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| TRASCRIZIONE DEGLI INTERVENTI
Alberto Clò
Professore Ordinario di Economia Industriale e dei Servizi Pubblici Università di Bologna
ALBERTO CLO’: Confesso che già al settimo dei venti rischi paventati dal Prof.
Giovannini mi ero depresso, rammentando il dilemma di Woody Allen: “Il mondo si trova
a un bivio: da una parte l’estinzione dall’altra la disperazione più totale. Prego il Signore
di farmi fare la scelta giusta”. Battute a parte, ringrazio sentitamente Rotary per
l’Ambiente per avermi invitato a questo originale Convegno sull’“Eredità del Club di
Roma”, che mi ha spinto a riprendere in mano la fantastica collana Mondadori che
pubblicò nel 1972 il primo Rapporto del Club di Roma, I limiti dello sviluppo, di Meadows
ed altri; nel 1974 il secondo Rapporto, L’umanità a una svolta, di Mesarovic e Pestel, nel
1977 il volume del Premio Nobel Wassily Leontieff Il Futuro dell’Economia Mondiale.
Rileggendoli, impressiona – al di là della condivisione dei contenuti – il divario tra il loro
spessore scientifico e la pochezza degli attuali studi di scenario: approssimativi
nell’architettura metodologica, grossolani nelle assunzioni, mutevoli negli esiti prospettici.
L’Agenzia di Parigi, per intenderci, nel giro di un quinquennio ha disegnato tre diversi
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scenari di lungo termine dell’offerta di energia: passando dalla ‘rinascita del nucleare’
(miseramente falllita non solo a causa della tragedia di Fukuschima del 2011) alla ‘golden
age’ del gas metano, alla ‘tempesta perfetta’ dello stesso metano dopo la grande crisi del
2008. Che da questi mutevoli scenari possano derivare virtuose politiche pubbliche è
altamente improbabile. I primi studi di modellistica globale del MIT diffusi dal Club di
Roma ebbero una straordinaria importanza nel porre all’attenzione del mondo le
correlazioni sviluppo/ambiente. Quel che non esime, comunque, dall’affermare che se
anche una minima parte delle catastrofiche profezie che contenevano si fosse avverata
non saremmo fisicamente oggi qui a parlarne. Si trattasse dell’ineludibilità di un
catastrofico declino dell’umanità, per i soffocanti limiti dell’«esaurimento delle risorse»,
per l’«esplodere di guerre, epidemie, tensioni sociali», per il conseguente «incontrollabile
declino del livello di popolazione e del sistema industriale». La casuale coincidenza con il
balzo dei prezzi del petrolio indotto dalle crisi petrolifere degli anni Settanta veniva
erroneamente interpretato come la prima conferma di quelle cupe profezie. Che le cose
non siano andate come paventato – essendo la popolazione aumentata di 2 volte, il reddito
mondiale e pro-capite di 3,5, le riserve di petrolio di 3 – è fatto di secondaria rilevanza:
giacché fu quella percezione collettiva delle crisi, più che la realtà, a condizionare le
opinioni pubbliche alimentando sentimenti avversi alla società dei consumi,
all’industrializzazione e urbanizzazione intensiva, al progresso tecnologico che si riteneva
fuori da ogni controllo. Veniva meno quel clima di fiducia e di ottimismo che aveva
accompagnato sino ad allora lo sviluppo della scienza e della tecnologia. I rapporti del MIT
ebbero, in conclusione, importanza non per quel che sostenevano, ma per la pressione
psicologica e culturale che avrebbero esercitato. E’ pur vero che la maggior parte degli
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economisti reagì con freddezza e sarcasmo agli studi del Club di Roma – Wilfred
Beckerman su Oxford Economic Papers definì i Limiti come “sfacciato e impudente
capolavoro di stupidità di alcun ragazzacci del MIT” – ma il successo prevalse su ogni
critica. Volgendo lo sguardo al futuro è importante chiedersi in cosa quegli studi errarono,
come evidenziarono sia Mesarovic-Pestel che Leontieff che sosteneva l’insussistenza di
‘insormontabili barriere’ alla crescita economica derivanti dalle risorse naturali e come i
limiti principali non fossero materiali, ma politici, sociali, istituzionali’, mentre con le
tecnologie di allora anche l’inquinamento non costituiva ‘problema insolubile’. I primi
rapporti del MIT, secondo Leontieff, non seppero, in sostanza, – né forse avrebbero potuto
