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G. Giappichelli editore – torino

Comitato di direzione

Fabrizio amatucci, Massimo Basilavecchia, roberto cordeiro Guerralorenzo del Federico, eugenio della Valle, Valerio Ficari

Maria cecilia Fregni, alessandro GiovanniniMaurizio logozzo, Giuseppe MariniSalvatore Muleo, Franco paparella

livia Salvini, loris tosi

2/2014

Tax Law Quarterly

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© copyright 2014 - Amici della Rivista Trimestrale di Diritto Tributarioregistrazione presso il tribunale di torino, 5 aprile 2012, n. 22

Direttore responsabile: eugenio della Valle

Direzione e Redazionec/o Giuseppe MariniVia dei Monti parioli n. 48 - 00197 romatel. [email protected]

G. Giappichelli editore - 10124 torinovia po, 21 - tel. 011-81.53.111 - Fax 011-81.25.100http://www.giappichelli.it

iSBn/ean 978-88-348-7967-2iSSn 2280-1332

Stampatore: Stampatre s.r.l., di a. rinaudo, G. rolle, a. Volponi & c., via Bologna 220, 10123 torino

le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volu-me/fascicolo di periodico dietro pagamento alla Siae del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633.

le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da clearedi, centro licenze e autorizzazioni per le riproduzioni editoriali, corso di porta romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

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Comitato di direzioneFabrizio amatucci, Massimo Basilavecchia, roberto cordeiro Guerra, lorenzo del Federico, eugenio della Valle, Valerio Ficari, Maria cecilia Fregni, alessandro Giovannini, Maurizio logozzo, Giuseppe Marini, Salvatore Muleo, Franco paparel-la, livia Salvini, loris tosi

Comitato scientifico dei revisoriniccolò abriani, Francisco adame Martinez, antonia agulló agüero, Jacques au-tenne, Mauro Beghin, pietro Boria, Marc Bourgeois, andrea carinci, Giuseppe cipolla, Silvia cipollina, andrea colli Vignarelli, Gianluca contaldi, daria cop-pa, Giacinto della cananea, adriano di pietro, augusto Fantozzi, andrea Fedele, luigi Ferlazzo natoli, Stefano Fiorentino, Guglielmo Fransoni, Gianfranco Gaffuri, Franco Gallo, cesar Garcia novoa, alfredo Garcia prats, daniel Gutman, pedro h. herrera Molina, Manlio ingrosso, enrico laghi, Salvatore la rosa, carlos lopez espadafor, raffaello lupi, Jacques Malherbe, enrico Marello, Gianni Marongiu, enrico Marzaduri, Giuseppe Melis, Sebastiano Maurizio Messina, Marco Miccinesi, Salvo Muscarà, Mario nussi, carlos palao taboada, leonardo perrone, raffaele perrone capano, Franco picciaredda, Francesco pistolesi, ana María pita Gran-dal, Gianni puoti, José a. rozas Valdés, claudio Sacchetto, Salvatore Sammartino, roman Seer, Maria teresa Soler roch, roberto Schiavolin, paolo Stancati, dario Stevanato, Giuliano tabet, Francesco tesauro, Giuseppe tinelli, edoardo traversa, antonio Uricchio, Juan enrique Varona alabern, Marco Versiglioni, Giuseppe Ziz-zo, Bjorn Westberg

Comitato di redazioneantonio Viotto (coordinatore), ernesto Bagarotto, Gianluigi Bizioli, Susanna can-nizzaro, pier luca cardella, anna rita ciarcia, Marco di Siena, Stefano dorigo, antonio Marinello, pietro Mastellone, Michele Mauro, annalisa pace, damiano pe-ruzza, Federico rasi, laura torzi, caterina Verrigni

Tutti i contributi pubblicati nella Rivista sono stati sottoposti alla valutazione colle-giale da parte del Comitato di direzione e alla revisione anonima da parte di due dei componenti del Comitato scientifico dei revisori, in base all’apposito Regolamento (consultabile sul sito www.giappichelli.it/Home/riviste10.aspx?codice=R10)

Amministrazione: presso la casa editrice G. Giappichelli, via po 21 – 10124 torino

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INDICE-SOMMARIO

pag.

Gli Autori e i Revisori IX Dottrina F. Amatucci, Il superamento delle preclusioni probatorie e l’amplia-

mento del diritto di difesa del contribuente (The overcoming of proofs’ preclusions and the enlargement of taxpayer’s right of defense) 275

S. Cannizzaro, Permuta, operazioni permutative e datio in solutum tra normativa europea e disciplina interna (Barter, permutations and giving in payment between European and national discipline) 299

B. Denora, Spunti sulla nozione di attività economica degli enti pub-blici in ambito IVA (Remarks on the notion of economic activity of public bodies in the field of VAT) 325

C.M. López Espadafor, Aspectos críticos de los impuestos locales en España (Aspetti critici delle imposte locali in Spagna – Critical issues of local taxes in Spain) 351

A. Marinello, I profili fiscali del fondo patrimoniale della famiglia (Tax issues related to family trust) 393

L. Nicòtina, Il contraddittorio tributario in funzione deflattiva: una “premessa/promessa” che non può essere tradita (Audi alteram partem in tax proceedings as a tool for reducing tax trials: an un-betrayable “premise/promise”) 415

F. Rasi, La previdenza complementare tra Unione Europea e Stati Uniti d’America: a chi l’Italia accorda il miglior trattamento fisca-le? (Supplementary social security plans between the European Un-ion and the United States of America: whom does Italy grant the best tax treatment to?) 455

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INDICE-SOMMARIO RTDT - n. 2/2014

VIII

pag.

G. Rocco, Diritto alla rateizzazione dei tributi: un bilanciamento tra la tutela del contribuente e l’interesse erariale (The right to pay taxes by instalments: reaching a balance between taxpayer’s protec-tion and fiscal interest) 497

Giurisprudenza

Cass., sez. trib., 6 settembre 2013, n. 20526 – Pres. Cirillo, Rel. Vali-

tutti, con nota di R. Miceli, La decorrenza dei termini per l’eser-cizio dell’azione di rimborso in caso di sopravvenuta (autorevo-le) interpretazione di una disposizione. In attesa di una svolta de-cisiva (The “dies a quo” for the exercise of the right of reimburse-ment in the event of supervening (authoritative) interpretation of a rule. Waiting for a crucial change) 543

Cass., sez. V., 8 maggio 2013, n. 10739 (udienza del 28 novembre 2012) – Pres. Greco, Rel. Bruschetta, con nota di V. Scalera, Nuo-vi orientamenti sull’onere della prova in materia di transfer pric-ing internazionale (New perspectives on the burden of proof in in-ternational transfer pricing) 567

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GLI AUTORI E I REVISORI

Fabrizio Amatucci Professore ordinario di Diritto tributario, Seconda Università degli Studi di Napoli

Susanna Cannizzaro Dottore di ricerca in Diritto tributario, Università Sapienza di Roma

Barbara Denora Dottore di ricerca in Diritto tributario, Università Sapienza di Roma

Carlos María López Espadafor Catedrático de Derecho financiero y tributario, Universidad de Jaén

Antonio Marinello Ricercatore di Diritto tributario, Università di Siena

Rossella Miceli Ricercatore confermato e Professore aggregato di Diritto tributario, Università Sa-pienza di Roma

Ludovico Nicòtina Ricercatore di Diritto tributario, Università di Messina

Federico Rasi Professore a contratto di Diritto tributario, Università degli Studi del Molise

Giuseppe Rocco Cultore di Diritto tributario, Università di Salerno

Virginia Scalera Dottoranda in Scienze giuridiche-Diritto tributario, Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara

La revisione dei contributi pubblicati è stata effettuata da: Pietro Boria (Pro-fessore ordinario di Diritto tributario, Università di Foggia); Gianluca Contaldi

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GLI AUTORI E I REVISORI RTDT - n. 2/2014

X

(Professore ordinario di Diritto internazionale, Università di Macerata); Luigi Ferlazzo Natoli (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Messi-na); Gianfranco Gaffuri (già Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Milano); Salvatore La Rosa (già Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Catania); Enrico Marello (Professore straordinario di diritto tribu-tario, Università di Torino); Salvatore Muscarà (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Catania); Mario Nussi (Professore ordinario di diritto tributario, Università di Udine); Carlos Palao Taboada (Catedrático de Derecho Financiero y Tributario, Universidad Autonoma de Madrid); Raffaele Perrone Capano (Professore ordinario di diritto tributario, Università di Napoli Partheno-pe); Francesco Pistolesi (Professore ordinario di diritto tributario, Università di Siena); Giovanni Puoti (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Roma Unicusano); Claudio Sacchetto (Professore ordinario di diritto tributario, Università di Torino); Salvatore Sammartino (Professore ordinario di diritto tri-butario, Università di Palermo); Paolo Stancati (Professore ordinario di diritto pubblico, Università della Calabria); Giuliano Tabet (Professore ordinario di Di-ritto tributario, Università di Roma La Sapienza); Francesco Tesauro (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Milano Bicocca); Giuseppe Tinelli (Professore ordinario di diritto tributario, Università di Roma Tre); Antonio Feli-ce Uricchio (Professore ordinario di Diritto tributario, Università di Bari); Giu-seppe Zizzo (Professore ordinario di Diritto tributario, Università LIUC – Castel-lanza).

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DOTTRINA

SOMMARIO: F. Amatucci, Il superamento delle preclusioni probatorie e l’ampliamento del

diritto di difesa del contribuente (The overcoming of proofs’ preclusions and the enlargement of taxpayer’s right of defense)

S. Cannizzaro, Permuta, operazioni permutative e datio in solutum tra norma-tiva europea e disciplina interna (Barter, permutations and giving in payment between European and national discipline)

B. Denora, Spunti sulla nozione di attività economica degli enti pubblici in ambito IVA (Remarks on the notion of economic activity of public bodies in the field of VAT)

C.M. López Espadafor, Aspectos críticos de los impuestos locales en España (Aspetti critici delle imposte locali in Spagna – Critical issues of local taxes in Spain)

A. Marinello, I profili fiscali del fondo patrimoniale della famiglia (Tax issues related to family trust)

L. Nicòtina, Il contraddittorio tributario in funzione deflattiva: una “premes-sa/promessa” che non può essere tradita (Audi alteram partem in tax pro-ceedings as a tool for reducing tax trials: an unbetrayable “premise/promise”)

F. Rasi, La previdenza complementare tra Unione Europea e Stati Uniti d’A-merica: a chi l’Italia accorda il miglior trattamento fiscale? (Supplementary social security plans between the European Union and the United States of America: whom does Italy grant the best tax treatment to?)

G. Rocco, Diritto alla rateizzazione dei tributi: un bilanciamento tra la tutela del contribuente e l’interesse erariale (The right to pay taxes by instalments: reaching a balance between taxpayer’s protection and fiscal interest)

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Fabrizio Amatucci

275

Fabrizio Amatucci

IL SUPERAMENTO DELLE PRECLUSIONI PROBATORIE E L’AMPLIAMENTO DEL DIRITTO DI DIFESA

DEL CONTRIBUENTE 1

THE OVERCOMING OF PROOFS’ PRECLUSIONS AND THE ENLARGEMENT OF TAXPAYER’S RIGHT OF DEFENSE

Abstract Quasi sempre le norme che regolano il contraddittorio preventivo prevedono limitazioni al diritto di difesa attraverso preclusioni probatorie procedimentali e processuali nei confronti del contribuente che è stato inadempiente o si è rifiuta-to di collaborare. Mentre gli orientamenti della giurisprudenza della Cassazione risultano contrastanti sulla possibilità di esibizione di documenti in caso di pre-cedente mancata partecipazione al contraddittorio, esistono più ampie forme di tutela che sono garantite particolarmente dalla CEDU e dal diritto dell’UE, ove è attribuita notevole rilevanza al diritto al silenzio e all’effettività del diritto di dife-sa nei confronti dei residenti e dei non residenti. Parole chiave: diritto di difesa, preclusioni probatorie, contraddittorio, giusto processo, diritti fondamentali It is quite frequent that rules governing the preliminary audi alteram partem phase provide limitations to the right of defense through procedural preclusions for the tax-payer that did not perform his tax obligations or refused to co-operate with Tax Au-thorities. While the Italian Supreme Court’s case law is often contradictory on the possibility to exhibit documents in case the taxpayer was not heard, more penetrating forms of protection are guaranteed by the ECHR and by EU law, where great rele-vance is given to the right to remain silent and the effectiveness of the right of defense of resident and non-resident taxpayers.

1 Il presente testo è una rielaborazione approfondita e aggiornata della relazione tenuta al Convegno organizzato dall’Università di Chieti-Pescara del 5 e 6 maggio 2011 dal titolo Giusto processo e CEDU.

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DOTTRINA RTDT - n. 2/2014

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Keywords: right to defense, proofs’ preclusions, audi alteram partem, right to a fair trial, fundamental rights

SOMMARIO: 1. L’anticipazione del contraddittorio e le preclusioni derivanti dalla mancata collaborazione del contribuente. – 2. La valutazione ed efficacia del silenzio e il suo valore probatorio. – 3. I limiti posti dal legislatore all’istruttoria processuale ed il principio di non contestazione. – 4. La ricerca di nuove e più ampie forme di tutela nell’ambito dei principi UE e della CEDU. – 5. Il contrasto tra la cooperazione allargata e le preclusioni probatorie nei confronti dei non resi-denti. – 6. Conclusioni.

1. L’anticipazione del contraddittorio e le preclusioni derivanti dalla manca-ta collaborazione del contribuente

Il rapporto sempre più stretto tra istruttoria amministrativa e processuale tributaria nasce dalla richiesta del Fisco nei confronti del contribuente di una crescente collaborazione in fase endo-procedimentale la quale, essendo ca-ratterizzata da una serie di preclusioni e limitazioni anche di tipo temporale che proseguono in fase processuale, può compromettere il diritto di difesa garantito anche a livello UE nelle fasi successive, facendo sorgere problemi di compatibilità con il principio del giusto processo sancito dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU.

Pur non essendo previsto nel diritto tributario un principio che garanti-sca il diritto al contraddittorio, attraverso la collaborazione e la partecipazio-ne obbligatoria del contribuente al procedimento di accertamento

2, esiste un principio generico di cooperazione tra amministrazione finanziaria e con-tribuente in fase procedimentale che trova fondamento nell’art. 6 dello Sta-tuto dei diritti del contribuente

3 e che caratterizza il passaggio dall’autorità

2 L’attuazione del prelievo è ancorata infatti tuttora a principi di legalità, imparzialità e stretta vincolatività derivanti dall’indisponibilità dell’obbligazione tributaria e ciò ha sem-pre limitato e condizionato le forme di partecipazione finalizzate all’attuazione dell’inte-resse dell’A.F. al giusto prelievo.

3 L’art. 6, comma 2 dello Statuto del contribuente, nel prevedere l’obbligo di informa-zione da parte dell’A.F. di ogni circostanza dalla quale possa derivare il mancato riconosci-mento di un credito o l’irrogazione di una sanzione con invito a correggere o integrare gli atti che ne impediscono il riconoscimento, consente la partecipazione del contribuente in una

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Fabrizio Amatucci

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al consenso nei rapporti fisco contribuente. All’art. 10, comma 1, lo Statuto garantisce e pone contestualmente la buona fede e la collaborazione alla ba-se del rapporto con il Fisco. Inoltre, la possibilità di un contraddittorio pre-ventivo o anticipato nella fase ispettiva, è prevista dall’art. 12, comma 7 del-lo Statuto che consente al contribuente sottoposto a verifica di presentare osservazioni e istanze entro 60 gg. dal rilascio del PVC che l’A.F. ha l’ob-bligo di valutare. Il rispetto di tale ultimo termine, anche dal punto di vista probatorio, rappresenta una importante garanzia per il contribuente al pun-to tale che, il superamento dello stesso senza adeguata motivazione, deter-mina la nullità dell’atto di accertamento secondo la giurisprudenza più re-cente e ciò costituisce senza dubbio uno stimolo al contraddittorio anticipa-to

4. Tali regole che si vanno affermando con sempre maggiore forza nel no- fase anteriore a quella di emanazione dell’atto impositivo. Al comma 5 di tale norma è inoltre previsto l’obbligo dell’A.F. di formulare richiesta di chiarimenti al contribuente prima di procedere a iscrizione a ruolo qualora sussista incertezza su aspetti rilevanti della dichiara-zione. Ciò assume particolare valore con riguardo all’accertamento esecutivo.

Non può, secondo parte della giurisprudenza, ritenersi esistente un principio generale di contraddittorio in ordine alla formazione della pretesa fiscale, atteso che l’obbligatorietà dell’invito da rivolgere al contribuente al fine di fornire chiarimenti o produrre documenti prima di procedere all’iscrizione a ruolo, di cui all’art. 6 dello Statuto, sorge a pena di nulli-tà solo se vi siano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, che possono derivare sia dal contenuto intrinseco dell’atto del contribuente, sia dal confronto tra l’atto in que-stione ed i diversi dati di cui l’Ufficio abbia la disponibilità (Cass. n. 26316/2010, e 14 gennaio 2011, n. 795).

4 Sulla nullità di un avviso di accertamento emesso prima dello spirare del sessantesimo giorno vi è stato un ampio dibattito giurisprudenziale. Dapprima la giurisprudenza di me-rito maggioritaria ha dichiarato nulli gli avvisi di accertamento emessi in violazione del contraddittorio anticipato. Successivamente, però, la Corte di Cassazione con ord. 18 lu-glio 2008, n. 19875, in Dir. prat. trib., 2009, I, p. 55, ha affermato che non vi sarebbe la nul-lità dell’avviso di accertamento stante la natura vincolata dell’avviso stesso rispetto al PVC sul quale si fonda, considerata (tra l’altro) la mancanza di una specifica previsione norma-tiva in tal senso, restando comunque garantito al contribuente il diritto di difesa in via am-ministrativa (autotutela) e giudiziaria (ricorso). Sollevata l’eccezione di legittimità costi-tuzionale in relazione alla mancata espressa previsione di nullità per l’emissione anticipata dell’atto di accertamento, la Corte costituzionale, con l’ord. 16 luglio 2009, n. 244, in Rass. trib., 2009, p. 1783, con commento di COLI, Sull’invalidità degli atti di accertamento adottati in violazione dell’art. 12, comma 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, ha rigettato tale eccezione sollevata in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. ed ha statuito, altresì, che un avviso emesso anticipatamente senza però la necessaria motivazione circa le ragioni di urgenza che hanno determinato la sua precoce emissione, sia nullo sotto il profilo motivazionale ex art. 42, D.P.R. n. 600/1973 in quanto privo della esplicita indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo hanno determinato. A seguito della sentenza della Consul-ta è intervenuta l’Agenzia delle Entrate, con Nota prot., 14 ottobre 2009, n. 142734, che ha

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DOTTRINA RTDT - n. 2/2014

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stro ordinamento tributario, si fondano su principi costituzionali come gli artt. 3 e 97 in quanto il contraddittorio dovrebbe consentire una economici-tà dell’azione amministrativa a vantaggio del contribuente e garantire allo stesso tempo il buon andamento dell’A.F.

5. A livello europeo la CEDU, at-traverso l’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e il diritto dell’UE, mediante l’attività della Corte di Giustizia, oltre a riconoscere la centralità e la necessità del contraddittorio in fase di verifica e di istruttoria fiscale procedimentale, garantiscono maggiormente la tutela piena ed effet-tiva del contribuente (v. in particolare i casi Ravon, Jussila e Chambaz c. Swi-tzerland della CEDU e la sentenza Sopropè della Corte di Giustizia UE oltre par. 4).

Il contraddittorio in sede di controllo e di accertamento resta tuttavia nel nostro ordinamento tributario, in linea generale, un potere facoltativo degli uffici come sancito dagli artt. 52, comma 5, D.P.R. n. 633/1972 e 32, com-ma 1, D.P.R. n. 600/1973 (invito a comparire, ed all’esibizione di atti e do-cumenti, invio di questionari). Tale possibilità è infatti concessa in partico-lare all’Agenzia delle Entrate che intende ricorrere a metodi di accertamen-to basati su presunzioni di tipo legale che invertono l’onere della prova in fase istruttoria di pre-determinazione del reddito (si pensi agli accertamenti bancari

6). espresso i propri orientamenti su alcune ipotesi in cui potrebbe ricorrere il requisito della “particolare e motivata urgenza”, ponendo l’accento su quei casi in cui vi è imminenza del decorso dei termini per l’accertamento. Per un esame della dottrina che si è espressa sulla valenza dell’art. 12, comma 7 dello Statuto del contribuente si rimanda a TABET, Sospensione del potere impositivo dopo la chiusura delle operazioni di verifica?, in Boll. trib., 2006, p. 1056; RENDA, Contraddittorio a seguito di verifica e possibili limitazioni alle preclusioni probatorie, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 95; FUSCONI-ANTICO, Accertamento anticipato: la motivazione è vincente, in Boll. trib., 2009, p. 1665; MAGLIARO, La violazione del principio del contradditto-rio anticipato previsto dallo Statuto dei diritti del contribuente: l’annullabilità dell’atto di accer-tamento, in Giust. trib., 2009, I, p. 49.

5 Sul contraddittorio in fase procedimentale v. di SALVINI, La cooperazione del contri-buente e il contraddittorio, in Corr. trib., 2009, p. 3570; RAGUCCI, Il contraddittorio nei proce-dimenti tributari, Torino, 2009; MULEO, Diritto alla prova e contraddittorio, in Rass. trib., 2002, p. 1989, FICARI, La partecipazione del trasgressore al procedimento. La riforma delle san-zioni amministrative tributarie, a cura di Tabet, Torino, 2000, p. 233; FERLAZZO NATOLI-INGRAO, Il rispetto del contraddittorio e la residualità dell’accertamento tributario, in Boll. trib., 2010, p. 485.

6 Su accertamenti bancari e non obbligatorietà del contraddittorio in particolare v. Cass., sentt. 18 gennaio 2002, n. 518 e 29 marzo 2002, n. 4601 e, in tema di IVA, 16 settem-bre 2005, n. 18421; 13 giugno 2002, n. 8422; 19 febbraio 2001, n. 2435; 12 luglio 1999, n. 7338 e 10 marzo 2006, n. 5365.

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Fabrizio Amatucci

279

È pur vero che esistono casi in cui il contraddittorio in fase endo-proce-dimentale è invece obbligatorio come quello dei controlli automatici o for-mali ex artt. 36 bis e 36 ter del D.P.R. n. 600/1973 e dell’invito a fornire chia-rimenti prima delle iscrizioni a ruolo sancito dal citato art. 6, comma 5, L. n. 212/2000. Anche l’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, che disciplina l’accerta-mento sintetico con le modifiche ad opera della L. n. 122/2010

7, ha previsto l’obbligo del preventivo contraddittorio tra fisco e contribuente. In altri casi, pur non essendo sancito tale obbligo dalla legge, la giurisprudenza ha ricono-sciuto la necessità del contraddittorio (come per gli studi di settore)

8. La evidente necessità di ampliare sempre più la sfera applicativa del con-

traddittorio in fase preventiva deriva tuttavia anche dall’esistenza di altre ca-tegorie di norme che invertono anticipatamente l’onere della prova sul con-tribuente come quelle antielusive. Oltre all’art. 37 bis, comma 4, D.P.R. n. 600/1973, che prevede ai fini dell’applicazione delle disposizioni antielusive la richiesta di documenti prima di emanare l’avviso di accertamento, vi sono altre disposizioni che incidono preventivamente sul riconoscimento di age-volazioni e benefici fiscali, come gli artt. 110, comma 9 (obbligo di richiesta anticipata di documentazione probatoria ai fini della deducibilità delle spese e dei componenti negativi di reddito derivanti da operazioni intercorse con non residenti) e 167, comma 5 del TUIR (interpello preventivo obbligato-rio ai fini della disapplicazione della normativa CFC). Inoltre il legislatore

Se si accetta conformemente alla Cassazione (sentt. 23 luglio 1999, n. 7964; 13 gennaio 2006, n. 31165; 21 giugno 2007, n. 20630; 7 febbraio 2008, n. 2821 e 3 marzo 2010, n. 5051) la tesi della non obbligatorietà del contraddittorio in presenza di accertamenti bancari sul presupposto che l’attività istruttoria avendo natura amministrativa, pur dovendo svolgersi nel rispetto di alcune cautele, non è retta da tale principio, che la mancata convocazione non costituisce comportamento illegittimo e che il diritto di tutela è solo quello azionabile in giudizio, dovrebbe ragionevolmente ritenersi che il mancato contraddittorio nella fase preliminare all’avviso di accertamento non pregiudica (attraverso preclusioni) il diritto alla prova in sede di contenzioso in ogni stato e grado del giudizio, in quanto il contribuente, pur venendo a conoscenza delle verifiche, ha meno tempo per dimostrare e documentare la non imponibilità delle movimentazioni oggetto di contestazione.

7 Cfr. BEGHIN, L’accertamento sintetico reddito-metrico, in Riv. dir. trib., 2010, p. 15 il quale osserva che le predeterminazioni come quella prevista dall’art. 38 redditometrica tra-scurano, nel nome della semplificazione, profili soggettivi che incidono significativamente sull’idoneità alla contribuzione. A fronte di tale determinazione il contribuente può sem-pre dimostrare che la titolarità non corrisponde alla disponibilità reddituale.

8 V. Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite che è intervenuta con le note sentt. 18 dicembre 2009, nn. 26635, 26636, 26637 e 26638. AMATUCCI-RAINONE, Contradditto-rio endo-procedimentale negli accertamenti da studi di settore e rispetto del diritto di difesa, in Boll. trib., 2010, p. 1669.

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collega la determinazione dello status di non residente fiscale di un ente ai fini IRES (art. 73, commi 5 e 5 bis del TUIR) alla dimostrazione da parte dello stesso dello svolgimento di una effettiva attività economica in Paesi stra-nieri. Tali norme prevedono, con diverse modalità, una preventiva parteci-pazione del contribuente a diverso titolo nella definizione della capacità contributiva in fase pre-accertamento. L’esigenza dello strumento normativo presuntivo che collega il riconoscimento di un vantaggio o di uno status fi-scale o la disapplicazione di una norma antielusiva ad una collaborazione at-tiva del contribuente mediante contraddittorio anticipato, pur se fondato sul-l’economicità dell’attività dell’A.F., è una conseguenza delle oggettive e ine-vitabili difficoltà che può incontrare l’Ufficio accertatore durante i controlli a causa dell’insufficienza della documentazione contabile ai fini probatori (soprattutto per fattispecie transnazionali). Inoltre, evidenti ragioni del raf-forzamento del contraddittorio possono essere individuate nella carenza nella fase del contenzioso dei poteri istruttori dei giudici tributari che rendono an-cor più necessaria la preventiva collaborazione da parte del contribuente.

Quasi sempre le norme che regolano il contraddittorio prevedono tutta-via limitazioni di tipo temporale al diritto a partecipare, attraverso preclu-sioni probatorie procedimentali e processuali nei confronti del contribuen-te

9 che è stato inadempiente e ciò trova conferma in particolare negli artt. 32, D.P.R. n. 600/1973, comma 4 e 52, comma 5, D.P.R. n. 633/1972, che non consentono di prendere in considerazione a favore del contribuente in sede amministrativa e contenziosa notizie, documenti e atti non esibiti in ri-sposta agli inviti dell’Ufficio

10 e negli artt. 32 e 58, comma 1 del D.Lgs. n. 546/1992, che sanciscono il deposito di documentazione probatoria da par-te del ricorrente entro il I grado di giudizio. In ogni caso è fatta salva la dimo-strazione dell’esistenza di causa ad esso non imputabile. Inoltre, ulteriore pre-clusione probatoria è rilevabile nell’art. 61, comma 3, D.P.R. n. 600/1973 il quale, vietando ai contribuenti obbligati alla tenuta della contabilità di pro-vare circostanze omesse nelle scritture contabili, consente all’A.F. di disco-noscere nelle fasi procedimentale e processuale, la deducibilità dei costi, l’i-

9 GALLO, Contraddittorio procedimentale e attività istruttoria, in Dir. prat. trib., 2011, p. 477, osserva che le deduzioni, le osservazioni e i rilievi previsti dallo statuto del contribuente e da altre norme rappresentano solo un minimo concesso ad un soggetto obbligato a colla-borare piuttosto che l’espressione di un diritto a partecipare. E non costituiscono strumen-ti utili a far cessare gli effetti pregiudizievoli di atti conoscitivi illegittimi. V. TOSI, Riflessi am-ministrativi e penali del rifiuto di esibizione, in Riv. dir. trib., 1991, II, p. 475.

10 F. AMATUCCI, Le indagini bancarie nella determinazione del maggior reddito tassabile, in Riv. dir. trib., 2010, p. 1019.

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nerenza di spese o qualsiasi altro beneficio relativamente ai quali manca la documentazione probatoria

11. Infine, l’art. 11 del D.Lgs. n. 471/1997, pre-vede una sanzione amministrativa nel caso di mancata restituzione dei que-stionari inviati al contribuente in fase istruttoria.

Le conseguenze derivanti dal comportamento del contribuente e dalla sua mancata partecipazione al contraddittorio, seppur costituiscono elementi liberamente valutabili dal giudice tributario, sono identificabili tra le preclu-sioni probatorie in quanto, l’apparente reticenza o il rifiuto di collaborazio-ne si considerano un’accettazione implicita delle contestazioni mosse dal-l’Ufficio. Ciò può determinare una limitazione dell’attività di difesa in ambi-to processuale sancita dall’art. 24 Cost.

12-13 con incidenza sulla parità delle parti e sul giusto processo, in violazione dell’art. 111 Cost. per compressione del diritto alla prova

14, qualora non venga consentito al contribuente di uti-

11 CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 592 ritiene cha l’onere a carico dei contribuenti derivante da tale preclusione probatoria è rappresen-tato dalla precostituzione di tali scritture in funzione strumentale all’esibizione nel corso dei controlli fiscali.

12 Cass., 9 luglio 2010, n. 16235. 13 SALVINI, La nuova partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo statuto

del contribuente), in Riv. dir. trib., 2000, I, pp. 17, 19 osserva, in relazione alla L. n. 413/1991, che per prima ha previsto la richiesta di chiarimenti per l’applicazione dei coefficienti presun-tivi stabilendo che i motivi non addotti in riposta dal contribuente non possono essere fatti valere in sede di impugnazione dell’atto di accertamento, che tali disposizioni violano il dirit-to di difesa e segnano una decisiva svolta autoritaria dell’istituto della richiesta di chiarimenti ed un inquinamento rispetto alle originarie finalità; v. inoltre A. RUSSO, L’obbligo di motiva-zione dell’atto impositivo, in Il Fisco, n. 7, fasc. n. 1, 15 febbraio 2010, p. 975.

14 La difesa processuale non può essere pregiudicata dal contraddittorio procedimenta-le ove le mancate contestazioni non possono essere equiparate ad accettazioni delle conte-stazioni mosse (in tal senso INGRAO, La valutazione del comportamento delle parti, Milano, 2008, p. 229).

La Corte costituzionale con la sent. 23 maggio 2007, n. 181, pur non pronunciandosi, ha evidenziato la correlazione tra le preclusioni probatorie e il diritto di difesa (art. 24 Cost.) laddove ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 4, D.P.R. n. 600/1973 ai sensi dell’art. 53 Cost. Con l’eccezione di costituzionalità sollevata, si riteneva infatti che tale ultima norma impedisse l’accertamento dell’effettiva situazione patrimoniale del contribuente, dichiarando la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzio-nale. La Corte ha affermato che tale prospettazione della questione è frutto di una evidente confusione tra il profilo sostanziale e quello processuale della tutela del contribuente, perché, mentre il principio di capacità contributiva (art. 53, comma 1, Cost.) ha natura sostanziale, in quanto attiene al presupposto del tributo (ord. n. 402/2005; sent. n. 172/1986), le preclu-sioni relative all’allegazione in giudizio di documenti o dati hanno invece natura processuale, in quanto attengono alla tutela giurisdizionale dei diritti (art. 24 Cost.).

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lizzare successivamente documenti non forniti durante il contraddittorio per oggettiva difficoltà di reperimento. Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sul punto risultano altalenanti in proposito. Infatti talvolta è stato affermato che la mancata contestazione del contribuente corrisponde ad accet-tarne i risultati delle operazioni in sede di accertamento

15 e che: «in caso di omessa partecipazione al contraddittorio (circostanza la cui sussistenza nel caso di specie non emerge chiaramente dal testo dell’ordinanza), il contri-buente assume le conseguenze di questo suo comportamento e l’Ammini-strazione finanziaria può emettere l’avviso di accertamento motivandolo so-lo sulla base dei risultati dei parametri/studi di settore e il giudice può trarre da tale comportamento del contribuente argomenti di prova»

16. Esiste in ogni caso un’attenuante in casi particolari laddove, ferma re-

stando la preclusione circa l’utilizzabilità di scritture contabili non esibite per condotta dolosa o colposa e per errore non scusabile in fase di contraddit-torio, in caso di mancanza o incolpevole perdita di tale documentazione, è prevista la possibilità per il contribuente di avvalersi nella fase processuale di prova testimoniale ex art. 2724 c.c. in deroga all’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992

17. Dubbi emergono sulla necessità dell’elemento soggettivo o intenzionale dif-ficilmente individuabile per l’operatività delle preclusioni probatorie

18. Cer-tamente non è condivisibile per eccessiva genericità l’orientamento giuri-sprudenziale, reso nella sentenza Cass., 28 ottobre 2009, n. 227655, che

15 Cass., 26 gennaio 2004, n. 1286. 16 Cass., 6 luglio 2010, n. 15905; 27 giugno 2011, n. 14027. 17 Sentt. Cass., 29 settembre 2006, n. 21233 e 29 dicembre 2009, n. 27556 ove si affer-

ma che: perché la dichiarazione, resa dal contribuente nel corso di un accesso, di non pos-sedere libri, registri, scritture e documenti (compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sia obbligatoria) richiestigli in esibizione determini la preclusione a che gli stessi pos-sano essere presi in considerazione a suo favore ai fini dell’accertamento in sede ammini-strativa o contenziosa, occorre: la sua non veridicità o, più in generale, il suo concretarsi – in quanto diretta ad impedire l’ispezione del documento – in un sostanziale rifiuto di esibi-zione, accertabile con qualunque mezzo di prova e, anche attraverso presunzioni; la co-scienza e la volontà della dichiarazione stessa; il dolo.

18 V. Cass., 17 giugno 2011, n. 13289 e 16 settembre 2011, n. 18921 ove si escludono i casi di mera colpa o negligenza o imperizia nella custodia dei documenti. In senso opposto si è pronunciata la Cassazione con sentt. 27 giugno 2011, n. 14027 e 5 ottobre 2012, n. 17055 ove è affermato che è sufficiente il fatto obiettivo della mancata risposta, a prescin-dere dalle motivazioni della parte privata, ossia dall’elemento psicologico del contribuente che omette di rispondere, sicché tale fatto di per sé comporta la preclusione all’utilizzabili-tà della documentazione contabile. V. TUNDO, Documenti esibiti a richiesta: preclusioni pro-batorie e garanzie del contribuente, in Corr. trib., 2013, p. 1265.

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considera in tale contesto come causa impeditiva della preclusione probato-ria, l’errore scusabile, la dimenticanza o la disattenzione.

In altri casi la giurisprudenza 19 si è pronunciata in senso completamente

opposto, mostrando maggiore apertura ed affermando che, se è vero che la mancata partecipazione del contribuente debitamente invitato all’attività am-ministrativa istruttoria in contraddittorio legittima l’adozione dell’avviso di accertamento presuntivo, ciò non impedisce a quest’ultimo di fornire suc-cessivamente in sede processuale la prova che non ha potuto esibire in sede procedimentale

20. L’esito del contradditorio endo-procedimentale non con-diziona la impugnabilità dell’accertamento innanzi al giudice tributario, al quale il contribuente potrà proporre ogni eccezione (e prova) che ritenga uti-le alla sua difesa, senza essere vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo

21, e senza subire pregiudizi qualora egli non abbia risposto all’invito al contraddittorio, restando inerte.

La Cassazione ha ritenuto più di recente ammissibile la produzione di documenti non esibiti durante la verifica, in situazioni di difficoltà di reperi-mento da parte del contribuente non imputabile dunque allo stato soggetti-vo di quest’ultimo. Ai fini della valutazione della mancata collaborazione da parte del verificato, si deve esaminare se vi è stato il previo avvertimento

22, se il contribuente sia in possesso di quanto richiesto e se i documenti probatori siano oggettivamente reperibili

23. Non vi è dubbio che tale ultima condizione risulta fondamentale in alcu-

ne circostanze come quelle che vertono sulla dimostrazione della congruità di un prezzo di una merce o del valore di un immobile che non sempre il con-tribuente è in grado di fornire tempestivamente. La manifesta difficoltà di reperimento provoca necessariamente un allungamento dei tempi che deve essere considerato tra le cause non imputabili ai fini di eventuali preclusioni in fase successiva.

19 Cass., sent. 28 maggio 2009, n. 12630. 20 In tal senso v. anche Cass., sentt. 7 febbraio 2008, n. 2816 e 30 giugno 2011, n. 14365. 21 V. sentenza Cass. n. 26638/2009. 22 Cass., 7 febbraio 2013, n. 2867. 23 In tal senso v. sent. Cass., 10 dicembre 2013, n. 27595. Viene chiarito in tale sentenza

che è necessario verificare se il contribuente fosse in condizione di corrispondere positiva-mente adottando l’ordinaria diligenza o se sussistesse una manifesta difficoltà di reperimento.

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2. La valutazione ed efficacia del silenzio e il suo valore probatorio

Nonostante gli ultimi orientamenti giurisprudenziali esaminati, il legislato-re come esaminato, attribuisce in ogni caso, valore al silenzio considerandolo rifiuto a collaborare

24 e collegando allo stesso una sanzione impropria rap-presentata dalla preclusione e dunque dal divieto successivo di utilizzo di prove

25. Anche se la ratio di tali preclusioni probatorie è quella di scoraggiare l’inattività del contribuente o l’atteggiamento ostruzionistico, e sebbene sia stato previsto l’obbligo dell’Ufficio di comunicazione con specifica indicazio-ne degli effetti della mancata risposta alle richieste formulate ed alcune ecce-zioni in presenza di causa non imputabile (mancanza di negligenza)

26, non si può ritenere che la formazione della prova debba avvenire necessariamente ed esclusivamente durante il contraddittorio. Le norme in esame possono de-terminare un’anticipazione della difesa in fase endo-procedimentale che non sempre consente in tempi brevi di fornire giustificazioni (si pensi al difficile reperimento di documentazione giustificativa di operazioni bancarie o alla dimostrazione dell’inerenza di una spesa effettuata da un residente in altro Paese). Inoltre, come è stato giustamente osservato

27, il soggetto sottoposto a verifica è chiaramente in situazione di soggezione, non conoscendo ancora le contestazioni che verranno mosse nei suoi confronti

28 ed è privo di tutela

24 V. INGRAO, op. cit., pp. 207-232 25 RENDA, op. cit., p. 95 il quale afferma che le preclusioni probatorie tendono a sanzio-

nare il comportamento del contribuente anche durante l’istruttoria. 26 V. Cass. n. 22765/2009, cit., ove è stato più volte affermato che il divieto di utilizzo

in sede giudiziaria di documenti non esibiti in sede amministrativa (D.P.R. n. 633/1972, art. 52) costituisce un limite all’esercizio del diritto di difesa e dunque si giustifica solo in caso di rifiuto di una documentazione specificamente richiesta dagli agenti accertatori.

La giurisprudenza ammette che il divieto di utilizzare documenti scatti, «non solo nel-l’ipotesi di rifiuto (per definizione “doloso”) dell’esibizione, ma anche nei casi in cui il con-tribuente dichiari, contrariamente al vero, di non possedere o sottragga all’ispezione i do-cumenti in suo possesso, ancorché non al deliberato scopo di impedirne la verifica, ma per errore non scusabile, di diritto o di fatto (dimenticanza, disattenzione, carenze ammini-strative ecc.) e, quindi, per colpa» (Cass., 26 marzo 2009, n. 7269). Esige però, in confor-mità alla lettera della legge, che sussista una specifica richiesta degli agenti accertatori, non potendo costituire “rifiuto” la mancata esibizione di un qualcosa che non venga richiesto (Cass., 19 aprile 2006, n. 9127). V. BASILAVECCHIA, Tecniche difensive in materia di rettifica, in GT-Riv. giur. trib., 2003, p. 561.

27 V. SALVINI, La nuova partecipazione del contribuente, cit., p. 16 e GALLO, Contradditto-rio procedimentale, cit., p. 476, attribuiscono al contribuente la figura di “collaboratore ser-vente” in tale fase; GIORGIANNI, La partecipazione del contribuente alla verifica, in Riv. dir. trib., 2005, p. 169.

28 SALVINI, La nuova partecipazione del contribuente, cit., p. 15.

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immediata in fase istruttoria 29. Tale situazione è particolarmente aggravata

nel caso in cui la valutazione del silenzio riguarda la richiesta di chiarimenti circa prove e documentazione acquisita dai verificatori irritualmente (accesso senza i necessari provvedimenti di autorizzazione). Per tali ragioni non è pos-sibile attribuire a tale comportamento l’efficacia ai fini probatori di ammissio-ne o di confessione stragiudiziale

30 per mancanza dell’animus confitendi e ca-renza dell’elemento soggettivo

31. Gli artt. 10 e 12 dello Statuto del contribuente e gli artt. 32 e 52 cit. non

possono pertanto essere considerati in grado di rappresentare una disciplina generalizzata del contraddittorio anticipato che obbliga il contribuente-ri-corrente alla collaborazione, essendo riconducibili al buon andamento, effi-cienza e all’imparzialità dell’attività amministrativa

32, né impongono di an-ticipare ad ogni costo la fase l’istruttoria e la valutazione della prova , ma dovranno essere applicati nel pieno rispetto della proporzionalità, coerenza, ragionevolezza che ampliano il diritto di difesa quale principio generale operante anche in ambito CEDU e UE, necessario ad assicurare una effetti-va parità delle parti in ordine alla prova

33.

29 GALLO, Contraddittorio procedimentale, cit., p. 477, ritiene che sarebbe necessario imporre all’ufficio deputato al controllo di rispondere in tempi brevi alle contestazioni avan-zate dal contribuente in ordine alla legittimità e lesività degli atti posti in essere nei suoi confronti. In tal modo possiamo rilevare, verrebbe estesa la non contestazione in fase pro-cedimentale anche all’A.F. e agli uffici verificatori.

Lo stesso A. in materia di tutela differita (in L’istruttoria nel sistema tributario, in Rass. trib., 2009, p. 32), osserva che le libertà e i diritti individuali sarebbero violati perché non rispondono ai principi di ragionevolezza e proporzionalità e che sarebbe necessaria in tali casi una tutela immediata giurisdizionale.

La CEDU nel caso Ravon, causa 18487/03 del 21 febbraio 2008 attribuisce particolare rilevanza indirettamente alla tutela immediata. Si afferma infatti la necessità del contrad-dittorio (autorizzazione accesso domiciliare non può avvenire in assenza di contradditto-rio), e si ritiene che la tutela differita risulta insufficiente e non effettiva e che l’attività di investigazione anche in materia tributaria può vulnerare i diritti personali dell’individuo e deve essere sempre assicurata in sede giudiziaria una tutela piena ed effettiva (proporzio-nalità e adeguatezza della difesa) del contribuente sottoposto a verifica.

30 INGRAO, op. cit., p. 222, ritiene impossibile qualificare le dichiarazioni e ammissioni rese nel corso dell’istruttoria (tra le quali non rientra il silenzio) in termini di confessione stragiudiziale. Manca la piena consapevolezza per il contribuente di proporre volontaria-mente dichiarazioni favorevoli all’ufficio che possono essere considerate elementi posti a convincimento del giudice.

31 V. GIORGIANNI, op. cit., p. 178. 32 DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010,

p. 337. 33 INGRAO, op. cit., p. 227.

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3. I limiti posti dal legislatore all’istruttoria processuale ed il principio di non contestazione

La mancata valutazione delle prove non esibite in fase istruttoria e le pre-clusioni probatorie esaminate sono in parte collegate alla ridotta tutela dif-ferita del contribuente nel nostro sistema processuale tributario, derivante dai diversi limiti (non temporali) posti in materia probatoria dall’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, che restringe i poteri istruttori del giudice (accesso, ri-chiesta dati e informazioni) ed esclude il giuramento e la prova testimonia-le

34. Tali poteri sono scarsamente utilizzati anche se, secondo quanto nor-mativamente disposto, dovrebbero coincidere con quelli conferiti agli Uffici (a seguito dall’abrogazione comma 3 dell’art. 7 che prevedeva l’ordine da parte del giudice alle parti di deposito documenti) e non consentono un ap-profondimento adeguato delle indagini. È stato ben chiarito che la parifica-zione dei poteri istruttori in fase procedimentale e in ambito processuale, non dovrebbe escludere le loro diverse finalità, quella di investigazione (istruttoria primaria) di tipo cognitivo e quella secondaria o di controllo di quanto accertato dall’A.F. che avviene nel processo, altrimenti si legittime-rebbe l’asservimento e l’appiattimento dell’istruttoria processuale a quella procedimentale. In dottrina

35 è stato ravvisato correttamente uno sbilan-ciamento del rapporto tra le due istruttorie a favore di quella procedimenta-le. Il potere integrativo probatorio in fase processuale appare fortemente li-mitato

36 ed esercitabile nel rispetto della terzietà del giudice, del principio dispositivo e del libero apprezzamento delle prove previsti dalla sentenza della Corte cost. n. 109/2007

37.

34 Sul divieto di prova testimoniale quale ingiustificata preclusione (che esula dalla pre-sente indagine) non avente natura temporale v. MULEO, Diritto alla prova, principio del con-traddittorio e divieto di prova testimoniale, in Rass. trib., 2002, p. 1989. GIOVANNINI, L’inter-pretazione secundum costitutionem come strumento di riforma del processo tributario, in Dir. prat. trib., 2013, I, p. 1973 ritiene che l’esclusione dovrebbe riferirsi soltanto alla prova ora-le configurabile come species del genus testimonianza, mentre l’estensione a quella scritta non è sostenibile già a fil di logica.

35 GALLO, L’istruttoria nel sistema tributario, cit., p. 25. 36 Il contraddittorio e la collaborazione sono infatti fortemente caratterizzati in fase

istruttoria dalla esclusione di alcune prove in ambito processuale come la prova testimo-niale che determina la violazione del principio della parità delle parti in presenza di dichia-razioni dei terzi rilasciate in sede di verifica e che assumono particolare rilevanza ai fini probatori (v. Cass. n. 7119/2010). Tale prova è ammessa, come esaminato al par. 1, in de-roga all’art. 7, solo in casi particolari come la perdita o distruzione dei documenti.

37 Il legislatore, attraverso l’abrogazione dell’art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992, ha

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La ridotta attività istruttoria del giudice tributario ha favorito l’ingresso nel processo tributario del principio di non contestazione (v. art. 115 c.p.c. modificato dalla L. n. 69/2009) di fatti ai fini probatori il quale può rappre-sentare, in alcuni casi, un’altra forma di preclusione che si aggiunge a quella procedimentale, se viene considerato semplicemente un’accettazione impli-cita delle contestazioni mosse dall’altra parte

38. Sicuramente tale principio, che era già stato elaborato dalla giurisprudenza e che introduce nell’ordina-mento tributario la regola che i fatti non contestati non hanno bisogno di prova

39, estende e consolida in fase processuale la regola che attribuisce va-lore probatorio al silenzio durante il contraddittorio procedimentale. La di-fesa processuale, anche se dovrebbe presupporre, nel contenzioso tributa-rio, un onere di contestazione a carico sia del ricorrente che dell’A.F.

40, non può tuttavia essere pregiudicata dal comportamento tenuto dalle parti nel I grado di giudizio. La mancata esibizione di documentazione probatoria in tale fase e in quella precedente non può rappresentare, nella valutazione da parte del giudice, un automatico riconoscimento dei rilievi mossi dall’Uffi-cio accertatore nei confronti del contribuente

41. voluto, secondo la Corte costituzionale, rafforzare il carattere dispositivo del processo tri-butario espungendo da esso il potere officioso dal quale soprattutto, pressoché unanime-mente, la giurisprudenza e la dottrina desumevano, quanto all’istruzione, la sua natura di processo inquisitorio (o, secondo altra terminologia, acquisitivo): si diceva, in sintesi, che il giudice tributario era tenuto a giudicare iuxta alligata ma non anche iuxta probata partium.

38 La norma stabilisce in fatti che «salvo i casi previsti dalla legge il giudice deve porre a fondamenta delle decisioni ... i fatti non contestati dalla parte costituita».

39 TESAURO, Riflessi sul processo tributario delle recenti modifiche al cpc, in Rass. trib., 2010, p. 965.

40 COLLI VIGNARELLI, I poteri istruttori delle Commissioni tributarie, Bari, 2002, p. 62. Contrariamente si è espressa la Cassazione nelle sentt. n. 30328/2012 e n. 7709/2013. CANTILLO, Il principio di non contestazione nel processo tributario, in Rass. trib., 2012, p. 843. Secondo tale ultimo A. si desumerebbe dall’art. 23, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992 un one-re anche della parte resistente (ente impositore) di esporre le sue difese prendendo posi-zione su motivi addotti dal ricorrente. In senso contrario v. sent. Cass., 29 dicembre 2011, n. 29613 ove è affermato invece che la non contestazione non elide il principio secondo cui la mancata presa di posizione dell’ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa, non equivale ad ammissione delle affermazioni che tali motivi sostanziano.

41 INGRAO, op. cit., p. 227 secondo il quale la non contestazione non può valere a far ri-tenere alcuni fatti pacifici e dunque non bisognevoli di prova. Inoltre secondo tale A., p. 229, la non contestazione, a differenza delle dichiarazioni contrarie, non costituisce neanche un comportamento procedimentale apprezzabile dal giudice. V. COLLI VIGNA-RELLI, Il principio di non contestazione si applica anche nel processo trib., in Rass. trib., 2007, p. 1508.

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Bisogna chiedersi se la non contestazione, in quanto mera tecnica pro-cessuale volta a garantire l’economicità dei giudizi, sia da considerare real-mente una preclusione probatoria e se esistono precisi limiti all’applicazione dello stesso principio nel processo tributario che lo rendono compatibile con il diritto di difesa.

Certamente, se è vero che la non contestazione non può essere limitata dall’indisponibilità dell’obbligazione tributaria e che incombe sulle parti l’o-nere di contestare i fatti eccepiti, è anche vero che tale regola processuale non riguarda l’interpretazione o la qualificazione giuridica che compete al giudice, ma dovrebbe limitarsi, in un processo documentale come quello tri-butario, all’obbligo di esibizione o allegazione di prove coerenti in grado di confutare specifici fatti posti a base della pretesa che devono essere esami-nate dal giudice

42. In tal senso è ragionevole ritenere che, ai fini della corret-ta operatività della non contestazione, rileva ad es. l’utilizzo di argomenta-zioni logicamente incompatibili con la negazione di un fatto

43. Il giudice tributario inoltre dovrà, nel rispetto dei confini della materia del contende-re, sempre tenere conto delle maggiori difficoltà del contribuente di reperi-bilità della documentazione probatoria rispetto all’A.F. e dell’esistenza di al-tri elementi o fatti che acquisisce a prescindere dalla contestazione della parte, svolgendo la propria (se pur limitata) attività istruttoria

44. Non vi è dubbio che l’art. 115 c.p.c., unitamente al divieto di nuove prove in appello, rappre-sentano regole che devono essere applicate nel rispetto di tali limiti e che, solo in tal modo, tali norme non costituiranno ulteriori restringimenti pro-batori in fase processuale che si aggiungono a quelli originati da comporta-menti tenuti in fasi precedenti.

42 Cass. n. 17055/2012 ove si afferma che «In sede d’impugnazione, l’accertamento, non viene vanificato dalla mera produzione in giudizio di documentazione varia, in quanto il giudice tributario deve procedere ad una valutazione analitica della medesima, ed in par-ticolare di tutte le scritture contabili previste, al fine di verificarne la validità ed idoneità a superare la presunzione fondata sulla mancata esibizione e sugli altri risultati dell’accerta-mento, essendo a carico del contribuente l’onere della prova contraria dettagliata in ordine ai ricavi, ai costi e alle detrazioni».

43 Cass., 13 settembre 2013, n. 20975. 44 DE PASQUALE, L’onere di contestazione specifica nel processo tributario, in Riv. trim. dir.

trib., 2013, p. 545.

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4. La ricerca di nuove e più ampie forme di tutela nell’ambito dei principi UE e della CEDU

È necessario valutare se esistono realmente più ampie forme di tutela a livello UE e CEDU che garantiscono maggiormente il diritto di difesa dei contribuenti durante il contraddittorio rispetto a quelle garantite dal nostro ordinamento in presenza di preclusioni probatorie. Va rilevata in proposito una diversa sfera applicativa delle norme e dei principi CEDU, rispetto a quel-la di diritto UE che comunque va attenuandosi a seguito dell’adesione della UE alla CEDU.

Mentre le norme di diritto dell’Unione Europea hanno finalità economi-ca e sono in grado di giustificare il loro ampliamento nella sfera fiscale so-stanziale e procedurale ed il superamento della sovranità nazionale attraver-so la disapplicazione di norme interne incompatibili, le norme CEDU, che sanciscono una serie di garanzie anche nei confronti del contribuente in fase procedimentale e processuale tributaria come obblighi internazionali che incidono direttamente sulla sovranità fiscale, sono volte ad interpretare e integrare i parametri costituzionali (come il principio del giusto processo e il diritto di difesa)

45. Misure nazionali come quelle procedimentali in contrasto con i diritti

fondamentali, possono dunque ormai essere disapplicate quando il diritto basato sulla CEDU, è strettamente correlato alle libertà fondamentali. Per-tanto le norme CEDU rafforzate e comunitarizzate a seguito dell’adesione dell’UE alla convenzione diritti umani, dovrebbero applicarsi anche a fatti-specie che rientrano nella sfera del diritto dell’UE

46. Tuttavia, secondo i re-centi orientamenti della stessa Corte di Giustizia, l’obbligo di disapplicazio-ne delle norme che violano i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, non deve impedire l’attività valutativa autonoma del giudice nazionale

47.

45 RAGUCCI, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, in Rass. trib., 2009, p. 585, osserva come le norme CEDU sono norme interposte che integrano il para-metro di costituzionalità la cui valutazione spetta alla Corte costituzionale.

46 Per maggiori approfondimenti sul tema v. DEL FEDERICO, op. ult. cit., p. 220 ss. V. ZAGREBELSWKI, La prevista adesione della UE alla CEDU, in www.europeanrights.eu, il quale osserva che oggi la Corte UE fa continuo riferimento alla CEDU nella interpretazione e applicazione della convenzione e la Corte CEDU trova continua ispirazione dalla giuri-sprudenza della normativa UE. L’adesione della UE alla CEDU potrebbe inoltre favorire lo sviluppo della giurisprudenza della Corte CEDU. V. sul tema GALLO, Ordinamento UE e principi fondamentali, Napoli, 2006, p. 29, secondo il quale vi sarebbe una certa equivalen-za tra protezione dei diritti fondamentali nel sistema UE e principi costituzionali nazionali.

47 Corte di Giustizia, sent. Fransson, causa C-617/10 del 26 febbraio 2013.

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È dunque difficile stabilire se le garanzie CEDU (in particolare l’art. 6 con-cernente il diritto ad un processo equo) in caso di mancanza di contradditto-rio preventivo e di tutela effettiva del contribuente in fase istruttoria, operino sempre nel diritto procedimentale tributario e consentano di ritenere defini-tivamente superata la tesi del potere d’imperio e di supremazia Stato-Fisco.

Nonostante i tentativi di ampliamento delle garanzie CEDU come quella del giusto processo garantito dall’art. 111 Cost. alla sfera del diritto tributario non penale o sanzionatorio della Corte di Strasburgo, la recente giurispru-denza della Cassazione (sentt. n. 19367/2008

48 e 10 febbraio 2011, n. 3270) ha infatti affermato l’esclusione dalla sfera applicativa della convenzione dei diritti umani delle controversie relative ad obbligazioni che risultino dalla legislazione fiscale, eccetto le sanzioni tributarie che per l’afflittività siano as-similabili a quelle penali.

La Cassazione, nella sent. 7 maggio 2010, n. 11082 inoltre, dopo aver esaminato la possibile estensione della giurisprudenza della CEDU nell’or-dinamento tributario italiano, ha individuato un limite, laddove ha ricono-sciuto che, i principi fissati dalla CEDU, attribuiscono la potestà di giudica-re, parametro di riferimento per la valutazione dell’idoneità dei mezzi predi-sposti a tutela di quelle posizioni soggettive (momento valutativo interno, anche ai fini della tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.), ma non incidono affatto sulla interpretazione delle norme (nazionali) di ripartizione della giurisdizione.

Tra i principi CEDU in grado di ampliare le garanzie già previste dal no-stro ordinamento ed in particolare dall’art. 24 e 111 Cost. e renderle opera-tive sin dalla fase istruttoria procedimentale, va menzionato il diritto al si-lenzio (v. sent. CEDU, caso Murray, 8 febbraio 1996, n. 18731/91

49) che è

48 La CEDU, dopo aver premesso che la nozione di controversia in materia civile e di controversia in materia penale (in relazione e nei limiti delle quali è tutelato dall’art. 6, p. 1, CEDU il diritto alla ragionevole durata del processo) va determinata “in modo autono-mo”, poiché qualsiasi altra soluzione rischierebbe di portare a risultati incompatibili con l’oggetto e la portata della Convenzione (v. sentt. in cause K. C. R.F.T. del 28 giugno 1978; B. c. Portogallo dell’8 luglio 1987; M. c. Francia n. 39652/98; P.B. c. Francia del 21 ottobre 1997), ha già avuto a tal fine occasione di escludere che rientrino nella sfera di applicazio-ne della Convenzione le controversie relative ad obbligazioni – pur di natura patrimoniale – che “risultino da una legislazione fiscale” ed attengano, invece a diritti di natura civile, a doveri civici imposti in una società democratica.

49 La CEDU ha dichiarato che obbligare l’imputato a rendere testimonianza non è sta-to ritenuto in contrasto con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, mentre vi sarebbe violazione della Convenzione se una condanna fosse basata solo o principalmente sul rifiuto di testimoniare.

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stato sancito anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in ambito UE

50 in materia concorrenziale ed in particolare nei procedimenti ammini-strativi riguardanti il diritto a non testimoniare contro sé stessi che farebbe parte del diritto comunitario in quanto accolto dagli Stati membri aderenti alla CEDU. Più di recente, nel caso Chambaz c. Switzerland del 5 aprile 2012, n. 11663/04, la Corte Europea ribadisce che il diritto al silenzio durante le attività istruttorie costituisce uno standard internazionale generalmente ri-conosciuto che si pone alla base delle nozione di equo processo e che è ga-rantito in materia tributaria quando dalle indagini fiscali possono scaturire conseguenze di tipo penale

51. Particolarmente importante in tale contesto, è l’orientamento della CEDU

nel noto caso Jussila della Corte di Strasburgo del 2 novembre 2006, n. 73053/01, attraverso il quale è fissato un limite laddove, nell’esaminare la legittimità dell’esclusione – non per decorrenza di termini – di una prova come quella testimoniale dal processo tributario (prevista dall’ordinamento svedese), si considera tale esclusione compatibile con il giusto processo solo se da tale divieto non deriva un grave pregiudizio del ricorrente sul piano pro-batorio non altrimenti rimediabile, riconoscendo la proporzionalità di misu-re restrittive in sede processuale. Se venisse condivisa tale tesi anche dalla nostra giurisprudenza tributaria, potrebbe ritenersi non ammissibile alcuna forma di preclusione probatoria procedimentale e processuale (incluso quelle temporali-decadenziali) in grado di arrecare un grave pregiudizio al contribuente ed al suo diritto di difesa.

Va tuttavia precisato che l’estensione al nostro procedimento e processo tributario di tali orientamenti giurisprudenziali europei, indurrebbe comun-que a considerare il diritto al silenzio invocabile in presenza di precise con-dizioni quali l’esistenza di situazioni penalmente rilevanti (fondate su di un

50 V. Corte di Giustizia, sent. Postbank, C-60/92 del 10 novembre 1993 ove la Corte af-ferma che la Commissione UE, «nonostante in taluni casi può obbligare un’impresa a for-nire tutte le informazioni, non può pregiudicare i diritti di difesa riconosciuti all’impresa imponendo ad es. l’obbligo di fornire risposte attraverso le quali sarebbe indotta ad am-mettere l’esistenza della trasgressione che deve esser provata dalla Commissione». Ciò im-plica in generale un potenziamento dei poteri istruttori nei sistemi giuridici nazionali e l’e-liminazione di preclusioni in fase processuale. V. inoltre la Corte di Giustizia, sent. Orkem, C-374/87 del 18 ottobre 1989, p. 34, del Trib. I grado UE, T-446/05 del 28 aprile 2010 e Corte di Giustizia, sent. Sopropè, C-439/07 del 19 dicembre 2008.

51 DELLA VALLE, Il giusto processo tributario: la giurisprudenza della CEDU, in Rass. trib., 2013, p. 443, commentando tale caso osserva che in tale caso la Corte di Strasburgo in li-nea con la precedente giurisprudenza, ritiene che l’irrogazione di sanzioni infrange il dirit-to al silenzio violando l’art. 6 CEDU.

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autonomo sistema probatorio) e la gravità del pregiudizio che la mancata estensione del diritto alla prova può arrecare al contribuente

52. Ciò è in ogni caso particolarmente evidente nella misura in cui l’accertamento tributario ed il sistema probatorio sono fondati sempre più su presunzioni che inver-tono l’onere della prova a carico del contribuente e la collaborazione trova margini e forme limitate sin dal contraddittorio preventivo.

Anche i giudici comunitari riconoscono valore all’effettività della difesa durante il contraddittorio procedimentale in materia tributaria, consideran-do quest’ultimo principio fondamentale di diritto UE in grado di garantire fortemente e più direttamente la tutela degli interessi del contribuente e i principi di buona amministrazione

53. In proposito, con la sentenza Sopropè cit., vengono riconosciuti dalla Corte di Giustizia il diritto di difesa e del contraddittorio a livello UE in materia doganale (il caso riguardava il termi-ne preclusivo che era previsto in fase istruttoria per l’audizione della parte e la comunicazione di documenti) come principi generali e fondamentali. La violazione del diritto al silenzio in fase di contraddittorio procedimentale, inoltre, non appare giustificata secondo i parametri UE della proporzionali-tà, se operante indiscriminatamente e in grado di arrecare un grave pregiu-dizio all’esercizio del diritto di difesa del contribuente. La nostra Corte di Cassazione (con sentt. n. 14105/2010

54 e n. 8481/2010) si è uniformata in materia doganale a quanto affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Sopropè. Il principio fondamentale che scaturisce dalla giurisprudenza co-munitaria è che i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi ge-nerali dei quali

55 la Corte di Giustizia garantisce l’osservanza, ispirandosi al-

52 Nel nostro ordinamento il diritto al silenzio trova applicazione in materia penale no-nostante dal suo esercizio possa derivare l’impossibile formazione della prova testimoniale (Cass., 17 settembre 2007, n. 34928 e 28 gennaio 2008, n. 32557).

53 V. Corte di Giustizia, sent. Cipriani, C-395/00 del 12 dicembre 2002, riguardante i termini brevi posti dalla Direttiva CE 92/12 per fornire la prova della regolarità di opera-zioni in materia di accise. V. DE FLORA, I limiti del principio del contraddittorio preventivo, in Dir. e prat. trib. int., 2012, p. 995, la quale ritiene che i giudici Ue con la sentenza Sopropè at-tribuiscono al diritto al contraddittorio valore di principio fondamentale dell’ordinamento tributario in quanto strumento in grado di attuare i principi della buona amministrazione. V. inoltre RAGUCCI, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, cit., p. 588.

54 Secondo la Cassazione in materia doganale è stato integralmente violato il diritto fondamentale di difesa consentito nella fase amministrativa dalla normativa nazionale – ol-treché imposto dalla giurisprudenza comunitaria.

55 V. par. 33 sentenza Sopropè. A tal fine, quest’ultima si ispira alle tradizioni costituzio-nali comuni agli Stati membri oltre che alle indicazioni fornite dai trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo a cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito (v.

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le indicazioni fornite a livello internazionale in materia di tutela dei diritti dell’uomo. Pertanto il diritto di difesa implica per il destinatario un ragione-vole lasso di tempo (che il giudice nazionale dovrà valutare) per poter far valere il proprio punto di vista

56 e ciò nel rispetto del principio dell’effettivi-tà

57. Effettività ed equivalenza consentono di intervenire anche sulle norme procedimentali e sul contraddittorio, qualora esse siano restrittive ed impe-discano la difesa e dunque l’attuazione dei diritti garantiti dall’UE.

Una conseguenza che dovrebbe derivare da tale approccio è il ricono-scimento da parte della giurisprudenza nazionale del giusto procedimento amministrativo, che consentirebbe di assicurare una effettiva parità delle parti attraverso maggiori vincoli anche nei confronti dell’A.F.

È necessario tuttavia chiedersi se vi è sempre la possibilità da parte della Corte di Giustizia UE di pronunciarsi sul contradditorio e sul diritto di dife-sa di competenza del legislatore nazionale o se, tale intervento, è ammesso solo su questioni comunitarie che possono determinare restrizioni.

Deve ritenersi che l’effettività della tutela della difesa del contribuente non può essere parziale e che essa dovrebbe comportare in qualsiasi situazione, secondo tali orientamenti europei, in particolar modo laddove è differita, assenza di preclusioni probatorie come quelle temporali che generano de-cadenza per decorrenza dei termini, nella fase procedimentale e in quella del I grado di giudizio. Sia se si tratta di situazioni intra-comunitarie che coin-volgono contribuenti residenti e sia se si tratta di situazioni interne, la preva-lenza di tali norme europee su quelle nazionali procedimentali o processuali in particolare, sent. 6 marzo 2001, causa C-274/99, Connolly/Commissione, in Racc., p. I-1611, punto 37).

56 V. Corte di Giustizia, sentenza Sopropè (pp. 37 e 38) ove è affermato che «In forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devo-no essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione. A tal fine essi devo-no beneficiare di un termine sufficiente. Tale obbligo incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’applicazio-ne del diritto comunitario, quand’anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente siffatta formalità. Trattandosi dell’attuazione del principio in parola e, più in particolare, dei termini per esercitare i diritti della difesa, si deve precisare che, qualora non siano fissati dal diritto comunitario, come nella causa principale, essi rientrano nella sfera del diritto nazionale purché, da un lato, siano dello stesso genere di quelli di cui bene-ficiano i singoli o le imprese in situazioni di diritto nazionale comparabili, e, dall’altro, non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti della di-fesa conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario».

57 V. inoltre Corte di Giustizia, sent. C-439/05 del 13 settembre 2007.

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è particolarmente rilevante in quanto, è solo attraverso l’ampliamento del diritto di difesa che si può garantire il soddisfacimento dei diritti fondamen-tali del cittadino-contribuente.

5. Il contrasto tra la cooperazione allargata e le preclusioni probatorie nei confronti dei non residenti

Per quanto riguarda le altre fattispecie più propriamente intracomunita-rie che coinvolgono soggetti non residenti e dunque il riconoscimento di prove acquisite in altri ordinamenti, diversi sono gli interventi della giuri-sprudenza UE sulle limitazioni o preclusioni probatorie e sulle garanzie in materia di inversione dell’onere della prova in fase pre-processuale a carico del contribuente comunitario (ai fini del riconoscimento di agevolazioni fi-scali) che possono incidere sulla parità delle parti. Viene distinto il caso in cui non è data affatto la possibilità al contribuente di fornire la prova per ri-fiuto (caso Hein Persche C-318/07 del 27 gennaio 2009) da parte dell’A.F. o per esclusione automatica di un beneficio fiscale attraverso presunzione as-soluta, ritenuto non compatibile con le libertà economiche e con la propor-zionalità, da quello in cui tale onere probatorio invertito da una legge è reso soltanto più difficile (richiesta di un documento difficilmente reperibile) per un cittadino di un altro Paese. In quest’ultimo caso sarebbe necessaria una verifica di compatibilità UE, ma non vi può essere esclusione indiretta dal beneficio fiscale per (le maggiori) difficoltà di reperimento della prova da parte del contribuente non residente.

Nel primo caso, concernente l’impossibilità di fornire la prova, la Corte di Giustizia ha dimostrato grande apertura rispetto a quanto è stato fatto dalla giurisprudenza nazionale ed ha affermato un principio fondamentale, ossia, che non può essere escluso a priori che il contribuente non residente sia in grado di produrre validi documenti probatori che consentono allo Stato di verificare in modo chiaro e preciso la situazione (sent. Baxter, C-254/97 del-l’8 luglio 1999)

58 e che le libertà fondamentali UE non consentono ad una

58 È stata inoltre affermata sempre in relazione a situazioni intracomunitarie la necessi-tà ai fini probatori di verificare le informazioni. La Corte di Giustizia UE nella sentenza So-cieteè Papillon C-418/07 del 27 novembre 2008 non ha accettato le difficoltà incontrate da parte dei Paesi come giustificazione del mantenimento di tali restrizioni fiscali nei con-fronti di non residenti, riconoscendo che le informazioni fiscali che riguardano le società, tanto più sono idonee quanto più si applicano misure comunitarie di armonizzazione in mate-

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normativa nazionale che escluda un vantaggio fiscale senza alcuna possibilità di dimostrare la sussistenza dei requisiti (sent. Hein Persche cit., p. 72)

59. Tut-tavia nello stesso caso Hein Persche, p. 69 e nel caso Elisa c-451/05/2007, p. 95, la Corte di Giustizia ha riconosciuto, come principio generale, la c.d. cooperazione allargata tra Paesi UE che si basa sull’inversione dell’onere della prova e sullo spostamento dell’obbligo di informazione dalle ammini-strazione finanziarie di altri Paesi membri (scambio di informazioni) ai con-tribuenti non residenti o che operano in altri Stati, stabilendo che «nulla impedisce alle autorità fiscali interessate di esigere dal contribuente le prove che esse reputino necessarie per la corretta determinazione delle imposte e delle tasse di cui trattasi e, se del caso, di rifiutare l’agevolazione qualora le prove per la corretta determinazione dell’imposta non siano state fornite». Ai fini disapplicativi di norme antielusive (normative CFC), inoltre, è stato affermato dalla Corte di Giustizia che le società o enti devono essere in con-dizione di produrre elementi in grado di dimostrare l’effettivo inserimento e svolgimento di attività in altro Stato (v. sent. Schweppes, causa 196/904 del 12 settembre 2006, p. 70).

Appare evidente che alcune preclusioni probatorie come quelle previste per i non residenti in fase procedimentale, pur essendo apparentemente giustificate da una incompatibilità tra diversi sistemi probatori nazionali, possono, alla luce di tali orientamenti giurisprudenziali, rappresentare un limite non compatibile con il diritto UE. ria di contabilità delle società (dati affidabili e verificabili). Il principio della verificabilità dei dati assume particolare rilevanza ai fini probatori perché consente la compatibilità di sistemi di verifica nei diversi Paesi membri che è alla base di un’efficace cooperazione in materia fiscale e secondo quanto stabilito nella Corte di Giustizia, sent. SGI, C-311/08 del 2010, p. 71, rispetta la proporzionalità l’onere della prova previsto dalla legge nazionale basato su dati verificabili e oggettivi e senza oneri amministrativi eccessivi.

59 In tale sentenza si afferma (pp. 57 e 58) che «Se è vero che, a differenza dell’ente be-neficiario di una donazione ad una casa di riposo in altro Paese UE, il donatore non dispo-ne lui stesso di tutte le informazioni necessarie alle autorità fiscali per verificare se tale ente soddisfi le condizioni poste dalla legislazione nazionale per accordare vantaggi fiscali, in particolare quelle relative al modo in cui i fondi versati saranno gestiti, è di solito possibile, per un donatore, ottenere da detto ente documenti che valgano ad attestare l’importo e la natura della donazione elargita, a identificare gli obiettivi perseguiti da tale ente nonché a certificare la regolarità della gestione delle donazioni da esso ricevute nel corso degli anni precedenti.

Al riguardo hanno un certo peso gli attestati rilasciati da un ente che soddisfi, nello Sta-to membro di stabilimento, i requisiti imposti dalla normativa nazionale per la concessione di vantaggi fiscali, specie quando tale normativa subordini a requisiti identici la concessio-ne di vantaggi fiscali finalizzati a promuovere attività di interesse generale».

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Anche in tale caso le limitazioni probatorie e il valore meramente indizia-rio di alcuni documenti previsti dal nostro ordinamento (perizie, consulen-ze indizi o prove atipiche rimesse al prudente apprezzamento del giudice che dimostrano ad es. l’effettiva attività economica da parte di un residente in altro Stato) o l’esclusione della prova testimoniale, non consentono in fa-se procedurale e processuale di ottemperare alle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia UE.

Ciò assume ancor più rilevanza in materie che non sono qualificabili esclu-sivamente tra quelle intracomunitarie come l’abuso del diritto laddove, all’e-spansione che ha determinato tale principio di origine comunitaria in materia antielusiva (in relazione ad es. all’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973), non ha fatto seguito un adeguato corrispondente ampliamento della documentazio-ne probatoria ammessa nell’attività difensiva o ai fini disapplicativi

60. Lo stes-so discorso vale per l’individuazione delle operazioni IVA c.d. soggettivamen-te inesistenti incentrato sulla consapevolezza del cessionario

61. Considerate le difficoltà ai fini probatori, sia del contribuente che del-

l’Amministrazione finanziaria, riguardanti la valutazione di alcune situazioni extrafiscali che giustificano comportamenti sospetti tenuti da questi ultimi

62,

60 La sentenza Cass., 21 gennaio 2011, n. 1372, ha messo indirettamente in evidenza ta-le aspetto, affermando che il carattere abusivo di una operazione deve essere escluso nei confronti di una società per la compresenza non marginale di ragioni extrafiscali che pos-sono essere anche di natura meramente organizzativa e consistere nel miglioramento struttu-rale e funzionale dell’impresa.

61 L’incolpevole ignoranza del cessionario IVA o la sua partecipazione inconsapevole al meccanismo fraudolento in materia di frodi carosello (sentt. Cass. n. 8132/2011 e 13 mar-zo 2009, n. 6124) rappresentano uno dei settori di maggiore criticità dal punto di vista probatorio. Anche il riconoscimento dell’onere della prova a carico dell’A.F. riconosciuto dalla giurisprudenza (Cass., sez. trib., 13 marzo 2013, n. 6229 e 24 luglio 2013, n. 17959) non appare infatti sufficiente in mancanza di adeguati poteri istruttori da parte di quest’ul-tima, se si considera rilevante la valutazione della consapevolezza del cessionario IVA. La presunzione di connivenza tra i soggetti ritenuti artefici del comportamento fraudolento in tale ultimo caso, in mancanza di strumenti normativi probatori idonei, può violare la tutela dell’affidamento. La Corte di Giustizia quale organo in grado di interpretare autentica-mente la VI Direttiva IVA nelle sent. C-354/2003 e C-355/2003 del 12 gennaio 2006, ha affermato in proposito che «Il diritto di un soggetto passivo che effettua simili operazioni di dedurre l’imposta sul valore aggiunto pagata a monte non è pregiudicato dal fatto che, nella catena di cessioni in cui si inscrivono tali operazioni, senza che il medesimo soggetto passivo lo sappia o lo possa sapere, un’altra operazione, precedente o successiva a quella realizzata da quest’ultimo, sia inficiata da frode all’imposta sul valore aggiunto». V. inoltre Corte di Giustizia, cause riunite C-80/11 e C-142/11 del 21 giugno 2012 sull’impossibili-tà di trasferire i poteri di controllo sui soggetti passivi.

62 BORGNI, Il principio del contraddittorio e le sentenze del la terza via, in Rass trib., 2011

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Fabrizio Amatucci

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sembra chiaro che, per garantire effettivamente la cooperazione allargata, il diritto di difesa e il giusto processo a livello UE, non si può più prescindere da un ampliamento in fase probatoria e istruttoria processuale e dall’elimi-nazione di ogni preclusione o restrizione nei confronti di non residenti nel rispetto della proporzionalità e della cooperazione allargata.

6. Conclusioni

La conformità ai principi CEDU del giusto processo e della effettività e proporzionalità in sede UE, esigono che l’iter del contraddittorio endo-pro-cedimentale a livello nazionale non possa in alcun modo contrarre, attraver-so limitazioni probatorie di tipo temporale, il già limitato diritto di difesa del contribuente da esercitarsi pienamente anche in fase processuale, con la più ampia facoltà di prova. Il costante e progressivo utilizzo di presunzioni in se-de di controllo, deve essere dunque controbilanciato da una doppia istrutto-ria procedimentale e processuale. L’ampliamento del diritto di difesa deter-mina che esso vada garantito in maniera proporzionale alla reperibilità della documentazione richiesta ed agli eventuali gravi pregiudizi che può arrecare la mancata collaborazione da parte del contribuente. A ciò si aggiunge la de-licatezza della concomitanza tra procedimento tributario e penale, che do-vrà essere sempre tenuta presente durante il contraddittorio preventivo. Dun-que deve ritenersi che, in tali situazioni, qualora il soggetto sottoposto a ve-rifica rimanga inerte, il deposito di documenti giustificativi dovrebbe poter essere garantito successivamente in ambito processuale nel rispetto del giu-sto procedimento e della parità delle parti. Inoltre, l’espansione del contrad-dittorio preliminare in fase di accertamento e di verifica e la cooperazione allargata intracomunitaria, che vedono coinvolto fortemente il contribuente non residente, non sono compatibili con le preclusioni probatorie esistenti nel nostro sistema tributario.

La mancata collaborazione o partecipazione al contraddittorio non deve precludere la possibilità di collaborare almeno nel primo grado di giudizio e di esibire in tale fase la documentazione che poteva essere fatta valere du-rante il contraddittorio, qualora il reperimento delle stessa risulti oggettiva-mente non agevole. Il diritto di difesa deve essere garantito in maniera con- p. 377. Mediante il rilievo ex officio del carattere abusivo dell’assetto negoziale, il giudice fa salvo l’atto impositiva arricchendone l’apparato motivazionale e la garanzia del contraddit-torio dovrebbe essere irrinunciabile e soprattutto se ciò accade in ultima istanza.

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tinuativa in sede procedurale e processuale soprattutto in presenza di limita-ti poteri istruttori nel rispetto della proporzionalità e della ragionevolezza

63. L’errore, che spesso si commette, consiste nel considerare i poteri istrut-

tori del giudice tributario come poteri inquisitori in grado di compromet-terne la terzietà (sent. Corte cost. n. 109/2007)

64, senza tener conto che le limitazioni probatorie che ne scaturiscono, in un sistema basato sempre più su strumenti presuntivi e sull’anticipazione dei principi probatori processua-li in fase di contraddittorio, possono compromettere il diritto di difesa e la sua effettività che è fortemente garantita a livello europeo, dalla CEDU e dal diritto dell’UE.

63 V. sentt. Cass. nn. 12630/2009 e 2816/2008. 64 La rilevanza pubblicistica dell’obbligazione tributaria giustifica secondo la Corte co-

stituzionale ampiamente i penetranti poteri che la legge conferisce all’amministrazione nel corso del procedimento destinato a concludersi con il provvedimento impositivo, ma cer-tamente non implica affatto – né consente – che tale posizione si perpetui nella successiva fase giurisdizionale e che, in tal modo, sia contaminata l’essenza stessa del ruolo del giudi-ce facendone una sorta di longa manus dell’amministrazione: in particolare, attribuendo al giudice poteri officiosi che, per la indeterminatezza dei presupposti del loro esercizio (o non esercizio), sono potenzialmente idonei a risolversi in una vera e propria supplenza dell’am-ministrazione.

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Susanna Cannizzaro

PERMUTA, OPERAZIONI PERMUTATIVE E DATIO IN SOLUTUM TRA NORMATIVA EUROPEA

E DISCIPLINA INTERNA*

BARTER, PERMUTATIONS AND GIVING IN PAYMENT BETWEEN EUROPEAN AND NATIONAL DISCIPLINE

Abstract Muovendo dall’analisi della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e dall’esa-me degli schemi concettuali ormai propri del diritto europeo dei contratti si evi-denzia come il sistema dell’IVA trovi il suo substrato non già nella dogmatica della causa contrattuale, intesa come funzione obiettiva economico-sociale del contratto, ma nell’interesse perseguito in concreto dalle parti. L’indagine è fun-zionale a porre in luce le disarmonie della disciplina IVA interna, con particolare riferimento al regime della permuta, delle operazioni permutative e della datio in solutum. Parole chiave: IVA, causa contrattuale, interesse in concreto, permuta, datio in solutum Moving from the analysis of CJEU’s case law and the conceptual schemes of EU con-tract law, it clearly emerges that the VAT system does not have its substratum in the theory of the contractual purpose – i.e. the contract’s objective socio-economic function – but in the interest concretely pursued by the parties. The survey aims at shedding light on the disharmonies of national VAT discipline, with particular reference to the rules governing barter, permutations and giving in payment. Keywords: VAT, contractual purpose, effective interest of the parties, barter, giving in payment

* Lavoro svolto nell’ambito del progetto di ricerca PRIN 2009 “Corrispettività, onerosi-tà e valore di trasferimento nel diritto dell’impresa e nella circolazione giuridica dei beni”.

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SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le categorie concettuali entro le quali si muove il diritto di matrice europea. – 2.1. La posizione della giurisprudenza UE sulla permuta e le operazioni permutative. – 2.2. La ba-se imponibile ai fini IVA. I criteri per la valorizzazione del corrispettivo. – 3. La disciplina interna. – 3.1. Vendita, permuta e datio in solutum, i distinti profili causali. – 3.2. La permuta, le operazioni permutative e la datio in solutum nell’IVA. – 3.3. Base imponibile e momento impositivo nella permuta, nelle operazioni permutative e nella datio in solutum. – 4. La compatibilità della discipli-na interna rispetto alle disposizioni della Direttiva.

1. Premessa

Ai fini della comprensione e dell’applicazione della disciplina IVA, sem-pre maggiore importanza assume il contributo della Corte di Giustizia UE, che ha inciso profondamente sulla definizione dei concetti fondamentali posti a base del tributo, indirizzando l’opera del legislatore nazionale in me-rito al recepimento delle norme comunitarie e vigilando costantemente sul-la realizzazione delle finalità sottese all’ordinamento europeo.

Per tali motivi, nel condurre l’analisi qui svolta, si è ritenuto opportuno in primis valorizzare l’interpretazione delle disposizioni di matrice europea, in materia di IVA che interessano il tema in questione. Per la corretta com-prensione delle statuizioni della Corte è apparso altresì preliminare tentare di individuare gli schemi concettuali entro cui il legislatore europeo e, pro-babilmente, anche la giurisprudenza sovranazionale, si muovono.

Solo dopo aver, in tal modo, identificato una chiave di lettura, infatti, è possibile valutare se la disciplina domestica risulti o meno conforme ai pre-cetti comunitari.

2. Le categorie concettuali entro le quali si muove il diritto di matrice europea

In primo luogo occorre rilevare che nelle Direttive IVA non v’è traccia di diposizioni che considerino specificamente la permuta, le operazioni permuta-tive e la datio in solutum, cosicché il primo problema che sorge riguarda il profi-lo dell’unitarietà dell’operazione a fronte di due cessioni o due prestazioni en-trambe astrattamente rilevanti sotto il profilo dell’applicazione del tributo.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia, sebbene con riferimento alle “o-perazioni miste”

1 afferma che la Direttiva IVA da un lato impone che ciascuna

1 Corte di Giustizia UE, 29 marzo 2007, causa C-111/05, Aktiebolaget NN. Nell’analisi di

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operazione sia considerata come autonoma e indipendente, dall’altro richiede che l’operazione costituita da un’unica prestazione sotto il profilo economi-co non sia artificialmente divisa in più parti per non alterare la funzionalità del sistema dell’IVA.

La dottrina ha sottolineato come tale impostazione faccia emergere due preoccupazioni: tenere distinte operazioni diverse che sono economica-mente e funzionalmente autonome anche se vengono combinate in negozi giuridici e schemi contrattuali, eventualmente atipici unitari e considerare unitariamente operazioni, pur giuridicamente distinte, laddove le stesse sia-no collegate funzionalmente per l’effettuazione di un’operazione unitaria sotto il profilo economico

2. Il ragionamento, svolto con riferimento ad operazioni autonome ma col-

legate, sembra valere, a maggior ragione, nel caso di operazioni giuridicamen-te ed economicamente unitarie. La giurisprudenza sovranazionale che sin qui si è occupata di permuta ed operazioni permutative – pronunciandosi, come vedremo, in merito alla determinazione della base imponibile – non sembra mettere minimamente in dubbio che le prestazioni in discussione debbano considerarsi parte di un’operazione economica unitaria se si pon-gano in rapporto di corrispettività

3, ovverosia laddove esista tra le stesse un un’operazione mista non si deve derogare al principio costante in materia di IVA secondo cui occorre fare riferimento alla realtà economica. Dato che il trasferimento del potere di disporre del cavo deve avvenire solo al termine dell’installazione e del collaudo, non sarebbe conforme alla realtà economica di tale operazione considerare che il committente abbia acquistato, da un lato, il cavo sottomarino a fibre ottiche, e, dall’altro, successivamente le prestazioni di servizi relativi alla sua posa in opera. Tale operazione, pertanto, è stata considerata come un’unica ope-razione ai fini dell’applicazione della VI Direttiva. La qualifica di un’operazione mista deve fon-darsi sul confronto tra l’importanza rispettiva della cessione del bene e delle prestazioni di servi-zi e tale confronto va effettuato in base a criteri oggettivi onde pervenire a un risultato prevedi-bile per gli operatori economici. Il carattere chiaramente prevalente del prezzo del bene nel co-sto totale dell’operazione è considerato un criterio rispondente a tali esigenze.

2 V. FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, in Dir. prat. trib., 2009, I, p. 1217 ove specifici riferimenti in giurisprudenza; Corte di Giustizia UE, 19 novembre 2009, cau-sa C-461/08, Don Bosco Onroerend Goed BV, in Riv. dir. trib., 2010, p. 238 con nota di DEL VAGLIO, La disciplina Iva della cessione di aree fabbricabili sulle quali insistono fabbricati da demolire: riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte di Giustizia Ue. Sul punto si veda anche PADOVANI, Imposte di registro e collegamento negoziale nel pensiero della Cassa-zione, in questa Rivista, n. 1/2014, p. 248, nota 29, il quale mette in luce come sia in atto un processo di “contaminazione” tra IVA e imposte di registro.

3 V. FILIPPI, op. cit., p. 1210 secondo la quale «senza una contropartita avente un nesso di-retto con il servizio ed un effettivo “valore soggettivo”, che rappresenti, appunto, il controvalo-re “causale” dell’utilità ricevuta, non c’è scambio in senso giuridico, ma semplice coesistenza di prestazioni sganciate l’una dall’altra, e quindi non c’è operazione economica rilevante».

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nesso diretto, stabilito contrattualmente, che non consenta di considerarle sganciate l’una dall’altra

4. Ma v’è di più. È stato costantemente affermato, che il principio generale

della parità di trattamento, di cui – secondo la Corte – il principio generale della neutralità fiscale costituisce un’espressione particolare a livello di dirit-to derivato dell’Unione e nel settore peculiare della fiscalità, impone di non trattare diversamente situazioni analoghe, salvo che una differenza di regi-me sia obiettivamente giustificata

5. Ne consegue che tale principio di neu-tralità osta, da una parte a che merci o prestazioni di servizi analoghe, che si trovano quindi in concorrenza le une con le altre, siano considerate in modo diverso dal punto di vista dell’IVA e, dall’altra, a che operatori economici che effettuano le stesse operazioni siano trattati in modo diverso in materia di riscossione dell’imposta

6. Seguendo questo ragionamento la giurispru-denza è arrivata, in più occasioni (e a diversi fini), ad affermare che «i con-tratti di permuta, in cui il corrispettivo è per definizione in natura, e le ope-razioni per le quali il corrispettivo è in denaro sono, dal punto di vista eco-nomico e commerciale, due situazioni identiche»

7, laddove esista un nesso diretto tra la prestazione di servizi e/o la cessione di beni oggetto del con-tratto, e se il loro «valore possa essere espresso in denaro»

8. La giurisprudenza europea pare dunque disconoscere le peculiarità degli

schemi negoziali permutativi, ritenendoli in sostanza equivalenti a quelli in cui oggetto di una delle due prestazioni corrispettive è una somma di dena-ro e ciò nel presupposto che lo strumento contrattuale in concreto utilizzato

4 Fra le altre Corte di Giustizia UE, 5 febbraio 1981, causa 154/80, Coöperatieve Aar-dappelenbewaarplaats GA.

5 Corte di Giustizia UE, 10 aprile 2008, causa C-309/06, Marks & Spencer, Corte di Giustizia UE, 29 ottobre 2009, causa C-174/08, NCC Construction Danmark, Corte di Giu-stizia UE, 19 dicembre 2012, causa C-549/11, Orfey Bulgaria.

6 Così Corte di Giustizia UE, 19 dicembre 2012, causa C-549/11, Orfey Bulgaria che richiama 29 ottobre 2009, causa C-174/08, NCC Construction Danmark.

7 Corte di Giustizia UE, 19 dicembre 2012, causa C-549/11, Orfey Bulgaria, che ri-chiama Corte di Giustizia UE, 3 luglio 1997, causa C-330/95, Goldsmiths. Con quest’ulti-ma sentenza la Corte ha statuito che la deroga prevista dall’art. 11, parte c, n. 1, comma 2 della VI Direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE dev’essere interpretata nel senso che essa non autorizza uno stato membro che emani disposizioni dirette a consenti-re il rimborso dell’IVA in caso di mancato pagamento totale o parziale del corrispettivo a escludere il rimborso stesso quando il corrispettivo non pagato sia in natura, ed a conce-derlo quando il corrispettivo sia in denaro.

8 Si veda, in tal senso, Corte di Giustizia UE, 3 luglio 2001, causa C-380/99, Bertels-mann, in Racc., p. I-5163, punto 17 e giurisprudenza ivi citata.

