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Isaac Bashevis Singer La mia infanzia da Un giorno di felicità 1963 Sono nato nella città di Radzymin, vicino a Varsavia, capitale della Polonia, il 14 luglio 1904. Mio padre, Pinchos Menachem Singer, era un rabbino, un uomo molto religioso. Aveva la barba rossiccia, dei basettoni lunghi e neri e gli occhi celesti. Mia madre, che si chiamava Betsabea, era figlia del rabbino di Bilgoray, paese non lontano da Lublino. Aveva i capelli rossi e li portava corti; sopra aveva una parrucca, di quelle che usavano portare le donne religiose, molto osservanti, dopo il matrimonio. Agli inizi del 1908, quando avevo tre anni, i miei genitori si trasferirono da Radzymin a Varsavia; mio padre esercitava la sua missione di rabbino in una strada di un quartiere poverissimo, che si chiamava via Krochmalna. Il fabbricato ad appartamenti in cui abitavamo e dove sono cresciuto era uno di quelli che in America sono i così detti bassifondi. Tuttavia a quei tempi non ci accorgevamo che fosse così miserevole. Una lampada a petrolio faceva luce in casa, la sera. Non si era abituati a certe comodità quali l’acqua corrente calda o il bagno. Il gabinetto, anzi, si trovava in cortile. La maggior parte degli abitanti di via Krochmalna erano persone povere, piccoli negozianti e operai; ma c’erano anche molti ragazzi che studiavano, altri pigri e sfaccendati, dei criminali e gente della malavita. Non avevo ancora quattro anni quando cominciai a frequentare il cheder 1 . Tutte le mattine veniva a prendermi un insegnante: io portavo con me un libro di preghiere e, più tardi, anche la Bibbia o un volume del Talmud. Erano gli unici testi scolastici che io conoscessi e usassi. Infatti l’insegnamento era quasi esclusivamente di argomenti religiosi: ci insegnavano a pregare, a leggere il Pentateuco, a scrivere la lingua yiddish 2 . Ricordo che il mio primo maestro era anziano e aveva la barba bianca. Avevo un fratello più piccolo, Moshe, che era ancora in fasce quando ci trasferimmo a Varsavia; una sorella che aveva tredici anni più di me e si chiamava Hinde Ester; e un altro fratello, Israel Joshua, che aveva undici anni più di me. Tranne Moshe, tutti noi divenimmo scrittori. Mio fratello scriveva, come me, in lingua jiddish, e il suo romanzo I fratelli Ashkenazi è stato tradotto in varie lingue, compreso l’inglese. In casa nostra tutti studiavano e cercavano di farsi una cultura. Mio padre stava lunghe ore seduto, di giorno, a leggere e a studiare il Talmud; mia madre, appena aveva un momento libero, prendeva in mano un libro sacro e gli dava un’occhiata. Gli altri bambini giocavano con i giocattoli: io mi divertivo con i libri di mio padre. Cominciai a “scrivere” ancora prima di avere imparato l’alfabeto: immergevo la penna nell’inchiostro e mi mettevo a scarabocchiare. Mi piaceva anche molto disegnare: disegnavo cavalli, case, cani. Il Sabato 1 cheder: scuola primaria ebraica, dove si impara a leggere e a scrivere e i primi rudimenti dello studio religioso. 2 yiddish: lingua degli ebrei askenaziti (dell’Europa centro- orientale), formatasi nei secoli X-XIII nell’area tra il Reno e la Mosella, sulla base di un dialetto tedesco arricchito di apporti ebraici, aramaici, romanzi e slavi, scritto in caratteri ebraici.

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Isaac Bashevis Singer

La mia infanziada Un giorno di felicità

1963

Sono nato nella città di Radzymin, vicino a Varsavia, capitale della Polonia, il 14 luglio 1904. Mio padre, Pinchos Menachem Singer, era un rabbino, un uomo molto religioso. Aveva la barba rossiccia, dei basettoni lunghi e neri e gli occhi celesti. Mia madre, che si chiamava Betsabea, era figlia del rabbino di Bilgoray, paese non lontano da Lublino. Aveva i capelli rossi e li portava corti; sopra aveva una parrucca, di quelle che usavano portare le donne religiose, molto osservanti, dopo il matrimonio.

Agli inizi del 1908, quando avevo tre anni, i miei genitori si trasferirono da Radzymin a Varsavia; mio padre esercitava la sua missione di rabbino in una strada di un quartiere poverissimo, che si chiamava via Krochmalna. Il fabbricato ad appartamenti in cui abitavamo e dove sono cresciuto era uno di quelli che in America sono i così detti bassifondi. Tuttavia a quei tempi non ci accorgevamo che fosse così miserevole. Una lampada a petrolio faceva luce in casa, la sera. Non si era abituati a certe comodità quali l’acqua corrente calda o il bagno. Il gabinetto, anzi, si trovava in cortile.

La maggior parte degli abitanti di via Krochmalna erano persone povere, piccoli negozianti e operai; ma c’erano anche molti ragazzi che studiavano, altri pigri e sfaccendati, dei criminali e gente della malavita.

Non avevo ancora quattro anni quando cominciai a frequentare il cheder1. Tutte le mattine veniva a prendermi un insegnante: io portavo con me un libro di preghiere e, più tardi, anche la Bibbia o un volume del Talmud.

Erano gli unici testi scolastici che io conoscessi e usassi. Infatti l’insegnamento era quasi esclusivamente di argomenti religiosi: ci insegnavano a pregare, a leggere il Pentateuco, a scrivere la lingua yiddish2. Ricordo che il mio primo maestro era anziano e aveva la barba bianca.

Avevo un fratello più piccolo, Moshe, che era ancora in fasce quando ci trasferimmo a Varsavia; una sorella che aveva tredici anni più di me e si chiamava Hinde Ester; e un altro fratello, Israel Joshua, che aveva undici anni più di me. Tranne Moshe, tutti noi divenimmo scrittori. Mio fratello scriveva, come me, in lingua

1 cheder: scuola primaria ebraica, dove si impara a leggere e a scrivere e i primi rudimenti dello studio religioso.2 yiddish: lingua degli ebrei askenaziti (dell’Europa centro-orientale), formatasi nei secoli X-XIII nell’area tra il Reno e la Mosella, sulla base di un dialetto tedesco arricchito di apporti ebraici, aramaici, romanzi e slavi, scritto in caratteri ebraici.

jiddish, e il suo romanzo I fratelli Ashkenazi è stato tradotto in varie lingue, compreso l’inglese.

In casa nostra tutti studiavano e cercavano di farsi una cultura. Mio padre stava lunghe ore seduto, di giorno, a leggere e a studiare il Talmud; mia madre, appena aveva un momento libero, prendeva in mano un libro sacro e gli dava un’occhiata. Gli altri bambini giocavano con i giocattoli: io mi divertivo con i libri di mio padre. Cominciai a “scrivere” ancora prima di avere imparato l’alfabeto: immergevo la penna nell’inchiostro e mi mettevo a scarabocchiare. Mi piaceva anche molto disegnare: disegnavo cavalli, case, cani. Il Sabato invece, lo Shabbàth, mi astenevo da qualsiasi attività: infatti in quel giorno è proibito anche scrivere.

Mio padre aveva istituito anche una corte rabbinica nell’appartamento in cui vivevamo a Varsavia. Gli abitanti di via Krochmalna venivano a chiedergli consigli o a pregarlo di comporre una vertenza, secondo la legge della Toràh3. Mio padre era in certo qual modo un misto tra un rabbino, un giudice e un capo spirituale. Celebrava anche matrimoni in casa nostra e, di tanto in tanto, accordava un divorzio. Tra gli Ebrei di quel tempo un rabbino era un uomo con molte mansioni ma con pochi compensi.

Io ero curioso per natura: osservavo i “grandi”, i loro comportamenti, ascoltavo le loro conversazioni: a volte capivo il significato di quello che dicevano, a volte no.

Quando ero ancora piccolo cominciai a formulare ogni sorta di pensieri, come questi ad esempio: che cosa accadrebbe se un uccello volasse per sempre in una stessa direzione? Oppure: che cosa accadrebbe se si costruisse una scala che andasse dalla terra al cielo? Oppure ancora: che cosa esisteva prima che fosse creato il mondo? Quando ebbe inizio il tempo? E: il tempo, ha forse avuto inizio? E come può, il tempo, avere inizio? E lo spazio dove finisce? E come può uno spazio vuoto avere un termine, finire?

Sul balcone dell’appartamento che occupavamo in via Krochmalna n. 10 io me ne stavo per ore e ore in piedi, assorto, a pensare. D’estate si davano appuntamento gli insetti di tutti i generi: mosche, api, farfalle. Queste creature destavano in me una grande curiosità. Mi domandavo: che cosa mangeranno? Dove dormiranno? Chi avrà dato loro la vita?

Di notte apparivano in cielo la luna, le stelle. Mi raccontavano che alcune stelle sono più grandi della terra. E io mi domandavo: ma se è vero che sono così grandi, come fanno a stare tutte dentro quella stretta striscia di cielo che sovrasta i tetti della nostra strada? E rivolgevo ai miei genitori domande di questo genere che li mettevano m difficoltà: non sapevano rispondere. Mio padre allora diceva che non è bene indulgere a porsi questo tipo di domande. Mia madre invece se la cavava dicendo che, quando fossi diventato grande, avrei trovato le risposte. Ma imparai per tempo che anche i “grandi” non sanno tutto. La gente moriva, nella strada dove abitavamo: e la

3 Torah: Legge di Dio; coincide con i primi cinque libri della Bibbia, detti in greco Pentateuco.

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sorpresa, il trauma della morte mi creava paure e perplessità. Mia madre mi consolava dicendomi che le anime buone vanno in paradiso, dopo la morte.

Ma io avrei voluto chiedere: che cosa fanno, in paradiso, le anime? E come è fatto questo paradiso? Rimuginavo sulla paura dell’inferno, dove le anime dei peccatori trovano punizione.

Ero ancora molto piccolo quando cominciai a scoprire le sofferenze umane. La Polonia, spartita e divisa tra la Russia, la Germania e l’Austria, aveva perduto l’indipendenza da circa 100 anni. Ma noi Ebrei avevamo perso la nostra terra, Israele, circa duemila anni prima. Mio padre continuava a rassicurarmi dicendo che se gli Ebrei si fossero comportati religiosamente sarebbe venuto il Messia e saremmo tutti tornati nella nostra terra, Israele. Ma duemila anni erano una lunghissima attesa, troppo lunga. Oltre tutto, come fare a sapere se tutti gli Ebrei osservavano o meno la legge di Dio? La nostra strada era piena di ladri e di truffatori di ogni tipo. Il loro comportamento poteva forse ritardare la venuta del Messia per sempre...

