare le logiche diplomatiche e diventi uno strumento della guerra. Nel 1509, il papa per la prima volta conferì autorità al testo stampato, diffondendo copie a stampa dell’interdetto nelle piazze e nei luoghi sacri delle città della penisola e di tutto il Sacro Romano Impero. Le immagini e le parole mostravano toni propagandistici volti a giustificare la guerra contro la scomunicata Venezia, rea di aver occupato le terre del Patrimonio di San Pietro.

    Particolarmente interessante nella seconda parte del libro, il saggio di Marco Mondini dedicato al rapporto tra media e gestione del conflitto durante la Gran-de guerra. La realtà totale della guerra e lo sviluppo dell’industria dell’informa-zione determina una svolta fondamentale nell’uso dei media, spingendo tutti i paesi a impegnarsi nel diffondere un’immagine di un conflitto irreale, eroico e quasi incruento.

    Nell’ultima parte, segnaliamo l’interessante saggio, corredato da immagini, di Maurizo Cau che studia la costruzione dell’immaginario politico delle nazioni attraverso i ritratti ufficiali delle più alte cariche dello Stato nel secondo dopo-guerra, prendendo in esame l’Italia, la Germania federale e la Francia.

    Alessandra Frontani

    François Ier et l’Italie. Échanges, influences, méfiances entre Moyen Âge et Renais-sance / Scambi, influenze, diffidenze fra Medioevo e Rinascimento, C. Lastraioli, J.-M. Le Gall (eds.), Brepols, 2018, pp. 308 con ill.; François Ier et l’espace politique ita-lien. Etats, domaines et territoires. Etudes réinies par J.C. D’Amico et J.-L. Fournel, Roma, Ecole Francaise de Rome, 2018, pp. 506. – Come spesso accade, la ricor-renza della vittoria di Francesco I a Marignano nel 1515 è stata presa a pretesto per l’organizzazione di seminari e convegni volti a esaminare aspetti diversi del regno del Valois nel suo rapporto con l’Italia, un’area di grande prosperità eco-nomica e di impressionante fragilità politica. La ri-conquista di Milano giunge in un momento critico delle guerre d’Italia quasi a spazzar via le delusioni e il fallimento della stagione precedente, mentre si vanno delineando i profili delle conseguenze dell’ascesa al trono imperiale di Carlo V. Nel volgere di pochi anni, l’astro nascente del Valois avrebbe subito una parabola declinante da re guerriero e vittorioso a sovrano sconfitto, umiliato e persino prigioniero sempre sul suolo italiano: da Marignano nel 1515 alla sconfitta di Pavia nel 1525, con conseguenze prevedibili e altre impreviste. I venti saggi raccolti da Chiara Lastraioli e Jean-Ma-rie Le Gall analizzano quindi il complesso rapporto tra Francesco I e l’Italia, con

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    grande attenzione al confronto-scontro con Carlo V. Richiamando a una più am-pia considerazione del passaggio storico-politico in corso, Paolo Prodi apre con un saggio di prolusione sulle diverse prospettive di Leone X e di Francesco I: ne viene fuori un quadro in cui gli interessi a difendere la libertà d’Italia si intreccia-no con le esigenze di gestione di un potere temporale crescente. Tra miti delle origini, preoccupazioni politiche per i possedimenti italiani e alleanze matrimo-niali (foriere di rivendicazioni), si seguono le evoluzioni degli anni successivi: la sconfitta di Pavia modifica la percezione del re, a cui viene riconosciuto il ruolo di liberatore d’Italia (Le Gall), pur constatando la politica dell’assenza negli anni Quaranta (Bonora). Ancora per la prima metà del XVI secolo ago della bilancia della politica italiana ed europea sarebbe stato il pontefice e così si pongono sotto esame gli incontri tra Francesco I e i papi che si succedettero sul soglio pontificio (Rubello) e le strategie dei vescovi italiani (Lemaitre). La politica del monarca era fortemente influenzata dalla incessante ricerca di finanziamenti, cui risposero i banchieri italiani (Di Tullio). Il quadro era reso ancor più complesso dall’empia alleanza tra il re Cristianissimo e gli ottomani esaminata da Giovanni Ricci. Uno dei pregi di questo volume è l’aver voluto porre sotto esame la dimensione po-litica, senza dimenticare quella culturale come emerge dal saggio di Muzzarelli sulla moda o da quello di Fagnart su Leonardo da Vinci e gli altri artisti italiani al servizio di Francesco I, e, ancora, la collezione privata del re (Cordellier). Molto interessante è l’analisi dell’immagine del re nelle lettere italiane che propone Chiara Lastraioli, prendendo in esame una multiforme produzione di opuscoli, da cui emergono numerosi e rilevanti spunti di riflessione.