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deve risultare neutrale rispetto all’applicazione dell’imposta, ingenerandosi, diversamente, un ostacolo nella libertà di scelta dell’operatore economico

9. Per inquadrare correttamente tale prospettiva, non ci si può esimere dal

considerare che tanto il legislatore quanto (probabilmente) i giudici sovra-nazionali si muovono entro schemi concettuali diversi da quelli del legisla-tore e della giurisprudenza interni. Tale diversa visione, peraltro, non risulta più indifferente agli operatori e agli studiosi del diritto civile, in particolare per quanto riguarda il diritto dei contratti, atteso che oggi una molteplicità di fattispecie contrattuali, solo in parte collocabili all’interno del c.d. diritto dei consumatori, vengono ad essere regolate da norme che hanno fonte in provvedimenti assunti dagli organi dell’UE, in forza dell’obiettivo di ravvi-cinamento delle legislazioni sancito dal Trattato

10. Si è osservato in proposito che nell’odierno quadro del diritto di origine

comunitaria, è possibile cogliere una sorta di funzionalizzazione dell’agire del singolo, sia esso consumatore o impresa, ad un interesse pubblico gene-rale che è la regolazione del mercato, inteso non in senso economicistico, come mero ordo naturalis, ma in senso giuridico costruttivistico, come ordo legalis, conformato cioè dalle regole di diritto positivo. Tale funzionalizza-zione parrebbe implicare una torsione e, in certa misura, una riscrittura de-gli strumenti tradizionali dell’autonomia privata, che vengono riutilizzati per raggiungere finalità economiche o, comunque, ultronee rispetto agli in-teressi delle parti

11. Il consumatore sceglie i beni da acquistare e le sue deci-

9 Si vedano in proposito le conclusioni dell’Avv. Generale La Pergola alla sentenza Goldsmith di cui si riporta uno stralcio: «ai fini fiscali, dunque, le prestazioni in natura, quan-do sono suscettibili di valutazione in danaro, vengono sostanzialmente equiparate a quelle così perfezionate [n.d.r. le operazioni permutative]; e, a ben vedere, da tale equiparazione deve discendere, in via di principio, la necessaria parità di trattamento tra i due tipi di ne-gozi» ed ancora «Sotto il profilo economico ... non diversamente dalla vendita dietro cor-rispettivo in denaro la transazione in natura è uno strumento attraverso il quale si sviluppa la vita commerciale. Non si giustifica che l’una categoria sia discriminata rispetto all’altra. Tale disparità di trattamento si concreta, ai sensi della direttiva e del diritto comunitario, in un’ingiustificata interferenza, tutt’altro che neutrale sul piano fiscale, nella libertà di scelta dell’operatore economico».

10 In quest’ottica la locuzione di diritto contrattuale europeo, viene intesa come comples-so di norme di fonte comunitaria che regolano specifiche fattispecie contrattuali operanti in Italia. Si veda in questo senso ALPA, Il diritto contrattuale di fonte comunitaria, in CASTRONO-VO-MAZZAMUTO (a cura di), Manuale di diritto privato europeo, Milano, 2007, p. 252.

11 Così si esprime MAZZAMUTO, Il contratto di diritto europeo, Torino, 2012, p. 96 il quale sostiene che nella prospettiva comunitaria il consumatore non deve essere inteso come beneficiario esclusivo degli interventi di protezione. In realtà nella vendita di beni di con-

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sioni finiscono per incidere e per condizionare la formazione dell’offerta e le dinamiche concorrenziali tra gli operatori commerciali.

In quest’ottica il legislatore comunitario non accoglie la propensione (propria degli ordinamenti giuridici interni e in specie di quello nazionale) a disciplinare singoli tipi contrattuali, distinguendoli in ragione della relativa causa, ma tende – in funzione del riconoscimento all’autonomia negoziale di spazi operativi assai ampi – a non disegnare le situazioni tipo al cui verificar-si la norma giuridica ricollega determinati effetti. Gli obiettivi del mercato unico impongono più semplicemente interventi imperativi per quei gruppi di contratti ove può annidarsi un momento distorsivo della concorrenza

12. A questa impostazione è informata la tecnica normativa utilizzata dal legi-slatore comunitario

13 che, nel disciplinare i contratti, li distingue in relazio-ne ai soggetti (contratti dei consumatori e contratti d’impresa) e non al tipo inducendo ad un superamento del profilo funzionale della causa quale crite-rio di qualificazione dell’atto

14. sumo come in campi analoghi, il consumatore è individuato dal legislatore comunitario come il soggetto più adeguato – perché portatore di un interesse diretto – alla messa in opera di quell’apparato normativo fatto di diritti, rimedi e tutele che è volto anche a conformare giuridicamente il mercato. L’autore sottolinea come, a suo avviso, il «consumatore, rispet-to al complesso ordito del legislatore comunitario, sia più un mezzo che un fine esso stesso: l’agente delle rivoluzione, insomma, assoldato a sua insaputa al servizio del Re di Prussia».

12 Ciò può dirsi anche in relazione alla più recente disciplina sulla vendita di beni mo-bili di consumo, la quale esplicitamente opera rispetto ai contratti di permuta e di som-ministrazione nonché a quelli di appalto, di opera e tutti gli altri contratti comunque fina-lizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre così MAZZAMUTO, op. cit., pp. 141-142.

13 Tale modello, diverso da quella cui si informa il codice civile vigente, secondo alcuni è adottato anche dal legislatore interno. Si è osservato come, in quest’ambito, si possano individuare quattro linee direttrici: 1) vengono disciplinati i soggetti e non i contratti (co-me accade nelle ipotesi di mediazione, assicurazione; leasing e factoring); 2) quando si di-sciplinano i contratti non si adotta come modello quello del tipo contrattuale, ma quello del raggruppamento dei contratti; 3) anche quando si disciplinano i singoli tipi contrattua-li la natura delle disposizioni dettate si discosta da quella originariamente propria delle di-sposizioni di cui al Titolo III del Libro IV del codice civile, evidenziando una spiccata ten-denza a dettare norme imperative ispirate a finalità di controllo e di tutela e volutamente indeterminate quanto al loro ambito di applicazione; 4) in ultimo, si affida il compito di pro-cedere alla tipizzazione ad autorità amministrative. Si veda in tema DE NOVA, Nuovi Con-tratti, Torino, 1994, p. 16 ss., ID., I singoli contratti: dal Titolo III del libro IV del codice civile alla disciplina attuale, in AA.VV., Le ragioni del diritto Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Mi-lano, 1995, p. 497 ss.; ID., Contratto: per una voce, in Riv. dir. priv., 2000, p. 655 ss.

14 Si veda in questo senso PICARDI, La causa e il tipo, in Trattato di diritto privato euro-peo, III, L’attività e il contratto, a cura di Lipari, Torino, 2003, p. 274.

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In sostanza l’ordine di idee da cui muove il legislatore sovranazionale (che non sembrerebbe sconosciuto, come si vedrà, anche alla giurisprudenza del-la Corte di Giustizia UE) presuppone che l’autonomia negoziale non debba essere imbrigliata in schemi predeterminati normativamente in relazione ai quali s’individua un interesse meritevole di tutela. La prospettiva appare ri-baltata: sono gli strumenti giuridici a disposizione del singolo a doversi “pie-gare” alla realizzazione del suo interesse concreto

15, il cui perseguimento conduce all’attuazione di interessi superiori e generali: quelli del mercato. Conseguentemente, l’unico limite al libero spiegarsi dell’autonomia privata è che questa non conduca a falsare le regole della concorrenza

16.

2.1. La posizione della giurisprudenza UE sulla permuta e le operazioni permu-tative

Sembrerebbero trovare ragione in questa logica le statuizioni della Corte UE, relative ai presupposti per verificare la sussistenza di un’operazione per-mutativa. Per i giudici comunitari affinché si configuri un’operazione di que-sto genere è sufficiente, dunque, che ciascuna cessione o prestazione trovi causa e giustificazione nell’altra, valorizzando in tal modo l’interdipendenza delle obbligazioni dei contraenti. L’accordo bilaterale a contenuto patrimo-niale troverebbe infatti sostegno nella sussistenza di un serio intento delle parti di vincolarsi per il perseguimento di un interesse concreto

17.

15 Si è osservato in dottrina come i fatti del commercio internazionale incidono sulla costruzione di schemi e istituti prima assenti nella nostra realtà municipale e favoriscono il diffondersi di una rinnovata visione circa le fonti di assetto giuridico dei conflitti di interes-se. Si assiste al progressivo attenuarsi delle differenze nello stile di redazione dei contratti grazie all’utilizzazione anche negli ordinamenti romanisti di modelli contrattuali estrema-mente analitici in passato propri solo della prassi dei paesi di common law. In questo senso PICARDI, op. cit., p. 281; DE NOVA, op. cit., p. 634 ss.

16 C’è chi teme che una tale tendenza, che inevitabilmente incide negli ordinamenti in-terni, unitamente all’espansione sovranazionale dei modelli contrattuali comporti il peri-colo di uno “scavalcamento” o “aggiramento” di norme inderogabili contenute nella disci-plina dei singoli tipi contrattuali a tutela di interessi superiori e di un radicale e program-matico scardinamento di quel tessuto di regole razionali sedimentatesi nella disciplina po-sitiva dei tipi. Si veda BIN, La circolazione internazionale dei modelli contrattuali, in Contr. e impresa, 1993, p. 479.

17 È stato sottolineato in dottrina che di causa si possa parlare nell’ambito dell’ordina-mento comunitario facendo riferimento al modello della consideration dei sistemi di com-mon law. Tale dottrina pur ponendo in luce l’insufficienza dello schema astratto del tipo a cogliere l’unità dell’operazione economica e l’interesse effettivamente perseguito dai con-traenti, suggerisce la possibilità di recuperare alla causa un ruolo diverso da quello di ele-

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Inserita nel quadro che si è delineato sembrerebbe trovare anche ragione l’affermazione relativa all’equivalenza tra gli schemi negoziali della permuta e delle operazioni permutative e quello della vendita. L’operatore economi-co, per garantire il corretto funzionamento del mercato, deve poter scegliere liberamente tra più strumenti giuridici laddove ad essi sia riconducibile una medesima funzione, senza che il regime fiscale dell’atto possa essere in gra-do di condizionare tale scelta in un senso o nell’altro

18. Va chiarito a riguardo che l’identità di funzione degli schemi contrattuali

prescelti, nell’ottica europea, va valutato non già in relazione alla funzione obiettiva economico-sociale del tipo contrattuale utilizzato, ma, anche qui, in ragione dell’interesse in concreto perseguito dalle parti. Ciò sul presup-posto che i beni, nell’approccio sovranazionale, sono considerati nella sola dimensione della circolazione.

Tradizionalmente i “beni” 19 sono contraddistinti dal riconoscimento

della loro idoneità a soddisfare un interesse oggettivamente valutabile e rile-vante e in, ragione di ciò, dall’essere correlati a posizioni giuridiche sogget-tive. Su questa circostanza si fonda la distinzione tra valore d’uso e valore di

mento identificativo del tipo assegnandole una funzione di controllo dell’utilità del con-tratto e di salvaguardia dell’interesse in vista del quale esso è stato concluso, ancorandola in tal modo al principio di proporzionalità di matrice comunitaria e collocandola in posi-zione complementare rispetto alla clausola generale di buona fede, al fine di assicurare il perseguimento di esigenze di giustizia contrattuale a tutela del corretto funzionamento del mercato PICARDI, op. cit., p. 305.

18 È stato evidenziato come nel diritto comunitario, anche il principio generale di uguaglianza, che attiene in linea generale ai diritti fondamentali della persona assuma una valenza marcatamente economica orientata al mercato, traducendosi in tal modo nel prin-cipio di non discriminazione in base alla cittadinanza o alla residenza o nel principio di non restrizione delle libertà economiche dei cittadini/residenti propri di un paese rispetto ai soggetti di altro stato membro che esercitino una delle libertà fondamentali. V. FAN-TOZZI, Armonizzazione fiscale tra modelli comunitari e autonomia normativa degli Stati, Re-lazione al Convegno di studi Le ragioni del diritto tributario in Europa, Bologna, 26-27 set-tembre 2003; BORIA, L’antisovrano. Potere tributario e sovranità nell’ordinamento comunita-rio, Torino, 2004, p. 59, p. 103 ss.

19 Nell’ambito del diritto privato la nozione di “bene” viene in considerazione innanzi-tutto per definire tanto le entità oggettive assunte come punto di riferimento di interessi giuridicamente rilevanti, quanto le stesse posizioni giuridiche che a loro volta possono ave-re ad oggetto beni del primo tipo. Nello stesso tempo queste situazioni giuridiche possono rilevare per finalità diverse come beni. Per esempio nel nostro sistema il debitore (ai sensi dell’art. 2740 c.c.) risponde delle obbligazioni con tutti i suoi beni, ossia con tutte le situa-zioni giuridiche aventi contenuto patrimoniale e suscettibili di esecuzione forzata, vale a dire di circolazione forzata.

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scambio e s’individua nel primo il fondamento del secondo. In altri termini è la presenza di un valore di uso del bene a costituire il prius logico per l’in-dividuazione e la rilevanza, una volta introdotto un sistema di relazioni so-ciali di scambio prima e di mercato poi, del valore che il medesimo bene as-sume nella circolazione giuridica normalmente affidata al mercato

20. Si è osservato, in proposito, che l’evoluzione del diritto comunitario non

ha interessato la nozione di bene né la disciplina dell’appartenenza. Nella prospettiva del Trattato e del diritto derivato, infatti, il processo di qualifi-cazione dei beni e la disciplina relativa alle forme di appartenenza sono state date per presupposte in quanto governate da regole interne. La ragione alla base di tale indirizzo si ritrova nel fatto che la normativa comunitaria ha come finalità ultima quella di favorire la circolazione dei “beni”, in qualun-que modo essi vengano individuati nell’ambito del sistema interno

21. In questa ottica, in cui assume rilevanza centrale il mercato e, di conse-

guenza, i trasferimenti della ricchezza, perdono di significato le differenze relative ai beni-cose ma anche, fra i beni-cose, tra i mobili e gli immobili, at-teso che il loro valore può essere espresso in denaro in funzione del loro va-lore di scambio

22. La tendenza a tradurre, in funzione della loro circolazione, i beni nel loro

valore di scambio espresso in termini monetari – che contraddistingue la società moderna e caratterizza il diritto privato di fonte comunitaria – fini-sce però per incidere, ancorché indirettamente, nel processo di formazione dei valori e nella loro rilevanza anche sotto il profilo giuridico, giungendo ad invertire i termini del rapporto valore d’uso-valore di scambio e ha portato

20 V. in tema JANNARELLI, Profili generali, in Trattato di diritto privato europeo, II, I sog-getti (seconda parte) – Beni, interessi valori, a cura di Lipari, Torino, 2003, p. 293 ss. Sulla centralità del valore d’uso, indipendentemente dallo scambio nella configurazione tradi-zionale dei beni sia dal punto di vista giuridico che della teoria economica si rinvia a COMMONS, I fondamenti giuridici del capitalismo, Bologna, 1981, passim e a RIPERT, Aspect juridique du capitalisme moderne, Paris, 1951, passim, in ambito economico si veda NAPO-LEONI, Valore, Milano, 1976, passim.

21 JANNARELLI, op. cit., pp. 308-309. 22 «Nella misura in cui il denaro pesa tutta la varietà delle cose in modo uniforme ed

esprime tutte le differenze qualitative in termini quantitativi, nella misura in cui il denaro con la sua assenza di colori e la sua indifferenza si erge ad equivalente universale di tutti i valori, esso diventa il terribile livellatore, svuota senza scampo il nocciolo delle cose, la loro particolarità, il loro valore individuale, la loro imparagonabilità. Le cose galleggiano con lo stesso peso specifico nell’inarrestabile corrente del denaro si situano tutte sullo stesso pia-no, differenziandosi unicamente per la superficie che ne ricoprono». SIMMEL, La metropoli e la vita dello spirito, Roma, 1995, p. 43.

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inoltre a ritenere che il processo di formazione dei valori si realizzi non già prima dell’attività negoziale, bensì all’interno della stessa

23. Alla luce di tali considerazioni, paiono chiarirsi le statuizioni della Corte

di Giustizia. Se un bene risulta equivalente al suo valore di scambio espresso in termini monetari, l’ipotesi in cui sia previsto un prezzo in moneta e quella in cui il “prezzo” sia costituito dal valore di un bene espresso in termini mo-netari rappresentano «due situazioni identiche»

24.

2.2. La base imponibile ai fini IVA. I criteri per la valorizzazione del corrispettivo

I principi enucleati dalla Corte di Giustizia, in tema di permuta ed opera-zioni permutative attengono, anche all’individuazione e valorizzazione del corrispettivo nella permuta e nei contratti permutativi, che sembrerebbe a sua volta ricollegarsi al problema dapprima posto.

Giova osservare, in proposito, che l’art. 8 della II Direttiva IVA (II Diret-tiva del Consiglio 11 aprile 1967, n. 67/228/CEE) individuava la base im-ponibile per le cessioni e prestazioni di servizi, in tutto ciò che componeva il controvalore della cessione del bene o della prestazione di servizi stesse, com-prese tutte le spese ed imposte, ad eccezione dell’imposta sul valore aggiunto.

L’espressione “controvalore” era definita al punto 13 dell’Allegato A di tale Direttiva come segue: «per “controvalore” si intende tutto ciò che è ricevuto quale corrispettivo della cessione del bene o della prestazione di servizi, com-prese le spese accessorie (imballaggio, trasporto, assicurazione, ecc.), vale a dire non solo l’importo delle somme riscosse ma anche, ad esempio, il valore dei beni ricevuti in cambio o, in caso di espropriazione effettuata dalla pub-blica amministrazione od in suo nome, l’importo dell’indennità riscossa».

La dottrina riferisce che nella originaria proposta di VI Direttiva, presen-tata dalla Commissione al Consiglio il 29 giugno 1973, la definizione di base

23 Tradizionalmente l’attività destinata ad attribuire rilevanza ad alcune entità oggetti-ve, quale presupposto per la successiva valorizzazione giuridica di queste ultime in termini di beni è stata identificata nell’azione umana alla base della quale vi è sostanzialmente il lavoro in tutte le sue estrinsecazioni. Attualmente l’attività “produttiva” comprende anche quella contrattuale, ossia quella che determina il sorgere di vincoli e di aspettative. Il contrat-to non presuppone l’avvenuta produzione di merci, ma è esso stesso a creare merci, sino al punto da divenire a sua volta una merce. Il tratto più significativo di questo fenomeno è che l’intero processo che conduce alla creazione di beni è fondamentalmente affidato all’autono-mia contrattuale, sia pure, per ciò che attiene al nostro sistema codificato, all’interno del controllo di meritevolezza degli interessi. Così JANNARELLI, op. cit., p. 307.

24 Così sent. 19 dicembre 2012, C-549/11, Orfey Bulgaria.

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imponibile era fondata, come criterio generale, sul prezzo espresso in una somma di denaro, mentre le modifiche alla stessa proposta, presentate al Consiglio il 12 agosto 1974 con particolare riferimento all’art. 12, parte A, hanno mutato il concetto, comprendendovi «tutto ciò che compone il con-trovalore corrisposto o da corrispondere al fornitore o al prestatore per l’operazione considerata»

25. La formulazione recepita nella VI Direttiva, all’art. 11, par. 1, lett. a), ora

confluita nell’art. 73 della Direttiva 2006/112/CE, non fa riferimento al con-cetto di prezzo e neanche a quello di “controvalore”, ma individua la base im-ponibile nel corrispettivo inteso in senso ampio, cioè incassato o meno dal fornitore o prestatore, ivi comprese le somme eventualmente versate da terzi, nonché le sovvenzioni connesse direttamente col prezzo dell’operazione

26. Al riguardo è possibile osservare che nel passaggio dalla II alla VI Diretti-

va le modifiche hanno interessato non il singolo termine ma l’intero testo normativo. Mentre l’art. 8 della II Direttiva faceva riferimento «a tutto ciò che compone il controvalore» l’art. 73 individua come base imponibile «tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore ... da parte dell’acquirente». In maniera più efficace, e forse più vicina alla ratio della modifica, nella versione inglese la disposizione è resa nel seguente modo «everything which constitutes consideration obtained or to be obtained by the supplier in return for the supply from the customer ...» ovve-rosia tutto ciò che costituisce la controprestazione che il fornitore ha otte-nuto o deve ottenere dal cliente in cambio della fornitura.

V’è da notare che, nella traduzione inglese, la differenza più rilevante tra la II e la VI Direttiva circa la formulazione della disposizione che riguarda la definizione della base imponibile, sta nel verbo utilizzato e non nel com-plemento oggetto. Mentre in entrambi i testi normativi si utilizza il termine consideration, per designare ciò che nelle versioni italiane della II e della VI Direttiva si indica, rispettivamente, come controvalore e corrispettivo, nell’un caso viene impiegato il verbo make up, nell’altro il verbo obtain

27.

25 Si veda sul punto COMELLI, IVA comunitaria e IVA nazionale, Padova, 2000, p. 632. 26 L’art. 73 della Direttiva del Consiglio 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE (ex art. 11,

parte A, par. 1, Dir. 77/388/CEE) stabilisce che «per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi diverse da quelle di cui agli artt. 74 a 77, la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazio-ni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni diretta-mente connesse con il prezzo di tali operazioni».

27 Nelle versioni inglese, francese e spagnolo della II Direttiva menzionata il termine

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La diversità terminologica appare rilevante in quanto l’evoluzione nor-mativa sembrerebbe anche il frutto dell’interpretazione adottata dalla Corte di Giustizia.

I giudici comunitari, avevano infatti sostenuto, per la prima volta in co-stanza della II Direttiva IVA, che il “controvalore” fosse «un valore sogget-tivo giacché l’imponibile ... è il corrispettivo realmente ricevuto» 28.

Pare possibile sostenere, quindi, che l’attuale formulazione della disposi-zione contenente la definizione della base imponibile, costituisca la sintesi tra la nozione di “controvalore” definita dall’art. 13, Allegato A della II Di-rettiva e la stessa nozione come delimitata nell’esperienza giurisprudenziale. La base imponibile IVA, dunque, deve essere individuata in ciò che il ceden-te o il prestatore riceve effettivamente in cambio del bene o del servizio.

In quest’ottica si spiega la natura derogatoria dell’art. 80 della Direttiva 2006/112/CE, il quale prevede che gli stati possano prendere misure affin-ché per la cessione dei beni e la prestazione di servizi la base imponibile sia pari al valore normale dei beni ceduti o dei servizi prestati e non sia invece costituito dal quantum ricevuto dal cedente o dal prestatore. La deroga al cri-terio del corrispettivo, infatti, è consentita in alcuni specifici casi, puntual-mente individuati dallo stesso art. 80, in cui si ritrova una ratio antielusiva. Si tratta di una disposizione finalizzata a contrastare fenomeni di sovra o sotto fatturazione che si possono verificare in relazione ad operazioni effet-tuate tra “soggetti collegati” e in presenza di limiti al diritto di detrazione delle parti contrattuali e si dimostra, quindi, uno strumento con finalità cor-rettiva dei possibili effetti distorsivi che i limiti al diritto di detrazione pos-sono produrre sul mercato

29. In sintesi, dunque, l’impianto della Direttiva mostra chiaramente che

non è possibile “stimare” il corrispettivo in funzione del valore economico del bene ceduto o del servizio prestato, se non negli specifici casi su men-zionati, poiché ciò che risulta rilevante nella determinazione della base im-ponibile, è il quantum ricevuto in cambio per la prestazione o la cessione. “controvalore” presente nella traduzione italiana è, reso nel modo seguente: consideration in inglese, contre-valeur in francese e contravalor in spagnolo. In tutte e tre le lingue il verbo utilizzato è ottenere.

28 V. Corte di Giustizia UE, 5 febbraio 1981 causa C-154/80, Coöperatieve Aardappe-lenbewaarplaats GA.

29 Si esprime così DENORA, Rilevanza delle operazioni gratuite nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto e spunti ricostruttivi in tema di consumo, in Riv. dir. trib., 2013, p. 445 ss., cui si rinvia per l’ampia disamina del tema.

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In tema di operazioni permutative la Corte di Giustizia ha affermato che il corrispettivo di una fornitura di beni può consistere in una prestazione di ser-vizi e costituirne la base imponibile ai sensi dell’art. 11, punto A, n. 1, lett. a) della VI Direttiva, oggi art. 73 cit., se sussiste un nesso diretto fra la fornitura dei beni e la prestazione di servizi e se il valore di quest’ultima può essere espresso in denaro, precisando altresì che il controvalore che funge da base imponibile per una fornitura di beni è un valore soggettivo, poiché l’imponi-bile è il corrispettivo realmente ricevuto, non già un valore stimato secondo criteri obiettivi. Non consistendo in una somma di denaro stabilita fra le parti detto valore per essere soggettivo, deve essere quello che il beneficiario della prestazione di servizi, la quale costituisce il corrispettivo della fornitura dei beni, attribuisce ai servizi che esso intende procurarsi e deve corrispon-dere alla somma che esso è disposto a pagare a tal fine

30. In relazione alle massime elaborate dalla Corte ed appena riportate, oc-

corre però operare un distinguo. In alcuni casi si è infatti posto il problema di verificare se gli artt. 73 e 80 della Direttiva dovessero essere interpretati nel senso di ostare ad una disposizione nazionale in base alla quale, qualora il corrispettivo dell’operazione sia interamente costituito da beni o servizi, la base imponibile dell’operazione sia rappresentata dal valore normale di tali beni e servizi

31. In altre ipotesi, pur in presenza di una disposizione interna del genere appena delineato

32, la pregiudiziale è stata posta con riferimento ad una determinata interpretazione della disciplina comunitaria atta ad in-dividuare ed a valorizzare in concreto la controprestazione

33.

30 Corte di Giustizia UE, 23 novembre 1988, causa C-230/87, Naturally Yours Cosme-tics; Corte di Giustizia UE, 2 giugno 1994, causa C-33/93, Empire Stores. Nella sentenza Empire Stores la fattispecie riguardava la cessione gratuita di un bene in cambio di informa-zioni personali o presentazione di un cliente e la base imponibile è stata individuata nel prezzo di acquisto pagato dal committente per il bene ceduto.

31 Sent. 19 dicembre 2012, causa C-549/11, Orfey Bulgaria. Qui la norma interna (art. 26, par. 7 dello ZDDS) prevedeva che «qualora il corrispettivo sia determinato, in tutto o in parte in natura (il pagamento viene effettuato in tutto o in parte in beni o servizi), la base imponibile è costituita dal valore normale del bene ceduto o della prestazione effettuata, calcolato nel momento in cui l’imposta è divenuta esigibile».

32 Sent. 23 novembre 1988, C-230/87, Naturally Yours Cosmetics, in questo caso la norma domestica (art. 10, n. 3 del Value Added Tax Act del 1983) prevedeva che «se la cessione è priva di corrispettivo o ha un corrispettivo non pecuniario o non completamen-te tale, il suo valore è considerato pari al valore normale di mercato».

33 Corte di Giustizia UE, 23 novembre 1988, causa C-230/87, Naturally Yours Cosme-tics; Corte di Giustizia UE, 2 giugno 1994, causa C-33/93, Empire Stores. Nella prima sen-tenza, in cui un bene veniva ceduto in cambio di una somma di denaro e di un servizio, la

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Sulla prima questione la Corte di Giustizia, muovendo dall’analisi del si-stema delineato dagli artt. 73 e 80, si è espressa in senso assolutamente con-trario ad ammettere la possibilità di individuare il corrispettivo stimandolo in funzione del valore “normale” della prestazione effettuata o del bene ce-duto. D’altra parte i giudici comunitari non hanno fornito dei criteri genera-li al fine di valorizzare il corrispettivo, laddove questo non sia determinato in denaro, essendosi limitati a risolvere il problema caso per caso, avendo ri-guardo alle disposizioni contrattuali e alle circostanze concrete.

Pare dunque possibile sostenere con certezza che nella permuta e nelle operazioni permutative la base imponibile debba essere costituita dalla ces-sione o dalla prestazione effettivamente ricevuta come controprestazione, ma non è chiaro quale sia il criterio per attribuire a tale controprestazione un valore in denaro.

In relazione ad uno dei casi prima esaminati l’Avvocato Generale, nelle sue conclusioni, ha evidenziato, appunto, come il legislatore comunitario abbia lasciato in sospeso le modalità con cui si deve determinare o valutare il corrispettivo quando questo non consista in una somma di denaro.

Un dato da cui è possibile trarre degli spunti di riflessione può essere an-cora ricavato dalle disposizioni della II Direttiva IVA.

Al riguardo la Corte di Giustizia ha precisato che, attesa la finalità legisla-tiva comune della II e della VI Direttiva, nell’interpretazione di quest’ulti-ma, occorre tener conto della giurisprudenza relativa alla prima

34. I principi elaborati, in costanza della II Direttiva, per individuare la no-

zione di corrispettivo sono rinvenibili nella sentenza 5 febbraio 1981 35. Con

riferimento all’impianto normativo della II Direttiva, la giurisprudenza ave-va affermato che la definizione di “controvalore” non era demandata agli stati membri ma, come abbiamo visto, era specificamente individuata da una disposizione normativa, l’art. 13, Allegato A. In base a tale disposizione si doveva intendere come controvalore, tutto ciò che fosse ricevuto quale cor-rispettivo della cessione o della prestazione ed in proposito la norma in que- base imponibile è stata individuata nella somma tra il prezzo pagato e il valore del servizio prestato, valore a sua volta ricavato individuando il valore di mercato del bene che veniva ceduto per la prestazione del servizio. Nella seconda sentenza citata la Corte afferma che il corrispettivo deve essere individuato nel costo sostenuto dal committente per l’acquisto del bene ceduto in corrispettivo del servizio prestato.

34 Corte di Giustizia UE, 8 marzo 1988, causa 102/86, Apple and Pear development council.

35 V. sentenza citata alla nota 28.

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stione specificava «non solo l’importo delle somme riscosse, ma anche il va-lore dei beni ricevuti in cambio».

Sebbene la disposizione di cui all’art. 73 non presenti la medesima for-mulazione, pare plausibile ritenere, alla luce delle considerazioni effettuate, che laddove il corrispettivo sia costituito da un bene o da un servizio è al va-lore di questi che si deve far riferimento per determinare la base imponile.

Dovendosi tuttavia trattare di un valore “soggettivo”, il punto problema-tico sta nel determinare il valore che le parti hanno inteso attribuire ai sud-detti beni o servizi.

Dalle pronunce esaminate ciò che sembra emergere con sufficiente gra-do di chiarezza è che tale valore non può essere predeterminato normativa-mente. Non sembrerebbe compatibile con le disposizioni comunitarie, dun-que, una norma interna che individui a priori il valore da attribuire ai beni o ai servizi in questione o i criteri per determinarlo. Non appare invece da escludere, seguendo le indicazioni della Corte che, avendo riguardo alle cir-costanze concrete e in assenza di diversi riferimenti, il valore del bene o del servizio possa essere costituto dal suo valore di mercato.

Se è vero, come sostiene la Corte, che l’IVA deve colpire la spesa effet-tivamente sostenuta e che le operazioni di cui qui si tratta devono essere considerate alla stregua di quelle in cui il corrispettivo è determinato in una somma di denaro, sembra possibile ritenere che il valore del bene (o del servizio) ricevuto in controprestazione possa essere costituito dalla somma di denaro che si sarebbe ottenuta cedendolo sul mercato nel mo-mento in cui l’operazione avviene. Pare possibile ritenere che sia quella la somma che il cessionario (o il committente) è disposto a spendere (non in denaro ma in natura) per ottenere il bene o (il servizio) che è oggetto del contratto

36.

36 Nella causa 230/87 (Naturally Yours Cosmetics). In taluni casi il ricorso alla nozione di valore di mercato, afferma ancora l’avvocato generale è l’unico modo per valutare il cor-rispettivo e per evitare i vantaggi ingiustificati che risulterebbero dalla sua mancata presa in considerazione.

Tuttavia, il valore normale va preso in considerazione soltanto quando sia impossibile (o, quantomeno eccessivamente difficile) attribuire, in altro modo, alla controprestazione il suo valore effettivo nell’operazione o, quantomeno, il suo reale valore di mercato.

L’avvocato generale ribadisce comunque che l’IVA in quanto imposta sul consumo, deve colpire il più esattamente possibile la spesa effettiva del consumatore; pertanto, la sostitu-zione dei valori reali con valori normali (al di fuori dei casi in cui è espressamente contem-plata) dovrà ammettersi soltanto in mancanza di un altro sistema che costituisca criterio mi-gliore di quello che la Corte ha chiamato “valore soggettivo” del corrispettivo.

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In conclusione, due sono i dati che emergono dall’esame della giurispru-denza comunitaria. Da una parte si afferma espressamente che il corrispetti-vo “in natura” non possa essere normativamente determinato in misura pari al valore “normale” del bene ceduto o del servizio prestato, d’altra parte, il principio enucleato dalla Corte, in base al quale l’IVA deve essere applicata in relazione alla “spesa effettiva”, non porta ad escludere che il corrispettivo possa essere costituito dal valore di mercato del bene o del servizio ricevuto in controprestazione

37.

3. La disciplina interna

3.1. Vendita, permuta e datio in solutum, i distinti profili causali

L’analisi che precede è funzionale, come s’è già anticipato in premessa, a verificare se la disciplina interna sia o meno in linea con i precetti comunita-ri e con l’interpretazione che di essi ne ha fornito, nel tempo, la Corte di Giustizia.

Prima di esaminare più in particolare le norme che, nel sistema interno dell’IVA, riguardano la permuta, le operazioni permutative e la datio in solu-tum, pare qui opportuno fare brevemente riferimento agli elementi in ragio-ne dei quali, nella disciplina sostanziale domestica, le figure contrattuali menzionate si sogliono distinguere.

Com’è possibile rilevare dal raffronto, anche solo testuale, tra le due di-sposizioni che disciplinano la vendita da un lato e la permuta dall’altro

38, la differenza più rilevante tra i due istituti, è che il corrispettivo è rappre-sentato per l’una dal prezzo in danaro, cioè dallo scambio della cosa con il prezzo mentre nell’altra lo scambio riguarda il reciproco trasferimento del-la proprietà di cose o anche di diritti. Sotto il profilo della fattispecie, infat-ti, la distinzione tra vendita e permuta si fonda, per quest’ultima sull’assen-za di un prezzo (rectius: della creazione di un’obbligazione pecuniaria) che è presente nell’altra

39. Mentre la vendita deduce asimmetricamente un’at-

37 L’art. 14 definisce un valore di mercato e non un valore normale nel senso inteso dal-la Corte.

38 A norma dell’art. 1552 c.c. «la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all’altro». Il codice civile (all’art. 1470) definisce la vendita come «il contratto che ha per oggetto il trasferimen-to della proprietà di una cosa o di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo».

39 Per “prezzo” deve intendersi una determinata somma espressa in moneta avente cor-

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tribuzione traslativa contro una prestazione (avente ad oggetto il paga-mento del prezzo), la permuta consiste in una duplicità di attribuzioni tra-slative incrociate.

Anche sotto il profilo funzionale e causale la distinzione teorica tra i due schemi è netta: nella permuta ciascuno dei contraenti acquista il bene offer-to dall’altro per usarlo o per impiegarlo direttamente secondo l’utilità natu-rale, nella vendita, un’attribuzione ha per oggetto un bene assunto per la sua utilità diretta, l’altra (prestazione dell’acquirente), ha invece ad oggetto un prezzo, come tale assunto per quella speciale utilità strumentale che è costi-tuita dalla funzione misuratrice dei valori economici

40. Conseguentemente la permuta non può trovar luogo quando le parti manifestano la volontà di trasferire una cosa contro un prezzo determinato

41. so legale ancorché i mezzi di pagamento prescelti comprendano titoli di credito non desti-nati di per sé a funzione surrogatoria della moneta, ma ai quali le parti attribuiscano con-cordemente tale funzione. Così OBERTO, (voce) Permuta, in Dig. disc. priv., sez. civ., 1995, pp. 370-371.

40 V. COTTINO, Del riporto, della permuta, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, art. 1548-1555, a cura di Galgano, Bologna-Roma, 1970, p. 95. Queste considerazioni, apparentemente nitide nell’enunciazione teorica, possono concretamente porre non pochi interrogativi. Si è reputato di qualificare come permuta e non come vendita lo scambio fra due monete, anche se tuttora in circolazione, quando dal-le parti siano state considerate per il loro valore intrinseco (si pensi all’epoca in cui circola-vano le cinquecento lire di argento) ovvero lo scambio di moneta di tagli grossi con quella di tagli piccoli LUMINOSO, I contratti tipici ed atipici, in Trattato di diritto privato, a cura di Iudica-Zatti, Milano, 1995, p. 192 che cita Cass. n. 988/1985. Potrebbe ritenersi permuta anche lo scambio fra una cosa e titoli di credito (ti pago questo appartamento con una cambiale di cento milioni, con un titolo obbligazionario emesso dalla Repubblica Ceca). Per il tramite di detti titoli, in sostanza, si trasferisce la titolarità di un diritto di credito, ciò che potrebbe rientrare fra gli “altri diritti” menzionati dall’art. 1552 c.c. In effetti, però, per-lomeno alcuni titoli di credito (assegno circolare, vaglia bancario assegno bancario, ecc.) hanno una funzione surrogatoria della moneta, altri (titoli obbligazionari, cambiali) sono connotati da una quotazione che riflette l’affidabilità del debitore RUBINO, La compraven-dita, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu-Messineo, XXIII, Milano, 1971, p. 239 e BIANCA, La vendita e la permuta, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da Vassalli, Torino, 1972, p. 1144.

41 In questo senso GIANNATTASIO, La permuta, il contratto estimatorio, la somministra-zione, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di Cicu-Messineo, Milano, 1960, p. 7; RUBINO, La compravendita, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di Cicu-Messineo, Milano, 1962, p. 234, il quale sostiene che è il prezzo a distinguere la compravendita non solo dalla permuta ma anche da tutti quegli altri contratti con prestazioni corrispettive nei quali la prestazione di una parte consiste, come per la vendita, nel trasferimento di un dirit-to, ma il corrispettivo, in funzione di controprestazione, non è costituito da una somma di danaro.

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Dalla permuta devono ulteriormente distinguersi i negozi atipici o in-nominati che sono quelli per cui la legge, a differenza dei tipici o nominati, non ha predisposto uno schema particolare e che derivano perciò dall’in-ventiva delle parti le quali possono forgiarli a piacimento

42. La dottrina suo-le classificare tali contratti in quattro amplissime schematizzazioni: do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut facias e alle loro combinazioni, come ad esempio do ut des et facias, do et facio ut des, ecc.

43. La datio in solutum, in ultimo, è un negozio meramente solutorio attraver-

so il quale il debitore può liberarsi dall’obbligazione offrendo in luogo dell’a-dempimento una diversa prestazione. Si può rilevare che la differenza tra da-zione in pagamento e adempimento, si sostanzia nella natura negoziale della prima, che deve essere invece negata all’adempimento. Va rilevato, inoltre, che l’adempimento estingue entrambi i termini del rapporto obbligatorio poi-ché, al contempo, realizza il diritto del creditore ed attua l’obbligo del debito-re, diversamente nella datio in solutum, la diversa prestazione offerta dal debi-tore non equivale ad adempimento ma ne tiene il luogo, allorquando il credi-tore l’accetti e quest’ultima venga eseguita. Nel primo caso, dunque, la presta-zione del debitore è diretta all’attuazione del proprio obbligo e quindi alla rea-lizzazione del diritto del creditore, provocando, di conseguenza, l’estinzione del rapporto obbligatorio. Nell’altro caso la diversa prestazione offerta dal de-bitore è volta all’estinzione dell’obbligazione originaria tramite l’esecuzione di diversa prestazione con il consenso del creditore.

42 L’art. 1322 c.c., stabilendo che le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare prevede il riconoscimento della più ampia autonomia (nei limiti di cui all’art. 1322) in materia contrattuale.

43 È pacificamente riconosciuto che il contratto innominato, come il contratto nomina-to, sia unitario CLARIZIA, (voce) Contratti innominati, in Enc. giur. Treccani, 1988, IX, p. 3 Diverse sono, tuttavia, le indicazioni fornite dalla dottrina quanto ai criteri per determina-re se, di fronte ad una fattispecie complessa atipica, ricorra un contratto unico o una plura-lità di contratti. Secondo l’indirizzo prevalente, il contratto può essere considerato unico quando è unica la sua causa LA LUMIA, Deposito e locazione d’opera. Negozio unico e plurali-tà di negozi, in Riv. dir. comm., 1912, II, p. 916; DE GENNARO, I contratti misti, Padova, 1934, p. 53 ss.; GASPERONI, Collegamento e connessione tra i negozi, in Riv. dir. comm., 1955, I, p. 360; CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli s.d., p. 322 ss.; SCOGNAMIGLIO, Collegamento negoziale, in Enc. dir., 1960, VII, p. 376. In proposito si è autorevolmente obiettato che la rilevazione dell’unicità o pluralità di cause è successiva a quella della unicità o pluralità di negozi e, pertanto, l’unico criterio appagante per la solu-zione del problema sarebbe quello di verificare se nella pluralità di intenti empirici, diretti ad una pluralità di conseguenze economiche, sia possibile individuare la prevalenza di una conseguenza economica alla quale le altre siano subordinate: in tal caso il contratto sarà unico GIORGIANNI, Negozi giuridici collegati, in Riv. it. sc. giur., 1937, p. 1.

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3.2. La permuta, le operazioni permutative e la datio in solutum nell’IVA

Nel previgente sistema dell’IGE la permuta veniva trattata come un’uni-ca operazione, assumendo come imponibile il valore di uno solo dei beni permutati

44. Come attualmente è previsto nel sistema del tributo di registro, l’imposta si applicava, infatti, in relazione alla cosa permutata che aveva mag-gior valore. Qualora per le cose permutate avessero trovato applicazione ali-quote diverse, l’imposta si sarebbe applicata in relazione alla cosa per il cui trasferimento era dovuta l’imposta maggiore. Tale regime aveva provocato una diffusa applicazione della permuta per mascherare fattispecie di doppia vendita, seguita da compensazione tra le parti dei rispettivi debiti di prezzo

45. Nell’ambito delle norme sull’IVA le prestazioni derivanti dalla permuta e

dalla tipologia di contratto innominato do ut facias o facio ut facias hanno trovato la loro disciplina nell’art. 11

46 che riguarda genericamente le opera-zioni permutative

47, in base alla quale le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di ser-vizi sono soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza del-le quali sono effettuate.

Il trattamento fiscale delle operazioni permutative è identico a quello stabilito per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate ad estin-zione di precedenti obbligazioni. Sembrerebbero da ricondurre nell’ambito di tale ultima categoria le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate ai sensi dell’art. 1197, comma 1, c.c. L’art. 11 è infatti testualmente rubricato «operazioni permutative e dazioni in pagamento» e fa, quindi, riferimento all’istituto della datio in solutum, che trova la sua disciplina sostanziale nel-l’art. 1197 c.c.

44 Art. 10, R.D.L. n. 452/1943. 45 CASERTANO SPERA, IVA10, Milano-Roma, 1999, p. 183; STAMMATI, L’imposta generale

sull’entrata, Torino, 1956, p. 169; MANDÒ, Imposta generale sull’entrata, Vicenza, 1964, p. 879 ss.)

46 L’art. 11 del D.P.R. 633/1972 rubricato “Operazioni permutative e dazioni in paga-mento” dispone al comma 1 quanto segue: «Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi, o per estinguere precedenti obbligazioni, sono soggette all’imposta separatamente da quelle in corrisponden-za delle quali sono effettuate».

47 Che hanno un oggetto più ampio della permuta civilistica strutturata sullo scambio di cosa contro cosa ovvero di diritto contro diritto ex art. 1552 c.c. V. MANDÒ-MANDÒ, Ma-nuale dell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2005, p. 58; Cass., sent. 23 dicembre 2000, n. 16173, in Banca dati Corr. trib., 2001.

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Ad ogni modo, le cessioni o le prestazioni dipendenti da contratti di permuta o del tipo do ut facias o facio ut facias e le dazioni in pagamento – queste ultime a prescindere dalla natura del contratto le cui obbligazioni vanno ad estinguere – sono accomunate ai fini IVA e costituiscono oggetto di autonoma disciplina. Ciascuna delle cessioni o prestazioni rileva, infatti, come operazione a sé stante a tutti gli effetti, e ciò sia per determinare il momento in cui debba considerarsi effettuata, sia per stabilire se sia soggetta o non soggetta all’imposta e con quale aliquota, sia infine per determinare l’ammontare imponibile. Tale criterio si applica, quindi, non solamente quando il rapporto di corrispettività tra le due operazioni è chiaramente stabilito dalle parti fin dall’origine, ma anche quando venga convenuto in un secondo momento, come in caso di datio in solutum, in cui una cessione o prestazione viene eseguita ed accettata per estinguere le obbligazioni deri-vanti da altra precedente cessione o prestazione.

Le due prestazioni sinallagmatiche che compongono il contratto di per-muta, i contratti innominati di cui s’è detto, e le dazioni in pagamento, de-vono quindi essere considerate isolatamente, come se si trattasse di opera-zioni di destinazione a finalità estranee, anziché di operazioni facenti parte di un unico accordo in base al quale l’una è in relazione di corrispettività con l’altra

48. La ratio di tale regime, introdotto con l’avvento dell’IVA è stata chiarita

nella relazione ministeriale allo schema del D.P.R. n. 633/1972, in cui si legge che «l’esigenza di colpire entrambi i beni od i servizi scambiati scatu-risce dalla necessità di consentire a ciascuna delle parti contraenti di effet-tuare la detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi acquistati». Analo-go discorso va fatto per le dazioni in pagamento, nella citata relazione la tas-sazione separata della prestazione in luogo di adempimento è giustificata uti-lizzando la medesima argomentazione.

3.3. Base imponibile e momento impositivo nella permuta, nelle operazioni permutative e nella datio in solutum

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 del D.P.R. n. 633/1972 la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita in via generale dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore

48 BORIA, (voce) Permuta nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm., XI, 1995, p. 42.

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secondo le condizioni contrattuali, compresi gli oneri e le spese inerenti al-l’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al com-mittente, aumentato delle integrazioni direttamente connesse con i corrispet-tivi dovuti da altri soggetti.

In forza dello stesso art. 13, comma 2, lett. d), per le operazioni permutati-ve e le dazioni in pagamento di cui all’art. 11 i corrispettivi sono costituiti dal valore normale dei beni e dei servizi che formano oggetto di ciascuna di esse.

La norma sembrerebbe quindi introdurre un’equiparazione tra corrispet-tivo e valore normale dei beni o delle prestazioni che formano oggetto della dazione in pagamento, della permuta o dell’operazione permutativa.

In questo caso, quindi, ognuno dei due contraenti dovrà fatturare, nei confronti dell’altro, un ammontare pari al valore del bene che trasferisce o del servizio che presta, determinandolo sulla base dell’importo che il cessio-nario o il committente, al medesimo stadio di commercializzazione di quel-lo in cui avviene la cessione di beni o la prestazione di servizi, dovrebbe pa-gare, in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o prestatore indi-pendente per ottenere i beni o servizi in questione nel tempo e nel luogo di tale cessione o prestazione

49, applicando l’aliquota prevista per ciascuna ti-pologia di operazione

50. Se invece solo una delle due operazioni è assoggettabile ad IVA, solo su

questa dovrà essere corrisposta l’imposta, sempre determinando la base im-ponibile alla stregua del valore normale del bene trasferito o del servizio prestato. Il principio della tassazione separata della permuta è stato, infatti, recepito anche ai fini dell’imposta di registro. L’art. 40, comma 2 del D.P.R. n. 131/1986 prevede che per le operazioni di cui all’art. 11 del D.P.R. n. 633/1972, l’imposta di registro si applichi sulla cessione o prestazione non soggetta all’IVA.

La formulazione normativa, ha portato la dottrina a ritenere, nelle ipotesi in cui accanto alla cessione del bene sia previsto anche un conguaglio, che quest’ultimo non assuma rilevanza ai fini impositivi, atteso che la sua fun-

49 V. art. 14, D.P.R. n. 633/1972. 50 LUPI-GIORGI, (voce) Imposta sul valore aggiunto, in Enc. giur. Treccani, XVII, 2006, p. 6.

Ciascuno dei contraenti, infatti, fatturerà sulla base del valore normale della cessione o prestazione che egli stesso effettua o rende e non del valore della prestazione o del bene che riceve. Segnala la dottrina che la scelta italiana anche alla luce della giurisprudenza comunitaria non appare del tutto in linea con la Direttiva, nella quale il separato assogget-tamento ad imposta arriva qui fino la punto di trascurare il valore del bene o del servizio acquisito in qualità di controprestazione e che può essere diverso dal valore di mercato del bene ceduto o del servizio reso. V. FILIPPI, op. cit., p. 1216.

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zione nella permuta è solo quella di colmare la differenza di valore tra i due beni scambiati che saranno, entrambi e ciascuno per il loro intero valore, as-soggettati ad imposizione

51. Tale considerazione sembrerebbe valida anche per le altre ipotesi di cui all’art. 11, ovverosia per le operazioni permutative diverse dalla permuta e per le dazioni in pagamento attesa l’equiparazione disposta dall’art. 13, comma 2, lett. d) del D.P.R. n. 633/1972 menzionato, in base al quale i corrispettivi su cui calcolare l’imposta, nella permuta, nelle operazioni permutative e nella datio in solutum sono costituiti (solo) dal va-lore normale dei beni e dei servizi che formano oggetto di ciascuna cessione o prestazione di cui si compone l’operazione.

La regola dell’applicazione separata dell’imposta di cui all’art. 11 più vol-te menzionato, dovrebbe dar luogo all’autonoma considerazione delle pre-stazioni o delle cessioni dedotte in contratto anche sotto il profilo del mo-mento impositivo.

Un dubbio tuttavia sorge con riferimento all’applicabilità della disposi-zione di cui all’art. 6, comma 4 del D.P.R. n. 633/1972, la quale prevede che, se prima della stipula o del trasferimento, viene pagato in tutto o in parte il corrispettivo, l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo pagato, alla data del pagamento.

La giurisprudenza e la prassi concordano nel ritenere che la norma possa applicarsi nel caso della permuta e individuano così il momento impositivo per entrambe le cessioni al momento in cui il contratto viene stipulato, in considerazione del fatto che la cessione del bene presente costituisce il cor-rispettivo del bene futuro

52. Tale interpretazione sembrerebbe tuttavia pre-supporre una considerazione unitaria del negozio ai fini fiscali, considera-zione che, come abbiamo visto, non sembra trovare accoglimento nel siste-ma dell’IVA così come delineato dalla disciplina interna. Seguendo la logica dell’autonomia delle prestazioni oggetto di scambio, l’una dall’altra e della datio in solutum rispetto all’obbligazione che si va ad estinguere, si giunge-rebbe infatti a ritenere inapplicabile la disposizione menzionata.

A diverse conclusioni si potrebbe invece pervenire avendo riguardo alle norme comunitarie e all’interpretazione che di esse ne ha finora fornito la Corte di Giustizia.

51 In questo senso si veda INGROSSO, (voce) Permuta, II, Diritto tributario, in Enc. giur. Treccani, XXV, 1993, p. 2; FANTOZZI, Permuta e dazioni in pagamento, in Guida fiscale ita-liana, I, Imposte indirette, 1976, p. 822.

52 Di permuta di immobile presente con immobile futuro Risoluzione 8 giugno 1989, n. 460210, Cass. n. 484/1982, Cass. n. 10510/1991.

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4. La compatibilità della disciplina interna rispetto alle disposizioni della Di-rettiva

La disciplina interna delle operazioni qui esaminate sembra modellata sullo schema della permuta e, in particolare, pare che il legislatore abbia fat-to leva sulla funzione che nell’ordinamento interno è riconosciuta a tale con-tratto, ovverosia quella di consentire lo scambio in ragione dell’utilità diretta che il bene (o il diritto su un bene) possano arrecare ai permutanti.

Nell’ambito della loro autonomia negoziale le parti potrebbero tuttavia porre in essere un negozio che rientri formalmente nello schema della per-muta, ma in cui l’interesse concreto sia quello di utilizzare uno dei beni scambiati per misurare il valore economico dell’altro, ossia, in altri termini, i contraenti potrebbero impiegare il bene, in ragione del suo valore di scam-bio “come se” fosse moneta. A maggior ragione il discorso potrebbe valere nell’ipotesi in cui lo schema contrattuale utilizzato non rientri in quello della permuta, ma possa qualificarsi come contratto innominato permutativo.

In definitiva, il risultato concreto che le parti potrebbero voler ottenere utilizzando lo schema della permuta o del contratto permutativo potrebbe essere equivalente a quello realizzabile con la vendita ancorché il contratto posto in essere non preveda la costituzione di un’obbligazione pecuniaria a carico di una delle parti, ma risulti comunque evidente la funzione solutoria di una delle due attribuzioni dedotte in contratto.

In virtù delle considerazioni che precedono e della disamina prima effet-tuata, non pare dunque possibile ritenere che la disciplina interna sia com-pletamente in linea con il sistema comunitario dell’IVA tratteggiato dalle norme della Direttiva, così come interpretate dalla Corte di Giustizia.

Come s’è visto, un dato, in particolare, pare emergere con certezza. La funzione degli strumenti negoziali utilizzati va sempre valutata in ragione del-l’interesse perseguito dalle parti in concreto ed indipendentemente dalla funzione obiettiva economico-sociale che agli stessi è riconosciuta nell’ordi-namento interno.

Da ciò dovrebbe conseguire l’incompatibilità della normativa interna che introduca aprioristicamente un determinato regime fiscale ai fini IVA in ra-gione dell’utilizzo di un certo strumento negoziale.

In quest’ottica dovrebbe essere valutata la disciplina interna che, indi-pendentemente da ogni indagine sull’interesse in concreto perseguito dalle parti, prevede, nel caso della permuta, delle operazioni permutative e della datio in solutum l’autonoma assoggettabilità a tassazione di entrambe le ces-sioni o le prestazioni dedotte in contratto.

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Nei casi in cui, nella permuta e nelle operazioni permutative e nella datio in solutum, pur in assenza della previsione di un prezzo in denaro, sia possi-bile interpretare la volontà delle parti nel senso che uno dei beni o delle pre-stazioni (oggetto del contratto o della datio) è assunto, in funzione del suo valore di scambio, come misura del valore dell’altro bene o dell’altra presta-zione allora, seguendo il ragionamento della Corte di Giustizia, solo una delle due prestazioni dovrebbe essere assoggettata ad IVA.

In base a questa logica, laddove nelle operazioni prima richiamate, per-muta compresa, una delle due cessioni o prestazioni oggetto del contratto, sia assunta come “controvalore” dell’altra e sia dunque considerata non già per la sua utilità diretta ma in ragione della sua utilità strumentale ovverosia in funzione di “misurare” il valore economico dell’altra prestazione (o ces-sione), la base imponibile dovrebbe essere costituita non già dal valore di entrambe le cessioni o le prestazioni ma da quella tra le due assunta come “corrispettivo” dell’altra o, comunque, accettata in funzione sostitutiva del “corrispettivo”

53. Una delle due attribuzioni dedotte in contratto o quella oggetto della da-

tio assolverebbe, in altri termini, alla funzione di mezzo di pagamento del-l’altra

54-55.

53 Anche ammettendo che possa ritenersi compatibile con le prescrizioni della Diretti-va e l’interpretazione della Corte di Giustizia la previsione interna secondo la quale nelle fattispecie qui considerate ambedue le prestazioni o le cessioni dedotte in contratto (o co-munque la prestazione o la cessione dedotta in contratto e quella oggetto di datio in solutum) debbano essere assoggettate ad imposta, non ci si può esimere dal rilevare che il corrispet-tivo da assoggettare (eventualmente ad IVA) dovrebbe comunque essere costituito, per ciascun contraente dalla prestazione che riceve dall’altro contraente.

54 Si ricorda in proposito che in base alla normativa interna appartengono alla categoria delle cessioni escluse anche quelle che hanno ad oggetto denaro e l’esclusione si giustifica secondo una parte della dottrina in base ad evidenti motivi di opportunità trattandosi di un bene la cui cessione, a prescindere dalla causa per cui si realizza, postula un trasferimen-to della titolarità giuridica v. in questo senso COMELLI, IVA Comunitaria e IVA nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, pp. 544-545 che richiama LUPI, Diritto tributario, Parte speciale, Milano, 1988, p. 286, nota 30; nello stesso senso DUS, L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 1981, p. 296, secondo il quale le ces-sioni di denaro sono dichiarate estranee dalla sfera impositiva dell’IVA per evitare la dop-pia imposizione delle compravendite, potendo ognuna di queste considerarsi una permuta di merce contro denaro.

55 Per uno spunto circa la possibilità di considerare un “bene” quale mezzo di paga-mento e includerne il valore al fine di determinare la base imponibile si veda Risoluzione 21/E 2011 nella quale si afferma che la cessione dei buoni acquisto effettuata dall’emitten-te a favore dell’azienda cliente non assuma rilevanza ai fini dell’IVA ai sensi dell’art. 2,

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Elemento che, in concorrenza ad altri, potrebbe indurre a ritenere che l’interesse delle parti sia quello appena illustrato, è quello della parità di va-lore economico tra i beni o le prestazioni, ma anche la previsione contrat-tuale circa l’obbligo di uno dei contraenti di corrispondere un conguaglio ol-tre al bene o alla prestazione.

In questi casi sorgerebbe anche il problema di qualificare l’operazione stessa eventualmente in funzione dell’una o dell’altra prestazione e/o ces-sione dedotta originariamente in contratto, o successivamente pattuita. Po-trebbe allora risultare utile, tanto per la configurazione della operazione nei termini suesposti, quanto per la sua qualificazione a fini fiscali, fare riferi-mento agli stessi criteri elaborati relativamente alle operazioni accessorie

56 e, quindi, alla volontà delle parti considerata comunque la finalità comples- comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 633/1972, in base al quale non sono considerati cessioni di beni le cessioni che hanno per oggetto denaro o crediti in denaro. In sostanza, in questa fase, la circolazione del documento di legittimazione non integra alcuna cessione di beni o prestazione di servizi ed il relativo pagamento assume carattere di «mera movimentazione di carattere finanziario». In tema si veda PEIROLO, Buoni sconto e determinazione della base imponibile, in Corr. trib., 2002, p. 419.

56 Si suole considerare accessoria l’operazione che assume una posizione secondaria ri-spetto a quella principale nel contesto giuridico in cui si manifesta e che sia a questa colle-gata da un nesso di condizionalità necessaria, nel senso che l’operazione accessoria, seppur apprezzabile autonomamente, non possa prescindere dall’operazione principale. Il rappor-to di accessorietà sorge dal vincolo di subordinazione funzionale dell’una rispetto all’altra, dipendente dalla volontà contrattuale delle parti. In tema CENTORE, Operazioni complesse e operazioni accessorie nel regime di territorialità, nota a Corte di Giustizia UE, 29 marzo 2007, causa C-111/05, Aktiebolaget NN, in Corr. trib., 2007, p. 1711; ID., I confini dell’accessorietà nelle operazioni IVA, in Corr. trib., 2006, p. 2769, DE RINALDIS, Il principio di accessorietà tra normativa nazionale e giurisprudenza comunitaria, in l’IVA, 2001, p. 877. Le disposizioni comunitarie e le norme interne non indicano tuttavia criteri in base ai quali verificare l’esi-stenza di un tale nesso di accessorietà. Secondo alcuni, la soluzione va trovata non soltanto nella comparazione economica delle due operazioni, ma anche nel risultato complessivo dell’operazione stessa così come configurata dalle parti. LUPI, Diritto tributario3, Parte spe-ciale, Milano, 1995, p. 370. In giurisprudenza si segnala 25 febbraio 1999, causa 349/96, Card Protection Plan Ltd (CPP), ove ai fini dell’individuazione del nesso di accessorietà la Corte avverte che, quando l’operazione è costituita da una serie di elementi e di atti occor-re valutare le circostanze nelle quali si svolge l’operazione considerata. In pratica la presta-zione può considerarsi accessoria alla principale quando essa non costituisce un fine a sé stante ma, piuttosto, il mezzo necessitato per fruire, nelle migliori condizioni della presta-zione principale. L’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale sul tema, sebbene non sia direttamente utilizzabile in relazione alle operazioni permutative, può risultare utile per la soluzione dei problemi qui posti. La distinzione tra operazioni accessorie e principali è funzionale, da una parte per la qualificazione dell’operazione come cessione di beni o pre-stazione di servizi, dall’altra al fine di determinare la base imponibile.

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siva dell’operazione 57. Qualora sia possibile individuare in tal modo l’ogget-

to “principale” del contratto, è in funzione di questo che dovrà essere quali-ficata l’operazione come cessione di beni o prestazione di servizi

58. A diverse conclusioni si potrebbe invece giungere nell’ipotesi in cui

l’interesse delle parti sia quello di ottenere il bene o la prestazione in ragione della sua utilità diretta. In tal caso avrebbe senso assumere come base impo-nibile il valore di entrambe le cessioni o le prestazioni prima menzionate in ragione del fatto che l’una costituirebbe corrispettivo dell’altra. Ciò potreb-be accadere nel caso in cui i beni o le prestazioni scambiate abbiano un di-verso valore economico. Da tale dato potrebbe infatti trarsi un indizio ri-guardo la circostanza che l’interesse concreto delle parti sia quello di conse-guire reciprocamente l’utilità diretta data dai beni o dalle prestazioni dedot-te in contratto, a prescindere dal loro valore economico.

È evidente, comunque, che la soluzione del problema fiscale, nell’uno o nell’altro senso, dipenda principalmente da come l’operazione viene confi-gurata, nell’esercizio della propria autonomia negoziale, dai contraenti.

In quest’ottica, l’esigenza di seguire i criteri dettati a livello comunitario potrebbe condurre non solo a condizionare l’esercizio dell’autonomia nego-ziale, ma anche a stravolgere gli schemi in base ai quali la stessa si esplica, appiattendo la permuta e i contratti innominati permutativi sul modello del-la vendita e svalutando in, tal modo, i differenti elementi causali.

57 Si è osservato che per individuare la prestazione principale, occorre esaminare di volta in volta le caratteristiche del caso concreto, ma il criterio di riferimento sembra essere quello del “bene della vita” cui ha interesse la parte. In questo senso LUPI-GIORGI, op. loc. ult. cit.

58 Il criterio qui indicato dovrebbe valere anche per determinare se si tratti di un’opera-zione imponibile, esente o fuori campo IVA. D’altro canto il valore della cessione o della prestazione individuata come controprestazione dell’altra dovrebbe considerarsi come pa-rametro per la valorizzazione della base imponibile indipendentemente dalla sua assogget-tabilità ad IVA (es. cessione fabbricato contro terreno agricolo-valore terreno agricolo ba-se imponibile).

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SPUNTI SULLA NOZIONE DI ATTIVITÀ ECONOMICA DEGLI ENTI PUBBLICI IN AMBITO IVA*

REMARKS ON THE NOTION OF ECONOMIC ACTIVITY OF PUBLIC BODIES IN THE FIELD OF VAT

Abstract L’articolo analizza la nozione di attività economica in ambito IVA con particola-re riferimento agli enti pubblici ed è svolto nell’ambito del progetto di ricerca PRIN 2009 “Corrispettività, onerosità e valore di trasferimento nel diritto dell’impre-sa e nella circolazione giuridica dei beni”. Parole chiave: imposta sul valore aggiunto, ente pubblico, attività economica, mercato di scambio, libera concorrenza The article analyses the notion of economic activity in the field of VAT, with particu-lar reference to public bodies, and it was made within the 2009 PRIN research project on “Compensations, duties and transfer value in business law and in the legal circula-tion of goods”. Keywords: VAT, public body, economic activity, trading market, free competition

SOMMARIO: 1. La nozione di “attività economica” rilevante ai fini IVA secondo la normativa europea: la centralità del mercato quale luogo di scambio in regime di libera concorrenza. – 2. Il requisito di “economicità” dell’attività e la discussa rilevanza del lucro oggettivo. – 3. L’attività economi-ca degli enti pubblici. – 4. I criteri utilizzati per la verifica dell’economicità dell’attività svolta dagli enti pubblici. – 5. Le attività economiche esercitate dall’ente pubblico in veste di “pubbli-

* Lavoro svolto nell’ambito del progetto di ricerca PRIN 2009 “Corrispettività, onerosi-tà e valore di trasferimento nel diritto dell’impresa e nella circolazione giuridica dei beni”.

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ca autorità” e la verifica degli effetti che le stesse producono sul mercato. – 6. Attività economi-che svolte da privati ma in veste di “pubblica autorità”. I perduranti dubbi circa la disciplina ap-plicabile al caso concreto.

1. La nozione di “attività economica” rilevante ai fini IVA secondo la norma-tiva europea: la centralità del mercato quale luogo di scambio in regime di libera concorrenza

Il presupposto soggettivo dell’IVA si realizza, secondo la normativa na-zionale, allorché l’operazione è effettuata nell’esercizio dell’impresa, arte o professione o, come indica più genericamente la norma europea, è resa nell’ambito dello svolgimento di un’attività economica. È evidente che la definizione offerta dal legislatore interno è diversa e maggiormente circo-scritta rispetto a quella proposta dal legislatore europeo. In particolare, per quest’ultimo, l’attività economica rilevante ai fini IVA è volta alla cessione di beni o alla prestazione di servizi o allo sfruttamento di beni con il fine di ot-tenere introiti aventi carattere di stabilità. Ai sensi dell’art. 9 della Direttiva del 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE (ex art. 4 della VI Direttiva del 17 maggio 1977, n. 77/388/CE) «si considera soggetto passivo chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività». Il comma 2 dell’art. 9 citato precisa, a sua volta, che per attività economica si deve in-tendere ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole e quelle delle professioni li-berali o assimilate, rientrando nel novero delle attività rilevanti quelle consi-stenti nello sfruttamento di beni, materiali o immateriali, per ricavarne in-troiti con un certo carattere di stabilità.

A questo proposito è stato correttamente rilevato come il requisito di economicità sia inteso in senso “oggettivo” in quanto la norma si limita a de-scrivere «il tipo di attività svolta (produzione, commercio, ecc.) o il tipo di azione – di sfruttamento – da esercitare sui fattori della produzione» al punto che «nella direttiva comunitaria sembrerebbe prescindersi totalmente dal rapporto ricavi-costi»

1.

1 Secondo INTERDONATO, Gli imprenditori, in TESAURO (diretto da), L’imposta sul valo-re aggiunto, Torino, 2001, p. 129, il requisito di economicità inteso come rapporto tra costi e ricavi «finirebbe con il discriminare sul piano della concorrenza, ad esempio, i servizi resi

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A ciò si può aggiungere che l’economicità dell’attività è necessaria ma non sufficiente di per sé ai fini dell’integrazione del presupposto soggettivo dell’IVA in quanto requisito imprescindibile è che l’attività economica sia rivolta al mercato e ciò in quanto il tributo mira a salvaguardare il libero mer-cato e ad eliminare effetti distorsivi sulla concorrenza. Detta esigenza è prio-ritaria ed ineludibile al punto che un’attività economica che sia svolta in un settore ove il mercato e la concorrenza non possono esistere non può essere considerata rilevante ai fini IVA

2. Una conferma in tal senso proviene dalla giurisprudenza europea in tema

di attività illecite, in quanto la Corte di Giustizia ha più volte precisato che queste rilevano ai fini IVA a condizione che sussista un mercato di riferi-mento e, quindi, una possibile concorrenza. Nella prospettiva del giudice europeo, infatti, l’IVA è un tributo che evita disparità di trattamento tra operatori economici nell’ambito di un determinato settore di mercato. Per-tanto, allorché non sussista un mercato dell’illecito in concorrenza con quel-lo del lecito, non può sorgere alcuna distorsione della concorrenza e, di con-seguenza, non vi è l’esigenza di applicare l’IVA

3. In questo senso, occorre distinguere le attività economiche per le quali vige un divieto assoluto di svolgimento nell’ambito del mercato europeo (ad esempio, vendita di stu- da imprese che, avendo istituzionalmente fini di lucro (ed essendo programmaticamente orientate a realizzare ricavi superiori ai costi di esercizio), devono applicare l’IVA, da quelli resi dagli enti non profit, che sarebbero, per effetto di tale interpretazione, esclusi da IVA, in virtù del difetto di economicità così inteso».

2 Sul punto si vedano AMATUCCI, Identificazione dell’attività di impresa ai fini fiscali in ambito comunitario, in Riv. dir. trib., 2009, I, p. 781 ss.; BEGHIN, L’esercizio di impresa nel-l’IVA, ivi, p. 795 ss.

3 Esemplare in questo senso è la vicenda relativa ai “coffeshop” olandesi, in relazione alla quale la Corte di Giustizia UE ha sottolineato come il divieto di importazione e commer-cializzazione di stupefacenti vigente in tutti gli Stati membri escluda l’esistenza di un mer-cato di simili prodotti in relazione ai quali, pertanto, non è possibile, da un lato, invocare i vantaggi del mercato comune (v. Corte di Giustizia UE, 16 dicembre 2010, causa C-137/09, Marc Michel Josermans-Burgemeester van Maastricht, punto 42) e, dall’altro, applicare l’IVA (v. Corte di Giustizia UE, 29 giugno 1999, causa C-158/98, Coffeeshop Siberie, punto 19, ove è chiaramente evidenziato che «l’attività che può essere assoggettata ad imposta nella fattispecie non è la vendita di stupefacenti, ma una prestazione di servizi costituita dalla messa a disposizione di un’area in cui la vendita di tali prodotti viene praticata con il con-senso del fornitore della prestazione»). Sul tema della rilevanza delle operazioni illecite nell’IVA in generale si veda STRADINI, L’imponibilità ai fini dell’imposta sul valore aggiunto dei proventi illeciti: tra norme interne e principi comunitari, in Rass. trib., 2007, p. 1197 ss.; PROTO, L’orientamento della Corte di Giustizia U.E. e la tassazione delle attività illecite, in Rass. trib., 1999, p. 1292 ss.

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pefacenti 4 da quelle che sono vietate solo in senso relativo in quanto per es-

se esiste un mercato concorrenziale (come nel caso dei prestiti ad usura 5):

infatti, il divieto assoluto di svolgimento vigente all’interno dell’UE compor-ta l’esclusione dalla sfera di applicazione dell’IVA delle prime in ragione del-la loro estraneità agli scopi delle Direttive.

In conclusione, perché sussista un’attività economica rilevante ai fini IVA non basta accertare che esista una domanda o un’offerta di determinati beni o servizi, ma occorre altresì verificare se l’operatore economico operi in un libero mercato, almeno potenzialmente, in concorrenza con altri operatori. In questo senso appare determinante, nella prospettiva dell’UE, garantire la libera concorrenza ed evitare qualsiasi effetto distorsivo sul mercato dato che lo scopo dell’armonizzazione dei diversi sistemi nazionali di imposta sulla cifra d’affari è «un’uniforme applicazione del tributo sugli scambi di beni e servizi effettuati nella Comunità come se questa fosse un grande mer-cato nazionale»

6.

2. Il requisito di “economicità” dell’attività e la discussa rilevanza del lucro oggettivo

Chiarito che ai fini IVA l’attività economica rilevante è solo quella che si colloca in un mercato, è opportuno approfondire il tema dell’“economicità” dell’attività ed in questa prospettiva occorre innanzitutto considerare che il problema è stato oggetto di approfondito studio da parte della dottrina in ambito tributario, sebbene soprattutto con riguardo alla normativa relativa alle imposte sui redditi

7. Le considerazioni formulate in relazione alle impo-

4 V. Corte di Giustizia UE, 5 luglio 1988, causa C-289/86, Happy Family, punti 17 e 18. 5 Si veda Corte di Giustizia UE, 7 luglio 2010, causa C-381/09, Curia (punto 18), ove è

chiarito che il principio di neutralità fiscale non consente di distinguere in via generale fra operazioni lecite ed illecite in quanto «la qualificazione di un comportamento come ripro-vevole non comporta, di per sé, una deroga all’assoggettamento all’imposta. Una siffatta deroga entra in considerazione solo in situazioni specifiche nelle quali, a causa delle carat-teristiche particolari di talune merci o di talune prestazioni, è esclusa qualsiasi concorrenza tra un settore economico lecito e un settore illecito. In questa situazione specifica, il non assoggettamento all’IVA non può compromettere il principio della neutralità fiscale».

6 GIORGI, Detrazione e soggettività passiva nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, Pa-dova, 2005, p. 53.

7 In tema si vedano PROTO, La fiscalità degli enti non societari, Torino, 2003, passim; CASTALDI, Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999, passim; CASTAL-

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ste sui redditi mantengono comunque la loro rilevanza anche in ambito IVA.

Secondo un’opinione più o meno condivisa, l’attività “economica” sa-rebbe quella: i) indirizzata ad un fine produttivo e quindi diretta alla crea-zione di nuove utilità, anche sotto forma di incremento di valore di beni già esistenti; ii) il cui risultato è destinato al mercato ed oggettivamente idoneo a produrre un introito; iii) a fronte della quale il corrispettivo è idoneo a remunerare i diversi fattori produttivi impiegati, in modo da aumentare o, quantomeno, reintegrare il patrimonio.

Proprio quest’ultimo profilo è particolarmente dibattuto. Infatti, da un lato e sotto un profilo squisitamente civilistico, occorrerebbe in via priorita-ria chiarire che cosa si debba intendere per lucro oggettivo e cioè se la no-zione ricomprenda solo l’astratta e potenziale attitudine a conseguire un profitto, ovvero anche l’oggettiva idoneità ad evitare una perdita e, quindi, ad assicurare la remunerazione dei fattori produttivi ed il pareggio rispetto alle spese sostenute per disporre di capitale e lavoro

8. Dall’altro e successi-vamente, occorrerebbe chiarire se e quale rilevanza è stata assegnata dal le-gislatore al lucro oggettivo in ambito tributario ma in questa sede è possibile esclusivamente ripercorrere i punti fermi cui è pervenuta la dottrina e le questioni ancora aperte.

A questo proposito, in conformità ai risultati raggiunti in ambito civilisti-co, nel settore tributario si è pervenuti alla pacifica conclusione della caren-za di economicità di tutte quelle attività che sono volte ad erogare risorse e, quindi, preordinate al conseguimento di una perdita o di un depauperamen-to del patrimonio: non può essere economica, infatti, quell’attività svolta per fini di beneficienza mediante erogazione gratuita di beni o servizi. Al-trettanta certezza è stata raggiunta in merito all’economicità di quelle attivi-tà volte al conseguimento di un profitto e, quindi, preordinate ad ottenere un utile. Viceversa, non vi è concordia in relazione alle attività che sono fina-lizzate al mero pareggio del bilancio e cioè volte alla sola copertura dei costi di produzione e, quindi, alla mera autosufficienza finanziaria. È comunque largamente condivisa in dottrina la conclusione che dette attività dovrebbe-ro essere in ogni caso considerate economiche ed intese quale risultato pro- DI-FICARI-PURI-ROSSI, in FEDELE (a cura di), Il regime fiscale delle associazioni, Padova, 1998, passim.

8 Questo tema attiene strettamente al settore del diritto commerciale e non può essere oggetto di esame in questa sede. Si veda però in argomento MARASÀ, Lucro, mutualità e soli-darietà nelle imprese (Riflessioni sul pensiero di Giorgio Oppo), in Giur. comm., 2012, p. 197 ss.

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grammatico minimo al di sotto del quale non è consentito parlare di pianifi-cazione imprenditoriale

9. Sarebbe comunque irragionevole fondare l’esclu-sione dell’“economicità” dell’agire dell’ente sulla base della mera previsione della esatta remunerazione dei costi di diretta imputazione in quanto il pro-blema consisterebbe piuttosto nel «distinguere le attività di mera erogazio-ne da quelle che, in presenza degli ulteriori requisiti previsti dalla legge, pos-sono essere qualificate commerciali». In questa prospettiva, infatti, l’indagi-ne dovrebbe essere fondata «sul rapporto, nella programmazione dell’attivi-tà, fra forme di sovvenzione effettivamente contributiva o liberale e corri-spettivi: se sono le prime a prevalere, quantitativamente e funzionalmente, cosicché i corrispettivi risultino non essenziali (ed in sostanza equiparabili a forme di “concorso” nell’attività di erogazione) l’attività non potrà qualifi-carsi come commerciale; se, invece, prevalgono i proventi dello scambio sul mercato di cose o di servizi, le altre forme di sovvenzione possono essere equiparate (ex art. 55 TUIR) a quelle corrispettive e l’attività considerata commerciale»

10. Quando dalle imposte sui redditi si passa al sistema impositivo dell’IVA

la situazione non sembra apparentemente mutare: la questione della “non commercialità” e, quindi, della “non economicità” in ambito IVA è stata pro-posta negli stessi termini e ha portato ad analoghe soluzioni in quanto è sta-to evidenziato come l’entrata debba garantire all’impresa quanto meno di

9 Sul tema si vedano, in generale, ANTONINI, Considerazioni sull’imposizione degli enti pubblici non economici, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1978, I, p. 582 ss.; E. NUZZO, Questioni in tema di tassazione di enti non economici, in Rass. trib., 1985, I, p. 110 ss.; GALLO, I soggetti del Li-bro I del codice civile e l’Irpeg: problematiche e possibili evoluzioni, in Riv. dir. trib., 1993, p. 348 ss.; ID., Fondazioni e fisco, in Rass. trib., 2004, p. 1166 ss.; PROTO, Classificazione degli enti diversi dalle società e natura delle attività esercitate, in Rass. trib., 1995, p. 553 ss.

10 FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, p. 349. Per l’Autore non sembrano esserci dubbi sul fatto che «in base alle regole generali, la prestazione di ser-vizi per corrispettivi non eccedenti i costi di diretta imputazione dia luogo ad attività com-merciale». In questa prospettiva sembrano porsi altresì FICARI, Strumentalità dell’attività commerciale e fine non lucrativo nella tassazione delle associazioni, in CASTALDI-FICARI-PURI-ROSSI, op. cit., p. 5; CASTALDI, op. cit., p. 129, la quale rileva in particolare come, ai fini delle imposte sui redditi, più che alla misura del corrispettivo, occorra guardare alla tipologia di introito in quanto le forme di eterofinanziamento di tipo sovvenzionatorio (erogazioni a fon-do perduto degli enti pubblici territoriali) o contributivo (contributi versati da associati o partecipanti) sarebbero indicative della mancanza di economicità dell’attività svolta da de-terminati soggetti «onde la dinamica gestionale che li caratterizza li vede piuttosto come centri di raccolta e di redistribuzione (o reimpiego non produttivo) di redditi prodotti e già tassati in capo ad altri soggetti, invece che come moduli di svolgimento di attività produt-tive ex se di nuova ricchezza».

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“sopravvivere” sul mercato. In questo senso, la presenza del requisito di eco-nomicità deve essere valutata rispetto al metodo con il quale viene gestita l’attività e non con riguardo all’atto singolarmente considerato

11, fermo re-stando che le possibili divergenze tra operazioni «estranee alla formazione del reddito d’impresa ma assoggettabili ad Iva si spiegano in base alla “ragio-ne normativa” che si preoccupa di evitare comportamenti distorsivi del prin-cipio di neutralità dell’imposizione sugli scambi»

12. Più recentemente, tuttavia, è stato osservato come il lucro oggettivo, sia

se inteso come conseguimento di proventi meramente remunerativi dei fat-tori della produzione, che di utili riconducibili ad un’attività, sarebbe un con-cetto del tutto estraneo alle definizioni normative di impresa e di attività e-conomica prescelte dal legislatore in ambito IVA. In quest’ottica, esclusiva-mente la tipologia di attività in concreto svolta o la forma istituzionale as-sunta configurerebbero caratteristiche idonee a distinguere l’attività “eco-nomica” da quella non economica, essendo invece del tutto indifferente il lucro o l’obiettiva economicità della gestione. Quindi, il legislatore si sareb-be discostato dalle valutazioni sistematiche proprie del diritto commerciale ed avrebbe considerato assolutamente irrilevante «l’elemento dell’“autosuf-ficienza economica” o del “metodo economico” della conduzione dell’attivi-tà o la regola della “copertura dei costi con i ricavi”»

13.

11 FICARI, Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto: l’impresa e l’impresa dell’ente commerciale, in Riv. dir. trib., 1999, I, p. 567.

12 E. NUZZO, op. cit., p. 110. In questo senso si veda altresì CASTALDI, op. cit., p. 253, che osserva come il lucro oggettivo non rilevi ai fini del tributo in esame mentre sarebbe de-terminante la soggezione di tutte le operazioni che impattano sul libero mercato in ragione dell’esigenza «di garantire la neutralità dell’imposta nei passaggi intermedi del bene entro il ciclo produttivo e redistributivo ed evitare così che, inserendo isole di non commerciali-tà (ma meglio sarebbe dire non imprenditorialità) all’interno di siffatto ciclo si finisca per reintrodurre surrettiziamente un’imposta plurifase a cascata (del tipo IGE)».

13 Così GIOVANNINI, Lucro e impresa commerciale nel sistema impositivo, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 473, che ritiene la conclusione valida sia per l’IVA che ai fini delle imposte sui redditi, con la differenza però che nell’IVA la giustificazione si rinviene nella stessa struttu-ra del tributo posto che ciò che conta è evitare «un salto d’imposta nella catena traslativa dell’incidenza impositiva». In senso conforme sembrerebbe esprimersi anche PADOVANI, Problemi in tema di trattamento tributario degli enti non commerciali tra storia e prospettive di riforma, in Riv. dir. trib., 2002, I, p. 812, secondo il quale, a fronte del dato normativo for-male, sarebbe «del tutto inconferente il tendenziale perseguimento da parte dell’organiz-zazione del pareggio di bilancio e la circostanza che tale pareggio sia ottenuto attraverso contribuzioni pubbliche, come pure non rileva il rapporto tra queste ultime e le entrate di carattere corrispettivo».

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Alla luce delle precedenti considerazioni, risulta confermata la particola-re ampiezza della nozione di attività economica rilevante ai fini IVA nonché le peculiari caratteristiche del requisito di economicità che deve essere con-siderato ai fini di questo specifico tributo. Occorre a questo punto verificare se le medesime conclusioni valgano anche in relazione all’attività economi-ca svolta da una particolare categoria di soggetti passivi del tributo e cioè dagli enti pubblici.

3. L’attività economica degli enti pubblici

Operando un confronto tra normativa nazionale ed europea si evince che la prima è volta principalmente a stabilire, tramite presunzioni assolute, quali attività presentino ipso iure il requisito di commercialità, onde distin-guerle da quelle che non rilevano ai fini IVA in quanto appunto ritenute “non commerciali”. Per contro, la normativa europea, come è già stato evidenzia-to, da un lato, offre una nozione quanto mai ampia di attività “economica”, richiedendo genericamente che la stessa sia idonea a produrre “introiti” di una certa stabilità (concetto ulteriormente ribadito, per quanto concerne gli enti pubblici, dal richiamo effettuato indifferentemente ai “diritti, canoni, contributi o retribuzioni”). Dall’altro, presuppone che la verifica dell’econo-micità sia condizione necessaria ma ex se non sufficiente ai fini dell’integra-zione del presupposto soggettivo in quanto l’attività economica rilevante è solo quella che si colloca nell’ambito di un mercato ed in relazione alla quale è possibile individuare una concorrenza.

È noto come, rispetto alla nozione di attività economica rilevante ai fini IVA ricavabile dal quadro normativo e giurisprudenziale dell’UE, il legisla-tore nazionale abbia preferito ricorrere a definizioni di diritto interno analo-ghe a quelle che, nell’ambito delle imposte sui redditi, individuano i soggetti che producono redditi di impresa e di lavoro autonomo e così, ad esempio, l’art. 4 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 fornisce criteri diversificati in base alla natura del soggetto, onde individuare le operazioni compiute nell’eser-cizio dell’impresa

14. Al comma 2, punto 1), dell’art. 4 citato, è prevista una presunzione assoluta di commercialità per i soggetti che assumono una de-

14 Per l’allineamento della nozione fiscale di impresa e di imprenditore ai fini IVA su quella accolta nel TUIR si rimanda a FANTOZZI, Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell’Iva, Milano, 1982, p. 26; FICARI, Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore ag-giunto, cit., p. 547.

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terminata veste giuridica 15. Peraltro, la normativa nazionale considera “in

ogni caso” effettuate nell’esercizio dell’impresa le cessioni di beni e le presta-zioni di servizi rese, oltre che dalle società commerciali, anche «da altri enti pubblici e privati, compresi i consorzi, le associazioni o altre organizzazioni senza personalità giuridica e le società semplici, che abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole» (art. 4, comma 2, n. 2, D.P.R. n. 633/1972). Specularmente, al comma 4 dell’art. 4 è chiarito che «per gli enti indicati al n. 2) del comma 2, che non abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agri-cole, si considerano effettuate nell’esercizio di imprese soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell’esercizio di attività commerciali o agricole»

16. Infine, il comma 5 dispone quali attività sono considerate «in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti pubblici» e quali attività non sono considerate commerciali «anche in deroga al secondo comma».

Per quanto concerne gli enti pubblici la norma nazionale era: i) scarna relativamente alla soggettività passiva di questi enti in quanto lo status giu-ridico di “ente pubblico” non rilevava autonomamente per l’individuazione della soggettività passiva ai fini IVA; ii) volta principalmente a stabilire, tra-mite presunzioni assolute, quali attività presentassero ipso iure il requisito di commercialità, onde distinguerle da quelle che non rilevavano ai fini IVA in quanto appunto ritenute “non commerciali”.

La norma interna doveva pertanto essere coordinata con le previsioni contenute nell’art. 13 della Direttiva del 2006/112/CE (ex art. 4, n. 5,

15 Per le società commerciali è disposta una presunzione secondo la quale qualunque cessione o prestazione di servizi, anche in favore dei propri soci, associati o partecipanti, si considera effettuata nell’esercizio di impresa. V. INTERDONATO, op. cit., p. 140; CON-TRINO, Art. 4 del D.P.R. n. 633 del 1972, in MARONGIU (a cura di), Commentario breve alle leggi tributarie, IV, IVA e imposte sui trasferimenti, Padova, 2011, p. 28 ss.; ID., Incer-tezze e punti fermi sul presupposto soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., 2011, I, p. 535 ss.; COMELLI, L’esercizio di impresa quale elemento soggettivo della sfe-ra di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., 2007, I, p. 687 ss. Sul punto si veda altresì FICARI, Tipo societario e qualificazione dell’attività economica nell’im-posizione sul reddito e sul valore aggiunto, in Rass. trib., 2004, p. 1245 ss., ove l’Autore rile-va l’inadeguatezza dell’attuale normativa, soprattutto se interpretata come espressiva di una presunzione assoluta/qualificazione legale di commercialità per i soggetti che assu-mono una determinata veste giuridica.

16 In tema si veda DELLA VALLE, Iva: l’ente che non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole, in Rass. trib., 1999, p. 1001 ss.; GASPARINI BER-LINGIERI, Gli enti non commerciali, in TESAURO (diretto da), L’imposta sul valore aggiunto, cit., p. 179.

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comma 1, della VI Direttiva n. 77/388/CEE) 17 in quanto la disposizione

europea stabilisce che:

a) in via di principio ed in deroga alla disciplina ordinaria, l’attività eco-nomica degli enti pubblici non rileva ai fini IVA se svolta in veste di pubblica autorità. In questa prospettiva è infatti previsto che «gli Stati, le regioni, le province, i comuni e gli altri enti di diritto pubblico non sono considerati soggetti passivi per le attività o le operazioni che esercitano in quanto pub-bliche autorità, anche quando, in relazione a tali attività od operazioni, per-cepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni»;

b) la circostanza che l’attività sia svolta dall’ente pubblico in regime di di-ritto pubblico è condizione necessaria ma non sufficiente ad escludere la soggettività passiva IVA allorché detta attività sia in grado di alterare il re-gime di libero mercato in quanto è disposto che «tuttavia, allorché tali enti esercitano attività od operazioni di questo genere, essi devono essere consi-derati soggetti passivi per dette attività od operazioni quando il loro non as-soggettamento provocherebbe distorsioni della concorrenza di una certa importanza»;

c) infine, la soggettività ai fini IVA dell’ente pubblico può essere esclusa anche in relazione allo svolgimento di un’attività economica qualora la stes-sa sia trascurabile perché è previsto che «in ogni caso, gli enti succitati sono considerati soggetti passivi per quanto riguarda le attività elencate nell’Alle-gato I quando esse non sono trascurabili».

Dato che la normativa nazionale avrebbe dovuto limitarsi a rappresenta-re mera attuazione ed integrazione della disciplina europea, non è mancato chi in passato ha espresso dubbi sulla relativa conformità

18. La questione

17 In generale, sulla disposizione in esame si vedano DEL FEDERICO, Tasse, tributi para-commutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, p. 140, nonché MONTANARI, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, Torino, 2013, p. 117, anche per gli ulteriori riferimenti di dottrina europea; CIUFFARELLA, L’ente pubblico non economico come soggetto passivo dell’Iva, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 109 ss.

18 TESAURO, Appunti sulla illegittimità comunitaria delle norme Iva relative agli enti pub-blici, in Boll. trib., 1987, p. 1757 ss.; ID., Il regime Iva delle attività degli enti pubblici, in Riv. dir. fin., 1992, I, p. 103 ss. La questione in questa sede non può essere oggetto di ulteriore approfondimento ma c’è chi ha giustamente sottolineato che il rapporto tra normativa na-zionale e normativa europea può essere ricostruito in chiave sia di “integrazione” del dirit-to interno rispetto alla Direttiva, che di conflitto ed incompatibilità ma, in ogni caso, trove-rebbe sempre diretta applicazione la norma europea, con eventuale disapplicazione di quella nazionale incompatibile. FALSITTA-CENTORE, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Il sistema delle imposte in Italia, Padova, 2013, p. 780 e, in particolare, nota 70.

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non può ritenersi definitivamente risolta a seguito dell’intervento del legisla-tore del 2012, con il quale è stato integrato il comma 5 dell’art. 4 citato, che attualmente precisa come non siano considerate commerciali «le operazioni effettuate dallo Stato, dalle regioni, dalle province, dai comuni e dagli altri enti di diritto pubblico nell’ambito di attività di pubblica autorità»

19. Nonostante l’intervento legislativo risulti apprezzabile in quanto chiarificatore sul punto, appare ancora largamente carente per una pluralità di motivi. In questo senso, innanzitutto, si mostra lacunoso laddove non individua il concetto di “attività di pubblica autorità” rilevante ai fini IVA. In proposito e come verrà meglio chiarito nel prosieguo, la Corte di Giustizia si è limitata a precisare che l’attivi-tà è irrilevante se «esercitata nell’ambito di un regime giuridico proprio degli enti pubblici. Ciò si verifica quando l’esercizio di tale attività implica l’uso di poteri propri della pubblica autorità»

20. Di conseguenza è al diritto nazionale che occorre far riferimento per individuare le attività svolte in veste di pubbli-ca autorità. Sotto un diverso profilo, la norma nazionale, contrariamente a quella europea, non assegna alcuna rilevanza agli effetti potenzialmente anti-concorrenziali dell’attività. Questo è ancor più grave, posto che, ai fini dell’e-sclusione della soggettività dell’ente pubblico, l’art. 13 della Direttiva assegna un ruolo centrale alla possibile distorsione della concorrenza.

In terzo luogo, la lettura integrale dell’attuale comma 5 si presta ad ulte-riori equivoci e fraintendimenti derivanti dalla sua non felice formulazione dato che, mentre la normativa europea esige per le attività dell’allegato I la verifica della “trascurabilità” dell’attività, la norma nazionale contradditto-riamente sembra escluderne in ogni caso la rilevanza ponendo una sorta di presunzione assoluta di non economicità delle attività svolte in veste di pub-blica autorità.

In questo senso, si ha la netta sensazione che, ancora una volta, il legisla-tore nazionale, per esigenze di semplificazione, preferisca ricorrere a criteri

19 Il comma 5 è stato modificato dall’art. 38, comma 2, lett. a), del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221. In argomento si veda Risoluzione 30 maggio 2014, n. 56/E.

20 Sul concetto di attività svolta in veste di pubblica autorità si vedano in particolare le sentenze della Corte di Giustizia UE, 14 dicembre 2000, causa C-446/98, Fazenda Publi-ca, punto 24, nonché 16 settembre 2008, causa C-288/07, Isle of Wight Council, punto 31, in Riv. dir. trib., 2009, IV, p. 197, con nota di MONDINI, Poteri pubblici locali e distorsioni della concorrenza: la Corte di Giustizia “riscrive” il regime Iva delle attività svolte “in quanto pubblica autorità”. In argomento si veda anche NIKIFARAVA, La neutralità concorrenziale dell’Iva e le attività economiche degli enti pubblici, in Rass. trib., 2009, p. 289 ss. Per la prassi si veda Risoluzione 7 agosto 2008, n. 348/E; Risoluzione 6 maggio 2009, n. 122/E; Riso-luzione n. 29 dicembre 2010, n. 139/E.