L’anno in cui nacqui io, morì un grande capo ebreo, il dottor Teodoro Herzl 4. Il dr. Herzl aveva tanto predicato: egli diceva che gli Ebrei non dovevano aspettare la venuta del Messia, e cominciare a costruire la Palestina da soli. Ma come si poteva fare una cosa simile se quella terra apparteneva ai Turchi?

C’erano dei rivoluzionari, in via Krochmalna, i quali volevano detronizzare lo zar di Russia. Sognavano di creare uno stato in cui tutti i cittadini lavorassero e non vi fossero né ricchi né poveri. Ma come si poteva anche solo pensare di detronizzare lo zar, quando questo era difeso da tanti soldati, armati di spade e fucili? E come poteva mai accadere che non vi fossero né ricchi né poveri? Qualcuno avrebbe pur sempre dovuto abitare in via Krochmalna e altri in via Marshalkovsky, quel bel viale fiancheggiato da alberi, su cui si aprivano tanti negozi di lusso...

Qualcuno avrebbe sempre dovuto vivere nelle grandi città e altri nei piccoli villaggi sperduti. A casa nostra si dibattevano frequentemente, sia in famiglia che con gli ospiti, questi problemi. Io ascoltavo attentamente ogni parola che veniva detta in proposito.

Sia ai miei genitori che a mio fratello maggiore e a mia sorella, piaceva raccontare delle storie. Mio padre parlava spesso di miracoli operati da vari rabbini, così come di storie di fantasmi, di diavoli e demonietti. In tal modo cercava di rafforzare la nostra fede in Dio e di farci intuire le forze del bene e del male che regnano nel mondo. Mia madre ci parlava di Bilgoray dove suo padre era rabbino e reggeva la sua comunità con grande severità. Mio fratello Joshua divenne più “mondano” e cominciò a leggere libri non sacri. Mi raccontava della Germania, della Francia, dell’America, di altre

4 Theodor Herzl (Budapest 1860-Vienna 1904): giornalista e uomo politico ebreo, fu il fondatore del Sionismo, la dottrina che predicava la formazione di uno stato laico e moderno in Palestina che riunisse gli ebrei dispersi nel mondo, in modo da fare degli ebrei una nazione come tutte le altre. Nel 1897 fondò a Basilea l’Organizzazione sionistica mondiale a Basilea. Fino alla fine della Prima Guerra mondiale, i territori della Palestina fecero parte dell’impero ottomano; dopo la guerra passarono sotto il protettorato britannico. Lo stato di Israele venne costituito nel 1948.

nazioni e razze meno conosciute, di strane credenze, usi e costumi di altri paesi. Le sue descrizioni erano vivacissime: sembrava che avesse visto con i suoi occhi quello che descriveva. Mia sorella raccontava favole romantiche in cui i nobili si innamoravano delle servette. Io vivevo con la mia fantasia. Cominciai molto presto a inventare “storie” che raccontavo ai compagni di scuola. Una volta dissi loro che mio padre era un re: e diedi tanti dettagli che loro mi credettero. Come poterono credermi, ancora non l’ho capito: io non ero certo vestito come un principe.

Nel 1914 scoppiò la Prima Guerra Mondiale. Nel 1915, quando avevo 11 anni, i Tedeschi occuparono Varsavia. Nel 1917 mi giunse all’orecchio la notizia incredibile che lo zar Nicola II di Russia era stato detronizzato: i soldati muniti di spade e fucili non lo avevano difeso: loro stessi avevano spalleggiato i rivoluzionari. Se questo era accaduto, era dunque anche possibile pensare che presto non ci sarebbero stati più né ricchi né poveri?

Ma evidentemente quel momento era ancora lontano. Nel 1917 Varsavia fu travagliata dalla piaga della carestia e del tifo. I Tedeschi prelevavano con la forza le persone dalle strade e le costringevano ai lavori forzati. La mia famiglia non aveva da mangiare. E così fu deciso che mia madre, con i figli più piccoli, Moshe ed io, sarebbe andata a Bilgoray dai nonni; a Bilgoray, infatti, la scarsezza di cibo non era ancora così tremenda. A quell’epoca avevo tredici anni, ero già perciò un Bar Mìtzvah5; ma non avevo ancora trovato risposta a nessuno dei quesiti che mi assillavano.

Reb Itchele e Shprintzada Un giorno di felicità

1963

Come faceva un povero Ebreo osservante a procurarsi del tè caldo il Sabato, quando è proibito cucinare? Nelle piccole città si teneva una bacinella d’acqua calda stilla stufa, accanto al cibo del Sabato; in città, le sale da tè tenevano l’acqua calda sulla stufa in un bollitore. Le stufe venivano accese il venerdì, prima del tramonto, in modo che l’acqua rimanesse calda durante tutto il giorno del Sabato.

5 Bar Mitzvah: (letteralmente “figlio del Comandamento”): cerimonia che sancisce il passaggio dalla fanciullezza alla maturità. Ha luogo il primo sabato dopo il tredicesimo compleanno.

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Bevendo il tè nelle sale da tè, i ragazzi e le ragazze conversavano e sorridevano. Ogni tanto si presentava un bambino con una teiera in mano chiedendo dell’acqua calda a credito – dato che il Sabato non è lecito nemmeno portare con sé denaro.

Dopo il pasto di mezzogiorno, mio padre mi mandava sempre a comprare dell’acqua calda per noi alla drogheria di Itchele. Il negozio di Itchele, che era un po’ bottega, un po’ casa e un po’ sala da tè, si trovava al numero quindici di via Krochmalna. La moglie di Itchele, Shprintza, un donnone sempre tormentato e piuttosto sporco, in stato di eccitazione perpetua, era nota per il suo buon cuore. Lavorando duramente, quella donna riusciva a mantenere una famiglia numerosa. Uno dei suoi bambini, Noè, era stato a scuola con me.

Shprintza riusciva a far tutto: portava i bambini in braccio, lavorava in drogheria, riforniva il negozio, metteva i cetrioli in conserva sotto aceto, preparava i crauti, teneva pronto il bollitore per l’acqua calda del Sabato; e con tutto questo trovava anche il tempo per le opere di carità.

Era sempre preoccupata: con un occhio sorvegliava una cliente che dimenava la mano dentro l’acqua salata, cercando di afferrare un’aringa nel fondo del barile; con l’altro occhio non perdeva di vista i bambini che volevano sempre giocare con i fagioli che stavano nei sacchi.

Shprintza era sempre forzata a fare osservazione ai clienti maleducati, che si comportavano come se la merce del negozio fosse di loro proprietà. Si muoveva per il negozio ondeggiando con l’andatura di un’anatrona, indossando sempre un grembiulone decrepito e un paio di scarpe ridotte a ciabatte. Aveva delle mani molto grandi e mascoline; la parrucca da matrona che portava in testa era sempre arruffata.

Un viaggiatore straniero che fosse entrato nel negozio avrebbe pensato che quel genere di proprietaria doveva certamente essere una donna rozza. Invece Shprintza era una donna molto bene educata e virtuosa. Dedicava la vita a mantenere la famiglia – che poi è il più alto di tutti i compiti – e, nella misura del possibile, alla causa degli Ebrei e allo studio della Torah.

Suo marito, Reb Itchele, era teoricamente un commerciante; ma in realtà passava le giornate tra la preghiera, l’organizzazione di banchetti per i chasidim6, le discussioni sui santi e lo studio della Mishnah7. Era esile e piccolino, quanto sua moglie era grande e grossa. Era altrettanto indaffarato con tutti i suoi affari di chasid quanto lo era sua moglie per tener dietro al negozio. Uomo che aspirava a fare ogni cosa subito, Itchele recitava lo Zohar8, ascoltava i racconti di Reb Meir l’Eunuco, e 6 chasidim: la parola, che in ebraico significa “pii, devoti” (sing. chasid), dà il nome a un movimento popolare di devozione sorto in Polonia nel XVIII secolo e diffusosi ampiamente soprattutto tra le comunità ebraiche dell’Europa orientale.7 Mishna: insieme delle tradizioni orali della legge ebraica, che accompagnano e completano la legge scritta (Torah). La Mishna venne messa per iscritto tra il II e il III secolo d.C. e costituisce una delle principali fonti dell’ebraismo.8 Zohar: (in ebraico, “splendore) è il più importante e più famoso testo cabbalistico, probabilmente in massima parte composto da Mosè de Leòn, castigliano, che visse tra il XIII e il

rimuginava l’interpretazione di un verso difficile mentre raccoglieva qualche moneta per i poveri.

Shprintza non si allontanava mai dai suoi barili di cetrioli sotto aceto, dai sacchi di approvvigionamento, dai fasci di legna, dai clienti. Reb Itchele, che aveva avuto i capelli rossi da giovane, aveva già la barba giallo-grigia, quando io lo conobbi. Camminava a passetti corti e rapidi. Quando pregava nella casa di studio, mangiava molte delle parole che pronunciava, ne ripeteva invece altre mentre camminava su e giù per la stanza, battendo le mani e sollevando le frange rituali velocemente fino alla fronte. Il suo orecchio attento percepiva quando era il suo turno di dire “amen”. Anche nella casa di Dio, così come alla drogheria, teneva un occhio su tutto, in modo che non gli potesse capitare di trascurare qualche atto o gesto religioso. Durante la settimana i due coniugi erano talmente indaffarati che era impossibile scambiare una parola con l’uno o con l’altra. Ma quando andavo al negozio il Sabato, con la teiera in mano, le cose erano molto diverse.

La loro famiglia viveva in un appartamentino nel retro-bottega. Se ricordo bene, avevano una stanza in tutto, dove c’era la stufa con il bollitore sopra. Ma vi era un’atmosfera di riposo da Sabato che invadeva l’intera stanza, la tavola ricoperta, la tazza per la benedizione, e il coltello da pane con l’impugnatura di madreperla.

Shprintza quel giorno portava una parrucca ben pettinata e il vestito del Sabato ricamato con arabeschi. Reb Itchele portava un soprabito di satin e un cappello col bordo di pelliccia. Avevano due bambine, molto devote, circa della stessa

età. Quando io ero ancora bambino, e molto piccolo, le bambine mi facevano ogni Sabato la stessa domanda: “Quale di noi preferiresti per moglie?” Imbarazzato dalla domanda indicavo la più bassa delle due. “Perché proprio lei?” mi chiedeva la più alta; e io rispondevo: “Perché tu sei troppo grossa”. La mia risposta provocava una risata ogni volta.