    Complementare è la prospettiva dei saggi raccolti da D’Amico e Fournel, dove si concentra l’attenzione sulle relazioni geopolitiche come sottolineato con vigore nell’Introduzione. La definizione stessa di spazio politico italiano richia-ma fondamentali temi del dibattito storiografico, ampliandone gli orizzonti dalla teoria alla prassi. Interessante è l’attenzione rivolta al discutere e superare alcuni miti che ancora resistono come quello della Francia circondata. Con scrupolo si prendono in esame le diverse aree della penisola italiana, senza trascurare le par-ticolarità istituzionali come bussole che orientano e determinano le relazioni con la Francia. La prima parte è dedicata a Milano e Genova (Meschini, Duc-Rizzo, Di Tullio, Fois, Giannini, Pacini); la seconda a Savoia, Firenze e Venezia (Fournel, Alazard, Procaccioli, Raba), la terza allo Stato della Chiesa e al Meridione (Calda-rella Allaire, Simonetta, D’Amico, Tallon e Vanni), mentre l’ultima al confronto tra Francesco I e Carlo V tra immaginario politico e guerre (Michon, Dumont, Rivero Rodríguez, Merle, Leroy du Cardonnoy). In quel periodo, le guerre si combattono anche con le armi della propaganda che Carlo V, Francesco I e Paolo III sono in grado di maneggiare abilmente, sfruttando polemicamente le allean-ze che i loro nemici, spinti più dalla ragion di Stato che dalla morale, stabilivano (Rodríguez Salgado). Nell’Epilogo D’Amico e Fournel richiamano la peculiarità dello spazio politico italiano costellato da realtà molto diverse in cui affioravano sistemi feudali e al contempo, prendevano forma organizzazioni più moderne, sottolineando la capacità del monarca di adottare una lungimirante strategia di adattamento (p. 465). Un adattamento quanto mai necessario visto l’evolversi degli obiettivi rispetto alla fase iniziale delle guerre.

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    La Francia italiana e l’Italia francese trovano così altre testimonianze e nuovi terreni di indagine.

    Michaela Valente

    The Council of Trent: Reform and Controversy in Europe and Beyond (1545-1700), ed. by Wim François and Violet Soen, 3 voll., Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht GmbH & Co. KG, 2018, pp. 1152 con ill. – Sono passati 450 anni dalla conclusione del Concilio di Trento, un evento epocale di cui immediatamente comprese le conseguenze quel fine interprete della realtà che fu Paolo Sarpi. Per continuare e approfondire l’analisi, ampliandone gli orizzonti, sono stati orga-nizzati convegni in diverse realtà accademiche e tra questi, a Lovanio, più di 150 studiosi provenienti da 120 paesi si sono riuniti per tentare di offrire un quadro interconfessionale di interpretazioni che potessero abbracciare i vari aspetti dei dibattiti e delle decisioni conciliari.