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di individuazione predeterminati ed astratti che fanno perno sulla qualifica-zione istituzionale del soggetto che pone in essere l’attività e che, purtrop-po, tradiscono la ratio della disciplina europea, volta al contrario a ricono-scere la soggettività passiva IVA solo a coloro che, a seguito di una verifica casistica e da svolgere in concreto, esercitino un’attività economica rilevante sul mercato concorrenziale.

Resta fermo in ogni caso che l’IVA rappresenta il tributo europeo per ec-cellenza e questo non solo in quanto è disciplinata a livello europeo tramite una serie di Direttive e Regolamenti emanati fin dal lontano 1967, ma anche perché la sua uniforme applicazione in tutti gli Stati membri dell’UE è ga-rantita dalla Corte di Giustizia, unico giudice competente a fornire in via pregiudiziale la corretta interpretazione delle norme in materia

21. Ne deriva che, sebbene l’IVA sia stata istituita in Italia con il D.P.R. n. 633/1972, la normativa interna è (o almeno, dovrebbe essere) meramente attuativa ed integrativa della disciplina sostanziale posta a livello europeo e cioè, in pri-mis, dall’insieme delle disposizioni contenute nel Trattato istitutivo dell’UE e delle Direttive e Regolamenti succedutisi nel tempo, secondo l’uniforme interpretazione garantita dalla Corte di Giustizia

22.

21 La diretta applicabilità dell’art. 4, n. 5 della Direttiva del 1977 (ora art. 13 della Diret-tiva del 2006) è stata ripetutamente affermata dalla Corte di Giustizia UE. In particolare, si vedano le sentenze 17 ottobre 1989, causa C-231/87 e C-129/88, Comune di Carpaneto Pia-centino; 16 settembre 2008, causa C-288/07, cit., nonché 8 giugno 2006, causa C-430/04, Feuerbestattungsverein Halle, ove la Corte ha riconosciuto che l’applicazione diretta della disciplina europea può essere invocata: a) dal singolo operatore, allorché l’attività svolta dal-l’ente pubblico nell’esercizio di poteri pubblici arrechi pregiudizio alla concorrenza e, vice-versa, b) dall’ente pubblico, per opporsi all’eventuale assoggettamento ad IVA di un’attivi-tà di carattere pubblico-autoritativo che non sia idonea a provocare significative distorsio-ni della concorrenza. Per un caso recente di diretta applicazione della normativa europea, si veda Cass., 7 marzo 2012, n. 3513, in Corr. trib., 2012, p. 1722, con nota di CENTORE, Soggettività passiva Iva degli enti pubblici in funzione della natura economica dell’attività, nonché in Riv. trim. dir. trib., 2013, II, p. 1095, con nota di MONTANARI, La soggettività IVA degli enti pubblici territoriali alla luce di un recente orientamento della Suprema Corte.

22 Sulla natura europea dell’imposta si rimanda, per tutti, a COMELLI, IVA comunitaria e IVA nazionale: contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, passim; ID., La natura dell’imposta, in TESAURO (diretto da), L’imposta sul valore aggiunto, cit., p. 3 ss.

Corollario della natura europea del tributo è la necessaria disapplicazione della norma-tiva interna che non recepisca correttamente la disciplina posta a livello europeo. Infatti è noto che le Direttive emanate in materia vincolano il legislatore nazionale e, allorché si presentino sufficientemente precise e dettagliate, si rendono immediatamente efficaci nel-l’ordinamento interno, imponendo la disapplicazione della norma nazionale che con esse

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Ad ogni modo e volendo trarre delle prime considerazioni sul punto, dal quadro normativo di riferimento emergono con chiarezza le peculiarità del-la disciplina impositiva riguardante gli enti pubblici al punto che per essi oc-corre distintamente verificare: a) in base a quali criteri l’attività possa rite-nersi economica; b) la rilevanza del limite costituito dallo svolgimento del-l’attività in veste di pubblica autorità; c) gli effetti che lo svolgimento dell’at-tività economica produce sul mercato.

In proposito, gli interventi della giurisprudenza europea sembrano mili-tare nella prospettiva in base alla quale non è lo svolgimento di determinate attività né tanto meno la modalità di svolgimento (in regime privatistico o pubblicistico) dell’attività isolatamente considerata ad implicare il ricono-scimento della soggettività passiva ai fini IVA dell’ente pubblico in quanto si deve accertare una serie di ulteriori circostanze ed in particolare se per la concreta attività svolta esista o meno un mercato di riferimento, se l’ente operi in veste di pubblica autorità, che tipo di conseguenze, in concreto e caso per caso, lo svolgimento della predetta attività può provocare sul mer-cato

23.

4. I criteri utilizzati per la verifica dell’economicità dell’attività svolta dagli enti pubblici

La Corte di Giustizia ha in più circostanze chiarito che, in relazione agli enti pubblici, occorre sempre dapprima verificare la sussistenza dello svol-gimento di un’attività economica ai sensi dell’art. 9 della Direttiva del 2006 e, solo in caso affermativo, accertare se ricorrono le condizioni di applicabi-lità della disciplina speciale contenuta nel successivo art. 13

24.

si ponga eventualmente in contrasto. Sul punto si veda PERRONE, L’armonizzazione del-l’IVA: il ruolo della Corte di Giustizia, gli effetti verticali delle direttive e l’affidamento del con-tribuente, in Rass. trib., 2006, p. 423 ss. Sugli effetti interpretativi delle sentenze della Corte di Giustizia si veda in generale MELIS-MICELI, Le sentenze interpretative della Corte di Giu-stizia delle Comunità Europee nel diritto tributario: spunti dalla giurisprudenza relativa alle direttive sull’“imposta sui conferimenti” e sull’Iva, in Riv. dir. trib., 2003, p. 111 ss.; NUCERA, Sen-tenze pregiudiziali della Corte di Giustizia e ordinamento tributario interno, Padova, 2010, passim.

23 Sul punto si veda PORCARO, Attività dell’ente locale tra autoritatività e consensualità: ri-flessi in tema di soggettività passiva IVA, in Rass. trib., 2006, I, p. 775 ss.

24 V. Corte di Giustizia UE, 29 ottobre 2009, causa C-246/08, Commissione delle Co-munità europee – Repubblica di Finlandia, punti 39 ss., ove i giudici hanno precisato che in

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In questa prospettiva, una prima rilevante peculiarità riguarda i criteri utilizzabili per verificare l’economicità dell’attività dell’ente pubblico

25. No-nostante quanto sopra brevemente richiamato in ordine alla discussa rile-vanza del profilo del lucro oggettivo ai fini della verifica della economicità dell’attività, la Corte di Giustizia è ricorsa, in alcune circostanze, proprio al criterio del lucro oggettivo per escludere il carattere economico dell’attività svolta dagli enti pubblici.

Infatti, pur nella consapevolezza di non poter giungere a conclusioni va-levoli in via generale, dall’analisi della giurisprudenza europea è possibile ar-gomentare che, in alcuni casi, la natura, i criteri di determinazione nonché la stessa misura dell’introito rappresentano strumenti idonei ad individuare il carattere economico dell’attività concretamente posta in essere e, pertanto, incidono sulla individuazione del requisito di economicità.

In questo senso, i giudici europei hanno escluso l’economicità dell’attivi-tà resa da un ufficio pubblico di assistenza legale in ragione del fatto che il fruitore del servizio era tenuto ad una remunerazione che solo parzialmente reintegrava i costi di gestione, in quanto determinata non in funzione del va-lore del servizio, bensì diversamente modulata in base alle condizioni sog-gettive reddituali del fruitore

26. assenza del carattere economico dell’attività svolta dall’ente pubblico, non è possibile veri-ficare la rilevanza dell’attività ai sensi dell’art. 13 della Direttiva e, quindi, accertare se la stessa è resa in veste di pubblica autorità e/o produca distorsioni della concorrenza di una certa importanza.

25 Sotto questo profilo, non è peraltro superfluo sottolineare che l’individuazione del carattere della “economicità” dell’attività svolta dagli enti pubblici non è agevole neppure nell’ambito delle imposte sui redditi, ma in quella sede il problema è risolto a monte, gra-zie ad una specifica disposizione normativa e cioè all’art. 74 del TUIR (ex art. 88) che nega la soggettività passiva degli enti pubblici. Non è chiaro tuttavia se la norma in esame abbia natura di “regola” o di “deroga” nell’ambito delle imposte sui redditi. Secondo una prima ricostruzione, poiché l’attività economica rilevante ai fini delle imposte sui redditi sarebbe quella fondata sull’attitudine a conseguire astrattamente un profitto, l’ente pubblico do-vrebbe essere fisiologicamente considerato come un ordinario soggetto passivo dell’IRES di modo che la norma disporrebbe un’esenzione giustificata da finalità estranee alla ratio del tributo. Per altri, invece, l’art. 74 del TUIR esprimerebbe una scelta legislativa di fon-do, prevedendo un’esclusione vera e propria per gli enti pubblici in considerazione della loro complessiva inattitudine produttiva e dei moduli di reperimento, gestione ed alloca-zione delle risorse disponibili che ne contraddistinguono la dinamica operativa in ragione dei vincoli istituzionali e pubblicistici loro propri. Per le varie teorie ricostruttive v. Autori citati nella nota 7.

26 V. Corte di Giustizia UE, 29 ottobre 2009, causa C-246/08, cit. In quella sede, i giu-dici hanno evidenziato come la remunerazione fosse solo parziale e non coprisse l’intero

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È interessante notare come nel caso di specie la Corte di Giustizia esclu-da la gratuità delle prestazioni rese dall’ente pubblico ma consideri indicati-vo della non economicità del servizio l’esiguo ammontare dell’introito cor-risposto dagli utenti

27. In altri termini, secondo i giudici, lo svolgimento di un’attività sistematicamente remunerata solo in modo parziale sarebbe indi-cativa della mancanza di economicità. Pertanto, la mancanza di un nesso cau-sale diretto tra il servizio reso ed il corrispettivo ricevuto – determinata dal-l’esiguità dell’importo, che non rispecchia l’effettivo valore della prestazione – rileverebbe sotto il profilo soggettivo in quanto «il nesso tra i servizi di assi-stenza legale forniti dagli uffici pubblici e il controvalore che i beneficiari devono pagare non risulta avere quel carattere diretto che è necessario perché tale controvalore possa essere considerato la retribuzione di detti servizi e, conseguentemente, perché questi ultimi costituiscano attività economiche».

In altre circostanze, la Corte di Giustizia ha escluso che l’attività di pub-blicità svolta dalla sezione regionale di un partito politico austriaco (ente di diritto pubblico) in favore delle sue articolazioni provinciali e locali potesse configurare un’attività economica rilevante ai fini IVA in ragione della tipo-logia di introiti ricevuti

28. In questo caso era discussa la stessa sussistenza di una controprestazione in senso giuridico, in quanto l’attività svolta dall’ente era remunerata sulla base di criteri discrezionali ed il contributo versato dai fruitori prescindeva totalmente dalle spese effettivamente sostenute per l’erogazione del servizio. Poiché la remunerazione dell’attività non permet-teva la sussistenza dell’ente, i giudici europei hanno verificato che la conti-nuità del servizio era assicurata da finanziamenti pubblici nonché da dona-zioni e contributi erogati dai membri del partito. Pertanto, «le sole entrate dotate di un carattere di permanenza provengono dal finanziamento pub-

importo degli onorari fissati dalla normativa nazionale a titolo di retribuzione per i servizi di assistenza legale forniti dagli uffici pubblici e dai consulenti privati ed hanno concluso per la mancanza di qualsiasi nesso con il servizio erogato dall’ente pubblico, escludendo così lo svolgimento di attività economica.

27 La Corte infatti ha precisato (punto 46 della sentenza) che i servizi di assistenza lega-le non erano “erogati” dagli uffici pubblici e che non potevano essere considerati quali pre-stazioni di servizi rese a titolo gratuito. Ciò che risulta oggetto di contestazione è proprio la misura della controprestazione e la sua inidoneità a coprire i costi della gestione del servi-zio al punto che si conclude nel senso che «la remunerazione parziale a carico dei benefi-ciari debba essere assimilata a un canone, la cui riscossione non conferisce da sola carattere economico ad una determinata attività, piuttosto che ad una retribuzione vera e propria».

28 V. Corte di Giustizia UE, 6 ottobre 2009, causa C-267/08, SPO Landesorganisation Karnten.

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blico e dai contributi dei membri di tale partito, ove dette entrate compen-sano, in particolare, le perdite causate dall’attività oggetto della causa prin-cipale».

Nel caso di specie i giudici hanno quindi ritenuto che l’ente ricevesse esclusivamente introiti di tipo contributivo – sovvenzionatorio in assenza di un obbligo contrattuale di remunerazione dei costi per l’effettuazione delle prestazioni ed hanno conseguentemente escluso lo svolgimento di un’attivi-tà economica.

Le pronunce in esame sembrano quindi confermare la validità ai fini IVA delle tesi, già avanzate con riguardo alle imposte sui redditi e sopra breve-mente richiamate, che riconoscono la necessità di verificare l’economicità dell’attività (anche) alla luce della qualificazione e/o della quantificazione degli introiti di modo che lo svolgimento di un’attività economica da parte dell’ente pubblico si realizzerebbe esclusivamente nel caso in cui la remune-razione assicuri sistematicamente un margine di profitto o, quanto meno, l’autosufficienza finanziaria e quindi la copertura dei costi di gestione. Vale a dire che il risultato negativo di gestione deve essere meramente occasionale e non “strutturale” e cioè programmato ex ante

29.

5. Le attività economiche esercitate dall’ente pubblico in veste di “pubblica autorità” e la verifica degli effetti che le stesse producono sul mercato

Come anticipato, il riconoscimento dell’economicità dell’attività svolta dall’ente pubblico è necessario ma non sufficiente ai fini della integrazione del requisito soggettivo in ambito IVA.

29 Analoghe considerazioni sono formulate ai fini delle imposte sui redditi da CASTAL-DI, op. cit., p. 285, la quale pone l’accento sulla complessiva dinamica gestionale dell’ente pubblico che operi sulla base di entrate contributive o sovvvenzionatorie. L’Autrice rileva inoltre come la circostanza che l’ente pubblico sia una struttura operante in via di principio sulla scorta di un sistema di tipo “erogativo” non sia altrettanto rilevante in ambito IVA, in quanto detto tributo è volto a garantire la tassazione di tutti gli scambi intermedi all’inter-no del circuito produttivo. Secondo l’Autrice infatti «è tutto l’impianto normativo IVA a dimostrarsi estraneo alla logica di principio che colloca l’economicità (e, in via successiva, la commercialità) fiscale sul piano della lucratività. Il sistema IVA infatti appare impronta-to a coinvolgere nella propria sfera di operatività tutti i soggetti che agiscono e tutte le ope-razioni (per ciò solo) che si inseriscono nella dinamica di mercato: irrilevante risultando al riguardo il fatto che l’attività economica sia svolta secondo criteri di gestione volti al con-seguimento di un profitto ovvero alla mera remunerazione dei fattori di produzione». ID., op. cit., p. 253.

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Una volta qualificata l’attività come economica ai sensi dell’art. 9, occorre verificare la ricorrenza o meno delle condizioni previste dal successivo art. 13. Infatti, da quanto rilevato in precedenza emerge chiaramente che la soggetti-vità IVA dell’ente pubblico deve essere esclusa allorché l’attività in concreto svolta sia considerata non economica in base alla regola generale stabilita dall’art. 9 della Direttiva. Altrettanto pacificamente l’ente pubblico deve esse-re considerato soggetto passivo IVA allorché svolga attività economica se-condo moduli organizzativi propri degli operatori privati. Allorché, invece, l’attività sia economica ma lo svolgimento della stessa presenti il carattere dell’autoritatività, occorre tener conto della speciale disciplina espressamente contemplata dall’art. 13 e, quindi, verificare se l’eventuale esclusione della sog-gettività passiva IVA derivi, da un lato, dal riconoscimento della natura autori-tativa dell’attività svolta e, dall’altro, dalla sua ininfluenza rispetto al mercato.

In questa prospettiva, innanzitutto è necessario chiarire cosa si intenda per attività resa in veste di “pubblica autorità” e sul punto è già stato antici-pato che le indicazioni dei giudici europei non appaiono dirimenti in quan-to hanno precisato che, per essere irrilevante ai fini IVA, l’attività deve esse-re «esercitata nell’ambito di un regime giuridico proprio degli enti pubblici. Ciò si verifica quando l’esercizio di tale attività implica l’uso di poteri propri della pubblica autorità»

30. In altra sede, la Corte di Giustizia ha ulterior-mente rilevato che l’art. 13 prevede una deroga alla rilevanza ai fini IVA del-le attività degli enti pubblici esercitate in quanto autorità pubbliche e che «pur essendo di natura economica, sono strettamente connesse all’uso di prerogative di pubblico potere» di modo che «il non assoggettamento al-l’IVA dei suddetti enti per tali attività non ha potenzialmente effetti anti-concorrenziali, in quanto queste ultime sono generalmente esercitate dal set-tore pubblico in via esclusiva o quasi esclusiva»

31. In prima battuta può quindi ritenersi che le attività in oggetto siano quel-

le svolte secondo il regime proprio degli enti pubblici e non in base a stru-menti giuridici ordinariamente utilizzati dagli operatori economici privati

32.

30 Corte di Giustizia UE, 14 dicembre 2000, causa C-446/98, cit. 31 Corte di Giustizia UE, 16 settembre 2008, causa C-288/07, cit. 32 In questo senso, ad esempio, l’Amministrazione Finanziaria ha escluso che gli orga-

nismi di mediazione istituiti dai singoli consigli degli ordini degli avvocati svolgessero atti-vità in veste di pubblica autorità secondo l’art. 13 della Direttiva. V. Risoluzione 29 novem-bre 2011, n. 113, ove è stato precisato che l’attività di mediazione non può essere ricondotta tra le attività non commerciali di tipo pubblicistico al pari della tenuta dell’albo degli avvocati e del registro dei praticanti; della verifica della pratica forense; della gestione dei procedi-menti disciplinari, ecc.

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La considerazione appare tuttavia ancora troppo vaga ed imprecisa ed in questo senso si dimostra molto più proficua un’indagine volta innanzitutto a distinguere tra attività svolta in regime di pubblica autorità ed attività con-figuranti un pubblico servizio.

Infatti, l’art. 13 non assume alcuna specifica rilevanza in relazione alle at-tività esercitate dall’ente pubblico in quanto “istituzionali” ed espressione di un pubblico servizio dato che queste, a seconda del carattere economico o meno, rileveranno ai fini IVA in base all’art. 9 della Direttiva

33. Viceversa, l’attività che deve essere sottoposta al vaglio dell’art. 13 è: i) ti-

picamente economica; ii) svolta mediante l’utilizzo di poteri autoritativi e, quindi, esercitata in «posizione dominante e praticamente di monopolio»

34. Dunque, il problema è quello di verificare se l’attività economica posta in

essere dall’ente pubblico sia in via ordinaria riservata al settore pubblico in quanto non esercitabile dal privato. Ciò può avvenire, oltre che in ragione della riserva monopolistica legale eventualmente disposta dallo Stato, anche per ulteriori circostanze fattuali, in quanto ad esempio si tratta di attività che il privato non ha interesse ad esercitare a motivo dello scarso rilievo econo-mico della stessa o che è impossibilitato ad esercitare in quanto trattasi di attività collegata allo svolgimento di una funzione pubblica non delegabile al privato

35.

33 Osserva in proposito CENTORE, Enti non commerciali: profili Iva nazionali e comunitari, in Enti non profit, 2009, p. 11, come occorra distinguere le ipotesi in cui l’esclusione della soggettività passiva dell’ente pubblico dipende dallo svolgimento di attività istituzionali che non sono (e non possono essere) in concorrenza, dai casi in cui l’ente svolge attività econo-miche trascurabili e, quindi, marginali, sotto il profilo della concorrenza e del libero mercato. Infatti, «le attività esercitate dall’ente pubblico in quanto tale (ad esempio: l’Anagrafe) sono irrilevanti, non tanto per il nomen dell’ente pubblico (che costituisce l’errore della norma nazionale, simile a quello commesso per la qualificazione per chiamata nominativa degli imprenditori) quanto, semplicemente, perché non vi è pietra di paragone su cui mi-surare la commercialità e, finalmente, il valore aggiunto attribuibile a tali operazioni».

34 In questo senso, si veda Cass., 7 marzo 2012, n. 3513, cit., ove la Corte di Cassazione ha applicato direttamente l’art. 13 della Direttiva riconoscendo l’assoggettabilità ad IVA dell’attività di costruzione dello stadio comunale e di gestione di parcheggi su suolo pub-blico in quanto esercitate in posizione dominante e praticamente di monopolio «con un effetto distorsivo della concorrenza, attuale e potenziale (e non meramente ipotetico), re-stando a tal fine irrilevante invece il fatto che il risultato della distorsione della concorrenza non si presenti nella fattispecie come futuro ed eventuale, ma si sia già di fatto prodotto».

35 In tema si vedano DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi, cit., p. 144; MON-DINI, Poteri pubblici locali e distorsioni della concorrenza: la Corte di Giustizia “riscrive” il re-gime Iva delle attività svolte “in quanto pubblica autorità”, cit., p. 211 ss.

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In simili casi, infatti, l’attività, pur potendo risultare intrinsecamente eco-nomica secondo i criteri sopra evidenziati, è del tutto irrilevante ai fini IVA in ragione dell’assenza di un mercato di scambio di modo che l’ente pubbli-co non può essere considerato soggetto passivo del tributo. In questa pro-spettiva, l’art. 13 sembrerebbe porre una norma di esclusione, condizionan-do la soggettività passiva dell’ente pubblico alla verifica dell’esistenza di un – ancorché potenziale – mercato per l’attività concretamente svolta

36 e con-tribuire alla specificazione dell’ambito applicativo del tributo.

In conclusione, solo nel caso in cui l’attività economica sia fisiologica-mente esercitata dall’ente pubblico in via esclusiva o quasi esclusiva sarà pos-sibile escluderla dall’ambito applicativo dell’IVA in quanto improduttiva di effetti anticoncorrenziali

37. La ratio della norma deve essere indagata avendo presente ancora una

volta che l’IVA risponde a criteri di generalità e neutralità fiscale e deve garan-tire la salvaguardia del libero mercato, evitando l’alterazione della concor-renza fra operatori economici. Vale a dire che la logica del tributo in esame è quella di garantire la tassazione in relazione a tutti gli scambi intermedi, evi-tare salti di imposta e coinvolgere nel prelievo tutti i soggetti e le operazioni che si inseriscono nella dinamica del mercato.

In questa prospettiva, la norma europea vieta al legislatore nazionale di eludere la disciplina IVA tramite «l’attribuzione da parte del legislatore del regime pubblicistico a un’attività che potrebbe essere esercitata, per sua natu-ra, in un normale regime privatistico (come emerge dal fatto che il parametro di riferimento è la distorsione della concorrenza)» in quanto ciò porterebbe ad un’indebita sottrazione della stessa dalla sfera applicativa del tributo ed alla conseguente alterazione della concorrenza fra operatori economici

38. Anche sotto questo profilo, quindi, è possibile confermare che nella di-

namica del tributo in esame lo svolgimento dell’attività economica è condi-

36 In ordine alla ricostruzione in termini di esenzione o di esclusione delle previsioni contenute nel citato art. 13, tema sul quale non è possibile soffermarsi in questa sede, si rimanda al contributo di MONTANARI, La soggettività IVA degli enti pubblici territoriali, cit., p. 1095 ss., nonché ID., Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, cit., p. 117.

37 Sul tema si veda DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi, cit., p. 151, il quale osserva che «ove l’ente operi nell’ambito del regime pubblicistico suo proprio, può rite-nersi che eserciti attività “in quanto pubblica autorità”» mentre «ove l’ente pubblico eser-citi un’attività che risulti di fatto concorrenziale con analoghe attività esercitate dai privati, nonostante il proprio peculiare regime pubblicistico, l’IVA dovrà trovare applicazione se-condo il meccanismo ordinario».

38 CONTRINO, Art. 4 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, cit., p. 46.

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zione necessaria ma non sufficiente ai fini dell’integrazione del requisito soggettivo perché la soggettività passiva dell’ente pubblico è riconosciuta in ragione di un complesso di fattori volti alla verifica dell’incidenza dell’attivi-tà sul mercato. In questo senso, occorre ulteriormente precisare che la sud-detta verifica deve considerare anche gli effetti anticoncorrenziali meramen-te potenziali. La Corte di Giustizia, infatti, ha affermato che «le distorsioni di concorrenza di una certa importanza che sarebbero provocate dal non as-soggettamento degli enti di diritto pubblico operanti in quanto autorità pub-bliche devono essere valutate con riferimento all’attività in questione, in quanto tale, senza che tale valutazione abbia per oggetto un mercato locale in particolare»; in altri termini, occorre prendere in considerazione «non soltanto la concorrenza attuale, ma anche la concorrenza potenziale, purché la possibilità per un operatore privato di entrare sul mercato rilevante sia ef-fettiva, e non meramente ipotetica». In tale sede è stato altresì chiarito che l’espressione “di una certa importanza” utilizzata dalla norma europea «dev’essere intesa nel senso che le distorsioni di concorrenza attuali o po-tenziali devono essere più che trascurabili»

39. In conclusione, alla luce delle precedenti considerazioni e preso atto che

il regime speciale previsto dall’art. 13 della Direttiva del 2006 per le attività economiche svolte dagli enti pubblici trova applicazione allorché l’ente svolge attività economiche caratterizzate, sul piano strutturale, dall’utilizzo di poteri autoritativi e, sul piano degli effetti, dall’assenza di turbativa sul mer-cato concorrenziale, può ragionevolmente concludersi che la norma trovi applicazione in ipotesi marginali perché l’ente pubblico tende ormai nella maggioranza dei casi, da un lato, ad agire secondo moduli tipicamente pri-vatistici sia sotto il profilo funzionale che organizzativo e, dall’altro, a svol-gere attività che incidono sul mercato.

Alla stregua delle precedenti conclusioni ed in forza della necessità di in-terpretare l’art. 13 più volte citato in chiave “antielusiva”, cioè volto ad im-pedire al legislatore di disciplinare in termini pubblicistici un’attività che è fisiologicamente esercitabile dal privato secondo moduli organizzativi priva-

39 Corte di Giustizia, 16 settembre 2008, causa C-288/07, cit., punti 53, 65 e 79. In or-dine alla difficile individuazione del carattere di “non trascurabilità” dell’attività economica svolta (che, secondo taluni, dovrebbe essere posto in correlazione con il concetto di “abi-tualità” della stessa) ed in merito alla possibilità o meno di effettuare una lettura coordina-ta del secondo e del terzo paragrafo dell’art. 13 nel senso che la “non trascurabilità” dell’at-tività debba essere posta in relazione alla distorsione della concorrenza di “una certa im-portanza”, si vedano gli Autori citati in nota 20, nonché MONTANARI, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, cit., p. 119.

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tistici, è agevole comprendere la conseguente svalutazione dei profili che at-tengono alla natura dell’introito che, per espressa scelta del legislatore euro-peo, può essere indifferentemente configurato in termini di “diritto, canone, contributo o retribuzione”. Vale a dire che la qualificazione e/o la quantifica-zione degli introiti se, da un lato, rileva quale criterio idoneo per verificare l’economicità dell’attività resa dall’ente ai sensi dell’art. 9 della Direttiva del 2006 e, quindi, incide sul profilo soggettivo dimostrando l’eventuale assenza di economicità laddove sia sistematicamente insufficiente a remunerare l’at-tività svolta, dall’altro, non assume autonoma e decisiva rilevanza ai fini del-l’applicabilità del successivo art. 13

40. In altri termini, la corrispettività, la com-mutatività e la sinallagmaticità che caratterizzano il profilo oggettivo del tri-buto in esame sono fortemente svalutate nella prospettiva dell’art. 13

41. È evidente infatti che la natura e la qualificazione dell’introito come corri-

spettivo ovvero prestazione imposta o tributo non muta i termini della que-stione in quanto: a) laddove non sussista un mercato per l’attività economica svolta dall’ente pubblico in veste di pubblica autorità, la non imponibilità di-scende a monte dall’applicazione dell’art. 13, indipendentemente dalla natura dell’introito; b) mentre la riconosciuta rilevanza non sinallagmatica dei tributi paracommutativi

42 non può essere di ostacolo all’applicabilità dell’art. 13.

40 Ed in questa prospettiva il problema non è di poco conto. Si pensi alla vicenda relativa all’applicabilità dell’IVA alla TIA, esclusa dalla Consulta sulla base dell’art. 13 della Direttiva perché ricondotta ai “diritti, canoni, contributi” percepiti per attività che gli enti pubblici e-sercitano in quanto pubbliche autorità ed in relazione alle quali il mancato assoggettamento ad imposta non comporta una distorsione della concorrenza posto che «il servizio di smal-timento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa». Corte cost., 24 luglio 2009, n. 238 (in argomento v. altresì GUIDO, Considerazioni a margine della recente qualificazione tributaria della Tia operata dalla Corte Costituzionale, in Rass. trib., 2009, p. 1107 ss.). Sul tema si veda inoltre ALFANO, Tributi ambientali. Profili interni ed europei, Torino, 2012, p. 333, la quale evidenzia come la pretesa non imponibilità ai fini IVA della TIA per carenza del presupposto oggettivo affermata dalla Corte costituzionale sulla base del citato art. 13 della Direttiva «spinge a verificare se la mancata previsione dell’IVA sulla TIA non possa però evidenziare una possibile violazione della normativa europea in materia».

41 In questo senso sembra esprimersi anche DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommuta-tivi, cit., p. 143, il quale osserva che «ove l’ente vada a collocarsi nello stesso regime degli operatori economici privati dovrà essere assoggettato ad IVA secondo i criteri ordinari (...) a nulla rilevando a tal proposito la configurabilità di prestazioni imposte ex art. 23 Cost.».

42 V. sul tema DEL FEDERICO, I tributi paracommutativi e la teoria di Antonio Berliri della tassa come onere nell’attuale dibattito su autorità e consenso, in Riv. dir. fin., 2009, I, p. 69 ss., il quale sottolinea che lo “scambio di utilità” proprio dei tributi paracommutativi non ha alcuna rilevanza sinallagmatica in quanto la «specifica correlazione – giuridicamente rile-vante a livello di fattispecie imponibile – tra attività pubblica (o beni pubblici) e prestazio-

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6. Attività economiche svolte da privati ma in veste di “pubblica autorità”. I perduranti dubbi circa la disciplina applicabile al caso concreto

Da ultimo, ci si potrebbe domandare se sia possibile estendere le consi-derazioni formulate in ordine agli enti pubblici anche ai soggetti privati che svolgano le medesime attività ed eventualmente ricomprendere questi ulti-mi nella sfera applicativa dell’art. 13 in ragione della circostanza che, sempre più spesso, attività di interesse pubblico sono affidate a soggetti privati.

È evidente che la risposta allo stato attuale deve essere negativa, anche al-la luce di quanto rilevato in precedenza in ordine alla ritrosia del legislatore nazionale ad utilizzare, ai fini della soggettività passiva IVA, parametri diver-si dalla forma giuridica assunta dal soggetto che opera sul mercato.

Ciò non toglie che la tematica sia di grande attualità ed offra molti spunti di riflessione di modo che non appare inutile qualche cenno alle questioni di maggior rilievo e che rivelano l’inadeguatezza della normativa nazionale lad-dove persiste nell’individuare “aree” di soggettività statiche, facendo ricorso a qualificazioni predeterminate che appaiono inidonee a fotografare una realtà in continua evoluzione.

Infatti, sempre più spesso la struttura societaria è utilizzata dagli enti pubblici per svolgere attività che sono espressione di una pubblica funzio-ne

43 ovvero di un servizio pubblico 44 o meramente strumentali

45 allo svol-gimento di ulteriori attività. ne pecuniaria del contribuente» non ha nulla a che vedere con «rapporti tributari corri-spettivi o commutativi (in termini civilistici), inesistenti nella vigente legislazione». In ar-gomento si veda anche ID., Il concorso dell’utente al finanziamento dei servizi pubblici tra im-posizione tributaria e corrispettività, in Rass. trib., 2013, p. 1222 ss.

43 In tema si veda L.I. NERI, Le attività degli enti pubblici. Funzioni di pubblica autorità, in DI PIETRO (a cura di), Lo stato della fiscalità nell’Unione europea, Roma, 2003, p. 82 ss.

44 Ulteriore problema, del quale non è possibile dar conto in questa sede, attiene altresì alla corretta individuazione della nozione di servizio pubblico che, com’è noto, può essere inteso in senso squisitamente soggettivo e, quindi, incardinato sulla rilevanza della natura pubblica del soggetto che svolge l’attività, ovvero in termini oggettivi, come servizio reso nell’interesse generale della collettività. Sul punto si veda CAIA, La disciplina dei servizi pub-blici, in MAZZAROLLI-PERICU-ROMANO-ROVERSI MONACO-SCOCA (a cura di), Diritto Am-ministrativo, 2001, I, p. 945.

45 Per la distinzione tra attività qualificabili come servizio pubblico in quanto costituite da una serie di prestazioni rivolte alla collettività o comunque a terzi (rispetto agli enti co-stituenti la società) e le attività che la pubblica amministrazione “rende a sé stessa” in quanto meramente strumentali (come i servizi informatici dei propri uffici o di manutenzione dei propri immobili), si veda IBBA, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, in IBBA-MALAGUTI-MAZZONI (a cura di), Le società pubbliche, Torino, 2011, p. 1 ss.

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Per esse, da un lato, è in via di principio preclusa una verifica della sog-gettività ai fini IVA, pur potendosi in alcuni casi dubitare del carattere “eco-nomico” dell’attività in concreto svolta

46; dall’altro, è negata aprioristicamen-te l’applicabilità della speciale disciplina contenuta nell’art. 13 della Diretti-va del 2006

47. Infatti, secondo l’orientamento della Corte di Giustizia, ai fini dell’operatività di tale ultima disposizione «devono essere congiuntamente soddisfatte due condizioni, vale a dire l’esercizio di attività da parte di un en-te pubblico e l’esercizio di attività in veste di pubblica autorità»

48. In altri termini, la Corte di Giustizia ha precisato che l’art. 13 della Diret-

tiva del 2006 non è applicabile in relazione ad attività ed operazioni poste in essere da un terzo che, pur delegato dall’ente pubblico e svolgente funzioni di pubblica autorità, agisca in posizione di autonomia ed indipendenza.

46 In questo senso, basti evidenziare che l’art. 10, n. 5, del D.P.R. n. 633/1972 non con-templa più la riscossione di somme aventi carattere tributario tra le attività esenti di modo che si è posto il problema di individuare il trattamento fiscale dell’attuale disciplina norma-tiva in tema di aggio di riscossione che altrimenti risulterebbe soggetto ad IVA. Nonostan-te la veste di società per azioni di Equitalia s.p.a. alcuni Autori tuttavia dubitano che l’at-tività di riscossione dei tributi possa essere considerata economica. V. CANNIZZARO, Rinvio alla Corte di Giustizia UE sulla natura di aiuto di Stato dell’aggio di riscossione, in Corr. trib., 2013, p. 1596 ss. In tema si veda altresì M. NUZZO, Prime note sul diritto all’aggio da riscos-sione. Profili storico-ricostruttivi, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 1010, la quale esclude la con-figurabilità dell’aggio in termini di corrispettivo per l’attività resa da Equitalia s.p.a. in ra-gione della sua natura di soggetto svolgente un’attività di interesse pubblico e di ente strumentale dell’Agenzia delle Entrate. Sul punto si è comunque recentemente espressa l’Agenzia delle Entrate: infatti, con la Risoluzione 30 maggio 2014, n. 56/E, è stato con-fermato che l’aggio relativo all’attività di riscossione dei tributi deve essere assoggettato ad IVA con aliquota ordinaria.

47 Si pensi al caso delle società di gestione del servizio idrico integrato, in relazione alle quali sono stati espressi dubbi circa la qualificazione commerciale dell’attività svolta ai fini IVA in ragione delle caratteristiche del servizio oggettivamente prestato. V. FICARI, La “fi-scalità” dell’acqua tra “federalismo” fiscale e privatizzazione della disciplina e della gestione, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 114.

48 Secondo i giudici europei allorché l’attività, pur implicando l’uso di prerogative della pubblica autorità, sia affidata ad un soggetto «terzo indipendente o esercitata da enti non in-tegrati nell’organizzazione della pubblica amministrazione, sotto forma di un’attività econo-mica indipendente» l’art. 13 non può trovare applicazione. In questo senso la giurispru-denza europea ha riconosciuto piena soggettività passiva ai fini del tributo in esame ai sog-getti privati partecipati da enti locali che svolgevano attività rientranti tra i compiti istitu-zionali di questi ultimi. V. Corte di Giustizia UE, 12 giugno 2008, causa C-462/05, Commis-sione delle Comunità europee – Repubblica portoghese, punto 39 e, in senso analogo, Corte di Giustizia, 12 settembre 2000, causa C-276/97, Commissione delle Comunità europee – Re-pubblica francese, punto 45.

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La suesposta conclusione può destare alcune perplessità perché le pecu-liarità proprie dell’IVA non sembrerebbero giustificare l’automatica rilevan-za impositiva delle attività che, pur rientrando tra le prerogative degli enti pubblici, siano esercitate sotto una diversa veste giuridica.

Un caso problematico sotto questo profilo è rappresentato dalle società in house providing che rilevano sempre come soggetti passivi del tributo, no-nostante, nel settore amministrativo, il rapporto tra società ed ente pubblico sia pacificamente ricostruito in termini di “delegazione interorganica” pro-prio in ragione della carenza di autonomia imprenditoriale in capo alla so-cietà e della mancanza di qualsiasi potere decisionale distinto dall’ente

49. Sot-to il profilo amministrativo, infatti, la società “in house providing” non è un soggetto terzo rispetto all’ente, mancando di qualsiasi alterità soggettiva ed essendo espressione del principio di autonomia istituzionale o di auto-orga-nizzazione dell’ente

50. Detta considerazione dovrebbe essere dirimente al fine di escludere an-

che in ambito IVA la configurabilità di un soggetto terzo indipendente ri-spetto all’ente pubblico e dovrebbe (per lo meno) suggerire la possibilità di far ricorso ai medesimi criteri utilizzati per verificare la soggettività passiva dell’ente pubblico

51.

49 I tratti caratteristici dell’istituto dell’affidamento in house di un servizio pubblico so-no stati precisati per la prima volta dalla Corte di Giustizia nella nota sentenza Teckal (del 18 novembre 1999, causa C-107/98), ove è stato affermato che le condizioni necessarie affinché si possa derogare alla gara pubblica sono: a) l’esercizio sul soggetto affidatario da parte del committente di un “controllo analogo” a quello che esercita sui propri servizi; b) la necessità che il soggetto affidatario realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente committente che la controlla (destinazione prevalente). Non sembra invece de-terminante la partecipazione pubblica totalitaria che è stata considerata condizione neces-saria (ma non sufficiente) per aversi affidamento in house. Recentemente, infatti, tale posi-zione è stata rivista e, in una prospettiva sostanzialistica, è stato mitigato il divieto di con-taminazione dell’azionariato pubblico con quello privato. V. Corte di Giustizia, 17 luglio 2008, causa C-371/2005, Commissione delle Comunità europee – Repubblica italiana.

50 È peraltro proprio la caratteristica della sussistenza di una mera relazione interorga-nica tra l’in house e l’ente affidante che giustifica la deroga della procedura ad evidenza pub-blica e del rispetto delle norme a tutela della concorrenza.

51 La questione sembrerebbe porsi in termini diversi per le c.d. società miste, in rela-zione alle quali è stata affermata l’indiscutibile soggettività passiva secondo i criteri ordina-ri. Si veda in tema MICELI, Società miste e diritto tributario: le questioni aperte, in Rass. trib., 2006, p. 817 ss., la quale osserva che l’attività svolta da una società mista non potrebbe essere considerata come pubblica in quanto «non è svolta da un ente pubblico (ma da una socie-tà), attraverso poteri autoritativi (bensì mediante una organizzazione privatistica) e, in par-ticolare, opera in regime di concorrenza» mentre l’UE è stata sempre molto rigorosa nel riconoscere l’esclusione da IVA delle sole attività svolte in quanto pubblica autorità e quin-

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Ciò nonostante, in ambito tributario non è data alcuna rilevanza al rap-porto intersoggettivo sussistente tra l’ente e l’in house. A chiarire ogni dub-bio in proposito è intervenuta anche l’A.F. secondo la quale ai fini fiscali non potrebbe essere data rilevanza neppure alla definizione di organismo di di-ritto pubblico contenuta nell’art. 3, comma 26, del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163

52. In questo senso infatti è stato precisato che «la nozione di organismo di diritto pubblico, mutuata dalla giurisprudenza e dalla normativa in mate-ria di appalti pubblici in base alla quale le società in house potrebbero essere assimilate ad enti pubblici, non può ritenersi applicabile in materia tributa-ria»

53. Di conseguenza, la società in house è, in ambito tributario, soggetto giuridicamente distinto dall’ente pubblico che la controlla perché è costitui-ta nella forma giuridica di società di capitali e, conseguentemente, agli effetti dell’IVA, è soggetto passivo del tributo ai sensi dell’art. 4, comma 2, n. 1), del D.P.R. n. 633/1972 dal momento che «lo “status giuridico” di ente non commerciale non può essere trasferito in capo a soggetti diversi, quali le so-cietà commerciali, aventi una personalità giuridica distinta dall’ente da cui promanano». di «esercitate da organismi di diritto pubblico, nel perseguimento di uno scopo istituzionale, attraverso l’esercizio di poteri autoritativi». L’Autrice, conseguentemente, evidenzia che «non ritenere la società mista un soggetto passivo Iva è una contraddizione che rischia di determinare un danno alla concorrenza: si favorirebbe, infatti, lo svolgimento di un’attività economica all’interno della Comunità in condizioni differenti rispetto agli altri operatori economici; si pregiudicherebbero le imprese in concorrenza con la società mista; si agevo-lerebbe l’attività della società mista stessa, contraddicendo lo stesso scopo che ha portato alla sua trasformazione da azienda municipalizzata in società mista».

52 In base al quale l’«organismo di diritto pubblico» è qualsiasi organismo, anche in forma societaria: a) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; b) dotato di personalità giuridica; c) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico.

53 V. la già citata Risoluzione n. 56/E del 2014, nonché Risoluzione 9 novembre 2006, n. 129/E; Risoluzione 8 marzo 2007, n. 37/E; Risoluzione 16 aprile 2008, n. 155/E. Non solo, perché secondo l’A.F. la società in house non fruirebbe neppure delle esenzioni che pre-vedono come requisito soggettivo la qualifica di “organismo di diritto pubblico” (come ad esempio nell’ipotesi dell’art. 10, n. 27 ter del D.P.R. n. 633/1972). Detta ultima conclusione peraltro potrebbe risultare non in linea con l’orientamento giurisprudenziale europeo in te-ma di estensione delle esenzioni ai soggetti privati che esercitino attività di interesse pubbli-co. V. in questo senso Corte di Giustizia UE, 23 aprile 2009, causa C-357/07, TNT Post UK Ltd, in tema di servizi postali svolti da privati.

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Vale a dire che la società in house non gode dell’esclusione dalla soggetti-vità passiva IVA: i) sia nel caso in cui svolga un’attività qualificabile come “non economica” se effettuata da un ente pubblico; ii) sia nell’ipotesi in cui svolga attività economica che astrattamente rispetterebbe i parametri fissati dall’art. 13 della Direttiva del 2006 in quanto detta norma troverebbe appli-cazione limitatamente agli enti pubblici.

Dunque, in ultima analisi, le prestazioni rese dalla società in house nei confronti dell’ente pubblico sono sempre rilevanti ai fini IVA e ciò nonostan-te in alcuni casi il requisito dell’economicità dell’attività possa mancare in concreto.

In conclusione, quindi, nonostante il rilievo determinante assegnato dal legislatore alla veste giuridica commerciale, potrebbe essere forse più profi-cuo verificare caso per caso l’incidenza dell’attività sul mercato e quindi l’e-ventuale distorsione della concorrenza, piuttosto che applicare, secondo un sistematico automatismo, una disciplina normativa non sempre idonea a rap-presentare ed inquadrare una realtà variegata ed in continua evoluzione

54.

54 Sul tema si veda MONTANARI, op. ult. cit., p. 179. Si pensi anche alla disciplina della c.d. “impresa sociale” di cui al D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 155 che sembra porre nuovi e rile-vanti interrogativi. In argomento v. PIANTAVIGNA, Profili fiscali dell’impresa sociale: esigenze di disciplina e di sistema, in Riv. dir. fin., 2012, p. 62 ss.; ID., Un modello per la disciplina fisca-le dell’impresa sociale: low profit limited liability company, ivi, 2011, p. 592, ove si evidenzia che «l’esistenza di nuove entità socio-istituzionali originali operanti secondo principi non coerenti con la tradizione classica delle teorie economiche segna, da un lato, il fallimento delle stesse, atteso che tali soggetti seguono una logica pubblicistica (massimizzazione del flusso della spesa rispetto ai proventi) ma adottano schemi privatistici; dall’altro, testimo-nia l’incapacità dello Stato – inteso nelle sue plurime articolazioni – e delle sue strutture pubbliche a far fronte ai crescenti bisogni di una società plurale».

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Carlos María López Espadafor

ASPECTOS CRÍTICOS DE LOS IMPUESTOS LOCALES EN ESPAÑA

ASPETTI CRITICI DELLE IMPOSTE LOCALI IN SPAGNA

CRITICAL ISSUES OF LOCAL TAXES IN SPAIN

Abstract La riforma della finanza degli enti locali, volta a migliorare la finanza municipale, rappresenta da sempre una questione aperta e ben presente da tempo, ancor prima del periodo di crisi economica in cui versa il Paese. Tuttavia, allo stato at-tuale questa riforma sembra di difficile, se non impossibile, attuazione. La situa-zione muove dal difficile bilanciamento tra la necessità di una maggiore respon-sabilità e coinvolgimento degli enti locali nel prelievo fiscale e la necessità, nel medesimo tempo, di una maggiore attenzione da parte dello Stato in materia di legislazione fiscale locale. Di fronte a questo scenario, risulta di particolare inte-resse e rilievo riprendere il tema del coordinamento e delle possibili collisioni tra potere tributario statale e potere tributario municipale. Parole chiave: federalismo fiscale, collisione, comuni, imposte The reform of local entities aimed at improving municipal finances is a developing issue, even before the financial crisis. Nowadays, this reform seems very difficult to find en-forcement. The current situation is moving between the need of a higher municipal re-sponsibility in tax matters and the need of a State responsibility on local taxation. In this context, it seems interesting to rethink the problematic conflict between State and local taxing powers. Keywords: fiscal federalism, conflict, municipalities, taxes

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SOMMARIO: 1. La coordinación entre los impuestos estatales y los impuestos locales. – 2. Diversidad de per-spectivas en la consideración del Impuesto sobre Actividades Económicas. – 3. La falta de cohe-rencia en la imposición local. – 4. El alcance de la doble imposición entre los impuestos estatales sobre la renta y el Impuesto sobre Actividades Económicas hasta la reforma de éste en el año 2002. – 5. Las propuestas de actuación en la cuota de los impuestos estatales, en su integración con el Impuesto sobre Actividades Económicas. – 6. Propuesta de mejora de la situación norma-tiva actual en relación al Impuesto sobre Actividades Económicas. – 7. El actual panorama nor-mativo y jurisprudencial de la imputación de rentas inmobiliarias en el Impuesto sobre la Renta de las Personas Físicas, frente al Impuesto sobre Bienes Inmuebles. – 8. La doble imposición en-tre el gravamen de la imputación de rentas inmobiliarias y el Impuesto sobre Bienes Inmuebles. – 9. Consideraciones sobre otro tipo de rentas u otros impuestos. – 10. Reflexión final.

1. La coordinación entre los impuestos estatales y los impuestos locales

El Ordenamiento jurídico-tributario español regula la confluencia entre los impuestos estatales y los impuestos autonómicos y la de estos últimos con los impuestos locales, estableciéndose en la Ley Orgánica de Financia-ción de las Comunidades Autónomas

1 los límites a ambos supuestos y las vías de posible coordinación y compensación en relación al segundo supu-esto apuntado. Ahora bien, en los supuestos de colisión entre los impuestos estatales y los impuestos locales no encontramos normas generales que re-suelvan tales casos de colisión o de doble imposición

2, a diferencia de lo que

1 Ley Orgánica 8/1980, de 22 de septiembre (en adelante LOFCA), modificada por la Ley Orgánica 3/2009, de 18 de diciembre; en concreto, entre las cuestiones afectadas por tal modificación, se encuentra la colisión entre los impuestos autonómicos y los impuestos locales, dentro del artículo 6 de aquélla.

2 En relación al fenómeno de la doble imposición, hablaba Einaudi de “el mito de los dobles de impuesto” (“il mito dei doppi d’imposta”). Señalaba que la doble imposición, de-spués de la de los fantasmas, se presenta como «otra obsesionante aparición propia de la escena financiera. Tan obsesionante, que los más la ven donde ella en realidad no existe». Se planteaba este autor – a la luz del Ordenamiento tributario italiano en su tiempo – si sea quizás una doble imposición el estar obligados a pagar al Erario del Estado primero el im-puesto sobre los terrenos y después el impuesto complementario sobre la renta, y después incluso los gravámenes sobre los bienes de consumo adquiridos con la misma renta. A tal interrogante respondía negativamente, señalando que el legislador puede recaudar una determinada cantidad de un solo golpe o dividir su pago en varias cuotas, llamando a una impuesto sobre la renta de los terrenos, a la otra impuesto complementario sobre la renta y a la tercera, o a un conjunto de terceras, impuestos sobre los diversos bienes de consumo.

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sucede en relación a los impuestos autonómicos, creados por ley del corre-spondiente parlamento autonómico; en función del Poder Tributario de las Destacaba este autor que aquí no existe una doble imposición, sino un mero fracciona-miento entre varios títulos impositivos de una sola carga impositiva, fraccionamiento que-rido por comodidad de la Hacienda Pública y por un más fácil aliciente a pagar para el con-tribuyente. Añadía Einaudi que no es, igualmente, un caso de doble imposición «el pagar, por el mismo título, por ejemplo de posesión de terrenos, impuestos al Estado, a la provin-cia, al municipio, al consorcio de regadíos o de carreteras, a la asociación sindical, al insti-tuto de aseguración por los infortunios agrícolas etc. etc.». Este autor al respecto señalaba: «¿Es quizás un doppio proveer, con la misma renta, a los servicios recibidos del panadero, del carnicero, del sastre, del zapatero, del encargado de la casa y así indefinidamente? Por la misma razón, no es un doppio proveer a pagar, con aquella única renta, con la cual se ad-quieren a decenas o a centenares los deseados bienes privados, también los distintos servi-cios de las categorías de entes públicos, los cuales tienen poder impositivo. El Estado pro-vee a las vías de gran comunicación; la provincia a las que afectan a varios municipios, el municipio a las propias de su territorio, el consorcio a la pequeña carretera vecinal. ¿Por qué no se debería tributar a los cuatro entes?». Explicando en qué consistía verdadera y solamente la doble imposición para él, Einaudi señalaba: «El doppio no surge cuando se paga dos veces sobre la misma renta, o a dos entes distintos. Aquí, quizás, existe el troppo (demasiado). El doppio surge cuando le mort saisit le vif, cuando la forme prime le fond, cuando la lógica formal se sobrepone a la lógica sustancial, cuando el legislador se deja ar-rastrar por la lógica aparente de una definición, de un sistema, de un instrumento a imagi-nar la existencia de algo que no existe en la realidad o, si existe, tiene dimensiones menores que las imaginadas. El troppo puede ser impuesto por la necesidad y ser consciente y razo-nadamente querido. El doppio es hijo del error. También el error puede ser querido; pero es querido hasta que no se descubre que es un error». Añadía este autor que «quizás, en vez de doppio d’imposta, se podría hablar de un incongruo od illogico d’imposta; pero el uso de la palabra “doppio” es también apropiado porque ayuda a hacer ver que en la base del error está un juego visivo por el que la misma renta, la misma cosa, cambiada de aspecto, aparece ante los ojos del legislador dos o más veces, haciéndole cambiar un fantasma ju-rídico por una realidad sustancial». Señalaba Einaudi que a veces la doble imposición es «grosera» y a todos aparente, siendo otras veces sutil y estando escondida. Destacaba este autor que quizás la doble imposición más grosera es la de la reaparición de la misma renta primero bajo la especie de renta de una sociedad mercantil y después de renta de los ac-cionistas de la misma sociedad (v. EINAUDI, Miti e paradossi della giustizia tributaria2, Tori-no, 1967, pp. 38-46). La delimitación del concepto de doble imposición que hacía Einaudi no nos sirve para abarcar la complejidad del fenómeno que intentamos estudiar. Las deli-mitaciones conceptuales de este autor se movían en un ámbito más reducido de lo que presentaremos en las páginas posteriores como doble imposición. De otro lado, siguiendo a Fasolis, se puede distinguir entre doble imposición material y doble imposición formal. Señalaba este autor que la doble imposición material no se presenta como expresamente deseada en un sistema fiscal que se inspire en una justa y general repartición de las cargas tributarias, mientras que la doble imposición formal se presenta como querida y deseada por el legislador. Destacaba que la doble imposición formal no constituye propiamente algo injusto, sino más bien un medio de técnica fiscal para obtener un mayor agravio del

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Comunidades Autónomas, que le permite aprobar o crear sus propios tribu-tos, dentro de los referidos límites, estos problemas se evitan o solucionan en atención a los citados límites establecidos en la LOFCA y concretados por la jurisprudencia constitucional, y por las vías de coordinación o com-pensación con las Haciendas Locales que pueden darse.

Cuando se trata de la doble imposición entre un impuesto local y un im-puesto estatal, nos encontramos con una colisión diferente a la que se da cuando interviene un impuesto propio de una Comunidad Autónoma. Ante una colisión provocada por un impuesto autonómico, nos encontramos con un posible supuesto de doble imposición creado por leyes de dos entes pú-blicos distintos: una ley de un parlamento autonómico y otra ley estatal, ya regule esta última un impuesto propiamente estatal o un impuesto local, dado que este último, en función de la inexistencia de poder legislativo en las Corporaciones Locales y la reserva de ley en materia tributaria, debe ser creado por ley y dicha ley debe ser estatal. Además, interviniendo un impue-sto autonómico, nos encontramos con la citada LOFCA, como Ley Orgáni-ca que impide o regula dicha doble imposición.

Cuando colisionan un impuesto estatal y otro local, la situación es bien distinta. Es una ley estatal la que crea al impuesto estatal en colisión y es otra ley también estatal la que crea el impuesto local con el que colisionaría aquel otro. El Estado es el responsable de dicha doble imposición, creando los dos impuestos en conflicto, aunque uno de los mismos vaya destinado a la fi-nanciación local, por ello corresponde esencialmente al Estado dar solución a los problemas de doble imposición que el mismo crea. Ahora bien, supue-stos de doble imposición

3 entre los impuestos estatales y los impuestos lo- sujeto pasivo en función de su mayor capacidad contributiva o bien para intentar luchar contra la excesiva disparidad de las riquezas. La doble imposición formal tendría así un doble objetivo, uno propiamente financiero y de justicia tributaria y otro socio-económico (v. FASOLIS, Le doppie imposizioni, Città di Castello, 1914, pp. 15-16 y pp. 24-25).

3 Con el concepto de doble imposición queremos hacer referencia al fenómeno que se produce como consecuencia de que sobre una misma manifestación de riqueza incidan diversos impuestos en un mismo período impositivo o ante un mismo evento. Normal-mente la doctrina para referirse a este fenómeno habla simplemente, como hemos hecho, de “doble imposición” y no de plurimposición (no obstante, la utilización del término «plurimposición» la podemos encontrar en SAINZ DE BUJANDA, La Contribución Territo-rial Urbana. Trayectoria histórica y problemas actuales, Consejo General de Cámaras de la propiedad urbana de la Comunidad Valenciana, Valencia, 1987, p. 27). Pero se puede usar también el término plurimposición, ante la posibilidad de que en relación a un problema de este tipo podamos encontrarnos en algunos casos con la incidencia de más de dos impue-stos. Obviamente, esto no quita que sea totalmente correcto, a nuestro entender, hablar de

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cales se pueden dar tanto en relación a los impuestos locales de estableci- doble imposición cuando sean sólo dos los impuestos que inciden. El fenómeno que inten-tamos estudiar no se mueve sólo en sede de hecho imponible, sino que se desarrolla en ba-se a la consideración del objeto del tributo. Mientras el hecho imponible se presentaría como el acto o situación cuya realización determina el nacimiento de la obligación tributa-ria, el objeto del tributo representa la manifestación de riqueza sometida a gravamen. No-sotros, bajo la denominación de doble imposición, incluimos la incidencia de dos impue-stos sobre una misma manifestación de riqueza o, en su caso, sobre manifestaciones de ri-queza íntimamente vinculadas, en cuanto relativas a una misma actividad o situación económica. Si al dar contenido al concepto de doble imposición fuésemos excesivamente estrictos, restringiendo éste sólo a los casos en que dos impuestos actuasen sobre un mi-smo hecho imponible, o sea, que la realización de un mismo hecho imponible diese lugar a obligaciones tributarias por dos impuestos distintos, desembocaríamos en un concepto inútil en el análisis científico de la realidad jurídico-tributaria. Al actuar de una forma tan estricta, nos veríamos obligados a ceñirnos a una disección precisa del hecho imponible en todos sus componentes. Dentro del hecho imponible se puede distinguir entre un elemen-to objetivo y un elemento subjetivo. Y dentro del elemento objetivo habría que distinguir entre un aspecto material, un aspecto espacial, un aspecto temporal y un aspecto cuantita-tivo. Si para estar ante un caso de doble imposición exigiésemos la presencia de dos im-puestos con un mismo hecho imponible, necesitaríamos estar ante dos impuestos en los que coincidan todos los elementos y aspectos mencionados. Y la existencia de dos impue-stos con todos esos elementos y aspectos de sus hechos imponibles coincidentes, vendría a suponer la existencia de dos impuestos en la práctica idénticos. Si el sujeto activo y el suje-to pasivo fuesen los mismos, si la situación que determina el nacimiento de la obligación tributaria es la misma, si el ámbito de aplicación territorial es el mismo, si el devengo o el período impositivo se dan de la misma forma, si el hecho imponible se mide cuantitativa-mente de la misma manera, o sea, si la base se calcula de la misma forma, en definitiva, si todos estos elementos y aspectos son lo mismo en dos impuestos, esos dos impuestos, aunque tuviesen una denominación distinta, en la práctica serían lo mismo. Y no tiene sen-tido que en un ordenamiento tributario existan dos impuestos iguales. Sería algo inútil, pues para conseguir el mismo resultado bastaría con aumentar el tipo de gravamen en uno de ellos, ahorrándose así el coste de recaudación del otro. Algo debe cambiar siempre: por ejemplo el sujeto activo, la forma de cuantificar la base o su ámbito de aplicación territo-rial, siendo, por lo menos, el de uno más amplio que el del otro, comprendiendo aquél a éste. De no ser así, la existencia de dos impuestos con hechos imponibles idénticos impli-caría la existencia de dos impuestos en la práctica iguales, algo ilógico y que no encontra-mos en nuestro actual sistema tributario. Cosa distinta es que, sin ser demasiado estrictos, buscando agilidad y facilidad de comprensión en la exposición, digamos que dos impue-stos recaen sobre un mismo hecho imponible, porque simplemente coincidan, al menos parcialmente, los aspectos materiales del elemento objetivo de los hechos imponibles de los dos impuestos, resaltando la existencia de un caso de doble imposición, aunque no coincidan los restantes elementos y aspectos de sus hechos imponibles. Esto último sí lo vemos viable en análisis doctrinales de la realidad tributaria. Pero aun así, desde esta últi-ma perspectiva más amplia, si los aspectos materiales del elemento objetivo de los hechos imponibles de dos impuestos son similares, es muy probable que el objeto de gravamen de ambos impuestos sea casi el mismo, lo cual volvería a reconducir el tema de la doble impo-sición desde el ámbito del hecho imponible al del objeto de gravamen.

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miento obligatorio 4, como en relación a los de establecimiento facultativo

5. Lo que sucede es que en relación a estos últimos se podría defender cierta responsabilidad de la Corporación Local en los supuestos de colisión pro-vocados por los mismos, porque tratándose de impuestos de establecimien-to facultativo cada municipio puede decidir si exigirlo o no en su término municipal, a diferencia de los de establecimiento obligatorio, que debe exi-girlos necesariamente. Por ello, al describir ciertos supuestos de doble im-posición que dejen en evidencia el problema expuesto, vamos a centrarnos en dos supuestos relativos a impuestos de exigencia obligatoria, como son los de la colisión del Impuesto sobre Bienes Inmuebles y el Impuesto sobre Actividades Económicas con la imposición estatal sobre la renta. Todo esto sin desconocer que también existen evidentes supuestos de colisión entre los impuestos locales de exigencia facultativa y los impuestos locales, como es el ya tradicional entre la imposición estatal sobre la renta y el Impuesto muni-cipal sobre el Incremento de Valor de los Terrenos de Naturaleza Urbana, que se agravó con la supresión de la antigua deducción en cuota por tal con-cepto, con el paso de la Ley 18/1991 a la Ley 40/1998, antiguas leyes regu-ladoras del Impuesto sobre la Renta de las Personas Físicas

6, supresión que se mantiene en la Ley 35/2006, de 28 de noviembre, actual Ley reguladora de este Impuesto.

De todos modos, como hemos apuntado, el Impuesto sobre el Incre-mento de Valor de los Terrenos de Naturaleza Urbana es un impuesto de establecimiento facultativo por los Ayuntamientos

7, lo cual aporta corre-sponsabilidad en tales supuestos de colisión a la Corporación Local, por lo que preferimos centrarnos en los apuntados supuestos de doble imposición provocada por el Impuesto sobre Bienes Inmuebles

8 y el Impuesto sobre Actividades Económicas

9, donde la exclusividad de la responsabilidad esta-tal es más evidente, dado que se trata, como hemos visto, de impuestos de exigencia obligatoria en todos los municipios. Así, el problema analizado, en

4 Impuesto sobre Actividades Económicas, Impuesto sobre Bienes Inmuebles e Im-puesto sobre Vehículos de Tracción Mecánica.

5 Impuesto sobre Construcciones, Instalaciones y Obras, Impuesto sobre el Incremen-to de Valor de los Terrenos de Naturaleza Urbana e Impuesto sobre Gastos Suntuarios en la modalidad de aprovechamientos privados de cotos de caza y pesca.

6 En adelante IRPF. 7 Aunque de amplísima y tradicional aplicación en la inmensa mayoría de los municipios. 8 En adelante IBI. 9 En adelante IAE.

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cuanto de responsabilidad esencialmente estatal, aparece residenciado en los impuestos locales de exigencia obligatoria

10, los cuales van a marcar nuestro análisis, dado que en los impuestos locales de establecimiento facultativo pasa a primer plano la responsabilidad de la Corporación Local que lo exija.

Pues bien, en este tema que vamos a analizar, la solución sólo puede estar en su misma causa: la ley estatal. Esto viene a reafirmarse con la Sentencia del Tribunal Constitucional 31/2010, de 28 de junio, sobre la Ley Orgánica 6/2006, de 19 de julio, de reforma del Estatuto de Autonomía de Cataluña. En el apartado 2 del artículo 218 de esta Ley se dispuso originariamente que «La Generalitat tiene competencia, en el marco establecido por la Consti-tución y la normativa del Estado, en materia de financiación local. Esta competencia puede incluir la capacidad legislativa para establecer y regular los tributos propios de los gobiernos locales e incluye la capacidad para fijar los criterios de distribución de las participaciones a cargo del presupuesto de la Generalitat». En el fundamento jurídico 140 de la citada Sentencia, el Tribunal Constitucional ha declarado que «según resulta de los arts. 31.3 y 133.1 y 2 CE, la creación de los tributos locales ha de operarse a través del legislador estatal, “cuya intervención reclaman los apartados 1 y 2 del artí-culo 133 de la Constitución”, potestad normativa que tiene su anclaje con-stitucional «en la competencia exclusiva sobre Hacienda General (art. 149.1.14 CE), debiendo entenderse vedada, por ello, la intervención de las Comunidades Autónomas en este concreto ámbito normativo» (STC 233/1999, de 16 de diciembre, FJ 22). Se trata, en suma, de una potestad exclusiva y excluyente del Estado que no permite intervención autonómica en la creación y regulación de los tributos propios de las entidades locales». De esta forma, en el último párrafo del referido fundamento jurídico se con-

10 Dentro de los impuestos locales de exigencia obligatoria por los municipios se en-cuentra también, como hemos visto, el Impuesto sobre Vehículos de Tracción Mecánica, pero actualmente, dado que este Impuesto local grava la titularidad de los referidos vehí-culos, no encontramos un claro supuesto de doble imposición entre el mismo y los impue-stos estatales. Aunque de titularidad estatal, si bien cedido a las Comunidades Autónomas, el Impuesto Especial sobre Determinados Medios de Transporte recae sobre el consumo de éstos, mientras que el apuntado Impuesto local toma en consideración su titularidad, es decir, los grava en cuanto elementos patrimoniales. De esta forma, estaríamos ante dos ín-dices distintos de capacidad económica, consumo (en el referido Impuesto estatal) y pa-trimonio (en el referido Impuesto local), con lo que no podríamos hablar de doble impo-sición en sentido estricto en este supuesto, si bien es obvio que ambos impuestos afectan a los vehículos, pero desde perspectivas muy distintas. Por ello, dentro de los impuestos de exigencia obligatoria por los municipios nos debemos centrar en la problemática ocasio-nada por el IAE y por el IBI.

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cluye que «En consecuencia, ha de declararse inconstitucional y nulo el in-ciso “puede incluir la capacidad legislativa para establecer y regular los tri-butos propios de los gobiernos locales e” del art. 218.2 EAC», tal y como se refleja obviamente también en el fallo de la mencionada Sentencia.

2. Diversidad de perspectivas en la consideración del Impuesto sobre Activi-dades Económicas

La reforma del IAE, dentro de las medidas introducidas por la Ley 51/2002, de 27 de diciembre, que reformó la Ley 39/1988, de 28 de di-ciembre, Reguladora de las Haciendas Locales, puede ser analizada desde distintas perspectivas. También desde distintas perspectivas se realizaban numerosas críticas a este Impuesto local. Pues bien, existe una de esas per-spectivas desde la que se realizaba una crítica del IAE y desde la que puede realizarse también un análisis de la reforma que operó en el mismo la citada Ley 51/2002. Se trata de la doble imposición entre el IAE y los impuestos estatales sobre la renta. Recordemos que actualmente el IAE, como los demás impuestos locales, se regula en similar sentido en el Texto Refundido de la Ley Reguladora de las Haciendas Locales

11, aprobado por el Real De-creto Legislativo 2/2004, de 5 de marzo.

La referida doble imposición era criticable en su antiguo alcance y toda-vía hoy en su alcance actual se deben realizar ciertas críticas en relación a la misma. Con la reforma realizada por la Ley 51/2002 se redujo el ámbito de tal doble imposición, al dejarse exenta del mismo la actividad de ciertos su-jetos. En relación a éstos dejó de existir tal doble imposición, que sí persistió en relación al resto. En qué medida se daba esa doble imposición, el alcance con el que quedó después de la citada reforma y los mecanismos que se po-drían haber utilizado para eliminarla o los que se deberían utilizar para eli-minar tal doble imposición en los supuestos en que aún existe, son cuestio-nes que centrarán nuestra atención. Para ello hemos partido de una delimi-tación general del fenómeno de la doble imposición, tal y como nosotros la entendemos, para después trasladarla a la problemática del IAE.

Además, uno de los impuestos más criticados en nuestro Sistema tributa-rio ha sido y es el IAE. Se ha criticado desde su forma de cuantificación, po-co ajustada a la manifestación de riqueza gravada, hasta la propia existencia

11 En adelante TRLRHL.

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en sí de este Impuesto local. Hay que destacar, además, que la integración del mismo con el resto de figuras impositivas de nuestro Ordenamiento ju-rídico nunca ha sido la más acertada.

Con la reforma de las Haciendas Locales del año 2002, se quiso liberar del IAE a la inmensa mayoría de los sujetos que venían tributando por el mismo, especialmente a los profesionales, dándose también la exención en relación a las pequeñas empresas.

A nadie le gusta pagar un impuesto, por mucho que se intente difundir la idea de solidaridad entre todos en el sostenimiento de los gastos públicos a través de los tributos. Pero si se quiere liberar a determinados sujetos de un impuesto, el dejarlos exentos del mismo no sería la única forma de hacerlo. También se puede conseguir un efecto económico similar concediéndoles un crédito de impuesto por su pago, de forma que lo pagado por un impue-sto se pudiese deducir en la cuota de otro.

Esto es, a nuestro entender, lo que se debería haber hecho con el IAE. En vez de haber dejado a ciertos sujetos exentos del mismo, se debería haber permitido una deducción de su cuota en la cuota de los impuestos estatales sobre la renta, ya se trate del IRPF, del Impuesto sobre Sociedades o del Impuesto sobre la Renta de No Residentes, en función del tipo de sujeto del que se hubiese tratado. Y entendemos que tal medida se tendría que haber adoptado no sólo en relación a los sujetos que se han dejado exentos del IAE, sino en relación a todos los sujetos pasivos de éste. Lo entendemos así por la propia racionalidad que debería existir en la integración de unas figu-ras tributarias con otras dentro de nuestro Sistema tributario si verdadera-mente quiere funcionar como tal, es decir, como un verdadero Sistema. Ade-más de ello, también debemos tener en cuenta lo criticable que resulta la manera en que se ha establecido el límite para determinar las entidades que quedan o no exentas del mismo y sobre la que volveremos más adelante.

Como hemos apuntado, son muchas las críticas que se han venido ha-ciendo al IAE y sin perjuicio de algún otro retoque del Impuesto en deter-minadas cuestiones, el peso central de la reforma del mismo consistió en de-jar a determinados sujetos exentos de éste. Con ello se limitó considerable-mente la autonomía financiera de las Corporaciones Locales, pues aunque se haya pretendido defender que con la reforma citada se intentaba aumen-tar tal autonomía, en relación al IAE no se dio tal aumento, al privar a aquél-las de un importante recurso en relación a los sujetos que se dejaron exentos del mismo. Bien es cierto que se estableció la compensación a las citadas Corporaciones con otro tipo de ingresos, pero con éstos la situación no es la misma que permitía la aplicación del referido Impuesto. Porque se conce-

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diese algo más de autonomía financiera local en otros ámbitos, como pueda ser puntualmente en relación a ciertas cuestiones en materia de fiscalidad inmobiliaria, la medida adoptada en relación al IAE supuso una clara merma de tal autonomía, al actuar sobre una de las que eran las figuras centrales de la disciplina tributaria local.

Se podría haber respetado tal autonomía, no concediendo la exención, pero sí la propuesta deducción de la cuota del IAE en la cuota del corre-spondiente impuesto estatal sobre la renta. Con ello, los empresarios y pro-fesionales no tendrían que cargar tampoco con el peso económico del IAE y las Corporaciones Locales habrían afianzado un importante eje de su auto-nomía financiera.

Por todo ello, no nos podemos resistir a la crítica del IAE. Se podría ha-ber conseguido el mismo efecto sobre la situación de los empresarios y pro-fesionales de otra forma, la citada, sin haber perjudicado a las Corporacio-nes Locales. Si el Estado verdaderamente quiere cargar con el peso econó-mico de la supresión del IAE para un importantísimo número de sujetos, podría cargar con el mismo asumiendo la deducción en la cuota de los im-puestos estatales propuesta, en vez de hacerlo compensando a las Corpora-ciones Locales con otros ingresos. Lo que sucede es que con la vía adoptada por el Estado, la de la exención y compensación con otro tipo de ingresos, se minaron de manera muy importante las posibilidades de desarrollo de la autonomía financiera local de cara al futuro.

Al mejorar la fiscalidad de los empresarios y profesionales con la referida exención en el IAE, no se debe perder de vista que hay un ámbito que so-porta una presión fiscal real en la práctica mucho más evidente y menos elu-dible, como es el ámbito de las rentas del trabajo. Habría que preguntarse hasta qué punto se ha mejorado la fiscalidad de estas últimas en comparación con la mejora que se produjo de la situación de empresarios y profesionales con la exención en el IAE. Es la eterna cuestión sin resolver.

Eran muchos los autores que se aplicaban en la crítica de la regulación del IAE en nuestra doctrina tributaria y, por todo lo expuesto, después de la reforma de este Impuesto, siguieron siendo muchos los que lo han seguido criticando. Nosotros nos vamos a centrar en tal crítica desde la perspectiva de la doble imposición con la imposición estatal sobre la renta. Para ello parti-mos, como hemos apuntado, de una delimitación general del fenómeno de la doble imposición y, en función de ello, aplicaremos tal delimitación a la confluencia del IAE con los impuestos estatales sobre la renta y analizare-mos cómo debería haberse articulado tal confluencia.

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3. La falta de coherencia en la imposición local

Debemos partir de que si quisiéramos encontrar un campo impositivo donde sus figuras tributarias son especialmente criticadas, no tenemos más remedio que detenernos en la esfera tributaria local. Como hemos apunta-do, dada la falta de capacidad legislativa de las Corporaciones Locales y siendo necesaria una ley para crear un tributo, dada la existencia del princi-pio de legalidad y, su especificación, la reserva de ley en materia tributaria

12, ha debido ser una ley estatal la que dotase de impuestos a las citadas Corpo-raciones. El Estado se encontró, se encuentra y se encontrará con que las manifestaciones de riqueza son limitadas y al final convergen en una riqueza única. Por mucho que estire su imaginación y por mucho que haga estirarla a las Comunidades Autónomas, al final siempre es necesario volver sobre unas mismas perspectivas de contemplación de la riqueza. Por ello, siempre que se va a pagar un impuesto local, éste, cualquiera que sea, nos recuerda algún otro concepto impositivo al que se debe hacer frente en relación al ac-to o situación que lleva al pago del correspondiente impuesto.

Pero además, no se sabe si en un intento de simplificar las cosas para las Corporaciones Locales en la aplicación de sus tributos o, simplemente, para enmascarar esa redundancia impositiva que hace volver sobre el gravamen de unas mismas fuentes de riqueza, lo cierto es que las figuras tributarias de que se termina dotando a los municipios suelen hacer agua por muchos fren-tes, siendo figuras de fácil crítica. De un lado, por su superposición con im-puestos estatales y, de otro, por su estructura y configuración, que no suele ser la más acorde con un Sistema tributario moderno y con los principios constitucionales de justicia tributaria.

Para dotar a las Corporaciones Locales o a cualquier ente “inferior” al Estado, como, por ejemplo, las mismas Comunidades Autónomas, de un pro-tagonismo tributario digno y de unos impuestos coherentes en sí mismos y con el Sistema tributario, al final tiene que terminar dándose una doble im-posición, por mucho que ésta se limite, se enmascare o se le quiera dar otro nombre.

No es necesariamente ilegítimo o criticable por sí mismo el hecho de que exista una doble imposición o incluso una plurimposición, lo criticable es que esa imposición sea excesiva. En un hipotético caso de laboratorio, no habría inconveniente en que, en otro sistema distinto del vigente, existiesen tres

12 V. los artículos 31.3 y 133 de la Constitución.

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impuestos que recayesen, aunque desde distintas perspectivas, sobre una misma manifestación de capacidad económica, uno en favor del Estado, otro en favor de las Comunidades Autónomas y otro en favor de las Corporacio-nes Locales, cada uno con un tipo de gravamen del diez por ciento. Esto se-ría, en principio, en el plano de la carga fiscal que soportaría el contribuyen-te, similar a si existiese sobre tal manifestación de capacidad económica un solo impuesto de titularidad estatal con un tipo de gravamen del treinta por ciento y que luego el Estado transfiriese una tercera parte de lo recaudado a las Comunidades Autónomas y otra tercera parte a las Corporaciones Loca-les. Lo que no se podrá hacer nunca es que en cada uno de los tres niveles impositivos mencionados, estatal, autonómico y local, existiese un impuesto distinto sobre esa manifestación de capacidad económica teniendo cada uno un tipo de gravamen del 30 por ciento, porque entonces ya se habría llegado a una confiscatoriedad.

El distribuir una materia impositiva entre los distintos niveles de entes territoriales, cada uno titular de su propio impuesto, acarrea un mayor coste global de gestión y recaudación, y un posible mayor coste indirecto y esfuer-zo de declaración y autoliquidación para el contribuyente. Pero, frente a este inconveniente, tiene la ventaja de que quizás pueda ser más respetuoso con la autonomía financiera de cada uno de esos entes, que es lo que verda-deramente garantiza la efectividad práctica de su autonomía política, pues de nada sirve el poder decidir en qué actuar, conllevando la actuación un ga-sto, si no existe una autonomía para procurarse los ingresos necesarios para garantizar ese gasto. Además, la fragmentación de las materias impositivas entre los distintos niveles de entes, más allá de la intensidad con que la cita-da autonomía se ejerza, les hace empezar a sentir a los mismos tal autono-mía, lo que luego les impulsa a progresar en el desarrollo de la misma.

Quizás en la idea, no por usual menos descartable, de que cualquiera de los dos extremos en las opciones anteriores puede evidenciar sus problemas o defectos, la búsqueda de un cierto equilibrio sin negar las dos posiciones pueda en algún sentido reducirlos o mitigarlos.

Por todo ello, a las cosas hay que llamarlas por su nombre y cuando exi-ste una situación de doble imposición o plurimposición se debe reconocer como tal, no enmascarándola de forma que se llegue a construcciones im-positivas ilógicas. No ajustar una figura tributaria a lo que realmente quiere gravar desemboca en impuestos con elementos faltos de sentido. Y cuando se empiezan a gravar manifestaciones de riqueza no reales o efectivas, sino potenciales o presuntas, y se desvincula la forma de cuantificación del impue-sto de lo que realmente se quiere gravar, al final se desemboca en figuras tri-

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butarias que ni se sostienen en sí mismas, ni encajan bien en un Sistema im-positivo en cuanto tal, es decir, en cuanto Sistema. Pues bien, de algo de to-do esto han pecado y aún siguen pecando los impuestos locales.

Cuando se hace referencia a la doble imposición diciendo de ésta que su-pone la coincidencia de dos impuestos en un mismo hecho imponible se está circunscribiendo este fenómeno a una idea falta de lógica y rigor jurídico y se está contribuyendo a enmascarar el peso o trascendencia real de las coli-siones de impuestos.

En la línea de lo que hemos expuesto supra, no tiene sentido exigir, para poder afirmar que se da una doble imposición entre dos impuestos, que ten-gan el mismo hecho imponible, pues esto es de lógica imposible o incon-gruente. Si dos impuestos coincidiesen en todos los elementos y aspectos de su hecho imponible, es decir, si el aspecto material, el aspecto espacial, el a-specto temporal y el aspecto cuantitativo del elemento objetivo de su hecho imponible y, al mismo tiempo, el elemento subjetivo del mismo son iguales en los dos impuestos, no estaríamos en realidad ante dos impuestos distin-tos, aunque tuviesen distinta denominación, sino que estaríamos en el fon-do ante un mismo impuesto. No tendría sentido que existiesen dos impue-stos en los que los aspectos y elementos del hecho imponible fuesen total-mente idénticos, pues, de ser así tendríamos dos impuestos iguales, algo iló-gico en un Sistema tributario y, por tanto, poco imaginable. Ya hemos apun-tado que siempre debe cambiar algo, aunque sea su ámbito de aplicación ter-ritorial, o la cualidad de alguno de los sujetos que intervienen en la relación jurídica tributaria, ya sea en su posición activa o en su posición pasiva, o algún otro punto de alguno de esos elementos y aspectos.

Bien es cierto, como hemos dicho, que a veces se habla de que dos impue-stos tienen el mismo hecho imponible, pero haciéndolo de una manera in-formal, buscando economía de lenguaje al transmitir la idea y pensando sólo más bien en que dos impuestos en lo que están coincidiendo es en el aspec-to material del elemento objetivo de sus hechos imponibles.

Pues bien, existe esa utilización de tal referencia, hecha cuando uno no va buscando precisamente la rigurosidad jurídica, sino la rapidez en el ha-blar, aun sabiendo que lo hace más bien por los derroteros de lo común y no de lo estrictamente jurídico. Pero fuera de tales casos, hablar de doble im-posición como sinónimo de impuestos con hechos imponibles iguales, ade-más de estar falto de rigor, no ayuda a descubrir la verdadera realidad de los solapamientos entre impuestos.

Por todo ello, entendemos más correcto aplicar el calificativo de doble im-posición a aquellos supuestos en que dos impuestos recaen sobre una misma

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manifestación de riqueza, porque sus hechos imponibles se han configurado sobre un mismo objeto de gravamen, eso sí, contemplándolo desde dos per-spectivas distintas. Sobre un mismo objeto de gravamen se pueden idear va-rios impuestos, pero a partir de hechos imponibles distintos, es decir, sobre un mismo objeto de gravamen se podrían idear impuestos distintos. Piénse-se en la prohibición que se establece en el citado artículo 6 de la LOFCA, que lo que está prohibiendo es que una Comunidad Autónoma cree un im-puesto en el que el aspecto material del elemento objetivo del hecho impo-nible sea idéntico al que exista en un impuesto estatal o local. No interpre-tarlo así carecería de sentido y cuando el Tribunal Constitucional, en base a la originaria redacción de la LOFCA, ha señalado que un impuesto au-tonómico no podrá tener el mismo hecho imponible que ya tenga un im-puesto estatal, lo que más claramente debería haber dicho es que un impue-sto autonómico no puede coincidir con uno estatal en el aspecto material del elemento objetivo de su hecho imponible; a partir de la citada reforma de la LOFCA tal limitación relativa al hecho imponible se debe hacer exten-siva también a la limitación de la colisión de los impuestos autonómicos con los locales.

Pero lo que sí está claro y reconocido por el Tribunal Constitucional 13

que se puede dar es que una Comunidad Autónoma establezca un impuesto sobre un objeto de gravamen ya sometido a un impuesto estatal, es decir, que sobre un mismo objeto de gravamen se configuren dos hechos imponibles di-stintos: uno en un impuesto estatal y otro en un impuesto autonómico. Al-go lógico si se piensa en lo limitadas que son las manifestaciones de riqueza.

Bástenos esto simplemente para reconducirnos al concepto de doble imposición como incidencia de dos impuestos sobre un mismo objeto de gravamen, entendiendo éste en el sentido de manifestación de riqueza so-metida a imposición. Y ello con independencia de que tal doble imposición la consideremos como aceptable o rechazable, como legítima o ilegítima, como confiscatoria o no, en definitiva, como justa o injusta o, más aun, co-mo constitucional o inconstitucional. Esto nos lo dará un análisis ulterior. Y, así, podrán existir supuestos de doble imposición justificables y supuestos de doble imposición criticables.

Pues bien, esa idea de doble imposición como incidencia de dos impue-stos sobre una misma manifestación de riqueza gravable es la que nos puede llevar a contemplar la verdadera dimensión de la ubicación que han venido teniendo los impuestos locales dentro de nuestro Sistema impositivo.

13 En las Sentencias ya citadas.

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4. El alcance de la doble imposición entre los impuestos estatales sobre la ren-ta y el Impuesto sobre Actividades Económicas hasta la reforma de éste en el año 2002

Fijándonos en la situación existente hasta el 31 de diciembre de 2002, o sea, hasta la referida reforma de la Ley de Haciendas Locales, se podía reco-nocer, en el sentido expuesto, una doble imposición del IAE con el IRPF, con el Impuesto sobre Sociedades y con el Impuesto sobre la Renta de No Resi-dentes, dependiendo del tipo de sujeto que quedase sometido al mismo.

El hecho imponible del IAE se definía y se describe a partir del mero ejercicio de una actividad empresarial o profesional, o, si se quiere de otra manera más rigurosa, como apuntábamos, el aspecto material del elemento objetivo del hecho imponible consiste en el mero ejercicio de una actividad empresarial o profesional. Frente a ello, en los tres impuestos estatales cita-dos, el aspecto material del elemento objetivo del hecho imponible está re-presentado por la obtención de renta. De esta forma, tal aspecto del hecho imponible varía del IAE a esos impuestos estatales sobre la renta.

Esa diferencia con respecto al hecho imponible no se daba o no se da sin embargo con respecto al objeto de gravamen, pues aunque en relación al IRPF, al Impuesto sobre Sociedades y al Impuesto sobre la Renta de No Re-sidentes se viene hablando claramente de la renta como objeto de gravamen, también con respecto al IAE hay que hablar de la renta como su verdadero objeto de gravamen, aunque en este caso se haya silenciado por el legislador tal evidencia, quizás intentando enmascarar su carácter presunto o poten-cial, cuestión que ha estado y sigue estando abierta a todo tipo de críticas y tachas de inconstitucionalidad.

El ejercicio de una actividad empresarial o profesional en sí mismo no es una manifestación de capacidad económica real; lo que puede serlo es la renta obtenida como consecuencia de tal ejercicio. Éste va dirigido a la ob-tención de la misma. Las manifestaciones de capacidad económica, como hemos dicho, son limitadas y la manifestación de capacidad económica que se podría reconocer en relación al IAE sería la renta derivada del ejercicio de las citadas actividades. Al mismo tiempo, tales rentas empresariales o profe-sionales, rendimientos de actividades económicas en la actual terminología del IRPF, se gravan en este Impuesto, en el Impuesto sobre Sociedades o en el Impuesto sobre la Renta de No Residentes, dependiendo del tipo de suje-to que obtiene la renta. Se trata, como hemos apuntado y sabemos, de tres impuestos de titularidad estatal, sin perjuicio de la cesión parcial del IRPF a las Comunidades Autónomas.

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De la doble imposición de que estamos hablando aquí es sólo de la doble imposición interna y no de la internacional. Como hemos apuntado, se da doble imposición interna cuando se trata de la colisión de impuestos de un mismo ente o de varios entes integrados en un mismo Estado. También ya hemos indicado que se da doble imposición internacional cuando se trata de la colisión de impuestos de Estados distintos o de la colisión de un im-puesto de un Estado con un impuesto de una organización internacional. Cuando hablamos de impuestos de un Estado lo hacemos en un sentido amplio, refiriéndonos a los impuestos de los distintos entes integrados en un territorio estatal; pero hemos hablado de Estado porque frente a tales entes sólo sería aquél el que tiene personalidad jurídica de Derecho internacional, como sucede también con las organizaciones internacionales.

A la vista de todo ello, se podría extender más allá de sus tradicionales límites el análisis de la doble imposición ocasionada por el IAE entrando en el ámbito de la doble imposición internacional, si analizamos su confluencia con un impuesto sobre la renta pagado en un país extranjero: sería el caso, por ejemplo, de una sociedad no residente que desarrollase una actividad empresarial en España y que aquí, junto al Impuesto sobre la Renta de No Residentes, tuviese que pagar también el IAE. Así, la presión fiscal global soportada sobre su renta en España no viene determinada sólo por el pago de aquel Impuesto estatal, sino también por el de este Impuesto local. De ahí que en el fondo también existiría una doble imposición entre el IAE y el impuesto sobre la renta pagado en el Estado de residencia de la entidad. Pe-ro el análisis de este punto se sale de las pretensiones de este trabajo. Además, se aparta de la idea que queremos poner de manifiesto, con lo que abando-namos aquí esa perspectiva de la doble imposición internacional, que en sus esquemas clásicos, en relación a ese ejemplo, se analizaría esencialmente en función de la confluencia del Impuesto sobre la Renta de No Residentes con el impuesto que grave su renta en el Estado de residencia de la entidad.

Nos vamos a mover, pues, en el ámbito de la doble imposición interna. En concreto, en el supuesto que analizamos, de una doble imposición entre impuestos de titularidad estatal y un impuesto local, aunque creado por el Estado y de aplicación obligatoria en los municipios. Si el IAE se regula por una ley estatal y es el Estado el único que puede regular sus elementos esen-ciales

14, correspondería al mismo arbitrar las medidas necesarias para ate-

14 Pudiendo regular las Corporaciones Locales a través de sus Ordenanzas sólo aquel-los aspectos que la Ley – estatal (TRLRHL) – deja a las mismas, siempre dentro de los lí-mites fijados por aquélla.

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nuar o eliminar la doble imposición entre este Impuesto local y el corre-spondiente impuesto estatal. Es más, le toca al Estado la determinación de la integración entre el IAE y los impuestos estatales sobre la renta, para que no se trate de un mero solapamiento de impuestos, sino que los mismos actúen como piezas de un Sistema impositivo, donde una no pierde la per-spectiva o referencia de la otra.

Hasta la reforma del IAE, como hemos visto, éste se solapaba con el IRPF, con el Impuesto sobre Sociedades y, en su caso, con el Impuesto sobre la Renta de No Residentes. No se articulaban medidas para integrar de una forma más o menos completa aquel Impuesto local con estos impuestos esta-tales. Lo único que sucedía, es que, dentro del mecanismo de aplicación de los impuestos estatales sobre la renta, el IAE se deducía al calcular la base como un gasto más, dentro de la contabilidad del empresario o profesional, siempre y cuando se tratase de supuestos en que resultase deducible tal ga-sto. Pero esto no era suficiente para eliminar la doble imposición entre el analizado Impuesto local y los impuestos estatales.

Para eliminar los efectos económicos de tal doble imposición hubiese si-do necesario que la deducción se hubiese practicado en la cuota de los im-puestos estatales y no en base. Desde la doctrina y desde algún partido polí-tico

15 se proponía tal deducción en cuota para la articulación del IAE con los impuestos estatales.

El legislador no optó por esta solución, sino por dejar exentos del IAE a algunos de los sujetos que antes tributaban en éste, especialmente a las per-sonas físicas, aunque también a ciertas entidades en función de su cifra de negocios. No ha sido propiamente una integración de figuras impositivas en el sentido en que propugnaba la doctrina, sino simplemente una elimina-ción de la doble imposición para un sector de sujetos, al no hacerles tributar ya por uno de los impuestos de los dos a que antes estaban sometidos, es decir, al no hacerles tributar ya en este Impuesto local. Pero para el resto de sujetos que continúan tributando por el IAE se sigue dando una doble im-posición de éste con el Impuesto sobre Sociedades o con el Impuesto sobre la Renta de No Residentes, dependiendo de la residencia de la entidad. No obstante, como veremos más adelante, se puede seguir dando cierta doble imposición del IAE con el IRPF cuando se trate de comunidades de bienes

15 Véase, en este sentido, la «Proposición de Ley relativa a la deducción de las cuotas pagadas por el Impuesto sobre Actividades Económicas» (122/000127), presentada por el Grupo Parlamentario Socialista el 9 de mayo de 2001 (publicada en el Boletín Oficial de las Cortes Generales de 21 de mayo de 2001), pero que fue rechazada.

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que superen la referida cifra de negocios, en el caso de que alguno o algunos de sus comuneros o partícipes sean personas físicas residentes en territorio español.