Ma a mano a mano che crescevo, la domanda mi veniva posta con sempre minor frequenza: fino a che venne il giorno in cui venni considerato troppo grande per questo tipo di scherzi. Tuttavia, quelle bambine e anche io non dimenticammo mai il giochetto che avevamo fatto da piccoli, e ci sentivamo un po’ imbarazzati e come un po’ complici quando ci trovavamo insieme.

In questa casa, come nella mia, l’Ebraismo e le attività “mondane” erano nettamente separati e non equilibrati.

Il figlio maggiore di Reb Itchele si rifiutava di studiare il Talmud9; studiò da artigiano, si tagliò la barba. Il venerdì sera, dopo che le candele per la celebrazione del Sabato erano state accese, vedevo quel ragazzo seduto nel negozio del barbiere Zeitag, che si faceva barba e capelli. Ciò era causa di indicibile dolore per Reb Itchele e

XIV sec.9 Talmud: vastissimo commento alla legge orale (Mishna), fondato sulle sentenze dei rabbini dei primi secoli dell’epoca volgare, che mira al chiarimento dei punti oscuri e allo sviluppo di un’ampia casistica etico-rituale. Esiste in due compilazioni: il Talmud palestinese (del IV sec. d.C) e il Talmud babilonese (del V sec. d.C.).

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Shprintza. Il pomeriggio del Sabato sedeva a tavola con loro, con in testa un cappello alla moda poggiato sui capelli impomatati; vestiva una giacca moderna, portava un colletto duro intorno al collo, e un finto sparato di camicia, di carta. Aveva fretta, sia per mangiare che per finire i canti che si facevano a tavola, perché voleva portar fuori la sua ragazza, condurla al cinema, la novità sensazionale delle immagini che si muovevano10. Reb Itchele evitava di guardare questo suo figlio ribelle conciato in quel modo, ma non osava cacciarlo di casa nel timore che quello che avrebbe fatto dopo, avrebbe finito col portare i genitori dritti dritti nella Geenna11.

Itchele e Shprintza non avevano molte soddisfazioni neanche dal figlio minore, Noè, quello che era stato mio compagno di scuola. È vero che Noè era solo un ragazzo ancora, ma anche lui non voleva saperne di studiare: e i genitori erano stati costretti a non mandarlo più a scuota. Si rifiutava anche di portare i riccioli12.

Ricordo in particolare un Sabato pomeriggio. Nell’entrare nel retrobottega di Reb Itchele, dissi: “Buon Sabato. Posso avere un po’ di acqua calda?”

“Perché mai devi dirci quello che vuoi?” cantilenò Reb Itchele. “Non pensi che lo sappiamo già?”

Shprintza si precipitò a difendermi: “E cosa vuoi che dica, il ragazzo?”“Buon Sabato è sufficiente.”“Buon Sabato, allora,” dissi.“Buon Sabato, buon Anno”, mi rispose Reb Itchele. “Sta scritto che quando verrà

il Messia tutti i giorni della settimana saranno un eterno Sabato.”“E allora quando si cucinerà?” chiese una delle figlie di Itchele.“E chi mai penserà a cucinare? Questo mondo sarà un paradiso. I santi, seduti alla

tavola di Dio, parteciperanno al Leviathan13 mentre staranno ad ascoltare gli angeli che diffonderanno i segreti della Torah.”

“Eva, dagli un po’ d’acqua”, disse con aria di comando Shprintza.“Che fretta c’è?” chiese Reb Itchele. “Come sta tuo padre?”

10 Le due azioni del giovane, andare dal barbiere il venerdì sera e portare al cinema la ragazza il sabato pomeriggio, sono causa di dolore per i pii genitori perché infrangono il riposo sabbatico. Come è noto, infatti, una delle principali norme della religione ebraica comanda di non fare alcuna attività profana di sabato. Gli ebrei dividono i giorni da tramonto a tramonto: dunque il venerdì sera, dopo che le candele sono state accese, è già l’inizio del sabato ed è vietato compiere o servirsi di azioni lavorative, come quella del barbiere. Allo stesso modo, è proibito andare al cinema di sabato, perché richiede il pagamento del biglietto, mentre la sacralità del sabato vieta di maneggiare denaro, come chiarisce questo stesso racconto nelle prime righe.11 Geenna: la Geenna (pronuncia gheenna), nell’antichità, era un burrone presso Gerusalemme dove venivano gettati i rifiuti della città, per distruggere i quali ardeva di continuo il fuoco. Già all’epoca di Gesù, il toponimo era divenuto sinonimo di inferno, luogo di condanna divina e dannazione.12 portare i riccioli: gli ebrei maschi più osservanti non si tagliano i peli a fianco delle orecchie e li lasciano crescere in lunghi riccioli.13 Leviathan: mostro marino, nominato nella Bibbia, simbolo delle potenze caotiche che si oppongono a Dio. Secondo il Talmud, la sua carne sarà imbandita ai giusti in paradiso.

“Così così”, risposi io.“Eh, è un uomo straordinario. È un sapiente. E tu: intendi seguire le sue orme?”“Sì.”“Che cosa fai dopo cena?”“Niente.”“Perché non studiate insieme tu e Noè? Studiare da soli va bene, ma se lo si fa in

due è ancora meglio.”“Non oggi, papà,” disse Noè.“E perché no?”“Devo andare a trovare un amico.”“E chi è questo amico? E dove vi dovreste incontrare? È scritto che quando Dio

volle concedere la sua grazia agli Ebrei, fece loro dono della Torah e dei Comandamenti. Perché non accetti il suo dono? Se qualcuno ti offrisse un sacchetto pieno di perle e monete d’oro, gli diresti forse di tenersele fino a che tu tornassi dall’aver fatto visita al tuo amico? Oro e diamanti hanno valore solo su questa terra. Quando uno muore non porta nulla con sé. Ma la Torah e i Comandamenti accompagnano una persona oltre la tomba.”

“Lo so, papà: ma il mio amico mi aspetta.”“E che cosa vuole da te? E che cosa fate tu e lui?”Io sapevo bene quel che faceva Noè. Aveva le tasche piene di bottoni decorati con

corone e aquile e giocava tutto il Sabato con quei bottoni. Poi stava anche dietro ai ragazzi che portavano al cinema le loro ragazze. Si vantava di fare ogni tanto delle belle scarrozzate aggrappato alla parte posteriore delle carrozze, il Sabato. Quali infrazioni non aveva commesso, Noè? E qui sedeva Rcb Itchele, suo padre, che lo fissava con aria di disapprovazione sotto le sopracciglia ingiallite.

“Noè, che cosa hai detto?”“Ho detto: un’altra volta.”“E va bene. Se non vuoi, fai come vuoi. Tu, Eva, da’ al ragazzo dell’acqua calda.”Eva mi prese di mano la teiera e la riempì.“Di’ a tuo padre che martedì prossimo è l’anniversario della morte del nostro

rabbino e, a Dio piacendo, ci sarà un banchetto alla memoria,” disse Reb Itchele.“Glielo dirò.”“Frequenti ancora il cheder?”“No, ora leggo il Talmud da solo.”“Hai sentito, Noè? E quale parte del Talmud stai studiando?”“La parte che parla di un uovo deposto di Sabato14.”“E capisci quello che leggi?”

14 Il Talmud consta di 63 trattati divisi in sei ordini; il settimo trattato del secondo ordine si intitola Betzah (= Uovo) e tratta dei lavori proibiti e permessi nei giorni di festa. È questo trattato l’oggetto dello studio del giovane Isaac Singer.

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“Sì, capisco. Se non capisco proprio bene qualcosa, consulto il commentario di Rashi15.”

“E quando non capisci il commentario di Rashi?”“Chiedo spiegazioni a mio padre.”“È naturale. Chiedi a tuo padre e lui ti risponderà. Ma ora cresce una generazione

che rifiuta di rivolgersi al padre. Di questi tempi il padre non conta, non sa nulla; solo i fannulloni sono furbi. Che cosa accade a un Ebreo quando abbandona la sua religione? Resta uno straniero per i Gentili16. Non possiede né questo mondo né il mondo a venire. Beh, vai, presto, l’acqua della tua teiera si starà raffreddando.”

“Ossequi a tua madre,” mi gridò dietro Shprintza.Attraverso la porta mezza nascosta da una tenda, intravedevo il negozio, dove

durante tutta la settimana i clienti si affollavano sotto le lampade a gas, ma che era in quel momento carico delle ombre del Sabato e di una immobilità che faceva rabbrividire. Tutti gli oggetti contenuti nella stanza sembravano immersi in una contemplazione da giorno di Sabato: particolarmente quelli che era proibito toccare in quel giorno di festa. Tutto emanava un senso di pace, dai pacchi di cicoria e di lievito, ai sacchi di piselli, ai fasci di legna minuta che serviva per accendere il fuoco. Dio si riposò il settimo giorno: e così facevano anche loro... Sarebbe veramente venuto il giorno in cui ci sarebbe stato soltanto un unico, eterno Sabato?

Nell’uscire, vidi Reb Meir, l’Eunuco. Quell’uomo rappresentava per me un grande enigma: era un uomo che non portava la barba lunga. Che cosa poteva apparire più strano di un Ebreo senza la barba? Inoltre, andava furi di senno per due settimane al mese, ogni mese. Quando stava male, brontolava tra sé e sé, sorrideva e si fregava le mani. Quando era in sé elargiva saggezza, citazioni dalla Torah, motti dì spirito chasidici, racconti sui Rabbini Miracolosi.

Quel giorno sembrava che fosse in sé. Mi passò davanti: portava un soprabito di satin e aveva in testa un cappello coi bordi di pelliccia. Aveva l’abitudine di starsene a pregare fino al tardo pomeriggio nella casa di studio. Solo allora se ne tornava a casa.

Ma dove era la sua casa? Certo non aveva né moglie né figli. Chi gli preparava la cena del Sabato? Chi avrebbe accolto in casa un eunuco, e per di più un po’ matto? Malgrado ciò, qualcuno lo aspettava, aveva desiderio di occuparsi di lui, di lavargli la biancheria, di preparargli il letto la sera. Da qualche parte una qualche donna pietosa si era assunta quel compito.

“Buon Sabato, Reb Meir”, gli dissi.“Buon Sabato. Avete già finito di mangiare? Ricorda a tuo padre che la settimana

prossima ricorrerà l’anniversario della morte del rabbino; e ci sarà un banchetto.”