– tener conto del progresso scientifico-tecnologico che nel lungo termine ha sempre
ridotto l’antagonismo tra scarsità delle risorse naturali e producibilità delle merci
superando, almeno sino ad ora, le scarsità relative. Progresso che ha consentito di
allargare confini e natura delle risorse energetiche o ridurne l’intensità d’uso
(energia/output). Se quest’ultima fosse rimasta costante sui livelli del 1950 gli Stati Uniti
consumerebbe oggi il doppio di quanto osservato. Nel convincimento che anche in futuro
saranno la scienza e la tecnologia a toglierci dai guai, è fondamentale guardare alle sfide –
ambientali, geopolitiche, economiche – che ci stanno davanti. Sfide risolvibili, o almeno
attenuabili, con soluzioni tra loro spesso contradditorie: giacchè quel che è
economicamente conveniente (carbone) non lo è ambientalmente (e viceversa); mentre
quel che è politicamente sicuro (nucleare) non è socialmente accettato. Trade-off
affrontabili individuando ex-ante la scala delle priorità che si intendono affrontare. E qui
cominciano le divaricazioni: riconducibili per lo più a giudizi di valore piuttosto che a
verità fattuali. A mio avviso, la prima priorità non è la pur imprescindibile lotta ai
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cambiamenti climatici ma quella alla fame di energia nella metà del mondo che non ne
dispone in misura sufficiente a sopravvivere. Solo dandovi soddisfazione si miglioreranno
le condizioni di vita di miliardi di persone, se ne argineranno i flussi migratori, si
migliorerà lo stato del Pianeta, perché la povertà è la prima causa del degrado ambientale.
Sconfiggere la povertà energetica è la questione etica che i paesi ricchi che dispongono e
dissipano energia non possono eludere. Le disuguaglianze nella distribuzione mondiale
degli usi di energia sono lo specchio delle disuguaglianze nella distribuzione della
ricchezza. Rimuovere le prime è condizione pregiudiziale per incidere sulle seconde. Per
soddisfare la fame di energia è necessario un immane impegno di investimenti per rendere
disponibile un’offerta a prezzi sopportabili dai paesi poveri, ricorrendo a tutte le opzioni
tecnologiche, ma gioco forza facendo soprattutto conto sulle fonti fossili che sole possono
garantire in tempi brevi un’offerta addizionale idonea a soddisfare la fame di energia.
Sostenere la possibilità – solo volendolo – di farne a meno per ragioni ambientali è
disegnare una prospettiva che non c’è, verso cui comunque muovere sin d’ora facendo leva
sulla Ricerca e Sviluppo, invertendo le politiche sin qua perseguite. Si sostiene, in sostanza,
quel che non è possibile senza nulla fare per renderlo tale. I bilanci pubblici nella R&S
energetica sono stati tagliati di 4 volte nell’Unione Europea e sino a 5 volte negli Stati Uniti
dai primi anni 1980. Inadeguatezza delle politiche pubbliche e scarsità di risorse
impediscono di rivoluzionare la struttura dei sistemi energetici per combattere i
cambiamenti climatici. Allo stato delle cose, non si profila alcun breaktrough tecnologico
che lo consenta. Guardando al passato, emerge come l’avanzamento delle tecnologie
energetiche sia derivato soprattutto da affinamenti incrementali di quelle esistenti, che
vanno oggi concentrandosi verso le risorse rinnovabili. Pur essendosi registrati progressi
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nelle loro curve di apprendimento e riduzione dei costi, esse restano penalizzate da limiti
di scala e di continuità, così da prefigurarne un contributo marginale ancora per un lungo
tempo. Verso altri ambiti si va indirizzando l’impegno della ricerca:
� convergenza tra elettricità e information technology che consente, attaverso
reti elettriche intelligenti smart grids e applicazioni smart metering di ottimizzare il
coordinamento dei sistemi elettrici accrescendone la compatibilità con la generazione
distribuita e migliorare l’efficienza energetica,
� convergenza industrie elettrica e delle telecomunicazioni, finalizzata
all’elettrificazione delle aree rurali isolate nei paesi sottosviluppati con innovative
piattaforme capaci di combinare generazione elettrica, specie da piccoli impianti
solari, con sistemi locali di trasmissione off-grid e telefonia mobile come strumento di
pagamento.