En relación a las entidades que siguen estando sometidas al IAE, dado que no se les ha querido excluir de este Impuesto, al menos, para eliminar su doble imposición con el correspondiente impuesto estatal, se debería haber permitido una deducción por aquél en la cuota de éste.

5. Las propuestas de actuación en la cuota de los impuestos estatales, en su integración con el Impuesto sobre Actividades Económicas

El IAE vino a sustituir a las antiguas Licencias Fiscales. Este Impuesto municipal

16 aparece regulado en los artículos 78 a 91 del TRLRHL. En el apartado 1 de ese artículo 78 se dispone que «el Impuesto sobre Activida-des Económicas es un tributo directo de carácter real, cuyo hecho impo-nible está constituido por el mero ejercicio en territorio nacional, de activi-dades empresariales, profesionales o artísticas, se ejerzan o no en local de-terminado y se hallen o no especificadas en las tarifas del impuesto».

En este precepto se presenta como hecho imponible del IAE el «mero ejercicio» de las mencionadas actividades empresariales, profesionales o artísticas. Por ello, en principio, el hecho imponible de este Impuesto es di-stinto de los del IRPF y del Impuesto sobre Sociedades, dado que en estos dos últimos constituye su hecho imponible la obtención de renta por el sujeto pasivo.

En relación a la integración entre el IRPF y el IAE, cuando los sujetos pa-sivos de aquél tributaban por éste, antes de su referida reforma, debemos tener en cuenta que lo único que se podía hacer era deducir en la base del primero la cuota del segundo como gasto dentro de la contabilidad del suje-to, con lo cual no se eliminaba la doble imposición entre ambos impuestos. Con la exención de las personas físicas en el IAE desapareció tal doble im-posición, sin perjuicio de lo que hemos expuesto supra en relación a hipo-téticos casos de entidades sin personalidad jurídica que, en función de su cifra de negocios, tributasen en el IAE y que tuviesen comuneros o partíci-pes que fuesen personas físicas residentes en España. De todos modos, en

16 Sobre el IAE las Diputaciones Provinciales, como recurso de las provincias, podrán establecer un recargo regulado en el artículo 134 del TRLRHL.

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relación a la colisión del IAE con el Impuesto sobre Sociedades, sigue que-dando la deducción de la cuota de aquél dentro de la base de éste como ga-sto en la contabilidad de la entidad, salvo para aquellas entidades que han quedado exentas del IAE al no alcanzar el 1.000.000 de euros de importe neto de la cifra de negocios, no existiendo en tales supuestos la referida doble imposición

17. En el citado artículo 78 del TRLRHL hemos visto que se presenta el IAE

como un impuesto directo y directos son los impuestos que gravan la renta o el patrimonio. Está claro que no es el patrimonio aquello sobre lo que in-cide este Impuesto local, sino que incide sobre la renta originada por las mencionadas actividades. El IRPF, el Impuesto sobre Sociedades y el Im-puesto sobre la Renta de No Residentes también gravan la renta.

De esta manera, nos encontramos con que en el IAE el objeto de grava-men aparece constituido por la renta que el sujeto pasivo obtendría con el desarrollo de la actividad empresarial, profesional o artística, cuyo ejercicio representa el hecho imponible del Impuesto. El problema es que se trata del gravamen de rentas presuntas. Con referencia al IAE, en un momento ante-rior a su referida reforma, Checa Gonzàlez señaló que el gravar «beneficios presuntos supone un claro atentado al principio constitucional de capacidad económica, el cual, rectamente entendido, exige que tributen sólo manife-staciones económicas reales y no ficticias»

18. Así pues, basándonos en su mera existencia y al margen de su realidad

cuantitativa, hasta el establecimiento de la referida exención, debemos en-tender que venía existiendo una doble imposición entre el IAE y el IRPF o el Impuesto sobre Sociedades, en relación respectivamente al ámbito sub-jetivo de cada uno de éstos, dada la íntima e inescindible conexión entre el objeto de gravamen de aquél y los objetos de gravamen de estos otros.

En cuanto a los mecanismos jurídicos que se podrían haber utilizado pa-ra paliar los efectos económicos de la mencionada doble imposición, debe-mos tener en cuenta que un gasto necesario para la obtención de un ingreso es un desembolso que se realiza precisamente “para” algo, “para” la obten-ción del ingreso. Y el IAE no se pagaría precisamente “para” obtener un in-greso, sino que se pagaría “por” algo, en concreto, “por” la realización de la actividad generadora del ingreso, o sea, por el ejercicio de la actividad gene-radora de la renta que constituye su objeto imponible.

17 Artículo 82 del TRLRHL. 18 V. CHECA GONZÀLEZ, El Impuesto sobre Actividades Económicas, en Impuestos, n. 23,

1989, p. 28.

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Bien es cierto que, como hipótesis de laboratorio, un incumplimiento si-stemático de las obligaciones tributarias por el IAE, negándose rotunda-mente a pagarlo en los sucesivos ejercicios, podría haber cargado al empre-sario o profesional con un porcentaje de deudas por cuotas, sanciones e in-tereses que le hiciese inviable la vida económica de su actividad. Así, “para” poder desarrollar con éxito su actividad económica habría debido pagar el IAE Desde esta retorcida argumentación se podría haber llegado a hacer aparecer al IAE como gasto necesario para la obtención de los ingresos. Pe-ro obviamente, parece más lógico presentar, en general, al IAE, en cuanto impuesto sobre la renta – aunque presunta –, como consecuencia y no co-mo presupuesto. Téngase en cuenta que el impago del IAE no produciría la nulidad o ineficacia de los actos privados de comercio en que se manifiesta el ejercicio de la actividad económica. Y un Impuesto, el IAE, que tiene por objeto de gravamen la renta, no se puede presentar conceptualmente como algo que sea necesario para la obtención de la misma

19, como suele suceder con los gastos deducibles en base.

Por todo lo expuesto, más que la citada exención, lo más lógico, a prime-ra vista, conceptual y sistemáticamente, de cara a una reforma normativa, hubiese sido arbitrar la deducción de las cuotas pagadas por el IAE en la cuota del IRPF y del Impuesto sobre Sociedades. Sería la cuota de un im-puesto que, como crédito de impuesto, se habría deducido de la cuota de otro, total o parcialmente, para eliminar o atenuar, respectivamente, la do-ble imposición interna por tales impuestos.

Ahora bien, aunque la deducción del IAE en cuota habría eliminado la doble imposición, un análisis profundo de las repercusiones de tal deduc-

19 En el Informe de la Comisión para el estudio y propuesta de medidas para la Reforma de la Financiación de las Haciendas Locales (2002), que precedió a la referida Reforma, se señaló como un inconveniente para la adopción de un sistema de deducción del IAE en la cuota de los impuestos estatales sobre la renta, el siguiente: «Su configuración como de-ducción en la cuota, rompería el esquema general liquidatorio del IRPF e IS». La referen-cia a este punto la realizó la citada Comisión después de destacar la deducción del IAE «como gasto a efectos del cálculo del beneficio o rendimiento neto de la actividad». Pues bien, frente a esa pretendida ruptura del esquema general liquidatorio de esos impuestos, entendemos que la falta de coherencia se da con su deducción como gasto en base, en fun-ción de lo que exponemos. Además, las deducciones en la cuota líquida para determinar la cuota diferencial se dan en función de conceptos o pagos de naturaleza tributaria. Por todo ello, frente a lo argumentado por la mencionada Comisión, creemos que lo más acorde con la coherencia que debería presidir precisamente el esquema liquidatorio de los impue-stos estatales sobre la renta sería el establecimiento de la deducción del IAE en la cuota de los mismos, tal y como exponemos, en los supuestos en que aún se tenga que pagar.

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ción en cuota podría hacernos ver que no serían todo ventajas y sí podría tener algún inconveniente. Se podrían traer aquí a colación y reproducirse, en lo que a la naturaleza de este otro Impuesto local son aplicables, los ar-gumentos apuntados por Simón Acosta en relación a las técnicas de coordi-nación entre el IBI y los impuestos estatales

20. Así pues, si nos fijamos en los argumentos apuntados por este autor en

favor del sistema que propone como solución de integración entre el IBI y los impuestos estatales

21, vemos que tales argumentos pueden en gran me-dida encontrar acomodo en la problemática de la integración del IAE con los impuestos estatales citados. Por ello un buen sistema de resolución de la doble imposición entre este último Impuesto local y el IRPF o el Impuesto sobre Sociedades hubiese sido el de permitir la deducción en la cuota de estos impuestos estatales de la cuota mínima del IAE que según la norma estatal se debía exigir por los Ayuntamientos. Y por aquello en lo que las cuotas por este Impuesto local excediesen – obviamente, siempre dentro de los límites que marcase la norma estatal – de esas cuotas mínimas – exceso establecido por los Ayuntamientos –, se hubiese podido practicar una de-ducción en la base. Téngase en cuenta que con este sistema se habría con-servado la responsabilidad política de las Corporaciones municipales por su posible influencia en el aumento de la carga fiscal por la citada doble impo-sición, dado que al deducirse el mencionado exceso en la base no se elimi-naría totalmente la doble imposición en relación al mismo, sino que sim-plemente se atenuaría.

Eso sí, debemos precisar aquí que la deducción que se hubiese debido rea-lizar en base, entendemos que lo más respetuoso con la lógica conceptual de los impuestos en juego habría sido practicarla en la base imponible para cal-cular la base liquidable y no en los rendimientos íntegros para calcular los rendimientos netos que se integran en la base imponible. Ello por las razo-nes apuntadas al desarrollar la crítica a la inclusión del IAE dentro del anti-

20 La aplicación en relación al problema de la doble imposición entre el IAE y los im-puestos estatales de la solución propuesta por Simòn Acosta con respecto a la doble impo-sición entre el IBI y estos últimos, es aceptada por Garcìa Luis, el cual reconoce que algu-nas de las razones apuntadas por aquel autor en relación a la problemática del IBI – en su integración con los impuestos estatales – serían trasladables a la que estamos analizando en relación al IAE – la de su integración con los impuestos estatales, obviamente – (v. GARCÌA LUIS, Impuesto sobre Actividades Económicas, en La Reforma de las Haciendas Loca-les, tomo I, Lex Nova, Valladolid, 1991, pp. 455-456).

21 Véanse tales argumentos en El Proyecto de Ley reguladora de las Haciendas Locales, Instituto de Estudios Económicos, Madrid, 1988, pp. 45-48.

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guo concepto de gasto deducible en cuanto necesario para la obtención de los ingresos.

Lo que sí resulta altamente criticable es el sistema que se vino aplicando en relación a la atenuación de la doble imposición por el IAE, que podría haber creado en el ciudadano-contribuyente de no afianzada cultura tribu-taria la “ilusión” de que, al poder “restar” de alguna manera (en sede de ba-se) las cuotas por este impuesto local al determinar la deuda tributaria del correspondiente impuesto estatal, sólo habría cargado económicamente una vez con la deuda tributaria – por el gravamen sobre la renta – que se corresponde con el montante de la cuota del impuesto local, lo cual, obvia-mente, sólo se habría producido si la deducción se hubiese podido practicar en cuota.

El legislador, lejos de recoger las propuestas que de lege ferenda había veni-do realizando la doctrina sobre la integración del IRPF con el IAE, optó por la vía de la referida exención, lo cual restó autonomía financiera a las Corpora-ciones Locales, a pesar de las correspondientes compensaciones a éstas.

6. Propuesta de mejora de la situación normativa actual en relación al Im-puesto sobre Actividades Económicas

Como hemos expuesto, en relación a las personas físicas, profesionales o empresarios individuales, se eliminó la doble imposición entre el IRPF y el IAE, al dejarlas exentas de éste. Pero, como también hemos visto supra, que-dan supuestos en los que se sigue dando una doble imposición entre el IAE y la imposición estatal sobre la renta. Se trata de los casos de entidades que superan la referida cifra de negocios y que están sometidas al Impuesto so-bre Sociedades o al Impuesto sobre la Renta de No Residentes y de entida-des sin personalidad jurídica que superen igualmente dicha cifra, dándose en este último supuesto la doble imposición con el impuesto estatal en el que tenga que tributar el comunero o partícipe de este último tipo de enti-dades en función de su condición: IRPF, Impuesto sobre Sociedades o Im-puesto sobre la Renta de No Residentes.

Pues bien, en todos esos supuestos en que se sigue pagando el IAE se debería permitir una deducción en la cuota de los citados impuestos estata-les de las cuotas satisfechas por el analizado Impuesto local. Incluso en el supuesto de comuneros personas físicas residentes, cuya comunidad de bie-nes tenga que pagar el IAE, se les debería permitir deducir en la cuota del

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IRPF la parte, de la cuota del IAE satisfecha por la entidad, correspondiente a la participación del comunero en ésta.

En todos los supuestos en que entendemos que se debe permitir la deduc-ción de la cuota del IAE en la cuota del Impuesto sobre Sociedades, en la cuota del Impuesto sobre la Renta de No Residentes o incluso, en los casos apuntados, en la cuota del IRPF, tal deducción se debería realizar en la cuo-ta líquida para determinar la cuota diferencial, dado el carácter impositivo del concepto que debería dar derecho a la deducción.

Obviamente, en el caso de sujetos exentos del IAE no se debería dar nin-guna deducción en la cuota de los citados impuestos estatales, pues eso su-pondría un doble beneficio fiscal no justificable, al no haberse soportado el citado Impuesto local.

De otro lado, cuando se tiene que pagar el IAE, es el Estado el que pro-voca la doble imposición, pues es éste el que ha creado el IAE, aunque su ti-tularidad sea local. Para ello, su actuación debería centrarse en los impue-stos estatales, a través del establecimiento de la deducción propuesta en la cuota de éstos. La deducción en base, como gasto, dentro de la contabilidad de la entidad, que sigue quedando para los sujetos pasivos que continúan tributando en el IAE, no elimina la doble imposición de este Impuesto local con el correspondiente impuesto estatal, por lo que se debería avanzar en el sentido de la deducción en cuota que se propone.

Para aquellos supuestos en los que, por ausencia de cuota (positiva) en el correspondiente impuesto estatal sobre la renta, no se pudiese absorber tal deducción, entendemos que tal problema podría salvarse articulando el le-gislador la citada deducción de forma que, si no se pudiese practicar en rela-ción al correspondiente período impositivo, pudiese practicarse en los ejer-cicios siguientes, por ejemplo, apuntando un posible plazo, en los cuatro años posteriores. Al tratarse de la deducción de la cuota de un impuesto lo-cal en la de un impuesto estatal, no creemos que tal deducción debiese e-structurarse de forma que pudiese determinar, por sí misma, una cuota dife-rencial negativa, en el sentido de que, practicándose antes de la deducción de los pagos a cuenta, pudiese determinar una cantidad negativa a devolver, que los pagos a cuenta, en su caso, vinieran a hacer más negativa, es decir, que éstos vendrían a acrecentar la cantidad negativa. Entendemos que, de estruc-turarse esta deducción, al practicarla, si nos diese una cantidad negativa, la cuota debería quedar a cero y, de ahí, poder restar los pagos a cuenta, que sí determinarían, por sí mismos, una cantidad a devolver. La parte que no hubiese podido deducirse quedaría pendiente de deducción para los ejerci-cios posteriores. Todo ello porque tratándose de la deducción de un impue-

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sto de un ente público en la cuota de otro, darle el mismo tratamiento que a los pagos a cuenta podría resultar a primera vista excesivo.

De todos modos, no perdamos de vista que la deducción en cuota que proponemos para su articulación por el legislador, alcanzaría sólo a aquella cuota o porción de cuota que resultase de la cuantificación mínima derivada de la norma (estatal), mientras que de existir un exceso sobre ese mínimo, en función de que el correspondiente municipio hubiese aumentado los elementos de cuantificación del IAE dentro de lo que la normativa estatal le permite, en relación a tal exceso sólo se debería permitir su deducción en la base del correspondiente impuesto estatal como gasto. De esta forma, que-daría evidenciada la responsabilidad política de la correspondiente Corpo-ración Local en el aumento de los efectos económicos de la referida doble imposición.

Pero todo esto por lo que atañe al problema de la doble imposición que sigue generando el IAE con respecto a la imposición estatal sobre la renta, en los supuestos descritos. Tal perspectiva no nos hace perder de vista el problema de la configuración del IAE como Impuesto que grava rentas po-tenciales o presuntas y que, por tanto, no se presenta como lo más acorde con los principios constitucionales de justicia tributaria

22. Por ello, en aquello para lo que queda el IAE, debería reformarse éste pa-

ra convertirlo en un impuesto que sólo gravase rentas reales y sólo en fun-ción de la cuantía de éstas, pagándose hoy día incluso por entidades que no obtienen ninguna renta real, al poderse tratar de entidades que en el corre-spondiente ejercicio sólo hayan tenido pérdidas

23. El hecho de que en el artículo 86 del TRLRHL se establezca que «sobre

las cuotas municipales, provinciales o nacionales fijadas en las tarifas del impuesto se aplicará, en todo caso, un coeficiente de ponderación, determi-nado en función del importe neto de la cifra de negocios del sujeto pasivo», no supone que el IAE se ajuste a la verdadera capacidad económica del suje-

22 No mucho antes de la citada reforma del IAE, Checa Gonzàlez señaló que «en una futura Ley reguladora del sistema tributario local este impuesto, en su configuración y estructura actual, debiera suprimirse en atención a las exigencias ínsitas en la propia no-ción de justicia tributaria, y sustituirse por otro que grave, en una u otra forma, la verdade-ra renta real del sujeto pasivo» (v. CHECA GONZÀLEZ, El Impuesto sobre Actividades Econó-micas: presente y futuro, en Nueva Fiscalidad, n. 5, 2002, p. 46). De todos modos, aunque un impuesto sobre las rentas reales empresariales de las entidades sustituyese al criticable IAE actual, la problemática de su doble imposición con la imposición estatal sobre la renta se-guiría existiendo y podría ser afrontada desde los parámetros expuestos.

23 Sin perjuicio de la bonificación de la que nos ocupamos en este apartado.

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to pasivo. Téngase en cuenta que se parte de la cifra de negocios y no de la renta real generada por la actividad de la entidad, siendo evidente que no es lo más ajustado al principio constitucional de capacidad económica en ma-teria tributaria

24 la toma en consideración del «importe neto de la cifra de negocios» dentro de la disciplina del IAE.

Frente a la utilización del expediente de la cifra de negocios, podemos encontrar, de forma aislada e insuficiente, alguna referencia expresa a la ren-ta en la actual regulación del IAE. El artículo 88 del TRLRHL establece en el párrafo primero de la letra d) de su apartado 2 que, cuando las ordenan-zas fiscales así lo establezcan en relación al IAE, se aplicará «una bonifica-ción de hasta el 50 por 100 de la cuota correspondiente para los sujetos pa-sivos que tributen por cuota municipal y tengan una renta o rendimiento neto de la actividad económica negativos o inferiores a la cantidad que determine la ordenanza fiscal, la cual podrá fijar diferentes porcentajes de bonificación y límites en función de cuál sea la división, agrupación o grupo de las tarifas del impuesto en que se clasifique la actividad económica realizada».

A nuestro entender, en aquellos casos de pérdidas o resultados negativos en un determinado ejercicio, más que una bonificación de hasta un cincuen-ta por ciento de la cuota, debería establecerse una exención total del Impue-sto, mientras no existan rentas positivas en la entidad. Es decir, entendemos que sólo una bonificación del cincuenta por ciento en los casos de rentas ne-gativas es insuficiente. Al mismo tiempo, la citada bonificación del cincuen-ta por ciento se presenta como una medida que se deja en manos de las cor-respondientes ordenanzas fiscales, de forma que queda a elección de cada municipio el decidir si la aplica o no. Creemos que la aplicación de la misma no debería quedar a la elección de cada municipio, de manera que una me-dida como ésta debería establecerse en el TRLRHL de forma generalizada para todos los municipios, sin que las ordenanzas fiscales pudiesen estable-cer lo contrario. Es más, la exención que proponemos en caso de pérdidas en la entidad, en caso de establecerse algún día, también debería presentarse como preceptiva en cualquier municipio, sin que a través de las ordenanzas fiscales se pudiese establecer la no aplicación de la misma.

Todo lo expuesto nos deja ver una serie de problemas que siguen giran-do en torno al IAE y que van a hacer que este Impuesto local continúe sien-do una de las figuras más criticables de nuestro Sistema tributario. Pero ta-les críticas se pueden hacer, no sólo en relación a la articulación en sí del

24 Artículo 31.1 de la Constitución.

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IAE, sino también en relación a su falta de integración con los impuestos estatales sobre la renta. Y así, en este último sentido, la solución no vendría dada por la vía de la actuación sobre la normativa reguladora de este Impue-sto local, sino que la actuación del legislador se debería dar sobre la regula-ción de los citados impuestos estatales, de la forma expuesta.

7. El actual panorama normativo y jurisprudencial de la imputación de ren-tas inmobiliarias en el Impuesto sobre la Renta de las Personas Físicas, frente al Impuesto sobre Bienes Inmuebles

Trece días antes de que se publicase oficialmente 25 la actual Ley del

IRPF – representada por la Ley 35/2006, de 28 de noviembre, del Impuesto sobre la Renta de las Personas Físicas y de modificación parcial de las leyes de los Impuestos sobre Sociedades, sobre la Renta de no Residentes y sobre el Patrimonio – se publicaba oficialmente

26 la Sentencia del Tribunal Con-stitucional 295/2006, de 11 de octubre. Esta última versa sobre la antigua normativa de los rendimientos del capital inmobiliario procedentes de in-muebles urbanos de uso propio, que pasaron a quedar incluidos posterior-mente en el concepto de imputación de rentas inmobiliarias dentro de la di-sciplina del IRPF. Ley y Sentencia vinieron a consolidar aun más un régimen impositivo que podría recibir diversas críticas tanto en su consideración en sí mismo, como en su integración y coordinación dentro del conjunto de nue-stro Sistema impositivo, si es que se quiere que éste sea verdaderamente eso, es decir, un Sistema. La actual Ley del IRPF volvió a recoger en lo esencial, en su artículo 85, la regulación de la imputación de rentas inmobiliarias que hasta ese momento se recogía en el artículo 87 del Texto Refundido de la Ley del IRPF, aprobado por el Real Decreto Legislativo 3/2004, de 5 de marzo, y al que vino a sustituir la citada actual Ley 35/2006. Por los inmuebles ur-banos

27 que, sin ser su vivienda habitual o suelo no edificado, estén a dispo-sición de su titular para su disfrute particular, en tanto que por ejemplo no están arrendados o no están afectos a su actividad económica, se computará una renta del 2 o del 1,1 por ciento del valor catastral, dependiendo del mo-

25 BOE de 29 de noviembre de 2006. 26 Suplemento del BOE de 16 de noviembre de 2006. 27 «así como en el caso de los inmuebles rústicos con construcciones que no resulten

indispensables para el desarrollo de explotaciones agrícolas, ganaderas o forestales» (artí-culo 85 de la actual Ley).

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mento de revisión, modificación o determinación de éste, según sea anterior o no al 1 de enero de 1994. Pero estos inmuebles, a su vez, están tributando también en el IBI, con lo que, en función de cuál se entienda que es el objeto de gravamen de éste, podría cuestionarse hasta qué punto no sería convenien-te que se articulase una deducción en la cuota del IRPF de las cuotas del IBI para eliminar la doble imposición que pudiese entenderse que existe entre ambos impuestos, estatal y local. Con ello se conseguiría una integración más armónica del gravamen de la imputación de rentas inmobiliarias dentro de nuestro Sistema impositivo, al coordinarse en tal sentido el IRPF con el IBI.

A esta situación normativa habría que añadir la rotundidad del citado pro-nunciamiento del Tribunal Constitucional, en contra de las posibles opinio-nes de aquellos que quisieran tener la tentación de plantearse hasta qué punto el gravamen de la imputación de rentas inmobiliarias pudiese representar un gravamen de rentas ficticias. Frente a esa posible interpretación y hablando de los antiguos rendimientos del capital inmobiliario por inmuebles urba-nos de uso propio, equivalentes a la actual imputación de rentas inmobilia-rias en el IRPF, en el párrafo primero del fundamento jurídico 6 de la citada Sentencia del Tribunal Constitucional 295/2006 se señala que «los rendi-mientos de los inmuebles urbanos que contempla el precepto cuestionado integran la manifestación de una capacidad económica que si bien no deriva de una renta real – no hay un ingreso efectivamente producido – sí conecta con una renta potencial: cabe razonadamente entender que, en la medida en que tales inmuebles son susceptibles de generar un rendimiento al que “renuncia” su titular – el que podría obtenerse mediante su arrendamiento – estamos ante una “renta potencial” susceptible de ser sometida a imposición por el impuesto sobre la renta de las personas físicas, de la misma manera que – en relación con el impuesto andaluz de tierras infrautilizadas – hemos afirmado que la renuncia a obtener el rendimiento óptimo legalmente seña-lado para las fincas rústicas “es por sí mismo revelador de la titularidad de una riqueza real o potencial” (STC 37/1987, de 26 de marzo, FJ 13)».

De esta manera, en el fondo, parece centrarse desde el Tribunal Consti-tucional la justificación del gravamen de la imputación de rentas inmobilia-rias en la función social de la vivienda; en este caso, en concreto actualmen-te, de la segunda vivienda. Así ésta, o se disfruta su utilidad y se tributa por ello, o se pone en circulación en el mercado en busca de un rendimiento del capital inmobiliario tributando por éste, sin perjuicio de la posible utilización del inmueble en una actividad económica, al margen del cómputo de una tri-butación específica por el mismo.

El principal problema que aborda el Tribunal Constitucional en su Sen-

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tencia 295/2006 consiste en determinar si, en esa antigua regulación del IRPF, por los entonces aún denominados rendimientos del capital inmobi-liario, por inmuebles urbanos de uso propio, la remisión a la valoración esta-blecida en el artículo 10 de la Ley 19/1991, de 6 de junio, del desaparecido Impuesto sobre el Patrimonio, que partía del mayor de tres valores, cata-stral, comprobado o de adquisición, podía implicar una violación del prin-cipio de igualdad. Y así lo estimó el Tribunal Constitucional, entendiendo que esos diferentes criterios de valoración, recurriendo al que generaba el resultado más alto, podía suponer una violación del principio de igualdad en materia tributaria. Una igualdad ante similares situaciones objetivas de ca-pacidad económica puestas de manifiesto a partir de la renta del inmueble y, por tanto, contemplable desde el artículo 31.1 de nuestra Constitución y no desde el artículo 14 de ésta, dado que no es una discriminación en función de las características subjetivas del contribuyente.

De todos modos, estamos hablando de una legislación ya derogada, pues la Ley pasó a hacer referencia directa al valor catastral, referencia que es la que existe en la actualidad, salvo que no se haya fijado aún aquél.

Pero debemos detenernos en un tema, muy importante en nuestra opi-nión, en el que entiende el Tribunal Constitucional que no tiene que entrar para poder llegar a declarar la inconstitucionalidad de la remisión del párra-fo primero del apartado b) del artículo 34 de la Ley 18/1991, de 6 de ju-nio

28, al valor a efectos del desaparecido Impuesto sobre el Patrimonio. El abogado del Estado entendía que la cuestión de inconstitucionalidad que ha-bía dado lugar a esta Sentencia debería haberse planteado también contra el artículo 10 de la Ley del desaparecido Impuesto sobre el Patrimonio, que es el que, estableciendo las reglas de valoración de los inmuebles a efectos de este Impuesto, venía a concretar el contenido de la remisión que efectuaba ese antiguo artículo 34. Según el abogado del Estado la declaración de in-constitucionalidad del artículo 10 de la Ley 19/1991 era la única que podría haber conllevado la inconstitucionalidad de la referida norma del artículo 34 de la Ley 18/1991. A ello añadía el abogado del Estado que esas diferen-tes valoraciones del citado artículo 10 estarían justificadas y, dada la consti-tucionalidad de este precepto, no cabría entender la inconstitucionalidad de la citada remisión efectuada por el referido antiguo artículo 34.

De todos modos, el Tribunal Constitucional, partiendo de que el objeto de gravamen del IRPF y el objeto de gravamen del desaparecido Impuesto sobre el Patrimonio eran distintos, señaló que se podía declarar la referida

28 Antigua Ley del IRPF.

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inconstitucionalidad a efectos del IRPF, sin tener que entrar a cuestionar si las diferentes valoraciones que se aplicaban a efectos del gravamen del pa-trimonio resultaban o no legítimas constitucionalmente.

Pues bien, dejando ya a un lado la referencia a la citada Sentencia del Tri-bunal Constitucional, que supuso uno de los datos más llamativos en la pro-blemática de la evolución del tema que analizamos, nos tocará a continua-ción centrarnos en cómo afrontar la falta de coordinación del gravamen de la imputación de rentas inmobiliarias con la imposición local sobre los inmue-bles, problema en relación al cual, con la citada actual Ley del IRPF, se per-dió una buena oportunidad para establecer legalmente una solución.

Junto a ello, debemos mencionar al menos el sector de la imputación de rentas inmobiliarias más olvidado por la doctrina, como es el relativo al Im-puesto sobre la Renta de No Residentes, Impuesto en cuya disciplina tam-bién se contempla la imputación de rentas inmobiliarias cuando el titular del inmueble es una persona física no residente, que no obtenga otra renta por el mismo. En relación a este otro Impuesto deberían arbitrarse solucio-nes similares a las que proponemos más adelante con respecto al IRPF.

8. La doble imposición entre el gravamen de la imputación de rentas inmobi-liarias y el Impuesto sobre Bienes Inmuebles

A) Delimitación del problema

En el supuesto de imputación de rentas inmobiliarias, en el IRPF no se puede deducir lo pagado por el IBI. No se trata sólo de que no pueda dedu-cirse en cuota, sino que, en la regulación actual del IRPF, no puede ya ni si-quiera deducirse en base. Y, como intentaremos explicar seguidamente, cierta confluencia entre el IBI y el gravamen de las rentas inmobiliarias en el IRPF sí se puede reconocer.

Es necesario destacar, ante la inclusión de las rentas procedentes de apli-car un tanto por ciento sobre el valor catastral del inmueble en el concepto de imputación de rentas inmobiliarias, que estamos ante auténticos casos de imputación de rentas y que encaja con ellos ese término de imputación que los califica. Y ello porque puede tratarse de inmuebles que en la práctica no reporten al contribuyente ninguna renta real, sino simplemente potencial, de forma que habrá casos en los que éste, no obteniendo ninguna utilidad real del inmueble, no habiéndolo utilizado, tenga de todas formas que tributar por esa imputación de rentas inmobiliarias.

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Al plantearnos aquí la confluencia entre el IBI y el IRPF, debemos partir de que se trata de un problema que sufrió ciertas variaciones a raíz de la Ley 40/1998, de 9 de diciembre, antigua Ley reguladora del IRPF. Pero es un problema que se ha ido dando igualmente en base a leyes anteriores que afec-taban al mismo. Así pues, debemos detenernos en los precedentes normati-vos del problema. Y esto porque casi toda la construcción doctrinal del mi-smo, con sus posibles vías de solución, se ha desarrollado en base a esa nor-mativa precedente, normativa que ha ido consolidando un problema ya tra-dicional en nuestro Ordenamiento tributario.

Debemos partir necesariamente de la normativa anterior que afectaba al mismo. Esto nos permitirá, de un lado, comprobar el carácter persistente que, en parte, este problema ha adquirido en nuestro Derecho y, de otro, cómo el legislador, en vez de seguir las soluciones que de lege ferenda apuntaba la doctrina, ha agravado en ciertos casos el problema, aunque en materia de vivienda habitual lo haya eliminado.

En el apartado Uno del artículo 1 de la ya citada Ley 18/1991, de 6 de junio, antigua Ley reguladora del IRPF

29, se disponía que este Impuesto era «un tributo de carácter directo y naturaleza personal y subjetiva que grava la renta de las personas físicas en los términos previstos en esta Ley». Por otra parte, en el apartado Uno del artículo 5 de esa misma Ley se establecía que constituía «el hecho imponible la obtención de renta por el sujeto pasi-vo», presentándose en la letra b) del apartado Cuatro de este artículo 5 co-mo componentes de la renta del sujeto pasivo «los rendimientos derivados de cualquier elemento patrimonial que no se encuentre afecto de manera exclusiva a las actividades señaladas en la letra siguiente», letra siguiente que era la letra c) en la que se presentaban como componentes de la renta «los rendimientos de las actividades empresariales o profesionales que ejerza».

En el apartado Uno del artículo 31 de la Ley 18/1991 se establecía que tenían «la consideración de rendimientos íntegros del capital la totalidad de las utilidades o contraprestaciones, cualquiera que sea su denominación o naturaleza, que provengan directa o indirectamente de elementos patrimo-niales, bienes o derechos, cuya titularidad corresponda al sujeto pasivo y no se hallen afectos a actividades empresariales o profesionales realizadas por el mismo». Y en el apartado Dos, letra a), de ese mismo artículo se disponía que, en todo caso, se debían incluir como rendimientos del capital «los provenientes de los bienes inmuebles, tanto rústicos como urbanos, que no

29 Ley derogada por la citada Ley 40/1998.

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se hallen afectos a actividades empresariales o profesionales realizadas por el sujeto pasivo», especificándose en el último párrafo de este mismo aparta-do Dos del artículo 31 que «los rendimientos íntegros correspondientes a elementos patrimoniales, bienes o derechos, que se hallen afectos de mane-ra exclusiva a actividades empresariales o profesionales realizadas por el sujeto pasivo se considerarán ingresos de las indicadas actividades».

Frente a la redacción originaria de la Ley 18/1991 analizada por el Tri-bunal Constitucional en la Sentencia citada supra, el artículo 34 de la Ley 18/1991 adquirió una nueva redacción tras la reforma operada en su letra b) por el Real Decreto Ley 12/1995, de 28 de diciembre, sobre medidas ur-gentes en materia presupuestaria, tributaria y financiera. Para empezar, el artículo 34 de la Ley 18/1991 disponía que tenían la consideración de ren-dimientos íntegros del capital inmobiliario «en el supuesto de inmuebles arrendados o subarrendados, el importe que por todos los conceptos se re-ciba del arrendatario o subarrendatario, incluido, en su caso, el correspon-diente a todos aquellos bienes cedidos con el inmueble y excluido el Impue-sto sobre el Valor Añadido» [primer párrafo de su apartado a)]

30, y en el supuesto de los restantes inmuebles urbanos – excluido el suelo no edifica-do –, o sea, en relación a los inmuebles no arrendados, se establecía el deber de computar como rendimientos íntegros del capital inmobiliario el 2% del valor catastral del inmueble, con carácter general, y cuando se tratase de in-muebles cuyos valores catastrales hubieran sido revisados o modificados y hubiesen entrado en vigor a partir del 1 de enero de 1994 había que compu-tar por tal tipo de rendimientos el 1’1% del valor catastral

31 del inmueble [primer párrafo de su apartado b)]. Así pues, los rendimientos de inmuebles de naturaleza rústica podían ser considerados como rendimientos de las ac-tividades empresariales agrícolas a las que estuviesen afectos o bien como rendimientos del capital cuando se tratase de rendimientos procedentes del arrendamiento o subarriendo de tales bienes, no considerándose producido

30 En el párrafo segundo del apartado a) del citado artículo 34 se establecía que «si el propietario o el titular del derecho real se reservase algún aprovechamiento, se computa-rán también como ingresos las cantidades que correspondan al mismo, siempre que dicho aprovechamiento no constituya en sí mismo una actividad empresarial, en cuyo caso se incluirán entre los ingresos de la mencionada actividad».

31 En el párrafo segundo del artículo 34.b) de la Ley 18/1991 pasó ya a establecerse que «si a la fecha de devengo del Impuesto los inmuebles a que se refiere esta letra care-cieran de valor catastral o éste no hubiera sido notificado al titular, se tomará como valor de los mismos el 50 por 100 de aquel por el que deban computarse a efectos del Impuesto sobre el Patrimonio. En estos casos, el porcentaje aplicable será el 1’10 por 100».

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ningún rendimiento del capital por los bienes inmuebles de naturaleza rú-stica fuera de estas situaciones.

Como hemos podido ver, el hecho imponible del IRPF era y es la obten-ción de renta por el sujeto pasivo, y su objeto de gravamen era y es la renta misma. Habría que preguntarse si podía y puede hablarse, en relación al gra-vamen por este Impuesto de la imputación de rentas inmobiliarias y de los, en su antigua y actual denominación, rendimientos del capital inmobilia-rio

32, de una doble imposición del mismo con el IBI. De aceptarse que se pudiese aquí hablar de doble imposición lo sería siempre limitándonos, en este caso, de un lado, claro está, al ámbito inmobiliario, y, de otro, al ámbito subjetivo de las personas físicas, que son las únicas que pueden realizar el hecho imponible del IRPF.

Este Impuesto gravaba y grava la renta y el IBI grava tales elementos pa-trimoniales, constituyendo, en general, el hecho imponible de este último el ser titular de los mismos. Renta y patrimonio se distinguen como dos concep-tos esenciales si se quieren diferenciar los índices de capacidad económica que gravan los impuestos directos. Han venido siendo, además, hasta que se dejó de aplicar el Impuesto sobre el Patrimonio en nuestro Ordenamiento tributario, los dos genéricos objetos de gravamen de los impuestos directos, con independencia de que luego se limitasen o especificasen en los impuestos de naturaleza real. Si el IRPF grava la renta y el IBI el patrimonio, en princi-pio, no podría hablarse de una doble imposición entre ambos impuestos.

No obstante, como hemos podido observar, la riqueza inmobiliaria pue-de generar rentas gravadas por el Sistema tributario, mientras éste grava también la simple titularidad de tal riqueza. Es más, la simple titularidad de un bien inmueble de naturaleza urbana, como hemos visto, obligaba a com-putar en favor de su titular un rendimiento – en la actualidad, recordemos, se da una imputación de rentas inmobiliarias – gravable por el IRPF. Esto nos hace ver la íntima conexión de estos dos impuestos con la titularidad de la riqueza inmobiliaria.

El patrimonio inmobiliario representa el objeto material del IBI. Pero habría que preguntarse si lo que realmente quiere gravar (objeto-fin) el IBI es la renta

33 que se pueda entender que generarían tal tipo de bienes. Y así,

32 Y esto sin perjuicio obviamente de las consideraciones que realizamos más adelante sobre la imputación de rentas inmobiliarias según la Ley 40/1998 y la Ley 35/2006.

33 En relación al impuesto local sobre las fincas rústicas y urbanas que podría incluirse dentro de un esquema ideal propuesto sobre imposición local, Ferreiro señala que «se tra-ta de un impuesto que quiere gravar rendimientos medios. Que intenta recuperar para la

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apunta Simòn Acosta que «aunque el Impuesto sobre Bienes Inmuebles es nominalmente un impuesto sobre la propiedad, grava indirectamente la renta de los inmuebles, por lo que su coordinación debe efectuarse princi-palmente con el Impuesto sobre la Renta de las Personas Físicas (IRPF) y el Impuesto sobre Sociedades»

34. Se trataría ahora de analizar los mecanismos a través de los cuales se ha venido articulando la confluencia entre los cita-dos impuestos.

Si nos fijamos en los gastos deducibles en relación a los rendimientos del capital inmobiliario en el antiguo IRPF, nos encontramos con que en el apar-tado A) del artículo 35 de la Ley 18/1991 se disponía que tenían la conside-ración de gastos deducibles para la determinación del rendimiento neto pro-cedente de inmuebles arrendados o subarrendados «los gastos necesarios para su obtención». Y según el artículo 7.Uno.A.b) del antiguo Reglamento del IRPF que desarrollaba esa Ley había que considerar incluidos entre los imposición local las virtudes del catastro milanés tan excelentemente expuestas en su día por el profesor Einaudi. Un impuesto que al gravar rentas promedios prima al contribu-yente activo y castiga a quien no utiliza adecuadamente sus bienes» (v. FERREIRO LA-PATZA, en la obra colectiva El Proyecto de Ley reguladora de las Haciendas Locales, cit., pp. 24-25). En otra obra, señala igualmente Ferreiro que en el IBI «el legislador quiere gravar la renta que deriva de estos bienes, pero el gravamen se exige se produzca o no dicha ren-ta» (FERREIRO LAPATZA, Curso de Derecho Financiero Español, Madrid, 1991, p. 354).

34 Añade a continuación de lo anterior este autor que «el Impuesto sobre el Patrimonio (IEPPF) – siglas que se corresponden con la denominación del desaparecido Impuesto en el momento en que escribía – también debe ser tenido en cuenta, puesto que se trata igualmen-te de un impuesto nominal sobre el patrimonio y efectivo sobre la renta». Analizando el paso de las Contribuciones Territoriales – vigentes en el momento en que escribía – al IBI – en-tonces sólo plasmado en el Proyecto de Ley de Haciendas Locales, todavía no aprobado en aquel momento –, o sea, fijándose en la evolución del impuesto local que habría de gravar la riqueza inmobiliaria, señala Simòn Acosta que «el supuesto cambio de naturaleza del im-puesto no tiene otra trascendencia que la modificación de la magnitud que constituye la base imponible: en el nuevo impuesto es el valor de los bienes, y en los impuestos actuales es su renta potencial. De todos modos, como la renta se determina de manera objetiva y, en el caso de la Contribución Territorial Urbana, es proporcional al valor catastral, no hay diferencia sustancial entre el gravamen de la propiedad y el gravamen de la renta, si se realizan en el tipo de gravamen los ajustes cuantitativos necesarios para que se obtenga la misma cuota». Llega este autor a la conclusión de que el IBI «no difiere sustancialmente de la naturaleza que ya tenían la Contribución Territorial Rústica y la Contribución Territorial Urbana. En ambos casos puede decirse que el hecho imponible es la propiedad de los inmuebles y el objeto o materia imponible, su renta: son impuestos nominales sobre la propiedad y efectivos sobre la renta de los inmuebles. Por este motivo debe concederse importancia al estudio de su coor-dinación con los impuestos estatales sobre la renta y el patrimonio, con el fin de evitar los efectos perversos de una doble imposición mal prevista» (v. SIMÒN ACOSTA, en El Proyecto de Ley reguladora de las Haciendas Locales, cit., p. 43).

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gastos necesarios para la obtención de tales rendimientos «los tributos y re-cargos no estatales, así como las tasas, recargos y contribuciones especiales estatales, no repercutibles legalmente, cualquiera que sea su denominación siempre que incidan sobre los rendimientos computados o sobre los bienes o derechos productores de los mismos y no tengan carácter sancionador». Entre los tributos que inciden sobre los bienes o derechos productores de tales rendimientos está claro que se encontraba y se encuentra el IBI. Y en relación a los rendimientos de bienes inmuebles de naturaleza urbana no ar-rendados ni subarrendados se contemplaban expresamente en el apartado B) del artículo 35 de la Ley 18/1991 como gastos deducibles para la deter-minación de los rendimientos netos de este tipo de inmuebles «las cuotas y recargos, salvo el de apremio, devengados por el Impuesto sobre Bienes In-muebles». Se veía así el reconocimiento por parte del mismo legislador tri-butario de la conexión entre el gravamen por el IRPF y el gravamen por el IBI en relación a la riqueza inmobiliaria. Se trataba, en definitiva, de un recono-cimiento legal de la doble imposición entre el IRPF y el IBI en este punto, poniéndose así de manifiesto que el objeto-fin de este segundo Impuesto es el gravamen de la renta inmobiliaria, a través del mecanismo consistente en arti-cular un objeto material estructurado sobre el patrimonio inmobiliario

35. Visto todo lo anterior, debemos detenernos en la consideración de las

cuotas pagadas por el IBI como gasto deducible. Si un sujeto aparecía gra-vado en el antiguo IRPF por el rendimiento potencial que le hubiese podido generar la titularidad de un inmueble, en ese caso para obtener el rendimien-to tenía que ser titular del inmueble; y al ser titular del inmueble debía pagar también el IBI. Este Impuesto no se paga “para” poder ser titular de un in-mueble, sino “por” ser titular del mismo. Por ello, no encajaba fácilmente en el concepto de gasto deducible la cuota pagada por el IBI. No sería concep-tualmente un gasto necesario “para”

36 la obtención del rendimiento que ge-nera el inmueble sino una carga económica “por” la titularidad del mismo,

35 Y fijándose en tales mecanismos de coordinación entre estos impuestos tal y como se plasmaban, de forma similar, en la normativa vigente en el momento en que escribía, Si-mòn Acosta destacaba que los mismos implicaban una aceptación consciente de la doble imposición sobre la renta de los bienes inmuebles. Tales normas del IRPF y las aplicables en este punto en relación al Impuesto sobre Sociedades confirmaban, según este autor, que «existe doble imposición de la renta de los bienes inmuebles, la cual tributa en el IRPF o Impuesto sobre Sociedades y además soportará el impuesto municipal», o sea, el IBI, sucesor de las antiguas Contribuciones Territoriales (v. SIMÒN ACOSTA, en El Proyecto de Ley reguladora de las Haciendas Locales, cit., pp. 44-45).

36 V. el ya mencionado artículo 35.A de la Ley 18/1991.

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titularidad que generaba el rendimiento. Ahora bien, en el caso de inmue-bles urbanos de uso propio, el problema se resolvía expresamente en el ar-tículo 35.B) de la Ley 18/1991 como hemos visto, estableciendo la deduci-bilidad del IBI, sin recurrir para ello al concepto de gasto necesario para la obtención de la renta. En definitiva, el IBI no es un Impuesto que se pague “para” poder ser titular de un inmueble, sino “por” ser titular del mismo. Por ello no se podía afirmar que fuese un gasto necesario para la obtención del rendimiento generado por el inmueble. También se podría decir que el in-mueble es necesario para obtener el rendimiento, pero al razonar así lo úni-co que se conseguiría es confundir en la comprensión de la verdadera reali-dad jurídica: debemos tener en cuenta que el objeto-fin del IBI es el grava-men de los rendimientos de los inmuebles, o sea, el objeto-fin sería la renta inmobiliaria. Por ello no se podía decir que este Impuesto sea algo necesario para obtener esa riqueza.

Pues bien, éstas son simplemente consideraciones sobre la delimitación conceptual del IBI como gasto deducible al haber sido presentado como ga-sto necesario para la obtención de ingresos, delimitación conceptual que ve-mos poco lógica e incoherente. De todas formas, es la vía de salida que nue-stro Derecho venía otorgando a la doble imposición entre el IBI y el IRPF.

Resumiendo, si un impuesto quiere gravar la renta que produce o puede producir un inmueble, no se le puede considerar en principio como gasto necesario para obtener esa renta. Incluso en el caso en el que un sujeto utili-ce un inmueble de su propiedad para desarrollar en el mismo una actividad económica, el IBI querría gravar el rendimiento o utilidad que pueda gene-rar ese inmueble a la actividad del sujeto pasivo, y así a éste, rendimiento in-tegrado dentro del resultado global de la actividad económica y que, como parte de ese resultado global – aunque no sea susceptible de individuali-zación o de gravamen individualizado –, es gravado en el correspondiente impuesto estatal: IRPF o Impuesto sobre Sociedades.

De todos modos, volvemos a reiterar, el concepto de gasto necesario pa-ra obtener los rendimientos siguió apareciendo, en relación a los rendimien-tos de inmuebles arrendados, en el artículo 35.A) de la Ley 18/1991, sin pe-rjuicio de su concreción reglamentaria que ya hemos visto. Y en relación a los rendimientos procedentes de inmuebles arrendados, la solución siguió sien-do la misma con la Ley 40/1998 y sigue siendo la misma con la Ley 35/2006, continuando con la deducción del IBI de los rendimientos íntegros para calcular los rendimientos netos.

Así pues, es la consideración de la cuota del IBI como gasto deducible para el cálculo de los rendimientos netos en los impuestos estatales el mecani-

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smo que nuestro Derecho ha venido arbitrando para atenuar la doble impo-sición entre los mismos. Ya hemos hecho referencia a la incoherencia con-ceptual de tal solución. De todas formas, no es una medida que pueda servir para eliminar la doble imposición entre los mencionados impuestos, sino simplemente una medida que sirve para atenuarla.

Pero esa posibilidad de deducción del IBI como gasto (en base) en el IRPF que existía con la Ley 18/1991, desapareció para la imputación de rentas in-mobiliarias con la Ley 40/1998 y tampoco se contempla en la Ley 35/2006, si bien es cierto que el referido problema de la doble imposición quedó sólo para la segunda vivienda, ya que desde el 1 de enero de 1999 por la vivienda habitual no se computa imputación de rentas inmobiliarias en el IRPF.

B) Propuesta de solución

Desaparecería la doble imposición a que venimos haciendo referencia si el gravamen de la riqueza inmobiliaria se atribuyese con carácter exclusivo sólo al Estado o solamente a las Corporaciones Locales. Lo primero signifi-caría la desaparición del IBI, lo cual, dado que éste constituye uno de los elementos esenciales del sistema de financiación municipal, parece en prin-cipio rechazable. Lo segundo rompería la unidad del concepto de renta en los impuestos estatales, perdiéndose con ello la consideración global sobre la renta en unos impuestos globales, generales y personales

37 con los que se pretende precisamente medir la total capacidad económica que tales mani-festaciones revelan en el sujeto pasivo; por ello, a primera vista, parece tam-bién rechazable.

Por otra parte, si se arbitrase la deducción de la cuota del IBI en la cuota del IRPF se eliminaría totalmente la doble imposición. Ahora bien, se ha di-scutido sobre si esta medida sería la más conveniente para actuar contra la citada doble imposición; y es más, en definitiva, se ha discutido sobre si está justificada la existencia de tal doble imposición.

Así, ante la forma en que se ha venido deduciendo el IBI, en sede de ren-dimientos, en los mencionados impuestos estatales, y que de esa manera la citada doble imposición no quedase eliminada, sino sólo «ligeramente mi-tigada», ha señalado Simòn Acosta que «este sistema tiene una ventaja para el Estado: que no pierde la materia imponible, sino que se limita a compar-tirla con los municipios. Si el impuesto municipal fuera deducible de la cuo-

37 A excepción del Impuesto sobre la Renta de No Residentes, Impuesto esencialmente de naturaleza real.

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ta del impuesto estatal, los municipios podrían vaciar la recaudación que el Estado obtiene por estos conceptos. Es más, de este modo se induciría a los municipios a hacer uso de todas sus facultades impositivas, estableciendo el tipo de gravamen máximo posible, porque la mayor recaudación no se tra-duciría en un aumento efectivo de las cuotas a pagar por los electores con-tribuyentes, sino en una simple disminución de la recaudación estatal»

38. Añade al respecto este autor que la deducción del IBI en la cuota de los im-puestos estatales eliminaría «la responsabilidad del municipio frente al con-tribuyente, pues quien acaba soportando la carga del impuesto local es el presupuesto del Estado». De otro lado, señala este autor que «el que los in-muebles (o su renta) soporten una cuota suplementaria se justifica por el principio del beneficio pues, como hemos dicho, en el fundamento de la tri-butación local de los bienes inmuebles y muy especialmente en el de los bie-nes inmuebles urbanos, se encuentran los gastos realizados por los Ayunta-mientos, de los que se benefician los propietarios de bienes radicados en el término municipal». Como razón de peso contra la mencionada deducción en cuota destaca Simòn Acosta que «si el Impuesto sobre Bienes Inmuebles se dedujera de la cuota del IRPF, sólo se beneficiarían de la deducción quie-nes tuvieran en el impuesto estatal cuota de cuantía suficiente para absorber el impuesto municipal. Las personas de baja renta y las no obligadas a pagar (de facto, las no obligadas a declarar) el IRPF no podrían deducir el Impue-sto sobre Bienes Inmuebles». Y por último, como argumento en contra de tal deducción en cuota señala este autor que «si la cuota deducible no pu-diera exceder de la parte de cuota íntegra del IRPF imputable a las rentas procedentes de los bienes inmuebles, esta condición dificultaría la práctica de las deducciones, pues si bien sería posible conocer la parte de cuota del IRPF imputable a los rendimientos de capital, no sería posible desglosar la correspondiente a las rentas imputables a inmuebles afectos a actividades económicas, dado que en tales casos la renta del bien inmueble está integra-da y es inseparable de la renta empresarial». Por todas estas razones este au-tor ve en principio desaconsejable la citada deducción en cuota. Ahora bien, señala Simón Acosta que tales razones «no la desaconsejan radical y absolu-tamente», añadiendo que «podría llegarse a una solución intermedia que

38 Hay que tener en cuenta que, más allá del tiempo en que el citado autor escribía, con el actual sistema de financiación autonómica, en el que una parte de la cuota del IRPF se encuentra cedida a la Comunidad Autónoma en la que el sujeto pasivo tiene su residencia, si se permitiese la deducción de la cuota del IBI en la cuota del IRPF podrían perder ingre-sos por este concepto tanto el Estado, como las Comunidades Autónomas, salvo que el IBI sólo se dedujese de la cuota estatal y no de la cuota autonómica.

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conjugase mejor los factores que militan en pro y en contra de la deducción en cuota y no en base». Exponemos a continuación la solución que propo-ne y los argumentos que utiliza este autor

39. La solución que propone Simòn Acosta es «la de permitir la deducción

en la cuota del IRPF de la cuota del Impuesto sobre Bienes Inmuebles resul-tante de la aplicación de los tipos impositivos mínimos, obligatorios en todo el territorio nacional. El exceso, es decir, la parte del impuesto de la que es responsable el Ayuntamiento frente a sus electores, sólo sería deducible en base». Frente al argumento en contra de la deducción en cuota que hemos visto que representaría «la eliminación del incentivo de responsabilidad del Ayuntamiento ante sus electores», destaca este autor que «este argumento no es obstáculo frente a la deducción que proponemos pues la cuota dedu-cible sería sólo la que ha sido ordenada y dispuesta por el Estado con ca-rácter general. La cuota establecida por el Ayuntamiento se deduciría sólo de la base imponible del IRPF». A continuación señala este autor que «la sobreimposición de los bienes inmuebles – especialmente los urbanos – se justifica por los especiales gastos del municipio en beneficio de la propie-dad. Ahora bien, este argumento encuentra toda su razón de ser en la parte de cuota que es impuesta por el Ayuntamiento, pero no para la que con ca-rácter general se paga en todos los municipios españoles por decisión esta-tal. Lo lógico es justamente lo contrario: para esa cuota general debería evi-tarse la doble imposición, consintiendo a los contribuyentes rebajar la cuota del impuesto estatal con la que todos pagan a nivel municipal, cualquiera que sea el lugar donde estén ubicados los inmuebles. De este modo se logra un mayor grado de personalización del impuesto, permaneciendo sólo co-mo impuesto real o de producto la parte de cuota que el Ayuntamiento esta-blece mediante elevaciones de los tipos mínimos previstos en la Ley. La so-breimposición de los bienes inmuebles quedaría reducida a la cuota que es de responsabilidad municipal: esta sobrecuota es justamente la que tiene por causa los mayores gastos que el Ayuntamiento pueda realizar sobre el nivel ordinario de gastos que le permita efectuar la financiación de la que no re-sponde directamente ante su electorado». Seguidamente, Simòn Acosta, en relación al argumento consistente en que los contribuyentes sin suficiente cuota en el IRPF no podrían beneficiarse de la citada deducción, señala que el mismo «sólo es relativamente cierto». Señala este autor que «el que lo

39 Las razones vistas y la solución y argumentos que a continuación se reproducen, son expuestos por SIMÒN ACOSTA, en El Proyecto de Ley reguladora de las Haciendas Locales, cit., pp. 45-48.

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sea o no, depende de que la deducción que se consienta esté o no limitada por el importe de la parte de cuota del impuesto estatal imputable a los bie-nes inmuebles. Para resolver la cuestión podría concederse el derecho a la devolución del exceso de cuota municipal sobre la cuota estatal, de forma que la cantidad deducible recibiera el mismo tratamiento que tiene la de-ducción de las retenciones y los pagos a cuenta. Si la cuota deducible se con-figurase como un pago a cuenta del impuesto estatal, esta dificultad habría desaparecido. Si no se hiciera así, el impuesto municipal sería una especie de cuota mínima a la que quedaría sujeta la renta de bienes inmuebles. El con-figurar el impuesto de una u otra forma – ambas serían admisibles – depen-dería de la voluntad del legislador». Por último, señala a este respecto Si-món Acosta que «sería difícil desglosar la cuota correspondiente a los bie-nes inmuebles en el IRPF, por desconocerse la renta atribuible a los inmue-bles afectos a explotaciones. Esta dificultad podría salvarse imputando a ta-les bienes, a efectos de este cálculo, una cantidad de renta objetivamente de-terminada, del mismo modo que en el IRPF se imputa renta con criterios objetivos a los inmuebles no arrendados ni subarrendados».

Así pues, ante tales argumentos – que hemos reproducido literalmente, dada la profundidad e importancia en este tema del estudio del citado autor –, no podemos sino adherirnos a esta posición, en base a la cual, de lege feren-da, sería deseable que en relación a los impuestos estatales sobre la renta se permita la deducción de las cuotas del IBI en la cuota de aquéllos (entende-mos que en la cuota líquida para calcular la cuota diferencial

40, según lo ex-puesto supra, dada la naturaleza impositiva del IBI) sólo hasta el límite míni-mo que fija el TRLRHL y en lo que excedan del mismo entendemos que la deducción debería realizarse en la base por las razones apuntadas. Eso sí, dadas las razones que hemos expuesto criticando la consideración de las cuo-tas por el mencionado Impuesto local como gasto necesario para la obten-ción de los ingresos y así deducibles por este concepto, entendemos que la deducción del mencionado exceso – establecido por los Ayuntamientos, aun-que dentro de los límites que fija el TRLRHL – sobre la cuota mínima – re-sultante del tipo de gravamen mínimo establecido por el citado TRLRHL – debería deducirse de la base imponible para calcular la base liquidable y no directamente del importe imputado. Se trataría con ello de respetar la lógica conceptual apuntada supra.

40 Aunque no diese derecho a devolución por sí misma, como tampoco sucede, por ejemplo, con la deducción para evitar la doble imposición internacional, a diferencia de lo que ocurre con los pagos a cuenta.

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Recapitulando, lo que ocurrió con la Ley 40/1998 y se ha mantenido en la Ley 35/2006, es que para esta imputación de rentas inmobiliarias, frente a lo que sucedía con la Ley 18/1991 en relación a los rendimientos del capital inmobiliario procedentes de inmuebles urbanos de uso propio, ha desapa-recido la previsión de la deducción de las cuotas del IBI para determinar el importe de la renta imputada a incluir en la base imponible, lo cual resulta bastante criticable dado que agrava la confluencia de este Impuesto con el IRPF en tales casos. De todas formas, hay que resaltar que, como hemos vi-sto, la vivienda habitual dejó de generar las citadas rentas potenciales, o sea, no va a generar esa imputación de rentas, quedando ya al margen de la cita-da problemática de la confluencia de los gravámenes mencionados. Es decir, desapareció la citada doble imposición en materia de vivienda habitual, da-do que por ésta no se va a dar una imputación de rentas inmobiliarias

41, pe-ro se agravó tal doble imposición en los casos en que sí se dé esa imputación, puesto que ya no se permite, en relación a los inmuebles que la generan, la deducción del IBI ni siquiera para determinar la renta gravable en el IRPF. Así, nos encontramos con un panorama muy diferente del que supondría la existencia de la deducción en cuota que proponemos.

9. Consideraciones sobre otro tipo de rentas u otros impuestos

Aunque con ciertas diferencias, un problema parecido al que hemos visto en el IRPF en relación a la imputación de rentas inmobiliarias, se daría tam-bién en relación a los rendimientos del capital inmobiliario e incluso con re-specto a los inmuebles afectos al desarrollo de actividades económicas. En-tendemos que en estos otros casos también se debería permitir la deducción de las cuotas del IBI en la cuota del IRPF, al menos hasta el límite que pro-ponemos y ello a pesar de que en estos casos quepa la deducción de las cuo-tas de este Impuesto local como gasto en la base del IRPF; aquello en lo que la cuota del Impuesto local superase el mínimo expuesto derivado de la norma estatal, se podría seguir deduciendo dicho exceso de esa misma for-ma en la base del impuesto estatal.

Ahora bien, fijándonos en otros impuestos, en el caso de la imputación de rentas inmobiliarias, ésta no existe en el Impuesto sobre Sociedades, pe-ro en relación a inmuebles arrendados o afectos a la actividad de la entidad,

41 Obviamente, en función de ello, no tendría sentido extender la deducción del IBI a los supuestos de vivienda habitual.

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se podrían arbitrar también en este otro Impuesto estatal soluciones similares a las que proponemos para el IRPF sobre la deducción en la cuota del im-puesto estatal de la cuota del impuesto local, aunque limitada en su importe. Sí existe la imputación de rentas inmobiliarias en el Impuesto sobre la Renta de No Residentes, pero sólo para las personas físicas, supuesto en el cual se deberían establecer las mismas medidas que hemos propuesto en relación al IRPF.

10. Reflexión final

Ante la crisis económica que afecta a los distintos tipos de entes públicos, éstos haciendo uso de su autonomía financiera y con corresponsabilidad fi-scal, deberán asumir en muchos casos la elevación de tipos de gravamen. Es el caso de los municipios en relación al IBI, pues en la mayoría de aquéllos se está bastante por debajo del tipo máximo que permite el TRLRHL. Ahora bien, cuando una Corporación Local intenta incrementar el tipo de grava-men del IBI dentro de los límites recogidos en el TRLRHL, se encuentra con que tal subida impositiva suele producir en la población un impacto más acu-sado de lo habitual, en atención a que la riqueza inmobiliaria, como hemos visto, está sometida a una importante plurimposición, que determina una gran carga impositiva.

Tengamos presente que resulta muy fácil para los entes públicos cargar impositivamente los inmuebles, pues, por muy elevada que sea su presión fi-scal, al menos los terrenos no pueden desaparecer. Por todo ello, resulta más evidente la necesidad de solucionar la doble imposición entre el IBI y la im-posición estatal sobre la renta de la manera expuesta. Con ello, las Corpora-ciones Locales podrían asumir con mayor convencimiento ante la población la decisión de incrementar, en su caso, los tipos de gravamen del IBI, dentro de los límites marcados por el TRLRHL.

Más aun, el incremento extraordinario establecido por el Estado en el gra-vamen por el IBI en relación a un sector de los inmuebles, ante la crisis econó-mica y la necesidad de solución del problema del déficit público local, pone de manifiesto cómo ha tenido que ser la responsabilidad estatal la que ha pro-piciado esos mayores ingresos públicos para los municipios de España.

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Antonio Marinello

I PROFILI FISCALI DEL FONDO PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA

TAX ISSUES RELATED TO FAMILY TRUST

Abstract L’esame dei profili fiscali relativi al fondo patrimoniale della famiglia solleva nu-merose questioni, sia di carattere applicativo che di ordine teorico. Tra queste, una delle questioni di maggior rilievo concerne la conformità rispetto all’art. 53 Cost. – con particolare riguardo al principio di personalità dell’imposizione ed al principio di progressività – del criterio di imputazione stabilito dall’art. 4, com-ma 1, del TUIR, in base al quale i redditi derivanti dai beni conferiti nel fondo patrimoniale devono essere imputati per metà del loro ammontare netto ai co-niugi, indipendentemente dalla titolarità giuridica dei beni medesimi. Una diversa problematica riguarda, poi, l’applicabilità ai crediti di natura tributa-ria dell’art. 170 c.c., ai sensi del quale l’esecuzione sui beni del fondo non può av-venire per i debiti che il creditore conosceva essere stati “contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. Parole chiave: fondo patrimoniale della famiglia, imputazione del reddito ai co-niugi, capacità contributiva, esecuzione sui beni del fondo, obbligazione d’imposta The analysis of tax implications related to the family trust (in Italian, fondo patri-moniale della famiglia) rises many applicative and theoretical issues. Among them, a highly important question concerns the compliance with Art. 53 of the Italian Consti-tution – with particular reference to the principle of personality of taxation and the principle of progressivity – of the criterion of imputation provided by Art. 4, para. 1, Income Tax Consolidation Act, according to which the income produced by assets be-longing to the family trust shall be fictitiously referred for half of its amount to each spouse, regardless of the legal ownership. A different problem refers to the enforcement of tax obligations provided by Art. 170 Civil Code, according to which the forced tax collection on assets belonging to the family trust is prohibited for debts that the credi-tor knew that were “contracted for purposes different from family needs”.

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Keywords: family trust, spouses’ income imputation, ability to pay, forced tax collec-tion on family trust’s assets, tax obligation

SOMMARIO: 1. Il fondo patrimoniale della famiglia: premessa e delimitazione dell’indagine. – 2. Brevi cenni alla disciplina civilistica del fondo patrimoniale. – 3. Il fondo patrimoniale nelle imposte sul reddito e la dubbia conformità costituzionale dell’imputazione ai coniugi dei redditi prodotti dai beni costituiti in fondo. – 4. Il fondo patrimoniale nelle imposte indirette. – 5. Il fondo patri-moniale e la responsabilità: l’esclusione dei debiti tributari dalla limitazione dell’art. 170 c.c. – 6. Se-gue: La natura ex lege dell’obbligazione d’imposta e la sua estraneità ai “bisogni della famiglia”.

1. Il fondo patrimoniale della famiglia: premessa e delimitazione dell’indagine

L’esame dei profili fiscali relativi al fondo patrimoniale della famiglia è sta-to frequentemente condotto con esclusivo riferimento all’imposizione indi-retta. Specie la giurisprudenza, infatti, si è soffermata sulle questioni con-cernenti la registrazione dell’atto di costituzione del fondo medesimo e sul suo regime impositivo.

Lo scarso approfondimento delle ulteriori implicazioni tributarie si deve, probabilmente, anche ad un motivo contingente, costituito dalla progressi-va diffusione di strumenti giuridici considerati – a torto o a ragione – come “alternativi” ad esso, quali il trust e i negozi tipici e atipici di destinazione pa-trimoniale.

Ciò nonostante, a me pare che la disciplina tributaria di questo istituto meriti di essere ripresa in considerazione, sia per le sue concrete ricadute sul piano della tutela dei diritti dei terzi creditori, sia per questioni di ordine co-stituzionale che nascono da un’attenta interpretazione dell’art. 4 T.U. delle imposte sui redditi. Ed invero, accanto al nervo scoperto della disciplina dettata dall’art. 170 c.c. sulla limitazione della responsabilità conseguente al vincolo di destinazione impresso ai beni costituiti in fondo, vi è quello della conformità all’art. 53 Cost. del regime d’imputazione ai coniugi del reddito che da tali beni deriva.

È su questi aspetti, dunque, che intendo intrattenermi e sui quali mi pro-pongo di svolgere alcune riflessioni di carattere sistematico.

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Antonio Marinello

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2. Brevi cenni alla disciplina civilistica del fondo patrimoniale

Ritengo opportuno richiamare, preliminarmente, la normazione riguar-dante il fondo contemplata nel codice civile. Ai sensi dell’art. 167, comma 1, ciascuno o entrambi i coniugi (per atto pubblico), o un terzo (per atto pub-blico o per testamento) possono costituire un fondo patrimoniale destinan-do determinati beni – immobili o mobili iscritti in pubblici registri, o anche titoli di credito – al soddisfacimento dei bisogni della famiglia

1. Qualora la costituzione avvenga per atto tra vivi e su iniziativa di un ter-

zo, ai fini del suo perfezionamento si rende necessaria l’accettazione dei co-niugi (art. 167, comma 2, c.c.).

Si tratta, com’è facile comprendere, di uno strumento che riproduce, con adattamenti ad una più moderna concezione della famiglia, lo schema tipico di antiche strutture, quali la dote o il patrimonio familiare, che rispondeva-no all’esigenza di assicurare alla famiglia una base patrimoniale dotata di stabilità

2.

1 Per ulteriori approfondimenti, si rinvia, senza alcuna pretesa di completezza, a DE PAOLA-MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, p. 228 ss.; CIAN-CASAROTTO, Fondo patrimoniale della famiglia, in Noviss. Dig. it., 1982, app. III, p. 825 ss.; GABRIELLI, Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, in Enc. dir., XXXII, 1982, p. 293 ss.; CARRESI, Fondo patrimoniale, in Enc. giur., XIV, 1989, p. 1 ss.; AULETTA, Il fondo patrimo-niale, Milano, 1990, p. 7 ss.; QUADRI, Fondo patrimoniale, in Enc. giur. Treccani, XVI, 2007, p. 1 ss.; DEMARCHI ALBENGO, Il fondo patrimoniale, Milano, 2011, 73 ss.

2 In proposito, non si può non rammentare che in un passato non troppo lontano il ruolo dei coniugi all’interno della famiglia era rigidamente scandito da consuetudini seco-lari ampiamente recepite nella normativa civilistica di riferimento. In particolare, la dote consisteva nel complesso di beni che la moglie, o altri appartenenti al suo nucleo familiare di origine, era tenuta ad apportare al marito ad sustinenda onera matrimonii, garantendo così al nucleo familiare una base patrimoniale il cui regime giuridico esprimeva in pieno il predominio del marito anche nell’amministrazione dei beni che sostanzialmente apparte-nevano alla moglie. Sul piano, poi, degli apporti patrimoniali in costanza di matrimonio, l’attività esterna, lucrativa, del marito si integrava con le cure del menage familiare attribui-te alla moglie: il marito era tenuto al mantenimento della moglie restando a quest’ultima soltanto una eventuale contribuzione in caso di necessità. Per più ampie considerazioni sull’evoluzione del regime patrimoniale della famiglia, rinvio a GALASSO, Regime patrimo-niale della famiglia, I, in AA.VV., Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di Galgano, Bologna-Roma, 2003, p. 105 ss.; SATURNO, Il fondo patrimoniale, in AA.VV., Il diritto di famiglia. I rapporti patrimoniali, l’impresa familiare e il patto di famiglia, diretto da Autorino Stanzione, Torino, 2011, p. 338; AULETTA, Il fondo patrimoniale, in AA.VV., Il diritto di famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia, diretto da Bonilini-Cattaneo, conti-nuato da Bonilini, Torino, 2007, p. 388 ss. L’istituto del fondo patrimoniale ha sostituito quello del patrimonio familiare previsto dal codice civile anteriormente alla riforma del

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Analogamente a quanto si può osservare per la comunione legale, peral-tro, la costituzione del fondo patrimoniale e l’adozione del regime patrimo-niale che ne consegue non si traducono nella nascita di un nuovo soggetto giuridico o di un nuovo centro di imputazione di situazioni giuridiche sog-gettive: la proprietà dei beni costituiti in fondo non è attribuita ad un nuovo soggetto, ma può spettare ad entrambi i coniugi in quote eguali, oppure ad uno soltanto di essi, ovvero rimanere attribuita al terzo costituente, salvo che non sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione (art. 168, comma 1); mentre l’amministrazione dei beni confluiti nel fondo è regolata dalle nor-me relative all’amministrazione della comunione legale

3. Se, come detto, la proprietà dei beni può spettare ad entrambi i coniugi

oppure in via esclusiva ad uno di essi o ad un terzo, anche estraneo al nucleo familiare

4, emerge comunque un tratto comune che vale a caratterizzare l’i-stituto: si tratta del “vincolo di destinazione” al quale sono sottoposti tali diritto di famiglia: del patrimonio familiare il fondo ha conservato l’idea essenziale del vin-colo dei beni per i bisogni della famiglia, anche dopo lo scioglimento del matrimonio. A differenza del fondo patrimoniale, il vecchio istituto ammetteva peraltro la costituzione del vincolo da parte del coniuge proprietario e la gestione separata dei beni da parte del coniuge che ne fosse proprietario o che fosse unico beneficiario dell’assegnazione effettua-ta da un terzo. Il fondo patrimoniale, invece, richiede in ogni caso l’accordo dei coniugi per la costituzione del vincolo e affida sempre ad entrambi la gestione dei beni e, quantomeno in questa prospettiva, rappresenta il frutto di una impostazione egualitaria della famiglia, che prende il posto dell’antica concezione gerarchica e unilaterale. In merito, si vedano GABRIELLI, op. cit., p. 293; DEMARCHI ALBENGO, op. cit., p. 11 ss.

3 V. GIOVANNINI, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, p. 201 ss. 4 Secondo GABRIELLI, op. cit., p. 295, la circostanza che sia senz’altro lecito attribuire o

riservare la proprietà dei beni a persona diversa dai coniugi dimostra che il legislatore ha inteso modulare la destinazione familiare del fondo «in due forme di diversa intensità: in modo più pieno, quando i coniugi siano anche proprietari, potendo in tal caso l’impiego dei beni per il soddisfacimento dei bisogni familiari spingersi fino all’alienazione o consu-mazione dei medesimi; in forma evidentemente più ridotta, quando occorra rispettare la nuda proprietà di altro soggetto, destinata a riespandersi in coincidenza con il verificarsi d’una causa di cessazione del fondo». Più di recente, si veda in proposito QUADRI, Fondo patrimoniale, cit., p. 2; TURCHI, La famiglia nell’ordinamento tributario, Torino, 2012, p. 197. La dottrina civilistica discute da tempo in merito all’esatta definizione di queste fatti-specie e, in particolare, agli effetti che si producono nei casi in cui il coniuge proprietario esclusivo conferisca al fondo determinati beni o diritti riservandosene la proprietà: ad una prima opinione, secondo cui il conferimento al fondo determina in favore dell’altro coniu-ge l’attribuzione di un diritto reale di godimento (tipico o sui generis), si contrappone in-fatti l’idea che da tale conferimento deriverebbero meri poteri gestionali connessi alla na-tura reale del vincolo di destinazione impresso ai beni. In merito a questo dibattito, v. SA-TURNO, op. cit., p. 344 ss.; DEMARCHI ALBENGO, op. cit., p. 191 ss.

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beni a prescindere dalla loro effettiva titolarità giuridica, individuabile nel “soddisfacimento dei bisogni della famiglia”.

Una convenzione matrimoniale, dunque, da cui discende un regime pa-trimoniale ibrido, a mezza strada tra quelli propri della famiglia e i patrimoni destinati, in questo caso vincolato al soddisfacimento delle necessità familiari.

E in linea con quanto sinora ricordato, in virtù del vincolo di destinazio-ne impresso sui beni e diritti costituiti in fondo, anche i relativi frutti posso-no essere impiegati esclusivamente per soddisfare le necessità del nucleo (art. 168, comma 3).

Sulla base della previsione generale recata dall’art. 167, i frutti del fondo possono derivare da beni immobili, da beni mobili iscritti nei pubblici regi-stri o da titoli di credito: potrà trattarsi, dunque, dei frutti naturali o civili di terreni o fabbricati, di proventi derivanti dallo sfruttamento economico di marchi, brevetti e simili, dagli utili percepiti a fronte del possesso di azioni o di altri strumenti finanziari inquadrabili tra i titoli di credito

5. Per completare il quadro dei beni (e relativi frutti) che possono essere

compresi nel fondo, una questione assai delicata si pone con riguardo all’a-zienda.

A questo riguardo, occorre muovere dalla premessa, ampiamente condi-visa dalla dottrina privatistica, secondo la quale «il complesso dei beni or-ganizzati dall’imprenditore» cui si riferisce l’art. 2555 c.c. non ha, giuridica-mente, una propria “legge di circolazione”, ma circola secondo le forme pro-prie dei singoli beni

6. E dunque, se da un lato si tende coerentemente ad escludere che il com-

plesso dei beni aziendali possa essere oggetto di autonomo ed unitario con-ferimento al fondo patrimoniale, in quanto tale possibilità è esplicitamente

5 Qualche dubbio è stato sollevato in merito alla possibilità di conferire al fondo patri-moniale le quote di società a responsabilità limitata. In proposito, se è vero che non si trat-ta di titoli di credito, è vero altresì che il regime di pubblicità cui è soggetta la circolazione delle quote consente di considerarle alla stregua di beni mobili iscritti in pubblici registri, con la conseguente possibilità che anche tali quote possano essere costituite in fondo. In termini generali, sulla natura di “bene mobile registrato sui generis” della quota di società a responsabilità limitata, caratterizzata dalla «immaterialità del contenuto e della rappresen-tatività di una posizione giuridica societaria», si veda SANTOSUOSSO, La riforma del diritto societario, Milano, 2003, p. 208. Sul tema specifico della conferibilità delle quote al fondo patrimoniale, CENNI, Il fondo patrimoniale, in AA.VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, a cura di Anelli-Sesta, Milano, 2002, p. 708; QUADRI, Fondo patrimoniale, cit., p. 5; PERRONE, Profili tributari del fondo patrimoniale, in Rass. trib., 2008, p. 1543; DEMARCHI ALBENGO, op. cit., pp. 162-163.

6 V. per tutti GALGANO, Diritto privato, Padova, 2010, p. 491.

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ammessa soltanto per i beni assoggettati ad uno specifico regime di pubblici-tà

7, si deve, per converso, ammettere che un singolo bene aziendale, rien-trante nella categorie contemplate dall’art. 167, possa essere destinato al fondo

8. Centrale, poi, è la disposizione dell’art. 170, la quale, per rafforzare la pos-

sibilità per la famiglia di trovare credito presso terzi, introduce una deroga al principio generale della responsabilità patrimoniale del debitore. Per l’art. 170, infatti, «l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi e-stranei ai bisogni della famiglia»

9. I beni del fondo e i loro frutti, in sostanza, sono sottratti all’azione esecutiva dei creditori generali e potranno dunque essere aggrediti soltanto da quei creditori le cui ragioni siano strettamente collegate ad obbligazioni assunte dai coniugi nell’esclusivo interesse della famiglia.

7 In tal senso, si veda GABRIELLI, op. cit., p. 313, nonché PERRONE, Profili tributari, cit., pp. 1543-1544. La tesi della conferibilità dell’azienda, unitariamente considerata, al fondo patrimoniale ha trovato isolati sostenitori, tra cui MAZZOCCA, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1977, p. 48 e, in una prospettiva diversa, A. FI-NOCCHIARO-M. FINOCCHIARO, Riforma del diritto di famiglia, Milano, I, 1975, III, p. 397, nota 12, i quali ipotizzano la destinazione unitaria al fondo dell’intero complesso azienda-le, ma con effetti differenziati sui singoli beni che lo compongono, nel senso che il vincolo di destinazione sorgerebbe unicamente in relazione ai beni immobili, mobili registrati o titoli di credito eventualmente compresi nell’azienda.

8 Ammettono esplicitamente questa possibilità AULETTA, Il fondo patrimoniale, Milano, cit., p. 107; FEDELE, Destinazione patrimoniale: criteri interpretativi e prospettive di evoluzione del sistema tributario, in AA.VV., Destinazione di beni allo scopo, Atti della giornata di studio organizzata dal Consiglio nazionale del notariato, Roma 19 giugno 2003, Milano, 2003, p. 311; PERRONE, Profili tributari, cit., p. 1543.

9 Rispetto a quanto precedentemente previsto per l’istituto del patrimonio familiare, si può osservare come il vincolo di destinazione impresso sui beni del fondo patrimoniale risulti sensibilmente allentato, posto che il vecchio istituto sottraeva in ogni caso i beni alla garanzia dei creditori, i quali potevano assoggettarne ad esecuzione solamente i frutti, ed esclusivamente in relazione a debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Nella formulazione attuale dell’art. 170, l’aggressio-ne da parte dei creditori è invece possibile, sia pure nei limiti dettati dalla norma, anche sui beni oggetto del fondo.

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3. Il fondo patrimoniale nelle imposte sul reddito e la dubbia conformità co-stituzionale dell’imputazione ai coniugi dei redditi prodotti dai beni costi-tuiti in fondo

I richiami fin qui compiuti agevolano l’esame della normazione tributaria relativa al fondo, ad iniziare da quella dettata dal Testo Unico delle imposte sui redditi. Ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. b) del D.P.R. n. 917/1986, i redditi dei beni che formano oggetto del fondo sono imputati per metà del loro ammontare netto a ciascuno dei coniugi

10.

10 Volgendo lo sguardo alle singole categorie di reddito, in considerazione della tipolo-gia di beni espressamente richiamati dall’art. 167 c.c. (beni immobili, beni mobili iscritti in pubblici registri, titoli di credito), l’imputazione per metà stabilita dall’art. 4, comma 1, lett. b), potrà avere ad oggetto, a seconda dei casi: redditi di natura fondiaria; utili da par-tecipazione o altri redditi di capitale derivanti dal possesso di azioni o di altri strumenti fi-nanziari inquadrabili tra i titoli di credito; redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo, nel caso di proventi derivanti dallo sfruttamento economico di marchi, brevetti e simili; redditi diversi, nelle ipotesi di cessione a titolo oneroso dei beni conferiti al fondo. Quanto ai redditi di natura fondiaria, l’imputazione per metà ai coniugi del reddito degli immobili, anche nelle ipotesi in cui gli stessi non vantino alcun diritto reale sui beni, parrebbe porsi in contrasto con l’art. 26, comma 1, T.U., che riferisce i redditi fondiari ai soggetti che «possiedono gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto, o altro diritto reale». In realtà, se solo si riflette sul rapporto intercorrente tra le due disposizioni e sul rispettivo ambito di applicazione, ci si rende conto che l’art. 26 fissa un criterio di carattere generale per i redditi riconducibili alla categoria in questione, che fa corrispondere alla titolarità del diritto reale sul bene immobile la riferibilità soggettiva del relativo reddito; mentre l’art. 4, comma 1, lett. b) disciplina una ipotesi specifica, nella quale, a prescindere da ogni consi-derazione in merito alla effettiva titolarità degli immobili, il reddito viene in ogni caso im-putato ai coniugi in ragione del peculiare vincolo di destinazione impresso su tali beni e del potere di disporre della fonte reddituale che da tale vincolo trae origine (in senso ana-logo, PERRONE, Profili tributari, cit., p. 1546 ss.; TURCHI, La famiglia, cit., pp. 201-202). A proposito dei redditi diversi, e più precisamente delle plusvalenze realizzate ai sensi degli artt. 67 e 68 del TUIR a seguito della cessione onerosa di beni destinati a fondo patrimo-niale, si è ritenuto in passato che esse dovrebbero essere riferite (per intero o pro quota) ai proprietari dei beni immobili o ai titolari degli strumenti finanziari ceduti (nel caso, ov-viamente, in cui si tratti di soggetti diversi dai coniugi), in ragione del fatto che, a seguito della cessione, il bene verrebbe a perdere in via definitiva la propria destinazione funziona-le ai bisogni della famiglia (la tesi è sostenuta da NAPOLITANO, Commento all’art. 4, in AA.VV., Commentario al testo unico delle imposte sui redditi, Roma, 1988, p. 77). A ben ve-dere, però, mi pare che questa ricostruzione strida, da un lato con la ratio posta alla base dell’art. 4, comma 1, lett. b) e, dall’altro, con le disposizioni civilistiche relative alla destina-zione ai bisogni della famiglia dei frutti dei beni conferiti al fondo. Anche il prezzo derivan-te dalla cessione del bene immobile o dello strumento finanziario (e dunque, anche l’even-tuale differenziale positivo rispetto al costo sostenuto per l’acquisto o la sottoscrizione) deve essere impiegato per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia al pari di ogni altro

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Si tratta di una disposizione che riecheggia la struttura civilistica dell’isti-tuto e che, muovendo dall’esistenza di quel peculiare vincolo di destinazio-ne sul quale ci siamo appena soffermati, valorizza il potere di disporre della fonte reddituale nell’interesse esclusivo della famiglia, a prescindere dalla ti-tolarità giuridica sulla medesima

11. Sul punto, il dettato normativo non lascia spazio a dubbi. Ai fini dell’indi-

viduazione dei soggetti passivi d’imposta e della ripartizione del relativo ca-rico fiscale, non assume rilievo l’effettiva titolarità dei beni che costituiscono il fondo, ma, al contrario, è determinante il potere di amministrarli e gestirli, riconosciuto in egual misura ai coniugi.

Il principio di “contitolarità” della fonte deve dunque essere letto in una prospettiva funzionale

12. Ai fini della relativa imputazione fiscale, i coniugi frutto naturale o civile, periodico od occasionale e va coerentemente imputato ai coniugi secondo il criterio stabilito per gli altri redditi prodotti dai beni del fondo (in senso con-forme, SCHIAVOLIN, I soggetti passivi, in AA.VV., L’imposta sul reddito delle persone fisiche. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, Torino, 1994, I, p. 118; PERRONE, Profili tributari, cit., p. 1547; LEO, Le imposte sul reddito nel Testo unico, I, Milano, 2010, 86; TURCHI, La famiglia, cit., p. 203).

11 Sul vincolo di destinazione che caratterizza i beni conferiti al fondo patrimoniale e sugli effetti che ne derivano in termini di imputazione del reddito, si vedano le osservazioni di GRANELLI, Profili civilistici e riflessi fiscali del nuovo diritto di famiglia, in Boll. trib., 1977, p. 1421; SCHIAVOLIN, op. cit., p. 116 ss.; TURCHI, Imputazione dei redditi e comunione dei beni fra coniugi. Considerazioni sull’art. 4 del Testo unico, in Rass. trib., 2013, p. 150 ss., specie p. 151. In termini più generali, sul “possesso” del reddito quale potere di disporre della fonte reddituale, MICCINESI, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, pp. 89-92; ID., Reddito delle persone fisiche (imposta sul), in Dig. disc. priv., sez. comm., XII, 1996, p. 176; TOSI, La nozione di reddito, in AA.VV., L’imposta sul reddito delle persone fisiche, cit., p. 47; NUSSI, L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, pp. 370 ss.; PAPARELLA, Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, p. 157.

12 In proposito, si può osservare che, in un contesto normativo che tende ormai siste-maticamente a svalutare la famiglia come destinatario di politiche fiscali di favore o, quan-tomeno, di attenzione, il ricorso al fondo patrimoniale offre certamente una interessante possibilità di “redistribuzione reddituale” tra i coniugi, giustificata dalla comune destina-zione delle risorse al sostentamento della famiglia.

Il criterio di imputazione previsto dall’art. 4, comma 1, lett. b), T.U. consente ai coniu-gi di ripartire in parti eguali i redditi vincolati al soddisfacimento delle necessità familiari senza intaccare gli assetti proprietari sottostanti ed evitando al contempo onerosi negozi di trasferimento della titolarità dei beni.

Certo è che, ragionando in questa prospettiva, è quantomeno paradossale che a con-sentire una forma di “pianificazione fiscale familiare” tanto incisiva sia un istituto giuridico di così risalente tradizione ma di altrettanto scarsa diffusione pratica, nato in contesto so-cio-economico radicalmente differente da quello attuale e modellato dal legislatore dell’e-poca sulla base di esigenze di tutela e rafforzamento del patrimonio familiare alle quali era

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risultano “contitolari” dei redditi generati dai beni in fondo non solo quan-do questi sono di loro comune proprietà, ma anche quando essi sono desti-nati al fondo da un terzo o da uno solo dei coniugi che ne mantiene la pro-prietà esclusiva: ciò in quanto, anche in queste ultime ipotesi, le utilità ritrat-te dai beni sono funzionalmente collegate all’esclusivo soddisfacimento dei bisogni del nucleo

13. E, d’altra parte, ulteriore conferma del fatto che l’imputazione del reddi-

to ai coniugi prescinde dalla titolarità civilistica dei beni è data dalla seconda parte della lett. b) del comma 1 del medesimo art. 4, laddove si precisa che nelle ipotesi in cui intervenga la cessazione del fondo patrimoniale ex art. 171, comma 2, c.c., i redditi degli stessi sono imputati per intero al coniuge superstite o al coniuge cui sia stata attribuita in via esclusiva l’amministra-zione del fondo.

Quanto sinora detto in tema d’imputazione del reddito consente di e-scludere, senza mezzi termini, la possibilità di attribuire al fondo patrimo-niale una autonoma soggettività tributaria

14. sostanzialmente estranea ogni valutazione di perequazione tributaria. Sul regime fiscale della famiglia si veda diffusamente TURCHI, La famiglia, cit., p. 59 ss. In merito alle pro-spettive di riforma, per considerazioni ancora attuali si vedano GALLO, Regime fiscale della famiglia e principio di capacità contributiva, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1977, I, p. 92 ss.; TOSI, Considerazioni sul regime fiscale della famiglia: discriminazioni ai danni delle famiglie mono-reddito, prospettive di riforma e problematiche di ordine costituzionale, in Rass. trib., 1988, p. 337 ss.; FILIPPI, Famiglia (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, XIV, 1989, p. 1; VISCO, Razio-nalità ed effetti della proposta di introduzione del quoziente familiare, in Riv. dir. trib., 1991, I, p. 27 ss. Più di recente, CAPOZZI, La famiglia nella riforma Irpef, in Riv. dir. trib., 2005, I, p. 333 ss.; GRIPPA SALVETTI, Famiglia (dir. trib.), in AA.VV., Dizionario di diritto pubblico, diretto da Cassese, III, Milano, 2006, p. 2437 ss. Per una approfondita ricostruzione stori-ca ed ulteriori spunti prospettici, anche in chiave comparatistica, si v. GIOVANNINI, Fami-glia e capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2013, p. 221 ss., specie p. 231.

13 Per considerazioni più ampie si veda TURCHI, La famiglia, cit., p. 196 ss. 14 Il pensiero corre alla disposizione residuale recata dal comma 2 dell’art. 73 del TUIR, a

mente del quale sono soggetti passivi dell’IRES anche «le altre organizzazioni non appar-tenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti dei quali il presupposto dell’imposta si verifi-ca in modo unitario e autonomo». Norma, quest’ultima che, nonostante la latitudine della formulazione, non appare idonea a comprendere il fondo patrimoniale tra i soggetti passivi di imposta in ragione del fatto che i redditi dei beni in esso compresi non sono né “unita-riamente”, né “autonomamente” riferibili al fondo, ma sono imputati ex lege ai coniugi in virtù dell’art. 4. V. al riguardo GRANELLI, op. cit., p. 1449; GRIPPA SALVETTI, Famiglia nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm., 1990, p. 488; SCHIAVOLIN, op. cit., p. 117; PERRONE, Profili tributari, cit., p. 1547. Per considerazioni più ampie, sul tema della sogget-tività tributaria, per tutti, v. GIOVANNINI, Soggettività tributaria, cit., p. 355 ss. e ID., Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, p. 63 ss., specie p. 72 ss.

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La vera questione che solleva la disciplina ricordata è però d’ordine si-stematico, ossia la sua conformità all’art. 53 Cost. e in particolare al principio di personalità della tassazione ed a quello di progressività, per come enu-cleati dalla Corte fin dalle sue più remote sentenze e in particolare nella sent. n. 179/1976 sul c.d. cumulo dei redditi

15. Il cuore del problema è questo: la disciplina dell’art. 4 determina o può

determinare una scissione tra titolare della fonte nella forma del diritto di proprietà e soggetto che sopporta l’onere impositivo in ragione della forza economica o ricchezza che essa fonte esprime. Tra ricchezza, nei termini ora rappresentati, e capacità contributiva, non vi è, però, o può non esservi, coincidenza: mentre la forza economica espressa dal bene comporta la sua attribuzione anche a chi non ne ha la titolarità giuridica, la capacità contri-butiva, per come intesa dalla Corte costituzionale nella richiamata sentenza n. 179, imporrebbe di identificare il soggetto passivo con il titolare della fonte o di altra “realtà giuridica avverata” o collegata e sorretta da una titolo giuridicamente apprezzabile, cosicché capacità contributiva e ricchezza si i-dentifichino in un solo soggetto

16. E ciò anche al fine di non vulnerare la progressività delle aliquote dell’imposta personale.

Non si dice, con questo, che la disciplina dell’art. 4 non si conformi alla nozione di presupposto del tributo per come dettata dall’art. 1 del T.U. Il presupposto dell’imposta personale è individuato nel “possesso”, che, se ri-guardato in relazione alla ricchezza, «sottende che il soggetto passivo ne ab-bia almeno la disponibilità giuridica»; se messo in relazione alla fonte, «sot-tende che il reddito discenda da una fonte qualificata dal titolo giuridico» normalmente costruito ad immagine del diritto di proprietà o di altro diritto reale, oppure coincidente con un atto o fatto giuridico diversamente titola-to, come si può dire, ad esempio, per il reddito agrario rispetto all’affittuario, oppure per la “realtà avverata” o per quella conseguente all’interposizione

17.