15 Rashi: grande personalità dell’ebraismo medievale, vissuto a Troye, in Francia, tra il 1040 e il 1105, autore di importantissimi commenti alla Bibbia e al Talmud.16 gentili: non-ebrei, appartenenti alle “genti”, cioè ai popoli diversi da quello ebreo. Traduce il termine ebraico goyim (sing. goy).

E Reb Meir, l’Eunuco, se ne andò diretto a casa sua per recitare le preghiere di benedizione bevendo il vino e per cantare gli inni del Sabato. Eunuco o no, sano di mente o matto, un Ebreo è sempre un Ebreo.

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I misteri della Cabbalàda Un giorno di felicità

1963

Ci conoscevamo tutti, in via Krochmalna. Il mio amico Mendel e io passeggiavamo per la strada per ore e ore, ogni giorno: io gli tenevo una mano sulla spalla, lui teneva la sua appoggiata alla mia. Eravamo così intenti a raccontarci reciprocamente cose di ogni genere, che ci capitava spesso di inciampare in ceste di frutta o verdura: le ceste erano di proprietà delle dorme del mercato che ogni volta ci gridavano dietro: “Ehi, siete ciechi, o che cosa, voi due sbadatacci?!”

Avevo circa dieci anni. Mendel ne aveva già compiuti undici. Io ero magro, di carnagione bianca, con un naso affilato, occhi celesti, capelli rosso fuoco. I miei riccioli svolazzavano sempre come se tirasse vento; portavo la giacca sbottonata, avevo le tasche sempre piene di libri che prendevo in prestito per pochi groschen. Non solo ero in grado ormai di leggere una pagina del Talmud da solo, ma mi sforzavo anche di capire i volumi della Cabbalà che appartenevano a mio padre: senza tuttavia grandi risultati. Sulle pagine bianche in fondo a quei volumi disegnavo, con le mie matite colorate, angeli con sei ali, animali a due teste e con occhi sulla coda, demoni cornuti, facce grifagne, corpi di serpenti, zampe di vitelli. La sera, quando me ne stavo in piedi sul balcone, guardavo fisso il cielo tempestato di stelle e meditavo su che cosa c’era prima che il mondo fosse stato creato. A casa tutti dicevano che io stavo diventando un filosofo un po’ strambo, come quel professore, in Germania, che era stato li a pensare e a filosofare per anni, per poi arrivare alla conclusione che l’uomo dovrebbe camminare con la testa in giù e i piedi in su.

Il mio amico Mendel era figlio di uno che consegnava il carbone a domicilio. Ogni quindici giorni suo padre portava a casa nostra una gran cesta di carbone per le stufe, e mia madre lo pagava con un kopeco. Mendel era più alto di me, scuro di pelle come uno zingaro, e con i capelli di un nero così intenso da avere quasi dei riflessi bluastri. Aveva il naso corto e il mento col buco in mezzo e gli occhi a mandorla, come i tartari. Portava un abito di gabardine stracciato e ai piedi aveva scarpe del tutto consumate. Abitava con la famiglia in un’unica stanza, al n. 13 di via Krochmalna. Sua madre, cieca da un occhio, commerciava in terraglie in un banco dietro i mercati.

Avevamo in comune una grande passione: inventare storie fantastiche. Non ci stancavamo mai di ascoltarci l’un l’altro. In quel tardo pomeriggio di estate, mentre passavamo davanti al bazar Yamash, Mendel si fermò. Aveva da confidarmi un segreto: non era vero che suo padre fosse uno che consegnava il carbone: quella era soltanto una finzione. In realtà suo padre era più ricco dei Rotschild17. La sua famiglia possedeva un palazzo nella foresta, un castello sul mare, pieno di oro, d’argento e di

17 Rotschild: famosa e ricchissima famiglia di banchieri ebrei.

diamanti. Chiesi a Mendel come avessero fatto a diventare così ricchi, e lui mi disse: “Giura sulle frange del tuo abito che non lo dirai mai a nessuno”. Io giurai.

“Spezziamo un filo di paglia.”Trovammo un filo di paglia e, presolo ognuno da un capo, lo rompemmo,

tirandolo, in segno di amicizia. Negli occhi tartari di Mendel apparve un sorriso sognante: aprì la bocca piena di denti bianchissimi, da zingaro. E disse: “Mio padre è un ladro”. Sentii un brivido percorrermi la schiena. “E chi deruba?” chiesi. “Scava gallerie sotterranee fino alle banche e porta via l’oro che vi è depositato. Poi si nasconde nella foresta, in attesa di trarre in una imboscata i mercanti. Porta il fucile e ha la spada. Ed è anche uno stregone; può entrare dentro il tronco di un albero senza che nessuno veda quando questo si apre.”

“E allora, perché deve portare il carbone a domicilio?”“Perché la polizia non venga a scoprire nulla...” Mendel mi disse anche che suo

padre non faceva quel lavoro da solo: era a capo di una banda di milleduecento ladri, che inviava in tutto il mondo a derubare la gente e poi riportava indietro il bottino. Alcuni solcavano i mari e attaccavano le navi; altri fermavano le carovane nel deserto. Mendel aggiunse anche che, oltre a sua madre, suo padre aveva dodici concubine, che erano tutte principesse prese prigioniere. E Mendel continuò: “Quando sarò ‘Bar Mitzvah’, anch’io farò il ladro”. Diceva che avrebbe sposato una principessa che viveva di là dal fiume Sambation, che questa già lo stava aspettando nel suo palazzo per diventare sua sposa. La principessa aveva capelli d’oro che portava sciolti fino alle caviglie, e portava pantofole d’oro ai piedi. Per impedirle di fuggire, il padre di Mendel l’aveva incatenata a una colonna.

“E perché vuole scappare?” chiesi io. “Perché si strugge per sua madre.” Sapevo che erano tutte menzogne e, anzi, mi accorgevo anche da quali libri provenivano le varie parti del suo racconto: tuttavia la sua storia m’incatenava ugualmente. Stavamo in piedi vicino al mercato del pesce dove carpe, lucci, ghiozzi guizzavano in mastelli d’acqua Era giovedì e le donne compravano pesce per le celebrazioni del Sabato. Un mendicante cieco, che portava un paio di occhiali neri e aveva la barba grigia che sembrava di bambagia, pizzicava le ti corde di un mandolino e canticchiava una canzone straziante che parlava dell’affondamento del Titanic. Sulla sua spalla stava appollaiato un pappagallo che si beccava le penne. La moglie del mendicante, giovane e agile come una danzatrice, raccoglieva le offerte in un tamburello. il sole calava sul quartiere di Wola della nostra strada: era più grande del solito, giallo come l’oro. In lontananza, dietro il sole, si vedeva una grande nuvola color giallo zolfo che mandava bagliori come un fiume in fiamme su un letto di carboni ardenti. Mi fece pensare al fiume di fuoco della Geenna, dove trovano punizione i malvagi.

Mendel e io, per quanto fossimo l’uno il migliore amico dell’altro, eravamo anche impegnati in una battaglia tra noi. Lui era geloso di me perché mio padre era rabbino e perché noi vivevamo in un appartamento di due stanze, più la cucina e il balcone. Perciò lui cercava sempre di dimostrare che era più forte, più intelligente e che sapeva anche più cose di me. Ora io stavo invece cercando di inventare una storia che fosse

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almeno altrettanto bella di quella raccontatami da Mendel, se non più bella. All’improvviso dissi: “Anch’io ho un segreto che non ti ho mai detto”. Gli occhi tartari di Mendel si riempirono di scherno: “E qual è dunque il tuo segreto?” disse.

“Giura che non lo dirai a nessuno.”Mendel giurò con un sorriso di falsità sulle labbra e mi lanciò uno sguardo che

sembrava quasi ammiccare a qualche essere invisibile.“Conosco la Cabbalà!18“ dissi.Gli occhi di Mendei si rimpicciolirono fino a diventare fessure.“Tu? E come avresti fatto a conoscerla?”“Me l’ha insegnata mio padre.”“È permesso insegnare la Cabbalà a un ragazzino?” “Io sono diverso dagli altri ragazzi.”“Beh...! E allora: che cosa hai imparato?”“So creare due piccioni dal nulla. So far sgorgare vino da una parete. So recitare

formule magiche e poi volare in aria.”“E che altro ancora?”“So fare passi lunghi sette miglia.”“E poi?”“Posso rendermi invisibile. E so trasformare i ciottoli in perle.”Mendel cominciò ad arrotolarsi un ricciolo sul dito. Tanto i miei erano arruffati,

tanto i suoi erano arricciolati e stretti come due piccole corna.“Se è così tu potresti avere più soldi dell’uomo più ricco del mondo.”“Sì, è vero.”“E allora, perché non li hai?”“Uno non ha diritto di sfruttare la Cabbalà. È molto pericoloso. C’è una formula

magica che, se pronunziata, fa sì che il sole diventi rosso come il fuoco, che il mare cominci ad agitarsi e le onde salgano fino a toccare le nuvole. Gli animali annegano; i fabbricati cascano; si apre un abisso e il mondo intero diventa buio come a mezzanotte.”

“E come dice questa formula magica?”“Tu vuoi dunque che distrugga il mondo, pronunziandola?”“N...n. . .n.. .nn, no.”“Quando sarò più grande chiederò il permesso al profeta Elia di volare in Terra

Santa. Lì vivrò tra le rovine e farò venire il Messia.”Mendel scosse la testa. Prese un pezzo di carta che era per terra sul marciapiede e

cominciò a piegarlo fino a dargli la forma di un uccello. Mi aspettavo che mi facesse molte altre domande, ma invece rimase intontito, in silenzio. Avevo inventato troppo, fuori dai limiti! Era tutta colpa di Mendel. Mi aveva portato al punto di farmi cercare

18 Cabbalà: corrente mistica ed esoterica della spiritualità ebraica, influenzata dal neoplatonismo, diffusasi dal secolo XII. I temi centrali della speculazione cabbalistica sono l natura di Dio, la derivazione dell’universo da Dio e il suo ritorno a Dio attraverso complesse mediazioni.

di mostrarmi grandissimo e potentissimo. Ero io stesso spaventato dalle mie parole. Non si ha diritto di scherzare con la Cabbalà. Poteva capitarmi ora di avere incubi orrendi durante il sonno. E così dissi: “Mendel, voglio andare a casa”.