    Cinquant’anni fa la principale celebrazione era stata presieduta da Hubert Jedin, lo studioso che ha dedicato l’intera vita allo studio della storia del Concilio e che ha rappresentato una sorta di modello per generazioni, recentemente acco-stato da John O’Malley. Ora grazie a due storici di vaglia, Wim François e Violet Soen, sono raccolti e pubblicati in tre volumi i 43 saggi di studiosi che lavorano in università europee, americane, sudafricane, israeliane, ucraine e australiane e con profili molto vari e con dati anagrafici e geopolitici che necessariamente cambia-no gli esiti della ricerca. Nel primo volume, Between Trent, Rome and Wittenberg, le tre città rappresentano le direzioni prese dai lavori tridentini, per cui emergono anche le contraddizioni e i dissidi interni a Roma e la polemica con la Chiesa di Lutero. Quindici studiosi esaminano diversi aspetti di successo, senza trascurare quelli di fallimento, come i tentativi di riformare profondamente la liturgia. Ci sono saggi di impianto più tradizionale dedicati ad alcune figure chiave, come Girolamo Seripando (Camilla Russell) o ai riformatori (Emidio Campi). Passando dalle contraddizioni più o meno latenti alle decisioni che furono adottate, nel secondo volume, Between Bishops and Princes, i sedici saggi trattano della riforma messa in atto dai vescovi, dagli ordini religiosi e dalle congregazioni, con atten-zione anche all’alleanza che si cementa tra trono e altare, così come alla frattura tra essi, come nel caso francese o olandese (Ignasi Fernández Terricabras). Molto interessanti sono i contributi in cui si prendono in esame le realtà politiche che svolsero funzione di laboratorio di alcune decisioni conciliari (Heinz Finger e Gu-staaf Janssens) o il ruolo delle donne (Querciolo Mazzonis). Con il terzo volume, Between Artists and Adventurers, dodici studiosi ci guidano fuori dall’istituzione per incontrare quegli individui che, in vario modo, si sentirono investiti dal dovere di tradurre in pratica i decreti tridentini nelle arti o con l’opera di evangelizzazione (S. Elizabeth Penry). L’interrogativo di Simon Ditchfield (De-centering Trent: How ‘Tridentine’ Was the Making of the First World Religion?) merita di essere discusso approfonditamente per le importanti questioni che pone attraverso la riflessione storiografica e l’analisi di alcuni resoconti coevi.

    Spesso si tende a dimenticare quante, quali e quanto profonde furono le conseguenze delle decisioni tridentine: dalle immagini sacre alla musica, dai

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    profondi cambiamenti liturgici, agli obblighi che furono imposti ai fedeli e al clero. Il Concilio segnò una svolta per la Chiesa e per la società, una svolta che si irradiò ovunque, modificando significativamente i rapporti con l’autorità politi-ca. Istanze di riforma, visite pastorali, maggior controllo e rispetto delle norme tridentine, insieme alle sfide dell’ampliamento degli orizzonti geografici e della Riforma, incisero sulle politiche ecclesiastiche e sul ruolo del pontefice e dell’in-tera gerarchia.

    Studiosi più giovani dialogano così con storici autorevoli (Pierre-Antoine Fabre, Robert Bireley e John O’ Malley, per citarne alcuni), passando da temi al centro del dibattito ad aspetti più marginali, ponendo in luce i nuovi indirizzi storiografici, compresa la Global History. Giustamente, persino nella scelta dei titoli dei volumi, i curatori intendono sottolineare la dimensione di passaggio, il trovarsi tra due opzioni, proprio come fu l’evento discusso, il Concilio di Trento, ponte tra passato e futuro della Chiesa di Roma, e al contempo, crocevia di rifles-sioni originali e di decisioni essenziali. La maggior parte dei saggi riesce a rende-re un’idea della storiografia sul Concilio di Trento in occasione della ricorrenza che ne sollecita un bilancio critico. La struttura dei tre volumi è ben articolata e meditata, passando dal cuore della Chiesa ai rapporti con il potere politico e finendo a considerare la vita quotidiana.

    Michaela Valente

    Alessia Ceccarelli, «In forse di perdere la libertà». La Repubblica di Genova nella riflessione di Giulio Pallavicino (1583-1635), Roma, Viella, 2018, pp. 216. – Il rischio di perdere la sua libertà la repubblica di Genova lo corse in un periodo dramma-tico che vide anni di guerra, 1624-1625, e anni di congiure, 1627-1629. Il libro si propone di esaminare quella stagione attraverso la figura e l’opera di Giulio Pal-lavicino (1558?-1635), un aristocratico di vecchia nobiltà, membro di una famiglia le cui fortune erano cresciute con il commercio dell’allume pontificio, cronista e storiografo fra i massimi esponenti della cultura ligure in età moderna. Ma sembra un’occasione almeno in parte mancata.