15 La sentenza si può leggere in Dir. prat. trib., 1976, II, p. 337, con nota di DE MITA, La illegittimità costituzionale del c.d. cumulo. In merito a tale problematica, si veda anche FEDELE, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, in Giur. cost., 1976, I, p. 2159 ss.; GALLO, Regime fiscale della famiglia e principio della capacità contributi-va, in Riv. dir. fin., 1976, I, p. 92 ss.; PERRONE, Il cumulo dei redditi, il principio della capacità contributiva e la progressività del sistema tributario, in Riv. dir. fin., 1977, II, p. 113 ss.; TOSI, Considerazioni sul regime fiscale della famiglia, in Rass. trib., 1998, I, p. 337 ss.

16 Sulla questione qui sottesa relativa all’interposizione, v. ampiamente e per tutti, PA-PARELLA, op. cit., passim.

17 V. GIOVANNINI, Il diritto tributario per principi, cit., p. 52 ss.

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Dunque, se il possesso del reddito si compendia nella nozione breve-mente tratteggiata, appare evidente come l’art. 1 ben si adatti a comprende-re l’imputazione ai coniugi dei redditi dei beni costituiti in fondo e quindi come la nozione di “possesso” possa ed anzi debba essere letta anche alla lu-ce dell’art. 4.

Ciò che è impervio (ed anzi, sarebbe errato), invece, è leggere l’art. 53 al-la luce dell’art. 4 del T.U.: è quest’ultimo, semmai, che deve essere letto alla luce dei principi costituzionali. Ma se è così, il dubbio di conformità appare certamente prospettabile.

Si tratta, però, seguendo l’insegnamento dei giudici costituzionali, di ve-rificare se si possa adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata per evitare il giudizio di conformità. La strada può essere quella di tentare un’interpretazione dell’art. 53 guidata dagli artt. 29 e 31 della Carta e dalle disposizioni civilistiche prima ricordate.

Si potrebbe sostenere, da un lato, che, in quanto l’amministrazione dei beni conferiti nel fondo è regolata dalle norme del codice sulla comunione legale, anche per il coniuge non titolare dei beni il potere di disporre degli stessi e dei relativi frutti esprime, in qualche modo, un’attitudine alla contri-buzione, coincidente con la disponibilità materiale del reddito tassato.

Disponibilità materiale che risponderebbe all’esigenza, prescritta dall’art. 31 Cost., di agevolare l’adempimento dei compiti relativi alla famiglia, esi-genza che troverebbe soddisfazione e si realizzerebbe, sul piano della legge or-dinaria, attraverso, proprio, quei poteri di amministrazione e gestione tipica della comunione legale e della collegata disciplina sul fondo.

Da un diverso e contrapposto punto di vista, si potrebbe argomentare che la disponibilità della ricchezza non è libera e incondizionata neppure per il titolare esclusivo del cespite dal quale proviene. Vero è, infatti, che siffatta ricchezza è rigidamente vincolata al soddisfacimento di bisogni collettivi, riferibili al nucleo familiare inteso come “società naturale” (art. 29 Cost.).

Ragionando da questo angolo visuale, l’eterodestinazione dei frutti al soddisfacimento di bisogni estranei – in tutto o in parte – a quelli propri del titolare formale dei beni può assumere rilievo per la “misurazione” della ca-pacità contributiva di quest’ultimo, la quale, per i vincoli anzidetti, appare ridimensionata e come tale diviene apprezzabile ai fini della determinazione della sua misura e della sua tassazione.

Proprio come avviene, per logica identica e speculare, per la determina-zione della porzione di capacità contributiva riferibile all’altro coniuge, a co-lui che, su quegli stessi beni, è privo di titolarità giuridica nella forma del di-ritto di proprietà.

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4. Il fondo patrimoniale nelle imposte indirette

Con riferimento alle imposte indirette, il discorso si può ridurre a poche battute.

Quanto alle modalità di applicazione dell’imposta di registro, occorre di-stinguere le ipotesi in cui la costituzione del fondo comporti il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale in capo ai coniugi (o ad uno di essi), da quelle in cui l’atto costitutivo si limiti ad imprimere un vincolo di destina-zione sui beni e relativi frutti, senza incidere sulla titolarità dei beni mede-simi. In questo senso è orientata anche la giurisprudenza di legittimità, or-mai ferma nel ritenere che, qualora l’atto costitutivo del fondo non compor-ti alcuna attribuzione patrimoniale, allo stesso debba applicarsi l’art. 11 della tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, che prevede l’imposizione in misura fissa

18 e che, correlativamente, l’imposta di registro in misura propor-zionale sia dovuta soltanto nel caso di trasferimento di un diritto reale, di proprietà o di godimento.

In un primo momento, la Suprema Corte 19 aveva ritenuto che l’atto di co-

stituzione del fondo, anche quando non implica il trasferimento dei beni, «ha per effetto la costituzione di un vincolo giuridico di destinazione di deter-minati beni ai bisogni della famiglia», rientrando perciò tra gli «atti di natu-ra dichiarativa relativi a beni o rapporti di qualsiasi natura» di cui all’art. 3 della citata tariffa, che prevede l’applicazione dell’imposta di registro in mi-sura proporzionale pari all’1%.

18 Si veda, in particolare, Cass., sez. trib., 6 giugno 2002, n. 8162, in Riv. dir. trib., 2003, II, p. 75 e, da ultimo, Cass., sez. trib., 28 ottobre 2005, n. 21056, in Il Fisco, 2005, p. 6970, ove si legge che «in base all’orientamento più recente ed ormai consolidato di questa Cor-te, che il Collegio pienamente condivide, l’atto di costituzione di un fondo patrimoniale, di cui all’art. 167 c.c., non è un atto traslativo a titolo oneroso, né un atto avente per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, né, infine, un atto avente natura meramente ricogni-tiva, bensì una convenzione istitutiva di un nuovo regime giuridico, diverso da quello pre-cedente, costituivo bensì di un patrimonio avente un vincolo di destinazione a carattere reale, in quanto vincola l’utilizzazione dei beni e dei frutti solo per assicurare il soddisfaci-mento dei bisogni della famiglia, senza incidere sulla titolarità della proprietà dei beni e senza che insorgano posizioni di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del nucleo familiare; con la conseguenza, in tema di imposta di registro, che il regime di tassa-zione di tale atto non è quello dell’imposta proporzionale (...), ma va individuato nella ca-tegoria residuale contemplata nell’art. 11 della tariffa stessa, con conseguente applicabilità dell’imposta nella misura fissa ivi indicata». Sul punto, diffusamente, PERRONE, Profili tri-butari, cit., p. 1552; DEMARCHI ALBENGO, op. cit., p. 743 ss.

19 Cass., sez. trib., 7 marzo 2002, n. 3343, in Banca dati fisconline.

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Contro questa impostazione, peraltro ormai definitivamente superata, si era tuttavia espressa la dottrina prevalente, rilevando che in tali casi l’atto di costituzione del fondo non ha ad oggetto prestazioni a contenuto patrimo-niale

20 e non può essere annoverato tra gli atti meramente dichiarativi 21.

Quanto all’imposta sulle successioni e donazioni, occorre muovere dalla premessa secondo cui l’istituzione di un vincolo di destinazione su uno o più beni non determina di per sé l’applicabilità del tributo qualora l’effetto che scaturisce dal vincolo non sia di natura traslativa, ma si traduce unica-mente in una “autolimitazione nell’uso di un patrimonio personale”

22, de-stinandolo al soddisfacimento di particolari esigenze personali o familiari.

Seguendo questa linea ricostruttiva, l’applicabilità del tributo successorio deve ritenersi esclusa nell’ipotesi del fondo patrimoniale costituito con i be-ni di uno dei coniugi, o anche di un terzo, che se ne riservi la proprietà, dal momento che all’effetto segregativo ed alla connessa destinazione funziona-le non si accompagna alcun effetto traslativo sui beni

23. Diversamente, nel caso in cui la costituzione del vincolo preveda altresì il

trasferimento della titolarità dei beni, è giocoforza ritenere applicabile l’im-posta, nella misura proporzionale prevista in base all’eventuale rapporto di parentela o di coniugio intercorrente tra il disponente ed il beneficiario del-l’attribuzione.

Analogo criterio opera, infine, anche per le imposte ipotecarie e catastali. Nel caso in cui alla costituzione del fondo non si accompagni alcun effetto tra-slativo della proprietà del bene immobile, troverà applicazione l’art. 4 della ta-riffa allegata al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, con conseguente tassazione in misura fissa. Nel caso, invece, in cui all’atto si colleghino anche effetti traslativi

20 V. DEL VAGLIO, I contrastanti orientamenti giurisprudenziali sul trattamento tributario degli atti costitutivi del fondo patrimoniale: il caso del fondo patrimoniale costituito con i beni di un solo coniuge che se ne riserva la proprietà, in Riv. not., 2002, II, p. 1488; in senso confor-me, SALANITRO, Sul regime tributario dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale, in Riv. dir. trib., 2003, II, p. 82; ZOSO, Soggezione ad imposta di registro dell’atto costitutivo di fondo pa-trimoniale, in Riv. dir. trib., 2003, II, p. 219 ss.

21 V. SALANITRO, op. cit., p. 81 ss., secondo cui «la costituzione del fondo patrimoniale di per sé non comporta trasferimento o costituzione di diritti reali (che è solo eventuale e comunque non onerosa); ma ciò non basta a definirla atto dichiarativo perché non dichia-ra né accerta un preesistente rapporto giuridico patrimoniale, ma costituisce un vincolo di destinazione che incide sul regime giuridico dei beni».

22 Così GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, Padova, 2008, p. 168. 23 In argomento, la Circolare dell’Agenzia delle Entrate, 22 gennaio 2008, n. 3/E, in

Corr. trib., 2008, p. 645 ss., con nota di FRANSONI, Allargata l’imponibilità dei vincoli di de-stinazione.

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della proprietà, le imposte ipotecarie e catastali saranno dovute in misura pro-porzionale secondo l’art. 1 della tariffa allegata al citato D.Lgs. n. 347/1990

24.

5. Il fondo patrimoniale e la responsabilità: l’esclusione dei debiti tributari dalla limitazione dell’art. 170 c.c.

Resta da esaminare, a questo punto, il tema della opponibilità all’ammi-nistrazione finanziaria del vincolo di destinazione che caratterizza i beni e i diritti costituiti nel fondo patrimoniale.

In proposito, ho già avuto modo di richiamare la disposizione recata dall’art. 170 c.c., secondo cui «l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia», norma che, al di là della tortuosità della formulazione, a prima vista non appare facilmente adattabile all’obbli-gazione d’imposta, stante, da un lato, il riferimento esplicito ai “debiti con-tratti” dai coniugi – locuzione che sembra circoscriverne l’ambito di appli-cazione alle obbligazioni ex contractu – e, dall’altro, stante il rilievo attribuito all’elemento soggettivo del creditore, rappresentato dalla piena conoscenza da parte di questi della estraneità del “debito contratto” rispetto alle esigen-ze familiari.

Queste caratteristiche, per poco che si rifletta, appaiono inconciliabili con la dimensione pubblica del creditore erariale e con il fatto che l’obbliga-zione d’imposta non è contratta, ma è indubitabilmente un’obbligazione ex lege

25.

24 In senso conforme, SALANITRO, op. cit., p. 81; DEMARCHI ALBENGO, op. cit., p. 773 ss. Si veda altresì la Circolare ministeriale, 30 novembre 2000, n. 221, in Riv. not., 2001, III, p. 994 ss., con nota di DEL VAGLIO, Note a margine di una recente circolare ministeriale sul trattamento tributario degli atti costitutivi del fondo patrimoniale.

25 Le difficoltà di adattamento della disposizione contenuta nell’art. 170 con le obbliga-zioni di natura tributaria sono colte anche dalla giurisprudenza di merito più recente. Si tratta di un orientamento in base al quale, in sostanza, in ragione della struttura e della fun-zione dell’obbligazione tributaria verrebbe a mancare in radice la possibilità di provare quanto richiesto dalla norma civilistica, ossia che il creditore fosse a conoscenza della rela-zione tra debito e bisogni della famiglia. Si veda, in termini, Trib. Padova, 24 agosto 2010, n. 1887, richiamata da GALLIO-TERRIN, Se la costituzione di fondo patrimoniale rappresenti elemento indicativo di periculum in mora ai fini del procedimento cautelare, in Riv. dir. trib., 2012, p. 140, ove si legge che il fondo patrimoniale non può mai essere opposto ad un cre-dito tributario in ragione del fatto che «l’obbligazione tributaria sorge ex lege, al di fuori di un rapporto bilaterale volontario in cui sia possibile indagare lo scopo perseguito dal debitore».

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E già queste considerazioni, dunque, testimoniano come la limitazione del-la responsabilità prevista dall’art. 170 sia di dubbia applicabilità ai crediti di natura tributaria.

Per giungere ad una soluzione risolutiva è però opportuno ricostruire la ratio originaria di tale limitazione, al fine di individuarne con precisione le conseguenze di ordine sistematico. La comprensione delle disposizioni che regolano il fondo patrimoniale deve necessariamente fondarsi sulle radici storiche dell’istituto, e in particolare sulla sua derivazione dall’istituto del pa-trimonio familiare, quale “antecedente” del fondo, e dall’istituto della dote.

L’art. 170, infatti, non fa che riprodurre il limite di responsabilità che, in deroga al principio generale dell’art. 2740 c.c., trovava compiuta espressio-ne, sebbene limitatamente ai frutti, con riguardo alla dote e al patrimonio familiare, per come disciplinati fino alla riforma del 1975.

Il patrimonio familiare era stato introdotto per la prima volta nel codice civile del 1942, sotto l’influenza di una concezione pubblicistica del diritto di famiglia, allo scopo dichiarato di «assicurare la prosperità alla famiglia che sorge»

26, intesa quale ente superindividuale, portatore di interessi superiori e collettivi. E proprio per il raggiungimento di queste finalità veniva consen-tita la creazione di un patrimonio separato in deroga al principio fondamen-tale della responsabilità patrimoniale illimitata del debitore.

Il fondo patrimoniale, introdotto dalla riforma del 1975, sembra avere e-reditato questa ratio, essendo volto a «garantire un substrato patrimoniale alla famiglia nucleare» e si caratterizza «quale speciale vincolo di destina-zione per la realizzazione degli scopi della famiglia»

27. Rispetto al patrimonio familiare, peraltro, il vincolo si è sensibilmente at-

tenuato (estendendo anche ai beni la possibilità di esecuzione, precedente-mente prevista per i soli frutti), e ciò per la volontà del legislatore del 1975 di raggiungere un compromesso tra le istanze di coloro che auspicavano la definitiva soppressione dell’istituto – ritenuto ostacolo alla circolazione del-la ricchezza – e quelle di chi ne pretendeva il mantenimento

28.

26 Così testualmente la Relazione al Re, n. 111: «L’istituto tende ad assicurare la pro-sperità di una famiglia che sorge; mira a provvedere ai bisogni dei figli e assicura il raffor-zamento del nucleo familiare e il benessere della famiglia».

27 Si veda la Relazione al Re, cit., n. 111 e, sul punto, GABRIELLI, op. cit., p. 294; MOREL-LI, Il nuovo regime della famiglia, Padova, 1996, p. 151 ss.; C.M. BIANCA, Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, Milano, 2001, p. 132.

28 V. M. BIANCA, Commento all’art. 167 c.c., in Commentario breve al diritto di famiglia, a cura di Zaccaria, Padova, 2008, p. 458; MORACE PINELLI, Tutela della famiglia e dei soggetti deboli mediante la destinazione allo scopo, in Riv. dir. civ., 2013, p. 1383.

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Anche per il fondo patrimoniale, in piena continuità con quanto previsto per gli omologhi istituti nella normazione precedente, la limitazione di re-sponsabilità si giustifica dunque sotto un duplice profilo: da un lato, perché essa rafforza la consistenza patrimoniale dei coniugi; dall’altro, perché ne traggono beneficio parimenti i creditori della massa separata, gli unici a po-tersi rivalere sui beni del fondo.

Ed è per questo che, come già previsto dal previgente art. 170, comma 2, per il patrimonio familiare, anche l’attuale disposizione subordina l’opponi-bilità del fondo all’azione esecutiva a due condizioni: la destinazione funzio-nale del debito a bisogni estranei alla famiglia e la conoscenza di tale desti-nazione da parte del creditore

29.

6. Segue: La natura ex lege dell’obbligazione tributaria e la sua estraneità ai “bisogni della famiglia”

Riportando queste osservazioni al diritto tributario, gli aspetti da esami-nare sono allora questi, che introduco, per semplicità, con una doppia do-manda: le obbligazioni ex lege esigono, al pari delle obbligazioni negoziali, il requisito della conoscenza da parte del creditore come necessario affinché operi la limitazione di responsabilità? E poi, l’obbligazione d’imposta è per sua natura riportabile all’art. 170?

Sul primo aspetto, parte della dottrina ritiene che la natura legale dell’ob-bligazione non influisca sulla possibilità di valutare se la stessa sia o meno funzionale al soddisfacimento dei bisogni della famiglia e che per le obbliga-zioni tributarie, come per tutte le obbligazioni che sorgono ex lege, non sia rilevante la conoscenza da parte del creditore della relazione tra debito e bi-sogni della famiglia

30. Eliminato ogni riferimento alla preventiva conoscen-

29 In proposito, la dottrina maggioritaria ritiene, con il conforto pressoché unanime della giurisprudenza, che incomba sui coniugi l’onus probandi in ordine alla conoscenza, da parte del creditore, del fatto che l’obbligazione era stata contratta per finalità estranee alle esigenze della famiglia. Si veda, ex multis, SANTOSUOSSO, La riforma, cit., p. 266, DEMARCHI ALBENGO, op. cit., p. 296 ss.; CIAN-CASAROTTO, op. cit., p. 828 ss.; RESCIGNO (a cura di), Le fonti del diritto italiano, codice civile, tomo I, VII, Milano, 2008, p. 393 ss. Da ultimo si veda, in giurisprudenza, Cass., 30 gennaio 2012, n. 1295, in Banca dati fisconline.

30 Si veda in proposito GABRIELLI, op. cit., p. 301; BIANCA, Se l’esecuzione sui beni e sui frutti del fondo patrimoniale possa aver luogo per debiti non derivanti da contratto, in Questio-ni di diritto patrimoniale della famiglia, Padova, 1989, p. 111; SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata

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za del creditore, secondo questa ricostruzione, la valutazione richiesta dal-l’art. 170 si ridurrebbe alla individuazione del vincolo tra debito di fonte le-gale e bisogni della famiglia

31. In parole semplici, secondo questa tendenza ricostruttiva, se per le obbli-

gazioni negoziali l’art. 170 consente di opporre il fondo alle ragioni del cre-ditore quando i debiti sono stati contratti per bisogni estranei alla famiglia e di questa estraneità il creditore era consapevole, per le obbligazioni legali il solo requisito per escludere l’esecuzione sarebbe quello dell’estraneità, valu-tando la causa giuridica dell’obbligazione medesima.

Così interpretato, tuttavia, l’art. 170 finisce per perdere la connotazione essenziale, che, come si è visto, caratterizza l’istituto sin dai suoi antecedenti storici, coincidente con l’elemento soggettivo della conoscenza da parte del creditore.

Insomma, non si può eliminare un requisito consacrato nella legge sol perché di ostacolo ad una ricostruzione teorica data. Tanto più che in ipote-si in qualche modo avvicinabile a quella disciplinata nell’art. 170, il legislato-re, scientemente, non ha preteso la conoscenza del creditore per impedire l’aggressione dei beni destinati. L’art. 2645 ter c.c., infatti, disciplinando la destinazione di determinati beni (immobili o mobili registrati) al soddisfa-cimento di interessi meritevoli di tutela riferibili a soggetti individuati (per-sone con disabilità, pubbliche amministrazioni, o altri enti o persone fisiche), specifica che i beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine e che, in questo caso, i beni destinati possono costi-

da Walter Bigiavi, Torino, 1995, pp. 268-269; PERRONE, Profili tributari, cit., p. 1555; DE-MARCHI ALBENGO, op. cit., p. 294 ss. e, in termini più sfumati, CAPOLUPO, Fondo patrimo-niale: è sempre inattaccabile dal Fisco?, in Il Fisco, 2010, p. 3305 ss. In senso contrario, si ve-da invece TRAPANI, Obbligazioni familiari e fondo patrimoniale: i limiti all’esecuzione, Studio n. 2384 del Consiglio nazionale del notariato, approvato il 22 giugno 1999; MORA-GORINI, L’esecuzione sui beni e sui frutti del fondo patrimoniale (art. 170 c.c.), in AA.VV., Codice iper-testuale della famiglia, a cura di Bonilini-Confortini, Torino, 2009, p. 371 ss., nonché la Ri-soluzione min., 17 dicembre 1983, n. 15/10423, in Banca dati fisconline.

31 Si tratta di una ricostruzione che, sia pure con numerose e significative eccezioni, è accolta anche in giurisprudenza. In questo senso si è più volte espressa la Corte di Cassa-zione, la quale ha evidenziato come l’unico criterio di operatività dell’art. 170 c.c. vada in-dividuato non tanto nella natura delle obbligazioni, quanto piuttosto nella relazione tra debito ed esigenze familiari, «ravvisandosi una identica ragione giustificatrice della com-prensione nella disposizione in esame, nonostante il dato testuale offerto dalla espressione debiti contratti, sia delle obbligazioni di fonte legale, sia di quelle di natura risarcitoria» (Cass., 18 luglio 2003, n. 11230; Cass., 31 maggio 2006, 1299, entrambe in La Legge Plus-Ipsoa).

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tuire oggetto di esecuzione solo per debiti contratti per quel fine, a nulla ri-levando, per l’appunto, lo stato soggettivo del creditore

32. È perciò arbitrario considerare la conoscenza del creditore come elemen-

to superfluo o irrilevante in sede di interpretazione dell’art. 170. Vi è però un secondo aspetto da considerare, per certi versi assorbente: il

rapporto intercorrente tra debito d’imposta e “bisogni della famiglia”. Su questo aspetto del problema sono emerse posizioni nettamente con-

trastanti 33.

Secondo un primo orientamento, il divieto di esecuzione sui beni del fondo sarebbe sempre e comunque opponibile ai crediti tributari, in ragione del fatto che tali crediti non sono mai direttamente destinati a soddisfare le necessità del nucleo familiare

34. In contrapposizione a questo indirizzo, nella giurisprudenza più recente

si devono segnalare pronunce caratterizzate da una prospettiva radicalmen-te diversa, secondo la quale la costituzione di un fondo patrimoniale non può mai essere opposta all’esecuzione per crediti fatti valere dall’ammini-strazione, in quanto i debiti di natura tributaria dovrebbero ritenersi «per de-finizione, inerenti in maniera diretta e immediata ai bisogni della famiglia»

35. Da ultimo, nel tentativo di superare la rigidità degli orientamenti appena

richiamati, la giurisprudenza di legittimità sembra convergere verso una pro-spettiva meno “integralista”, nel senso che la relazione tra debito tributario e necessità del nucleo familiare non può essere stabilita a priori secondo un cri-terio unitario ed assoluto, ma deve essere verificata in concreto, caso per caso.

32 Per una compiuta disamina dei tratti distintivi tra fondo patrimoniale e atto di destina-zione si v. QUADRI, L’art. 2645-ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, in Contr. e im-presa, 2006, p. 1757; BARTOLI, Trust e atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone, Milano, 2011, p. 465 ss.; per ulteriori rilievi, si veda MORACE PINELLI, op. cit., p. 1366 ss.

33 Per un’ampia rassegna di giurisprudenza, v. FRANCISETTI-BROLIN, L’indisponibilità e l’i-nespropriabilità (limitata) del fondo patrimoniale, Napoli, 2012, p. 7 ss.; BELLOMIA, La tutela dei bisogni della famiglia, tra fondo patrimoniale e atti di destinazione, in Dir. fam., 2013, p. 698 ss.

34 In questo senso, Cass., sez. pen. III., 7 ottobre 2009, n. 38925, in Banca dati Utet Giu-ridica e, per la giurisprudenza di merito, CTR Piemonte, 21 ottobre 2009, n. 54; CTP Gros-seto, 21 novembre 2009, n. 280; CTP Milano, 20 dicembre 2010, n. 437, tutte in Banca dati fisconline.

35 V. TAR Friuli Venezia Giulia, 10 maggio 2007, n. 369 e, più di recente, CT Reggio Emilia, 11 giugno 2010, n. 90, in GT-Riv. giur. trib., 2010, p. 991 ss., con nota critica di TI-NELLI, Iscrizione di ipoteca fiscale, fondo patrimoniale e tutela del contribuente; CT Reggio Emilia, 25 settembre 2013, n. 177, in GT-Riv. giur. trib., 2014, p. 162 ss., con nota critica di GRASSOTTI, Anche le imposte afferenti ai beni del fondo patrimoniale sono estranee ai bisogni della famiglia.

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In particolare, con la sentenza 7 luglio 2009, n. 15862, la sezione tributa-ria della Suprema Corte ha ritenuto il divieto di cui all’art. 170 c.c. opponibi-le ai crediti tributari solo in presenza di determinate condizioni, quando cioè il fatto generatore del tributo sia stato posto in essere al fine di soddi-sfare un’esigenza diversa da un bisogno della famiglia; ed ha precisato che la nozione di “bisogni della famiglia” va intesa non in senso restrittivo, come riferentesi, cioè, alla necessità di soddisfare l’indispensabile per la sussisten-za del nucleo familiare, bensì nel senso di ricomprendere «le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia nonché al po-tenziamento della sua capacità lavorativa, con esclusione solo delle esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da intenti meramente speculativi»

36. Ora, questa varietà di interpretazioni, se rispecchia le difficoltà di adatta-

re la norma recata dall’art. 170 al credito erariale, testimonia anche l’esigen-za di impostare un ragionamento che rivaluti l’esatta natura e configurazio-ne dell’obbligazione d’imposta, anzitutto sul piano costituzionale.

Il nocciolo della questione, così affrontata, è questo: se l’obbligazione d’im-posta, che nasce dalla legge e trova fondamento nel dovere di contribuzione di “tutti” i consociati, possa essere valutata in relazione alla soddisfazione di determinati bisogni individuali

37 e se si possa valutare come “assunta” in re-lazione alle necessità del nucleo familiare.

La risposta, secondo me, per le imposte, deve essere senz’altro negativa.

36 Si tratta di una soluzione che riecheggia e che riporta all’ambito tributario il principio costantemente ribadito dalla Corte con riguardo all’opponibilità del divieto ex art. 170 alle obbligazioni civilistiche (tra le tante, Cass., sez. III, 15 marzo 2006, n. 5684). Sulla base di tale nozione, la Corte ha escluso che il fondo patrimoniale possa rispondere del «debito fiscale in capo ad uno dei coniugi per la propria attività o professione» (così Cass., sez. trib., 7 luglio 2009, n. 15862, in Banca dati fisconline). In dottrina, CAPOLUPO, op. cit., p. 3307 ss.; TINELLI, op. cit., p. 995 ss.; D’ANGELO, Costituzione di un fondo patrimoniale e sottrazio-ne fraudolenta al pagamento di imposte, in Rass. trib., 2013, p. 287.

37 Il problema della natura e della struttura dell’obbligazione tributaria è tradizional-mente al centro del dibattito dottrinale. In particolare e tra gli altri, per la teoria “dichiara-tiva” si vedano le opere generali di A.D. GIANNINI, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, p. 1937 ss.; ID., I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, p. 124 ss.; BA-SCIU, Contributo allo studio dell’obbligazione tributaria, Napoli, 1966, passim; CAPACCIOLI, L’accertamento tributario, in Riv. dir. fin., 1966, I, p. 3 ss.; RUSSO, Diritto e processo nella teo-ria dell’obbligazione tributaria, Milano, 1969, p. 89 ss. Per la concezione c.d. “costituiva”, si vedano, invece, tra gli altri, ALLORIO, Diritto processuale tributario, Milano, 1942, p. 85 ss.; BERLIRI, Principi di diritto tributario, III, Milano, 1952, p. 339 ss.; MICHELI-TREMONTI, Ob-bligazioni (dir. trib.), in Enc. dir., XXIX, 1979, p. 409 ss.; FALSITTA, Il ruolo di riscossione, Padova, 1971, p. 29 ss.; TESAURO, Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975, p. 106 ss., e ID., Profili sistematici del processo tributario, Padova, 1980, p. 38 ss.

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Non mi pare, infatti, che sia possibile stabilire l’esistenza (e, eventual-mente misurarne l’entità) di una relazione “diretta e immediata” tra l’adem-pimento di una obbligazione fondata sul dovere generale di contribuzione previsto dall’art. 53 Cost. e la soddisfazione dei bisogni della famiglia, posto che il fondamento dell’obbligazione tributaria sta, piuttosto, in un dovere contributivo generale di stampo solidaristico, rispetto al quale tutti i conso-ciati sono parimenti obbligati in ragione della loro attitudine alla contribu-zione, e dal quale deriva certamente la soddisfazione di taluni “bisogni”, an-che individuali – nella forma della fruizione di servizi pubblici finanziati tra-mite il gettito erariale – in una logica che tuttavia non è sinallagmatica, ma solidaristica e redistributiva

38. Essa è dunque rivolta al soddisfacimento di “bisogni” collettivi, che pure

comprendono e assorbono anche taluni “bisogni” individuali e delle singole formazioni sociali all’interno delle quali l’individuo svolge la propria perso-nalità, come la famiglia. Ma rispetto a quanto richiesto dall’art. 170, ciò non consente di procedere, né in astratto né in concreto, ad una valutazione in termini di inerenza – o di estraneità – del debito tributario rispetto ai biso-gni del nucleo

39. Per utilizzare la terminologia del legislatore, l’obbligazione tributaria non

è stata “contratta” per uno “scopo” più o meno estraneo alle necessità dei coniugi o della prole. E per quanto si tratti di una obbligazione che, struttu-ralmente, non si differenzia da quelle di diritto privato

40, non è possibile in-

38 Sul principio di capacità contributiva quale esplicazione del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e quale impostazione ormai senz’altro prevalente e condivisa anche dalla Corte costituzionale, si veda in particolare, MANZONI, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, p. 20 ss.; MOSCHETTI, Il principio del-la capacità contributiva, Padova, 1973, p. 71 ss.; recentemente, anche per riferimenti giuri-sprudenziali, v. GIOVANNINI, Il diritto tributario per princìpi, cit., p. 22 ss.

39 Certo, rispetto ai tributi commutativi o paracommutativi, quale, ad esempio, quello sulla raccolta dei rifiuti solidi urbani o altri tributi aventi una struttura similare, questo di-scorso sembra vacillare e ridare forza alla tesi giurisprudenziale, dianzi ricordata, per la quale il debito tributario sarebbe sempre inerente al soddisfacimento dei “bisogni familia-ri”. Vi è da dire, però, che si tratta di ipotesi marginali e che, in realtà, se considerate con attenzione, confermano la tenuta complessiva della ricostruzione prospettata: solo in quei casi, infatti, il tributo si potrebbe ritenere “inerente e collegato” alle necessità familiari, in ragione di una funzione commutativa ispirata al criterio del beneficio che è certamente estranea alle imposte e agli altri modelli di tributo. Sulle nozioni di tassa e di tributi para-commutativi, v. FEDELE, La tassa, Siena, 1974, p. 93 ss.; DEL FEDERICO, Tasse, tributi para-commutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, p. 94 ss.

40 In merito alla riconducibilità dell’obbligazione tributaria a quelle di diritto privato, v. M.S. GIANNINI, Le obbligazioni pubbliche, Roma, 1964, p. 66 ss.; A.D. GIANNINI, Istituzioni

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dagarne la “causa” per collegarla in maniera più o meno stretta ai bisogni della famiglia o a qualsiasi altro bisogno individuale. Ciò in quanto – lo si ribadisce – non si tratta di un’obbligazione liberamente assunta dal debitore in vista di uno scopo egoistico o di un bisogno singolo, ma di una prestazio-ne imposta dalla legge e giustificata in via esclusiva, sul piano costituzionale, dalla titolarità da parte del soggetto passivo di situazioni espressive della sua attitudine alla contribuzione.

Se mi si consente il gioco di parole: non si tratta di un’obbligazione e-stranea (o meno) ai bisogni della famiglia; ma di una obbligazione, questo sì, “estranea” al perimetro di applicazione della regola scolpita dall’art. 170 c.c.

Per quanto detto, la limitazione di responsabilità che discende dalla co-stituzione del fondo patrimoniale non può operare in relazione all’obbliga-zione d’imposta perché quest’ultima, per la sua natura di obbligazione legale costituzionalmente fondata su un dovere generale di contribuzione, non si presta ad essere valutata in termini “causali”, se non con riferimento alla esi-stenza del presupposto oggettivo ed al collegamento di quest’ultimo con il soggetto passivo del tributo.

di diritto tributario, Milano, 1965, p. 98 ss.; RUSSO, Diritto e processo, cit., p. 95 ss.; ID., L’ob-bligazione tributaria, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci, II, Padova, 1994, p. 22 ss.; per una approfondita ricostruzione normativa, FREGNI, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, passim.

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Ludovico Nicòtina

IL CONTRADDITTORIO TRIBUTARIO IN FUNZIONE DEFLATTIVA: UNA “PREMESSA/PROMESSA”

CHE NON PUÒ ESSERE TRADITA

AUDI ALTERAM PARTEM IN TAX PROCEEDINGS AS A TOOL FOR REDUCING TAX TRIALS: AN UNBETRAYABLE “PREMISE/PROMISE”

Abstract Dovrebbe ritenersi ormai acquisita l’utilità di una fiscalità partecipata, nel segno della quale sono rinvenibili non pochi interventi legislativi anche in tema di me-todi alternativi di risoluzione delle liti tributarie. L’idea, condivisibile, è che il co-involgimento del contribuente nell’accertamento dovrebbe consentire alle parti del rapporto d’imposta di risolvere, anche nell’interesse della collettività, le even-tuali divergenze prima ancora della definizione dell’obbligo, “disinnescando” al suo sorgere ogni conflittualità. Contemporaneamente, tuttavia, il legislatore me-desimo e, talvolta la giurisprudenza, hanno depotenziato queste garanzie relati-vizzandole. Si evidenziano, pertanto, alcune criticità, esaminando effetti e conse-guenze del mancato contraddittorio procedimentale in diverse ipotesi di stretta attualità. Parole chiave: contraddittorio procedimentale, abuso del diritto, accertamenti standardizzati, mediazione, alternative alla lite tributaria Nowadays, the taxpayers’ involvement in tax assessments is undoubtedly fundamen-tal and this is testified by various legislative interventions on ADRs in tax matters. The taxpayer’s involvement in tax assessments shall facilitate the parties to reach an agreement on potential controversies, avoiding the rise of any conflict. To this purpose, Italian tax law provides mechanisms of intervention in the tax assessment proceeding and tools for preventing conflicts between the taxpayer and the Tax Authorities. At the same time, these guarantees have been progressively weakened by the lawmaker and, sometimes, also by the Tax Courts. In fact, several dangerous “automatic” me-chanisms have been introduced even in the ADRs, which may jeopardise the audi al-

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teram partem principle. Certain recent decisions seem to put in crisis a “scale of va-lues” that was apparently untouchable. The survey will, therefore, analyse the possible negative effects of the tax notice issued in violation of the time limits provided by Art. 12, para. 7, Taxpayer’s Bill of Rights; the judicial creation of abuse of law in tax matters; the risks linked to the improper use of standardised tax assessments; the criticizable reasonableness of the anticipation of judicial protection expressed by the forms of so-called facultative appeal and, finally, some remarks on the “tax mediation” provided by Art. 17-bis, which has been introduced in the Statute governing the tax trial. Keywords: audi alteram partem, abuse of tax law, standardized tax assessments, fa-cultative appeal of endo-procedural acts, ADR in tax matters

SOMMARIO: 1. Contraddittorio procedimentale tributario, un passo avanti e due indietro. – 2. Legittimità dell’accertamento emesso in violazione del termine dilatorio. – 3. L’abuso del diritto e gli accertamenti standardizzati. – 4. Impugnazione facoltativa e mediazione tributaria. – 5. Con-clusioni.

1. Contraddittorio procedimentale tributario, un passo avanti e due indietro

Il contraddittorio procedimentale, quale forma di partecipazione dei de-stinatari ai procedimenti amministrativi, si è andato affermando legislativa-mente dapprima in via generale, attraverso la notissima L. n. 241/1990

1 e, successivamente, attraverso lo Statuto dei diritti del contribuente

2, in mate-

1 F. TEDESCHINI, Procedimento amministrativo, in Enc. dir., Agg., III, 1999, p. 872 s.; M.A. SANDULLI, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, ibidem, IV, 2000, p. 1 ss.

2 L. 27 luglio 2000, n. 212. Riguardo alla rilevanza che ha lo Statuto in generale e con specifico riferimento alle problematiche cui si fa cenno, si vedano: L. FERLAZZO NATOLI, Dallo Statuto dei diritti del contribuente alla codificazione tributaria, in AA.VV., Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Studi in onore del prof. Gianni Marongiu, a cura di A. Bodrito-A. Contrino-A. Marcheselli, Torino, 2012; L. PERRONE, La disciplina del procedimento tributario nello Statuto del contribuente, in Rass. trib. n. 3, 2011, p. 563 ss.; G. MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2010; A. FANTOZZI-A. FEDELE, Statuto dei diritti del contribuente, Milano, 2005; S. SAMMARTINO, I diritti del contribuente nelle verifiche fiscali. Lo statuto dei diritti del contribuente, a cura di G. Marongiu, Torino, 2004, p. 131 ss.; A. URICCHIO, Statuto del contribuente, in Dig. disc. priv., sez. comm., Agg. XI, 2003, p. 845 ss.

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Ludovico Nicòtina

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ria tributaria 3. In vero, nel contempo, si formalizzava costituzionalmente ed

espressamente il principio del contraddittorio nell’ambito processuale, dal quale trae origine

4, con la modifica dell’art. 111, per effetto della L. cost. 23 novembre 1999, n. 2. In questo contesto di progressiva sensibilizzazione il modello “dialettico”, portato avanti anche dalle istituzioni europee in ambi-to comunitario

5, si afferma, dunque, non solo in funzione difensiva ma, ap-punto, anche partecipativa

6. Si tratta di un’evoluzione complessa che tende a ridisegnare i rapporti tra

Amministrazione e amministrati allontanando il modello autoritativo rigi-damente basato sull’esercizio del potere attribuito agli organi dell’esecutivo. In un primo tempo e in generale in ambito amministrativo, il modello par-tecipativo si afferma in relazione ai margini di discrezionalità, concessi dalla legge stessa, ai procedimenti. Margini entro i quali si riconosce la possibilità e utilità della partecipazione medesima e, per questo stesso motivo, si esclude l’applicabilità del Capo III della L. n. 241/1990 ai procedimenti tributari

7.

3 Nondimeno, la migliore dottrina aveva elaborato il concetto di partecipazione già da tempo e, in vero, si tratta di applicazione di princìpi costituzionali già vigenti, ovviamente, anteriormente, rinvenibili negli artt. 3, commi 1 e 2, 97 comma 2, 24 comma 2 e 113 Cost. Si vedano, in via esemplificativa: G. LICCARDO, Il principio del contraddittorio nell’attività tributaria, in Riv. trib., 1955, p. 1 s.; G.A. MICHELI, Il contraddittorio nel contenzioso tributa-rio, in Riv. dir. fin., 1975, I, p. 525 ss.; F. MOSCHETTI, Avviso di accertamento tributario e ga-ranzie del cittadino, in Dir. prat. trib., 1983, I, p. 1911 ss.; F. GALLO, Accertamento e garanzie del contribuente: prospettive di riforma, in Dir. prat. trib., 1989, I, p. 50 ss.

4 Si vedano, in particolare gli artt. 24 e 113 Cost. 5 In ambito comunitario, infatti, si è verificata un’evoluzione non dissimile e, con la

firma del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, la Carta dei Diritti fondamentali dell’UE, all’art. 41, comma 2, precisa «il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudi-zio». Riguardo al diritto del contribuente a partecipare al procedimento amministrativo, anche nell’ottica comunitaria, si rinvia, altresì, a P. SELICATO, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001; ID., Scambio di informazioni, contraddittorio e Statuto del contribuente, in Rass. trib., n. 2, 2012, p. 321 ss., in particolare al par. 3 e nota 36, per opportuni rinvii.

6 A. MARCHESELLI, Il giusto procedimento tributario. Principi e discipline, Padova, 2012, p. 97 ss. e nota 188, distingue una forma partecipativa a garanzia e tutela della propria po-sizione nei confronti del Provvedimento, più affine al contraddittorio giudiziale, da una partecipazione collaborativa, più propriamente procedimentale in quanto, consentendo alla Pubblica Amministrazione di pervenire prima e in modo più completo alla conoscenza degli elementi «necessari ed opportuni per un’esaustiva valutazione del caso concreto», realizzando, così, tramite la partecipazione, non solo l’interesse privato ma anche una “col-laborazione nell’interesse pubblico”.

7 Come espressamente disposto dal comma 2 dell’art. 13, L. n. 241/1990, il cui Capo III

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Questo perché, palesemente, il procedimento tributario, che pure è certa-mente specie del più ampio genere del procedimento amministrativo, si di-stingue da quest’ultimo proprio in considerazione del proprio carattere vin-colato

8. Lo Statuto esprime, successivamente, il superamento di tale limite, pur confermando la specificità della materia. Superamento che si rende pos-sibile per due ordini di ragioni. In primo luogo discende dall’osservazione che, sebbene legislativamente predeterminato, anche nel procedimento tri-butario sono opportuni spazi idonei all’esercizio del contraddittorio, anche perché l’accertamento di fatto deve avvantaggiarsi della leale cooperazione dei contribuenti

9. In secondo luogo perché, anche nel procedimento tribu-tario, possono emergere interessi rispetto ai quali è corretto attribuire ambi-ti di discrezionalità all’Amministrazione

10. In altri termini, si dimostra la conciliabilità del modello partecipativo con la materia tributaria, poiché an-che in questa – nonostante non possa semplicisticamente ammettersi allo è appunto rubricato “Partecipazione al procedimento amministrativo”. Al riguardo amplia-mente in AA.VV., L’applicabilità della L. 241/1990 al procedimento tributario, a cura di P. DE LISE, Milano, 2008 e nell’immediatezza: S. RUSSO, La partecipazione ai procedimenti amministrativi nella Legge n. 241 del 1990 ed i procedimenti tributari, in Tributi, 1991, p. 53 ss.; S. CAPOLUPO, Limiti alla applicabilità della legge sulla trasparenza amministrativa in relazio-ne alle norme sull’accertamento tributario, in Notiziario fiscale, 1993, Supplemento al n. 11, p. 39 ss. Divieto assai ridimensionato, all’approvazione dello Statuto, come annotava M. VERSIGLIONI, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001, p. 246 ss.

8 Carattere derivante dall’indisponibilità dell’obbligazione, soprattutto per l’Ammini-strazione, su cui occorrerà tornare.

9 D. GANDINI, I principi amministrativi genericamente rilevanti in ambito tributario, in A. MARCHESELLI, Il giusto procedimento tributario, cit., p. 6, condivisibilmente osserva in proposito «Ritenere ... l’azione del Fisco come vincolata, non significa escludere margini dì apprezzamento e valutazione nel suo esercizio ricordando, come è evidente, che il “con-creto apprezzamento della ricchezza prodotta dal soggetto tenuto all’obbligo contributivo non può che essere sottratto ad una rigida predeterminazione ad opera della legge”». In questo senso lo stesso conclude, giustamente, che non vi è contrapposizione d’interessi, poiché la corretta verifica di fatto è nello stesso interesse pubblico.

10 Si tratta, invero, di una particolare “discrezionalità tecnica” individuabile in relazione alle fattispecie dubbie sia riguardo ad incertezze esegetiche, specie se confermate da giuri-sprudenza discorde, sia relativamente agli elementi di fatto raccolti, che siano suscettibili di valutazioni non univoche e incerte, in cui, dunque, l’esito processuale sarebbe, conseguen-zialmente, altrettanto incerto, come previsto ai fini dell’autotutela o della mediazione (art. 17 bis, comma 8, D.Lgs. n. 546/1992). Oltre ai limitati cenni a seguire, sia consentito rin-viare riguardo alle problematiche connesse alla disponibilità dell’obbligazione tributaria a L. NICOTINA, Contributo allo studio dell’arbitrato in materia tributaria, Messina, 2008, cap. II, p. 57 ss. In tema, specificamente, si veda A. MARCHESELLI, Accertamento tributario e difesa del contribuente. Poteri e diritti nelle procedure fiscali, Milano, 2010, p. 3.

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scopo di un confronto tra interessi contrapposti, pubblico e privato – il con-fronto si rivela utile e addirittura necessario nella realizzazione dell’interesse primario al giusto prelievo, nella specie dell’accertamento sul fatto

11; sia al fine della corretta individuazione, ponderazione e, eventualmente, selezione tra gli interessi pubblici in gioco, non necessariamente univoci. Questo nuovo modello si rivela vantaggioso nell’interesse pubblico perché, tramite la par-tecipazione, collaborativa o oppositiva, è certamente in grado di garantire una maggiore e reale imparzialità e funzionalità dell’Amministrazione. Inol-tre, il contraddittorio, anticipando la tutela del contribuente, offre all’Ammi-nistrazione la possibilità di agire con maggiore consapevolezza prima di e-mettere il Provvedimento, prevenendone i possibili vizi. Il contraddittorio, dunque, è in grado di realizzare al meglio il principio di buona amministra-zione di cui all’art. 97 Cost., non a caso ritenutone il fondamento costitu-zionale. L’affermazione del contraddittorio procedimentale, risultante anche dal riordino o dall’introduzione d’istituti di prevenzione della lite tributaria, si è rivelata un pregevole disegno legislativo, idoneo a trasformare il classico modello impositivo, basato su autorità e sovranità, in un modello fondato sulla cooperazione, se non anche concertazione

12, finalizzata alla condivi-sione e, dunque, al consenso nei confronti dell’imposta

13.

11 Cass., sez. trib., 2 luglio 2008, n. 1805 rileva come il principio dell’indisponibilità del-l’obbligazione tributaria, non escluda la possibilità che l’Amministrazione, anche in con-traddittorio con il contribuente, possa pervenire ad una “revisione qualitativa e quantitati-va” dei presupposti dell’atto di accertamento, tale da ridefinire la pretesa in senso “più giu-sto” avuto riguardo alla realtà fattuale oggettiva e «per evitare un inutile e defatigante pro-secuzione del contenzioso». In senso conforme A. MARCHESELLI, op. ult. cit., p. 119: «l’ac-certamento e misurazione della evasione non è un atto automatico, per il quale non neces-sita istruttoria e apprezzamento delle risultanze delle prove. Si tratta, pertanto ed esatta-mente, di un campo nel quale il contraddittorio ha e deve avere una valenza ed efficacia pregnante, sia come strumento di difesa, sia come mezzo istruttorio».

12 A. URICCHIO, La partecipazione del contribuente alla verifica, in V. UCKMAR-F. TUNDO (a cura di), Codice delle ispezioni tributarie, Piacenza, 2005; C. LOLLIO, La tutela del contri-buente e nullità degli atti con riferimento ai rapporti fra l’art. 10 comma 3 l. 27 luglio 2000, n. 212 e l’art. 3 d.l. 27/4/90 n. 90, convertito con modificazioni nella legge n. 165, in Boll. trib., 2002, p. 1143.

13 Imposta che, per tal verso, almeno da un punto di vista semantico, cesserebbe di es-sere tale. A. DI PIETRO, Il consenso all’imposizione e la sua legge, in Rass. trib., n. 1, 2012, p. 11, al riguardo rileva che occorre lasciarsi alle spalle «la tentazione di ricondurre consenso ed imposizione ad un formale ossimoro». È opportuno rilevare che anche la Suprema Corte di Cassazione, abbandonate precedenti posizioni “autoritative”, ha evidenziato l’importan-za del contraddittorio nel procedimento tributario esprimendosi, peraltro a Sezioni Unite, sentt. nn. 26635/26638/2009, sebbene, come si rileva nella trattazione, non sia tuttora

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Il contraddittorio procedimentale in materia fiscale, dunque, può assu-mere una rilevanza garantista e, senza confliggere con l’art. 53 Cost., con-sentire una fiscalità non solo più equa ma, addirittura, più etica

14. Come ac-cennato, peraltro, questa forma di partecipazione, affermata anche dal dirit-to comunitario è stata richiesta dalla Corte di Giustizia UE, anche con spe-cifico riferimento ai procedimenti tributari. Nei quali, la Corte, ha ritenuto si debba consentire, ai destinatari dei provvedimenti in questione, la possi-bilità di “manifestare utilmente” le proprie ragioni riguardo agli «elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione», anche laddo-ve la «normativa applicabile non preveda tale formalità». Confermando, pertanto, la conformità al diritto comunitario e, in specie, al diritto alla dife-sa di cui all’art. 48 del Trattato, di un termine concesso al contribuente al fine di proporre le proprie osservazioni in relazione alla contestazione di un debito

15. L’affermazione del contraddittorio procedimentale, di conseguenza, non

può, come esattamente osservato dalla Corte di Giustizia UE, essere ridotta possibile sostenere che i giudici di legittimità abbiano univocamente e definitivamente avallato la imprescindibilità del contraddittorio procedimentale tributario e, di conseguen-za, non siano mancati significativi revirement o, comunque, interventi in funzione delimita-tiva (es. Cass., sez. V, n. 26316/2010). Tutte le sentenze citate da qui in avanti, salvo di-versa espressa indicazione, sono rinvenibili in Banca dati “fisconline”.

14 Riguardo alla rilevanza del contraddittorio procedimentale si vedano, altresì: A. FANTOZZI, Violazioni del contraddittorio e invalidità degli atti tributari, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 137 ss.; S. CIVITARESE MATTEUCCI-L. DEL FEDERICO, Azione amministrativa e azione impositiva tra autorità e consenso, Milano, 2010. Sull’ideale di un Fisco etico si rinvia, inve-ce, a L. FERLAZZO NATOLI, Tendenze della normativa tributaria verso un fisco etico, in Riv. dir. trib., 2003, I, p. 3 ss. Occorre, altresì, rammentare, che i riferimenti legislativi al con-traddittorio in oggetto sono stati e sono tuttora, comunque, molteplici. Tra i più rilevanti – oltre all’art. 12, comma 7, Statuto – quello previsto dall’art. 36 ter, commi 3 e 4, D.P.R. n. 600/1973, non a caso, tuttavia, anch’esso introdotto e regolato tra il 1989 e il 2001 (D.L. 2 marzo 1989, n. 69, D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241 e D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32) e quello di cui all’art. 38 del medesimo D.P.R. n. 600/1973 che, al contrario, si è andato precisando, in chiave di “obbligo” attraverso l’assai più recente D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito con L. 30 luglio 2010, n. 122).

15 Corte di Giustizia UE, sent. C-349/07, Sopropé/Organizações de Calçado Lda, del 18 dicembre 2008, riguardante un caso di dazi doganali d’importazione. La Corte di Giusti-zia, dunque, auspica apertamente che si riservi spazio a tale contraddittorio e ne tratteggia anche le necessarie caratteristiche in termini di “effettività”. In particolare, osserva la Cor-te, affinché, la garanzia non resti pura formalità è necessario che sia previsto un preavviso che consenta al contribuente di predisporre la propria partecipazione e preparare le pro-prie difese; che siano contemplati termini ragionevoli per la loro presentazione e valuta-zione e, infine, che si dia conto di quest’ultima.

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a mera forma. Nella scelta di consentire un’utile partecipazione del contri-buente è insita, infatti, la necessità di renderla materialmente possibile e uti-le e, di conseguenza, anche quella di prevedere doveri a carico dell’Ammini-strazione. Al riguardo, tuttavia, come si dimostrerà, si assiste, in controten-denza, a discutibili scelte legislative e interventi giurisdizionali che hanno depotenziato la garanzia del contraddittorio, proprio sotto gli aspetti testé richiamati.

Il progressivo incremento della rilevanza delle necessità della riscossione, anche simbolicamente rappresentate dall’opportuna ma non per questo meno problematica istituzione di Riscossione s.p.a.

16, ha avuto e continua ad avere conseguenze negative sull’effettività della partecipazione nei pro-cedimenti tributari e, soprattutto, sulle conseguenze della violazione di que-sta garanzia. Il corretto svolgimento del contraddittorio, infatti, comportan-do la necessità di tempi tecnici che ne garantiscano l’effettività sembra esse-re divenuto un ostacolo all’urgenza della riscossione e, di conseguenza, se ne è salvaguardato o autorizzato l’aggiramento o, addirittura, la violazione da parte dell’Amministrazione. È evidente che l’esigenza di una sollecita riscos-sione può agevolmente condurre a trascurare e sopprimere le occasioni di confronto, sebbene in questa ricostruzione vi sia, come si vedrà, un malinte-so di fondo

17. È altrettanto palese, poi, che questa urgenza possa andare a discapito della realizzazione della giustizia impositiva

18 e non favorisca di certo la deflazione del contenzioso che pure è obiettivo particolarmente sensibile del nostro legislatore, come di quello comunitario

19. Persino nel

16 Il nuovo soggetto attivo a partecipazione pubblica, costituito nel tentativo di rime-diare alla fallimentare esperienza dell’affidamento in concessione della riscossione, che dal marzo 2007 ha cambiato la propria ragione sociale in Equitalia s.p.a., senza che, purtroppo, a tale rinnovata formulazione abbia corrisposto un maggiore impegno di “equità”. Riguar-do ad alcuni dei problemi connessi al nuovo soggetto attivo della Riscossione si rinvia a M. NUZZO, Prime note sul diritto all’aggio da riscossione. Profili storico-ricostruttivi, in Riv. trim. dir. trib., n. 4, 2012, p. 987 ss.

17 Occorre ricordare che l’esigenza di celerità è conciliabile con il rispetto del principio fondamentale del contraddittorio, in tutte le sue variabili.

18 Contra Cass., 16 settembre 2011, n. 18906 laddove si afferma, al contrario, che l’inte-resse alla riscossione «trova fondamento nell’art. 53 Cost. e che assume un rilievo partico-larmente importante in un ordinamento quale il nostro, caratterizzato da fenomeni di eva-sione straordinariamente maggiori di quelli che affliggono altri paesi». Per gli opportuni rinvii di approfondimento si rinvia alla trattazione e alle note a seguire.

19 Sebbene in un’ottica diversa e, certamente, più ampia A. DI PIETRO, op. ult. cit., rileva l’esistenza di «una compressione del consenso quando si trattava e si tratta o di rispondere all’urgenza, o di realizzare obiettivi di finanza pubblica». In via esemplificativa si conside-

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caso in cui le scelte legislative sono state dichiaratamente deflazioniste, com’è accaduto con l’introduzione del procedimento di reclamo/mediazio-ne

20, l’effettivo confronto tra le parti, direttamente collegato a realistiche probabilità di deflazione, può, infatti, come si osserverà, restare sacrificato. Esistono, in vero, “automatismi” che sono in stridente contrasto con il con-traddittorio procedimentale e irrigidiscono, nuovamente, i rapporti tra le par-ti costringendoli in schemi anelastici ben al di là della necessità di attuare l’azione impositiva entro forme prestabilite, nell’interesse dei contribuenti stessi e contro possibili abusi autoritativi

21. Gli automatismi introdotti nelle fasi procedimentali precontenziose, non rispondono a esigenze di legalità ma, nelle intenzioni dichiarate dallo stesso legislatore, corrispondono uni-camente o, comunque, in modo assolutamente preminente ad esigenze di celerità, e sin troppo palesemente intendono rimediare alle difficoltà che l’Amministrazione potrebbe incontrare nell’accertamento come nella ri-scossione del tributo

22. Quest’ultima esigenza, dunque, può divenire tal- rino i problemi emergenti dalla concentrazione della riscossione nell’accertamento, al qual riguardo si rinvia a P. COPPOLA, La concentrazione della riscossione nell’accertamento: una riforma dagli incerti profili di ragionevolezza e coerenza interna, in Rass. trib., n. 6, 2011, p. 1421 ss., par. 2, lett. g).

20 Com’è noto per effetto dell’art. 39, comma 9, D.L. 6 luglio 2011, n. 98 successiva-mente convertito in L. 15 luglio 2011, n. 111, appunto, quale «rimedio amministrativo per deflazionare il contenzioso», come precisato nella Relazione di accompagnamento al de-creto legge medesimo.

21 A. BERLIRI, Appunti sul fondamento e il contenuto dell’art. 23, in AA.VV., Studi in onore di Achille Donato Giannini, Milano, 1961. Per alcuni interventi recenti si rinvia, senza alcu-na pretesa di esaustività, a: A. FEDELE, Federalismo fiscale e riserva di legge, in Rass. trib., n. 6, 2010, p. 1525 ss.; M.V. SERRANÒ, La riserva di legge tributaria ed il consenso al tributo, Tori-no, 2008; S. CIPOLLINA, La riserva di legge in materia fiscale nell’evoluzione della giurispru-denza costituzionale, in L. PERRONE-A. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costitu-zionale, Napoli, 2006; G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1991.

22 Con estrema chiarezza P. SELICATO, Scambio di informazioni, cit.: «La scelta di atti-vare il contraddittorio nel procedimento è per lo più rimessa alla discrezionalità dell’ammi-nistrazione, che (nel pieno rispetto delle norme nazionali vigenti) ne fa uso per mera con-venienza, quando ha bisogno di acquisire informazioni, documenti, dichiarazioni e (talvol-ta) confessioni, e non per offrire al contribuente l’opportunità di anticipare le proprie dife-se in un momento anteriore all’instaurazione del processo. In questo scenario, lo Statuto dei diritti del contribuente è rimasto sullo sfondo, in parte perché privo di norme idonee a raggiungere il risultato auspicato, in parte perché compresso dalla giurisprudenza naziona-le, a volte troppo prudente nell’affermazione dei principi di fondo che pure vengono dallo stesso chiaramente enunciati». Riguardo a tale “discrezionalità” dell’Amministrazione nel-l’attivare oppure no il contraddittorio, a proprio esclusivo vantaggio, sarà necessario torna-

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mente pressante da acquisire una rinnovata e, per certi versi inusitata cen-tralità, che rischia di rappresentare un emblematico ritorno al passato, senza produrre reali risultati positivi neppure a vantaggio della Amministrazione stessa

23.

2. Legittimità dell’accertamento emesso in violazione del termine dilatorio

Il contraddittorio procedimentale assicurato dallo Statuto è sempre a ri-schio di esegesi svalutative che finiscono per impedirne il corretto e effettivo svolgimento, con danno immediato dei contribuenti ma, in prospettiva, del-lo stesso interesse erariale e, soprattutto, con il concreto pericolo d’incenti-vare il contenzioso giudiziale e dilatarne i tempi, anziché deflazionarlo. Cir-costanza quest’ultima che, determinerebbe l’aumento dei carichi di lavoro dell’unico ramo della giustizia italiana sinora risparmiato dagli endemici e famigerati ritardi che l’affliggono.

In via esemplificativa queste tendenze si riscontrano nelle pronunce sva-lutative della Cassazione, con le quali, rilevando il carattere vincolato del Provvedimento impositivo di accertamento, se ne evince la legittimità, nono-stante sia stato emesso in violazione del termine dilatorio di sessanta giorni, concesso al contribuente per presentare le proprie osservazioni avverso le risultanze del processo verbale di constatazione, posto alla base dell’accerta-mento, assenti, peraltro, motivate ragioni di urgenza

24. Ciò che rileva, nel re nell’esaminare i meccanismi del reclamo e della mediazione raffrontando le posizioni delle parti.

23 V. L. FERLAZZO NATOLI, La riscossione dei tributi, Relazione al Convegno, Il sistema tributario tra storia e riforme, Roma, 25-26 maggio, 2012; ID., La trasparenza nel procedi-mento di riscossione (tra complessità giuridica e ruolo della Corte Costituzionale), in Riv. dir. trib., n. 3, 2009, I, p. 309 ss.

24 Ci si riferisce, ovviamente, all’avviso di accertamento emesso in violazione del com-ma 7 dell’art. 12 dello Statuto e, dunque, alle ipotesi in cui l’atto in questione, appunto, sia emanato prima che sia spirato il termine dei sessanta giorni concesso al contribuente per avanzare le proprie osservazioni in merito al processo verbale del quale è prevista, a tal fi-ne, la comunicazione. In particolare, la Suprema Corte ha affermato la legittimità dell’avvi-so, nonostante l’immotivata violazione del contraddittorio, nella discussa sent. 13 ottobre 2011, n. 21103 tornando ad avvalorare un orientamento, già espresso nell’ord. 18 luglio 2008, n. 19875 che sembrava essere stato ormai abbandonato. Un precedente revirement, infatti, sembrava destinato ad affermarsi nel segno di un «termine (è) inteso a garantire al contribuente la possibilità di interagire con l’amministrazione prima che essa pervenga alla emissione di un avviso di accertamento e in tal senso il mancato rispetto del termine, sacri-

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segno di quanto osservato, è che la relativizzazione del divieto, espressamente disposto dall’art. 12 Statuto

25, si è prodotta attraverso il confronto della norma statutaria con quella, peraltro assolutamente più generale, di cui al comma 2 dell’art. 21 octies, L. 7 agosto 1990, n. 241, in tema di procedimen-to amministrativo, secondo la quale «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo con-tenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Di conseguenza, la scelta svalutativa è frutto di un’esegesi fonda-ta proprio sul preteso “automatismo giuridico” degli atti impositivi in que-stione, che determinerebbe, appunto, l’impossibilità dell’atto, in quanto vin- ficando un diritto riconosciuto dalla legge al contribuente, non può che comportare l’il-legittimità dell’accertamento, senza bisogno di alcuna specifica previsione in proposito» (Cass. nn. 6088/2011; 10381/2011; 22320/2010). Si vedano con particolare riferimento alle citate sentenze del 2011: A. COLLI VIGNARELLI, La Cassazione si pronuncia in modo di-scorde in tema di invalidità dell’accertamento per violazione del contraddittorio anticipato, in Rass. trib., n. 2, 2012, p. 453 ss.; P. RUSSO, Le conseguenze del mancato rispetto del termine di cui all’articolo 12, ultimo comma, della legge n. 212/2000, in Riv. dir. trib., n. 12, 2011, I, p. 1077 ss.; G. TABET, Ancora incerta la sorte degli accertamenti emessi prima del termine di 60 giorni, in Corr. trib., n. 44, 2011, p. 3694 ss.; F. TUNDO, Dubbi sulla nullità dell’avviso di accertamento emanato prima dei sessanta giorni dal p.v.c., in Corr. trib., n. 42, 2011, p. 3408 ss.; ID., Processo verbale di constatazione nella fase di verifica a garanzia del contraddittorio, in Corr. trib., n. 26, 2011, p. 2095 ss.; G. MARONGIU, Contribuente più tutelato nell’interazione con il fisco anche prima dell’avviso di accertamento, in Corr. trib., n. 21, 2011, p. 1724 ss. In generale sul tema: F. TUNDO, Dialogo Fisco-contribuente tra contraddittorio anticipato e ri-spetto del termine per l’emanazione dell’avviso di accertamento, in Riv. giur. trib., n. 9, 2010, p. 813 ss.; M. BASILAVECCHIA, Quando le ragioni d’urgenza possono giustificare l’anticipa-zione dell’accertamento?, in Corr. trib., 2010, p. 3971 ss.; M. BRUZZONE, Diritto al contrad-dittorio preventivo e motivazione del provvedimento impositivo nell’interpretazione adeguatrice suggerita dalla Consulta, in Riv. giur. trib., n. 2, 2010, p. 121 ss.; G. RAGUCCI, Il contradditto-rio nei procedimenti tributari, Torino, 2009; D. STEVANATO, Mancato rispetto del termine per le deduzioni difensive e illegittimità dell’avviso di accertamento, in Dialoghi trib., 2009, p. 614 ss.; C. SOZZI, Contraddittorio anticipato e motivazione dell’atto di accertamento, in Rass. trib., n. 6, 2008, p. 1746 ss.; G. TABET, Sospensione del potere impositivo dopo la chiusura delle ope-razioni di verifica?, in Boll. trib., n. 12, 2006, p. 1057 ss.; L. FERLAZZO NATOLI, La tutela del contribuente nel procedimento istruttorio (tra conventio ad excludendum ed uguaglianza costi-tuzionale), in Dir. prat. trib., n. 3, 2006, I, p. 577 ss.; L. FERLAZZO NATOLI-S. ROMEO, La tutela del contribuente ex articolo 12 della legge n. 212/2000, in Boll. trib., n. 14, 2002, p. 1047 ss.

25 V. comma 7, art. 12, L. n. 212/2000: «nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni ... il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richie-ste che sono valutate dagli Uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emana-to prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza».

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colato, ad essere diverso da quello dato e, pertanto, la sostanziale irrilevanza delle osservazioni dei contribuenti rispetto all’atto stesso

26. E, non a caso, in un’altra sent. 16 settembre 2011, n. 18906, la Suprema Corte, pur giungen-do a conclusioni meno limitative, annota che l’interesse al contraddittorio «deve essere bilanciato con quello alla riscossione dei tributi»

27. Esegesi queste dalla rilevanza ancor più significativa perché sopraggiunte successi-vamente e nonostante gli interventi garantisti della Corte costituzionale

28 e della Corte di Giustizia UE

29 con i quali, sia pure entro certi limiti, si ritene-

26 Il concetto di “automatismo giuridico” in relazione alla fattispecie in esame è accetta-to anche da G. INGRAO, La valutazione del comportamento delle parti nel processo tributario, Milano, 2008, pp. 137-138, il quale conclude, tuttavia, in senso critico e, dunque, confor-me a quanto osservato nel testo, che questo “automatismo” dovrebbe essere «difficilmen-te rinvenibile in materia tributaria, nonostante la loro (degli atti) natura essenzialmente vincolata». Sul medesimo argomento si vedano, altresì, L. DEL FEDERICO, I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, in Rass. trib., n. 6, 2011, p. 1410 ss. e M. BASILAVECCHIA, Quando le ragioni di urgenza possono giustificare l’anticipazione dell’accerta-mento?, cit.; ID., La nullità degli atti impositivi; considerazioni su principio di legalità e funzio-ne amministrativa, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2006, I, p. 358, che evidenziando la rilevanza so-stanziale delle garanzie statutarie ritengono che la loro eventuale violazione non dovrebbe essere ridotta al rango di mera irregolarità formale e, pertanto, nulla dovrebbe avere a che fare con l’art. 21 octies, L. n. 241/1990 e, comunque, che sarebbe «irragionevole svuotare le fondamentali garanzie specificamente poste dallo Statuto in ragione di una norma che attiene al generale regime delle garanzie dell’amministrato (se è vero che il contribuente necessitava di un apposito Statuto)», come giustamente osserva L. DEL FEDERICO, I rap-porti tra lo Statuto, cit., p. 1410. Al riguardo si rinvia, altresì, alle osservazioni di P. SELICATO, Scambio di informazioni, cit. e nota 97, che evidenzia l’ampia discrezionalità che, comun-que, dispiega l’Amministrazione attraverso la motivazione dell’atto, neppure limitata alla semplice valutazione fattuale e la “coessenzialità” esistente tra obbligo di motivazione e termine di cui, rispettivamente, agli artt. 7 e 12 dello Statuto anche in relazione all’even-tuale prevista trasgressione del termine stesso che, appunto, deve essere a propria volta motivata. Più in generale riguardo all’importanza della motivazione si veda C. CALIFANO, La motivazione degli atti impositivi tra forma e sostanza, principi europei e valori costituziona-li, in Riv. trim. dir. trib., n. 1, 2013, p. 81 ss., quale attuazione nel procedimento amministra-tivo del principio di buona amministrazione.

27 Cass. n. 18906/2011, cit., commentata sovente insieme alla già ricordata Cass. n. 21103/2011 e, dunque, in via d’approfondimento si rinvia alla dottrina già richiamata nel-le precedenti note.

28 Corte cost., ord. 24 luglio 2009, n. 244 commentata da: M. BRUZZONE, op. loc. ult. cit.; in Corr. trib., 2009, p. 2915, commento di A. MARCHESELLI, Nullità degli avvisi di accer-tamento senza contraddittorio con il contribuente.

29 Corte di Giustizia UE, sent. C-349/07, Sopropé, cit. Al riguardo si veda G. RAGUCCI, Il contraddittorio come principio generale del diritto comunitario, in Rass. trib., n. 2, 2009, p. 570 ss.; L. SALVINI, La cooperazione del contribuente ed il contraddittorio nell’accertamento, in Corr. trib., n. 44, 2009, p. 3576 ss.

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va definitivamente affermata la “dignità” del diritto al contraddittorio nei procedimenti amministrativi tributari. Il valore cogente della disposizione in esame, sulla falsariga dell’ord. n. 244/2009 della Corte costituzionale, sa-rebbe, infatti, rafforzato in ragione del combinato disposto tra lo stesso art. 12, comma 7, della L. n. 212/2000, con gli artt. 3, 7, comma 1, e 21 septies, L. n. 241/1990, e con l’art. 42, commi 2 e 3, D.P.R. n. 600/1973 o con l’art. 56, comma 5, D.P.R. n. 633/1972, a seconda che si verta in materia d’imposte dirette o Iva. L’orientamento garantista per i contribuenti, non solo non ritiene giustificabile l’anticipazione immotivata, ma considera ne-cessaria la predisposizione di una giustificazione specifica e oggettivamente valida da parte dell’Amministrazione

30. Considerato il palese contrasto di giudicati

31, della questione sono state investite le Sezioni Unite che, nella sent. 29 luglio 2013, n. 18184

32, hanno tentato una non facile composizio-ne. La ricostruzione operata, riconoscendo la peculiare dignità della norma in esame «già per il solo essere inserita nello Statuto dei diritti del contri-buente», non solo valorizza «la specifica clausola rafforzativa di autoquali-ficazione delle disposizioni stesse come attuative delle norme costituzionali richiamate e come principi generali dell’ordinamento tributario»

33 ma, in particolare, evidenzia la portata del “contraddittorio procedimentale” cui è funzionale il disposto dell’art. 12 nel «favorire l’interlocuzione tra le parti anteriormente alla (eventuale) emissione del provvedimento ... diretto non solo a garantire il contribuente, ma anche ad assicurare il migliore esercizio

30 In altri termini una motivazione che non faccia riferimento a esigenze determinate da negligenza imputabile alla stessa Amministrazione, da carenze organizzative e organiche o, semplicemente, da esigenze di cassa. In tal senso si veda, per esempio, Cass. n. 16999/1912, in Fisconline. In aperto contrasto con quest’ultima, invece, l’affermazione dell’appena di poco precedente sent. n. 11944/2012, della medesima Corte di Cassazione, secondo la quale «l’obbligo di motivazione si riferisce esclusivamente alle ragioni della pretesa tribu-taria, ma non anche ai tempi di emanazione dei provvedimenti impositivi o alle regole pro-cedimentali». In altri termini, il motivo dell’urgenza non deve essere esplicitato. Argomen-to, peraltro, ripreso, in modo piuttosto contraddittorio, anche dalle Sezioni Unite nella sent. 29 luglio 2013, n. 18184 di cui si tratta nel testo.

31 Ben sintetizzato dalla stessa Cassazione, sez. V, ord. 11 maggio 2012, n. 7318, in GT-Riv. giur. trib., n. 8-9, 2012, p. 673 ss., con commento di F. TUNDO, Validità dell’avviso di accertamento emesso ante tempus: i difformi orientamenti richiedono l’intervento delle Sezioni Unite, p. 675 ss.

32 In Il Fisco, n. 31, 2013, p. 4858 ss., con commento di A. RUSSO, Solo l’insussistenza dei motivi di urgenza invalida l’accertamento “anticipato”; P. TURIS, Nullo l’accertamento emesso prima del decorso di sessanta giorni dalla consegna del “pvc”, in Il Fisco, n. 32, 2013, p. 4975 ss.

33 Di cui all’art. 1, L. n. 212/2000. In questo senso anche la recente Cass. n. 9308/2013.

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della potestà impositiva» 34. Premesse dalle quali è tratta, coerentemente e

inevitabilmente, l’invalidità «dell’avviso di accertamento emanato prematu-ramente», cioè prima dello spirare del termine dilatorio prescritto dal comma 7 dell’art. 12 e «in assenza di qualificate ragioni di urgenza»

35. La Corte, dunque, riconosce la “rilevanza” del precetto, e afferma che la sua “funzione” è “di diretta derivazione da principi costituzionali” così come stigmatizza “la forza impediente” del “fatto viziante”, cioè del mancato ri-spetto del termine

36. In aperto dissenso con l’orientamento prima richiama-to, è la stessa Cassazione a concludere che «è vano addurre il preteso carat-tere vincolato dell’avviso di accertamento rispetto al verbale di constatazio-ne sul quale si basa»

37.

34 La Corte specifica chiaramente il vantaggio per l’Amministrazione poiché «risulterà tanto più efficace, quanto più si rivelerà conformato ed adeguato – proprio in virtù del dia-logo tra le parti, ove reso possibile – alla situazione del contribuente, con evidenti riflessi positivi anche in termini di deflazione del contenzioso».

35 Il “vizio” procedimentale, secondo i supremi giudici, è «costituito dal non aver mes-so a disposizione del contribuente l’intero lasso di tempo previsto dalla legge per garantir-gli la facoltà di partecipare al procedimento stesso, esprimendo le proprie osservazioni che l’Ufficio è tenuto a valutare, come la norma prescrive, cioè di attivare, e coltivare, il con-traddittorio procedimentale». È opportuno porre l’accento su due passaggi di questo si-gnificativo argomento. Il luogo in cui si evidenzia la rilevanza di garantire al contribuente “l’intero lasso di tempo” e quello in cui si esplicitano i motivi di tale rilevanza, cioè la ne-cessità di dare il tempo di “esprimere le proprie osservazioni”, ma anche all’Ufficio di po-terle valutare come “è tenuto” a fare. Poiché è questa la sostanza del contraddittorio, la contrazione di tale termine deve restare assolutamente e motivatamente eccezionale, af-finché la garanzia statutaria non sia vanificata o si traduca in una semplice, quanto inutile e forsanche dannosa dilazione. In proposito, invece, si osserva una certa incoerenza con le successive affermazioni delle Sezioni Unite, puntualmente riprese, nuovamente in funzio-ne svalutativa, da successiva Cass. n. 20796/2013, della quale ancora si tratta nel testo.

36 In proposito attenta dottrina osserva trattarsi di un termine nel corso del quale il po-tere impositivo sarebbe compresso o sospeso e, di conseguenza, la nullità dell’atto, discen-dente dalla violazione del termine stesso, sarebbe ascrivibile alla categoria del vizio di “ca-renza di potere”. F. TUNDO, Validità dell’avviso di accertamento, cit., p. 679; G. MARONGIU, Contribuente più tutelato, cit., p. 1719; G. TABET, Sospensione del potere impositivo, cit., p. 1057; S. SAMMARTINO, op. cit., p. 235.

37 La Cassazione, confermando un proprio precedente (n. 10381/2011), con sent. 11 settembre 2013, n. 20770 ha ritenuto nullo l’accertamento non preceduto dal processo verbale proprio perché tale mancanza priva il contribuente della facoltà di presentare os-servazioni, prevista dall’art. 12, comma 7, dello Statuto, impedendo l’instaurazione del con-traddittorio. Il principio, peraltro, è stato valorizzato a prescindere dall’eccezione dell’Uffi-cio che, nella specie, giustificava la mancata redazione del verbale perché durante l’accesso non erano state svolte attività istruttorie, ma solo richiesta documentazione. La Corte, af-fermando l’irrilevanza di simile argomento rammenta che la fase procedimentale preter-

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Tuttavia, i giudici di piazza Cavour rischiano di relativizzare nuovamente la portata del risultato conseguito. Riguardo all’eccezione ricorrente nei casi di particolare e motivata urgenza, infatti, la Corte, ritiene che il requisito dell’urgenza sia da valutare in senso sostanziale, “nella realtà giuridico-fat-tuale”, senza necessità di enunciazione in motivazione da parte dell’Ammi-nistrazione, nonostante la lettera della norma in esame sembrerebbe richie-derla

38. La conseguenza sarebbe, ancora una volta, lesiva rispetto ai canoni di un leale contraddittorio, poiché al contribuente non è dato di conoscere e se l’anticipazione sia motivata o meno 39. Circostanza che non solo è di per sé lesiva del “dialogo” ma rilevante anche sotto l’aspetto della contestazione, poiché, come la stessa Cassazione rammenta

40, l’atto potrebbe essere impu-gnato anche solo per farne valere l’illegittimità discendente dalla violazione del termine, in base a quanto ritenuto dalle Sezioni Unite, ma tale contesta-zione avverrebbe “alla cieca”, il che non sembra congruo né allo spirito della legge né al suo scopo deflativo

41. Il principio di diritto esitato non appare risolutivo neppure sotto l’aspetto della “qualificazione” delle “ragioni del-l’urgenza”. Si afferma, infatti, che queste devono essere «valide e particolari – cioè specificamente riferite al contribuente e al rapporto tributario in que- messa è finalizzata ad acquisire «elementi utili per la successiva emanazione dell’atto im-positivo» e sembra doversi ritenere che si riferisca, con ciò, anche alle osservazioni del contribuente.

38 Le Sezioni Unite osservano al riguardo che «l’uso del termine “motivata” non impli-ca, infatti, necessariamente il richiamo alla motivazione dell’avviso di accertamento». In ultima analisi dovrebbe, almeno, essere consentito il ricorso, e concessa la sospensiva ex art. 47, D.Lgs. n. 546/1992, con obbligo dell’Amministrazione di provare, in sede proces-suale, la correttezza della procedura d’urgenza applicata.

39 In merito alla differente, ma connessa, fattispecie dell’eventuale accelerazione dell’af-fidamento in carico all’Agente della riscossione, conseguenza dell’immediata esecutività ormai concessa all’avviso di accertamento, A. PANIZZOLO, Spunti di riflessione sulla sospen-sione della riscossione coattiva dell’avviso di accertamento esecutivo nell’attuale sistema norma-tivo, in Riv. trim. dir. trib., n. 2, 2013, p. 358 e nota 20, similmente osserva che «il contri-buente, stanti gli effetti lesivi del potere in parola, deve sempre essere in grado di controlla-re se il suo esercizio sia stato conforme alla legge: ecco perché è necessario che ... le moti-vazioni in relazione alla sussistenza di un fondato pericolo per la riscossione» siano “espo-ste nell’avviso di accertamento”.

40 Così si legge nella sentenza commentata: «a fronte di un avviso di accertamento emesso prima della scadenza del termine de quo e privo dell’enunciazione dei motivi di urgenza che lo legittimano, il contribuente potrà, ove lo ritenga, anche limitarsi ad impu-gnarlo per il solo vizio della violazione del termine».

41 Conoscendo le ragioni in questione il contribuente può decidere consapevolmente se ricorrere e con quali argomenti.

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stione», senza con ciò risolvere il problema. Nonostante la pregevole sintesi operata dalle Sezioni Unite, infatti, persiste un consistente margine d’indul-genza nei confronti delle ragioni erariali, che, se non ridimensionato, torne-rebbe ad affermarsi. Come accade nella successiva sent. 11 settembre 2013, n. 20769 proprio riguardo all’onere di motivazione dell’urgenza. La Sezione tributaria della Corte di Cassazione, infatti, ha sostenuto, che l’esigenza di «evitare la decadenza dal potere di accertare eventuali violazioni da parte del contribuente ...» sarebbe di per sé sufficiente motivazione dell’anticipa-zione «in quanto si iscrive nell’esigenza di carattere pubblicistico, connessa all’efficiente esercizio della potestà amministrativa nel fondamentale settore delle entrate tributarie». In altri termini, in quest’ultimo arresto la Cassa-zione consente all’Amministrazione di “aggirare” agevolmente il problema, ricorrendo a una motivazione che, sebbene sia riferita al singolo rapporto tributario è, nella sostanza, assai generica, tanto da rendere nuovamente pres-soché automatica la giustificazione dell’anticipazione in esame nella gran parte degli accertamenti

42. Peggio, l’operazione ermeneutica, pur richiaman-dosi al precedente delle Sezioni Unite, ripropone una divergente concezio-ne depotenziata dello Statuto del contribuente. Afferma, infatti, questa deci-sione che le norme statutarie «non hanno rango superiore alla legge ordina-ria e, pertanto, non possono consentire la disapplicazione della norma tribu-taria in asserito contrasto con le stesse. Di conseguenza, non potrebbero le suindicate esigenze pubblicistiche, fondate queste ultime su principi di ran-go costituzionale desumibili dall’art. 97 Cost., essere pretermesse o pospo-ste»

43. In altri termini, sembra doversi concludere che mentre alle esigenze impositive e di gettito la Corte riconosce rango costituzionale non potrebbe affermarsi altrettanto riguardo al diritto al contraddittorio che pure è espressione di valori costituzionali quali il diritto alla difesa e alla buona am-ministrazione

44.

42 Dello stesso avviso E. DE MITA, Per lo Statuto un rispetto senza deroghe, in Il Sole 24 Ore, n. 208, 31 luglio 2013, p. 14 per il quale non possono avere valore «le ragioni generali che riguardano tutti i contribuenti, quale l’imminente scadenza dei termini previsti dalla legge».

43 Esegesi basata su una, ancora ricorrente, giurisprudenza svalutativa. Si vedano in tal senso: Cass. nn. 8254/2009, 8145/2011, peraltro richiamate dagli stessi supremi giudici nella sentenza in esame, ma anche Cass., ord. n. 112/2013.

44 Al riguardo, peraltro, la Suprema Corte spiega che un termine, pur se ridottissimo, prima della notifica dell’avviso sarebbe, comunque, sufficiente al contribuente per presen-tare le proprie osservazioni, considerato che la stessa già ricordata sentenza Sopropé della Corte di Giustizia, in materia «ha ritenuto comunque congruo e conforme alle prescrizio-

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3. L’abuso del diritto e gli accertamenti standardizzati

L’esigenza del contraddittorio è collegata anche alla discussa affermazio-ne giurisprudenziale

45 del principio di abuso nel e del diritto tributario 46. Il

principio generale non scritto 47 ricostruito e applicato dalla Corte di Cassa-

ni del diritto comunitario un termine da otto a quindici giorni concesso al contribuente per presentare le proprie osservazioni». L’argomento non pare condivisibile in base a quanto già osservato dalle Sezioni Unite, come rilevato in precedenti note, infatti, il termine deve essere congruo ad un reale contraddittorio, cioè ad un “dialogo” che prevede non solo la formulazione delle osservazioni ma anche la ponderazione e risposta alle stesse.

45 Com’è noto l’elaborazione stessa del principio è transitata dalla giurisprudenza co-munitaria – con l’affermazione nelle sentenze della Corte di Giustizia CE, 21 febbraio 2006, C-255/02, Halifax, e C-425/06, Part Service – a quella nazionale attraverso alcune celebri sentenze della Suprema Corte di Cassazione, sul finire del 2008. Si rammentano, a tal fine, sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30055, in Riv. giur. trib., n. 3, 2009, p. 216 ss., con nota di A. LOVISOLO, L’art. 53 Cost. come fonte della clausola generale antielusiva ed il ruolo delle “valide ragioni economiche” tra abuso del diritto, elusione fiscale ed antieconomicità delle scelte imprenditoriali; Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30057, in Corr. trib., n. 6, 2009, p. 403 ss., con nota di R. LUPI-D. STEVANATO, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva; Cass., sez. V, n. 1465/2009, in Corr. trib., n. 11, 2009, p. 823 ss., con nota di M. BEGHIN, L’abuso del diritto tra capacità contributiva e certezza dei rapporti Fisco-contribuente. In generale sul tema si veda, altresì, L. DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010. Per ulteriori riferimenti si ve-dano le note a seguire.

46 Al riguardo, senza alcuna pretesa d’esaustività, si rinvia a: F. TESAURO, Elusione e abu-so nel diritto tributario italiano, in Dir. prat. trib., 2012, I, p. 684 ss.; A. FIORENTINO MARTI-NO, Note critiche in tema di abuso, in Dir. prat. trib., n. 4, 2011, p. 736; P. PIANTAVIGNA, Abuso del diritto fiscale nell’ordinamento europeo, Torino, 2011; C. MELILLO, Elusione e abu-so del diritto tra ipotesi di integrazione ed esigenze di certezza normativa, in Dir. prat. trib., n. 3, 2010, p. 423 ss.; A. CONTRINO, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. prat. trib., n. 3, 2009, I, p. 463 ss.; V. FICARI, Clausola generale antielusiva, art. 53 della Costituzione e regole giurisprudenziali, in Rass. trib., n. 2, 2009, p. 390 ss.; G. ZIZZO, Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. trib., n. 2, 2009, p. 487 ss.; A. LOVISOLO, Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio, in Riv. dir. trib., n. 1, 2009, p. 49 ss.; AA.VV., Elusione ed abuso del diritto tribu-tario. Orientamenti attuali in materia di elusione e abuso del diritto ai fini dell’imposizione tri-butaria, a cura di G. Maisto, Milano, 2009; F. AMATUCCI, L’abuso del diritto nell’ordinamen-to tributario nazionale, in Corr. giur., 2009, p. 553 ss.; M. BEGHIN, Alla ricerca di punti fermi in tema di elusione fiscale e abuso del diritto tributario (nel comparto dei tributi non armo-nizzati), in Attuazione del tributo e diritti del contribuente in Europa, a cura di T. Tassani, Roma, 2009, p. 137 ss.; G. CHINELLATO, Codificazione tributaria e abuso del diritto: contri-buto allo studio degli strumenti di contrasto all’elusione fiscale, Padova, 2007.

47 Il divieto di abuso, infatti, costituisce un “principio generale antielusivo” considerato immanente poiché di matrice costituzionale e, pertanto, rilevabile anche d’ufficio. Esso è

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zione, si accorda con difficoltà con l’esigenza di certezza e il conseguente e necessario affidamento che i contribuenti devono poter riporre nelle norme che regolano le condotte fiscalmente lecite

48. Di pari passo all’affermazione del principio, peraltro, è sfumata la classica distinzione tra elusione ed eva-sione

49 e si è delineata una sanzionabilità amministrativa e addirittura pena- inteso a precludere il vantaggio fiscale, anche in mancanza di specifica disposizione, laddo-ve la condotta del contribuente non abbia “ragioni economicamente apprezzabili”. V. Cass., sez. VI, ord. 14 agosto 2012, n. 14494. Osserva F. TESAURO, Giustizia tributaria e giusto processo, in Rass. trib., n. 2, 2013, p. 309 ss., che «non è conforme al modello impugnatorio l’orientamento giurisprudenziale secondo cui i giudici possono riqualificare la fattispecie, come se l’atto impugnato perdesse valore in giudizio e il giudice potesse stabilire d’ufficio quale sia il fondamento della pretesa fiscale, ... come accade quando la Cassazione rileva d’ufficio i casi di elusione/abuso, sostituendo una sua motivazione a quella su cui è fonda-to l’atto impugnato» In tal senso Cass., 11 febbraio 2013, n. 3212 ha, al contrario, emble-maticamente avallato la pericolosa deriva in questione, osservando che «eventuali cause di invalidità o inopponibilità del negozio dedotto in lite, anche in considerazione dell’indi-sponibilità della pretesa tributaria, debbono poter esser oggetto di rilievo d’ufficio da parte del giudice stesso», tornando ad argomentare, similmente a quanto osservato in materia di anticipazione dell’accertamento, in base ad una vincolatività che distrugge il senso stesso dell’esistenza del contraddittorio non solo nel procedimento ma anche nel processo. Si veda A. CARINCI, Il contraddittorio bilancia la rilevabilità d’ufficio, in Il Sole 24 Ore – Norme e tributi, n. 69, 11 marzo 2013, p. 1.

48 Sia consentito rinviare a quanto osservato in L. FERLAZZO NATOLI-L. NICOTINA, Quando è la Cassazione ad abusare del diritto, in Italia Oggi, 22 marzo 2010, p. 34 e, succes-sivamente, ID., Il problema dell’abuso del diritto è ben lungi dall’essere risolto, in Italia Oggi, 22 marzo 2012, p. 36, quest’ultima a commento di Cass., 16 febbraio 2012, n. 2193 in spe-cie laddove si rileva come per la Cassazione il fondamento del principio nell’art. 53 Cost. sembra destinato a rendere pressoché irrilevanti anche possibili futuri interventi legislativi delimitativi «non necessari né, di conseguenza, sufficienti a delimitare l’area di rilevanza antielusiva che resterebbe, comunque, ancorata saldamente alla valutazione casistica e sog-gettiva delle singole condotte, alla luce del dovere contributivo sostanziale». Un’esegesi che lascia, insomma ben poco spazio a una “procedimentalizzazione” che, al contrario, avremmo voluto vedere applicata anche ai casi di abuso del diritto. In senso pienamente conforme, G. PETRILLO, L’osservanza del principio di proporzionalità UE nell’individuazione di criteri presuntivi “ragionevoli”, in Riv. trim. dir. trib., n. 2, 2013, p. 391, riguardo alla neces-sità di una disciplina del procedimento e del sistema probatorio che, peraltro, avrebbero consentito “la conformità con il diritto UE”.

49 L’identificazione delle condotte penalmente rilevanti – che si avrebbe solo «in pre-senza di una descrizione della fattispecie elusiva provvista dei caratteri di determinatezza e tassatività», cioè di violazione di specifiche norme antielusive che garantiscano una “ra-gionevole prevedibilità” – non solo non è risolutiva, in termini di certezza del diritto e affi-damento, ma è poco rassicurante, considerato il progressivo consolidarsi dell’abuso e la sua innegabile affinità all’elusione. La distinzione tra “elusione codificata” e abuso, ribadita dalle sezioni penali della Cassazione (31 luglio 2013, n. 33187 dalla quale sono estrapolate le citazioni nel testo, e 9 settembre 2013, n. 36894) a volte, peraltro, appena adombrata

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le dei comportamenti elusivi che rischia di “contagiare” anche quelli più ge-nericamente abusivi

50. Complice l’indeterminatezza dell’abuso, che costi-tuisce un evidente caso di “vizio originario” di “comunicazione” tra le parti, si corre il rischio di riaffermare «una coincidenza tra accertamento di mag-gior imponibile e compimento di illeciti – almeno tali sotto il profilo ogget-tivo – in quanto il primo presuppone comunque una dichiarazione infede-le», anche in questo caso una sorta di «automatismo tra dichiarazione retti-ficata e sanzioni irrogate»

51. Per di più enfatizzare la distinzione tra elusione codificata e abuso può rivelarsi controproducente proprio sotto l’aspetto del contraddittorio procedimentale che, al contrario deve evidenziarsi come pa-lesemente indispensabile, sebbene non proprio agevole, dovendo il contri- (es. Cass., sez. VI, ord. 30 gennaio 2013, n. 2234), non può dirsi, comunque, risolutiva. Come opportunamente rilevato da attenta dottrina, infatti, «rende arbitro della rilevanza penale del comportamento elusivo/abusivo la stessa Amministrazione finanziaria», solle-vando dubbi di legittimità sul sistema sanzionatorio penale e amministrativo, v. G. MARINI, Note in tema di evasione fiscale, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Riv. trim. dir. trib., n. 2, 2013, p. 340, anche per approfondimenti e rinvii, pp. 330 e 331, note 3 e 5. Si nota, infine, che la sent. n. 36894/2013 solleva anche il problema delle di-scrasie probatorie tra giudizio penale e tributario. In merito sia consentito rinviare a L. NI-COTINA, Le interferenze tra processo tributario e processo penale: pregiudizialità, autonomia o coordinazione critica, in Riv. dir. trib., 2010, II, p. 455 ss. Si veda, altresì, Cass. pen., sez. F, 2 settembre 2013, n. 35846.