“Andiamo”, disse lui.C’incamminammo verso la porta che dava sulla via Mirowski. Non procedevamo

più come prima con la mano uno sulla spalla dell’altro; ma stavamo uno un po’ discosto dall’altro. Invece di avvicinarci, quelle nostre invenzioni ci avevano allontanati. Mi accorsi tutt’a un tratto di come fosse lacero l’abito di Mendel. La punta dello stivaletto che aveva al piede sinistro si era aperta: sembrava una bocca spalancata e i chiodi stavano irti come denti, in quella bocca. Entrammo nella via Mirowski, che era piena di escrementi di animali, di paglia caduta dai carri dei contadini, di frutta andata a male gettata via dai fruttivendoli. Tra i due mercati della città si trovava un edificio dove veniva fabbricato il ghiaccio. Per quanto fuori fosse ancora giorno, l’edificio all’interno era illuminato da luce elettrica. Le pale giravano rapide: le cinghie di pelle dei convogliatori scorrevano svelte; segnali luminosi si accendevano e si spegnevano. Non si vedeva nessuno. Strani rumori provenivano da lì dentro. Attraverso le grate sotto i nostri piedi vedevamo celle dove l’acqua contenuta in immensi recipienti stava diventando ghiaccio. Mendel e io rimanemmo a lungo a guardare giù fissi, come due sciocchi; poi ci scuotemmo. Mi venne all’improvviso da chiedere a Mendel: “E chi pensa a darle da mangiare?” Mendel si scosse e disse: “Di che cosa stai parlando?”

“Parlo della principessina che porta le pantofole d’oro.”“Oh, c’è molta servitù, lì.”Non lontano dal secondo mercato scorsi due monete, due monete di rame da sei

groschen l’una, che giacevano una accanto all’altra sul marciapiede come se qualcuno le avesse posate lì. Mi chinai e le raccolsi. Mendel che le aveva viste anche lui, gridò ad alta voce: “Siamo soci!” Gliene diedi immediatamente una, per quanto pensassi in quello stesso istante che, se fosse stato lui al mio posto, non avrebbe fatto altrettanto. Mendel scrutò la moneta in ogni sua pane e poi disse: “Se sai trasformare i ciottoli in perle, a che ti serve una moneta da sei groschen?”

Avrei voluto chiedergli: e se tuo padre è un ladro tanto ricco, a che serve, a te, una moneta da sei groschen? Ma qualcosa mi trattenne. Di colpo mi accorgevo di come la sua pelle fosse giallastra e che zigomi alti avesse. Qualcosa di quella faccia mi parlava; ma non afferravo che cosa cercava di dirmi. Aveva i lobi delle orecchie attaccati alle guance; i lati delle sue narici erano rialzati e ricadevano giù come quelli dei cavalli. Aveva gli angoli della bocca piegati per l’invidia e i suoi occhi neri si facevano beffa di me. Mi chiese: “Che cosa comprerai, con la tua moneta? Dolci?”

“La darò per elemosina”, risposi.“Ecco qui un mendicante”, disse lui.Lì, in mezzo al marciapiede, su di una tavola con delle rotelle, stava seduto un

mezzo uomo: pareva come se fosse stato tagliato in due. Con ognuna delle due mani teneva stretto un pezzo di legno avvolto in stoffa, e lui ci si appoggiava. Aveva un

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cappello a visiera calato sugli occhi, e indossava una giacca lacera. Portava attaccata al collo una specie di tazza in cui raccoglieva le elemosine. Sapevo bene che cosa avrei potuto comprare con una moneta da sei groschen: matite colorate, libri, halva19: ma un minimo di dignità mi costrinse a non esitare. Lo storpio, forse nel timore che io potessi cambiar parere e chiedergliela indietro, corse via sulle sue rotelle così rapidamente che fece quasi cadere un passante.

Le sopracciglia di Mendel si congiunsero: “Quando studi la Cabbalà? Di notte?” mi chiese.

“Dopo mezzanotte” risposi.“E allora, cosa succede in cielo?”Alzai gli occhi al cielo: era rosso, con delle strisce nere e blu nel mezzo, come se si

annunciasse un temporale. Due uccelli si alzarono in volo, stridendo e chiamandosi a vicenda. Era salita in cielo la luna. Solo un momento prima era giorno. Ora era scesa la sera. Le donne dietro i loro banchi, per strada, riponevano le loro mercanzie. Un uomo con un lungo bastone in mano passava di lampione in lampione, fermandosi ad accendere le fiammelle a gas. Avrei voluto dare una risposta a Mendel, ma non sapevo che cosa dirgli. Mi vergognavo di quello che avevo inventato sulla mia grandezza, come se all’improvviso fossi diventato adulto. Dissi perciò: “Mendel, basta con tutte queste menzogne.”

“Di’ un po’, che ti succede?”“Io non studio la Cabbalà e tuo padre non è un ladro.”Mendel si fermò: “Perché ti arrabbi tanto?” disse. “Forse perché hai dato a quel

poveraccio la moneta che avevi trovato?”“Non sono arrabbiato. Se uno ha un palazzo nella foresta, non trasporta carbone

dalla mattina alla sera per conto di Hain Leib. E la tua ragazza con le pantofole d’oro non esiste. È tutta una favola.”

“Così, vuoi litigare eh? Non pensare che solo perché tuo padre è rabbino io ti debba adulare. Può darsi che io abbia mentito, ma tu non saprai mai la verità.”

“E che cosa c’è da sapere? Hai inventato tutto.”“Io diventerò un brigante, un vero brigante.”“E così ti abbrustoliranno nella Geenna.”“E lascia che mi abbrustoliscano. Tanto io sono innamorato!”Lo guardai sconvolto: “Adesso menti di nuovo”.“No, è la verità. Se non è vero, che Dio mi colpisca a morte sull’istante.”Sapevo che Mendel non avrebbe fatto un giuramento simile a vuoto. Mi sentii

gelare, come se delle dita di ghiaccio mi avessero all’improvviso toccato le costole. “Innamorato di una ragazza?”

“E di chi, allora? Di un ragazzo, forse? Sì, abita nel nostro cortile. Ci fidanzeremo. Andremo in America, da mio fratello.”

“Ma... non ti vergogni?”

19 halva: dolce orientale di pasta leggera.

“Anche Giacobbe s’innamorò. E baciò Rachele. Sta scritto nella Bibbia.”“Cacciatore di ragazze!”E mi misi a correre. Mendel mi gridò dietro qualcosa; pensai persino che mi

rincorresse. Corsi fino a che raggiunsi la casa di studio di Radzymin. Vicino alla porta stava pregando il padre di Mendel; era alto, magro, con un pomo d’Adamo molto sporgente, la schiena incurvata e la faccia color carbone, come gli spazzacamini. Portava una fune intorno ai fianchi. Scuoteva la testa, s’inchinava e si batteva il petto. Pensai che stesse chiedendo a Dio pietà per le bestemmie di suo figlio.

Contro la parete del lato est stava in piedi mio padre, col suo vestito di velluto, con in testa un cappello dai bordi ricamati e una fascia bianca attraverso il petto. Toccava la parete con la testa mentre si sporgeva in avanti e indietro. Una sola candela bruciava nella menorah20. No, decisamente non conoscevo la Cabbalà. Ma sapevo bene che quello che mi stava accadendo quella sera era tutto avvolto nel mistero. Provai una tristezza profonda, una tristezza che non avevo mai provato prima. Quando mio padre finì di recitare le preghiere, mi diressi verso di lui e gli dissi che gli volevo parlare.

All’udire il mio tono serio, mio padre alzò su di me lo sguardo dei suoi occhi celesti e disse: “Di che cosa si tratta?”

“Papà, voglio chiederti di insegnarmi la Cabbalà.”“Ah, si tratta di questo? È proibito studiare la Cabbalà alla tua età. Sta scritto che i

misteri contenuti nella Cabbalà non devono essere palesati a nessun uomo prima che abbia trent’anni.”

“Papà, li voglio conoscere ora.”Mio padre cominciò a toccarsi la barba rossiccia e disse: “E perché tanta fretta?

Puoi essere un giusto anche non conoscendo la Cabbalà”.“Papà, forse che si può distruggere il mondo pronunciando una formula magica?”“Gli antichi santi potevano tutto. Noi, non siamo capaci di nulla. Vieni, andiamo a

casa.”Oltrepassammo il cancello: Rebecca, la figlia del fornaio, stava li con i suoi cesti

pieni di panini freschi, di pane e di ciambelle ancora calde. Le donne compravano quelle delizie appena sfornate: e si sentiva scricchiolare la crosta.

Mio padre e io uscimmo sulla strada, ora illuminata dalla luce giallognola dei lampioni a gas. Tra due camini da cui uscivano fumo e scintille stava appesa nel cielo una luna grandissima color rosso-sangue.

“È vero che c’è gente che ci abita, nella luna?” chiesi.Mio padre stette zitto per un po’. “Che cosa te lo fa pensare? Nulla è dato sapere.

La Cabbalà è solo per cervelli forti. Quando i piccoli deboli cervelli si immergono nella Cabbalà, possono facilmente impazzire.”

20 Menorah: il caratteristico candelabro ebraico a sette braccia.

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Le parole di mio padre m’impaurirono. Mi sentii vicino alla pazzia. Mio padre disse: “Non sei che un ragazzo, ancora. Quando, a Dio piacendo, sarai cresciuto, ti sarai sposato e avrai più buon senso, allora vedrai quello che riuscirai a fare”.

“Io non mi sposerò”, dissi.“Anche questo? Che cosa vuoi, rimanere scapolo? È scritto: Non lo creò invano.

Lo formò perché fosse abitato21. Crescerai, incontrerai una ragazza e ti fidanzerai con lei.”

“Quale ragazza?”“E chi lo può sapere prima?”In quel momento capii il perché della mia tristezza. La strada pullulava di ragazze

e io non sapevo quale di loro sarebbe stata un giorno la mia fidanzata. Anche lei, quella che mi era destinata, non lo sapeva. Poteva darsi che tutti e due comprassimo caramelle al medesimo negozio, che c’incontrassimo, che ci guardassimo, senza sapere che un giorno saremmo stati marito e moglie. Cominciai a guardare tra la folla. La strada era piena di bambine della mia età, qualcuna un po’ più piccola, altre un po’ più grandi. Una camminava leccando un cono gelato. Un’altra mordicchiava una torta al formaggio nel negozio di dolci di Ester, tenendo il pezzo di torta tra il pollice e il medio, col nasino roseo rivolto elegantemente all’insù. Una ragazzina aveva libri e quaderni sotto il braccio, fiocchi rossi sulle treccine, una sottana a pieghe e un grembiule nero, calze nere: sembrava una bambola. Le strade erano impregnate dell’aroma delle ciambelle fresche, di brezze che venivano Vistola e dalla foresta di Praga22. Attorno ai lampioni, miriadi di creature alate – falene, farfalle, zanzare – si dimenavano, ingannate dalla luce che faceva loro credere che fosse giorno. Guardavo ai piani alti delle case, dove le bambine stavano affacciate ai balconi, sporgendosi fuori dalle finestre. Parlavano, cantavano, ridevano. Ascoltavo il rumore delle macchine da cucire, il suono di un grammofono. Dietro una finestra vidi la sagoma scura di una ragazza: pensai che mi stesse fissando attraverso le tendine. E dissi a mio padre: “Papà, si può sapere consultando la Cabbalà con chi ci si fidanzerà?”