    Dopo un’introduzione che nel complesso risulta piuttosto oscura, per quanto l’A. la proponga come «più ampia e argomentata del consueto» (p. 10), seguono quattro capitoli dai titoli promettenti. Il primo dedicato allo stesso Pallavicino, il secondo all’ascesa sociale e politica dell’élite popolare genovese, il terzo alla fonte scelta come privilegiata nella narrazione, ossia il Vero e distinto ragionamento, il quarto e ultimo ai caratteri e limiti della controffensiva oligarchica. All’interno di ciascuno di essi capita che si smarrisca il filo narrativo, e per la non sempre adeguata chiarezza espositiva riesca difficile per il lettore non troppo addentro nelle cose genovesi seguire la successione degli eventi e districarsi nella folla dei personaggi evocati. Il profilo biografico e intellettuale del Pallavicino che il libro si propone di aggiornare, e «di renderlo più nitido» (p. 9), si rifà in larga misura a un vecchio contributo di Edoardo Grendi che nel 1975 dette alle stampe la prima parte di un diario giovanile del Pallavicino, L’Inventione di Giulio Pallavicino di scri-ver tutte le cose accadute alli tempi suoi: 1583-1589, con un’ampia introduzione.

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    Con l’eccezione di questo diario, l’intera produzione del Pallavicino è rima-sta inedita e il libro ha il merito di rinviare al Vero e distinto ragionamento dello storiografo genovese ora integralmente disponibile on line sul sito dell’Editore.

    Rita Mazzei

    Erudizione cittadina e fonti documentarie. Archivi e ricerca storica nell’Ottocento italiano (1840-1880), a cura di Andrea Giorgi, Stefano Moscadelli, Gian Maria Va-ranini, S. Vitali, 2 voll., Firenze, FUP, 2019, pp. 992. – Nei due volumi – si tratta degli atti del convegno veronese dell’ottobre 2015, facente parte del progetto PRIN sulla medievistica italiana dell’800 e primo ’900 – si affronta il problema di come nell’arco cronologico prescelto la ricerca storica di taglio erudito, e di prospettiva cittadina, si affidasse in misura assai più ampia e nuova rispetto a prima all’indagine archivistica: indagine volta a portare alla luce quelle fonti do-cumentarie a lungo trascurate. Nel contempo tale periodo coincise con una nuo-va stagione nella sistemazione degli archivi grazie alla crescente sensibilità delle autorità pubbliche e alla maggiore consapevolezza da parte degli studiosi della loro importanza in funzione della ricerca storica. Si effettuarono spostamenti e accorpamenti dei materiali, si approntarono inventari e altri strumenti euristici, si facilitò l’accesso alla consultazione, mentre sul piano interno si affermarono alla metà del secolo nuovi criteri di classificazione sul modello del ‘metodo sto-rico’ messo in atto da Francesco Bonaini per l’Archivio centrale del Granducato di Toscana. Gli archivisti non furono più semplici burocrati, si fecero essi stessi studiosi. Dunque un deciso passo in avanti soprattutto se si pensa alle condizioni in cui gli archivi – o almeno la maggior parte di essi – si trovavano prima della svolta di metà secolo: basti leggere il saggio di Daniela Rando che descrive le peripezie e le lamentele degli studiosi tedeschi dei Monumenta che tra mille diffi-coltà andavano alla ricerca dei tesori nascosti negli archivi.

    Questo intreccio di tematiche – archivi, fonti documentarie, ricerca storica – viene affrontato da un nutrito gruppo di studiosi seguendo una sorta di itinera-rio geografico. Sono 27 i saggi relativi a spazi cittadini o regionali, preceduti da quattro saggi di carattere più generale (gli autori sono Bonini, Vitali, Giorgi e Moscadelli, e Rando), e seguiti da cinque interventi (inseriti sotto la dizione di Riflessioni conclusive), assai diversi, questi ultimi, per mole e impegno critico.