50 V. Cass., sez. II pen., 28 febbraio 2012, n. 7739, in Dir. prat. trib., 2012, II, p. 766 ss. e in Riv. dir. trib., n. 3, 2012, III, p. 61 ss., con nota di I. CARACCIOLI, Imposta elusa e reati tri-butari di evasione nell’impostazione della Cassazione. Sul rapporto tra abuso e illecito si ve-dano, ancora: M. BASILAVECCHIA, Presupposti ed effetti della sanzionabilità dell’elusione, in Dir. prat. trib., 2012, I, p. 797 ss.; A. CONTRINO, Sull’ondivaga giurisprudenza in tema di ap-plicabilità delle sanzioni amministrative tributarie nei casi di “elusione codificata” e “abu-so/elusione”, in Riv. dir. trib., 2012, p. 261 ss.; Cass., 30 novembre 2011, n. 25537, in Dir. prat. trib., 2012, II, p. 763 e ss., con nota di L.R. CORRADO, Elusione e sanzioni: una dicoto-mia insanabile; Cass., sez. V, 18 maggio 2011, n. 21782, in Riv. dir. trib., 2012, II, p. 347 ss., con nota di S. LA ROSA, Gli incerti confini tra abuso del diritto, elusione ed illecito fiscale; A. COLLI VIGNARELLI, Elusione, abuso del diritto e applicabilità delle sanzioni amministrative tributarie, in Boll. trib., n. 9, 2009, p. 667 ss.; L. DEL FEDERICO, Elusione ed illecito tributario, in Corr. trib., n. 39, 2006, p. 3110 ss.; F. GALLO, Rilevanza penale dell’elusione fiscale, in Rass. trib., n. 2, 2001, p. 321 ss.

51 Il virgolettato è estrapolato da M. BASILAVECCHIA, Metodi di accertamento e capacità contributiva, in Rass. trib., n. 5, 2012, p. 1107 ss., il quale prosegue specificando che «que-sta coincidenza appare assai poco persuasiva, una volta che le tecniche di accertamento fanno uso di concetti indeterminati, privi di base normativa esplicita, e non si ancorano più al mancato rispetto di adempimenti formali, come nel sistema uscito dalla riforma tributa-ria degli anni settanta». Si vedano, altresì, F. TESAURO, Elusione e abuso, cit., p. 692 ss.; M. BASILAVECCHIA, Presupposti, cit., p. 799; A. CARINCI, Elusione tributaria, abuso del diritto ed applicazione delle sanzioni amministrative, ibidem, p. 793 ss.

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buente sobbarcarsi un ingrato onere probatorio. Proprio perché dimostrare l’esistenza di valide ragioni economiche al fine di poter contestare l’antieco-nomicità delle condotte abusive imputate diviene tanto più complesso quan-to più evanescenti siano i contorni della fattispecie elusiva, com’è tipico dell’abuso

52, deve, infatti, considerarsi applicabile anche all’abuso il proce-dimento di contestazione dell’elusione tipicizzato dall’art. 37 bis, commi 4 e 5, D.P.R. n. 600/1973. Procedimento che impone, espressamente a pena di nullità, un contraddittorio, preventivo e obbligatorio, con il contribuente

53. Al contempo, può divenire evanescente la differenza tra accertamento

sintetico e accertamento “automatico” attraverso la progressiva affermazio-ne di strumenti basati su presunzioni

54 e metodi standardizzati, quali studi di settore

55 e redditometro 56. La fiscalità di massa, in realtà, rendendo indi-

spensabile il ricorso a questi strumenti di accertamento sintetico, ribadisce

52 A. CARINCI, op. loc. ult. cit. Così Cass., 27 febbraio 2013, n. 4901 ribadisce come in-comba sul contribuente la dimostrazione delle valide ragioni economiche alternative e/o non marginali, tali da escludere l’abusività nell’ambito di una sentenza che sembra quasi con-siderare sufficiente indice di antieconomicità e, dunque, di abusività «l’insussistenza di un obbligo giuridico al ripianamento delle passività della partecipata». Sentenza, quest’ultima, che insieme alla n. 3243 dell’11 febbraio 2013 torna a utilizzare il c.d. principio generale di abuso in relazione a evasioni d’imposta e, dunque, a fattispecie di possibile rilevanza penale.

53 In senso conforme F. TUNDO, La mancata instaurazione del contraddittorio su un’ipo-tesi potenzialmente elusiva rende nullo il successivo atto impositivo, in GT-Riv. giur. trib., n. 7, 2012, p. 639, che, a commento della sent. 16 gennaio 2012, n. 2 della CTR Lombardia, evidenzia (pp. 635-638) le caratteristiche peculiari e cogenti di questa forma di contraddit-torio anche rispetto a quella più generica e facoltativa di cui all’art. 12, comma 7, Statuto di cui si è trattato sinora.

54 V. S. MULEO, Il principio europeo dell’effettività della tutela e gli anacronismi delle pre-sunzioni legali tributarie alla luce dei potenziamenti dei poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria, in Riv. trim. dir. trib., n. 3, 2012, p. 685 ss., molto critico in merito, parla di “in-gigantimento” dei poteri istruttori dell’Agenzia delle entrate, con particolare riguardo alle modifiche introdotte per effetto dell’art. 11, commi 2 e 3, D.L. n. 201/2011, convertito in L. n. 214/2011.

55 Sul tema specifico: M. BASILAVECCHIA, Accertamento e studi di settore soluzione finale, in GT-Riv. giur. trib., n. 3, 2010, p. 213 ss.; più in generale: M. VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano, 2007; A. MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008; G.M. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005.

56 L. PERRONE, Il redditometro verso accertamenti di massa (con obbligo del contradditto-rio e dell’invito all’adesione), in Rass. trib., n. 4, 2011, p. 887 ss., anche per riferimenti ad al-tra dottrina, sottolinea l’esigenza di «non trasformare il presupposto del tributo da reddito prodotto a reddito speso»; M. BEGHIN, Profili sistematici e questioni aperte in tema di accer-tamento “sintetico” e “sintetico redditometrico”, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 717 ss.

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l’esigenza di effettivi confronti tra Fisco e contribuenti al di fuori del conten-zioso giudiziale

57. Gli strumenti d’accertamento in questione, infatti, agevo-lano la difficile lotta all’evasione fiscale sollevando l’Amministrazione dagli oneri e dalle lentezze dell’accertamento analitico, antieconomico specie nei confronti di contribuenti di modeste dimensioni finanziarie. Il ricorso alla presunzione (studi di settore e redditometro) rischia, nondimeno, di confi-gurare pericolosi e illegittimi automatismi

58 se non adeguatamente contro-bilanciati da un contraddittorio procedimentale, non solo preventivo alla predisposizione degli strumenti stessi, ma anche preliminare all’accertamen-to e, ovviamente, alla lite fiscale che, viceversa, finirebbero per incentivare

59. Sia con riferimento agli studi di settore sia riguardo al redditometro si os-serva, invero, che il legislatore ha considerato tale esigenza

60 e non manca-

57 In senso conforme, riguardo agli studi di settore si veda Cass., sez. V, 28 luglio 2006, n. 17229, in GT-Riv. giur. trib., 2006, p. 1048 ss., con nota di A. MARCHESELLI, Per l’applicazione delle presunzioni semplici di cui agli studi di settore è necessaria la previa attua-zione del contraddittorio, e, più in generale, G. RAGUCCI, Centralità del contraddittorio nell’ac-certamento sintetico, in Corr. trib., n. 41, 2012, p. 3149 ss. Sulla falsariga, utilizza l’argomen-to in chiave “giustificativa” rispetto al reclamo-mediazione, M. LOGOZZO, Profili critici del reclamo e della mediazione tributaria, in Boll. trib., n. 21, 2012, p. 1505, laddove precisa, ap-punto, che «in una fiscalità di massa è impensabile che i conflitti tra contribuenti e fisco abbiano quale unico sbocco quello del processo».

58 V. L. PERRONE, op. loc. ult. cit., che in tal senso annota: «Se la norma procedimentale (metodo d’accertamento) ostacolasse la possibilità di prova contraria (o la rendesse dia-bolica) rischierebbe di divenire norma sostanziale e di trasformare il presupposto del-l’IRPEF da reddito prodotto in reddito speso o consumato». Si veda, altresì, M. BEGHIN, Accertamento sintetico, dimostrazione del nesso eziologico e probatio diabolica, in Corr. trib., 2013, p. 275 ss. Più in generale sul tema: L. TOSI, Profili di costituzionalità della parametriz-zazione del reddito, in AA.VV., Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo, a cura di C. Preziosi, Roma, 1996, p. 37 ss. D. CANNATA, La Suprema Corte “in difesa” dei contribuenti: il redditometro integra una presunzione semplice, in Rass. trib., n. 3, 2013, p. 653 ss., riassume, così, «qualsiasi forma di predeterminazione globale dell’imponibile renda inefficiente la dife-sa del contribuente che si esplichi attraverso le tecniche della prova giudiziale».

59 In senso ancor più ampio osserva in tal senso G. MARINO, Brevi note sull’onere della prova nel diritto tributario internazionale, in AA.VV., La normativa tributaria nella giurispru-denza delle corti e nella nuova legislatura, Atti del Convegno, Gli ottanta anni di Diritto e pra-tica tributaria, Genova 9-10 febbraio 2007, a cura di V. Uckmar, Padova, 2007, p. 503 che tali metodi diminuiscono «il grado di confidenza degli operatori economici nei confronti del sistema tributario». Osserva G. PETRILLO, op. cit., p. 398, che «l’obbligatorietà del con-traddittorio ad un adeguato sistema probatorio è in grado di garantire la proporzionalità delle presunzioni e la personalizzazione della tassazione» anche in queste ipotesi.

60 È opportuno rammentare, come già osservato, che con l’ultima revisione dell’art. 38. D.P.R. n. 600/1973, per effetto dell’art. 22, comma 19, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, con-vertito in L. 30 luglio 2010, n. 122 il legislatore ha espressamente precisato che «l’ufficio

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no, peraltro, sentenze con le quali la Suprema Corte ha inteso evidenziare il valore di tale contraddittorio, sanzionando con la nullità eventuali avvisi fondati su tali strumenti, non preceduti da rituale invito al contraddittorio procedimentale

61. Sembra, dunque, che, proprio per rimediare ai rischi de-gli accertamenti standardizzati, si vada affermando, almeno in questi casi, un diritto al contraddittorio che ancora, come osservato, non costituisce prin-cipio pienamente riconosciuto

62. La Cassazione sembra aver acquisito alcu-ni punti fermi, primo tra tutti che «la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal che procede alla determinazione sintetica del reddito complessivo ha l’obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e no-tizie rilevanti ai fini dell’accertamento e, successivamente, di avviare il procedimento di accertamento con adesione ai sensi dell’art. 5, D.Lgs. n. 218/1997». Similmente riguardo agli studi di settore in base al combinato disposto degli artt. 10, comma 3 bis, L. n. 146/1998, 37, comma 2, lett. b), D.L. n. 223/2006 e 5 D.Lgs. n. 218/1997.

61 Riguardo agli studi di settore si vedano: Cass., sez. un., 18 dicembre 2009, nn. 26635, 26636, 26637 e 26638, ribadito in Cass., sez. trib., ord. 7 ottobre 2011, n. 20680 con le quali i supremi giudici evidenziano che «la procedura di accertamento tributario standar-dizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determina-ta dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – me-ri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma na-sce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accer-tamento, con il contribuente». Così anche Cass., 23 ottobre 2013, n. 23994. Riguardo al redditometro, anche prima della revisione che ha introdotto un vero e proprio obbligo di contraddittorio, si veda, invece, Cass., sez. trib., 17 giugno 2011, n. 13289 che non solo equipara redditometro e studi di settore, ma precisa che l’obbligo del contraddittorio pre-ventivo si dovrebbe intendere tale anche prima della revisione normativa, non a caso defi-nita di aggiornamento – adeguamento. La circostanza è rilevante giacché in precedenza il vecchio redditometro era, invece, ritenuto fonte di presunzioni legali iuris tantum e, di conse-guenza, con un valore probatorio predeterminato che ammetteva solo la prova contraria (Cass. nn. 6813/2009; 3316/2009; 2656/2007; 22936/2007, 14367/2007). Sul punto M. BASILAVECCHIA, Verso il giusto equilibrio tra effettività della ricchezza accertata e strumenti presuntivi di accertamento, in GT-Riv. giur. trib., n. 4, 2013, p. 341 ss., specie p. 343 e nota 4, laddove segnala la delicata operazione ermeneutica di assimilazione in corso a commento di Cass., 20 dicembre 2012, n. 23554 rammentando, peraltro, l’opposto orientamento di Cass., ord. 6 agosto 2012, n. 14168.

62 Ciò nonostante il fatto che nel diritto comunitario il principio in questione è ormai stato enucleato da tempo dalla Corte di Giustizia che, comunque, ha anticipato e ispirato il nostro legislatore e la Cassazione anche riguardo al divieto di fondare l’imposizione in ba-se a soli dati statistici, come ricorda G. PETRILLO, op. cit., pp. 395-396, nota 46.

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contribuente» 63. Ne consegue che l’accertamento non può essere basato

sulle sole risultanze dell’applicazione degli standards. In vero, la Cassazione precisa che, pur essendo il contribuente libero di non rispondere all’invito al contraddittorio la conseguenza dell’eventuale rifiuto sarà, proprio, che l’Uf-ficio potrà «motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito»

64. L’affermazione, corret-tamente e integralmente intesa, non dovrebbe comunque legittimare auto-maticamente l’accertamento standardizzato in conseguenza del rifiuto del contraddittorio da parte del contribuente, poiché lascia al giudice la valuta-zione di tale condotta

65. In ogni caso, il contraddittorio, ne esce sicuramente valorizzato divenendo rischioso per entrambe le parti sottrarsi allo stesso

66.

63 Cass., sez. VI, ord. 27 giugno 2013, n. 16298 e sez. VI, ord. 18 giugno 2013, n. 15186. 64 Cass. ord. n. 15186/2013, cit. Già in precedenza, peraltro, la Corte si era espressa in

tal senso anche nell’ipotesi in cui il contribuente, pur accettando l’invito al contraddittorio, resti inerte non producendo prove a proprio vantaggio nel corso dello stesso (Cass., 8 marzo 2013, n. 5852; 15 maggio 2013, n. 11633).

65 Complessivamente, dunque, sembra che l’Ufficio debba, comunque, motivare l’ap-plicabilità in concreto dello standard, a prescindere dal contraddittorio con il contribuente e senza inversione probatoria al riguardo (CTR Lombardia, in Quotidianoipsoa on line, 17 ottobre 2013, n. 209/63/2013). Ovviamente nel caso di rifiuto del contraddittorio da par-te del contribuente, che non partecipa o partecipando resta inerte, l’Ufficio non dovrà, in-vece, dar conto delle inesistenti contestazioni del contribuente. La condotta preprocessua-le, comunque, non può, secondo la Cassazione, limitare l’impugnabilità dell’accertamento, il contraddittorio giudiziale o vincolare il giudice, poiché questi effetti sarebbero incostitu-zionali. E, pertanto, il giudice dovrà valutare autonomamente sia la condotta che le ecce-zioni del contribuente, come pure le motivazioni dell’Amministrazione (sez. un. 18 di-cembre 2009, n. 26635; Cass., sez. VI, 7 giugno 2013, n. 14492). Allo stesso modo, ferma restando la valutazione della condotta preprocessuale tenuta e, dunque, senza inficiare il valore e lo scopo di un “leale” confronto, «il contribuente non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, in-cluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddit-torio» (Cass., ord. n. 15186/2013, cit.).

66 Il mancato invito al contraddittorio come pure l’accertamento che non tenga conto, neppure implicitamente, delle contestazioni del contribuente dovrebbero determinare la nullità dell’accertamento in danno all’Ufficio; l’inerzia del contribuente, al contrario, sempli-ficherebbe il compito all’Ufficio e, nel peggiore dei casi, potrebbe essere considerato suffi-ciente ad elevare le presunzioni su cui sono basati gli accertamenti standardizzati a gravi, precise e concordanti, aggravando seriamente la posizione processuale del contribuente irresoluto o “sleale”. La mancata produzione di dati e documenti da parte del contribuen-te, se specificatamente richiesti dall’Amministrazione nella fase preventiva, potrebbe, inol-

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Nonostante l’orientamento giurisprudenziale sia, dunque, volto a ribadi-re la rilevanza legittimante del contraddittorio, deve rilevarsi che il legislato-re non ha espressamente sanzionato con la nullità l’eventuale compressione del contraddittorio da parte dell’Amministrazione, pur avendolo ricono-sciuto importante

67. Circostanza, quest’ultima, che deve destare preoccupa-zione, considerata l’aleatorietà del diritto vivente, espresso dalla Corte di Cas-sazione. Pertanto, potrebbe essere opportuno un intervento legislativo chia-rificatore.

4. Impugnazione facoltativa e mediazione tributaria

L’affermazione del contraddittorio amministrativo, più utile al progresso dei rapporti fiscali, s’impone nel corso del procedimento che condurrà al-l’emissione dell’atto definitivo, sia esso impositivo, esattivo o impoesattivo

68, piuttosto che successivamente all’atto stesso, sebbene anche da quest’ultima possa trarsi un’utilità in chiave deflattiva. A rigor di termini, anzi, quanto maggiore fosse l’effettivo, leale e diffuso rispetto del contraddittorio real-mente endoprocedimentale, tanto minore spazio dovrebbe residuare per ul-teriori confronti tra le parti in sede amministrativa. Questo perché ad un procedimento amministrativo condizionato e realizzato in contraddittorio deve corrispondere, necessariamente un assai residuo spazio per ulteriori e successive composizioni in sede amministrativa, specie se si ritenga necessa-rio mantenere il vincolo dell’indisponibilità sostanziale del diritto da parte tre, precluderne la produzione in giudizio, ai sensi dell’art. 32, D.P.R. n. 600/1973, ultimo e penultimo comma, cioè salva dimostrazione «di non aver potuto adempiere alle richie-ste degli uffici per causa a lui non imputabile». Si veda al riguardo anche A. MARCHESELLI, Il giusto procedimento tributario, cit., p. 117 ss.

67 Sebbene, come precisa al riguardo L. PERRONE, op. loc. ult. cit.: «la necessità di non svuotare di significato il precetto legislativo ... porta a ritenere che il difetto, anche parziale, del contraddittorio deve (necessariamente) essere considerato motivo di nullità dell’avvi-so di accertamento».

68 Sulla definizione si veda: C. GLENDI, Notifica degli atti impoesattivi e tutela cautelare ad essi correlata, in C. GLENDI-V. UCKMAR, La concentrazione della riscossione nell’accerta-mento, Padova, 2011 e in Dir. prat. trib., n. 3, 2011, p. 482, in particolare nota 2, dove si spiega: «Il neologismo non può dirsi elegante. Ma esprime icasticamente la speciale cate-goria di atti nei quali appaia coniugata la diversa funzione dell’imposizione e dell’esazione (con la doppia specificazione della formazione del titolo esecutivo e del precetto), con una lieve prevalenza della prima, di proposito lessicalmente anticipata, fermo restando la coes-senzialità di tutte in un simplegma inscindibile».

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della Amministrazione Finanziaria 69. In questi termini, come sin qui osser-

vato, appare assai più rilevante ribadire la necessità e, di conseguenza, l’ob-bligo del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, utile al corretto esercizio della funzione impositiva, quando è ancora in corso un’attività istruttoria

70 volta alla definizione dei presupposti e della quantificazione del tributo, definizione alla quale la partecipazione del contribuente giova ed è in grado di legittimare, evitando future occasioni di contenzioso e, pertanto, realizzando l’obiettivo di una reale ed efficace deflazione del contenzioso fondata sulla “condivisione” dell’imposta.

Al contrario, moltiplicare le occasioni di confronto amministrativo suc-cessivamente alla definizione del procedimento, appare assai meno utile e addirittura poco giustificabile, specie laddove siano state realmente rispetta-te le garanzie endoprocedimentali in oggetto. E, invece, sembra che si rea-lizzi l’esatto contrario. Infatti, sul versante del confronto antecedente all’atto impugnabile, all’osservata relativizzazione degli effetti del mancato coinvol-gimento del contribuente si aggiunge l’anticipazione del contenzioso avver-so atti endoprocedimentali che, ancora sotto l’egida di rilevante giurispru-denza, sembra sul punto di affermarsi

71, e che tuttavia si scontra con la ra-gione stessa dell’esistenza giuridica di forme di comunicazione finalizzate al-la realizzazione di un contraddittorio extraprocessuale teso, proprio, ad evi-tare, prevenendola, la lite giudiziale

72. Non può dirsi raggiunto un indirizzo

69 A. GUIDARA, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano, 2010. 70 Riguardo all’istruttoria in questione si rinvia a: F. GALLO, L’istruttoria nel sistema tri-

butario, in Rass. trib., n. 2, 2009, p. 25 ss.; S. LA ROSA, Istruttoria e poteri dell’ente impositore, in Riv. dir. trib., 2009, I, p. 523 ss.

71 V. Cass., sez. un., nn. 16293 e 16428/2007, in Corr. trib., n. 45/2007, p. 3687 ss., con nota di D. COPPA, Impugnabilità degli avvisi bonari e tutela del contribuente, ma anche Cass. sez. un., 23 aprile 2009, n. 9669 riguardo alla possibilità d’impugnazione di atti atipici e più di recente, ancora, Cass., sez. V., nn. 7344 e 7687, rispettivamente dell’11 e del 16 maggio 2012. Anche in questo caso, peraltro, non mancano impulsi esterni provenienti dalla CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Quest’ultima, per esempio, intervenendo sulla le-gislazione francese con la sent. 21 febbraio 2008, causa C-18497/03, Ravon/France, in Riv. dir. trib., 2008, IV, p. 182 ss., con nota di S. MULEO, L’applicazione dell’art. 6 Cedu anche all’istruttoria tributaria a seguito della sentenza 21 febbraio 2008 della Corte Europea dei Di-ritti dell’Uomo nel caso Ravon e altri c. Francia e le ricadute sullo schema processuale vigente, ha stigmatizzato l’eventuale mancanza di tutele giurisdizionali nelle fasi di accesso e verifi-ca dell’istruttoria fiscale. Al riguardo anche: L. DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed inte-grazione giuridica europea, Milano, 2010; S. MULEO-L. DEL FEDERICO-M. BASILAVECCHIA, Corte Europea del Diritti dell’Uomo e indagini fiscali, in Dialoghi trib., n. 4, 2009, p. 381 ss.

72 In senso conforme, S. LA ROSA, I procedimenti tributari: fasi efficacia e tutela, in Riv. dir. trib., 2008, p. 803 ss. Decisamente contrario alle c.d. impugnazioni facoltative anche G.

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costante e univoco da parte della Suprema Corte, malgrado un dato norma-tivo, in questo caso, sufficientemente chiaro ed esplicito, anche se conside-rato anelastico rispetto alle “evoluzioni” del diritto vivente

73. L’indirizzo c.d. “garantista”, di fatto, non distingue più atti autonomamente impugnabili oppure no, ma atti obbligatoriamente impugnabili oppure no e, in relazione a questi ultimi, sostiene che l’impugnazione facoltativa corrisponde a esi-genze di tutela del contribuente ma anche di buon andamento della Pubbli-ca Amministrazione

74. L’impugnazione facoltativa di atti atipici, inoltre, non dovrebbe creare preclusioni, né essere soggetta a decadenza

75, se non a se-guito della notifica dell’atto tipico successivo. Intervenuta quest’ultima noti-fica nelle more del giudizio sull’atto presupposto, invece, si determinerebbe la sopravvenuta “carenza di interesse delle parti al giudizio” medesimo. Di TABET, Una giurisdizione speciale alla ricerca della propria identità, in Riv. dir. trib., 2009, I, p. 43; ID., Diritto vivente e tutela anticipata nei confronti degli atti atipici, in GT-Riv. giur. trib., n. 4, 2011, p. 282. Peraltro, anche nelle ipotesi in cui si riscontrino difficoltà dovute all’eccessiva posticipazione della tutela giudiziaria o peggio all’impossibilità della stessa, a causa di procedimenti impositivi anomali, sarebbe opportuno un intervento legislativo su questi ultimi piuttosto che supplire attraverso soluzioni giurisdizionali di dubbia utilità e legittimità, certamente perniciose alla certezza del diritto. F. TESAURO, Giustizia tributaria, cit., p. 314, conclude che l’impugnazione di atti atipici «non incrementa e non riduce i di-ritti di difesa del contribuente, ma rende confuso e incoerente il modello di tutela». De-terminate tutele, inoltre, potrebbero trovare adeguata risposta presso l’autorità giudiziaria ordinaria piuttosto che tributaria. In quest’ultimo senso: P. RUSSO, Il riparto della giurisdi-zione fra giudice tributario e giudice amministrativo e contabile, in Riv. dir. trib., 2009, I, p. 17 ss.; A. BODRITO-A. MARCHESELLI-F. FIORENTIN-G. VIGNERA, Giusto processo e riti speciali, Milano, 2009, p. 319 ss. Favorevoli all’impugnazione facoltativa, almeno in alcuni casi: N. ZANOTTI, Vis espansiva delle occasioni di accesso alle commissioni tributarie: è impugnabile il processo verbale di constatazione?, in Rass. trib., n. 6, 2012, p. 1487 ss., in particolare riguar-do all’art. 5 bis, D.Lgs. n. 218/1997 introdotto dall’art. 83, comma 18, D.L. n. 112/2008; G. INGRAO, Prime riflessioni sull’impugnazione facoltativa nel processo tributario, con postilla di L. FERLAZZO NATOLI, Considerazioni critiche sull’impugnazione facoltativa, in Riv. dir. trib., 2007, I, p. 1078 ss.

73 Combinato disposto degli artt. 19 e 21, D.Lgs. n. 546/1992. F. TESAURO, Giustizia tributaria, cit., p. 314, osserva «la deregulation del sistema chiuso degli atti impugnabili ... contraddicendo una norma espressa che rende tassativo il sistema degli atti impugnabili (art. 19), ammette che si possa ricorrere contro qualsiasi atto che esprima una pretesa fi-scale (si ammette, in sostanza, l’azione di mero accertamento)».

74 La mancata ricorribilità, anzi, «comporterebbe una lacuna di tutela giurisdizionale, in violazione dei principi contenuti negli artt. 24 e 113 Cost., per il carattere esclusivo della giurisdizione Tributaria» (Cass. n. 7344/2012 cit.).

75 Circostanza, questa, necessitata anche per via del carattere informale delle comuni-cazioni della maggior parte di tali atti, che non consentirebbe di determinare un dies a quo dal quale far decorrere il termine decadenziale.

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segno opposto la giurisprudenza che continua a considerare improponibili le impugnazioni di atti atipici perché introdurrebbero azioni di accertamen-to negativo

76 e sarebbero esercitate nei confronti di atti privi di natura e effi-cacia provvedimentale e, dunque, non produttivi di effetti immediati. Oc-corre osservare, inoltre, che l’anticipazione di tutela giudiziaria si rivela sfa-vorevole sotto l’aspetto del contraddittorio procedimentale

77. Infatti, con-sentendo uno svolgimento intempestivo del contenzioso nei confronti di atti endoprocedimentali, si annulla la garanzia del contraddittorio procedi-mentale e si aggrava il carico giudiziale in una fase in cui il confronto ammi-nistrativo avrebbe ancora potuto evitare l’insorgere della lite

78. In altri ter-mini, si costringe nuovamente il contraddittorio nel processo determinando un aggravio di spese e “tempi” potenzialmente nocivo per entrambe le par-ti

79. Ciò diviene tanto più evidente quanto più ci si allontana rispetto alla definitività dell’atto impugnato, relativizzando il limite che la stessa Cassa-zione s’era imposto. Non sempre, peraltro, è agevole stabilire quando e se l’atto possa considerarsi realmente espressivo della pretesa e quest’ultima sia già ben definita. Certo è che, invertendo precedenti orientamenti, per esem-pio riguardo agli avvisi di cui all’art. 36 bis, comma 3, D.P.R. n. 600/1973 op-pure ammettendo l’impugnazione della risposta resa a seguito d’interpello disapplicativo, di cui all’art. 37 bis, comma 8, D.P.R. n. 600/1973 la Cassa-zione, a ciò indotta dalla sua tipica funzione istituzionale, ha espresso orien-tamenti destinati ad alimentare il contenzioso piuttosto che il dialogo

80.

76 Inammissibili per orientamento costante delle Sezioni Unite della stessa Cassazione (nn. 27209/2009; 20889/2006).

77 In tal senso si vedano, per tutte, le sentt. 13 settembre 2013, dal n. 20947 al n. 20951, con le quali la Corte ha ritenuto che gli inviti di pagamento emessi ex art. 93 del regola-mento doganale (R.D. n. 65/1865), pur se seguiti dalla sola iscrizione a ruolo, non solo non fanno sorgere obbligo d’impugnazione ma neppure sono impugnabili.

78 Così la Cassazione nella sent. n. 20950/013 cit.: «l’ipotizzata tutela anticipata nei confronti di atti strictu sensu non impositivi non sembra funzionale ad assolvere ad effettive esigenze di difesa e di efficienza amministrativa indicate (che potrebbero ricevere adeguata e piena soddisfazione mediante un serio contraddittorio nella sede amministrativa stragiudi-ziale), venendo piuttosto ad innescare ulteriori, e non necessarie, occasioni di conflitto».

79 G. TABET, Diritto vivente e tutela anticipata, cit., p. 281, annota come con il «ricorso non tipizzato, toccando non solo gli atti istruttori, ma anche interpelli, risoluzioni e circo-lari e quant’altro, il risultato ... sia una ingestibile dilatazione del contenzioso, sia un perico-loso rallentamento dell’azione di prelievo».

80 Cass. n. 7344/2012 cit., ma anche Cass., 5 ottobre 2012, n. 17010. Si tratta di due sentenze emblematiche dell’accelerazione impressa all’impugnazione facoltativa. Invero, l’impugnazione del parere negativo reso a seguito d’interpello era già stata ammessa (Cass.

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Inoltre, sul fronte del contraddittorio successivo all’atto, il legislatore ha introdotto l’istituto del reclamo obbligatorio, del quale non si percepiva l’e-sigenza e che, invece, costituisce un discutibile ostacolo all’esercizio giudi-ziale del diritto

81. Quest’ultimo istituto, unitamente alla simultanea media-zione

82, è stato realizzato dal legislatore allo scopo di deflazionare il conten-zioso tributario tramite la prevenzione della lite fiscale, aggiungendosi, dun-que, al novero degli istituti già esistenti e similmente finalizzati e da questi distinguendosi principalmente per l’obbligatorietà posta a carico del contri-buente. È chiaro che almeno formalmente, dunque, il legislatore fornisce occasione per un ulteriore momento di confronto tra le parti del rapporto tributario. Si dovrebbe, pertanto, concordare con quanti in dottrina, ancora prima dei pregevoli sforzi interpretativi in tal senso compiuti dalla stessa Agenzia delle Entrate, abbiano ritenuta ineludibile, ai fini dell’esercizio degli n. 8663/2011) ma attraverso un espediente interpretativo che assimilava la risposta nega-tiva all’interpello al rifiuto di agevolazione, considerandola alla stregua di atto impugnabile e, quindi, rendendo l’impugnazione necessaria a pena di decadenza. L’indirizzo più recen-te, invece, considera significativa l’obbligatorietà dell’istanza e la definitività del Provvedi-mento (ex art. 1, D.M. n. 259/1998), che, tuttavia, seppur definitivo non sembra potersi riconoscere stricto sensu espressivo della pretesa. In senso contrario all’impugnazione si è, invece, espressa recente giurisprudenza di merito che opportunamente osserva «il fatto che l’istanza sia obbligatoria non muta il carattere non vincolante del rigetto» né la diri-mente conseguenza che la risposta «non ha un contenuto di carattere impositivo» (CTP Bari, 7 ottobre 2013, n. 75/05/13).

81 E che suscita svariate e giustificate perplessità, come osservato, anche in relazione all’eventuale intempestività di interventi compositivi predisposti in una fase ormai succes-siva alla conclusione dell’istruttoria amministrativa.

82 La tentazione di riferirsi all’istituto nei termini di “così detta” mediazione tributaria è indiscutibile ed ha ragion d’essere nonostante questa sia la definizione utilizzata, sin dalla rubrica, dalla norma introduttiva. È, infatti, almeno altrettanto certo che, come unanime-mente rilevato dalla dottrina, le peculiarità, rispetto alle caratteristiche che comunemente connotano una mediazione in altre branche del diritto, sono tali da far ritenere piuttosto atecnico l’utilizzo del termine in relazione alle prerogative dell’istituto. In tal senso M. LO-GOZZO, op. cit., p. 1506; L. FERLAZZO NATOLI-L. NICOTINA, Mediazione tributaria, rischio lungaggini. Non solo per i contribuenti, in Italia Oggi, 10 maggio 2012, p. 34; F. PISTOLESI, Ambito applicativo della mediazione tributaria e sospensione della riscossione, in Corr. trib., n. 19, 2012, p. 1431; G. MARINI, Profili costituzionali del reclamo e della mediazione, in Corr. trib., n. 12, 2012, p. 853; G. INGRAO, Il reclamo obbligatorio incrementa la possibilità di subire l’esecuzione coattiva per tributi provvisoriamente dovuti, in Dialoghi trib., n. 3, 2012, p. 290; F. PISTOLESI, Il reclamo e la mediazione nel processo tributario, in Rass. trib., n. 1, 2012, p. 65 ss. Si noti, infine, che la stessa Agenzia delle Entrate, nella imponente e notissima Circolare 19 marzo 2012, n. 9/E, sin dalla premessa ha sentito la necessità di precisare che la defini-zione del nuovo istituto quale “mediazione” o “procedimento di mediazione” è da inten-dersi come puramente “convenzionale”.

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istituti in esame, l’instaurazione di un effettivo contraddittorio tra le parti 83.

Nonostante ciò, è agevole rilevare che l’art. 17 bis, in questione, non intro-duce una fase di contraddittorio sostanziale tra le parti del rapporto fiscale, giacché palesemente esso non ne definisce né cadenza i momenti e, al con-trario, evidenzia l’assenza di obblighi a carico dell’Amministrazione Finanzia-ria

84. Invero sembra necessario chiedersi se, almeno nelle “reali” intenzioni legislative, l’istituto in esame si allinei all’affermazione delle forme di con-traddittorio pre processuale già legislativamente approvate e con le quali è, comunque, necessario che si coordini in modo ben più dettagliato di quanto non si evinca dai sintetici riferimenti di rinvio all’art. 48, D.Lgs. n. 546/1992, contenuti dal primo e dall’ottavo comma della norma in questione

85. Dubbio che sembra legittimo, perché la norma sul reclamo-mediazione, oltre che non

83 Contraddittorio che sarebbe indispensabile anche allo scopo di avallare l’assegnazio-ne di una portata “innovativa” dell’istituto stesso. L’Agenzia, nella già citata Circolare n. 9/E, avvertiva la necessità di un confronto tra le parti quale ineludibile premessa a un effi-cace reclamo e una concreta mediazione, si veda in tal senso F. PISTOLESI, Il reclamo, cit., laddove precisa «Sarebbe stata, pertanto, apprezzabile la previsione di un contraddittorio fra il destinatario dell’atto impugnabile e l’Organo deputato ad esaminarne il reclamo e l’eventuale proposta di mediazione. Così, oltretutto, l’art. 17 bis cit. si sarebbe allineato ai più recenti e condivisibili indirizzi della giurisprudenza nazionale e comunitaria nonché alla stessa esperienza normativa in tema di accertamento sintetico».

84 Invero dalla lettera della legge non è dato rilevare alcun momento di confronto effet-tivo tra le parti, al di là di qualsivoglia osservazione in merito alla obbligatorietà o facoltati-vità dello stesso. Infatti, è opportuno annotare che non è stabilito normativamente alcun invito al contribuente al fine di dettagliare l’eventuale proposta di mediazione dell’Ufficio, non è neppure previsto alcun obbligo di confronto in merito alle vicendevoli proposte che eventualmente le parti si facciano e che, pertanto, potrebbero restare del tutto ignorate dalla controparte. Non sussiste, addirittura, alcun obbligo legislativo di risposta in merito al reclamo obbligatorio presentato dal contribuente, che, dunque, potrebbe restare ineva-so senza conseguenze a carico dell’Amministrazione inerte.

85 Coordinamento che non a pochi, e giustamente, è apparso se non difficoltoso, effet-tuato in base a scelte poco ponderate e che riteniamo potrebbe originare fenomeni distor-sivi, sia nel rapporto tra accertamento con adesione e mediazione sia in quello tra media-zione e autotutela. Particolarmente critici al riguardo: B. BELLÈ, Mediazione e reclamo: due istituti inutili, in Riv. dir. trib., n. 10, 2012, pp. 864, 867, passim; A. TURCHI, Reclamo e me-diazione nel processo tributario, in Rass. trib., n. 4, 2012, p. 900; F. PISTOLESI, Ambito appli-cativo, cit., p. 1430; G. SEPIO, La proposta di mediazione da parte del contribuente e i limiti del reclamo, in Corr. trib., n. 11, 2012, p. 773; S. CAPOLUPO, Mediazione tributaria e accertamen-to con adesione, in Corr. trib., n. 8, 2012, pp. 588, 589 e 592; D. STEVANATO, Reclamo e me-diazione fiscale: lettera a un bambino mai nato, in Dialoghi trib., 2012, p. 98. In senso positi-vo, tuttavia, considera la mediazione un’utile “seconda occasione” G. SEPIO, Mediazione tributaria e sanzioni nel coordinamento con gli altri istituti deflativi del contenzioso, in Corr. trib., n. 36, 2012, p. 2790 ss.

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prevedere un effettivo confronto tra le parti, stabilisce che, al semplice de-corso del termine concesso, il reclamo «produce gli effetti del ricorso»

86, introducendo, anche in questo caso, un automatismo

87. Questa “continuità” tra i due procedimenti, infatti, rischia di annichilire le effettive probabilità di mediazione ponendo, sin dal principio, il confronto sul piano della contesa e, dunque, contrastando di per sé la ratio dell’istituto, non solo se si ritiene che questa debba essere ricondotta a quell’ideale di imposizione “partecipa-ta”, cui si accennava, ma anche se le si voglia dare una realistica probabilità di riuscita

88. La stessa circostanza è, peraltro, alla base di alcuni dei più con-creti dubbi di legittimità costituzionale

89 e suscita non pochi problemi in ordine alle necessità di coordinamento tra fase pre giudiziale e processua-

86 Art. 17 bis, comma 9, D.Lgs. n. 546/1992. 87 È appena il caso di osservare che questa peculiare e ambigua ibridazione tra reclamo

e ricorso, dalla quale ha origine l’automatismo in esame, costituisce una “rarità” nell’ordi-namento tributario, sebbene non sia in assoluto una novità giacché se ne può rintracciare forma anche nell’art. 25 del D.D.L. n. 3005/1991, per la riforma del processo tributario, v. M. BRUZZONE, L’anticipazione dei motivi dal ricorso al reclamo, in Corr. trib., n. 10, 2012, p. 711 ss., in particolare note 5 ss. Similmente il ricorso contro l’iscrizione a ruolo ex art. 188, T.U. n. 64571958, sia pure per il tramite dell’ufficio, v. M. LOGOZZO, op. ult. cit., p. 1507. Riguardo alla duplice funzione in relazione ai suoi effetti sulla pendenza processuale assu-mono grande rilievo le osservazioni di M. BASILAVECCHIA, Dal reclamo al processo, in Corr. trib. n. 12, 2012, p. 841 ss., che evidenzia due possibili “filoni interpretativi” con conse-guenze assai differenti anche e soprattutto sulla riscossione in pendenza di reclamo. È, comunque, una sostanziale differenza rispetto alla mediazione preposta al rito civile e an-che rispetto ai precedenti istituti di prevenzione sinora introdotti dal legislatore nel siste-ma tributario. Nell’uno come negli altri casi, infatti, si tratta palesemente di procedimenti amministrativi ben distinti da quello giurisdizionale anche se, per loro stessa natura, desti-nati a interferire in vario modo e misura con il processo. Allo stesso modo, tuttavia, nel tentativo di eliminare del tutto il ricorso alla fase giurisdizionale, si distingue profonda-mente dalla conciliazione giudiziale che, viceversa, la presuppone necessariamente.

88 B. BELLÈ, op. cit., pp. 870-871; M. BASILAVECCHIA, Instaurazione del giudizio con il ri-corso/reclamo, in Corr. trib., n. 19, 2012, pp. 1455-1456; A. TURCHI, op. cit., pp. 900, 923; G. SEPIO, La proposta di mediazione, cit., pp. 770-771; M. BRUZZONE, op. ult. cit., pp. 709-710; A. RENDA, Il reclamo per dinieghi di rimborso, atti sanzionatori e atti impoesattivi, in Corr. trib., n. 10, 2012, p. 718 ss.; D. STEVANATO, Reclamo e mediazione fiscale, cit., p. 98.

89 Al riguardo, ampliamente, A. GIOVANNINI, Giurisdizione tributaria condizionata e re-clamo amministrativo, in Riv. trim. dir. trib, n. 4, 2012, p. 911 ss.; ID., Reclamo e mediazione tributaria: per una riflessione sistematica, in Rass. trib., n. 1, 2013, p. 51 ss., in particolare par. 3, p. 54 ss., laddove, nell’ottica del “recupero” della legittimità posta in dubbio (nonché della necessaria separazione e precisazione dei due istituti del reclamo e della mediazione), si propone una ricostruzione sistematica del “reclamo” quale «atto suscettibile di radicare due diversi tipi di procedimento: amministrativo e giurisdizionale».

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le 90. Questo a fronte di un vantaggio, evidenziato in modo assai approssima-

tivo e impreciso dall’Amministrazione Finanziaria nella pur particolareggiata Circolare n. 9/E, e individuato nell’intento di evitare di rendere «più gravoso l’esercizio dell’azione in giudizio per il contribuente». Tuttavia questo favor appare tutt’altro che dimostrabile e, comunque, di ben poco momento

91.

90 Contro quanto ritenuto nella Circolare n. 9/E, al punto 2.6, riguardo alla necessità di anticipare difese e produzione documentale alla fase di reclamo senza possibilità d’integra-zione si è espressa parte della dottrina (A. TURCHI, op. cit., p. 914), nonostante ciò è una-nimemente condivisa l’osservazione dell’esistenza di vincoli difficilmente giustificabili. V. M. BASILAVECCHIA, Instaurazione del giudizio, cit., pp. 1456-1457; G. MARINI, Profili costi-tuzionali, cit., p. 854; G. SEPIO, op. loc. ult. cit., p. 771; M. BRUZZONE, op. ult. cit., p. 709 ss. Sulla possibilità/necessità di integrazione o modifica dei motivi di ricorso, rispetto al re-clamo e a causa dell’eventuale diniego di autotutela dal quale possa trarsi integrazione del-la motivazione dell’atto impugnato, si v. G. CORASANITI, Trattazione dell’istanza, accordo e perfezionamento della mediazione, in Corr. trib., n. 19, 2012, pp. 1452-1453. Rispetto all’eventuale modifica in esito a mediazione si veda M. BASILAVECCHIA, Dal reclamo al pro-cesso, cit., p. 843; sul punto anche A. CARINCI, Perduranti profili di criticità della presenta-zione del reclamo, in Corr. trib., n. 37, 2012, p. 2881. In merito è opportuno ricordare che, come osservato, la Cassazione – riguardo agli accertamenti basati su studi di settore, pa-rametri e redditometro – hanno chiaramente affermato che «l’esito del contraddittorio endoprocedimentale non condiziona ... la impugnabilità dell’accertamento innanzi al giu-dice tributario, al quale il contribuente potrà proporre ogni eccezione (e prova) che riten-ga utile alla sua difesa, senza essere vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del proce-dimento amministrativo». G. RAGUCCI, Il “nuovo” accertamento sintetico tra principio del contraddittorio e garanzie del giusto processo, in Corr. trib., 2010, p. 3812, osserva «quando assume il carattere di garanzia, il contraddittorio risponde a una facoltà del contribuente di anticipare difese la cui sede naturale è il giudizio; facoltà che se è veramente tale non può essere limitata o condizionata dalla prospettiva di incorrere in decadenze, se non esercita-ta. Ciò contrasterebbe con la ’finalità dell’istituto». Ciò rende palese l’intento “non garan-tista” dell’eventuale contraddittorio in sede di reclamo/mediazione come, del resto, tra-spare dall’obbligo di reclamo che, non a caso non corrisponde a una facoltà e il quale, per-tanto, obbliga a anticipare le proprie difese, circostanza che agevolmente si definisce quale favor fisci. V. D. STEVANATO, Reclamo-mediazione e accertamento con adesione: davvero nes-suna «sovrapposizione»?, in Dialoghi trib., n. 3, 2012, pp. 286-287.

91 L’aggravio, si deve presumere, consisterebbe nella necessità di redigere il ricorso in caso di fallimento del reclamo/mediazione, ma la previsione dell’automatica trasforma-zione in ricorso ha “costretto” il legislatore a prevedere sin dal reclamo la necessità di assi-stenza tecnica che, sebbene possa essere ritenuta comunque opportuna, anticipa al proce-dimento pre contenzioso le necessità di spesa che, dunque, non possono ritenersi evitate e che, al contrario, potrebbero ostacolare il raggiungimento dell’accordo o gravare ingiu-stamente sull’esito positivo del reclamo. Contra A. TURCHI, op. cit., pp. 912-913, osserva che l’assistenza tecnica nella fase di reclamo/mediazione potrebbe non considerarsi neces-saria. Si consideri, comunque, che in caso di accoglimento del reclamo non è prevista al-cuna refusione delle spese del procedimento di reclamo/mediazione, come ha evidenziato la più accorta dottrina: A. CARINCI, op. ult. cit., p. 2884; G. CORASANITI, Trattazione del-

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5. Conclusioni

Dall’esame sin qui condotto, riguardo alcuni profili di particolare attuali-tà e rilevanza, emerge dunque la necessità di riaffermare la centralità del ruolo del contraddittorio nel procedimento tributario, nel senso che non so-lo è necessario che debbono crearsi le occasioni di confronto, fra l’Ammini-strazione e il contribuente e queste non devono poter essere aggirate dalla parte pubblica. Inoltre, questa forma di partecipazione deve tradursi in una garanzia sostanziale con precise conseguenze. In altri termini, si è osservato: non essere utile predisporre termini dilatori, prima dei quali l’avviso d’accer-tamento non può essere notificato, se la violazione immotivata di quei ter-mini rimane priva di conseguenze; non sembra conforme ai valori costitu-zionali un abuso del diritto, che non consenta al contribuente di predeter-minare le proprie scelte senza incorrere nel rischio di sanzioni; non può condividersi l’affermazione di strumenti presuntivi di accertamento, se non adeguatamente compensati da un contraddittorio, la cui eventuale violazio-ne abbia conseguenze rilevanti per l’Amministrazione Finanziaria.

Occorre, dunque, una ristrutturazione più concreta che superi anche le tradizionali distinzioni tra partecipazione collaborativa e partecipazione di-fensiva. Così come si richiede la predisposizione di conseguenze a carico dell’Amministrazione che impedisca la collaborazione del contribuente o non la tenga in alcun conto. L’affermazione del contraddittorio procedi-mentale, dunque, necessita di una normativa più stringente nei confronti della parte pubblica e, comunque, di un’esegesi costituzionalmente orienta-ta delle norme esistenti. Interpretazione possibile dacché, come osservato, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il fondamento costituzionale delle norme in questione e l’importanza dello Statuto. In premessa si è evidenzia-to il ruolo fondante che assumono l’art. 97 Cost. e il diritto comunitario espresso dalla Corte di Giustizia e, di conseguenza, il ruolo di queste “regole” l’istanza, cit., p. 1441; A. TURCHI, op. ult. cit., p. 903; F. DE DOMENICO, L’accoglimento del reclamo, il conseguente ritiro dell’atto e il regime delle spese processuali, in Dialoghi trib., n. 3, 2012, p. 293. È quantomeno contestabile, dunque, che l’automatismo in questione possa essere considerato un risparmio per il contribuente per il semplice fatto che non è necessa-rio reiterare l’atto introduttivo al momento della costituzione in giudizio. V. ancora G. MARINI, Profili costituzionali, cit., p. 857 e nota 27, laddove osserva «... reclamo non com-porta alcuna riduzione dei costi per il contribuente ...»; M.C. PARLATO, Profili di costitu-zionalità del reclamo e della mediazione tributaria, in Boll. trib., n. 18, 2012, p. 1287. B. BELLÈ, op. ult. cit., p. 865, annota in proposito, acutamente, che nel caso in cui il contribuente avanzi anche una proposta di mediazione vi sarebbe presumibilmente un aggravio del co-sto della prestazione professionale.

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nell’orientare l’interpretazione della normativa e la sua revisione 92. Occorre,

allora, definire, molto chiaramente la posizione della parte pubblica nei con-fronti del contraddittorio. Ritengo, anzi, utile richiamare lo stesso art. 53 Cost. poiché, come premesso, la partecipazione del contribuente, anche in chiave difensiva, agevola l’Amministrazione nell’esercizio della giustizia tributaria presieduto dalla menzionato principio costituzionale. È possibile, dunque, ri-costruire la partecipazione al procedimento in termini di diritti e doveri reci-proci. Se, infatti, al contribuente è richiesta o offerta occasione di confronto egli ne ha diritto e dovere ad un tempo ed è ragionevole che subisca conse-guenze nel caso in cui non cooperi o non si difenda. Altrettanto, tuttavia, deve accadere all’Amministrazione, anche anzi direi soprattutto, proprio perché i suoi “diritti” derivano dall’esercizio di una funzione pubblica alla quale corri-spondono doveri non solo nei confronti del soggetto interessato, ma nei con-fronti dei consociati. Non è accettabile, dunque, una partecipazione depoten-ziata, lasciando inalterata la validità ed efficacia del provvedimento viziato. Non è accettabile che il previsto contraddittorio possa non svolgersi in fatto, né che tale eventualità sia irrilevante in diritto.

In questo senso il reclamo/mediazione resta ancora in una “zona grigia” e presenta contraddizioni che andrebbero risolte. In particolare, si deve evi-denziare che sebbene non siano più previste le gravissime e illegittime con-seguenze, in danno ai contribuenti, in origine comminate a chi si fosse sot-tratto all’obbligo del reclamo, continuano, nondimeno, a non essere sanciti obblighi sostanziali, né di riesame né di effettiva valutazione per la contro-parte pubblica, libera di non rispondere al reclamo e di non tentare alcuna mediazione e, comunque, di non instaurare alcun reale contraddittorio con il contribuente

93. Circostanza confermata dall’“automatismo”, attraverso il

92 A. MARCHESELLI, Il giusto procedimento tributario, cit., p. 126 sostiene: «La mortifica-zione del principio del contraddittorio oltre che violazione dei principi comunitari com-porterebbe all’evidenza un illecito comunitario, suscettibile di determinare la responsabili-tà per il risarcimento dei danni da parte dello Stato, anche senza la prova di dolo o colpa e dei suoi funzionari e giudici» (citando in proposito CGUE, 30 settembre 2010, n. 314/2009, Stadt Graz).

93 V. A. TURCHI, op. cit., pp. 912, 921-922; G. CORASANITI, op. ult. cit., pp. 1448 e 1452, evidenziando, tuttavia, la differente e auspicabile prassi suggerita dalla Circolare n. 9/E, riguardo al reclamo, sin dalla premessa. È opportuno notare che parte della dottrina ritie-ne, invece, che il reclamo istituzionalizzi un vero e proprio “obbligo di riesame” da parte dell’Amministrazione, in tal senso: F. PISTOLESI, Il reclamo, cit., p. 68 ss.; M. BASILAVEC-CHIA, Reclamo, mediazione fiscale e definizione delle liti pendenti, in Corr. trib., n. 31, 2011, pp. 2494-2495. Rispetto all’eventuale proposta di mediazione avanzata dal contribuente, invece, osserva che l’Agenzia sarebbe «tenuta alla relativa valutazione», sulla scorta di

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quale al semplice decorso del tempo corrisponde la “transustanziazione” del reclamo in ricorso, che, peraltro, nuoce gravemente, anche in termini di le-gittimità, alla procedura in esame

94. L’obiettivo della deflazione del carico giudiziale, cui tende il nuovo istitu-

to del reclamo, si sarebbe potuto realizzare, a minor costo e con tempi più contenuti, attraverso la previsione di un obbligo di riesame, generalizzato e preliminare all’emanazione dell’atto, oppure potenziando istituti già esisten-ti, quali l’accertamento con adesione o la conciliazione, senza necessità d’in-trodurne uno nuovo

95. E, dunque, se a questa scelta legislativa occorre asse-gnare un valore significativo è necessario ribadire che essa deve costituire quanto precisato nella stessa Circolare n. 9/E e da V. BUSA, Le nuove prospettive della me-diazione tributaria, in Corr. trib., n. 11, 2012, p. 766, laddove specifica che l’Amministra-zione è «tenuta ad esaminare l’istanza di mediazione senza essere dalla stessa vincolata». Osserva, in merito a quest’ultima valutazione, G. MARINI, op. ult. cit., p. 858 e nota 30, che la “discrezionalità” dell’Agenzia sarebbe, tuttavia, normativamente limitata dai criteri pre-visti dall’art. 17 bis, comma 8, così anche F. PISTOLESI, op. ult. cit., pp. 67 e 82, pur conclu-dendo che detti criteri rivelino un “carattere eminentemente transattivo” che Marini sem-bra non condividere. Unanimemente critica, invece, la dottrina riguardo al vincolo deri-vante da precedenti “documenti di prassi”, pur previsto dalla Circolare n. 9/E punto 5.4.1, per tutti M. LOGOZZO, op. cit., p. 1510.

94 Come accennato nel testo la novella legislativa, intervenuta per effetto dell’art. 1, comma 611, lett. b), L. 27 dicembre 2013 – che ha modificato i commi 2, 8 e 9 e introdot-to il comma 9 bis nell’art. 17 bis – ha “rimediato” ad alcune delle più serie censure sollevate dalle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale. Nondimeno si consideri, per esempio, l’ord. 17 aprile 2013, n. 75 (ud. 16 aprile 2013) della sez. II, CTP Campobasso, che solleva “seri dubbi” di contrasto rispetto agli artt. 3, 24, 25, 111 e 113 Cost. anche ri-chiamando espressamente la peculiarità dell’automatismo di cui nel testo, sotto il profilo del “grave pregiudizio difensivo per il contribuente” derivante dalla “anticipata discovery della tesi difensiva”. Con la revisione dell’art. 17 bis, invece, il legislatore ha corretto il rife-rimento al reclamo quale condizione di ammissibilità ridefinendolo, più correttamente, quale semplice condizione di procedibilità, rimediando al palese contrasto con la Carta Co-stituzionale nell’interpretazione, notoria e risalente, della Corte costituzionale (n. 47/1964). Allo stesso modo, il legislatore, ha ora previsto la sospensione ex lege della riscossione (comma 9 bis) la cui mancata previsione era stata considerata di dubbia legittimità costitu-zionale dalla dottrina e anche dalle ordinanze di rimessione (es. 7 febbraio 2013, n. 18, ud. 7 febbraio 2013, della sez. II, CTP Perugia). Al riguardo sia consentito rinviare a quanto osservato in L. NICOTINA-L. FERLAZZO NATOLI, La mediazione tributaria in crisi alla prova dei fatti, in Italia Oggi, 14 ottobre 2013, p. 29. Approfondita analisi in A. GIOVANNINI, Giu-risdizione tributaria condizionata, cit., pp. 920-922, il quale, tuttavia, evidenziava la possibi-lità d’interpretazione costituzionalmente orientata fondata proprio sulla sostanziale identi-tà tra reclamo e ricorso che avrebbe consentito di evitare l’inammissibilità considerando ogni ricorso implicitamente reclamo.

95 V. M. BASILAVECCHIA, Reclamo, mediazione fiscale, cit., p. 2494; A. CARINCI, Perdu-ranti profili di criticità, cit., p. 2884; G. INGRAO, Il reclamo obbligatorio, cit., p. 290.

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una reale e leale occasione di confronto con obblighi reciproci. Dalle prime esperienze “sul campo”, il nuovo istituto non ha dato risultati univoci. Tra-dendo la più volte proclamata disponibilità, il contegno processuale del-l’Amministrazione, è apparso ancora rigidamente e formalmente “legalista”. L’inammissibilità del ricorso, prevista dal testo poi modificato, è stata invo-cata nei confronti dei contribuenti che si fossero sottratti all’obbligo del re-clamo/mediazione, pur in relazione a fattispecie riconosciute assai dubbie

96. Il che conferma l’opportunità della revisione legislativa già effettuata, al fine d’evitare che il vincolo introdotto potesse risultare talmente cogente da im-pedire al contribuente l’accesso alla tutela giudiziale

97. Certo, il numero del-le liti “evitate” sembra acquisire un certo peso e, d’altronde, nella prassi de-gli uffici esiste un atteggiamento più collaborativo

98. Tuttavia, incoraggiare la parte pubblica alla cooperazione con il contribuente, sebbene costituisca un’interessante evoluzione, non è ancora risolutivo. Occorre, infatti, che si evidenzino gli obblighi o, se si vuole, i doveri dell’Amministrazione.

96 Esemplare, in tal senso, il giudizio sul Ricorso n. 478/12, dinanzi alla CTP di Teramo, fatalmente conclusosi, appunto, con la sentenza d’inammissibilità del 6 marzo 2013, n. 63, sent. n. 63 (ud. 18 febbraio 2013). Giudizio promosso dal contribuente nei confronti del-l’Ente di riscossione avverso una cartella di pagamento contestualmente impugnata anche nei confronti dell’Agenzia delle entrate, al solo fine di ottenere una tutela cautelare che, nelle more del procedimento di reclamo, restava altrimenti preclusa, ai sensi dell’art. 47, D.Lgs. n. 546/1992. Come già evidenziato, infatti, il difetto di tutela cautelare, era proprio una delle questioni d’illegittimità sollevate riguardo all’art. 17 bis oltre che tra le più dibattute in dottri-na. Oltre ai tanti già citati specificamente si vedano: C. GLENDI, Tutela cautelare e mediazione tributaria, in Corr. trib., 2012, p. 851 ss.; M. BASILAVECCHIA, Dal reclamo al processo, cit., p. 844 ss. Specificamente riguardo alla fattispecie della costituzione pretermine, cioè all’antici-pato radicamento del processo, A. GIOVANNINI, Giurisdizione tributaria condizionata, cit., pp. 922-928 auspicava, al contrario di quanto accaduto, che si pervenisse almeno in questi casi alla sospensione per improcedibilità, piuttosto che all’inammissibilità, peraltro considerata “aggirabile” dall’autore e, comunque, riservata alla sola e diversa ipotesi espressamente previ-sta della mancata proposizione del reclamo, come osservato in precedenti note. Questo, pe-raltro, proprio al fine di garantire una possibile tutela cautelare altrimenti impedita prima dell’ultimissima revisione legislativa. Sull’istituto e, in particolare, proprio riguardo ai profili d’incostituzionalità, si segnala, da ultimo, G. CORASANITI, Il reclamo e la mediazione nel siste-ma tributario, Milano, 2013, specialmente al cap. III, p. 113 ss.

97 In tal senso a più riprese sempre A. GIOVANNINI, op. ult. cit., pp. 914-917. 98 Complice anche la modifica intervenuta in tema di responsabilità amministrativa dei

rappresentanti dell’ente, con la previsione della limitazione alle sole ipotesi di dolo, rispet-to alla previgente responsabilità prevista anche per le ipotesi di colpa grave. In tal senso l’art. 29, comma 7, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, richiamato dall’art. 39, comma 10, D.L. n. 98/2011, che ha modificato l’art. 1 della L. 14 gennaio 1994, n. 20. Per approfondire il tema in generale si rinvia a E. MELE, La responsabilità dei dipendenti e degli amministratori pubblici, Milano, 2004.

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Tornando agli accertamenti pretermine, in violazione del termine dilato-rio concesso al contribuente per le proprie osservazioni e difese, va osserva-to come, nonostante il già ricordato intervento garantista delle Sezioni Uni-te, si assiste spesso a “ritorni al passato”

99, che – oltre a limitare la garanzia di cui all’art. 12 dello Statuto «esclusivamente al soggetto sottoposto ad ac-cesso, ispezione, verifica», negandola ai terzi

100 – non ritengono determi-nante la violazione medesima

101. L’argomento rinnova le criticate posizioni antecedenti all’intervento delle Sezioni Unite e formalizza un’interpretazio-ne letterale restrittiva incongrua allo scopo della norma in questione

102. In altri termini, limitare il contraddittorio garantito dal termine dilatorio in esame alle sole ipotesi di accessi e nei soli confronti del contribuente che li subisce non è accettabile, sotto il profilo dell’evidente disparità di tratta-mento, e non corrisponde ai principi di buona fede e corretta amministra-zione. In questo senso appare parimenti criticabile l’orientamento giuri-sprudenziale tendente a limitare la necessità del contraddittorio di cui al-l’art. 6, comma 5, Statuto

103.

99 Cass., sez. VI, 18 ottobre 2013, n. 23690. 100 A danno dei quali terzi siano emersi elementi che abbiano condotto all’accertamento

nei loro confronti. Sulla scorta di un’interpretazione letterale restrittiva già espressa da Cass., 26 settembre 2012, n. 16354. L’interpretazione restrittiva è operata dalla Corte, anche recen-temente (Cass. 13 giugno 2014, n. 13588), escludendo l’applicabilità del termine dilatorio in caso di controlli diversi da accessi, ispezioni e verifiche, basandosi, ancora, sulla lettera della legge. Anche in questi casi la soluzione, sebbene formalmente ineccepibile, può contrastare con la ratio del contraddittorio procedimentale, diminuendone efficacia e correttezza.

101 La sent. n. 23690/2013 precisa che «la notifica dell’avviso di accertamento prima dello scadere del termine di sessanta giorni previsto dall’art. 12 della L. 27 luglio 2000, n. 212 non ne determina in assoluto la nullità, attesa la natura vincolata dell’atto rispetto al verbale di constatazione sul quale si fonda e considerata la mancanza di una specifica pre-visione normativa in tal senso».

102 F. TUNDO, Validità dell’avviso di accertamento, cit., pp. 679-680 osserva, ad esempio, che anche da un verbale privo di rilievi potrebbe sorgere l’interesse del contribuente a pre-disporre le proprie osservazioni, poiché l’Ufficio potrebbe comunque emettere l’avviso non essendo vincolato alle risultanze del processo verbale.

103 Cass. n. 14144/2013; 14 novembre 2012, n. 19867; 25 maggio 2012, n. 8342; n. 7536/2011; n. 26316/2010. Nel caso d’iscrizione a ruolo ex art. 36 bis, D.P.R. n. 600/1973, infatti, l’art. 6, che invero presenta una formulazione “timida”, impone il contradditorio preventivo solo «qualora esistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione». La conseguente esegesi limitativa della Cassazione nega che la mancata instaurazione del con-traddittorio possa invalidare l’iscrizione a ruolo, osservando laconicamente che «se il legi-slatore avesse voluto imporre il contradditorio preventivo in tutti i casi d’iscrizione a ruolo derivante dalla liquidazione dei tributi risultanti dalla dichiarazione, non avrebbe posto la condizione». Eppure la genericità del concetto stesso d’incertezza avrebbe potuto prestar-

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La natura vincolata del provvedimento tributario, come osservato in pre-messa, non ne determina l’automatismo e non impedisce né annulla la signifi-catività della partecipazione del contribuente. Al contrario

104, la specificità del procedimento tributario e delle norme che lo regolano, primo tra tutti lo Sta-tuto, e, principalmente, il fondamento costituzionale e comunitario del con-traddittorio procedimentale, consentono di ritenere non applicabile, in fun-zione limitativa, una disposizione di legge ordinaria, quale è l’art. 21 octies, L. n. 241/1990. In questo senso, la specifica riserva di legalità propria della ma-teria tributaria rafforza l’impressione che non possano tollerarsi violazioni della garanzia considerata, risolvendo a monte un problema di coordinamen-to altrimenti complesso

105. Del resto, a mio avviso, la relativizzazione dei vizi procedurali desta giustificate perplessità, considerato che le norme sul proce-dimento sono poste a garanzia della sua legittimità e del diritto di difesa nei confronti dell’Amministrazione

106. Ne discende che non sia necessario de-terminare, né a priori né a posteriori, quale utilità possa essere tratta dall’ap-

si, al contrario, a interpretazioni meno rigide. M. NARDELLI, Il contraddittorio formale e le contraddizioni sostanziali, in GT-Riv. giur. trib., n. 3, 2013, pp. 204 e 207, suggerisce di “confinare” ad ipotesi teoriche la possibilità di escludere il contraddittorio. Promettente, anche se formalmente ancora in linea con l’interpretazione letterale limitativa, l’ord. 14 gennaio 2014, n. 545 con la quale la Cassazione ha confermato la sentenza della CTR Sicilia, riguardo alla nullità della cartella di pagamento emessa ex art. 36 bis, D.P.R. n. 600/1973, in base alla circostanza che l’irregolarità, riscontrata e non segnalata al contribuente prima dell’iscrizione a ruolo, non consisteva in un «errore rilevabile ictu oculi attraverso un mero riscontro cartolare» e, di conseguenza, si profilava la necessità di esplicitazione e motivazio-ne cui è funzionale, appunto, l’avviso. L’opportunità offerta dal contraddittorio procedimen-tale, al contrario, non andrebbe sprecata specie se si considerino le possibili conseguenze. La Cassazione nei confronti degli avvisi emessi ai sensi del medesimo art. 36 bis, come osserva-to, ha così ben presenti le esigenze di tutela del contribuente in queste fattispecie da avallare l’anticipazione del contezioso nei confronti di tali atti atipici. Aggirare il contraddittorio pre-contenzioso, dunque, finisce per condurre all’anticipazione del contenzioso. Al riguardo an-cora M. NARDELLI, op. loc. ult. cit., osserva «ci si deve chiedere già da un punto di vista prag-matico se sia utile imporre la necessità di ricorrere al contenzioso giudiziale».

104 Ivi, par. 2. 105 La disposizione in questione, peraltro, alimenta sin dalla sua introduzione un dibat-

tito dottrinale tra gli amministrativisti, configurando una discutibile alterazione del norma-le nesso tra illegittimità del Provvedimento e sua nullità/annullabilità. Si veda, in via esem-plificativa: L. FERRARA, La partecipazione tra illegittimità e illegalità. Considerazioni sulla di-sciplina dell’annullamento non pronunciabile, in Dir. amm., 2008, p. 105 ss.

106 In senso conforme autorevole dottrina anche riguardo al procedimento amministra-tivo in generale. F. FRACCHIA-M. OCCHIENA, Articolo 21 octies, comma 2, in N. PAOLANTO-NIO-A. POLICE-A. ZITO (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2006, p. 630 ss.

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porto del contribuente al procedimento 107. La nullità per carenza del contrad-

dittorio, dunque, deve discendere dalla semplice violazione della garanzia se a quest’ultima si vuole assegnare un reale significato e, di conseguenza, deve pre-scindere dalla prova dell’uso che se ne sarebbe potuto fare

108. Diverso se non maggiore è, poi, il rilievo attribuito, dal legislatore, al con-

traddittorio nelle ipotesi elusive tipicizzate. In questi casi, infatti, la sanzione di nullità in caso di violazione è normativamente espressa. Resta, tuttavia, il problema dell’applicabilità della medesima garanzia all’abuso, cioè alle fatti-specie elusive non tipicizzate. Considerato che il rischio di arbitrarietà, insi-to nella contestazione dell’abuso è addirittura maggiore rispetto a quello, già presente, in ogni contestazione elusiva, il contraddittorio non sembra

107 Al riguardo A. MARCHESELLI, Il giusto procedimento tributario, cit., p. 122 osserva che anche una relativizzazione di questo tipo sarebbe ingiusta e controproducente all’efficien-za amministrativa, considerando, peraltro, che «l’onere della prova circa il fatto che il provvedimento (pur se si fosse svolto il contraddittorio) non sarebbe stato diverso incom-berebbe all’Amministrazione stessa». Lo stesso autore precisa, altresì, p. 119, che «se per ottenere la tutela del contraddittorio occorresse dimostrare, a posteriori, di aver ragione nel merito, il contraddittorio non avrebbe alcuna valenza di garanzia».

108 Cass., sent. 22 gennaio 2014, n. 1264 osserva in tal senso: «l’inosservanza del termi-ne dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del con-traddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di deri-vazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva». Al riguardo, inve-ce, A. MARCHESELLI, Il giusto procedimento tributario, cit., tempera l’affermazione proponen-do la ricostruzione di «limiti esterni della rilevanza dell’omesso contraddittorio» (p. 123 ss.), individuati nella buona fede e nel divieto di abuso del diritto, sostenendo, inoltre, che il «difetto del contraddittorio (non) possa essere sollevato in modo astratto, generico o meramente formulare, senza la specificazione dei profili di difesa e di istruttoria che l’omis-sione non ha consentito di valorizzare in sede procedimentale». Lo scopo di tale precisa-zione è meritevole di attenzione, poiché mira a neutralizzare gli effetti che potrebbero ave-re eccezioni meramente formali e sostanzialmente pretestuose, tentando di raggiungere un «equilibrio tra le esigenze di legalità formale e le istanze di semplificazione amministrati-va» che A. ROMANO TASSONE, Osservazioni su invalidità e irregolarità degli atti amministra-tivi, in AA.VV., Annuario associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Mila-no, 2003, p. 103, considera lo scopo dello stesso art. 21 octies. Mi sembra, tuttavia, che queste valutazioni, ancora una volta, finirebbero col relativizzare la garanzia e, soprattutto, renderebbero ancora una volta incerta la conseguenza della violazione del contraddittorio. Non mi sembra risolutiva neppure la soluzione proposta, dallo stesso autore (p. 124), che si sforza di rintracciare nell’art. 96 c.p.c. un fondamento normativo cui riagganciare la deli-bazione giudiziale del vizio che, di conseguenza, sarebbe «irrilevante solo quando le difese predette (che il contribuente deduca a fondamento della concretezza della violazione subi-ta) siano qualificabili come temerarie».

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rinunciabile. Il contraddittorio, infatti, tende proprio a sterilizzare tale ri-schio – a vantaggio non del solo contribuente ma della correttezza e, in de-finitiva, della giustizia tributaria – consentendo, peraltro, all’Amministrazio-ne di valutare l’eventuale esistenza di valide ragioni economiche. Sembra ne-cessario, inoltre, per evitare che le garanzie predisposte a tutela dei contri-buenti possano essere agevolmente aggirate

109. Del resto, in materia elusiva, l’importanza di chiari interventi legislativi di riordino si evidenzia anche a causa di un crescente “disordine” d’origine giurisdizionale. Nell’ord. n. 24739, depositata il 5 novembre 2013, infatti, la Cassazione rimette alla Corte co-stituzionale la questione di legittimità del comma 4 della norma in questio-ne, per violazione degli artt. 3 e 53 Cost.

110. La Cassazione, tuttavia, sembra dia seguito all’interrogativo sollevato nell’interesse dell’Erario che pretende di desumere l’abrogazione della comminatoria di nullità per sopravvenuta abrogazione implicita «per effetto dell’introduzione nell’ordinamento na-zionale del divieto di abuso del diritto». Divieto che la stessa Cassazione definisce “fattispecie più generale” rispetto a quella specifica di cui all’art. 37 bis, D.P.R. n. 600/1973, evidenziando l’irrazionalità di ogni diversità proce-durale tra le due forme, delle quali solo una prevede la necessità del con-traddittorio a pena di nullità, mentre l’altra non solo non prevede tale con-seguenza ma, come osservato, il contraddittorio non lo considera neppu-re

111. La conclusione che se ne deve trarre, tuttavia, non è quella di ritenere illegittimo il comma 4 dell’art. 37 bis. È vero che elusione ed abuso sono so-stanzialmente convergenti e, dunque, sottoporre la loro contestazione a procedimenti divergenti determina disparità di trattamento ingiustificabili e in contrasto con l’art. 3 Cost. Il punto è che l’abuso non è stato oggetto di

109 F. TUNDO, La mancata instaurazione del contraddittorio su un’ipotesi potenzialmente elusiva rende nullo il successivo atto impositivo, in GT-Riv. giur. trib., n. 7, 2012, p. 639.

110 In attesa di tale intervento della Consulta, che potrebbe davvero essere utile e diri-mente, è opportuno osservare che la direzione cui tende l’ordinanza in commento, peral-tro condizionata dalle specificità del caso concreto che ne è il presupposto, non sembra condivisibile. La Corte, infatti, ripetutamente sottolinea come nel caso di specie si tratti di violazione “particolarmente lieve”, perché il termine dilatorio sarebbe stato anticipato di appena sei giorni, nella fattispecie «i giorni trascorsi erano stati invece cinquantaquattro», collegando anche sintatticamente l’esiguità della differenza all’idea che la violazione stessa costituisca un “mero difetto di forma” e non intacchi, invece, il “carattere di effettività so-stanziale e non formalistico” che deve essere assegnato al contraddittorio.

111 Rileva in tal senso la Cassazione, nell’ord. n. 24739/2013, che «nell’interpretazione della giurisprudenza, il giudice deve, anche d’ufficio, quando ritenga sussistenti gli elemen-ti della fattispecie abusiva, far applicazione della ripresa antielusiva ciò che, ovviamente, implica l’impossibilità di ogni preventivo contraddittorio».

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una procedimentalizzazione, esso è una mera costruzione giurisprudenziale ed è assolutamente incongruo considerare parametro di valutazione della legittimità di un procedimento, regolamentato per legge, un “non procedi-mento”, non regolato da norma alcuna. Occorrerebbe, come rilevato, ese-guire l’operazione inversa, come si spera suggerirà la Corte costituzionale e come avrebbe già dovuto fare il legislatore

112, regolamentando l’abuso del diritto

113. Abuso che, quale diretta promanazione dell’art. 53 Cost., non con-trasta affatto con l’affermazione del contraddittorio procedimentale. Infatti, diversamente da quanto afferma l’Avvocatura, nell’interesse dell’Erario nel ricorso che è fondamento dell’ordinanza in questione, il rispetto del con-traddittorio procedimentale non è “irrilevante” rispetto alla “necessità di re-primere l’elusione”. Al contrario esso appare assolutamente necessario.

* * *

Nelle more della pubblicazione è, in effetti, intervenuta l’attesa sentenza

n. 98/2014 della Corte costituzionale, in tema di reclamo/mediazione. La Corte, avallando l’operato legislativo che aveva già riformato alcuni aspetti critici dell’istituto, come rammentato, ha dichiarato l’illegittimità dell’impo-sizione del reclamo quale condizione di ammissibilità del ricorso, rimuoven-dola definitivamente dall’ordinamento. Altre questioni, invece, non hanno trovato altrettanto accoglimento per diverse ragioni che non possono in que-sta sede essere trattate con la necessaria esaustività. Nei limiti del presente approfondimento basti considerare che la Corte riconosce la “consistenza” eventuale del contraddittorio e chiarisce la natura affine all’autotutela e al-l’accertamento con adesione dell’istituto, malgrado la fuorviante denomina-zione di mediazione. L’aspetto più rilevante, tuttavia, è l’affermazione del-l’immodificabilità della motivazione dell’atto impugnato, ribadita ancor più di recente da Cass. n. 9810/2014, che, correttamente applicata, neutralizze-rebbe lo “svantaggio” insito nell’anticipazione al reclamo dei motivi di ricor-so e, di conseguenza, garantirebbe l’affidabilità e ragionevolezza stessa del contraddittorio ante causa.

112 G. MARINI, Note, cit., p. 341, annota al riguardo l’intenzione presente nel progetto di riforma fiscale del governo Monti n. 5291, inteso proprio a contemperare la lotta all’elusio-ne con l’esigenza di stabilità e certezza che impone specifiche regole procedimentali a tute-la del contribuente anche per l’abuso del diritto fiscale.

113 Abuso che, ovviamente, dovrebbe essere eccepito dalla parte pubblica e che non de-ve e non può essere rilevato d’ufficio, diversamente da quanto ritenuto dalla Cassazione (es. 11 maggio 2012, n. 7393).

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Federico Rasi

LA PREVIDENZA COMPLEMENTARE TRA UNIONE EUROPEA E STATI UNITI D’AMERICA:

A CHI L’ITALIA ACCORDA IL MIGLIOR TRATTAMENTO FISCALE?

SUPPLEMENTARY SOCIAL SECURITY PLANS BETWEEN THE EUROPEAN UNION AND THE UNITED STATES OF AMERICA: WHOM DOES ITALY GRANT THE BEST TAX TREATMENT TO?

Abstract La fiscalità della previdenza complementare è relativamente impermeabile al coinvolgimento di soggetti esteri. L’implementazione in Italia della Direttiva 2003/41/CE e l’entrata in vigore della nuova convenzione con gli USA rappre-sentano in questo contesto le vicende più significative ed innovative dalla cui analisi possono trarsi spunti per superare de iure condito, in taluni casi, e solo de iure condendo, in taluni altri, i profili di incompatibilità con il diritto dell’UE del sistema italiano. Parole chiave: previdenza complementare, Direttive, convenzioni fiscali, armo-nizzazione, trattamento fiscale The tax regime of social security plans is relatively insensitive as to the involvement of foreign entities. The implementation in Italy of Directive No. 2003/41/EC and the entry into force of the new Tax Convention with the U.S. represent, in this context, the most significant events. Their analysis can offer ideas to interpret the Italian tax sy-stem in a different way and suggestions on how to amend it pursuing the goal of com-patibility with the EU Law. Keywords: supplementary social security plans, directives, tax conventions, harmoni-zation, tax treatment

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SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Il problema del trattamento fiscale dei contributi versati da iscritti residenti a fondi esteri. – 3. Il problema del trattamento fiscale dei contributi versati da iscritti non residenti a fondi italiani. – 4. Il trasferimento di posizione previdenziale ... – 5. La tassazione delle prestazioni. – 6. Considerazioni conclusive.

1. Considerazioni introduttive

«La diversità, complessità e specificità dei sistemi fiscali nazionali svi-luppatisi negli ultimi anni sono considerati il maggior ostacolo per l’eserci-zio della libera circolazione delle persone e la libertà di prestazione di servizi in materia di pensione complementare ed assicurazione sulla vita»: così si esprimeva la Commissione Europea nella COM (1999)134 «Verso un mer-cato unico per i regimi pensionistici integrativi» dell’11 maggio 1999 evi-denziando come le diversità negli schemi di previdenza complementare po-tessero causare un impedimento all’esercizio delle libertà fondamentali ga-rantite dal diritto dell’UE

1. Tali diversità sono dovute alle particolarità della previdenza, ovverosia,

dal punto di vista fiscale, al fatto che tale fenomeno va analizzato in una pro-spettiva “diacronica”, potenzialmente diversa dalla tradizionale prospettiva “sincronica” in cui si dipanano le vicende tributarie.

Mentre il diritto tributario è per la maggior parte delle fattispecie domi-nato dal principio dell’autonomia dei periodi di imposta in forza del quale la rilevanza dei fatti generatori dell’obbligazione tributaria rimane confinata nel periodo di imposta in cui si manifestano, la materia previdenziale (ivi compresa la fiscalità della previdenza complementare), invece, ha in mente un più ampio orizzonte temporale di riferimento

2. Ciò consente ai legislato-ri nazionali di concentrare la tassazione del risparmio previdenziale in una

1 Sulla stessa scia si è posto più di recente anche il Commissario Lázló Kovács, al-l’epoca responsabile della Direzione Generale fiscalità e dogane, secondo cui «l’elimina-zione di tutte le discriminazioni fiscali nei confronti dei fondi pensionistici è una delle grandi priorità della Commissione Europea». Bruxelles, 26 giugno 2008, IP/08/1022.

2 PURI, Destinazione previdenziale e prelievo tributario: dalla parafiscalità alla fiscalizza-zione del sistema previdenziale, Milano, 2005, p. 182 ritiene che le tre fasi in cui si articola, anche fiscalmente, la previdenza possano essere considerate quali componenti di una fatti-specie complessa ed unitaria.

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sola delle fasi (contribuzione, accumulazione, prestazione) in cui la vicenda previdenziale si articola, accordando alle altre un regime di esenzione secon-do uno dei differenti modelli teorici di tassazione del risparmio previdenzia-le (TEE, ETE, EET)

3. Tali scelte possono essere messe in crisi nel momento in cui l’iscritto si

muove da un ordinamento ad un altro; in tal caso può accadere che lo Stato di origine perda potestà impositiva, pur avendo concesso vantaggi fiscali al contribuente per l’adesione ad un fondo pensione. Gli Stati, dal momento che per vicende relative agli iscritti possono veder alterati gli schemi imposi-tivi cui fanno ricorso, cercano di introdurre cautele per evitare il realizzarsi di questi fenomeni

4. La scelta di uno Stato di riservare ad un iscritto un regime fiscale di favo-

re in una data fase, si fonda, infatti, sul presupposto del rinvio della tassazio-ne ad una fase successiva (la concessione del vantaggio fiscale della dedu-zione dei contributi è correlata alla successiva tassazione delle prestazioni, lontana nel tempo dalla prima)

5. Così facendo possono verificarsi negli or-dinamenti nazionali differenziazioni in funzione della residenza o meno del-l’iscritto che, nella prospettiva del diritto dell’UE, possono risolversi in di-sparità di trattamento vietate

6. Ciò suggerisce di verificare se tali reazioni

3 Ove E sta per Esenzione e T sta per Tassazione. Sulle implicazioni economiche e giu-ridiche di questi schemi v. MARÈ, Valutazioni economiche: le ragioni della tassazione adegua-ta della previdenza complementare, in MARCHETTI-MARÈ (a cura di), Previdenza complemen-tare e disciplina fiscale, Bologna, 2009, p. 16; MARCHETTI, Valutazioni giuridiche: è possibile un nuovo modello fiscale della previdenza complementare?, in MARCHETTI-MARÈ (a cura di), op. cit., p. 31.

4 PURI, Il lavoratore transfrontaliero e la previdenza complementare, in DELLA VALLE-PER-RONE-SACCHETTO-UCKMAR (a cura di), La mobilità transnazionale del lavoratore dipenden-te: profili tributari, Padova, 2009, p. 256.

5 Il fatto che la fiscalità della previdenza complementare si fondi sul principio del rinvio della tassazione è riconosciuto anche dal Commentario al Modello OCSE, Commento al-l’art. 18, condensed version al 22 luglio 2010, par. 12, p. 278.

6 Non è oggetto di analisi la c.d. fase dell’accumulazione, ove si pone il problema della comparazione del carico fiscale subito da fondi residenti e fondi non residenti che inve-stono nel loro Paese ed all’estero. Tale fase presenta minore interesse in quanto la circo-stanza che l’investitore sia un fondo pensione non pone problematiche differenti da quelle tradizionalmente affrontate dalla Corte di Giustizia UE nei giudizi aventi ad og-getto questioni di discriminazione tra soggetti residenti e non residenti. V. Corte di Giu-stizia UE, 8 novembre 2012, causa C-341/2010, Commissione c. Repubblica di Finlandia; Corte di Giustizia UE, 22 novembre 2012, causa C-600/10, Commissione c. Repubblica federale di Germania; Corte di Giustizia UE, 18 luglio 2013, causa C-26/12, PPG Hol-dings BV.

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necessarie per ripristinare le simmetrie infrante possano essere ammesse ovvero se simili interventi violino le libertà fondamentali sancite dal TUE

7. Con specifico riferimento all’ordinamento italiano, anche il sistema di

previdenza complementare delineato con il D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, nonostante taluni interventi di “manutenzione” proprio nella prospettiva del suo adattamento al diritto dell’UE, presenta profili problematici che sa-ranno oggetto di analisi. Concretamente, in Italia, se risulta risolta la questio-ne della rilevanza fiscale da attribuire a contributi versati da soggetti italiani a fondi esteri, è del tutto irrisolta quella della rilevanza dei contributi versati a fondi italiani da iscritti non residenti a cui si correla la questione della tas-sazione delle prestazioni. Il D.Lgs. n. 252/2005 prevede, infatti, che le pre-stazioni pensionistiche complementari erogate tanto in forma di rendita, quanto in forma di capitale siano «imponibili per il loro ammontare com-plessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad im-posta». Per effetto di tale disposizione si verifica che non debba essere as-soggettata a tassazione non solo la quota delle prestazione corrispondente ai redditi assoggettati ad imposizione nella fase di accumulazione (e cioè i redditi prodotti dalla forma pensionistica complementare nella gestione del risparmio previdenziale ed assoggettati ad imposta in capo allo stesso fondo pensione), ma anche la quota della prestazione riferibile ad eventuali con-tributi non dedotti, in quanto, dalla mancata deduzione, deriva l’assoggetta-mento a tassazione di tali somme

8. L’Italia attua così il principio che il risparmio previdenziale deve essere

assoggettato ad imposta una sola volta 9, al fine di evitare possibili fenomeni

di doppia imposizione ritenuti contrari alla logica previdenziale. Tale circo-

Relativamente alla posizione dell’Italia, si ricorda che nei suoi confronti era stata av-viata la procedura di infrazione n. 2006/4094, in quanto non accordava un trattamento analogo di tassazione ai dividendi erogati a fondi pensione italiani ed a fondi pensione non residenti. Per ovviare a tale situazione è intervenuta la legge comunitaria 2008 (L. 7 luglio 2009, n. 88), la quale, previa modifica dell’art. 27, comma 3, D.P.R. n. 600/1973, ha stabilito anche per gli utili corrisposti ai fondi pensione istituiti negli Stati Membri del-l’UE e negli Stati che aderiscono all’Accordo sullo Spazio Economico Europeo inclusi nella lista di cui all’art. 168 bis TUIR, un regime di imposizione sostitutiva con aliquota dell’11%.

7 V. MELIS, I redditi di lavoro dipendente e il diritto comunitario, in DELLA VALLE-PERRO-NE-SACCHETTO-UCKMAR (a cura di), op. cit., p. 1.

8 MARCHETTI, La deducibilità fiscale dei contributi alla previdenza complementare. Disci-plina generale, in Nuove leggi civ. comm., 2007, p. 903.

9 MARCHETTI, Valutazioni giuridiche, cit., p. 31.

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stanza connota fiscalmente il risparmio previdenziale distinguendolo da quello finanziario ove un’analoga esigenza non è avvertita

10. Per il caso in cui la vicenda previdenziale non si esaurisca nel territorio

dello Stato (iscritto e fondo pensione entrambi residenti), ma entrino in gio-co anche soggetti (iscritto o fondo pensione) residenti all’estero, l’Italia adot-ta soluzioni particolari che saranno di seguito analizzate. Nel dettaglio tale analisi si svolgerà tenendo conto di due diverse politiche perseguite dall’Ita-lia: in tema di fiscalità della previdenza complementare quella adottata nel caso in cui siano coinvolti soggetti residenti in altri Stati Membri dell’UE e quella adottata nel caso in cui siano coinvolti soggetti residenti negli Stati Uniti d’America.

Contrariamente alle aspettative (e forse in modo paradossale) può rite-nersi più maturo e più innovativo il trattamento riconosciuto (benché limi-tatamente a talune fattispecie) agli Stati Uniti d’America piuttosto che agli Stati Membri dell’UE. La recente (in vigore dal 1° gennaio 2010) Conven-zione contro le doppie imposizioni con gli Stati Uniti d’America effettua (per ora in maniera unica nel panorama dei trattati stipulati dall’Italia) pro-prio in materia previdenziale scelte particolarmente coraggiose che potreb-bero essere implementate a livello europeo. Questa Convenzione, nonostan-te il suo inevitabilmente limitato campo di applicazione, raggiunge soluzioni nuove e sistematicamente interessanti idonee a garantire un’effettiva mobilità transnazionale dei lavoratori. Merita, pertanto, riflettere sui modi in cui tali risultati siano stati conseguiti a livello extra-UE per estendere le medesime soluzioni a livello UE.

2. Il problema del trattamento fiscale dei contributi versati da iscritti residenti a fondi esteri

2.1. Il caso dei fondi europei

La prima ipotesi che merita di essere valutata riguarda il trattamento dei contributi versati da soggetti italiani a fondi non residenti.

Tale ipotesi è ora disciplinata dall’art. 10, comma 1, lett. e bis), primo in-ciso, TUIR, secondo cui i contributi versati alle forme pensionistiche com-

10 MARCHETTI, La previdenza privata nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 1989, passim.

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plementari di cui al D.Lgs. n. 252/2005, sono deducibili dal reddito com-plessivo dell’iscritto alle condizioni e nei limiti previsti dall’art. 8 del mede-simo decreto. Alla luce di tale disposizione risulta che i contributi versati alle forme di previdenza complementare sono deducibili dal reddito complessi-vo per un importo non superiore ad € 5.164,57.

Originariamente, l’applicazione del regime di deducibilità (parziale) dei contributi versati era limitata ai soli fondi italiani. Ciò aveva causato l’aper-tura della procedura di infrazione n. 2002/2291 con cui veniva contestata al-l’Italia una possibile violazione della libertà di circolazione all’interno del-l’UE in quanto il previgente regime non solo obbligava, implicitamente, gli intermediari esteri alla costituzione di fondi pensione aperti secondo la legi-slazione italiana, ma dissuadeva anche un soggetto dall’accedere a fondi esteri poiché avrebbe perso i vantaggi fiscali connessi alla sottoscrizione di un fon-do nazionale

11. Al fine di evitare censure, l’art. 10 TUIR menzionato è stato modificato

dai commi 313 e 314 dell’art. 1, L. 27 dicembre 2006, n. 296 (c.d. legge fi-nanziaria per il 2007) che hanno introdotto la possibilità di dedurre anche i contributi versati alle forme pensionistiche complementari istituite negli Stati Membri dell’UE e negli Stati aderenti all’Accordo sullo Spazio Econo-mico Europeo. Allo stato attuale è stata così riconosciuta la deducibilità «alle medesime condizioni ed entro gli stessi limiti» previsti per i contri-buti versati a forme pensionistiche costituite secondo la legislazione italia-na ai «contributi versati alle forme pensionistiche complementari istituite negli Stati Membri dell’Unione europea e negli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo che sono inclusi nella lista di cui al decre-to del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 168 bis» TUIR.

L’intervento italiano è stato assolutamente opportuno e tempestivo solo se si tiene conto dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE che, anche in recenti sentenze

12, ha dichiarato l’incompatibilità di nor-mative simili a quella italiana ante riforma.