Mio padre si fermò: “E perché lo vuoi sapere? Lo sanno in cielo e questo è sufficiente.”

Per un po’ camminammo in silenzio. Poi mio padre mi chiese: “Figlio mio; che cosa ti è successo?”

Tutti i lampioni s’inchinarono e si appannarono davanti ai miei occhi, mentre questi si riempivano di lacrime. Dissi solo: “Non lo so, papà.”

“Stai crescendo, figliuolo. Ecco quel che li succede.”All’improvviso mio padre fece qualcosa che non aveva mai fatto prima: si chinò e

mi diede un bacio sulla fronte.

21 La citazione biblica si riferisce al mondo e quindi alla necessità della procreazione.22 Praga: non si tratta della città boema, ma di un sobborgo di Varsavia.

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Introduzione per i lettori italianial libro di racconti “Alla corte di mio padre”

1962

Alta corte di mio padre o Beth Din, come è intitolato questo libro nell’originale yiddish, è, in un certo senso, un esperimento letterario. È un tentativo di accordare due stili, quello dei ricordi e quello delle belle lettere, e il suo modo di descrivere e di rendere le situazioni differisce da quelli usati nei miei altri scritti. I capitoli di questo libro sono stati precedentemente pubblicati in una serie sul Jewìsh Daily Forward, sotto il mio pseudonimo di giornalista, Isaac Warshawsky. Ne avevo avuto l’idea da molto tempo: fin da quando ero giovanissimo, avevo pensato di scrivere i miei ricordi sul Beth Din. Soltanto dopo la pubblicazione della serie sul giornale, stabilii di presentarli in forma di libro, sotto il mio vero nome, perché rappresentavano una vita e un ambiente che non esistono più e sono unici al mondo.

Questo libro racconta la storia di una famiglia e di un tribunale rabbinico così legati fra loro che era difficile dire dove cominciasse l’una e dove finisse l’altro. Il tribunale rabbinico, il così detto Beth Din, è un’antica istituzione presso gli ebrei. Ebbe inizio quando Jetro consigliò a Mosè di “scegliere fra tutto il popolo uomini di valore, che temano Dio, uomini di fiducia, che detestino la cupidigia... e lasciare che essi giudichino il popolo in ogni stagione”. C’è una linea diretta tra il Beth Din di oggi e i commentatori talmudici, Geonim, i principi, Amoraim, Tannaim23, uomini della grande sinagoga, e il sinedrio24. Il Beth Din era una specie di mescolanza fra un tribunale, una sinagoga, una scuola e, se volete, uno studio di psicanalista dove le persone con l’animo turbato potevano andare a sfogarsi. Il fatto che un simile miscuglio non fosse soltanto possibile, ma necessario, è stato dimostrato dalla continua esistenza del Beth Din, per molte generazioni.

Sono convinto anzi che il tribunale del futuro sarà basato sul Beth Din, purché il mondo progredisca moralmente, invece di andare indietro.

Il Beth Din, tuttavia, sta scomparendo in fretta. Io credo che sarà ripristinato, evolvendosi in un’istituzione universale. Questo è il concetto che racchiude: non ci può essere giustizia senza sentimento di religione, e il giudizio migliore è quello accettato da tutti i contendenti, con buona volontà e fiducia nella potenza divina.

L’opposto del Beth Din è costituito da tutte le istituzioni che impiegano la forza, sia dì destra, sia di sinistra.

Il Beth Din poteva esistere soltanto fra persone dotate di fede profonda e di umiltà, e raggiunse l’apice fra gli ebrei quando essi furono completamente privati d’influenza e di potere terreno. L’arma del giudice era il fazzoletto che i contendenti toccavano, 23 Si tratta delle scuole rabbiniche che, nei primi secoli della nostra era, hanno prodotto il Talmud.24 sinedrio: tribunale ebraico attivo in Palestina fino al 425 d.C.

per indicare il loro “Sì” al giudizio. Non ho cercato di idealizzare il Beth Din, né di attribuirgli condizioni e atteggiamenti che non facessero parte della mia esperienza diretta. Il Beth Din non differiva soltanto da una generazione all’altra, ma ogni rabbino che vi partecipava lo coloriva con il proprio carattere e la propria personalità. Soltanto ciò che è individuale può essere giusto e vero.

Qualche volta penso che il Beth Din sia un. infinitesimo esempio del consiglio celeste di giustizia, il giudizio di Dio, che gli ebrei considerano come assoluta misericordia.

Perché le oche gridavanoda Alla corte di mio padre

In casa nostra si parlava spesso di spiriti dei morti che si impossessano dei corpi dei viventi, di anime che si reincarnano negli animali, di case abitate da folletti, di cantine frequentate da demoni. Mio padre ne parlava prima di tutto perché queste cose lo interessavano, e, secondariamente, perché – pensava – in una grande città i bambini “si perdono” con tanta facilità: vanno di qua e di là, vedono di tutto, leggono libri non-sacri. È perciò necessario ricordare loro di tanto in tanto che ci sono ancora forze misteriose e soprannaturali che lavorano nel mondo

Un giorno – io avevo otto anni – ci raccontò una storia che aveva tratto da un libro sacro. Se non sbaglio, l’autore del libro era il Rabbino Eliyahu Graidiker, o comunque uno dei saggi Graidiker. Trattava di una bambina posseduta da quattro demoni: si diceva che si poteva vederli strisciare attorno ai suoi intestini, farle gonfiare la pancia, gironzolare di qua e di là per il suo corpo, scivolando poi nelle sue gambe. Il rabbino di Graidik aveva esorcizzato quegli spiriti maligni soffiando in un corno di ariete, praticando incantesimi vari e spargendo incenso tratto da erbe magiche.

Quando mio fratello Joshua chiese spiegazioni, mio padre si arrabbiò e si eccitò. “Allora,” disse, “forse il gran rabbino di Graidik – Dio ce ne guardi – è un bugiardo? Forse che tutti i rabbini, i santi e i saggi sono degli imbroglioni, mentre solo gli atei dicono la verità? Poveri noi! Come si può essere così ottusi?”

All’improvviso si aprì la porta ed entrò una donna che portava un cesto con dentro due oche. La donna sembrava spaventata. La sua parrucca, da donna sposata osservante, era tutta fuori posto, da una parte. Sorrideva nervosamente.

Mio padre non guardava mai le donne estranee, perché è proibito dalla legge ebraica; invece mia madre e noi bambini ci rendemmo immediatamente conto che qualcosa di grave aveva messo in quello stato la visitatrice inaspettata.

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“Che cosa succede?” chiese mio padre, sempre senza guardarla, volgendole le spalle.

“Rabbino, mi capita una cosa molto insolita.”“Di che si tratta?”“Si tratta di queste oche.”“E che cos’hanno, se è lecito?”“Caro Rabbino, queste oche sono state macellate come prescritto. Poi ho tagliato

loro la testa e ho tirato fuori gli intestini, il fegato e tutti gli altri organi: ma queste continuavano a gridare in un modo così straziante...”

Nell’ascoltare quelle parole mio padre impallidì; una paura tremenda mi piombò addosso. Mia madre, invece, che veniva da una famiglia di razionalisti ed era scettica per natura, disse: “Le oche sgozzate non gridano, andiamo”. Allora la donna disse: “Ascolti lei stessa”.

Prese una delle oche e la posò sul tavolo. Poi prese la seconda. Le due oche erano senza testa, sventrate - insomma, a farla breve, si trattava di due normali oche morte.

Un sorriso spuntò sulle labbra di mia madre, nel vederle:“E queste oche griderebbero, secondo lei?”“Sentirà, sentirà, signora, e presto.”Così dicendo la donna prese con la mano una delle due oche e la gettò con

violenza verso l’altra. Subito si udì un grido: non è facile descrivere quel tipo di grido stridulo: era come lo schiamazzo di un’oca, ma con un’intonazione così strana, paurosa, soprannaturale, con tali gemiti e scosse, che mi si gelò il sangue nelle vene.

Mi sentivo drizzare i capelli in testa.Avrei voluto scappar via dalla stanza: ma dove sarei potuto andare? Avevo la gola

stretta per la paura. Così gridai anch’io e corsi ad attaccarmi alle sottane della mamma, come un bambinetto di tre anni.

Mio padre in quel momento dimenticò che ci si deve astenere dal guardare una donna. Corse verso la tavola e non era certo meno impaurito di me. Gli tremava la barba rossiccia e negli occhi celesti aveva uno sguardo misto di paura e di vendetta. Per mio padre questo voleva dire che anche a lui, e non soltanto al rabbino di Graidik, venivano inviati dei segni premonitori dal cielo. O forse questo segno era mandato invece dal Demonio, da Satana in persona?

“Che cosa ne dice, ora?” chiese la donna.Mia madre non sorrideva più, ora. Aveva negli occhi uno sguardo frammisto di

tristezza e di rabbia.“Non riesco a capire che cosa stia succedendo qui,” disse con un tono un po’

risentito.“Vuole sentire di nuovo quel grido?”E la donna rilanciò un’oca contro l’altra. E di nuovo le oche morte e sventrate

emisero un grido lacerante – il grido di un animale colpito dal coltello di chi lo sta uccidendo e che ha tuttavia ancora forza vitale; il grido di un essere che ha ancora un

conto aperto con la vita e delle ingiustizie da vendicare. Un brivido gelido mi percorse tutto: mi sembrò come se qualcuno mi avesse percosso con tutte le sue forze.

La voce di mio padre si fece fioca e rauca: una voce come rotta da singhiozzi: “Beh,” chiese, “qualcuno di voi osa ancora dubitare che vi sia un Creatore?”