    Oggetto di analisi è l’erudizione che si sviluppò nell’Italia delle città, ovvero, con poche eccezioni, in quella che fu un tempo l’Italia dei Comuni. Questo spie-ga – ma fino a un certo punto – l’area privilegiata dalle relazioni: 20 dei 27 saggi fanno riferimento a realtà geografiche a nord dell’Appennino; due riguardano la Toscana (ma sulla Toscana esiste già una messe di studi consistente), una le Marche, una la città umbra di Orvieto, una Roma e le ultime due le città capitali del Mezzogiorno (Napoli e Palermo).

    La lezione che si ricava è quella di una lenta crescita della consapevolezza storiografica, frutto sia di una estensione della ricerca alle fonti documentarie (statuti, codici diplomatici, legislazione corrente, libri iurium, ecc. e primi ap-procci alle fonti quantitative: il notarile genovese ad esempio), sia di un allar-

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    gamento della fascia degli studiosi. Ai tradizionali cultori provenienti dalle fila dell’aristocrazia e del clero si aggiunse una componente professionale fatta di docenti liceali, di archivisti e di bibliotecari, ecc. Per venire incontro alle diffi-coltà di lettura e di interpretazione dei documenti – qualche erudito dovette far ricorso a trascrittori – si istituirono in alcuni archivi (come in quello di Milano dal 1844) scuole di paleografia e diplomatica. Il conseguente ampliamento delle tematiche è indubbio, anche se si restò, tutto sommato, nell’ambito della storia politico-istituzionale. Per un allargamento delle ricerche alla storia economica e sociale bisognò attendere lo scorcio del secolo e i primi anni del Novecento.

    Se alcuni studiosi vivevano e operavano isolati, altri si collegarono alle na-scenti Deputazioni e Società storiche locali; a Genova, ad esempio, furono stretti i legami tra la Società ligure di storia patria e l’Archivio di Stato. Altri eruditi entrarono a far parte di circuiti a carattere nazionale, il più importante dei quali fu senza ombra di dubbio – com’è noto – l’Archivio storico italiano di Gian Pietro Vieusseux, che ospitò rassegne sullo stato della ricerca storica nelle varie parti d’Italia grazie a una fitta rete di collaboratori. La fonte principe per studiare tali relazioni, ovvero lo scambio epistolare, sta alla base dell’ampio saggio di Giorgi e Moscadelli, condotto su un vastissimo materiale edito e inedito.

    I due tomi (quasi mille pagine) fanno luce dunque su tante realtà cittadine, dove il nuovo fervore culturale si collegava alla temperie politica e nello stes-so tempo ne traeva sostanza. Si direbbero tanti mondi in movimento, grandi e meno grandi. Alcuni, come la Milano oggetto dello studio di Gianmarco De An-gelis, svilupparono una dimensione sovraregionale; altri non andarono oltre lo spazio locale, come ad esempio nelle piccole città marchigiane (saggio di France-sco Pirani). Tra i protagonisti compaiono personaggi di diversa statura scientifica e di diverso peso culturale: dai ben noti Pompeo Litta, Luigi Cibrario, Tommaso Gar, Luigi Belgrano, Cornelio Desimone, ecc., ad altri attivi solo all’interno della dimensione cittadina: utilissimo da questo punto di vista l’indice dei nomi. Quin-di una messe di contributi originali sull’erudizione storica di metà ’800 e sulla coeva ‘rivoluzione’ degli archivi: una erudizione che funse da prodromo a quella storiografia più consapevole e matura degli ultimi due-tre decenni del secolo sino all’affermarsi della grande medievistica italiana di Salvemini e di Volpe, e non solo di loro.

    Giuliano Pinto

    Gabriele Paolini – Marco Sagrestani, Politica e rappresentanza nel Lazio me-ridionale dopo l’Unità, Pisa, Pacini, 2018. – Il presente saggio, come chiarisce il titolo, si propone di indagare l’impianto del sistema elettorale dell’età liberale nell’area geografica che corrisponde all’odierno Lazio meridionale nel periodo compreso fra il 1870, anno in cui, con la presa di Roma, entrò a far parte del Regno d’Italia, e il 1893.