11 Normative analoghe a quella italiana sono state adottate anche da altri Stati Membri quali Belgio, Danimarca, Irlanda, Francia, Portogallo, Spagna e Regno Unito. Anche nei loro confronti sono state avviate procedure di infrazione o contenziosi che, salvi i casi di ade-guamento spontaneo, hanno di regola visto soccombenti gli Stati inadempimenti. V. Corte di Giustizia UE, 23 gennaio 2014, causa C-296/12, Commissione c. Belgio.

12 Corte di Giustizia UE, 19 novembre 2009, causa C-314/08, Filipiak.

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Anche altri Stati avevano, infatti, discipline simili a quella italiana e, a so-stegno della loro legittimità invocavano l’argomento della “coerenza fisca-le”, ovverosia la possibilità per uno Stato Membro di correlare l’attribuzione di un vantaggio fiscale alla sussistenza di un legame diretto tra detto vantag-gio ed un successivo onere fiscale imposto in un momento diverso.

Inizialmente la Corte di Giustizia UE aveva accolto tale impostazione ar-gomentando proprio a partire dalle caratteristiche della materia previden-ziale

13. Nella nota sentenza Bachmann 14 e nella di poco successiva Commis-

sione c. Belgio 15 la Corte aveva riconosciuto l’esistenza di un legame fra la de-

ducibilità dei contributi e l’imponibilità delle somme dovute a carattere pre-videnziale tale da riconoscere la legittimità della legislazione belga laddove non ammetteva in deduzione i premi versati a società assicurative non resi-denti.

Tale posizione è stata però poi meglio precisata nel caso Wielockx 16 ove

veniva lamentata da una cittadino belga l’impossibilità di dedurre dal pro-prio reddito imponibile le somme versate per la costituzione di una riserva di vecchiaia nei Paesi Bassi in quanto, in virtù della convenzione in vigore tra Belgio e Paesi Bassi, sarebbe spettata solo al Belgio la tassazione della successiva pensione

17. In questa occasione la Corte ha chiarito la propria posizione affermando come la vigenza di una convenzione contro le dop-pie imposizioni allarghi il campo entro cui deve essere esaminata la coe-renza fiscale

18. Anche la ripartizione della potestà impositiva prevista a li-vello convenzionale entra nella valutazione della coerenza con l’effetto che, una volta che uno Stato ha rinunciato pattiziamente a tassare un compo-nente fiscalmente rilevante, pur continuando ad accordare ad esso taluni vantaggi fiscali, non può dolersene. L’assetto che ne risulta sarebbe di per sé coerente.

A partire da tale sentenza, la Corte ha sistematicamente respinto l’argo-

13 V. sul tema MONDINI, I limiti alla deducibilità dei contributi previdenziali versati al-l’estero tra coerenza fiscale e divieto di discriminazione, in Giur. imp., 2003, p. 313; GARCÍA PRATS, The tax treatment of cross-border pensions from an EC law perspective, in European taxation, 2001, p. 12.

14 Corte di Giustizia UE, 28 gennaio 1992, causa C-204/90, Bachmann. 15 Corte di Giustizia UE, 28 gennaio 1992, causa C-300/90, Commissione c. Belgio. 16 Corte di Giustizia UE, 11 agosto 1995, causa C-80/94, Wielockx. 17 V. anche Corte di Giustizia UE, 10 settembre 2009, causa C-269/07, Commissione c.

Germania. 18 V. anche Corte di Giustizia UE, 21 novembre 2002, causa C-436/00, X e Y.

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mento della coerenza 19. In particolare, nel caso Danner

20 nel quale la Corte

19 L’argomento della coerenza fiscale risulta invocato e non accolto, a titolo di esempio, nei seguenti casi: Corte di Giustizia UE, 14 novembre 1995, causa C-484/93, Svensson-Gustavsson; Corte di Giustizia UE, 27 giugno 1996, causa C-107/94, Asscher; Corte di Giu-stizia UE, 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI; Corte di Giustizia UE, 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars; Corte di Giustizia UE, 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen; Corte di Giustizia UE, 8 marzo 2001, causa C-397/98 e 410/98, Metallgesellschaft; Corte di Giu-stizia UE, 12 dicembre 2002, causa C-385/00, De Groot. Di recente Corte di Giustizia UE, 13 marzo 2014, causa C-375/12, Bouanich.

Da tale consolidato orientamento si discosta la sentenza della Corte di Giustizia UE del 7 novembre 2013, causa C-322/11, K, ove si legge che «una normativa ... può essere giustificata da motivi imperativi di interesse generale attinenti alla necessità di salvaguar-dare l’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri e di garantire la coerenza del regime fiscale finlandese ed è idonea a conseguire tali obiettivi». In questa sentenza, diversamente che dalle precedenti menzionate, viene così accolto l’argomento della coerenza. Per valutare la portata della decisione occorre però tenere presente le cir-costanze di fatto in cui è stata resa.

La questione aveva ad oggetto quella parte del regime fiscale finlandese che negava la deducibilità in Finlandia delle perdite subite in occasione della cessione di un immobile sito all’estero (nel caso concreto in Francia), mentre tale deduzione sarebbe stata consen-tita ove l’immobile fosse stato sito in Finlandia. La Corte di Giustizia afferma che «tale diverso trattamento a seconda del luogo di ubicazione dell’immobile è idoneo a dissuadere un contribuente dall’effettuare investimenti immobiliari in un altro Stato membro e costi-tuisce, pertanto, una restrizione alla libera circolazione dei capitali vietata, in linea di prin-cipio, dall’articolo 63 TFUE», tuttavia, come anticipato, questa restrizione viene conside-rata giustificata in quanto «l’applicazione combinata della convenzione franco-finlandese e della normativa tributaria finlandese fa sì che la Repubblica di Finlandia sia priva di qual-siasi competenza fiscale sui redditi derivanti dalla cessione di beni immobili situati in Francia, ove tali redditi non vengono né assoggettati ad imposizione né altrimenti presi in considerazione in Finlandia». Per la Corte è significativa la circostanza che alla luce della convenzione contro le doppie imposizioni la Finlandia non può in alcun modo tassare i redditi in discussione, sicché non sarebbe corretto imporre alla Finlandia di dare rilevanza ad eventuali perdite. Diversamente ragionando e riconoscendo «la deducibilità, nello Sta-to membro di residenza del contribuente, delle perdite derivanti dalla vendita di un bene immobile situato in un altro Stato membro, indipendentemente dalla ripartizione del po-tere impositivo convenuta tra gli Stati membri, significherebbe consentire al contribuente medesimo di scegliere liberamente lo Stato membro in cui tali perdite vengono prese in con-siderazione nei termini fiscalmente più vantaggiosi (v., in tal senso, citata sentenza Lidl Bel-gium, punto 34)». Ciò fa sì che il diniego di concessione della deducibilità delle perdite deri-vanti dalla cessione di un bene immobile situato in Francia garantisca la coerenza del sistema.

20 Corte di Giustizia UE, 3 ottobre 2002, causa C-136/00, Danner, con nota di PIZZO-NI, Indeducibilità dei contributi a schemi di previdenza complementare estera e principio di coe-renza fiscale, in Riv. dir. trib., 2002, p. 185; v. anche RAGGI, Il principio della coerenza fiscale non si applica? Tutta colpa delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni, in Dir. prat. trib., 2004, p. 271.

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è tornata ad occuparsi di una legislazione nazionale (questa volta quella fin-landese) che negava la deducibilità dei contributi versati a schemi pensioni-stici complementari non residenti assoggettando contestualmente ad imposta le prestazioni pensionistiche complementari. Tale normativa è stata ritenuta violare il principio di libertà di prestazione di servizi e peraltro nemmeno es-sere giustificabile in base al principio della coerenza fiscale. Per effetto della stipula di una convenzione, la coerenza, infatti, non va più verificata a livello di uno stesso soggetto, ma sulla base di una correlazione rigorosa tra la de-traibilità dei contributi e l’imponibilità delle pensioni e, quindi, va spostata sul livello della reciprocità delle norme applicabili negli Stati contraenti.

L’operatività del principio della coerenza in materia previdenziale è stato poi definitivamente chiarito nella sentenza Commissione c. Danimarca

21 do-ve questo Stato invocava la coerenza fiscale del proprio sistema tributario per giustificare la scelta di negare la deducibilità dei contributi versati a fon-di esteri. Per la Corte, perché tale argomento possa essere utilmente invoca-to, deve essere verificata la sussistenza di un nesso diretto tra la norma im-positiva e quella agevolativa: lo svantaggio attribuito agli operatori deve, im-mediatamente, essere compensato con un vantaggio attribuito da un’altra norma. Tale simmetria deve essere apprezzata non solo a livello nazionale, ma anche a livello di convenzioni internazionali contro la doppia imposi-zione. A tale proposito la Corte ha sottolineato come l’elemento idoneo a pregiudicare la coerenza del sistema fiscale danese risieda nella possibilità che l’interessato trasferisca la propria residenza nel periodo compreso tra il momento del versamento dei contributi ad un regime pensionistico e il mo-mento dell’erogazione delle corrispondenti prestazioni, ma non tanto nel fatto che l’ente pensionistico sia ubicato in un altro Stato Membro. Ritiene pertanto che solo nel caso in cui il contribuente trasferisca la propria resi-denza in un altro Stato Membro prima che le prestazioni assicurative siano giunte a scadenza, il Regno di Danimarca potrebbe incontrare difficoltà nel tassare le prestazioni erogate e solamente in tal caso risulterebbe pregiudica-ta la coerenza del sistema fiscale danese in materia di pensioni private. Qua-lora il contribuente mantenga la propria residenza in Danimarca, nulla im-pedisce a quest’ultima di negoziare le proprie convenzioni così da esercitare il proprio potere impositivo anche sulle prestazioni erogate da un ente pen-sionistico stabilito in un altro Stato Membro. Negando, invece, la Dani-marca (come l’Italia in passato) «in linea generale» vantaggi fiscali ai con-

21 Corte di Giustizia UE, 30 gennaio 2007, causa C-150/04, Commissione c. Danimarca.

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tributi versati ad un ente pensionistico stabilito in un altro Stato Membro, è violato il diritto dell’UE. Tale sentenza, rispetto alle altre, riconosce che uno Stato possa volersi tutelare da trasferimenti degli iscritti, ma per farlo deve prevedere nelle convenzioni clausole apposite. Se non vi procede (e si alli-nea al Modello OCSE che assegna potestà impositiva allo Stato di residenza dell’iscritto) non può dolersi di eventuali asimmetrie.

Per la materia previdenziale, completa il quadro la sent. 19 novembre 2009, causa C-314/08, Filipiak, in cui era stata sottoposta all’attenzione del-la Corte la normativa polacca relativa all’imposta sul reddito che riconosce-va il diritto alla deduzione dalla base imponibile dell’imposta sul reddito dei contributi previdenziali obbligatori ed il diritto alla detrazione dei contributi obbligatori di assicurazione malattia solo ed esclusivamente se versati in Po-lonia

22. La Corte muove dall’osservazione che «la situazione di un contribuente

come il sig. Filipiak, che risiede in Polonia e esercita un’attività economica in un altro Stato Membro, nel quale è affiliato ai regimi obbligatori di assi-curazione malattia e di previdenza sociale, e quella di un contribuente an-ch’egli residente in Polonia, ma che esercita la sua attività professionale in questo stesso Stato, nel quale è affiliato ai regimi nazionali di assicurazione malattia e di previdenza sociale, sono analoghe per quanto riguarda i princi-pi di imposizione, in quanto in Polonia entrambi i contribuenti sono sogget-ti ad un obbligo tributario illimitato». Nella visione della Corte il mancato riconoscimento della possibilità di dedurre e/o detrarre dal reddito polacco i contributi versati a forme di previdenza obbligatorie estere si traduce in una restrizione vietata dagli artt. 49 e 56 TFUE in quanto dissuade un citta-dino di uno Stato Membro dall’esercitare un’attività economica in un altro Stato Membro.

Sembrerebbe mettere fine alla questione la recente sent. 23 gennaio 2014, causa C-296/12, Commissione c. Belgio, che, facendo un pressoché te-stuale ed integrale rinvio al caso Commissione c. Danimarca, ribadisce che un regime fiscale «che esclude, in termini generali, la concessione di una ridu-zione d’imposta per i versamenti effettuati ad un regime di risparmio-pen-sione gestito da un istituto finanziario stabilito in uno Stato membro diver-

22 Ne derivava che un residente in Polonia, qui soggetto ad un obbligo tributario illimi-tato, che aveva versato contributi obbligatori previdenziali e di assicurazione malattia in un altro Stato Membro a fronte di un’attività economica ivi esercitata (e siffatti contributi non erano stati dedotti dal reddito o detratti dall’imposta in quest’altro Stato Membro) non poteva dedurre o detrarre gli stessi in Polonia.

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so dal Regno del Belgio non può essere giustificato dalla necessità di garan-tire la coerenza del sistema fiscale». Viene così rinnovato l’invito agli Stati Membri a stipulare concordemente alle proprie esigenze le convenzioni con le doppie imposizioni.

Le modifiche apportate dal legislatore italiano all’art. 10, comma 1, lett. e bis), TUIR, anche quindi alla luce della giurisprudenza più recente, sono, assolutamente condivisibili e corrette

23.

2.1.1. La Direttiva 2003/41/CE: fondi pensione “armonizzati” e non

La novella normativa appena esaminata, pur adeguando l’Italia alla giuri-sprudenza europea, pone alcune problematiche applicative in quanto l’espres-sione «forme pensionistiche complementari istituite negli Stati Membri» dell’UE e del SEE non è univoca. Essa è interpretabile in differenti maniere: può, infatti, sostenersi che sia sufficiente che una forma pensionistica sia istituita secondo le regole di uno Stato Membro; può altresì sostenersi che non sia sufficiente questa circostanza, ma che debbano ricorrere in capo a tale forma pensionistica i requisiti previsti dalla Direttiva 2003/41/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 3 giugno 2003 relativa alle attività e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali

24. Con la Direttiva in esame (che non tratta direttamente di questioni tri-

butarie, ma che svolge, comunque, una funzione rilevante a fini interpretati-vi), il Parlamento Europeo ed il Consiglio sono intervenuti per garantire un uniforme livello di garanzia di solidità e solvibilità da parte dei soggetti che prestano servizi previdenziali per evitare che gli Stati pongano ostacoli al mercato dei servizi previdenziali. La Direttiva è stata attuata in Italia dall’art. 18, L. 25 gennaio 2006, n. 29 (c.d. legge comunitaria 2005) che, inserendo nella L. 18 aprile 2005, n. 62, (c.d. legge comunitaria 2004) l’art. 29 bis, ha

23 Non modifica tali conclusioni Corte di Giustizia UE, 7 novembre 2013, causa C-322/11, K. Come detto tale sentenza giudica legittima la legislazione finlandese nella parte in cui nega la deducibilità in Finlandia di minusvalenze immobiliari prodotte all’estero. Per la Corte tale assetto è coerente in quanto la Finlandia non vanta potestà impositiva sulle corrispondenti plusvalenze. Non vale invocare tale sentenza in quanto per i contributi pre-videnziali versati a fondi esteri, l’Italia, quale Stato di residenza dell’iscritto, diversamente dal-la Finlandia, si arroga la relativa potestà impositiva sulla base sia della legislazione interna, sia di quella convenzionale.

24 Tale impostazione è peraltro sostenuta (senza però motivarla) dall’Agenzia delle En-trate che, nella Circolare 18 dicembre 2007, n. 70/E, «ritiene che in assenza di espresse indicazioni normative, debba farsi riferimento alla direttiva n. 2003/41/CE relativa alle attività e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali».

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delegato il Governo a recepire la Direttiva 2003/41/CE. Il Consiglio dei Mi-nistri, in attuazione di tale delega, ha emanato il D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 28, il cui art. 5, per quanto qui di interesse, modifica il D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, inserendo gli artt. 15 bis, 15 ter e 15 quater concernenti rispettiva-mente l’operatività all’estero delle forme pensionistiche complementari ita-liane, l’operatività in Italia delle forme pensionistiche complementari dell’UE e la cooperazione e lo scambio di informazioni tra le autorità competenti.

Tale Direttiva 25 rappresenta un momento significativo nel processo di ar-

monizzazione della previdenza complementare nell’UE, in quanto fissa del-le regole minime che le normative dei singoli Stati Membri, in tema di fondi pensione, devono rispettare per essere autorizzati all’operatività transfronta-liera. Il rispetto di tali regole consente, infatti, ai fondi pensione di avviare una procedura di autorizzazione ad operare anche in altri Stati Membri che si articola in un controllo tanto dell’autorità di vigilanza del Paese di residenza del fondo, quanto di quella del futuro Paese ospitante

26. Sono state così individuate una serie di condizioni per l’accesso al merca-

to previdenziale, le regole da rispettare per l’esercizio di tale attività e la vigi-lanza degli enti previdenziali

27. Queste regole costituiscono un insieme di norme prudenziali volte a garantire una regolamentazione ed una vigilanza tali da tutelare i diritti degli aderenti e dei beneficiari.

Oltre a tali regole, la Direttiva, all’art. 20, fissa quelle per l’attività tran-sfrontaliera, ovvero per consentire ai fondi pensione nazionali di offrire i pro-pri servizi oltre frontiera e di accogliere l’adesione di imprese di altri Paesi

25 Sulle problematiche che può comportare la sua attuazione v. Corte di Giustizia UE, 14 gennaio 2010, causa C-343/08, Commissione c. Repubblica Ceca.

26 L’obiettivo principale della Direttiva è la liberalizzazione del mercato europeo delle prestazioni pensionistiche complementari, ma nel rispetto delle singole normative nazionali in materia di sicurezza sociale, lavoro e organizzazione dei sistemi pensionistici. Nei conside-randa si legge che le istituzioni europee, consapevoli che «tra le priorità più urgenti, [vi è] l’elaborazione di una Direttiva sulla vigilanza prudenziale degli enti pensionistici aziendali o professionali, poiché si tratta di una categoria importante di istituzioni finanziarie ... che ... non rientrano in un quadro normativo coerente a livello europeo che consenta loro di bene-ficiare appieno dei vantaggi del mercato interno» (Sesto considerando), hanno così provve-duto ad armonizzare le condizioni che disciplinano l’accesso al mercato previdenziale, le re-gole da rispettare per l’esercizio di tale attività e la vigilanza degli enti previdenziali.

27 La Direttiva dispone che gli enti pensionistici limitino le proprie attività all’esercizio di schemi pensionistici ed alle attività ad essi collegate (art. 7, Direttiva 2003/41/CE) e che siano previsti meccanismi di segregazione patrimoniale al fine di salvaguardare gli in-teressi degli aderenti ai fondi pensione (art. 8, Direttiva 2003/41/CE); viene inoltre previ-sto che gli enti che esercitano attività previdenziali siano registrati in uno specifico registro nazionale e siano sottoposti a puntuale vigilanza (art. 9, Direttiva 2003/41/CE).

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dell’UE. Si obbligano gli Stati Membri a consentire alle imprese aventi sede nel loro territorio di promuovere enti pensionistici aziendali o professionali autorizzati in altri Stati Membri ed agli enti pensionistici autorizzati in altri Stati europei di accettare, come promotori, imprese aventi sede nel territorio di altri Stati Membri.

L’offerta transfrontaliera di servizi previdenziali viene così consentita e-sclusivamente previo rilascio di una specifica autorizzazione ad operare al-l’estero da parte dell’autorità competente del proprio Stato di origine. Inol-tre, prima che un ente pensionistico possa iniziare a gestire uno schema pen-sionistico per un’impresa promotrice in un altro Stato Membro, le autorità competenti dello Stato Membro ospitante comunicano alle autorità compe-tenti dello Stato d’origine, se del caso, le disposizioni di diritto della sicurez-za sociale e di diritto del lavoro in materia di pensioni aziendali e professio-nali conformemente alle quali lo schema pensionistico deve essere gestito. L’art. 20, comma 9, della Direttiva, difformemente da altre Direttive, quali quelle in tema di organismi di investimento collettivo del risparmio, che pu-re prevedono forme di armonizzazione tra i fondi, non esclude una vigilanza anche dello Stato Membro ospitante affinché sia garantito il rispetto di ta-lune sue norme

28. È questo il tratto che caratterizza la Direttiva del quale non può non tenersi conto in sede fiscale: essa non realizza un’armonizza-zione piena, ma utilizza un meccanismo di tipo autorizzatorio.

Ciò dimostra che, se è vero che, da un lato, le istituzioni europee hanno cercato di rimuovere gli ostacoli all’esercizio della libertà di prestazione di servizi previdenziali per evitare che singole legislazioni nazionali possano dis-suadere tali operatori dall’operare in altri Stati Membri, tuttavia, dall’altro, è altresì vero che la possibilità di prestare servizi previdenziali è stata subordina-ta al rispetto di talune regole anche dello Stato Membro ospitante. A livello europeo si è cercato di realizzare un contemperamento tra la necessità di con-sentire ai fondi pensione di operare a livello transfrontaliero e quella di tutela-

28 L’articolo menzionato afferma che «l’ente è sottoposto alla costante vigilanza delle autorità competenti dello Stato Membro ospitante per quanto riguarda la conformità delle sue attività con le disposizioni del diritto del lavoro e del diritto della sicurezza sociale del-lo Stato Membro ospitante pertinenti in materia di schemi pensionistici aziendali o profes-sionali di cui al par. 5 e con le disposizioni in materia di informazione di cui al par. 7. Qua-lora tale vigilanza ponesse in luce irregolarità, le autorità competenti dello Stato Membro ospitante ne informano immediatamente le autorità competenti dello Stato Membro d’o-rigine. Queste ultime, coordinandosi con le autorità competenti dello Stato Membro ospi-tante, adottano le misure necessarie per garantire che l’ente in questione ponga fine alla rilevata violazione delle disposizioni di diritto sociale e diritto del lavoro».

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re l’interesse degli iscritti ad accedere a forme di previdenza complementare che operano secondo il principio della «persona prudente» (Sesto conside-rando). Il punto di equilibrio è stato trovato in un meccanismo autorizzatorio che coinvolge, con poteri diversi, lo Stato Membro di origine e quello ospi-tante.

In altri termini, viene delimitato l’ambito entro il quale la libertà di pre-stazioni di tali servizi previdenziali è garantita, sicché deve ritenersi che sol-tanto entro i medesimi confini sia garantito il rispetto delle libertà fonda-mentali del TFUE.

Tali considerazioni devono influire sull’interpretazione della normativa italiana e, segnatamente, su quella dell’art. 10, comma 1, lett. e bis), TUIR allorquando tratta di «forme pensionistiche complementari istituite negli Stati Membri».

L’interpretazione letterale della norma (che condurrebbe a ritenere dedu-cibili dal reddito complessivo dell’iscritto residente in Italia i contributi dallo stesso versati a “qualunque” forma di previdenza complementare operante in un Paese dell’UE o dello Spazio Economico Europeo, purché incluso nella futura white list, indipendentemente dalla circostanza che questa forma pen-sionistica complementare rispetti i requisiti della Direttiva 2003/41/CE

29) può allora essere messa in dubbio e vi si può preferire un approccio sistematico.

Dal quadro offerto dalla Direttiva 2003/41/CE deriva che, anche per le istituzioni europee, per aversi piena armonizzazione non è sufficiente la sem-plice istituzione di un fondo pensione in uno Stato Membro, ma occorre al-tresì che un fondo pensione sia autorizzato all’attività transfrontaliera dalla sua autorità di vigilanza e sussista un controllo incrociato dello Stato Mem-bro di origine e di quello ospitante, allora è solo entro questi limiti che deve

29 Potrebbe confortare questa opinione la recente Corte di Giustizia UE, 23 gennaio 2014, causa C-296/12, Commissione c. Belgio, in cui viene censurata una normativa belga nella parte in cui accordava vantaggi fiscali solo ai contributi versati ad enti di tipo previden-ziale stabiliti in Belgio. Nel risolvere la questione, la Corte di Giustizia UE sembra legitti-mare che, almeno a livello europeo, la deducibilità dei contributi debba essere riconosciuta a valere sui contributi versati a tutte le forme pensionistiche complementari istituite negli Stati Membri senza effettuare alcuna discriminazione. Vale però la pena ricordare che il Re-gno del Belgio invocava quale causa di giustificazione della propria disciplina la necessità di un controllo prudenziale sugli enti esercenti attività previdenziale nell’ottica della prote-zione dei consumatori. Tale obiettivo non è (sbrigativamente) accolto dalla Corte di Giu-stizia UE a causa del fatto che il Belgio non ha dimostrato che sue le norme «non ecceda-no quanto necessario per garantire il conseguimento dell’obiettivo invocato». La sentenza non esclude, quindi, categoricamente che un sistema proporzionale di controlli possa ren-dere legittima questa causa di giustificazione.

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essere garantita parità di trattamento. Pertanto l’art. 10, comma 1, lett. e bis), TUIR deve essere interpretato nel senso che esso legittima la deduzione dei contributi versati non tanto alle «forme pensionistiche complementare isti-tuite negli Stati Membri», ma piuttosto a quelle «istituite negli Stati Mem-bri ed autorizzate all’operatività transfrontaliera ai sensi della Direttiva n. 2003/41/CE».

Tale interpretazione non è contraddetta da ciò che accade in altri settori, quale quello dei fornitori di servizi finanziari dove si registra una maggiore armonizzazione

30 per effetto della quale è dato ai legislatori di distinguere tra a) OICVM armonizzati; b) OICVM non armonizzati, ma vigilati; c) OICVM non armonizzati e non vigilati

31, per accordare ai primi due uguale trattamento.

30 A titolo di esempio del più ampio livello di armonizzazione nelle regole relative all’o-peratività degli enti finanziari è sufficiente ricordare la Direttiva 2009/65/CE del Parla-mento Europeo e del Consiglio del 13 luglio 2009 (c.d. Direttiva UCITS IV) concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in materia di taluni organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM). La finalità di questa Direttiva è apertamente quella di agevolare l’abolizione delle restrizioni alla libera circola-zione di quote o azioni di OICVM nell’UE; a tal fine è previsto il c.d. “passaporto del ge-store”, in base al quale le società autorizzate a prestare il servizio di gestione del risparmio ai sensi della medesima Direttiva possono istituire e gestire OICVM armonizzati in altri Stati Membri dell’UE senza necessità di costituire in tali Stati una società di gestione. Le società di gestione, per esercitare la propria attività, sono così assoggettate a vigilanza prudenziale solo nello Stato Membro di origine e l’autorizzazione rilasciata dalle autorità di vigilanza dello Stato di origine è ora valida in tutti gli Stati Membri.

31 L’Italia non rispettava tale impostazione, tanto che nei suoi confronti era stata aperta la procedura di infrazione n. 2008/4145 mediante la quale la Commissione Europea aveva evidenziato alcuni punti critici del regime fiscale applicato in Italia ai proventi derivanti dalle partecipazioni ad organismi di investimento collettivo in valori mobiliari di diritto este-ro non conformi alle Direttive europee (c.d. fondi non armonizzati). Per ovviare alla predet-ta procedura ed attuare la Direttiva UCITS IV, nel frattempo emanata, è stato modificato l’art. 10 ter, L. n. 77/1983 ad opera dell’art. 2, comma 80, D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10. Sono così stati assoggettati alla medesima tassazione (sostitutiva con aliquota del 20%) non solo i proventi derivanti dal-la partecipazione a OICVM italiani, ma anche quelli derivanti dalla partecipazione a OICVM di diritto estero conformi alla Direttiva 2009/65/CE, situati negli Stati membri dell’UE e negli Stati SEE white list (c.d. OCIVM armonizzati) e quelli non conformi alla Direttiva 2009/65/CE il cui soggetto gestore sia però assoggettato a vigilanza nel Paese di origine. So-lo i proventi degli OICVM non armonizzati o non vigilati concorrono a tassazione progres-siva in capo al percipiente.

V. CORASANITI, Diritto tributario delle attività finanziarie, Milano, 2012, p. 558; LEO, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, Milano, 2010, p. 1256; TENORE, Ipotesi di violazione di norme UE per i dividendi in entrate e in uscita, in MAISTO (a cura di), La tassazione dei divi-dendi intersocietari, Milano, 2011, p. 551.

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Dal momento che tra i fondi pensione non è possibile procedere alla medesima distinzione, ma si può parlare di a) fondi pensione armonizzati (ovverosia autorizzati all’operatività transfrontaliera) e b) fondi pensione non armonizzati (ovverosia non autorizzati all’operatività transfrontaliera), pos-sono ancora risultare legittime differenze nel regime fiscale loro accordato tali per cui, solo ai primi, può essere garantita una piena parità rispetto a quelli residenti.

Nella materia della previdenza complementare occorre muovere, come fanno le istituzioni europee, dalla osservazione che ancora sussistono pro-fonde differenze quanto a regimi normativi di riferimento che giustificano differenze di trattamento

32. Anche in tale ottica devono essere attuati i prin-cipi della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE: è vero che questa im-pone di attribuire rilevanza ai contributi dedotti all’estero, ma atteso il pre-detto quadro di riferimento, non appare illegittimo consentire tale deduci-bilità solo ai fondi armonizzati ai sensi della Direttiva 2003/41/CE.

2.2. Il caso dei fondi americani

Per analizzare la questione dei versamenti fatti a fondi americani è neces-sario fare riferimento alla Convenzione del 25 agosto 1999, ratificata con L. 3 marzo 2009, n. 20 ed entrata in vigore il 1° gennaio 2010, tra il Governo della Repubblica Italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America per evi-tare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le frodi o le evasioni fiscali

33.

32 Non osta a tale conclusione neppure la sentenza del caso Filipiak, non tanto per il fatto che lo Stato polacco non adduceva alcuna causa di giustificazione e che essa era resa in relazione ad un sistema di previdenza e di assicurazione delle malattie obbligatorio (e non facoltativo quale quello della previdenza complementare cui pure si rivolge la Direttiva 2003/41/CE), quanto piuttosto per il fatto che la stessa Corte muove dalla osservazione che «i contributi previdenziali e di assicurazione malattia pagati dal sig. Filipiak in base alla normativa olandese sono identici, quanto alla loro natura e alla loro finalità, ai contributi versati dai contribuenti polacchi ai sensi della normativa polacca sul regime di previdenza sociale e sul finanziamento pubblico delle prestazioni di assistenza sanitaria». L’esistenza di una identità di ratio tra le normative olandesi e polacche (quella stessa che la Direttiva 2003/41/CE vuole raggiungere, ma che ancora non sussiste) giustifica l’estensione del bene-ficio fiscale.

33 Su tale Convenzione v. MAYR, La nuova Convenzione Italia-Usa contro le doppie impo-sizioni sul reddito – Parte generale, in Boll. trib., 2009, p. 851; ID., La nuova Convenzione Ita-lia-Usa contro le doppie imposizioni sul reddito – Parte speciale, in Boll. trib., 2010, p. 490 ed in particolare p. 508.

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Questa Convenzione è particolarmente significativa ai fini della presente analisi in quanto il par. 6 dell’art. 18 riconosce (in modo pressoché unico nell’ambito delle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’I-talia) ad un residente di uno Stato contraente che presta un’attività lavorati-va nell’altro Stato contraente, la deducibilità dal reddito prodotto in tale ul-timo Stato dei contributi versati a fondi pensione esistenti nello Stato con-traente di origine del lavoratore. Ai sensi dell’ultimo inciso viene poi preci-sato che la quota di contributi deducibili è stabilita in misura non discrimi-natoria, sicché il soggetto non residente potrà dedurre i contributi nella stessa misura in cui sono deducibili per un residente.

Il riconoscimento di tale deducibilità dei contributi è sottoposto a due condizioni.

In primo luogo deve trattarsi di contributi versati «prima dell’arrivo di detta persona nell’altro Stato»: tale inciso dovrebbe intendersi nel senso che è necessario che il lavoratore risulti già iscritto alla forma pensionistica com-plementare dello Stato nel quale è residente prima di iniziare l’attività nell’al-tro Stato. Proseguendo nell’esempio occorre, pertanto, che il lavoratore a-mericano risulti iscritto ad una forma pensionistica americana prima dell’av-vio dell’attività lavorativa in Italia.

In secondo luogo, tale regime è ammesso a condizione che il versamento avvenga a favore di fondi riconosciuti dall’altro Stato. La Convenzione limita, infatti, tale regime alla condizione che «l’autorità competente dell’altro Stato abbia approvato che il fondo pensione corrisponde in linea generale ad un fondo pensione riconosciuto ai fini fiscali da detto Stato». In altri termini è necessario, similmente a quanto si verifica con la Direttiva 2003/41/CE, che il fondo del Paese di residenza del lavoratore ottenga un riconoscimento dalle autorità competenti dello Stato presso il quale il lavoratore presta la sua attivi-tà. Anche in tale ipotesi risulta, quindi, che non si è fatto ricorso ad un mecca-nismo di riconoscimento automatico, ma ad un sistema autorizzatorio.

Alla luce di tale descrizione risulta che la disposizione in esame non ha un contenuto identico all’art. 10, comma 1, lett. e bis), TUIR; essa, infatti, in-tercetta solo il fenomeno di un soggetto che lavora in Italia o in America e gli consente l’accesso a fondi italiani o americani in condizioni di parità ri-spetto ai residenti, ma non prevede espressamente l’ipotesi che il residente in Italia o in America contribuisca dal suo Paese di residenza ad un fondo istituito nell’altro Stato contraente. Pertanto, de iure condito si può conclu-dere negando la deducibilità ad un residente in Italia dei contributi versati a fondi pensione americani. Ciò risulta dall’applicazione della normativa in-terna in quanto il caso non è preso in considerazione dalla normativa con-venzionale.

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Tale limitato assetto è connaturato con il sistema delle convenzioni con-tro le doppie imposizioni: il Modello OCSE, infatti, presuppone che l’in-vestimento produttivo di reddito nello Stato della fonte senza che il contri-buente si trasferisca in tale Stato sia una situazione che si verifica solo per specifiche tipologie di reddito quali, tipicamente, i dividendi, gli interessi e le royalties (c.d. passive income). Il risparmio previdenziale viene, invece, ap-prezzato per il collegamento che manifesta con lo svolgimento di un’attività (di qualunque tipo) in un altro Stato, piuttosto che quale forma di investi-mento finanziario. Pertanto il Modello OCSE, cui l’art. 18 della Convenzio-ne Italia-USA si uniforma, disciplina unicamente il caso in cui il lavoratore abbia esercitato il suo diritto alla mobilità transnazionale.

Ciò nonostante, l’articolo in esame va comunque apprezzato in quanto rappresenta un indubbio passo in avanti nella gestione del trattamento dei profili internazionali della previdenza complementare (e su questo si torne-rà nel prosieguo) tanto che, de iure condendo, non si può escludere che la Convenzione possa preludere ad ulteriori aperture.

La Convenzione, similmente alla Direttiva 2003/41/CE, condiziona l’ar-monizzazione ad un meccanismo autorizzatorio; implementato e reso effetti-vo tale sistema, nulla osterebbe a riconoscere la deducibilità dal reddito italia-no di un iscritto residente in Italia dei contributi versati a fondi americani.

Gli assetti prefigurati a livello europeo ed a livello convenzionale sono, infatti, assolutamente simili di modo che, al fine di evitare disuguaglianze (vietate tanto dall’art. 3 Cost., quanto dall’art. 24 della Convenzione Italia-USA), nulla osterebbe ad estendere in via interpretativa il campo di applica-zione dell’art. 10, comma 1, lett. e bis) TUIR per affermare la deducibilità anche di tali ulteriori contributi.

3. Il problema del trattamento fiscale dei contributi versati da iscritti non re-sidenti a fondi italiani

3.1. Gli iscritti residenti in Stati dell’UE

Connesso al precedente, vi è lo speculare caso di un soggetto non resi-dente iscritto ad un fondo italiano. Egli sarà tenuto a corrispondere le impo-ste in Italia, allorquando, nella fase della prestazione, saranno erogate nei suoi confronti le prestazioni previdenziali. Infatti, ai sensi dell’art. 23, com-ma 2, lett. b), TUIR, si considerano prodotti nel territorio dello Stato se cor-risposti da soggetti residenti nel territorio dello Stato i redditi assimilati a

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quelli di lavoro dipendente di cui all’art. 50, comma 1, lett. h bis), TUIR, tra cui, appunto, rientrano le prestazioni pensionistiche della previdenza com-plementare.

Possono qui porsi diversi scenari. In primo luogo occorre distinguere l’i-potesi in cui il contribuente non residente dichiari o meno redditi imponibi-li in Italia. In caso positivo si registra una prima anomalia in quanto, ai sensi dell’art. 24 TUIR, lo stesso non può portare in deduzione dal proprio reddi-to complessivo tassabile in Italia i contributi versati al fondo pensione. Ove non dichiari redditi imponibili in Italia, si registra una seconda anomalia in quanto la normativa nazionale non prevede regole che prevedano di tenere conto dell’avvenuta deduzione di contributi esteri.

In entrambe le ipotesi i fondi italiani, non potendo tenere conto dell’av-venuta deduzione o meno di tali contributi, li considerano “fuori dal campo di applicazione” della normativa italiana con l’effetto che, al momento del-l’erogazione della prestazione, non ne tengono conto per definire la quota tassabile o meno della prestazione e viene incrementato l’ammontare della quota di prestazione tassabile

34. Ciò si traduce in una disparità di trattamen-to tra residenti e non, a danno di questi ultimi. Tale situazione merita allora di essere approfondita in quanto possono derivare dal diritto dell’UE e, so-prattutto, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia una serie di argomenti per porre nel dubbio la compatibilità del sistema italiano.

Come detto, opera l’art. 24 TUIR che riconosce ai non residenti soltanto alcune tra le deduzioni e detrazioni previste agli artt. 10, 13 e 15 TUIR, ma non quella per i contributi previdenziali ai sensi della lett. e bis).

Tale problema non è nuovo nella giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, che l’ha affrontato risolvendo la questione della comparabilità delle posi-zioni tra residenti e non residenti

35. La Corte riconosce che possano sussiste-re differenze nel numero di deduzioni e/o detrazioni riconosciute a residenti e non residenti sulla base del fatto che i primi sono soggetti ad un obbligo tri-butario illimitato, sicché è doveroso consentire loro di portare in deduzione

34 L’Agenzia delle Entrate non ha fornito chiarimenti espressi sul punto. Si può però rinviare alla Circolare 23 dicembre 1997, n. 326/E, par. 2.2.1 ed alla Risoluzione 9 maggio 2002, n. 140/E, ove l’Amministrazione Finanziaria ha espressamente affermato che «le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 124 del 1993, e successive modificazioni ed integrazioni, non appaiono riferibili a fondi pensione non nazionali».

35 Corte di Giustizia UE, 16 maggio 2000, causa C-87/99, Zurstrassen; Corte di Giusti-zia UE, 3 ottobre 2002, causa C-136/00, Danner; Corte di Giustizia UE, 12 dicembre 2002, causa C-147/04, De Groot; Corte di Giustizia UE, 19 novembre 2009, C-314/08, Filipiak; Corte di Giustizia UE, 10 maggio 2012, causa C-39/10, Commissione c. Estonia.

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dal proprio reddito imponibile tutti gli oneri necessari al fine di ricostruire la loro capacità contributiva complessiva. Ai secondi, invece, in quanto soggetti ad un obbligo tributario limitato, sarà consentito portare in deduzione e/o de-trazione i solo oneri connessi ai redditi tassati

36. Tuttavia, tali conclusioni van-no modificate allorquando anche il non residente produca in uno Stato una parte rilevante del proprio reddito

37. Per la Corte, quindi, residenti e non re-sidenti in linea di principio sono in posizioni differenziate, salvo che in concre-to la rispettiva situazione reddituale sia comparabile.

Alla luce di tali conclusioni va valutata la legislazione italiana; il risultato di tale giudizio è il sospetto di illegittimità delle norme italiane. Nel caso della previdenza complementare non rileva tanto la situazione “complessiva” del contribuente, quanto il fatto che il residente iscritto ad un fondo pensione ita-liano ed il non residente iscritto al medesimo fondo sono necessariamente in una situazione reddituale comparabile, in quanto lo Stato italiano esercita nei confronti di entrambi i soggetti la medesima potestà impositiva. Le prestazio-ni erogate ad entrambi i soggetti scontano, infatti, la identica ritenuta del 15% ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno di partecipa-zione eccedente il quindicesimo (fino ad massimo di riduzione di sei punti percentuali) dal momento che per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipen-dente [art. 50, comma 1, lett. h bis), TUIR] sussiste la potestà impositiva del-lo Stato italiano [art. 23, comma 2, lett. b), TUIR].

A ciò si aggiunga che la deduzione riconosciuta a valere sui contributi versati non trova la sua ratio, come per altre deduzioni quali quelle per cari-chi di famiglia (che pure l’ordinamento italiano accorda a talune condizioni ai non residenti)

38, nella necessità di tenere conto della situazione comples-

36 V. in particolare Corte di Giustizia UE, 1° luglio 2004, causa C-169/03, Wallentin. 37 È stata confrontata la situazione dei non residenti e quella dei residenti in vari casi tra

cui, quali leading cases, si segnalano Corte di Giustizia UE, 14 febbraio 1995, causa C-279/93, Schumacker; Corte di Giustizia UE, 11 agosto 1995, causa C-80/94, Wielockx; Cor-te di Giustizia UE, 16 maggio 2000, causa C-87/99, Zurstrassen; Corte di Giustizia UE, 10 maggio 2012, causa C-39/10, Repubblica di Estonia; Corte di Giustizia UE, 1° luglio 2004, causa C-169/03, Wallentin; Corte di Giustizia UE, 12 dicembre 2013, causa C-303/2012, Imfeld e Garcet.

38 L’art. 1, comma 1324, L. 27 dicembre 2006, n. 296 (c.d. legge finanziaria per il 2007) ha accordato ai soggetti non residenti, al ricorrere di determinate condizioni, la spettanza delle detrazioni per carichi di famiglia di cui all’art. 12 TUIR. In particolare, tale fruizione è subordinata alla dimostrazione, attraverso idonea documentazione (poi indicata dal D.M. 2 agosto 2007, n. 149) che i soggetti interessati non possiedano un reddito complessivo superiore ad € 2.840,51 e non godano, nello Stato di residenza, di alcun beneficio fiscale connesso ai carichi familiari. Questo regime, originariamente, aveva natura temporanea,

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siva del contribuente nell’ottica di una corretta articolazione dei principi di capacità contributiva e di progressività nell’imposizione

39. La deduzione dei contributi previdenziali trova la sua ratio nella scelta di concentrare la tassazione della vicenda previdenziale in una sola delle fasi in cui si artico-la, evitando così fenomeni di doppia imposizione, problema comune a resi-denti e non.

Ciò fa sì che il giudizio di comparazione tra le situazioni reddituali dei re-sidenti e dei non residenti, che impone la Corte di Giustizia, possa qui non essere svolto alla luce della situazione reddituale “complessiva” dei contri-buenti, ma alla luce della situazione “particolare”, ovverosia tenendo conto solo della tassazione delle prestazioni erogate dal fondo.

Allo stato attuale, pur essendo identiche le aliquote applicate, sono di-verse le basi imponibili di calcolo in quanto, negando all’iscritto la deduzio-ne nella fase della contribuzione, la prestazione viene integralmente tassata nella fase conclusiva della vicenda previdenziale. Sulla base di tali considera-zioni l’art. 24 TUIR non appare allineato ai principi del diritto dell’UE.

Più problematica è la questione nell’ipotesi in cui il non residente non sia tenuto alla presentazione della dichiarazione dei redditi in Italia. In questo caso il problema non è consentire all’iscritto di dedurre in Italia i contributi, ma di attribuire rilevanza in Italia, in sede di calcolo della quota tassabile della prestazione, dei contributi dedotti o meno all’estero

40. La situazione si presenta piuttosto incerta in quanto si possono trarre

dalla giurisprudenza europea una pluralità di suggestioni che potrebbero giustificare l’incompatibilità della normativa italiana.

Può, in primo luogo, utilmente farsi riferimento a quella giurisprudenza della Corte di Giustizia UE che, ponendosi dal punto di vista dello Stato ma la sua applicabilità è stata poi costantemente estesa anche agli anni successivi (da ulti-mo v. art. 9, comma 15 quater, D.L. 30 dicembre 2013, n. 150, convertito, con modifica-zioni, dalla L. 27 febbraio 2014, n. 15).

39 SCHIAVOLIN, Art. 53 Cost., in Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di Falsitta-Fantozzi-Marongiu-Moschetti, tomo I, Diritto costituzionale tributario e Statuto del contri-buente, a cura di Falsitta, Padova, 2011, p. 237; FALSITTA, Art. 53 Cost., in FALSITTA-FAN-TOZZI-MARONGIU-MOSCHETTI (a cura di), op. cit., p. 278.

40 Se l’Italia riconoscesse la deducibilità ai non residenti la deducibilità dei contributi versati a fondi italiani non si porrebbe nemmeno il problema (che si tratterà nella prossima fattispecie) della rilevanza in Italia della avvenuta deduzione all’estero dei contributi versa-ti. La giurisprudenza europea ritiene, infatti, necessario e sufficiente che sia accordata da un solo Stato la rilevanza fiscale di un componente negativo al fine di evitare fenomeni di dop-pia deduzione.

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della fonte, ha valutato la legittimità di eventuali normative nazionali che in-troducono quanto ai metodi di tassazione, differenze tra residenti e non. Ri-sulta da tale giurisprudenza che il raffronto tra le due categorie di soggetti non può esaurirsi, esclusivamente, in una comparazione tra aliquote, ma oc-corre altresì comparare le basi imponibili. Tale giurisprudenza si è concen-trata sulla legittimità di normative nazionali che non riconoscevano ad un non residente la possibilità di dedurre i costi dal relativo reddito. Nel caso in esame la deduzione dei contributi nella fase della contribuzione ed il loro riconoscimento nella fase della prestazione è questione differente, non con-figurando il contributo un “costo di produzione del reddito” in senso pro-prio. Ciò nonostante questa giurisprudenza afferma l’illegittimità della dispa-rità in tema di basi imponibili.

Così nella sentenza Gerritse 41 la Corte di Giustizia UE ha chiarito che il

fatto che un non residente sia soggetto ad un obbligo tributario limitato non può giustificare una tassazione su una base imponibile lorda, ove tali moda-lità non siano applicate anche ai soggetti residenti. La Corte di Giustizia ha ritenuto che il mancato riconoscimento della deducibilità, in capo al sogget-to non residente, delle «spese direttamente connesse» all’attività svolta nello Stato della fonte e che qui ha generato redditi imponibili, pone «i residenti e i non residenti ..., sotto questo profilo, ... in una situazione analoga».

Tale ragionamento torna nel caso Bouanich 42 ove la Corte ha ritenuto

che non solo l’applicazione di un’imposta sostitutiva alla fonte nei confronti di soci recedenti non residenti, con aliquota ridotta rispetto a quella applica-ta nei confronti di soggetti residenti, può condurre ad esiti discriminatori, ma che gli stessi si verificano anche laddove l’onere fiscale imposto alle due categorie di contribuenti sia in concreto divergente per effetto della diversa incidenza, nella determinazione della base imponibile, dei costi correlati alla partecipazione, nell’un caso (socio non residente) indeducibili, nell’altro (so-cio residente) totalmente deducibili. Per la Corte il riconoscimento di un diritto alla deduzione costituisce un vantaggio fiscale di modo che coloro che non possono valersene (i non residenti) sono tassati più severamente e versano, dunque, rispetto a quelli che possono avvalersene (i residenti), in una situazione deteriore. Questo è vietato in prospettiva europea in quanto rende meno attraente il movimento transfrontaliero di capitali e dissuade gli investitori non residenti.

41 Corte di Giustizia UE, 12 giugno 2003, causa C-234/01. 42 Corte di Giustizia UE, 19 gennaio 2006, causa C-265/04.

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Questo orientamento è stato, infine, definitivamente confermato nel ca-so Scorpio

43 ove viene integralmente richiamata la sentenza Gerritse e ribadi-to l’obbligo per uno Stato Membro di consentire anche ai non residenti la deduzione delle spese direttamente connesse al reddito percepito.

Da tali sentenze si ricava la necessità di estendere la parità di trattamento tra residenti e non residenti anche alle norme relative alla determinazione della base imponibile. Nella materia previdenziale considerare i contributi dedotti all’estero e non in Italia come “fuori dal campo di applicazione” del-la normativa italiana, comporta di incrementare la parte della prestazione tassabile e crea una disparità di trattamento vietata

44. I contributi dedotti o meno, pur non costituendo ovviamente «spesa direttamente connessa», co-stituiscono un elemento di cui tenere conto ai fini della determinazione del-la base imponibile. Essi sono, invece, ignorati se dedotti in Stati esteri.

Peraltro è abbastanza singolare che l’Italia impedisca di tenere conto, ai fini della determinazione della base imponibile, di un elemento corrisposto in Italia (con l’effetto che lo Stato italiano può agevolmente verificare l’avve-nuto pagamento) ad un fondo pensione italiano (e, quindi, per un fine me-ritevole di tutela secondo l’ordinamento italiano).

L’unica circostanza che potrebbe essere considerata non facilmente ve-rificabile per lo Stato italiano sarebbe il trattamento subito all’estero dal con-tributo. Si tratta dell’argomento dell’efficacia dei controlli fiscali che è si-stematicamente rigettato dalla Corte quale causa di giustificazione. Questa ritiene che gli Stati possono fare ricorso agli strumenti di diritto dell’UE tem-po per tempo vigenti (essenzialmente la Direttiva 77/799/CEE del Consi-glio del 19 dicembre 1977 ed ora la Direttiva 2011/16/UE del Consiglio del 15 febbraio 2011). Peraltro, proprio con riferimento alla materia previden-ziale la Corte ha offerto un’ulteriore precisazione. Nella sentenza Commis-sione c. Danimarca, ove si trattava il caso reciproco di contributi versati a fondi esteri, la Corte ha ritenuto che il rifiuto del Regno di Danimarca di non con-siderarli è ingiustificato in quanto (a prescindere dal fatto che la legislazione

43 Corte di Giustizia UE, 3 ottobre 2006, causa C-209/04. 44 Si pone il problema di verificare se valga anche per il soggetto non residente il limite

di deducibilità dei contributi per l’importo di € 5.164,57, ex art. 8, comma 4, D.Lgs. n. 252/2005. In favore della soluzione negativa milita il fine di garantire una perfetta parità di trattamento tra residenti e non quanto a determinazione della quota tassabile della succes-siva prestazione e dell’eliminazione tanto delle doppie imposizioni quanto delle doppie non imposizioni (diversamente si correrebbe il rischio di non tassare una quota della pre-stazione i cui relativi contributi sono stati dedotti con una conseguente doppia non impo-sizione).

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interna danese consente alle autorità locali di verificare se un contribuente abbia effettivamente versato contributi ad un ente stabilito in un altro Stato Membro, anche che ove non fosse prevista tale facoltà) «nulla impedirebbe all’Amministrazione Finanziaria danese di esigere dall’interessato le prove che essa reputi necessarie negando la detraibilità nel caso in cui tali prove non vengano fornite (v. in tal senso, le menzionate sentenze Bachmann, punti 18 e 20, e Commissione/Belgio, punti 11 e 13)». Per la Corte le vi-cende relative a contributi previdenziali possono essere provate dal contri-buente e tali prove possono essere verificate con gli strumenti di scambio di informazioni.

Un ulteriore indizio della potenziale incompatibilità europea della legi-slazione italiana deriva dalla giurisprudenza relativa ad un’altra materia, quella in tema di tassazione dei dividendi c.d. in entrata

45 e quella in tema di tassazione di quelli c.d. in uscita

46.

45 Si segnala Corte di Giustizia UE, 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen; Corte di Giustizia UE, 15 luglio 2004, causa C-315/02, Lenz; Corte di Giustizia UE, 7 settembre 2004, causa C-319/02, Manninen; Corte di Giustizia UE, 12 dicembre 2006, causa C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation; Corte di Giustizia UE, 10 maggio 2012, Cause riunite C-388/11 e C-347/11, Santander; Corte di Giustizia UE, 25 ottobre 2012, Commissione c. Belgio; Corte di Giustizia UE, 13 novembre 2012, causa C-35/11, FII Group Litigation. In dottrina v. CONCI, La discriminazione fiscale nel trattamento dei divi-dendi di fonte estera, in Riv. dir. trib., 2004, p. 245; LUPI, Corte di giustizia e dividendi esteri: un’imposizione surrettizia del sistema dell’esenzione?, in Dialoghi trib., 2004, p. 1181; MA-CRELLI, Tassazione dei dividendi: la recente sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee ed il principio di coerenza dei sistemi fiscali, in Riv. dir. trib., 2004, p. 219; MARINI, Divieto comunitario di discriminazione e libertà di circolazione dei capitali, in Rass. trib., 2004, p. 1910; ARGINELLI, La tassazione dei dividendi di fonte estera: i problemi di compatibilità con le libertà fondamentali e la normativa secondaria, in Riv. dir. trib., 2007, p. 237; BULGARELLI, Imposizione nazionale di utili infracomunitari e compatibilità dei regimi convenzionali e comu-nitari, in Rass. trib., 2007, p. 629; PISTONE, Expected and Unexpected Developments of Euro-pean Integration in the Field of Direct Taxes, in Intertax, 2007, p. 72; MARZANO, “Compara-bilità” comunitaria e dividendi distribuiti a organismi di investimento collettivo del risparmio non residenti, in Rass. trib., 2013, p. 714; DENYS, The ECJ Case Law on Cross-Border Divi-dends Revisited, in European Taxation, 2007, p. 223; VANISTENDAEL, Denkavit Internatio-naal: The Balance between Fiscal Sovereignty and the Fundamental Freedoms, in European Taxation, 2007, p. 212.

46 Si segnala Corte di Giustizia UE, 28 gennaio 1986, causa C-270/83, Commissione c. Francia (c.d. avoir fiscal); Corte di Giustizia UE, 8 marzo 2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft; Corte di Giustizia UE, 12 dicembre 2006, causa C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation; Corte di Giustizia UE, 14 dicembre 2006, causa C-170/05, Denkavit Internationaal; Corte di Giustizia UE, 8 novembre 2007, causa C-379/05, Amurta. In dottrina TENORE, Tassazione dei dividendi in uscita, approccio

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Dalle sentenze che se ne sono occupate si ricava il principio che, una vol-ta che uno Stato ha individuato un determinato meccanismo per l’elimina-zione della doppia imposizione sugli utili societari, occorre che esso sia uni-formemente applicato non solo a fattispecie puramente nazionali, ma anche a fattispecie che presentano elementi di estraneità.

La Corte del Lussemburgo è, infatti, qui chiara nel lasciare agli Stati Mem-bri o alle istituzioni europee la decisione circa l’opportunità o meno di in-trodurre meccanismi di integrazione della tassazione soci-società volti ad evitare il realizzarsi di fenomeni di doppia imposizione economica, purché, una volta introdotti, tali meccanismi siano ugualmente applicati anche ai di-videndi distribuiti a soggetti non residenti pagati all’estero. Nella prospetti-va europea l’eliminazione della doppia imposizione sui dividendi è un risul-tato che non può essere perseguito solo in una prospettiva interna, ma deve essere garantito all’interno dell’intero territorio dell’UE.

Tale aspetto rileva nella previdenza complementare nella misura in cui è affermato non tanto un principio di divieto di doppia imposizione econo-mica, quanto il principio dell’unicità della tassazione del risparmio previ-denziale.

Nella materia previdenziale non si pone tanto il problema di reiterare la tassazione delle medesima ricchezza su soggetti differenti, quanto di indivi-duare correttamente la rilevanza reddituale di un componente e di tassarlo secondo la corretta capacità contributiva. Nel risparmio previdenziale si po-ne un problema di individuare uno solo dei momenti in cui può idealmente scomporsi l’atto previdenziale (contribuzione, accumulazione, erogazione) così da evitare possibili fenomeni di doppia imposizione ritenuti contrari alla logica previdenziale. Tale circostanza connota fiscalmente il risparmio previdenziale distinguendolo da quello finanziario ove un’analoga esigenza non è avvertita, ben potendo il risparmio finanziario essere investito al lordo dell’imposta che lo ha gravato ed i redditi finanziari prodotti essere a loro volta assoggettati ad imposizione

47. Tale diversità tra le due forme di prelievo non esclude di estendere al ri-

sparmio previdenziale la logica individuata dalla giurisprudenza, quella per

pan-europeo e potestà impositiva dello Stato della fonte, in Riv. dir. trib., 2007, p. 119; ID., La tassazione dei dividendi distribuiti a società non residenti: profili internazionali e comunitari, in Rass. trib., 2006, p. 823; FORTUIN, Denkavit Internationaal: The Procedural Issues, in Euro-pean Taxation, 2007, p. 239; MEUSSEN, Denkavit Internationaal: The Practical Issues, in Eu-ropean Taxation, 2007, p. 244; VANISTENDAEL, op. cit., p. 210.

47 MARCHETTI, Valutazioni giuridiche, cit., p. 26.

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cui, ove è adottato un dato approccio sistematico alla tassazione di un reddi-to, esso deve essere applicato sia ove esso abbia fonte interna sia ove esso abbia fonte estera.

L’Italia, come peraltro altri Stati Membri 48 ha scelto di conformare il

meccanismo di tassazione della previdenza complementare secondo la re-gola dell’unicità della tassazione e ciò deve valere sia per le prestazioni ero-gate a residenti, sia per quelle erogate a non residenti. La predetta giurispru-denza obbliga l’Italia, effettuata una scelta circa la tassazione di un fenome-no interno, ad estenderla.

Dal momento che l’argomento principale che potrebbe sollevare lo Stato italiano per giustificare la propria posizione è quello della coerenza fiscale anche nella materia previdenziale, che però, come si è visto, è stato rigettato, pare che vi siano motivi per giustificare un ripensamento della normativa italiana.

Potrebbe incidere su tali conclusioni la recente sentenza della Corte di Giustizia UE, 7 novembre 2013, causa C-322/11, K che, sulla base dell’ar-gomento della coerenza, legittima la Finlandia a non includere nella base imponibile dei propri residenti i minusvalori immobiliari realizzati all’estero nella misura in cui le convenzioni internazionali applicabili non le attribui-scono potestà impositiva sui correlativi plusvalori. Tale sentenza, benché trat-ti della posizione dello Stato di residenza del contribuente, mentre nel caso che ci occupa l’Italia si pone quale Stato della fonte, riafferma la validità del principio della coerenza fiscale e potrebbe, quindi, offrire nuovi argomenti alla posizione dello Stato italiano. Tale sentenza, se adattata alla materia pre-videnziale, potrebbe porre il problema di tenere conto della successiva tas-sazione delle prestazioni che l’Italia applica sulla base della normativa inter-na, ma potrebbe non applicare sulla base della normativa internazionale. La disciplina italiana potrebbe considerarsi legittima nella misura in cui non tas-sasse le successive prestazioni. Effettivamente la convenzione Modello OC-SE può essere interpretata nel senso di escludere la potestà impositiva dello Stato della fonte sulle prestazioni previdenziali; tuttavia l’Amministrazione Finanziaria, come si vedrà nel prosieguo, benché le convenzioni internazio-nali stipulate dall’Italia siano allineate a tale Modello, le interpreta nel senso di riconoscere all’Italia potestà impositiva.

48 BORIA-PURI, Un quadro comparato degli ordinamenti previdenziali in Europa e nel mondo, in PURI, Welfare e previdenza: il benessere dietro l’angolo, Roma, 2012, p. 115; COTTANI, La nuova disciplina dei diritti e della prestazioni di previdenza complementare, in MARCHETTI-MARÉ, op. cit., p. 267.

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Salvo verificare se questo potenziale revirement giurisprudenziale sarà confermato, stando alla giurisprudenza sino ad ora consolidata della Corte di Giustizia (pur essendo questa non immediatamente applicabile alla ma-teria previdenziale per le differenze che si sono evidenziate), il sistema ita-liano può presentare delle criticità e, comunque, giustificare un ripensamen-to del D.Lgs. n. 252/2005.

Allo stato attuale il sistema italiano appare chiuso ed impermeabile alla partecipazione di soggetti esteri: un non residente non ha attualmente alcu-na convenienza all’adesione a forme pensionistiche italiane. Ciò costituisce, dal punto di vista giuridico, una violazione dei principi del diritto dell’UE e, dal punto di vista economico, una limitazione per i fondi italiani che così non risultano appetibili e non riescono a reperire capitali all’estero. La solu-zione del problema presenta non poche criticità e richiede di ripensare non solo la normativa interna, ma anche quella convenzionale (o meglio la prassi dell’Agenzia delle Entrate che la interpreta).

3.2. Gli iscritti residenti negli Stati Uniti d’America

Anche in questo caso occorre distinguere l’ipotesi in cui l’iscritto resi-dente negli Stati Uniti d’America sia o meno obbligato alla presentazione del-la dichiarazione dei redditi in Italia.

La prima ipotesi è quella espressamente ed innovativamente disciplinata dalla Convenzione del 25 agosto 1999 tra il Governo della Repubblica italia-na ed il Governo degli Stati Uniti d’America. Come si è avuto modo di chiari-re, la Convenzione ipotizza proprio il caso di un soggetto che, da residente in uno dei due Stati, presta attività lavorativa nell’altro e sia ivi assoggettato a tassazione. Per tale ipotesi l’Italia deve riconoscere al non residente (ma resi-dente negli Stati Uniti d’America), a valere sul reddito imponibile in Italia, la deducibilità dei contributi versati a fondi italiani alle stesse regole e condizio-ni in cui tali contributi sono deducibili per un residente in Italia.

L’art. 18, par. 6, della Convenzione Italia-USA deroga così, in modo espresso ed inequivoco, all’art. 24 TUIR ampliando, nel senso proposto nel precedente paragrafo, il catalogo degli oneri fiscalmente rilevanti per un non residente. Si realizza un’insolita e paradossale situazione per cui viene accor-dato un trattamento di assoluto maggior favore ai residenti negli Stati Uniti d’America, piuttosto che a quelli residenti in altri Stati Membri dell’UE.

A livello sistematico, pur non potendo ovviamente trovare applicazione un principio del tipo “clausola della nazione più favorita”, la Convenzione Italia-USA dimostra una potenziale disponibilità dell’Italia ad accordare il

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medesimo trattamento di deducibilità dei contributi versati a enti di previ-denza complementare anche a soggetti non residenti.

Peraltro si deve anche aggiungere che la Convenzione in esame accorda il vantaggio delle deducibilità dei contributi in presenza di un’armonizzazio-ne degli enti previdenziali del tutto analoga a quella delineata dalla Direttiva 2003/41/CE. Sia la norma convenzionale, sia la norma europea non mirano ad una generalizzata armonizzazione della previdenza complementare, ma la subordinano ad un comparabile regime autorizzatorio per cui l’identità di trattamento è garantita solo nei limiti dell’adesione a taluni fondi pensione, appunto autorizzati ad esercitare attività transfrontaliera.

Tale osservazione rende ancora più netto il trattamento di sfavore accor-dato in una situazione europea: con la norma in esame il legislatore italiano realizza ciò che non è realizzato a livello europeo, ovverosia una tendenziale equiparazione tra il novero delle deduzioni accordate ai residenti e non.

L’eccezionalità di questo regime è poi ulteriormente accentuata dal fatto che essa prescinde del tutto da particolarità nel trattamento fiscale delle successive prestazioni pensionistiche. Infatti, l’art. 18, comma 1, della Con-venzione Italia-USA non è difforme dal Modello OCSE ed assegna potestà impositiva esclusiva allo Stato di residenza del percettore (salva l’interpreta-zione che di esso propone l’Agenzia delle Entrate e su cui si tornerà nel pro-sieguo), sicché si realizza con gli Stati Uniti d’America la medesima situazio-ne che si realizza a livello europeo. Non si ravvisano così differenze nella tas-sazione delle prestazioni che, sulla base dell’argomento della coerenza, avreb-bero potuto servire a (tentare di) giustificare questo trattamento di maggio-re favore. Nonostante la tassazione delle prestazioni erogate da fondi italiani a residenti negli Stati Uniti d’America o in Stati Membri dell’UE sia uguale, è diverso il regime di deducibilità dei contributi pagati.

La Convenzione Italia-USA è indicativa dell’assenza di insuperabili motivi ostativi ad accordare il medesimo regime anche ad altri Stati Membri. Ciò indebolisce la posizione dell’Italia nei confronti del diritto dell’UE. Non rav-visandosi, infatti, nei rapporti Italia-Stati Uniti d’America elementi che pos-sono fondare una tale diversità di trattamento, si rinviene così un argomen-to ulteriore per criticare il trattamento riservato dall’Italia ai contributi ver-sati a fondi europei.

Non è, invece, coperta per il carattere necessariamente limitato delle con-venzioni internazionali l’ipotesi dell’iscritto residente negli Stati Uniti d’A-merica che partecipa ad un fondo pensione italiano, ma non ha redditi im-ponibili in Italia. Anche in tale ipotesi occorre distinguere la situazione de iure condito da quella de iure condendo.

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Alla luce della legislazione vigente i fondi italiani non potranno tenere conto della deduzione o meno dei contributi effettuata negli Stati Uniti d’A-merica.

Analizzando invece il caso prospetticamente, si può ritenere che la Con-venzione porti in sé gli strumenti per superare la diversità di trattamento tra il residente negli Stati Uniti d’America che, durante la fase della contribuzio-ne, lavora in Italia e quello che non vi lavora. Tale diversità deriva dal fatto che, benché entrambi i soggetti menzionati riceveranno, nella fase della pre-stazione, redditi tassabili in Italia, essi saranno trattati diversamente. La Con-venzione potrebbe preludere all’implementazione di protocolli aggiuntivi che limitino tale diversità. In questo caso si ritiene non si possa però pre-scindere da un intervento degli Stati contraenti.

4. Il trasferimento di posizione previdenziale ...

4.1. ... all’interno dell’UE

La disciplina italiana potrebbe presentare ulteriori criticità nella parte in cui regola il trasferimento di posizione previdenziale. Tale passaggio può rea-lizzarsi non solo tra forme previdenziali nazionali, ma anche tra forme pre-videnziali italiane ed estere, in un senso e nell’altro. Potrebbero in questa fa-se riscontrarsi alcune criticità con i principi del diritto europeo in quanto, mentre a livello interno tali trasferimenti sono perfettamente neutrali, a li-vello europeo

49 il trasferimento transfrontaliero di posizione previdenziale, causando una fuoriuscita dal sistema previdenziale di uno Stato, comporta per l’iscritto l’emersione di materia imponibile. Si registra, quindi, una po-tenziale disparità di trattamento.

Nel dettaglio, l’art. 14, comma 7, D.Lgs. n. 252/2005 prevede che il tra-sferimento da un fondo italiano ad un altro fondo italiano sia esente da ogni onere fiscale. Tale operazione non comporta l’emersione di materia impo-nibile in quanto, non determinando l’interruzione del rapporto previdenzia-le, non è assimilata ad un riscatto. Ciò comporta che sia oggetto di trasferi-mento da un fondo ad un altro l’intera “posizione previdenziale” dell’iscritto costituita, oltre che dalle somme accantonate, anche da tutta la sua “storia previdenziale” (anzianità, anticipazioni, elementi fiscali). La neutralità fisca-

49 Ma anche a livello internazionale come rilevato dal Commentario al Modello OCSE, Commento all’art. 18, cit., par. 66, p. 292.

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le del trasferimento di posizione previdenziale si estende al punto che anche il fondo di destinazione, al successivo momento di erogazione della presta-zione, dovrà tenere conto dell’ammontare dei contributi dedotti e non fino al momento della permanenza dell’iscritto presso il vecchio fondo e della sua anzianità di iscrizione al primo fondo.

Atteso che il D.Lgs. n. 252/2005 nulla dice circa il trasferimento di posi-zione previdenziale intraeuropeo, occorre verificare se valgono le medesime conclusioni. Se non operasse il regime di neutralità, il trasferimento dall’Ita-lia all’estero potrebbe considerarsi quale ipotesi di riscatto (si fuoriuscireb-be dal sistema previdenziale italiano) e la somma percepita sarebbe assog-gettata alla relativa tassazione (imposta sostitutiva del 23%)

50. Sarebbe pe-nalizzato anche il trasferimento dall’estero all’Italia perché il fondo italiano lo considererebbe una nuova iscrizione effettuata tramite il versamento di un consistente contributo il cui versamento potrebbe beneficiare, solo nei limiti di € 5.164,57, della deduzione fiscale. In entrambi i casi l’iscritto per-derebbe la sua “storia previdenziale” sicché il fondo di destinazione (italiano o estero) non dovrebbe tenere conto di alcuna pregressa vicenda differente-mente da quanto accade in una fattispecie interna.

È pacifico in dottrina 51 che, applicando il descritto diverso regime in ca-

so di trasferimento con fondi europei, si violerebbero le norme del diritto dell’UE. Come più volte chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE

52, una legislazione nazionale non solo non deve dissuadere un presta-tore di servizi di uno Stato Membro dall’operare in altri Stati Membri per non incorrere in una violazione della libertà di prestazione di servizi di cui all’art. 56 TFUE, ma anche non deve dissuadere un residente di uno Stato Membro dall’entrare in rapporti commerciali con operatori appartenenti ad

50 Il trasferimento dell’iscritto italiano ad un fondo estero, se equiparato ad un riscatto, sarebbe penalizzato in quanto non si potrebbe considerare verificata alcuna delle circo-stanze che, ai sensi del comma 4 dell’art. 14 D.Lgs. n. 252/2005, comportano l’applicazio-ne di una ritenuta del 15% ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno di partecipazione eccedente il quindicesimo (fino ad massimo di riduzione di sei punti percentuali), le somme trasferite dal fondo italiano al fondo estero dovrebbero essere assog-gettate ad una ritenuta a titolo di imposta nella misura del 23% ai sensi dell’art. 14, comma 5, D.Lgs. n. 252/2005 e con l’ulteriore effetto che l’iscrizione al nuovo fondo estero sareb-be una nuova iscrizione con la conseguente perdita della “storia previdenziale” dell’iscritto.

51 PURI, Il lavoratore transfrontaliero, cit., p. 240. 52 Corte di Giustizia UE, 28 aprile 1998, causa C-118/96, Safir; Corte di Giustizia UE,

26 giugno 2003, causa C-422/01, Skandia; Corte di Giustizia UE, 30 gennaio 2007, causa C-150/04, Commissione c. Danimarca.

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altri Stati Membri per non incorrere anche in una violazione della libertà di circolazione dei lavoratori di cui all’art. 45 TFUE e della libertà di stabilimen-to di cui all’art. 49 TFUE. La disciplina illustrata certamente provocherebbe gli effetti vietati dalla Corte di Giustizia, in quanto un iscritto ad un fondo pensione sarebbe infatti disincentivato ad aderire a enti pensionistici non isti-tuiti nel suo Stato di residenza o a trasferirsi all’estero per motivi di lavoro ed anche i fondi pensione sarebbero disincentivati ad operare in Stati diversi da quelli di loro residenza.

I rischi che la disciplina italiana sia incompatibile con l’UE dipendono dall’interpretazione che si dà all’art. 14, D.Lgs. n. 252/2005 laddove afferma che il regime di piena esenzione si applica ai trasferimenti di posizione pre-videnziale «a condizione che avvengano a favore di forme pensionistiche di-sciplinate dal presente decreto legislativo».

Se è chiaro che i fondi residenti sono disciplinati dal D.Lgs. n. 252/2005, si deve verificare se lo siano anche i fondi esteri. La risposta a tale questione è positiva a seguito del recepimento della Direttiva 2003/41/CE che è avvenu-to modificando proprio il D.Lgs. n. 252/2005 inserendovi gli artt. 15 bis e 15 ter. È ai sensi del comma 1 di quest’ultimo articolo che «i fondi pensione istituiti negli Stati Membri dell’UE, che rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva 2003/41/CE e che risultano autorizzati dall’Autorità compe-tente dello Stato Membro di origine allo svolgimento dell’attività transfronta-liera, possono raccogliere adesioni su base collettiva sul territorio della Re-pubblica».

Per effetto della collocazione normativa dell’art. 15 ter anche i fondi eu-ropei “armonizzati” (ovverosia quelli autorizzati all’attività transfrontaliera) possono, anzi devono, considerarsi «forme pensionistiche disciplinate dal pre-sente decreto legislativo» e pertanto gli iscritti che, nei limiti di cui all’art. 14, D.Lgs. n. 252/2005, intendano esercitare il diritto alla portabilità, potranno trasferire la loro posizione previdenziale a tali fondi senza che ciò determini il sorgere di alcuna obbligazione tributaria. Definitiva conferma di tale costru-zione si rinviene al comma 4 del predetto art. 15 ter secondo cui «ai fondi pensione di cui al comma 1, .... si applicano le norme contenute nel presente decreto in materia di ... portabilità».

Il trasferimento di posizione previdenziale dall’Italia all’estero (presso un fondo armonizzato europeo) non può, quindi, essere altro che un’operazio-ne fiscalmente neutrale che non determina l’emersione di materia imponibile.

La medesima regola deve applicarsi al trasferimento di posizione previ-denziale dall’estero (da un fondo armonizzato europeo) all’Italia. Questa fat-tispecie presenta maggiori problematiche perché viene in rilievo il problema

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della rilevanza della “storia previdenziale” dell’iscritto 53, ovverosia in che

termini il fondo italiano deve tenere conto di elementi quali l’anzianità di iscrizione al fondo di origine e l’ammontare di eventuali contributi dedotti nello Stato estero. La soluzione positiva data in precedenza alla questione della rilevanza in Italia dell’avvenuta deduzione o meno di contributi versati all’estero deve valere anche in tale ipotesi.

Al fine di evitare discriminazioni vietate dal diritto dell’UE, se e nei limiti in cui l’iscritto si trasferisce da un fondo “armonizzato”, il fondo italiano di destinazione deve applicare all’iscritto il medesimo trattamento che avrebbe applicato al trasferimento da un fondo italiano. Al fondo italiano dovrebbe-ro essere, quindi, comunicati l’anzianità dell’iscrizione e l’ammontare dei con-tributi dedotti all’estero, al fine di garantire la perfetta continuazione della po-sizione e un’assoluta identità di trattamento

54. Continuerà, invece, ad essere soggetto a oneri fiscali il trasferimento di

posizione previdenziale dall’Italia ad un fondo estero, anche europeo, che non sia stato autorizzato all’esercizio dell’attività transfrontaliera. In questa ipotesi, tale risultato potrebbe non essere raggiunto solo in presenza di spe-cifiche norme nelle convenzioni contro le doppie imposizioni. Non a caso il problema della onerosità fiscale dei trasferimenti di posizione previdenziale è avvertito anche a livello OCSE, tanto che lo stesso Commentario propone l’adozione di una clausola

55 che estenda ai trasferimenti tra gli Stati contra-enti il medesimo regime applicato a fattispecie puramente interne. Allo Sta-to attuale tale clausola non risulta essere stata percepita dalla prassi conven-zionale italiana, ma sarebbe, invece, assolutamente opportuno un cambia-mento di rotta.

53 Nella precedente fattispecie tale problema si pone non per la legislazione italiana, bensì per quella estera.

54 Tale interpretazione consente di ulteriormente suffragare le conclusioni cui si era per-venuti in tema di interpretazione dell’art. 10, comma 1, lett. e bis), primo inciso, TUIR. Mentre la disposizione da ultimo citata ha un tenore letterale equivoco, l’interpretazione dell’art. 14, D.Lgs. n. 252/2005 non lascia dubbi. Vista l’identità delle problematiche sot-tese è allora necessario che le due fattispecie siano analogamente interpretate; non sareb-be, infatti, sistematicamente tollerabile che il perimetro in cui è riconosciuta la deducibilità dei contributi versati a fondi pensione esteri fosse diverso da quello in cui si realizza la neu-tralità del trasferimento di posizione previdenziale dove pure viene in gioco un problema di deducibilità dei contributi medesimi. È questo un ulteriore argomento per legittimare la proposta interpretazione dell’art. 10 TUIR, che attribuisce rilevanza fiscale solo ai contri-buti versati a fondi esteri autorizzati ai sensi della Direttiva 2003/41/CE.

55 Si veda quella suggerita dal Commentario al Modello OCSE, Commento all’art. 18, cit., par. 68, p. 292.

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4.2. ... con gli Stati Uniti d’America

Le conclusioni cui si è appena pervenuti si ritiene debbano valere anche per i fondi americani.

Vale, infatti, osservare che la Convenzione Italia-USA prevede un mec-canismo di reciproco riconoscimento dei fondi pensione del tutto analogo a quello previsto a livello europeo, da cui si ricava la più volte sottolineata vo-lontà di assicurare parità di trattamento solo in presenza di un contesto nor-mativo uniforme che garantisca agli iscritti alla previdenza complementare specifiche tutele.

L’identità di ratio e di meccanismi adottati tra diritto convenzionale ed artt. 15 bis e 15 ter, D.Lgs. n. 252/2005 (ovverosia la normativa europea) e la naturale sovraordinazione nel sistema delle fonti della normativa conven-zionale sulla normativa interna consentono di interpretare l’espressione «for-me pensionistiche disciplinate dal [D.Lgs. n. 252/2005]» come atta a ri-comprendere anche i fondi americani “armonizzati”. Pertanto, anche in tale ipotesi, dovrebbe trovare applicazione il descritto regime di neutralità fiscale di modo che l’iscritto per trasferimento da un fondo americano “armonizza-to” si dovrebbe vedere riconosciuta la propria storia previdenziale. Si tratta di un caso non testualmente coperto dalla Convenzione Italia-USA, ma l’as-setto che essa delinea consente comunque di farvelo rientrare. Anche in que-sto caso l’iscritto porterebbe con sé la sua storia previdenziale e, nei limiti in cui avesse rilievo, la propria anzianità contributiva e l’avvenuta deduzione o meno dei contributi versati. Varrebbero in questa ipotesi tutte le conclusio-ni e problematiche cui si è pervenuti nel paragrafo precedente.

5. La tassazione delle prestazioni

Come detto, nel sistema della previdenza complementare si registra, nel-l’ottica di concentrare la tassazione di tale fenomeno in una sola delle fasi in cui si articola, un legame circa le regole di (de)tassazione dei contributi e tassazione delle successive rendite, sicché le conclusioni cui si è pervenuti in tema di deducibilità dei contributi, come più volte anticipato, hanno un ef-fetto sulle regole di tassazione delle prestazioni

56.

56 Si precisa che verrà esaminato il solo trattamento fiscale applicabile alle prestazioni pensionistiche, tralasciando l’analisi del trattamento fiscale applicabile ai rendimenti delle prestazioni pensionistiche.

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Tali interrelazioni sono state analizzate e si è dimostrato come, in presenza di talune condizioni, si debba tenere conto in sede di determinazione della base imponibile dei contributi esteri versati.

Si è altresì detto che, nell’ipotesi di iscritti residenti a fondi esteri, sussiste la potestà impositiva dell’Italia in forza del principio della tassazione del reddito mondiale, mentre nell’ipotesi di iscritti non residenti a fondi italiani, l’art. 23, comma 2, TUIR attrae a tassazione tali somme per il fatto che sono pagate da un soggetto residente.

Fermo tale quadro di riferimento si analizzeranno le criticità che si pos-sono porre in tale fase

57. Un primo problema riguarda la determinazione della aliquota applicabi-

le, tanto alle prestazioni pagate ad un residente, quanto a quelle pagate a un non residente. Ai sensi del D.Lgs. n. 252/2005 le prestazioni sono assogget-tate ad un’aliquota del 15%, ridotta sino al 9% in relazione alla durata del pe-riodo di partecipazione a forme pensionistiche complementari in ragione dello 0,30% per ogni anno. Mentre non vi è dubbio che la riduzione si appli-chi ai non residenti che ricevono prestazioni dall’Italia, ve ne sono per i resi-denti che ricevono prestazioni da fondi esteri.

Per risolvere tale questione si ritiene valgano le conclusioni cui si è per-venuti in precedenza analizzando le problematiche che pone la fase della contribuzione e, segnatamente, il caso del trasferimento di posizione pre-videnziale. In questa ultima ipotesi si era dato rilievo all’anzianità contribu-tiva dell’iscritto solo nel caso in cui il trasferimento di posizione previden-ziale coinvolgesse un fondo pensione “armonizzato” (ai sensi della Diretti-va 2003/41/CE o della Convenzione Italia-USA). Tale conclusione può ora essere generalizzata ed estesa anche all’ipotesi che ora ci occupa: solo nel caso di partecipazione a tali fondi l’iscritto italiano potrà assoggettare la relativa prestazione beneficiando della riduzione dell’0,30% annuo, diver-samente, nel caso di prestazioni erogate da fondi non armonizzati, tale trat-tamento non sarà applicabile e le somme percepite concorreranno alla de-terminazione del reddito complessivo soggetto a tassazione progressiva. La

57 Vale la pena osservare che già a livello OCSE il trattamento fiscale delle prestazioni risulta incerto. Lo stesso Commentario al Modello OCSE (v. Commento all’art. 18, cit., par. 8, p. 277) osserva come il principale problema sollevato dalla previdenza complemen-tare in fattispecie crossborder sia la circostanza che sono molteplici gli schemi previdenziali che possono ricadere sotto l’art. 18. Serve proprio a questo il meccanismo prefigurato dalla Convenzione Italia-USA; esso consente di individuare enti che, pur con forme giuridiche differenti, perseguono i medesimi fini previdenziali per accordare loro un identico tratta-mento tributario.

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tassazione sostitutiva nella misura massima del 15%, nell’attuale sistema, è, infatti, un trattamento riconosciuto ai soli fondi pensione disciplinati dal D.Lgs. n. 252/2005 (ovverosia i fondi interni e, per le ragioni anzidette, i fondi europei armonizzati ed i fondi americani armonizzati per le ragioni anzidette), che non è accordato ad altri fondi.

In una prospettiva europea, tale scelta potrebbe essere corretta alla luce del fatto che qui non è riconosciuta un’armonizzazione totale, ma solo nei limiti in cui opera la Direttiva 2003/41/CE o la Convenzione Italia-USA. L’ottica del legislatore italiano è quella di accordare un regime di favore solo a fondi che perseguono finalità previdenziali secondo precisi standard quali-tativi. Al di fuori di questi spazi non potrebbe trovare applicazione il mede-simo regime.

Chiarita la prima ipotesi, si può ora passare all’analisi del trattamento fi-scale della prestazione erogata ad un iscritto non residente: non sorgono a livello legislativo particolari problematiche, che derivano, piuttosto, dalla prassi dell’Amministrazione Finanziaria.

Nel caso in cui ad un non residente siano erogate prestazioni previden-ziali in forma di rendita è pacificamente (e correttamente) riconosciuta dal-l’Agenzia delle Entrate l’applicabilità dell’art. 18 del Modello OCSE secon-do cui «le pensioni e le altre remunerazioni analoghe, pagate ad un residen-te di uno Stato contraente in relazione ad un cessato impiego, sono imponi-bili soltanto in questo Stato». Detta disposizione assegna potestà impositi-va esclusiva allo Stato di residenza del percettore e deroga, pertanto, a quan-to previsto dall’art. 23, comma 2, lett. b), TUIR. Applicando tale disposizio-ne non sarà applicabile alcuna imposta italiana a condizione che l’iscritto dimostri al fondo la sua residenza all’estero.

Per l’Agenzia delle Entrate tali conclusioni non valgono, invece, in caso di prestazioni in forma di capitale. Lo ha affermato nella risoluzione 17 feb-braio 2009, n. 40/E secondo la quale le pensioni capitalizzate ricadono nel campo di applicazione dell’art. 15 del Modello OCSE, che riconosce la pote-stà impositiva concorrente dello Stato italiano

58. Per l’Amministrazione Fi-nanziaria, «l’ambito di applicazione dell’articolo 18 delle convenzioni richia-mate non include le prestazioni di previdenza integrativa corrisposte in uni-ca soluzione», sicché «in virtù dell’articolo 15 del [Modello OCSE], la som-

58 Per l’Agenzia delle Entrate «individuare la tassazione dell’erogazione nel Paese di re-sidenza comporta una rimessa per lo Stato che ha rinviato la tassazione dei contributi con-cedendo l’esenzione dalla tassazione degli stessi, senza che vi sia una necessaria reciprocità di trattamento nell’altro Stato contraente».

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ma erogata in questione deve essere assoggettata a tassazione in Italia in ba-se alla quota parte di prestazione riferibile all’attività esercitata nel territorio dello Stato». A sostegno delle proprie argomentazioni l’Agenzia, lamentato il fatto che le diversità di trattamento della previdenza integrativa nei vari ordinamenti nazionali impediscono di definire in maniera uniforme la natu-ra delle prestazioni erogate dai fondi pensione e, quindi, di individuare nor-me convenzionali uniformemente applicabili, invoca le seguenti argomenta-zioni:

1. l’art. 15 Modello OCSE trova applicazione per fattispecie analoghe alle prestazioni previdenziali erogate una tantum ed in particolare trova applica-zione per le somme erogate a titolo di trattamento di fine rapporto (TFR);

2. la necessità di una certa “coerenza” negli schemi di tassazione della pre-videnza integrativa, che renderebbe non corretta la scelta di attribuire pote-stà impositiva allo Stato di residenza del percettore.

Così facendo, però, l’Agenzia delle Entrate introduce una disparità di trattamento a danno dei non residenti: in una fattispecie puramente interna non si dubita, infatti, della natura univoca delle prestazioni (siano esse eroga-te in forma di rendita o in forma di capitale); in una fattispecie transnazio-nale la soluzione prospettata dall’Agenzia delle Entrate si basa su una diver-sa valutazione della natura delle prestazioni erogate in forma di capitale ri-spetto a quelle erogate in forma di rendita, da cui deriva un aggravio della tas-sazione, in quanto aggiunge (solo sulla quota erogata in forma di capitale) la tassazione italiana a quella dello Stato di residenza del percettore.

Le conclusioni cui perviene l’Agenzia non sono condivisibili né alla luce del diritto interno, né del diritto convenzionale, né del diritto dell’UE.

Dal punto di vista del diritto interno, l’Amministrazione Finanziaria ri-tiene applicabile l’art. 15 della Convenzione al fine di assicurare alle presta-zioni pensionistiche erogate in forma di capitale il medesimo trattamento ri-servato al TFR. Tale assunto è errato in quanto, mentre nel caso del TFR, stando alla giurisprudenza della Cassazione

59, è sostenibile la sua natura di retribuzione differita, nel caso delle prestazioni (anche in capitale) dovute da un fondo pensione non si può giungere alla medesima conclusione data la natura della vicenda previdenziale. Il rapporto che lega l’iscritto al fondo pensione non trova causa e fondamento giuridico nel rapporto di lavoro, come il TFR, bensì nell’atto volontario

60 di adesione del lavoratore finaliz-

59 Cass., sez. lav., 5 agosto 2005, n. 16549; Cass., sez. lav., 8 gennaio 2003, n. 96. 60 V. Corte di Giustizia UE, 10 settembre 2009, causa C-269/07, Commissione c. Ger-

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zato a garantirgli una copertura previdenziale al momento di cessazione dell’attività lavorativa o al raggiungimento dell’età pensionabile

61. L’adesio-ne al sistema della previdenza complementare è del tutto indipendente dall’esercizio di un’attività di lavoro dipendente potendo, infatti, l’iscrizione ad un fondo pensione essere riconosciuta anche a chi esercita altre attività o non ne esercita affatto.

Pertanto non essendo sostenibile un’assimilazione quanto a natura fra il TFR e le prestazioni in capitale, non è possibile estendere all’uno il tratta-mento fiscale riservato all’altro.

Ancora dal punto di vista del diritto interno vale osservare il sistema del D.Lgs. n. 252/2005 ed in particolare l’art. 11. Il comma 3 di questa disposi-zione formula la distinzione tra prestazioni in rendita ed in capitale al solo fine di indicare due differenti modalità di erogazione della prestazione pen-sionistica maturata dall’iscritto nel corso degli anni

62; il successivo comma 6 ribadisce la perfetta equivalenza tra le due accordando loro il medesimo trattamento fiscale

63-64. Dal punto di vista del diritto convenzionale, l’identità tra le prestazioni in

rendita ed in capitale si ricava dal Commentario al Modello OCSE che in-clude nell’ambito di operatività dell’art. 18 del Modello espressamente tutte le somme corrisposte in dipendenza della cessazione dell’attività lavorativa mania, dove è stata riconosciuta la piena natura privatistica e volontaristica dell’adesione ad un fondo pensione.

61 Amplius MARCHETTI, La previdenza privata, cit., pp. 11 e 201. 62 TOZZOLI, Le prestazioni di previdenza complementare, in Nuove leggi civ. comm., 2007,

p. 760. 63 Ai lavoratori assunti antecedentemente al 29 aprile 1993 e che entro tale data erano

iscritti a forme pensionistiche complementari istituite alla data di entrata in vigore dalla L. 23 ottobre 1992, n. 421 era addirittura riconosciuta la possibilità di ricevere l’intera som-ma in forma di capitale. Vigente tale disposizione, non si è mai dubitato della natura di pre-stazione previdenziale di questa somma. V. MARCHETTI, Il trattamento fiscale delle presta-zioni di previdenza complementare, in Nuove leggi civ. comm., 2007, p. 926.

64 L’affermazione che fa l’Agenzia circa l’esistenza di una sorta di “attrazione” delle pre-stazioni previdenziali al rapporto di lavoro dipendente non può andare esente da critiche anche per un ulteriore motivo. Applicando pedissequamente tale impostazione si dovrebbe concludere ritenendo che le prestazioni previdenziali devono essere ricondotte alla stessa categoria reddituale (ed alla corrispondente norma convenzionale) cui appartengono i red-diti derivanti dall’attività lavorativa in precedenza svolta. Tale impostazione aprirebbe il problema del trattamento delle somme erogate a soggetti che in precedenza non svolgeva-no alcuna attività lavorativa, ma che pure hanno titolo per l’adesione al sistema della pre-videnza complementare. L’unica soluzione per questa ipotesi sarebbe applicare l’art. 21 del Modello OCSE.

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anche se erogate in un’unica soluzione (c.d. lump sum) 65. Nel Commentario

si legge, infatti, che, se è vero che alla categoria delle pensioni possono ri-condursi i pagamenti periodici, parimenti, nulla osta a ricondurre in tale ca-tegoria anche «other similar remuneration» quali le somme pagate una tan-tum

66. Inoltre, a definitivo chiarimento, si deve osservare che il commento al-l’art. 18 sostiene che «the source of the payment is an important factor» al fine di giustificarne la sua applicazione e che i «payments made from a pension scheme would normally be covered by the Article».

Già alla luce di tali argomenti risultano, con evidenza, le criticità della posi-zione dell’Agenzia delle Entrate

67 e la necessità di ricondurre anche le presta-zioni pensionistiche erogate in forma di capitale nel campo di operatività dell’art. 18 del Modello OCSE piuttosto che in quello dell’art. 15 e di ritenere, sussistente la potestà impositiva dell’Italia in qualità di Stato della fonte

68. A tali argomenti, in una situazione meramente europea, se ne possono

aggiungere altri offerti dal diritto dell’UE non correttamente invocato dal-l’Agenzia delle Entrate. Come detto, questa richiama argomenti riconducibili al principio della “coerenza”

69 che però, come si è visto, dopo essere stato ri-

65 Commentario al Modello OCSE, Commento all’art. 18, cit., par. 60, p. 291. 66 Così Commentario al Modello OCSE, Commento all’art. 18, cit., parr. 5 e 6, p. 276.