“Rabbino, dimmi: che cosa devo fare e dove devo andare?” implorava la donna, con una cantilena lamentosa. “Che cosa mi è capitato? Povera me! Che devo fare di queste oche? Forse dovrei precipitarmi da un Rabbino Miracoloso? Forse non le ho uccise nel modo giusto? Ho paura di riportarle a casa. Volevo prepararle per il pranzo del Sabato, e ora doveva capitarmi questa disgrazia! Rabbino Santo, che cosa devo fare? Le devo buttare via? Qualcuno mi ha detto che dovrebbero essere avvolte in un sudario ed essere tumu-late in una tomba. Ma io sono povera. Due oche! Mi costano un occhio della testa!”

Mio padre non sapeva che cosa rispondere. Guardò verso la libreria e pensò: "Se c’è una risposta di qualche genere da qualche parte, quella risposta è li".

All’improvviso si volse verso mia madre e con aria arrabbiata le chiese: "E allora, che cos’hai da dire, adesso?"

La faccia di mia madre si faceva sempre più imbronciata, più piccola, più aguzza. Gli occhi erano pieni di indignazione e di qualcosa che assomigliava a vergogna.

“Voglio sentire quel grido di nuovo", disse con una voce tra il supplichevole e l’imperativo.

Per la terza volta la donna lanciò le oche una contro l’altra, e per la terza volta i gemiti si fecero udire, acuti. Mi venne in mente che quel suono doveva essere simile a quello della giovenca sull’altare del sacrificio.

"Oh, oh! E questi ancora bestemmiano... È scritto che i malvagi non si pentono neanche alle porte dell’inferno." Mio padre aveva ritrovato la parola. "Vedono la verità con i loro stessi occhi, e rinnegano il loro Creatore. Sono trascinati nell’abisso senza fondo, e malgrado ciò continuano ad affermare che tutto è natura, che tutto è caso...”

Guardò verso mia madre come per dirle: "E tu sei come loro".Seguì un lungo silenzio. Poi la donna chiese: "È forse tutto frutto della mia

immaginazione?"Mia madre all’improvviso si mise a ridere. Ma c’era qualcosa, in quella sua risata,

che ci fece tremare tutti. Qualche cosa come il sesto senso mi diceva con certezza che mia madre stava preparando il finale di quel possente dramma recitato sotto i nostri occhi.

"Avete asportato la laringe alle oche?" chiese mia madre."La laringe? No, veramente no...”"Asportatela," ripeté mia madre "e vedrete che le oche non grideranno più.”A questo punto mio padre si arrabbiò davvero: "Che cosa balbetti? Di che cosa

parli? Che cos’ha a che fare questo con le laringi delle oche?”Mia madre allora afferrò con le mani una delle oche, infilò nel suo corpo una delle

sue esili dita e con tutte le forze estrasse il tubo sottile che va dal collo ai polmoni. Poi

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afferrò l’altra oca e strappò la laringe anche a lei. Io stavo in piedi, tremante, stupefatto dal coraggio di mia madre. Le sue mani adesso erano sporche di sangue. Sul suo viso era dipinta l’indignazione del razionalista cui qualcuno ha tentato di far paura in pieno giorno.

La faccia di mio padre si sbiancò; divenne più calmo: era un po’ mortificato. Si rendeva conto di quello che era successo: la logica, la fredda logica, aveva ancora una volta abbattuto la fede, l’aveva svilita, presa in giro, fino a ridicolizzarla.

"E adesso, se lei vuole avere la cortesia di gettare una di quelle oche contro l’altra!" ordinò mia madre in tono severo alla donna.

Sulla mia bilancia, tutto era sospeso: se le oche avessero gridato, mia madre avrebbe perduto tutto: la sua audacia di razionalista, il suo scetticismo che le derivava dal padre intellettuale. E io? Per quanto fossi terrorizzato, pregavo dentro di me con tutte le forze perché le oche gridassero, gridassero così forte che la gente, per strada, potesse udirle e correre su. Ma purtroppo le oche non gridarono: stettero zitte come solo due oche morte e senza laringe possono stare.

“Portami un asciugamano”, disse mia madre rivolgendosi a me. Corsi a prenderle un asciugamano. Avevo gli occhi pieni di lacrime. Mia madre si pulì le mani nell’asciugamano con il gesto di un chirurgo dopo un’operazione difficile.

“Ecco quello che era!” annunciò con fare vittorioso.“Rabbino, che cosa ne dici tu?” chiese la donna.Mio padre tossicchiò, balbettò qualcosa: si fece vento con il suo copricapo.“Non ho mai sentito niente di simile prima, in vita mia”, disse finalmente.“Neanche io,” fece eco la donna.“E nemmeno io,” disse mia madre. “Ma c’è sempre una spiegazione a tutto. Le

oche morte non gridano: questo è un fatto.”“Posso andare a casa, adesso, a cucinarle?” chiese la donna.“Va’a casa e preparale per il pranzo del Sabato.” Mia madre annunciò il verdetto

con voce perentoria. “E non avere paura: non grideranno nel tegame.”“Che cosa ne dici, Rabbino?”“Hemm, hemm... sono kosher25, si possono mangiare,” mormorò. Non era proprio

convinto di quel che stava dicendo; ma non poteva sentenziare che le oche erano impure.

Mia madre se ne tornò in cucina. Io restai con mio padre. A un tratto si mise a parlare con me come se si rivolgesse a un adulto. “Tua madre ha preso da tuo nonno, il rabbino di Bilgoray. Lui è un grande studioso, ma è un freddo razionalista. Me lo avevano detto, prima che ci fidanzassimo...”

E mio padre alzò le mani giunte come per dire: “È troppo tardi, ormai, per disdire il matrimonio”.25 Koslrer: in ebraico, “proprio, giusto, adatto”: ciò di cui è permesso l’ uso secondo la Legge ebraica. Il termine si riferisce soprattutto ai cibi, poiché parecchi animali sono considerati impuri e quindi immangiabili. L’impurità può essere anche determinata dalla macellazione impropria di un animale altrimenti puro.

Il segretoda Alla corte di mio padre

La porta della cucina si aprì e entrò una donna che portava un fazzoletto sulla testa (una cosa rara, a Varsavia), con un viso giallastro, il naso grosso, le labbra pesanti e gli occhi gialli. In tutto il suo aspetto c’era qualcosa di ordinario, da persona di basso ceto. Il suo seno sporgeva in fuori come un balcone. Un ampio grembiule le ricopriva il petto e il ventre. Le sue scarpe erano informi. Sembrava una domestica o una povera donna che avesse un banchetto al mercato. Le donne della sua classe di solito domandavano subito se il rabbino era in casa e la mamma le mandava nell’altra stanza. Ma questa donna rimase in piedi accanto alla porta e guardò la mamma con occhi interrogativi, imploranti. La mamma le andò incontro lentamente.

“Desidera fare una domanda rituale?”“Carissima Rebbetzin26, non so io stessa che cosa voglio. Anima purissime, devo

scoprire il mio cuore a qualcuno. Non posso più soffocare tutto questo dentro di me. Che lei possa essere preservata da ogni male: mi sento soffocare. Qui, proprio qui...”

La donna indicò la sua gola. Nello stesso tempo si mise a singhiozzare. Sembrava che il pianto esplodesse fuori di lei e in un minuto il suo viso era diventato rosso, umido, inondato di lacrime. Io ero seduto su uno sgabello in un angolo e stavo leggendo un libro di novelle. Capii immediatamente che stavo per sentire un racconto insolito. Mia madre, a quanto sembrava, aveva dimenticato la mia presenza e l’altra donna non mi aveva notato. Ella cominciò a parlare.

“Carissima creatura, io ho peccato. Il mio cuore è spezzato...”Ricominciò a singhiozzare e si soffiò il naso nel grembiule. I suoi occhi divennero

un misto di pianto e di riso, come succede sempre quando una persona piange con grande intensità. La mamma la fece sedere sul baule, che serviva anche da banco.

“Se una persona si pente con sincerità del proprio peccato, Dio accetta la penitenza.” La mamma parlava alla maniera di un dotto. Conosceva il testo della Bibbia anche meglio di mio padre. Aveva dimestichezza anche con libri difficili come I doveri del cuore e Il sentiero del giusto, non nella traduzione, ma nell’originale ebraico. Conosceva un vero oceano di leggi e poteva citare centinaia di detti rabbinici e parabole omiletiche. Le sue parole avevano un peso.

“Come posso far penitenza, mentre il pagano è ancora in vita?” La donna parlava e singhiozzava. “Chi sa se non è lui stesso un oppressore di ebrei? Chi sa se non picchia gli ebrei? Di che aiuto può essere il rimorso per me? Ogni volta che vedo un accalappiacani, un ubriacone, temo che possa essere lui. Oh, Rebbetzin, la mia afflizione è grande! Di notte non posso dormite. Più invecchio, più la cosa peggiora. Mi agito nel letto, e non riesco a chiudere occhio. Come sarebbe stato meglio se non fossi mai nata...”26 Rebbetzin: signora, in yiddish.

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La mamma rimaneva silenziosa e io vedevo, dalla sua faccia, che capiva. Ma non riuscivo a spiegarmi che cosa stesse succedendo. Ma compresi presto di che cosa si trattava.

Molti anni prima la donna aveva abbandonato un figlio illegittimo. Era stata sedotta da un uomo. Aveva lasciato il bambino in un cesto vicino a una chiesa, e quand’era tornata, poche ore dopo, non l’aveva più trovato. Probabilmente era stato portato in un orfanotrofio, o lo sapevano i neri demoni, che cosa era successo a lui. Lei era una povera ragazza, un’orfana. Aveva paura di fare indagini e aveva costretto se stessa a dimenticare. Qualche anno dopo si era sposata e aveva avuto altri figli.. Adesso era nonna. Aveva lavorato duramente per tutta la vita, ed era quasi riuscita a dimenticare la sua disgrazia. Ma, a mano a mano che diventava vecchia, questa la tormentava sempre di più. Era la madre di un “gentile”! Chi poteva saperlo? Forse era il poliziotto della strada? Forse era malvagio, un altro Framan? Forse aveva messo al mondo una quantità di pagani, maschi e femmine? Sventurata lei e sventurata la sua vecchiaia! Come avrebbe difeso se stessa nell’altro mondo? Maledetto il giorno in cui si era lasciata convincere a compiere quel male! La sua vita era una tortura senza fine. Si vergognava di entrare in una sinagoga. Era impura, contaminata. Come poteva, una come lei, osare di pregare? Avrebbero dovuto sputarle addosso. Se Dio avesse voluto mandare l’angelo della morte a liberarla...