    La struttura si compone di due parti, ciascuna divisa in otto capitoli: la prima, a firma di Marco Sagrestani, si occupa della lunga transizione che portò all’integrazione della provincia di Frosinone nelle strutture del Regno; la secon-da, scritta da Gabriele Paolini, approfondisce le vicende dell’area nell’epoca d’o-

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    ro del trasformismo, dalla riforma elettorale del 1882 al 1893 appunto. Occorre subito osservare che le due parti, nonostante siano il f rutto di penne diverse, sono perfettamente integrate in un disegno unitario riuscito, da cui emerge uno spaccato informato e interessante del rapporto f ra centro e periferia all’inter-no delle più generali dinamiche di politicizzazione che hanno investito l’Ita-lia all’indomani della proclamazione dell’Unità e la conseguente estensione di un sistema liberale-costituzionale a tutti i territori inglobati nella nuova realtà statuale.

    Preziosa l’introduzione con cui si mette in luce il carattere recente della de-finizione di Lazio. Per come la intendiamo oggi, infatti, essa risale al 1927 quan-do trovarono compimento una serie di aggiustamenti territoriali iniziati molto prima e influenzati, in particolar modo, dalla diminuzione dello Stato Pontificio, seguita al 1860. La perdita di Bologna, delle Romagne, delle Marche e dell’Um-bria dette vita a una «regione residuale» (p. 7), dominata dall’Urbe. Questo terri-torio, annesso nel 1870, iniziò ad essere chiamato Lazio, anche se ufficialmente corrispondeva alla provincia di Roma, che sarà ridimensionata solo tra il 1927 e il 1934 con la creazione delle provincie di Viterbo, Frosinone e Littoria (oggi Latina). La formazione delle regioni, dunque, anche in questo caso è meno scon-tata di quel che normalmente si pensa ed ha esercitato un peso condizionante notevole anche sui processi di politicizzazione, imponendo su questi circondari l’enorme peso di Roma, allo stesso tempo riferimento locale, come capoluogo di provincia, e nazionale, in qualità capitale dello Stato. Il Lazio meridionale ri-chiamato nel titolo si riferisce all’allora circondario di Frosinone di cui il volume si propone di seguire il progressivo inserimento nello stato nazionale ponendo nei momenti elettorali il nodo d’indagine privilegiato. Si trattava di un territorio in cui sia il ceto liberale, sia l’opposizione della sinistra più radicale erano deboli a fronte di un mondo ecclesiastico che poteva ancora contare sul radicamento e la posizione egemone che il tramonto dello Stato Pontificio aveva solo scalfito in superficie. In questo piccolo mondo complesso, chiuso anche in rivalità mu-nicipali che si ripercuotevano sui risultati dei tre collegi del circondario, ovvero Anagni, Ceccano, Frosinone, trovò terreno fertile l’affermazione di uno «spre-giudicato faccendiere» (p. 11), Filippo Berardi deputato di Ceccano nella XIV legislatura e dal 1882 Senatore del Regno. Personaggio abilissimo nel costruire una rete di relazioni e un vero e proprio sistema di potere capace di innescare un processo di politicizzazione del circondario di cui influenzava le elezioni, non facendo mai proprie istanze veramente progressiste. Si trattava solo di inserirsi nella logica trasformistica, di ottenere qualcosa dal potere centrale e della difesa della propria base di potere, al punto da proporsi come l’unico vero interprete di una presunta identità ciociara. Berardi rimase per anni l’ago della bilancia della politica nazionale a livello locale e divenne, afferma Sagrestani, l’«interprete abile e spregiudicato di interessi e identità di campanile nella periferia più trascurata dalla capitale» (p. 103). Accumulò un’influenza tale da riuscire ad opporsi, anche in modo controverso, a candidati apertamente sostenuti dal governo, come ac-cadde con Giuseppe Ellena nel 1892.