� messa a punto di tecnologie e sistemi di accumulo dell’elettricità prodotta da
risorse rinnovabili, che rivoluzionerebbero l’intera economia e design dei sistemi
elettrici, allentando il vincolo della loro intermittenza e imprevedibilità.
� elettrificazione dei trasporti, che oggi assorbono oltre un terzo dei consumi
di energia, in competizione tra sistemi a batteria e combinazione idrogeno-celle a
combustibili.
� produzione di biocarburanti di seconda generazione frutto della
combinazione tra chimica, biotecnologia, genetica alternativi a quelli tradizionali.
Da queste linee di innovazione emerge un tratto comune: il superamento della
frammentazione delle tradizionali aree scientifiche verso un agire comune e
interdisciplinare. La necessità, in sostanza, di adottare un approccio sistemico in una
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visione strategica di lungo termine che faccia convergere le più disparate conoscenze
(scientifiche, tecnologiche, industriali) verso comuni obiettivi all’interno di una forte
cooperazione internazionale. Se è indubbio che speranze e risorse sono state rivolte verso
le rinnovabili, lo è altrettanto il fatto che rilevanti progressi sono stati conseguiti
soprattutto nelle risorse fossili: nelle nuove tecnologie per massimizzare lo sfruttamento
dei giacimenti o alla ricerca dell’“idrocarburo perduto”, come nel futuribile caso del
metano recuperato dalle fosse marine del Pacifico (“ghiaccio che brucia”). Ma, ancor
prima, col clamoroso successo della tecnologia del fracking nella shale revolution
americana che ha allargato enormemente gli orizzonti di sfruttamento delle risorse non
convenzionali di idrocarburi, così smentendo nuovamente i profeti di sventura del “peak-
oil”. Una rivoluzione che poco deve alle politiche pubbliche, molto alla vitalità di quel
capitalismo, agli spazi di libertà e rapidità decisionale che consente, all’ingegnosità degli
animal spirits. A beneficiarne è stata l’intera economia mondiale. Se l’import americano di
petrolio non fosse crollato non si sarebbe avuto il contro-shock petrolifero che ha
dimezzato dalla metà del 2014 le quotazioni del petrolio, nonostante il sommarsi di
tensioni geopolitiche come mai accaduto in passato. La tecnologia ha avuto la meglio sulla
politica. Il mondo non è povero di risorse energetiche. Non è la natura a porci dei vincoli.