La donna proruppe di nuovo in gemiti e lamenti. Mia madre era pallida, aveva le labbra strette. Il fatto che non tentasse immediatamente di consolare la donna mi indicava quanto grave fosse il peccato che ella aveva commesso.

Alla fine la mamma parlò. “Che cosa può fare? Soltanto pregare l’Onnipotente.” E dopo un po’ aggiunse: “Anche nostro padre Abramo produsse nazioni gentili.”

“Rebbetzin, crede che dovrei parlare con il rabbino?”“Come potrebbe aiutarla? Dia denaro in opere di carità. Se è abbastanza robusta,

digiuni. Ma non può fare nulla che le sue forze non le consentano.”“Rebbetzin, la gente dice che quei bambini diventano vigili del fuoco e non

ottengono mai il permesso di sposarsi, perché siano sempre pronti a accorrere per un incendio in caso di chiamata.”

“Che cosa? In questo caso, egli non sarebbe il padre di miscredenti, almeno.”“Rebbetzin, ora egli avrebbe circa quarant’anni. Qualcuno mi ha detto che, se io

accendessi quaranta candele e recitassi un incantesimo segreto, egli morirebbe.”Mia madre rabbrividì.“Chi le ha detto questo? La vita e la morte sono nelle mani di Dio. E, dopo tutto,

non è colpa del figlio. In che cosa è colpevole? C’è un’espressione talmudica per i casi come il suo: ‘Un bambino fatto prigioniero’. Egli non deve essere biasimato. Non ci furono forse molti bambini ebrei battezzati per forza, ai tempi di Chmielnickij? L’Onnipotente tiene il conto. Chiunque le abbia parlato delle candele non sa quel che si dice. Non è permesso pregare per la morte di nessun essere umano, tranne quando si sa con certezza che è una persona perfida e commette il male.”

“Come potrei saperlo? Io (che Dio abbia pietà di me) so soltanto che la mia vita è buia e amara. Cammino per le strade e fisso i ‘gentili’. Se il mio cuore non si spezza, dev’essere più forte del ferro. Cammino da una strada all’altra e ogni ‘gentile’ che passa mi sembra mio figlio. Vorrei correre da lui e interrogano, ma ho paura. La gente penserebbe che sono impazzita. Come poi io non sia diventata matta davvero, Dio solo lo sa. Rebbetzin, se qualcuno dovesse leccare il mio cuore, ne resterebbe avvelenato! “

“Probabilmente lei ha già espiato il suo peccato.”“Che devo fare? Mi dia un consiglio!”“Come accadde? Dov’è il padre?”La donna cominciò a raccontare una storia, di cui non ricordo più i particolari. Ella

era stata a servizio presso una famiglia agiata. Aveva conosciuto un operaio, che le aveva promesso di sposarla. L’aveva sedotta con la lingua falsa e i suoi discorsi pronti. Quando aveva saputo che era incinta, era scomparso. Forse che un uomo si preoccupa di cose simili? Qualche anno dopo, aveva sposato un vedovo. La donna si mise a parlare adagio, quasi a bisbigliare. La mamma annuiva con il capo. Dopo un po’, fu stabilito che avrebbero chiesto il consiglio di papà, ma la mamma sarebbe andata prima da lui, a spiegargli la faccenda. La donna rimase in cucina. La mamma entrò nello studio di papà.

Non passò molto tempo, prima che mio padre sospirasse: via Krochmalna non gli dava pace; si scagliava di continuo su di lui con i suoi tumulti, le sue sregolatezze e la sua volgarità.

Poi anche la donna andò nello studio. Papà aveva preso un mucchio di libri dalla biblioteca; cercava, scrutava, voltava le pagine, si torceva la barba. Nei suoi libri santi, aveva spesso letto di assassini, rapinatori, ladri, uomini depravati, seduttori; ma lì, nei libri, essi facevano parte della legge. Le loro storIe, espresse nella lingua santa, scritte con la scrittura sacra, conservavano il profumo della Torah. Ma, dette nel comune yiddish dì Tutti i giorni, simili cose suonavano proprio differenti. Una donna di via Krochmalna aveva abbandonato un bambino. Egli era stato battezzato, era divenuto un ‘gentile’. I libri sacri descrivevano l’espiazione per un simile peccato, ma la donna sarebbe stata disposta a intraprendere una tale penitenza? E non sarebbe stata superiore alle sue forze? La generazione di oggi era debole. Papà aveva paura di spingersi troppo oltre, provocando magari una malattia nella donna. Allora egli avrebbe commesso un peccato più grande del suo.

Io stavo in un angolo dello studio e sentivo mio padre interrogare la donna. Aveva il cuore in buone condizioni? Soffriva di qualche malattia? Non aveva, a esempio, una tosse persistente? Alla fine papà le prescrisse questa penitenza: astenersi dalla carne durante i giorni della settimana e digiunare il lunedì e il giovedì, se la sua salute glielo permetteva; recitare i Salmi, dare denaro a opere caritatevoli. La donna aveva ricominciato a piangere e a lamentarsi di nuovo, e papà la confortava. Naturalmente, si dovrebbero evitare i peccati, ma c’è sempre il modo di rettificare un errore. L’uomo deve fare quanto è in suo potere, e per il resto affidarsi al Creatore, perché “da lui non

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procede il male”. Perfino ciò che sembra cattivo, può alla fine diventar buono. In realtà, il male non esiste. Papà paragonava il mondo a un frutto e al suo guscio. Il guscio non si può mangiare. Un bambino sciocco può credere che il guscio sia inutile, invece è stato fatto per proteggere il frutto. Senza il guscio il frutto marcirebbe o sarebbe mangiato dai vermi. Perciò, anche le nazioni ‘gentili’ sono necessarie. Sta perfino scritto che Dio offrì la Torah prima a Esaù e a Ismaele e, soltanto quando essi la rifiutarono, la offrì agli ebrei. Alla fine dei giorni, anch’essi avrebbero riconosciuto la verità e i giusti delle nazioni ‘gentili’ sarebbero entrati in paradiso.

Le parole di papà scioglievano il cuore della donna come cera, secondo il modo di dire. Il suo pianto diventava sempre meno intenso e ora c’era in esso qualcosa di gioioso. Guardava. papà con occhi scintillanti. In sostanza, egli le aveva detto esattamente le stesse cose che la mamma aveva già detto, ma in un certo senso le sue parole sembravano più calde, più intime. La donna se ne andò, invocando infinite benedizioni su tutti noi: mio padre, mia madre e me perfino. Le rincresceva soltanto di aver soffocato per tanti anni la sua pena dentro di sé. Avrebbe dovuto sormontare la sua vergogna tanto tempo prima e andare dallo zaddik27 per riversare davanti a lui tutta l’amarezza del suo cuore. Egli le aveva tolto dal petto un pesante fardello.

Quando la donna andò via, mio padre cominciò a camminare avanti e indietro per lo studio. Io ritornai in cucina, al mio libro di novelle. Leggevo di imperatori, principi e principesse, di destrieri selvaggi, di caverne e di rapinatori, e mi sembrava che la storia della donna diventasse parte di quel fantastico racconto...

Pochi giorni dopo, scoppio un incendio in una casa, dall’altra parte della strada. Io corsi sul balcone e vidi tutto: l’arrivo della prima pattuglia e dei pompieri con i loro lunghi carri e i cavalli che sembravano sul punto di liberarsi delle loro bardature. In un minuto era stata eretta una scala a pioli e i pompieri, con elmetti scintillanti e uncini alle cinture, l’avevano messa con incredibile velocità contro la finestra da cui il fumo eruttava. Altri srotolavano una canna. La via brillava di ottoni e di tutte quelle macchine per spegnere un incendio, di cui era difficile distinguere l’uso. Sebbene i poliziotti seguitassero a cacciarli via, orde di bambini arrivavano di corsa da tutti i cortili e la strada era nera di gente. Alcuni ragazzi si erano arrampicati sui pali dei lampioni e sui muri delle case vicine. Io stavo sul balcone e vedevo tutto. All’improvviso mi venne in mente che il figlio della donna potesse essere uno dei vigili del fuoco. Cominciai a cercarlo e lo riconobbi subito.

Sì, era quello con la faccia lunga e i baffi neri. Stava lì e non faceva nulla, limitandosi a guardare il cielo. Di minuto in minuto, la mia sicurezza che fosse lui aumentava. Un’idea straordinaria si impossessò di me. Forse dovevo scendere e dirgli la verità? Oppure dovevo gettargli un biglietto? Ma egli non avrebbe saputo l’yiddish... Lo fissai finché mi parve che avesse sentito il mio sguardo. Sollevò gli occhi, mi guardò stupito, poi alzò un pugno minaccioso contro di me: il solito gesto dei ‘gentili’ verso i bambini ebrei.

27 zaddick: giusto, in ebraico.

“Tu sei un ebreo! Un ebreo! Un discendente di Abramo, di Isacco e di Giacobbe!” gli bisbigliai. “Io conosco tua madre... Pentiti!”

Egli scomparve in mezzo agli altri pompieri. Era corso via dalle mie parole, come Giona28 era scappato da Dio. Ero talmente assorbito dalla mia fantasia che non vidi neppure come venisse spento il fuoco. Un pensiero terrificante mi era entrato in testa. Forse anch’io ero stato abbandonato da bambino? Forse non ero davvero il figlio di mio padre e di mia madre, ma ero stato messo nella culla della mamma da qualche ragazza di servizio, e la mamma aveva creduto che fossi suo figlio... Se i bambini possono essere abbandonati e scambiati, come può una persona sapere se un figlio gli appartiene? Molte domande mi sorgevano in mente, molti enigmi. Gli adulti nascondevano qualche cosa a noi bambini. C’era un segreto dietro tutto questo. Forse la mamma sapeva che io non ero davvero suo figlio e per quel motivo mi rimproverava così spesso?

Mi venne un nodo alla gola, mi salirono le lacrime agli occhi. Corsi in cucina e domandai: “Mamma, sono davvero tuo figlio?”

La mamma spalancò gli occhi. “Che Dio abbia misericordia! Sei diventato matto?”Io rimasi in silenzio ed ella, esclamò: “Dovremo mandarti indietro al cheder. Stai

crescendo come un animale selvaggio!”

28 Giona è il protagonista di un racconto biblico, in cui un profeta – Giona appunto – viene inviato da Dio a predicare la conversione nella città pagana di Ninive, ma il profeta rifiuta di compiere la sua missione e fugge con una nave dalla parte opposta del mondo.