    La ricostruzione di Paolini e Sagrestani, forte di un largo scavo nella stampa nazionale e locale, di una certosina ricostruzione delle percentuali di voti ottenu-

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    ti dai vari candidati, riassunte in utili tabelle che accompagnano il testo, e di una puntuale utilizzazione degli atti parlamentari per le convalide, si rivela robusta e convincente. Da essa il f rusinate emerge come un interessante laboratorio per lo studio delle dinamiche di nazionalizzazione delle periferie attraverso la competi-zione politica ed elettorale. Il risultato, in questo caso, fa emergere una situazio-ne per la quale il territorio in questione è rimasto solo un serbatoio di voti mosso dagli equilibri del centro, privo di vita propria. Infatti, con la vittoria elettorale contro Ellena di Augusto Vienna nel 1892 e le sue successive riconferme «il Basso Lazio – chiude Paolini – restava periferia» (p. 216). Il Vienna costruito da Berardi nei termini dell’incarnazione del vero difensore degli interessi ciociari si rivelò per quel che era, uno strumento di propaganda elettorale del tutto sconnesso dalla realtà territoriale chiamata a consacrarlo col voto.

    Christian Satto

    Antonio Fiori, Vincenzo Riccio. Profilo biografico e carteggio, presentazione di Romano Ugolini, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano – Gan-gemi, 2019, pp. 468. – Il volume si divide in due parti: la prima, articolata in 15 capitoli, costituisce il profilo biografico di Vincenzo Riccio; la seconda riproduce un carteggio il cui nucleo principale è dato dalle lettere tra Riccio e Antonio Salandra. Oltre a quest’ultime, meritevoli di attenzione sono anche quelle di Si-dney Sonnino. Un lavoro solido e ben documentato, dunque, su un personaggio assolutamente degno di interesse sul quale l’autore, Antonio Fiori, aveva già la-vorando curando la pubblicazione del diario che il politico, allora ministro, tenne durante la prima fase della Grande Guerra (Vincenzo Riccio, Il diario di un mini-stro nel primo periodo della Grande Guerra, Roma, 2015).

    Vincenzo Riccio, nato a Napoli il 27 novembre 1858 e morto a Roma il 20 agosto 1928, fece parte di quel variegato schieramento liberale conservatore che si formò in opposizione con la Sinistra storica, andata al potere con la «rivolu-zione parlamentare» del 18 marzo 1876, e che rivendicava l’eredità della vecchia Destra liberale, protagonista dei primi quindici anni successivi all’Unità. Nella sua vita politica Riccio fu per ben cinque volte ministro. Di lui, tuttavia, non esistevano fino ad oggi profili biografici che tracciassero con un livello sufficiente di informazione gli snodi principali della sua vita. Antonio Fiori si è proposto di colmare questa lacuna con il presente volume, al quale è annessa un’interessante appendice documentaria formata da lettere faticosamente messe insieme da Fio-ri nella sua ricerca di materiali d’archivio sui quali ricostruire le reti di relazione, il ruolo, le idee di Riccio del quale, purtroppo, non è rimasto un vero e proprio fondo documentario. La relazione, amicale e politica, più importante intrattenu-ta da Riccio fu, sicuramente, quella con Antonio Salandra che lo volle con sé nel suo primo governo dandogli la responsabilità del dicastero delle Poste e telegrafi. Fu in questa veste che si trovò ad affrontare, da un osservatorio assolutamente centrale come il Consiglio dei ministri, la grande crisi del 1914 che trascinò l’Eu-ropa nella Prima guerra mondiale e che pose l’Italia di fronte al dilemma fra l’intervento e la neutralità.

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    Contrario in quella prima fase alla neutralità, Riccio sostenne a fondo l’in-tervento dell’Italia nella guerra che avrebbe ridisegnato gli equilibri di potenza a livello continentale. A suo avviso, infatti, sarebbe occorso in ogni caso mobilitare il Regio Esercito sollecitamente, anche in quello, per lui malaugurato, di persiste-re nel restar fuori dalla lotta. Solo così l’Italia avrebbe potuto far udire la propria voce nel decisivo momento di revisione degli assetti. Di fronte agli sviluppi di un quadro politico in cui la maggioranza parlamentare, di fede giolittiana, si