E’ l’azione dell’uomo che ne riduce l’accessibilità. I bilanci energetici mondiali sono
incardinati da due secoli sulla fonti fossili – carbone, petrolio, metano – con una quota che
in mezzo secolo si è ridotta di appena otto punti percentuali, rimanendo attestata sull’85%
e la previsione che possa ridursi solo di alcuni punti. Guardando ai processi storici di
sostituzione emerge che ad ogni fonte, per superare la path dependance dei sistemi
dominanti, è stato necessario grosso modo mezzo secolo per raggiungere una penetrazione
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pari ad un quinto dei consumi. Che per le nuove rinnovabili (specie eolico e solare), possa
essere diverso è altamente opinabile. Come ha scritto uno dei maggiori stotici dell’energia,
Vaclav Smil, “L’impiego delle energie rinnovabili ha creato aspettative esagerate invece di
realistiche valutazioni. L’allontamanento dai combustibili fossili [….] implica una enorme
richiesta di infrastrutture a conseguenza della bassa densità di potenza con la quale
possiamo catturare il flusso di energie rinnovabili e la loro immutabile stacasticità. La scala
della transizione richiesta è immensa”. Diversi scenari energetici, come detto, proiettano
mutamenti radicali nel mix dell’offerta di energia nei prossimi due.-tre decenni nonostante
una forte crescita della domanda. Ritengo questi scenari altamente improbabili. Anche qui
vi è da imparare dal passato. Guardando alle passate previsioni, in un arco di tempo non
lontano dall’orizzonte cui oggi ci si proietta, possiamo constatare come poco o nulla di quel
che si dava per scontato è avvenuto, mentre quel che è avvenuto non era stato previsto. Il
prestigioso centro di ricerca IIASA di Vienna di Cesare Marchetti dipingeva nel suo
straordinario, Energy in a finite world del 1981 un futuro energetico imperniato
massimamente su nucleare e solare (solar-fusion) non avveratosi. Morale: delle risorse
fossili rimarremo a lungo ostaggi anche perché ve ne è grande e crescente abbondanza.
Oltre mezzo secolo alle tecnologie attuali. L’ossessione dei profeti di sventura sul loro
imminente esaurirsi è stata smentita dai fatti. Che un giorno il petrolio o il metano
finiranno è fuor di dubbio. Che quel giorno sia molto là da venire lo è altrettanto. Non sono
le materie prime, fossili o meno, ad essere scarse, ma semmai la materia grigia necessaria a
renderle disponibili. Guardando al domani con l’esperienza di ieri non v’è motivo per
ritenere che le nuove catastrofiche profezie sui “cambiamenti climatici” abbiano miglior
fortuna di quelle passate sui “limiti dello sviluppo”. Che non vi siano potenzialità,
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strumenti, modi per fronteggiarle. La sfida è provvedere al superamento di questi limiti
con uno straordinario impegno di R&S in grado di imbrigliare in modo economicamente
sostenibile nuove fonti inesauribili, senza rinunciare a nessuna opportunità offerte dalla
scienza e dalla tecnologia. A salvare il mondo dai catastrofismi sarà – ieri come oggi – la
tecnologia nelle sue imprevedibili traiettorie, combinata alla capacità del capitalismo di
trarne profitto in assetti sempre più aperti al mercato. E’ sulla loro forza, sull’intelligenza
degli uomini, sulla capacità innovativa delle imprese che bisogna puntare. Lasciamole
liberamente giocare. Un’ultima considerazione. La questione energetico/ambientale è
questione altamente complessa, dove ogni singola opinione, cui non si sottrae la mia, è
condizionata da giudizi di valore e dall’ottica da cui la si esamina. È inoltre questione
intrinsecamente interdisciplinare, come emerge anche da questo tavolo con sei persone di
formazione totalmente diversa. L’idea di ridurla a un unicum in termini di analisi e di
soluzioni è logicamente sbagliata. Chi lo propone pretende, inconsapevolmente o meno, di
far prevalere la sua ottica, la sua visione delle cose, spesso ideologica, sulle altre. Così
impedendo quei sani e pragmatici compromessi che sempre hanno consentito all’umanità
di fare un qualche passo in avanti. Penso, per concludere, che se si vuole veramente
operare sul piano dell’azione politica nella direzione del “dopo fonti fossili” sia necessario
uscire dalle mille contraddizioni e dalle mille ipocrisie che attraversano il mondo moderno.
Grazie dell’ascolto.