Tale impostazione è confermata dall’OCSE nel documento “OECD Model Tax Convention: Tax Treaty Treatment of Termination Payments Discussion Draft: 25 June to 13 September 2013” del 25 giugno 2013 a p. 8, dove viene accolta l’impostazione (e proposta l’aggiunta di un ulteriore paragrafo esplicativo nel Commentario) per cui ricadono nell’art. 15 del Model-lo OCSE solo le somme che trovano il loro fondamento giuridico nella cessazione del rap-porto di lavoro, laddove tale evento rilevi, invece, quale mera circostanza di fatto, trova ap-plicazione l’art. 18 del Modello OCSE.

67 L’impostazione della Risoluzione n. 40/E/2009 lascia ulteriormente perplessi se confrontata con quella della Risoluzione 1° agosto 2008, n. 341/E, ove l’Ufficio citava il Commentario al Modello OCSE per arrogarsi il diritto di definire le nozioni di “pensione” e di “pagamenti effettuati in unica soluzione”.

68 Un ulteriore elemento che corrobora la non condivisibilità della conclusioni cui per-viene l’Agenzia può inoltre ritrovarsi nell’art. 21, par. 1), del Modello OCSE secondo cui gli elementi di reddito di un residente di uno Stato contraente, qualsiasi ne sia la prove-nienza, che non sono stati trattati negli articoli precedenti della presente Convenzione so-no imponibili soltanto in questo Stato. Se, dunque, si dovesse ritenere (diversamente da quanto sopra argomentato) che l’art. 18 del Modello OCSE non comprenda le prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di capitale, soccorrerebbe, comunque, la disposizione residuale dell’art. 21, par. 1), che condurrebbe ugualmente alla conclusione di considerare le prestazioni come imponibili esclusivamente nel Paese del percettore.

69 Per l’Agenzia «la scelta sulla tassazione risponde a valutazioni di politica fiscale pro-prie di ogni singolo Stato che, in ogni caso, considerano la previdenza integrativa come un

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conosciuto proprio nella materia previdenziale, è stato sistematicamente ri-gettato dalla Corte

70. In particolare, per quanto ora di specifico interesse, nel caso Wielockx e

nel caso Commissione c. Danimarca la Corte ha chiarito che, allorquando uno Stato addiviene ad una data ripartizione della potestà impositiva con un al-tro Stato per il tramite di una convenzione contro le doppie imposizioni, si deve tenere conto di tale assetto ai fini della valutazione della coerenza. Per la Corte solo le convenzioni internazionali sono la sede in cui gli Stati pos-sono evitare che la concessione di una data deduzione non sia poi compen-sata dalla tassazione di un correlato componente positivo, ma in assenza di norme apposite non può essere raggiunto il medesimo risultato e gli Stati devono applicare quanto da loro stessi pattuito.

Non è, quindi, corretto e possibile recuperare potestà impositiva, come, invece, fa l’Agenzia delle Entrate, sulla base di un’interpretazione adeguatri-ce delle norme di un Trattato. L’obiettivo dell’Amministrazione Finanziaria può così, al massimo, ritenersi condivisibile de iure condendo, ma non certa-mente de iure condito. Dal momento che le convenzioni stipulate dall’Italia non divergono dal Modello OCSE e, quindi, salvo che l’Italia non avvii una propria prassi convenzionale (comportamento che sarebbe legittimo a livel-lo internazionale ed europeo), deve rispettare gli accordi vigenti che accor-dano potestà impositiva sulle pensioni (in qualunque forma siano corrispo-ste) allo Stato di residenza dell’iscritto. Il fatto che l’attuale riparto della po-testà impositiva possa creare un’alterazione degli schemi di tassazione del fenomeno previdenziale e vulnerare le scelte che li caratterizzano non as-sume rilievo.

fenomeno unitario. Da ciò emerge che individuare la tassazione dell’erogazione nel Paese di residenza comporta una rimessa per lo Stato che ha rinviato la tassazione dei contributi concedendo l’esenzione dalla tassazione degli stessi, senza che vi sia una necessaria reci-procità di trattamento nell’altro Stato contraente».

70 Non modifica l’erroneità delle conclusioni dell’Agenzia delle Entrate neppure la sen-tenza della Corte di Giustizia UE, 7 novembre 2013, causa C-322/11, K con cui la Corte ha accolto l’argomento della coerenza fiscale. Essa, come detto, legittima la Finlandia a non tenere conto dei minusvalori immobiliari realizzati in Francia dai suoi residenti in quanto la convenzione non le assegna potestà impositiva sui correlativi plusvalori. Adattando tale caso alla materia previdenziale si dovrebbe dire che per l’Italia sarebbe corretto tassare le prestazioni previdenziali solo ove riconoscesse la deducibilità dei contributi versati. Allo stato attuale l’Italia, non consentendo tale deduzione, non ha argomenti per invocare la tassazione delle prestazioni.

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6. Considerazioni conclusive

Nonostante negli ultimi anni, sia a livello europeo, sia a livello conven-zionale e sia a livello interno, siano stati fatti significativi passi in avanti per l’eliminazione dei più rilevanti ostacoli alla libera circolazione del risparmio previdenziale dei lavoratori, permangono ancora numerose barriere che le legislazioni dei singoli Stati Membri, ivi compresa l’Italia, pongono alla pos-sibilità dei lavoratori di aderire a forme previdenziali estranee al proprio Paese di residenza o di trasferire la posizione previdenziale accumulata. Trattamenti diversificati in tema di deducibilità dei contributi ed in tema di tassazione delle prestazioni sono ancora i principali ostacoli che si frappongono ad una piena compatibilità dei sistemi fiscali con le regole del diritto dell’UE.

Le istituzioni europee (Commissione e Corte di Giustizia) sono puntual-mente intervenute in materia previdenziale cogliendo le peculiarità dei fon-di pensione ed, in particolare, il fatto che, per assicurare all’iscritto una som-ma da utilizzare al momento dell’interruzione dell’attività lavorativa, devono operare secondo speciali cautele ed essere sottoposti a puntuale vigilanza.

Tra i vari interventi merita la massima attenzione la Direttiva 2003/41/CE che, da un lato, testimonia la volontà delle istituzioni europee di armonizza-re l’offerta di servizi previdenziali, dall’altro, è la prova della presa d’atto da parte delle istituzioni della necessità di dover lasciare agli Stati Membri an-che significativi spazi di manovra. Mentre, di norma, le Direttive impartisco-no regole agli Stati affinché implementino una data normativa, che risulta così uniforme a livello europeo, quella in esame instaura una dialettica con le legislazioni nazionali tale da consentire allo Stato di origine del fondo ed allo Stato ospitante di imporre il rispetto di loro normative nazionali non ne-cessariamente uniformi. Quella che si ricava dalla Direttiva 2003/41/CE è, quindi, solo (ma opportunamente) un’armonizzazione “parziale”.

Calando tale assetto nella normativa italiana, si osserva come questa non sia del tutto allineata ai principi europei e siano ancora numerose le resistenze offerte dall’Amministrazione Finanziaria. Il sistema delineato dal D.Lgs. n. 252/2005 è un sistema essenzialmente chiuso, arroccato sul principio della coerenza fiscale che risulta respinto a livello europeo. Tale testo normativo correla strettamente tra loro le fasi della vicenda previdenziale immaginan-do che questa si esaurisca nel territorio dello Stato.

Occorre prendere atto che il legislatore ha avviato un processo di aper-tura di tale sistema così come testimonia la riformulazione dell’art. 10, com-ma 1, lett. e bis), TUIR e l’inserimento degli artt. 15 bis e 15 ter nel D.Lgs.

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n. 252/2005. Allo stato attuale queste riformulazioni dimostrano la sensibi-lità del legislatore italiano alle problematiche transnazionali e, nei limiti in cui sono applicabili, consentono un’interpretazione della normativa coeren-te con il diritto dell’UE.

Residuano, però, ancora differenze: mentre alcune di queste sono giusti-ficabili (le differenze nel trattamento delle prestazioni erogate da fondi esteri, purché non si tratti di fondi “armonizzati”), altre (i contributi dedotti all’e-stero) possono presentare profili critici. La giurisprudenza della Corte di Giu-stizia UE, pur non offrendo un argomento decisivo per affermare l’illegitti-mità della normativa italiana, offre una pluralità di spunti che, complessiva-mente considerati, potrebbero esporre l’Italia a censure.

In questo assetto merita una particolare menzione la Convenzione del 25 agosto 1999, ratificata con L. 3 marzo 2009, n. 20 ed entrata in vigore il 1° gennaio 2010, tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America. Questa Convenzione rappresenta uno strumento estre-mamente avanzato che, pur scontando delle inevitabili limitazioni (una con-venzione contro le doppie imposizioni ha un campo di applicazione neces-sariamente più limitato di una Direttiva dell’UE), offre soluzioni puntuali tali da garantire un’effettiva mobilità transnazionale dei lavoratori.

È assai significativo che tali soluzioni siano le medesime che sono state individuate a livello europeo, ovverosia garantire una identità di trattamen-to a residenti e non solo nella misura in cui aderiscono ad enti previdenziali che assicurano standard comparabili. Anche la Convenzione Italia-USA ri-chiede, infatti, che «l’autorità competente [di uno degli Stati contraenti] ab-bia approvato che il fondo pensione corrisponde in linea generale ad un fondo pensione riconosciuto ai fini fiscali da detto Stato».

Questo le consente di intervenire con il suo art. 18, comma 6, in modo del tutto innovativo sul profilo della deducibilità dei contributi da parte di non residenti, che è certamente l’aspetto più critico nell’ottica europea. La Con-venzione Italia-USA fornisce così un’importante apertura in tema di tassazio-ne dei non residenti non riconosciuta, allo stato attuale, nemmeno agli Stati Membri dell’UE.

La Convenzione Italia-USA, allora, pur avendo un campo di applicazione “quantitativamente” più ristretto del diritto dell’UE, risulta fornire soluzioni “qualitativamente” più significative di quelle europee. Anche considerati i li-miti intrinseci dello strumento pattizio, si può ritenere allora complessiva-mente più favorevole il trattamento accordato dall’Italia agli Stati Uniti d’A-merica, piuttosto che agli altri Stati Membri dell’UE.

Come si è dimostrato, invece, il problema della deducibilità dei contribu-

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ti pagati in Italia da parte di un non residente e quindi della compatibilità europea dell’art. 24 TUIR è tutt’altro che risolto. Neppure dai sempre più nu-merosi interventi della Corte di Giustizia su normative analoghe a quella ita-liana, si può avere una risposta del tutto univoca. Essi contribuiscono a trac-ciare un percorso, non ancora però del tutto lineare. Ciò accentua la portata dell’art. 18, comma 6, Convenzione Italia-USA il quale testimonia la possi-bilità (e la volontà), per l’Italia, di risolvere tale problema. Come si accenna-va nelle premesse del presente lavoro, tale conclusione è non solo inattesa, ma addirittura forse “paradossale” se comparata con le ambizioni dell’UE. Ciò accentua la necessità di un intervento del legislatore sui profili internaziona-li, anzi, in particolare, su quelli europei, della previdenza complementare.

De iure condendo (pur non essendo troppo lontano nel tempo l’ultimo in-tervento legislativo in materia previdenziale) il legislatore nazionale potreb-be intervenire senza eccessivi traumi muovendo dal punto fermo che non è necessario per lo Stato italiano accordare un trattamento generalizzato a tutti i fondi pensione esteri ed a tutti gli iscritti non residenti. La previdenza com-plementare tollera (e forse impone) un’armonizzazione soltanto “parziale” (si è visto come sia questo il tratto comune tra la Direttiva 2003/41/CE e la Convenzione Italia-USA). Ciò depotenzia grandemente, nei fatti, le ritrosie che uno Stato quale l’Italia può opporre ad una completa apertura transna-zionale dei sistemi previdenziali. Tanto la Direttiva, quanto la Convenzione Italia-USA condividono l’impostazione del legislatore nazionale di garantire che finalità previdenziali siano perseguite garantendo specifici livelli di tute-la. La soluzione che il legislatore italiano dovrebbe perseguire potrebbe es-sere quella di compenetrare i percorsi suggeriti dalla Direttiva 2003/41/CE e dalla Convenzione Italia-USA in modo da assicurare un’effettiva mobilità transazionale dei lavoratori, garantendo, comunque, sufficientemente le sue prerogative ed esigenze.

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Giuseppe Rocco

DIRITTO ALLA RATEIZZAZIONE DEI TRIBUTI: UN BILANCIAMENTO TRA LA TUTELA

DEL CONTRIBUENTE E L’INTERESSE ERARIALE

THE RIGHT TO PAY TAXES BY INSTALMENTS: REACHING A BALANCE BETWEEN TAXPAYER’S PROTECTION

AND FISCAL INTEREST

Abstract La rateizzazione è oramai diventata una modalità ordinaria e automatica per l’a-dempimento dell’obbligazione tributaria. Solo per i debiti iscritti a ruolo, quando gli importi superano cinquantamila euro, è necessario comprovare lo stato di dif-ficoltà in base a dei parametri che, essendo di tipo numerico, consentono ad Equitalia di concedere l’agevolazione della rateizzazione in modo piuttosto rapi-do ed obiettivo. Il regime della decadenza presenta profili di indubbio interesse e si è tentato di comprendere se l’essenzialità dei termini di pagamento delle rate sia strutturale o semplicemente funzionale, anche in considerazione della natura spesso provvi-soria dei debiti iscritti a ruolo. Parole chiave: agevolazione, rateizzazione, discrezionalità, diniego di agevolazio-ne, ipoteca The payment of taxes by instalments has become a standard and automatic way of performing the tax obligation. Even in case of taxes already entered in the tax rolls and exceeding the amount of fifty-thousand euros, Equitalia (i.e. the Italian tax col-lector agent) may grant the right to pay by instalments in a fairly quick and objective manner, taking into account numeric parameters that prove the taxpayer’s difficulties in making the whole payment. Statute of limitations rules raise interesting issues, which are analysed in the article with the aim to understand whether the time limits for the payment of each instalment should be regarded as structural or functional, in light of the provisional nature of the debts recorded in the tax rolls.

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Keywords: payment of taxes by instalments, Tax Authorities’ discretionary powers, statute of limitations, denial of tax breaks, mortgage

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le rateizzazioni automatiche. – 2.1. Le rateizzazioni automatiche gestite dall’Agenzia delle Entrate. – 2.2. Le rateizzazioni automatiche gestite da Equitalia. – 3. Le rateizza-zioni di Equitalia subordinate alla situazione di difficoltà obiettiva e temporanea. – 3.1. Le rateizza-zioni ordinarie: il potere funzionalmente vincolato dell’agente della riscossione ed i parametri nu-merici. – 3.2. Le rateizzazioni in proroga, le rateizzazioni straordinarie ed il regime transitorio. – 3.3. La decadenza e la rimessione in termini. – 3.4. Gli effetti dell’istanza, l’istruttoria e l’onere della prova. – 3.5. Il fondato pericolo e le ipoteche per “assicurare la tutela del credito”. – 4. La giurisdi-zione e la dialettica processuale. – 4.1. La giurisdizione: la natura di agevolazione tributaria. – 4.2. La dialettica processuale nel caso di impugnativa del diniego di rateizzazione. – 5. Conclusioni.

1. Premessa

La dilazione del debito tributario, a seguito delle diverse modifiche nor-mative, ha assunto oggi una diversa connotazione, con particolare riferi-mento alla posizione giuridica del contribuente; inoltre la rinnovata disci-plina ha inciso su diversi principi e questioni come quelli dell’interesse fisca-le, del rispetto dell’integrità patrimoniale del contribuente e della impugna-bilità del provvedimento di diniego.

La rateizzazione, il cui massiccio uso si giustifica ancora di più alla luce dell’attuale quadro economico

1, è oramai un istituto maturo e molto flessi-bile, rappresentando un’ottima sintesi per il contemperamento dei contrap-posti interessi, del contribuente e dell’Amministrazione, soprattutto quando si tratti della riscossione di crediti fiscali certi, ma non definitivi. Infatti,

tutte le rateizzazioni di competenza dell’Agenzia delle Entrate sono ora-mai automatiche, non essendo più subordinate ad alcuna forma di garanzia;

1 La rateizzazione riguarda tutti gli enti pubblici dello Stato. Infatti, al di fuori dell’am-bito strettamente tributario, l’art. 1 del D.L. n. 16/2012 dispone che tutti gli enti pubblici dello Stato «.... possono, su richiesta del debitore, che versi in situazioni di obiettiva diffi-coltà economica, ancorché intercorra contenzioso con lo stesso ovvero lo stesso già fruisca di una rateizzazione, riconoscere al debitore la ripartizione del pagamento delle somme dovute in rate costanti, ovvero in rate variabili. La disposizione del precedente periodo non trova applicazione in materia di crediti degli enti previdenziali nei casi di ottemperan-za ad obbligazioni derivanti da sanzioni comunitarie».

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le rateizzazioni di Equitalia, invece, se il debito da rateizzare è superiore ad euro cinquantamila, richiedono una istruttoria per verificare, unicamente sulla base di parametri numerici, l’esistenza della condizione di obiettiva e temporanea difficoltà del contribuente.

Alla luce del dato normativo, della giurisprudenza e delle numerose Di-rettive di Equitalia, la discrezionalità nella rateizzazione è praticamente as-sente e ciò è legato alla natura di agevolazione ed al conseguente rispetto del principio di uguaglianza.

Sullo sfondo, infine, si agita la tematica della decadenza e dell’essenzialità dei termini di pagamento dei piani di rateazione. Sebbene la decadenza ope-ri automaticamente, si tenterà di stabilire se l’essenzialità dei termini sia strutturale o soltanto funzionale; tanto al fine di prospettare l’eventuale ri-messione in termini del contribuente decaduto dalla rateizzazione.

2. Le rateizzazioni automatiche

2.1. Le rateizzazioni automatiche gestite dall’Agenzia delle Entrate

L’attuale disciplina delle rateizzazioni non riguarda solo il ruolo, che oramai rappresenta l’anello terminale della riscossione, ma si estende soprattutto a quei numerosi atti intermedi che lo precedono. Ne consegue che la competenza a decidere della rateizzazione in ordine a tali atti intermedi non può appartenere all’agente, bensì è dell’Agenzia. E d’altra parte va sottolineato, allo scopo di evi-denziare i limiti che caratterizzano la stessa competenza dell’Agenzia in subiecta materia, come l’accesso alle rateizzazioni sia rimesso alla esclusiva iniziativa del contribuente, il quale unilateralmente potrà fruirne, finanche attraverso com-portamenti concludenti, senza che detta iniziativa possa in alcun modo essere impedita dall’Agenzia. D’altro canto, la facoltà di accesso alla rateizzazione non è più subordinata all’adempimento dell’obbligo fideiussorio.

Queste rateizzazioni automatiche gestite dall’Agenzia delle Entrate pos-sono essere così tripartite.

Rateizzazione delle comunicazioni di irregolarità scaturenti dalla liquida-zione automatizzata delle dichiarazioni, disciplinate dall’art. 3 bis del D.Lgs. n. 462/1997: il debito risultante dalle comunicazioni di irregolarità

2, eventual-

2 Emanate ai sensi degli artt. 36 bis e 36 ter del D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 54 bis del D.P.R. n. 633/1972. Per le liquidazioni dei redditi soggetti a tassazione separata v. art. 1, comma 412 della L. 30 dicembre 2004, n. 311.

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mente rideterminato in sede di autotutela, senza che ciò comprometta la ridu-zione delle sanzioni al 10%, potrà essere rateizzato in massimo sei rate trime-strali, ovvero in massimo 20 rate trimestrali (vale a dire entro il notevolissimo termine di cinque anni), di eguale importo, a seconda che, rispettivamente, la somma complessivamente dovuta sia inferiore o superiore ad euro cinquemila.

Tale disciplina è molto favorevole, ma l’ambito oggettivo, nei fatti, risulta notevolmente ridotto, poiché per l’IVA e le ritenute fiscali non è possibile evitare il parallelo reato di omesso versamento, se l’importo supera euro 50.000 per periodo di imposta

3. Per tale motivo i contribuenti difficilmente si avvarranno della rateizzazione; né tantomeno appare possibile invocare lo stato di necessità per evitare le predette conseguenze penali

4. Sono conces-se al contribuente solo delle attenuanti, giammai l’esimente, qualora il ver-samento venga effettuato in ritardo

5; peraltro non si tratta di un caso isola-

3 V. Cass., sez. pen. VI, 16 aprile 2013, n. 24185. Volendo argomentare a contrario detta pronuncia si può affermare che per l’IVA, se l’importo complessivamente dovuto per singolo periodo di imposta viene riportato al di sotto dei cinquantamila euro, anche per effetto del ver-samento di alcune rate, purché ciò avvenga entro il termine previsto per il versamento dell’ac-conto relativo al periodo di imposta successivo, la soglia non è superata e quindi non si perfe-ziona la fattispecie penale. Per le ritenute, invece, il termine ultimo, entro il quale è possibile ri-durre la soglia dei cinquantamila euro – che va riferita al singolo periodo di imposta – coincide con quello di presentazione della corrispondente dichiarazione annuale dei sostituti di imposta.

4 CARACCIOLI, Omissioni e frodi nella fase della riscossione delle imposte. Problemi attuali, in Riv. dir. trib., 2011, III, p. 71. L’autore richiama un precedente, maturato durante la L. n. 516/1982, dove è stato ritenuto inapplicabile l’art. 54 c.p. sullo stato di necessità, in quanto lo stesso presuppone un pericolo attuale di un danno grave alla persona. In un di-verso ambito, ovvero quello dei contributi previdenziali, la Corte costituzionale con ord. 22 aprile 1999, n. 142 nell’esaminare la norma che consentiva di pagare ratealmente i pre-gressi debiti e di estinguere il conseguente reato, ha statuito che il procedimento penale non può essere sospeso, sebbene la rateizzazione sia in corso. Però, il reato a cui sarà con-dannato il debitore si estinguerà al momento dell’intero pagamento del debito. Tale siste-ma, secondo la Corte, è tutt’altro che irragionevole e non dà luogo di per sé alla violazione di diritti costituzionalmente garantiti, né a disparità di trattamento.

5 Nella relazione governativa al D.Lgs. n. 74/2000 si afferma: «Si è scartata la soluzio-ne estrema che pure avrebbe potuto astrattamente ipotizzarsi a fronte della genericità del-l’indicazione del legislatore delegante, di elevare la condotta risarcitoria a causa estintiva del reato: e ciò sul rilievo che in materia di criminalità economica, e tributaria in particolare, laddove vengono in gioco interessi di natura prettamente patrimoniale, una simile solu-zione finirebbe per frustrare la comminatoria di pena, se non anche per sortire un effetto criminogeno, in quanto consentirebbe ai contribuenti di monetizzare il rischio della re-sponsabilità penale, barattando, sulla base di un freddo calcolo, la certezza del vantaggio presente con l’eventualità di un risarcimento futuro privo di stigma criminale. In tale otti-ca, lo «strumento premiale» incentivante il risarcimento è stato quindi individuato nella previsione di circostanze attenuanti speciali che rispondono in sostanza alla medesima ra-

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to, perché anche la definizione intervenuta con l’accertamento con adesione soggiace al medesimo regime della mera attenuante

6. Sul fronte penale

7 è il caso di ricordare che ai fini del sequestro preventi-vo e/o della confisca tali misure vengono meno con l’adempimento dell’ob-bligazione tributaria poiché cessa l’indebito arricchimento derivante dall’a-zione illecita. Il sequestro nel caso di rateizzazione in corso può essere sol-tanto ridotto proporzionalmente agli importi già versati, dovendosi invece at-tendere il completo adempimento dell’obbligazione per ottenere la cessa-zione delle misure. Il sequestro rimane fermo anche nell’ipotesi di sospen-sione dell’esecutività della cartella del giudice tributario, che per la sua pre-carietà lascia immutata la doverosità del debito. Altresì rimane fermo il se-questro nell’ipotesi in cui il contribuente intenda avvalersi di una garanzia fideiussoria; infatti non è possibile sostituire a un bene certo di pertinenza del condannato una garanzia personale, da parte di un terzo, non immedia-tamente convertibile in un bene di valore corrispondente al profitto del reato.

Una fattispecie esclusa da queste rateizzazioni automatiche concerne le somme scaturenti dai controlli anticipati

8, in corso d’anno, che l’Agenzia può disporre nel caso di fondato pericolo per la riscossione

9. Tali somme pare che non siano rateizzabili e vanno dunque versate entro i trenta giorni suc-cessivi al ricevimento della comunicazione.

Rateizzazione delle “adesioni” disciplinata dall’art. 8 del D.Lgs. n. 218/1997: la rateizzazione può avere ad oggetto sia le imposte sul reddito, sia l’IVA, sia le tio di quella comune di cui all’art. 62, n. 6), prima parte, c.p. Tali circostanze sono state co-struite come a effetto comune – esse comportano, cioè, l’abbattimento della pena princi-pale nella misura originaria di un terzo, prevista dall’art. 65, n. 3), c.p. – con l’aggiunta, tut-tavia, dell’attitudine a escludere tout court l’applicabilità delle pene accessorie.

6 Tuttavia in qualche caso la giurisprudenza ha concluso in senso contrario. Si v. Trib. Milano, sez. pen. III, 5 febbraio 2009, n. 1826, in Riv. dir. trib., 2009, III, p. 142 con nota adesiva di PICCIOLI, Accertamento con adesione e dichiarazione infedele: aspetti penali.

7 Corte di Cassazione, Ufficio del massimario, servizio penale, Relazione del 2 luglio 2013, n. 30. Nell’ordine il riferimento è a Cass., sez. pen. III, 12 luglio 2012, n. 46726, Cass., sez. pen. III, 19 giugno 2012, n. 33587, Cass., sez. pen. III, 17 gennaio 2013, n. 9578 e, in-fine, Cass., sez. pen. III, 19 giugno 2012, n. 33587.

8 V. il comma 2 bis dell’art. 36 bis, del D.P.R. n. 600/1973, e l’art. 54 bis, del D.P.R. n. 633/1972.

9 Agenzia delle Entrate, Circolare 13 marzo 2006, n. 10/E. In tale documento di prassi si afferma che elementi sintomatici di pericolo per la riscossione possono emergere, tra l’altro, quando risulti che il contribuente ha artificiosamente ridotto il proprio debito ed è in procin-to di liquidare il suo patrimonio per sottrarsi ad ogni azione di recupero. Il pericolo per la ri-scossione sussiste anche quando il concorso dei creditori privilegiati, rispetto alla situazione patrimoniale del debitore, sia tale da compromettere di fatto il recupero delle imposte dovute.

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imposte indirette, giusta l’art. 11 del D.Lgs. n. 218/1997. L’acquiescenza alle sole sanzioni

10, invece, non dovrebbe rientrare tra le fattispecie rateiz-zabili, nel senso che se il contribuente intende proseguire il contenzioso per l’imposta ma non per le sanzioni, evitando così anche le pene accesso-rie

11, dovrà versare un terzo delle sanzioni in un’unica soluzione, entro i termini fissati dall’art. 16, comma 3 del D.Lgs. n. 472/1997. Non è possibi-le neanche invocare la specifica disciplina, contenuta nel decreto sulle san-zioni, che prevede la concessione della rateizzazione a favore del contri-buente che si trovi in condizioni economiche disagiate, subordinatamente però ad una valutazione di merito dell’ufficio

12, poiché tale norma è stata ritenuta implicitamente abrogata

13. Rateizzazione delle somme derivanti dalla conciliazione giudiziale o dalla

mediazione tributaria: l’art. 48 del D.Lgs. n. 546/1992 fissa, per stabilire il numero di otto o dodici rate trimestrali, un limite espresso in euro

14 che, pur essendo il medesimo per la conciliazione e la mediazione, di fatto riguarda so-lo la conciliazione perché la mediazione, interessando controversie non supe-riori ad euro ventimila, non potrà mai determinare più di otto rate trimestrali.

Per queste tre fattispecie di rateizzazione interviene la decadenza quando la prima rata non viene versata nei termini, oppure quando una delle succes-sive rate trimestrali viene versata oltre i tre mesi dalla originaria scadenza. Il termine è quindi essenziale e perentorio soltanto per la prima rata, mentre per le altre rate è ammessa la tolleranza di un trimestre

15. Tale tolleranza

10 Disciplinata dal comma 3 dell’art. 16 e dal comma 2 dell’art. 17 del D.Lgs. n. 472/1997. 11 Tale esclusione non vale per le sanzioni relative allo scontrino fiscale; v. Agenzia delle

Entrate, Risoluzione 4 luglio 2007, n. 150/E. 12 Min. Fin., Circolare 10 luglio 1998, n. 180. 13 Min. Fin., Circolare 26 gennaio 2000, n. 15. 14 Euro 50.000,00 e non Lire 100.000.000. Le rate vanno versate secondo le modalità

contenute nel D.P.R. 28 settembre 1994, n. 592. 15 Più precisamente il comma 4 dell’art. 3 bis del D.Lgs. n. 462/1997 dispone: «Il man-

cato pagamento della prima rata entro il termine di cui al comma 3, ovvero anche di una sola delle rate diverse dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva, com-porta la decadenza dalla rateazione e l’importo dovuto per imposte, interessi e sanzioni in misura piena, dedotto quanto versato, è iscritto a ruolo». L’Agenzia, Circolare 19 marzo 2012, n. 9/E, su tale punto, anche se con riferimento all’istituto della mediazione, ha chia-rito che l’Ufficio può ritenere valido il pagamento nel caso di lieve ritardo del contribuente o di altre minime irregolarità. Circa le lievi irregolarità v. Cass., 9 giugno 2011, n. 12661, che ha statuito l’inefficacia del ravvedimento qualora il contribuente abbia commesso un errore di calcolo. Inoltre, in tale evenienza, non sarebbe possibile beneficiare, neanche par-zialmente, del ravvedimento in misura corrispondente alla minore sanzione versata.

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trimestrale è onerosa, nel senso che il contribuente dovrà avvalersi del rav-vedimento operoso, corrispondendo le relative sanzioni ridotte

16, da calco-larsi sulla quota di imposta inclusa nella rata che è stata versata in ritardo

17. Ai fini del ravvedimento, ciascuna rata conserva una propria autonomia ri-spetto alle altre

18 e non appare possibile rimediare al tardivo versamento di una rata con il tempestivo versamento della rata successiva.

Mentre la disciplina del ravvedimento è sostanzialmente unitaria, gli ef-fetti della decadenza sono diversi.

Infatti, per le rateizzazioni delle comunicazioni di irregolarità il contri-buente oltre a decadere dalla rateizzazione

19 decade anche dal beneficio del-la riduzione delle sanzioni (10% o 20% a seconda dei casi) con l’ulteriore particolarità che le sanzioni ordinarie (30%) saranno applicate non sul debi-to residuo bensì sull’intero debito iniziale, dal quale, poi, saranno scomputa-te le rate nel frattempo pagate.

Invece per le rateizzazioni ex D.Lgs. n. 218/1997 e D.Lgs. n. 546/1992, una volta intervenuta la decadenza, si applicherà una sanzione maggiorata per l’omesso versamento (60% in luogo dell’ordinario 30%)

20 ma essa sarà calcolata soltanto sul residuo debito e non sull’intero debito iniziale.

2.2. Le rateizzazioni automatiche gestite da Equitalia

Con la formazione del ruolo, la competenza per la rateizzazione spetta all’agente della riscossione, ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973. Ma non è stato sempre così; infatti la competenza dapprima spettava all’Agenzia e solo nel 2007 è stata attribuita all’agente della riscossione sul presupposto

16 Si v. le lett. a) e b) del comma 1, dell’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997, nonché per il c.d. ravvedimento operoso sprint l’art. 13, comma 1, del D.Lgs. n. 471/1997. Si v. anche Agenzia delle Entrate, Circolare 5 agosto 2011, n. 41/E, nonché per i codici tributo Agen-zia delle Entrate, Risoluzione 29 dicembre 2011, n. 132/E.

17 Art. 3 bis, comma 4 bis, del D.Lgs. n. 462/1997. 18 V. attuale comma 4 bis, art. 3 bis, del D.Lgs. n. 462/1997. 19 Siffatta decadenza, però, non preclude più la rateizzazione della successiva cartella di

pagamento. V. l’abrogato comma 7 dell’art. 3 bis del D.Lgs. n. 462/1997. 20 Il raddoppio dal 30% al 60% delle sanzioni per l’omesso versamento è un’innovazione

peggiorativa per il contribuente, poiché, in precedenza, l’omesso versamento di una rata del-l’accertamento con adesione, non essendo sanzionata in modo specifico, non determinava, secondo la Cass., 20 settembre 2006, n. 20386, nessuna sanzione ulteriore. Non è poi neces-sario, ove vi si tratti di rateazione connessa all’acquiescenza, che si notifichi al contribuente, per tale sanzione maggiorata, la cartella di pagamento perché l’intimazione ad adempiere sa-rebbe a tal fine già sufficiente (relazione al D.L. n. 98/2011 art. 23, commi 17 e 18).

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che questi abbia una conoscenza più completa della situazione finanziaria del debitore

21. La competenza, ferma restando quella territoriale, che rima-ne distinta per ciascun ambito di riscossione, è trasversale e generale e quin-di la rateizzazione può comprendere, in linea di principio, tutte quelle entra-te riscuotibili tramite ruolo, comprese le restituzioni dei contributi indebi-tamente percepiti

22. Tuttavia l’art. 26 del D.Lgs. n. 46/1999 stabilisce delle esclusioni

23 per le entrate in cui il ruolo costituisce una modalità spontanea di riscossione

24 e per le entrate che già dall’inizio sono ripartite in più rate; altresì sono escluse le entrate consistenti nel recupero delle agevolazioni di-chiarate illegittime perché aiuti di Stato.

Invece, per le somme costituenti risorse proprie dell’UE, non ancora iscritte a ruolo, si osservano le regole del codice doganale

25, secondo cui va concessa una garanzia, ma le autorità doganali possono rinunciarvi o posso-no evitare di chiedere un interesse a credito «... quando è stabilito, sulla ba-se di una valutazione documentata della situazione del debitore, che ciò pro-vocherebbe gravi difficoltà di carattere economico o sociale»

26. Se invece i dazi sono già iscritti a ruolo la rateizzazione viene gestita da Equitalia

27. Circa la tipologia di ruoli che possono essere rateizzati, non sussistono in

linea di principio preclusioni per i ruoli straordinari, come peraltro inciden-talmente confermato dall’Amministrazione

28.

21 Audizione del 2 ottobre 2007, Commissione Finanze Senato, amministratore dele-gato Equitalia, dott. A. Befera.

22 Min. Industria, Circolare 2 giugno 2000, n. 900235. 23 Si v. anche Direttiva Equitalia, 27 marzo 2008, n. DSR/NC/2008/012. 24 V. art. 32, comma 1, lett. a) e b) del D.Lgs. n. 46/1999. 25 Artt. 77 e 24 del Reg., 23 aprile 2008, n. 450, nonché art. 225 del Reg. n. 2913/1992. 26 Si v. anche Min. Finanze, Circolare, 12 aprile 2000, n. 75 ma con riferimento al pre-

cedente codice doganale comunitario. 27 Si v. anche Direttore Agenzia Entrate, Provv., 10 luglio 2009, n. 2009/102351 che te-

stualmente dispone «... Si ricorda che, qualora il pagamento abbia per oggetto dazi doganali costituenti risorse proprie della Comunità europea, la rateazione è sempre subordinata alla prestazione di idonea garanzia. Tuttavia il contribuente, qualora si trovi in gravi difficoltà di carattere economico o sociale, può chiedere di essere esonerato dal prestare la garanzia». Sempre in tema di diritti doganali, va considerato che l’art. 8 dello schema di legge europea, approvato in via preliminare nella seduta del Consiglio dei Ministri del 20 settembre 2013, ha esteso la procedura di riscossione lampo, prevista per i diritti doganali, anche all’IVA all’importazione. Ciò comporterebbe tra l’altro l’inapplicabilità, anche per l’IVA all’importa-zione –, della disposizione sulla riscossione rallentata, prevista per quei debiti di importo ri-dotto, ovvero inferiori ad euro mille, dall’art. 1, comma 544, della L. 24 dicembre 2012, n. 228.

28 V. Min. Fin., Circolare, 6 settembre 1999, n. 184, nonché si v. FANTOZZI (a cura di), Diritto Tributario, Torino, 2004, p. 532.

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A fronte di questo esteso ambito oggettivo, le rateizzazioni concesse da Equitalia possono distinguersi in due macro categorie, a seconda dell’im-porto:

rateizzazioni semplificate, automatiche, che concernono i debiti fino ad euro cinquantamila;

rateizzazioni non automatiche che, riguardando debiti superiori ad eu-ro cinquantamila, sono subordinate alla condizione della temporanea situa-zione di obiettiva difficoltà.

Questa bipartizione, che si traduce in una semplificazione, in quanto al di sotto dei cinquantamila euro non è necessaria alcuna attività istruttoria, è sta-ta decisa per via amministrativa da Equitalia, ma non ha un fondamento nor-mativo, perché la disciplina contenuta nell’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973 è unitaria e non fa alcuna distinzione in funzione dell’importo.

Quanto al numero delle rate, prima del maggio 2013 era previsto un limi-te massimo di 48 rate, che, tuttavia, già all’epoca, poteva essere aumentato a 72 rate mensili se il contribuente decideva di documentare lo stato di diffi-coltà

29. Dal maggio 2013, invece, questo doppio termine del piano di rateiz-zazione è stato soppresso ed è stato unificato in settantadue rate mensili, sia per le rateizzazioni automatiche che per quelle su istanza.

La soglia di importo va riferita alla singola cartella di pagamento, ma se sussiste la morosità contemporanea di due o più cartelle gli importi si cumu-lano; altresì il contribuente potrà riportarsi al di sotto della soglia, versando l’eccedenza rispetto al limite, e quindi potrà accedere al regime automatico e semplificato di rateizzazione.

Questa doppia disciplina delle rateizzazioni, a seconda dell’importo del debito, costituisce un innegabile vantaggio per il contribuente, ed è stata mo-tivata anche con l’esigenza di snellire e ridurre l’attività burocratica e il cari-co di lavoro di Equitalia. Pertanto la rateizzazione per i debiti inferiori ad euro cinquantamila costituisce una modalità di pagamento fisiologica, au-tomatica e naturale, con il probabile scopo di agevolare l’adempimento spon-taneo del contribuente, pena l’avvio delle incisive procedure di riscossione coattiva, che oramai costituiscono un forte deterrente.

Il regime della decadenza e della tolleranza, qualora non venga rispettato il piano di rateizzazione, è uguale a quello delle rateizzazioni per debiti su-periori ad euro cinquantamila, che ora tratteremo.

29 In tal senso la non più attuale Direttiva Equitalia, 1° marzo 2012, Prot. n. 2012/2523, Direttiva di gruppo n. 7/2012.

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3. Le rateizzazioni di Equitalia subordinate alla situazione di difficoltà obiet-tiva e temporanea

3.1. Le rateizzazioni ordinarie: il potere funzionalmente vincolato dell’agente della riscossione ed i parametri numerici

L’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973 ha registrato le seguenti modifiche a partire dal 1999:

i) fu sostituito l’inciso «L’amministrazione ... ha la facoltà di concedere ...» con «L’agente della riscossione ... può concedere ...»

ii) e, poi, è stato introdotto il presupposto della «temporanea situazione di obiettiva difficoltà».

Per stabilire la natura vincolata o discrezionale dell’attività dell’agente della riscossione la prima modifica normativa

30, ad un isolato esame, può ri-sultare irrilevante. Però la seconda modifica, introducendo un elemento di carattere tecnico (la temporanea situazione di obiettiva difficoltà), ha posto le premesse per ritenere il potere dell’agente un potere funzionalmente vin-colato.

Nell’immediato, però, tale doppia modifica legislativa non risolveva la questione, visto che c’era una scarsa esperienza degli uffici nella valutazione della «temporanea ed obiettiva situazione di difficoltà», concetto fino ad allora estraneo alla logica tributaria.

Inizialmente, la temporanea situazione di difficoltà è stata definita come «l’impossibilità di pagare il debito iscritto a ruolo in un’unica soluzione; pur tuttavia, il contribuente è in grado di sopportare l’onere finanziario derivante dalla ripartizione del debito in un numero di rate congruo rispetto alle condi-zioni patrimoniali. Ciò, fermo restando, naturalmente, che la situazione di dif-ficoltà non deve essere così grave da comportare, anche per l’avvenire, l’im-possibilità di assolvere, pur se ratealmente, il debito iscritto a ruolo»

31. A partire dal 2008, a fronte di questa vaghezza interpretativa, non facil-

mente superabile, Equitalia ha preferito elaborare dei parametri numerici qualora il debito da rateizzare sia superiore a cinquantamila euro (preceden-ti ventimila euro). Dunque, le Direttive di Equitalia hanno comportato un

30 In relazione al diverso istituto dell’accertamento con adesione, che l’utilizzo del ter-mine «... può ...» indichi la legittimazione del potere vincolato di cui gode l’Amministra-zione, si veda MARELLO, L’accertamento con adesione, Torino, 2000, p. 141 s.

31 Min. Fin., Circolare, 26 gennaio 2000, n. 15.

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notevole restringimento dell’area di discrezionalità dell’agente della riscos-sione

32. Pur nella consapevolezza che le Direttive non sono vincolanti 33, es-

se, esemplificando e disciplinando le ipotesi più ricorrenti, hanno dettato la regola del caso concreto e quindi in tale perimetro non vi può essere eserci-zio di discrezionalità. Ciò è tipico delle agevolazioni, dove le Direttive o le circolari, almeno per i casi positivamente risolti, non daranno mai vita ad un contenzioso. Già si anticipa che i parametri indicati in queste Direttive non hanno valore assoluto, in quanto, come si vedrà, è esplicitamente consentito al contribuente di dimostrare la propria situazione di temporanea ed obiet-tiva difficoltà utilizzando parametri o circostanze di fatto diverse.

Esaminiamo ora la disciplina della rateizzazione alla luce della prassi. Per debiti superiori ad euro cinquantamila (prima del maggio 2013 il li-

mite era di ventimila euro), la rateizzazione viene concessa da Equitalia sol-tanto se viene comprovato, in modo documentale, il presupposto della «tem-poranea situazione di obiettiva difficoltà».

Per le società (società di capitali, società di persone in contabilità ordina-ria o semplificata, imprenditori individuali in contabilità ordinaria) l’unico pa-rametro

34 che viene considerato, quale condizione per accedere alla rateiz-zazione, è l’indice di liquidità, il quale viene ricavato dal bilancio e deve es-

32 In tal senso, sulla riduzione dei margini di discrezionalità, BASILAVECCHIA, Rateizza-zioni rinegoziabili anche per omissioni future del contribuente, in Corr. trib., 2011, p. 1293. CANNIZZARO, Il fermo e l’ipoteca nella riscossione coattiva dei tributi, Torino, 2013, p. 37, ri-tiene, al di là della fattispecie delle rateizzazioni automatiche, che l’attività di valutazione del-l’agente della riscossione sia discrezionale e che, questi, possa portare avanti il procedi-mento esecutivo, pur nel caso in cui il beneficio sia stato concesso e il contribuente risulti in regola con i pagamenti.

33 LA ROSA, Principi di diritto tributario4, Torino, 2012, pp. 279-282 ritiene che l’attività di indirizzo degli uffici centrali rispetto a quelli periferici sia la conseguenza della comples-sità dell’organizzazione e dell’esistenza anche di non indifferenti aree di discrezionalità; una eventuale inosservanza delle Direttive, se esse hanno ad oggetto profili non interpreta-tivi, potrà costituire di per sé un sintomo di illegittimità, sotto il profilo dell’eccesso di po-tere, dell’atto amministrativo. Si v. anche DE MITA, Il giusto peso delle circolari interpretative, in Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2012, sottolinea come «la vita pratica del diritto è fatta dalle circolari che spesso disattendono le leggi, introducendo distinzioni che non esistono e che contrastano non di rado con lo spirito della legge». Si v. anche SERRANÒ, L’affievolita fun-zione direttiva delle circolari alla luce della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 23031 del 2 novembre 2007, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 15.

34 Esso esprime la disponibilità dell’impresa di somme liquide nel breve periodo di do-dici mesi è dovrà essere inferiore ad uno; se l’indice è superiore ad uno ciò significa che il contribuente non versa in difficoltà finanziarie e dunque non avrà diritto alla rateizzazione. Si v. anche Equitalia, Direttiva 1° marzo 2012, n. 7/2012.

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sere attestato da un professionista abilitato qualora il debito da rateizzare sia superiore ad euro cinquantamila

35. Tale indice, comunque, non ha un valore assoluto, nel senso che il con-

tribuente, al di là del dato numerico, può chiedere un esame specifico e ana-litico della propria situazione. Infatti, potrebbe accadere che l’indice di li-quidità non esprima la reale situazione dell’impresa, perché ad esempio no-nostante la società abbia formalmente un buon indice di liquidità, a motivo di rilevanti crediti esposti nell’attivo – che impedisce di accedere alla rateiz-zazione –, di fatto la sua liquidità può risultare pessima, perché tali crediti, essendo vantati verso pubbliche amministrazioni, sono in realtà inesigibili. Tali evenienze sono prese in considerazione da Equitalia, che con la Direttiva 13 maggio 2008, n. 17 ha esemplificato ulteriori ipotesi: a) improvvise ed oggettive crisi del mercato di riferimento, anche locale; b) evento impreve-dibile provocato da cause di forza maggiore. Di converso, la rateizzazione è negata se la società è cancellata dal registro delle imprese o si trasferisce all’estero, a meno che non venga concessa una polizza bancaria o assicurati-va

36. Un’altra ipotesi in cui l’indice di liquidità non esprime la reale situa-zione dell’impresa si ha quando la liquidità di cui si dispone è destinata ad un rilevante programma di investimento, che potrebbe essere pregiudicato dall’obbligo di corrispondere interamente il carico tributario

37. La temporaneità della situazione di difficoltà, elemento senz’altro più di-

namico, delicato e impercettibile rispetto all’obiettiva difficoltà, è stata posta in secondo ordine, ed è stata oggettivata attraverso il c.d. indice alfa, che è legato alla produzione dell’impresa, a differenza dell’indice di liquidità, sopra esaminato, che, invece, è di natura prettamente finanziaria

38.

35 L’indice di liquidità è così costruito: al numeratore va indicata la somma delle dispo-nibilità liquide (depositi e denaro in cassa indicate nella sezione IV della macrovoce C del bilancio), dei crediti a breve (verso clienti, verso società controllate, controllanti e collega-te, verso altri e verso l’Erario, indicati nella sezione II della macrovoce C) e degli altri titoli che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie (sezione III della macrovoce C); men-tre al denominatore va indicata la somma del passivo a breve (macrovoce D del passivo, limitatamente agli importi a breve termine). V. Equitalia, Direttiva 6 ottobre 2008, n. DSR/NC/2008/36.

36 Equitalia, Direttiva 15 aprile 2011, n. 12. 37 Si veda la fine dei parr. 3 e 4 38 L’indice alfa, che ha rilievo soltanto per stabilire la durata della rateizzazione, è così

costruito: al numeratore va indicato il debito tributario, con relativi accessori, da rateizza-re, a cui vanno sommati gli altri debiti già oggetto di rateizzazione; mentre al denominato-re va indicata la somma delle voci del bilancio A.1 (ricavi), A.3 (variazioni lavori) e A.5 (altri ricavi), che identificano di fatto il valore della produzione. Il risultato va moltiplicato

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La temporaneità in alcuni casi, come ad es. per le società in liquidazione, implica una specifica valutazione rispetto alle società in attività. Sul punto, Equitalia ha ripristinato, sebbene la legge nulla preveda, la possibilità che la rateazione sia garantita mediante polizza bancaria o assicurativa o ipoteca da parte di terzi, che dovranno controfirmare per accettazione l’eventuale prov-vedimento di rateizzazione

39. Sempre in relazione alle società in liquidazione, va infine ricordato che

tra le misure conservative e/o di recupero c’è la responsabilità dei liquidato-ri se, soddisfacendo crediti di ordine inferiore a quelli tributari, non riesco-no poi a pagare, con le somme rivenienti dalla liquidazione, le imposte do-vute. La medesima responsabilità investe i soci per le imposte dirette, ma nei limiti delle somme ricevute in assegnazione negli ultimi due periodi di imposta precedenti la messa in liquidazione

40. Nel caso di coobbligazione tra società si ritiene che vada esaminata la posizione del debitore iscritto a ruolo, che ha presentato l’istanza di rateazione. Se vi è fusione, va inoltrata una nuova istanza da parte del soggetto subentrante

41. Per le società, volendo tracciare una sintesi sul significato e sulla combi-

nazione tra i due parametri numerici, ovvero l’indice di liquidità e l’indice alfa, si può affermare che per accedere alla rateizzazione non rileva l’intensi-tà della crisi finanziaria. Quindi un pessimo indice di liquidità, sebbene pre-occupante, non pregiudica l’accesso alla rateizzazione. Di converso, un indi-ce alfa preoccupante, perché ad es. prossimo al valore di 100 – il che si veri- per 100. Si v. altresì la tabella contenuta nella Equitalia, Direttiva 1° marzo 2012, n. 7/2012, nonché Equitalia, Direttiva 15 aprile 2011, n. 12.

39 Se le predette garanzie non risultino acquisibili, la rateizzazione è subordinata alla condizione che l’attivo patrimoniale della società sia tale da assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, conformemente a quell’indirizzo giurisprudenziale maturato nel contesto fallimentare, secondo cui, nella predetta specifica ipotesi, può essere evitata la dichiarazione di fallimento. In particolare, secondo la Cass., 14 ottobre 2009, n. 21834, in Mass. Foro it., 2009, «Quando la società è in liquidazione, la valutazione del giu-dice, ai fini dell’applicazione dell’art. 5 della Legge fall., deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto non proponendosi l’impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di prov-vedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attività sociali, ed alla distribuzione dell’eventuale residuo tra i soci non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessa-ri per soddisfare le obbligazioni contratte».

40 Art. 36 del D.P.R. n. 602/1973. 41 V. Equitalia, Direttiva 14 gennaio 2009, n. 2009/274.

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fica quando i volumi produttivi rispetto al debito fiscale sono molto bassi – può determinare il rifiuto della rateizzazione. Con ciò si vuole dire che l’a-spetto economico assume un rilievo maggiore rispetto a quello finanziario.

Per le persone fisiche e per le ditte individuali in regime fiscale semplifi-cato, Equitalia ha adottato un diverso parametro, ovvero l’indicatore della situazione economica equivalente (c.d. ISEE)

42. In conclusione, si ritiene che la scelta amministrativa di legare l’obiettiva

difficoltà a dei parametri numerici sia stata senz’altro positiva perché rende più neutrale ed imparziale l’attività istruttoria.

3.2. Le rateizzazioni in proroga, le rateizzazioni straordinarie ed il regime tran-sitorio

Se la «... temporanea situazione di obiettiva difficoltà» peggiora nel tem-po, oppure se la situazione di difficoltà da «... temporanea» diventa «gra-ve» il legislatore consente al contribuente di ricorrere ad un piano di am-mortamento del debito più lontano nel tempo.

Tanto al fine di scongiurare la decadenza dalla rateizzazione. Anzi è bene precisare che il contribuente, prossimo alla decadenza perché è incorso nel-l’omesso pagamento di otto rate, ha l’onere di attivarsi per tempo; e tale onere, ai sensi del comma 3 dell’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973, riguarda in-distintamente sia i piani di rateizzazione “ordinaria”, sia quelli “in proroga”, sia quelli “straordinari” e, infine, sia quelli “straordinari in proroga”.

Fermo restando, dunque, questo onere del contribuente, pena l’inizio del-le azioni esecutive, è necessario ora comprendere, brevemente, i parametri numerici prescelti dal legislatore per differenziare i diversi tipi di crisi.

Per le rateizzazioni ordinarie, già è stata illustrata nel precedente paragra-fo la dinamica dei parametri numerici.

Per accedere alla seconda tipologia di rateizzazione, denominata “rateiz-zazione in proroga” la crisi aziendale deve risultare peggiorata

43.

42 V. D.P.C.M. 7 maggio 1999, n. 221. Si vedano anche Equitalia, Direttiva 13 maggio 2008, n. 17, e Direttiva 14 gennaio 2009, n. 2009/274.

43 Il peggioramento, secondo le Direttive di Equitalia, sussiste quando, sulla scorta di una situazione economico patrimoniale aggiornata della società, emerge che l’indice di li-quidità si è ridotto rispetto a quello inizialmente calcolato in occasione della dilazione ori-ginaria. Con la rateizzazione “in proroga” parte una nuova rateizzazione con un nuovo piano di ammortamento, sostitutivo del precedente, avente un numero massimo di rate fino a settantadue. Inoltre l’importo rateizzato “in proroga” è il debito residuo, esistente alla data in cui viene chiesta la rateizzazione in proroga, e non il debito di partenza.

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Nel giugno 2013, è stata poi introdotta una nuova tipologia di rateizza-zione la quale consente di pagare fino ad un massimo di 120 rate mensili (ben dieci anni) il debito tributario

44. Essa, a sua volta, si sdoppia in “rateiz-zazione straordinaria” e rateizzazione “in proroga straordinaria”. Per acce-dere a queste due ulteriori forme di rateizzazione è necessario che «... il de-bitore si trovi, per ragioni estranee alla propria responsabilità, in una compro-vata e grave situazione di difficoltà legata alla congiuntura economica»

45. Ta-le situazione di difficoltà si manifesta al verificarsi, congiuntamente, di due condizioni, ovvero i) accertata impossibilità per il contribuente di assolvere il pagamento del credito tributario secondo un piano di rateazione ordina-rio

46; ii) valutazione della solvibilità del contribuente in relazione al piano di rateazione concedibile ai sensi del presente comma

47. È ora il caso di fare delle riflessioni di sintesi sui rapporti tra queste quat-

tro forme di rateizzazione. Tutto sommato le rateizzazioni ordinarie e quelle “ordinarie in proroga”

a 72 mesi non sono subordinate a particolari vincoli 48.

Le rateizzazioni straordinarie, invece, proprio a motivo del tempo parti-colarmente lungo del piano di ammortamento del debito (120 mesi), im-pongono una valutazione più attenta della c.d. “solvibilità” della società. In-fatti non è un caso che l’indice di liquidità deve assumere un valore compre-so tra 0,5 e uno. Dunque se l’indice assume un valore minore di 0,5 la rateiz-zazione straordinaria non può essere concessa, ma ciò non pregiudica il di-ritto del contribuente di accedere alla più elastica rateizzazione ordinaria a 72 mesi.

Quindi una prima conclusione può essere acquisita: la rateizzazione straordinaria, data la sua notevole estensione temporale, presuppone sì una crisi economica ed una crisi finanziaria, ma quest’ultima non deve essere talmente grave, bensì deve essere contenuta in quel limite dello 0,5 dell’in-

44 L’attuazione del comma 1 quinquies dell’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973 è avvenuta con il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, 6 novembre 2013, in G.U. n. 262 dell’8 novembre 2013.

45 In tal senso l’art. 52 del D.L. n. 69/2013 che ha modificato l’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973; si veda altresì Equitalia, nota del 1° luglio 2013.

46 L’importo della rata deve essere superiore al 10% del valore della produzione mensile. 47 L’indice di liquidità deve essere compreso tra 0,50 ed 1. 48 Infatti una volta che l’indice di liquidità è inferiore ad uno il diritto alla rateizzazione

è certo; solo se il secondo indice, quello “alfa”, è eccessivamente alto, allora, Equitalia si riserva una ulteriore istruttoria per comprendere la effettiva capacità del contribuente «... di sostenere l’onere finanziario derivante dalla dilazione».

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dice di liquidità. Quindi la rateizzazione straordinaria attribuisce maggiore peso all’aspetto finanziario anziché a quello economico. Il che vuol dire: una impresa in discreto stato economico ed in discreto stato finanziario può ac-cedere tanto alla rateizzazione straordinaria quanto alla rateizzazione ordi-naria.

Quando, di contro, la crisi finanziaria è notevole, ma la società può con-tare su un discreto aspetto economico-produttivo, ci saranno i presupposti per la rateizzazione ordinaria ma non per quella straordinaria. Insomma esi-ste una diversità di presupposti tra la rateizzazione ordinaria e quella straor-dinaria: va, in realtà, tenuto in debito conto che le condizioni per accedere al regime “straordinario” sono più stringenti e ciò si giustifica proprio per controbilanciare i rischi derivanti dal fatto che i tempi di rientro del debito sono molto lunghi.

Una seconda conclusione riguarda le rateizzazioni in proroga: se il peg-gioramento dell’iniziale situazione economico finanziaria, esistente all’inizio della rateizzazione, si manifesta quando il piano di ammortamento origina-rio è a buon punto (sopra si è ipotizzato a metà del piano di ammortamen-to), l’utilità pratica della proroga è notevole perché consente di portare il debito a circa nove anni complessivi (tre anni di rateizzazione ordinaria più altri sei anni di rateizzazione in proroga). Altresì, se la rateizzazione in pro-roga riguarda una originaria rateizzazione “straordinaria”, l’utilità pratica è altrettanto notevole perché consente di portare il debito a circa quindici an-ni complessivi (cinque anni già decorsi di rateizzazione straordinaria più al-tri 10 anni di rateizzazione “in proroga straordinaria”).

Infine per le persone fisiche e le imprese individuali in contabilità sem-plificata la rateizzazione straordinaria è consentita quando l’importo della rata mensile supera del 20% il reddito mensile del nucleo familiare deter-minato sulla base dell’indicatore della situazione reddituale

49. Il regime transitorio, per le rateizzazioni in proroga, fu puntualmente di-

sciplinato e si stabilì che le dilazioni, già concesse alla data di entrata in vigo-re della legge, interessate dal mancato pagamento della prima rata o, succes-sivamente, di due rate, potessero essere prorogate

50. Il regime transitorio, per

49 L’indicatore della situazione reddituale (ISR) è calcolato secondo le disposizioni dell’art. 3 del D.P.C.M., 7 maggio 1999, n. 221. Esso è dato dalla somma dei redditi com-plessivi dichiarati a cui vanno aggiunti i redditi figurativi delle attività finanziarie possedute. Da tali importi vanno poi detratte alcune voci, come ad es. quella della casa di abitazione.

50 Si veda comma 20, art. 2 del D.L. n. 225 del 29 dicembre 2010, convertito con modifi-cazioni, nella L. 26 febbraio 2011, n. 10. Si v. anche Equitalia, Direttiva 15 aprile 2011, n. 12.

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le rateizzazioni straordinarie, è invece regolato dall’art. 4 del decreto mini-steriale; esso dispone che i piani di rateazione già accordati alla data di entrata in vigore del decreto possono, su richiesta del debitore e in presenza delle con-dizioni, essere aumentati fino a 120 rate.

Trattandosi di regime transitorio, si ritiene che la presenza delle condizioni vada verificata con riferimento al momento temporale in cui fu ottenuta l’ini-ziale rateazione ordinaria o l’iniziale rateazione “ordinaria in proroga”. Se con riferimento a quel tempo sussistono le condizioni, il contribuente ha la facoltà di ottenere un piano di ammortamento “straordinario” ex novo le cui rate però non decorreranno dalla prima, bensì si sostituiranno a quelle precedentemen-te in corso. Dunque un contribuente giunto alla ventesima rata otterrà un pia-no di ammortamento straordinario decorrente dalla ventunesima rata; insom-ma il piano di ammortamento si innesta sul precedente ammortamento in cor-so. Poi, probabilmente, il contribuente avrà la possibilità di conguagliare i mag-giori importi versati in precedenza con le future rate a scadere.

Se invece le condizioni per accedere alla rateizzazione straordinaria sus-sistono solo oggi, non si applicherà più il regime transitorio dell’art. 4 del de-creto, bensì il regime ordinario.

3.3. La decadenza e la rimessione in termini

Quanto al regime della decadenza, esso è sostanzialmente rimasto im-mutato

51 fino al 2013; in particolare dal 1999 e fino al giugno 2013 il man-cato pagamento di due rate consecutive determinava l’interruzione della ra-teizzazione, con l’effetto che il contribuente doveva pagare l’intero debito, pena l’avvio delle procedure esecutive.

Invece, a partire dal 21 giugno 2013, la decadenza si verifica quando il con-tribuente omette «... nel corso del periodo di rateazione, otto rate, anche non consecutive»

52. Infine, si prescinde dal mancato pagamento di due o otto ra-te consecutive quando il debitore è assoggettato ad una procedura concor-suale; in tali casi, infatti, il contribuente decade automaticamente.

Invero, il drastico regime della decadenza è stato già derogato dal legisla-tore in una precedente occasione. Infatti, come già detto nel precedente pa-

51 Data di entrata in vigore del decreto del fare, D.L. 21 giugno 2013, n. 69, art. 52 che ha modificato l’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973.

52 L’omesso pagamento della prima rata, dunque, a differenza delle rateizzazioni dell’A-genzia delle Entrate, non comporta più la decadenza dalla rateizzazione, come accadeva fino al 2 marzo 2012.

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ragrafo, con l’introduzione del nuovo regime delle “rateizzazioni in proroga” il legislatore ha consentito una rimessione in termini per coloro che fossero decaduti da una rateizzazione concessa fino al 27 febbraio 2011; poi Equita-lia ha fornito puntuali indicazioni circa gli effetti della nuova domanda di ra-teizzazione sulle misura cautelari ed esecutive intraprese nel frattempo nei confronti dei debitori decaduti

53. Vi è dunque motivo per ritenere che le rateizzazioni, rispetto alle quali il

contribuente è decaduto secondo la precedente regola delle due rate conse-cutive insolute, possa essere rimesso in termini. Tanto è vero che Equitalia

54 ha già anticipato tale positiva conclusione.

Accantonando questi aspetti più operativi, a livello sistematico la que-stione può essere inquadrata nell’efficacia retroattiva delle disposizioni più favorevoli per il contribuente; tra le fattispecie passate la dottrina ha indica-to le disposizioni dell’art. 36 del D.P.R. n. 42/1988, i tempi di proposizione dell’azione di rimborso delle imposte già versate derivanti dal riconosci-mento di una esenzione con efficacia retroattiva; per tali fattispecie, sempre per la medesima dottrina, si sarebbe al di fuori del campo della retroattivi-tà

55, intesa quale operatività nel passato di una nuova normativa, per rien-trare in quello della sostituibilità normativa, che non richiede una prevedibi-lità, né tantomeno vi è il rischio di sanatorie.

In realtà, ogniqualvolta si verifica una causa di decadenza, il venir meno dell’agevolazione è sostanzialmente inevitabile. Ad es. in tema di credito di imposta, ex L. n. 388/2000 la Suprema Corte ha chiarito che il mancato ri-spetto del termine decadenziale comporta la perdita del beneficio; peraltro la società non aveva avuto neanche la cura di presentare, entro la scadenza minima dei sessanta giorni, prevista dallo Statuto, la prescritta comunica-zione

56. In tema di condono ex L. n. 413/1991 la giurisprudenza intanto ha affermato la validità delle definizioni tributarie, pur in assenza di pagamen-to, in quanto una successiva legge interpretativa, la n. 146/1998, ha chiarito questo aspetto dopo sette anni

57. Altresì l’inottemperanza del contribuente all’invito dell’ufficio di completare, nel termine di quindici giorni, la richie-

53 Per il regime transitorio si veda l’art. 10, comma 13 ter del D.L. n. 201/2011 nonché Equitalia, Direttiva 15 aprile 2011, n. 12/2011.

54 Equitalia, nota del 1° luglio 2013. 55 In tal senso F. AMATUCCI, L’efficacia nel tempo della norma tributaria, Milano, 2005,

p. 163. 56 Cass., sez. trib., 11 settembre 2009, n. 19627. 57 Cass., sez. trib., 2 maggio 2011, n. 9653.

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sta dell’agevolazione per l’attribuzione di un credito di imposta comporta la decadenza dall’agevolazione, vista la specifica previsione del decreto mini-steriale e considerata la sua specifica ratio di definire entro un tempo deter-minato il procedimento

58. In ambito europeo si è affermato, con riferimento alle norme sostanziali,

che sono irretroattive, salvo che dal loro testo, dalla loro ratio o dalla loro struttura risulti chiaramente l’applicabilità retroattiva

59. Per le meno proble-matiche norme procedimentali, si è affermato invece che le norme di assi-stenza alla riscossione ai crediti tributari sono applicabili anche ai crediti sorti anteriormente all’entrata in vigore della Direttiva, visto che si tratta di nor-me di procedura

60. Ora nel nostro caso, come si vedrà meglio in seguito, le norme sulla ra-

teizzazione sono inquadrabili tra le agevolazioni, pur se attengono al conte-sto della riscossione; un po’ come accade nel diverso ambito della transazio-ne fiscale disciplinata dalla legge fallimentare.

A mio modo di vedere, per risolvere la problematica dell’applicazione re-troattiva del più favorevole regime di decadenza, va privilegiata la ratio della rateizzazione.

Da un lato vi è una ratio generale, che è quella di tutelare l’integrità pa-trimoniale del contribuente disposta dallo Statuto, definito dalla dottrina co-me il secondo pilastro dell’azione impositiva

61. Infatti l’art. 8 dello Statuto prende in considerazione strumenti e istituti che attengono alla fase attuati-va e realizzativa del tributo. Se dunque, con una precisa scelta legislativa, il tradizionale predominio dell’interesse fiscale è stato messo in secondo ordi-ne rispetto all’esigenza di tutela del patrimonio del contribuente, non si rav-visano motivi per negare l’applicabilità, alle rateizzazioni decadute, del nuo-vo regime di favore delle otto rate insolute. C’è poi anche l’art. 9 dello Statuto, che consente, mediante una meno impegnativa disposizione di carattere re-golamentare, di rimettere in termini i contribuenti incorsi nella violazione degli obblighi di versamento.

58 Cass., sez. trib., 6 ottobre 2009, n. 21320. 59 Corte di Giustizia UE, 12 novembre 1981, cause riunite da C-212/80 a C-217/80,

Salumi e altri. 60 V. Corte di Giustizia UE, 1° luglio 2004, cause C-361/02 e C-362/02, Tsapalos and

Diamantakis, in Rass. trib., 2005, p. 350 con nota di POGGIOLI, Applicabilità della disciplina comunitaria di assistenza alla riscossione ai crediti tributari sorti antecedentemente all’entrata in vigore della Direttiva 76/308/CEE.

61 Sul tema si v. DEL FEDERICO, I rapporti tra lo Statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, in Rass. trib., 2011, p. 1407 ss.

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Dall’altro lato, vi è una ratio ancora più specifica, che contraddistingue la molteplicità delle forme di rateizzazione introdotte dal legislatore. Molteplici-tà che si giustifica nell’ottica di prevenire e scongiurare proprio la decadenza del contribuente, sempreché, beninteso, si attivi per tempo, prima che la de-cadenza automatica si concretizzi. Inoltre, questa molteplicità consente di perseguire in modo più completo l’interesse fiscale poiché per il realizzo del proprio credito è meno dispendioso un pagamento rateizzato, sebbene a sin-ghiozzo, che una procedura espropriativa dalla dubbia efficacia.

Se l’asticella della decadenza è stata portata ad otto rate complessive inso-lute, a me pare, conclusivamente, che la disposizione sia intrinsecamente re-troattiva per la ratio generica e la ratio specifica che contraddistingue l’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973.

Sempre in chiave critica, la decadenza presenta aspetti non di poco conto, perché, ad esempio, va stabilito se l’omesso pagamento di otto rate – com-plessive – determini sempre e comunque la revoca dell’agevolazione. In ve-rità l’essenzialità del termine, così come disciplinata, è indiscutibile.

Volendo però tentare un parallelo, non si può fare a meno di ricordare che l’essenzialità del termine è vista molto restrittivamente nell’ambito civi-listico

62, per cui non è difficile immaginare, in un contesto di mera riscos-sione, che il comportamento di Equitalia, semmai restìa ad avviare un’azione esecutiva o a contestare il tardivo adempimento di otto rate consecutive, pos-sa generare una situazione di sanatoria o di impasse, tale da rimettere il con-tribuente in termini, semmai anche per via giudiziaria. Insomma si pone il problema sul se l’essenzialità del termine sia strutturale o funzionale, soprat-tutto ad es. quando il debito provvisorio inizialmente rateizzato viene ride-terminato al ribasso in sede di merito della controversia, oppure quando il contribuente riesce a mettersi in pari – tardivamente – rispetto all’originario piano di rateizzazione.

3.4. Gli effetti dell’istanza, l’istruttoria e l’onere della prova

Fin dal 2008 Equitalia ha chiarito che, una volta presentata l’istanza di ra-teazione, inizia un procedimento amministrativo, disciplinato dalla L. 8 agosto 1990, n. 241, da concludere nel termine massimo di novanta giorni, entro cui va notificato al debitore il relativo provvedimento di diniego o di accoglimento

63.

62 Da ultimo, Cass., sez. I, 11 aprile 2011, n. 8216. 63 Equitalia, Direttiva 27 marzo 2008, n. 12.

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La tempestività nella presentazione dell’istanza ha una sua importanza 64,

ma il semplice ritardo non costituisce più un motivo di decadenza. Se il con-tribuente si attiva tempestivamente nel chiedere la rateizzazione, ovvero pri-ma che scada il termine di sessanta giorni, decorrente dalla data di notifica della cartella, le misure cautelari, quali fermo ed ipoteca, non possono essere attivate. Per le misure penali, invece, si veda il par. 2.1.

Tuttavia nel caso degli accertamenti esecutivi al contribuente è impedito di presentare tempestivamente l’istanza di dilazione

65, dovendo egli atten-dere il trasferimento del carico tributario ad Equitalia

66, con conseguente ag-gravio degli interessi di mora e dell’aggio. L’aggravio non è trascurabile per-ché il contribuente, per accedere alla rateizzazione, oltre all’aggio del 4,65% – dovuto anche per le rateizzazioni automatiche che, come si è visto, non danno luogo a nessuna istruttoria – dovrà corrispondere anche la restante parte del 4,35%. Aggio che, peraltro, matura anche sugli interessi di mora. Questo aggravio ingiustificato, per chi vuole accedere alla rateizzazione, è probabilmente volto a compensare i minori interessi di mora che attualmen-te possono essere calcolati solo sulla sorta capitale e non anche sulle sanzioni e sugli interessi, come invece accadeva in precedenza

67. La questione è stata affrontata anche in tema di accise dalle Dogane

68, che hanno confermato tale

64 Ai fini del codice dei contratti pubblici, l’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006 dispone l’esclusione dagli appalti di coloro «... che hanno commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legi-slazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti». Al riguardo il Cons. Stato, ad. plen., 5 giugno 2013, n. 15 ha statuito che «... non è ammissibile la partecipazione alla pro-cedura di gara, ex art. 38, comma 1, lett. g, del codice dei contratti pubblici, del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione». Quindi ciò che rileva per la normativa sugli appalti pubblici è l’accoglimento e non la sem-plice presentazione dell’istanza di rateizzazione.

65 LA ROSA, Riparto delle competenze e “concentrazione” degli atti nella disciplina della ri-scossione, in GLENDI-UCKMAR (a cura di), La concentrazione della riscossione nell’accerta-mento, Padova, 2011, p. 89, ritiene che nulla osta a che la istanza di rateizzazione venga avanzata all’agente immediatamente dopo la notifica dell’avviso di accertamento, per il tra-mite della stessa Agenzia.

66 Agenzia delle Entrate, Circolare 15 febbraio 2011, n. 4/E, punto 11. 67 Si configurava un vero e proprio anatocismo a cui il legislatore ha posto rimedio con

l’art. 7, comma 2 sexies del D.L. n. 70/2011; invece l’anatocismo a favore del contribuente era stato rimosso prudenzialmente fin dal 4 agosto 2006 (art. 37, comma 50, del D.L. n. 223/2006).

68 Direzione Interregionale per l’Emilia Romagna e le Marche, risposta ad un interpello del 22 giugno 2012.

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negativo indirizzo: la rateizzazione può essere concessa solo da Equitalia, giammai dalle Dogane.

Al di fuori di questa ipotesi di tardività obbligata, se invece la rateizzazio-ne viene chiesta tardivamente, quando già sussiste la morosità del contri-buente, l’ipoteca nel frattempo iscritta può essere mantenuta.

Invece, con il pagamento della prima rata, le altre misure come il provve-dimento di fermo amministrativo, le procedure esecutive avviate, lo status di soggetto inadempiente, ai fini del blocco dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni, vengono meno

69. Su quest’ultimo aspetto, del blocco dei pagamenti, è il caso di ricordare la posizione di Equitalia

70: se nelle more dell’esame di una istanza tempestiva scade il termine di pagamento dei ses-santa giorni il blocco comunque opererà, ma non consentirà l’incasso delle somme bloccate, almeno fino a quando l’istanza di rateizzazione non sarà re-spinta. Se invece l’istanza di rateazione viene accolta, il blocco cesserà i pro-pri effetti.

Le Direttive di Equitalia, limitatamente ai casi esemplificati, per i quali può essere accolta la rateizzazione, si ritiene alleggeriscano la posizione del contribuente perché sono senz’altro vincolanti per l’Amministrazione, che non potrà facilmente discostarsene. Ciò peraltro conformemente al princi-pio costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione. Le Diret-tive, quindi, a nostro modo di vedere, sebbene siano non vincolanti in quan-to esprimono la prassi dell’agente della riscossione, determinano in pratica una inversione dell’onere della prova circa la sussistenza del requisito della temporanea situazione di obiettiva difficoltà. Ciò è tipico delle fattispecie agevolative, tra cui rientra la rateizzazione, perché almeno per i casi positi-vamente risolti nei documenti di prassi, il contenzioso non ha ragione di manifestarsi, favorendo così il felice esito della riscossione, nell’interesse sia dell’Erario che del contribuente

71. Di contro, per i casi negativamente risolti dalle Direttive, che probabilmente daranno vita al contenzioso, sarà il con-tribuente a dover dimostrare, al fine di godere della rateizzazione, che sussi-ste il presupposto della temporanea situazione di obiettiva difficoltà, utiliz-zando se del caso elementi di fatto tra di loro gravi, precisi e concordanti.

Invero, va dato atto della crescente attenzione di Equitalia e dell’Agenzia per applicare e rispettare al meglio la ratio insita nella richiesta di rateizza-

69 Equitalia, Direttiva 27 marzo 2008, n. 12. 70 Equitalia, Direttiva 15 aprile 2011, n. 12. 71 Ciò si è verificato ad es. in tema di condono fiscale o di scudo fiscale dove le circolari

hanno integrato non poco il carente dato normativo.

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zione, che quindi in linea di principio non va negata. In quest’ottica, il con-traddittorio tra le parti, molto più fattivo rispetto al tipico ambito dell’accer-tamento, è giustificato ed è favorito dal contesto, perché il contribuente an-ziché difendersi dalla contestazione di un maggior reddito intende conse-guire un’agevolazione.

3.5. Il fondato pericolo e le ipoteche per “assicurare la tutela del credito”

Il positivo esito della riscossione, qualora sussista un periculum in mora per le ragioni di credito dell’Erario, è assicurato da due strumenti, tra loro funzionalmente collegati: la formazione del ruolo per l’intera somma, senza dover osservare le regole sulla riscossione frazionata in pendenza di giudi-zio

72, e l’iscrizione ipotecaria e/o altre forme di mezzi conservativi, come il fermo amministrativo, che sono preordinati alla successiva esecuzione. Or-bene la rateizzazione concessa da Equitalia, siccome prescinde dalla causale sottostante il ruolo, potrebbe negativamente incidere sull’effettività della tu-tela del credito dell’Amministrazione e pare quasi che sussista una contrad-dizione tra la dilazione e tutto ciò che invece il legislatore ha apprestato ne-gli anni per garantire l’incasso del dovuto.

In particolare, limitando l’esame agli accertamenti esecutivi, emessi a partire dal primo ottobre 2011

73, per Imposte sui redditi, IVA e IRAP, essi sono titolo per la riscossione delle somme in esso contenute, applicando, se è stato presentato il ricorso, le regole della riscossione frazionata in penden-za di giudizio. Se il pagamento non avviene nel termine di sessanta giorni

74,

72 Si ricorda che la riscossione frazionata riguarda solo i crediti derivanti da avvisi di ac-certamento, mentre per i crediti derivanti ad es. da liquidazioni ex art. 36 bis del D.P.R. n. 600/1973 viene iscritto a ruolo sempre l’intero importo.

73 V. art. 29 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 nonché art. 23, comma 30, del D.L. 6 luglio 2011, n. 98.

74 CARINCI, La concentrazione della riscossione nell’accertamento, in GLENDI-UCKMAR (a cura di), op. cit., p. 50 ritiene che il pagamento nei termini, al fine di evitare l’aggressione esecutiva, dovrebbe consentire la fruizione del beneficio dell’abbattimento delle sanzioni accordate per l’acquiescenza all’avviso di accertamento. Una questione sostanzialmente simile si verifica qualora il contribuente intende definire le sole sanzioni. Se il contenzioso per l’imposta dovesse risultare favorevole per il contribuente ciò non determina la restitu-zione delle sanzioni, nonostante l’art. 19, comma 6, del D.Lgs. n. 472/1997 prevede che «se in esito alla sentenza di primo o di secondo grado la somma corrisposta eccede quella che risulta dovuta, l’Ufficio deve provvedere al rimborso entro novanta giorni dalla comu-nicazione o notificazione della sentenza». In tal senso si è espressa l’Agenzia, Circolare 12 marzo 2010, n. 12/E.

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scatta la morosità del contribuente che dovrà corrispondere sia gli interessi di mora, secondo le misure fissate dall’art. 30 del D.P.R. n. 602/1973, sia l’ag-gio, sia il rimborso delle spese relative alle procedure esecutive

75. Spirato que-sto termine di sessanta giorni il carico viene trasferito con modalità telema-tiche

76 ad Equitalia affinché attivi, una volta decorso un tempo tecnico mi-nimo di trenta giorni, eventuali azioni cautelari e conservative, mentre per le azioni esecutive l’agente della riscossione dovrà attendere ulteriori centot-tanta giorni, che costituiscono una sorta di sospensione forzata.

Invece, se sussiste il fondato pericolo per la riscossione, questi due ter-mini “di grazia”, di trenta e di centottanta giorni, possono essere superati. Infatti il primo termine di trenta giorni – decorrente dalla data di notifica dell’accertamento e non dalla data di proposizione del ricorso, che è una data mobile – può essere evitato se l’Agenzia ritiene sussistente il fondato pericolo per il positivo esito della riscossione, che evidentemente dovrà essere motivato nell’avviso di accertamento. Il secondo termine, relativo alla “sospensione forzata”, altresì, può essere evitato dall’agente ove «... venga a conoscenza di elementi idonei a dimostrare il fondato pericolo di pregiudicare la riscossione». Ora non si comprende esattamente la finalità di questa seconda attività: se la verifica è avvenuta già nell’accertamento, perché rinnovarla, ponendo un obbligo anche a carico dell’agente della ri-scossione? Forse si voleva intendere che se l’agente viene a conoscenza di un fondato pericolo, che evidentemente l’Agenzia non ha riscontrato, po-trà attivare la riscossione per l’intero. Ma il dato letterale, non brillando per chiarezza, non consente di concludere in questo senso

77. Stando così le cose, si ritiene che tale doppia verifica si estrinsechi in un

esame iniziale dell’Agenzia 78, al quale segue quello eventualmente confer-

75 Ciò per effetto dell’art. 29, comma 1, lett. f), del D.L. n. 78/2010. 76 V. Provv. Agenzia delle Entrate, di concerto con il Ragioniere generale dello Stato,

30 giugno 2011, n. 2011/99696. 77 GIOVANNINI, Riscossione straordinaria e misure cautelari, in Giur. it., 2012, p. 979, do-

po aver premesso che è in discussione non la concentrazione del titolo esecutivo, quanto l’organicità complessiva della novella, ritiene che l’agente della riscossione abbia solo una funzione propulsiva e non provvedimentale, spettando quest’ultima all’Agenzia, quale ente titolare del credito, la valutazione del fondato pericolo. Quindi la conoscenza ex post del fondato pericolo, deve essere motivata attraverso un atto confezionato dall’Amministra-zione, sia perché essa è titolare del credito, sia perché il ruolo, essendo stato sostituito, non ha più natura di titolo esecutivo. Questa sarebbe l’unica strada che consentirebbe la valu-tazione, in sede di giudizio, della necessarietà, della proporzionalità e dell’adeguatezza del-le misure adottate, per poi stabilire, se del caso, la determinazione del danno patito.

78 MICCINESI, L’esecutività dell’accertamento: rilevanza sistematica ed impatto sul sistema,

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mativo di Equitalia. Siffatta doppia attribuzione del medesimo potere a due soggetti

79, formalmente e sostanzialmente diversi, accresce il rischio di com-portamenti contraddittori e circolari, determinando nel contempo un inde-bolimento ed una vanificazione dello strumento

80. Equitalia, nell’ambito delle Direttive sulle rateizzazioni, non ha preso po-

sizione sulla questione del fondato pericolo, ma ha preferito individuare le situazioni a maggiore rischio di inadempimento, come quella della cessazione dell’attività, sempreché l’attivo non sia in grado di soddisfare interamente i creditori, quella del trasferimento della sede all’estero e quella in cui il contri-buente ha un indice alfa superiore a cento. Quindi Equitalia ha tralasciato la verifica di quell’altro elemento, di tipo dinamico, consistente nell’attività di depauperamento del patrimonio, che invece l’Agenzia, dal canto suo, ritiene necessario.

Quindi, non è affatto escluso che una rateizzazione possa coesistere con il fondato pericolo, così come è possibile che la rateizzazione venga negata, nonostante non vi sia un fondato pericolo. Altresì non è escluso che, pur sussistendo il fondato pericolo, il contribuente abbia rateizzazioni in corso, puntualmente onorate, derivanti dalle liquidazioni automatizzate delle di-chiarazioni o da atti di definizione. Inoltre, data la dimensione temporale del fondato pericolo, è possibile che si verifichi una disomogeneità di trattamento tra i diversi debiti e può ben accadere che per quelli remoti il contribuente abbia conservato lo status di debitore normale, mentre per quelli successivi, a fronte semmai della sproporzione degli importi accertati, abbia acquisito lo status di debitore “pericoloso” sotto il profilo della riscossione.

Ad ogni modo, nei casi meno estremi, in disparte le ragioni di un’armo-nia del sistema, la coesistenza di un fondato pericolo e la concessione di una dilazione può essere un modo pratico per superare l’impasse e per alleggerire la posizione del contribuente. in GLENDI-UCKMAR (a cura di), op. cit., p. 69, definisce tale attività come attività di intelli-gence sulla situazione patrimoniale e finanziaria del debitore.

79 Circa la possibile contraddizione, conseguente all’intervento di due soggetti, si v. MES-SINA, I riflessi degli accertamenti esecutivi sull’adozione delle misure cautelari pro-fisco, in GLEN-DI-UCKMAR (a cura di), op. cit., p. 571. L’autore rileva una contraddizione del sistema, perché l’Agenzia dovrebbe avviare un procedimento presso il giudice in contraddittorio, mentre l’a-gente della riscossione, una volta ricevuto il carico, può procedere direttamente.

80 Su tale aspetto LOVECCHIO, La concentrazione della riscossione nell’accertamento nella manovra d’estate 2010, in Boll. trib., 2010, p. 1609, evidenzia come la riscossione nel caso di fondato pericolo, essendo svincolata dalla scansione dei termini processuali, debba esse-re attuata con molto equilibrio qualora ad es. il contribuente abbia formulato una istanza di accertamento con adesione.

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Va comunque puntualizzato, in contesti di periculum in mora per l’Erario, che neanche si deve giungere all’eccesso, per cui la riscossione dell’intero, an-ziché del terzo, determini essa stessa, in un ragionamento di tipo circolare, il presupposto per negare una rateizzazione che si presenta difficilmente so-stenibile sotto il profilo finanziario; quindi la misura degli importi messi in riscossione non è affatto irrilevante e probabilmente il parametro per valuta-re la legittimità dei comportamenti dell’Amministrazione dovrebbe essere il debito nella sua misura di un terzo.

Va d’altronde ricordato, che il fondato pericolo ha un meccanismo di ri-equilibrio, perché i suoi effetti cessano con la sentenza di primo grado «... che accoglie il ricorso del contribuente e annulla l’atto impositivo»; infatti tale sentenza, sia pure non definitiva (non essendosi ancora formato il giudi-cato), priva l’atto impositivo di qualsiasi effetto

81. La Suprema Corte prose-gue affermando «... dunque la legge vuole che la situazione patrimoniale del contribuente non sia pregiudicata da un atto amministrativo che il giudice competente ha valutato illegittimo; neppure sotto il limitato profilo di un di-ritto dell’Amministrazione a trattenere quanto versato, magari spontanea-mente, dal contribuente». Se invece il ricorso viene accolto le regole da os-servare saranno quelle dell’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992.

Peraltro, per quanto possa sussistere un pericolo per la riscossione, va tenuto presente che esistono delle cautele penali. Alcune di esse operano in via preventiva perché la semplice circostanza dell’omesso versamento del-l’IVA o delle ritenute certificate è sufficiente a far scattare il reato di omesso versamento. Altre misure, sempre contenute nel D.Lgs. n. 74/2000, come quella della sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, interven-gono successivamente, ma hanno una notevole deterrenza perché si tratta di reati di pericolo, in cui il delitto si perfeziona per il solo fatto che il contri-buente aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti, sui propri o su altrui beni, idonei a rendere, in tutto o in parte, inefficace la procedura di ri-scossione coattiva, prescindendosi quindi dalla circostanza che la procedura coattiva venga attuata e risulti vana

82. Le predette cautele penali, unitamen-te all’azione revocatoria, attivabile quando esiste un pregiudizio irreversibile per la positiva riscossione, contrastano efficacemente quelle attività di spo-liazione patrimoniale che nel concreto possono effettivamente pregiudicare

81 In tal senso, Cass., sez. trib., 22 settembre 2006, n. 20526. 82 CIANI, Interferenze tra il reato di sottrazione fraudolenta e la riscossione straordinaria nei

nuovi atti impoesattivi, in Boll. trib., 2011, p. 1677, ritiene che il fondato pericolo per la riscos-sione riscontrato nella sede amministrativa abbia un inevitabile e scontato riflesso penale.

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l’attività di riscossione. Per il rapporto tra misure cautelari penali e adempi-mento del debito tributario si rimanda al par. 2.1.

In tale contesti di periculum in mora per l’Erario, l’ipoteca si conferma uno strumento essenzialmente di natura cautelare

83 e per tale ragione andrà azionata in sede esecutiva soltanto quando il debito diventerà definitivo. Tale conclusione è a maggior ragione valida nel caso dei nuovi accertamenti, la cui esecutività è intrinsecamente debole, visto che gli importi in essi indicati sono espressamente richiesti a titolo provvisorio

84. Pertanto l’interrogativo circa la doppia anima dell’ipoteca, ovvero strumento cautelare e/o strumen-to di realizzazione del credito, non può prescindere dalla definitività del credito sottostante e, in ultima analisi, dalla parallela considerazione delle e-sigenze di tutela del contribuente.

Sul fronte delle ipoteche, desta qualche perplessità quella disciplinata dal dirompente art. 77, comma 1 bis del D.P.R. n. 602/1973, che permette all’a-gente della riscossione, nonostante il contribuente abbia tempestivamente presentato l’istanza di rateizzazione, di iscrivere l’ipoteca; questo è il dato inesorabile che pare scaturisca dal collegamento funzionale tra l’art. 19 e l’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973. Emergono due considerazioni

85: da un lato la norma non stabilisce esplicitamente quali siano le condizioni che devono sussistere affinché l’agente possa iscrivere l’ipoteca, e quindi il potere dell’a-gente sembra quasi sconfinato. Invece, dall’altro lato, non si può tollerare un’incoerenza, in quanto una norma permette un’iscrizione ipotecaria pri-

83 La natura cautelare è stata sottolineata dalla Cass., sez. VI, 20 giugno 2012, n. 10234 che, nell’esaminare una vicenda, in cui il contribuente si lamentava per non aver ricevuto l’intimazione di pagamento prima dell’iscrizione ipotecaria, ha statuito che l’iscrizione ipo-tecaria non può essere considerata «mezzo preordinato all’espropriazione forzata». L’inti-mazione di pagamento, per la Corte, invece, è indispensabile soltanto prima dell’avvio del-la espropriazione forzata vera e propria, anche perché l’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973 rin-via solo al comma 1 e non anche al comma 2 dell’art. 50 del medesimo decreto.

84 D’AMATI, L’avviso di accertamento come titolo esecutivo, in Dir. prat. trib., 2011, I, p. 1151.

85 BUCCICO, Misure cautelari a tutela del credito erariale, Torino, 2013, 162, nonché CANNIZZARO, op. cit., p. 102, esprimono la posizione che la norma ha la finalità di porre fine a tutte le discussioni dottrinali e giurisprudenziali sul collegamento tra gli artt. 76 e 77 del D.P.R. n. 602/1973. Peraltro il detto comma 1 bis dell’art. 77 del D.P.R. n. 602/1973 è stato modificato a giugno 2013 nel senso che l’iscrizione ipotecaria è consentita «anche quando non si siano verificate le condizioni per procedere all’espropriazione forzata di cui all’art. 76 commi 1 e 2». L’inciso «anche» confermerebbe, secondo me, che esistono fat-tispecie ulteriori per l’iscrizione ipotecaria, come quella appena esaminata nel par. 3.5 con riferimento al combinato disposto dell’art. 19, comma 1 quater e dell’art. 77, comma 1 bis del D.P.R. n. 602/1973.

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ma dello spirare del termine utile per la presentazione dell’istanza di rateiz-zazione mentre un’altra norma, contemporaneamente, la vieta se è stata ac-cordata la rateizzazione.

Probabilmente il legislatore, proprio nell’intento di controbilanciare gli ef-fetti derivanti dall’assenza di discrezionalità nella rateizzazione, ha indiret-tamente ripristinato la “garanzia”, attribuendo all’agente la facoltà di iscrive-re ipoteca al solo fine di assicurare il credito, a prescindere dallo spirare del termine di pagamento della cartella. Si tratta evidentemente di una misura estrema, che richiede un quid pluris, e che rientra in quegli strumenti di tipo dissuasivo cautelare come le disposizioni in tema di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, la proposizione dell’istanza di fallimento o l’ini-zio dei procedimenti di revocatoria.

Sempre in tema di garanzie, nelle ipotesi di dubbia reversibilità della crisi (cessazione e/o messa in liquidazione dell’attività, trasferimento della sede all’estero o incapienza patrimoniale), il contribuente ha comunque la possi-bilità, per conseguire la rateizzazione, di rilasciare una garanzia bancaria o assicurativa oppure può far concedere un’ipoteca da terzi (sebbene non sia più richiesta dalla legge), che dovranno controfirmare per accettazione l’e-ventuale provvedimento di rateizzazione

86. Quanto sopra è senz’altro un elemento di disturbo circa il profilo struttu-

rale della rateizzazione, visto che la sua natura di agevolazione risulterebbe poco compatibile con queste interferenze di soggetti (il subentro del terzo); ma ciò conferma, in un rapporto di complementarietà rispetto alla rateizza-zione, la possibilità di addivenire a modalità satisfattive del debito tributario ulteriori rispetto a quelle tipizzate. Nella stessa direzione può muovere an-che il predetto nuovo comma 1 bis, art. 77, del D.P.R. n. 602/1973 che con-sente, al solo fine di assicurare il credito, di iscrivere l’ipoteca. Ebbene la nor-ma potrebbe essere ad es. applicata quando il contribuente, pur avendo una liquidità sufficiente per pagare il debito, ha l’esigenza di non pregiudicare un piano di investimenti e chiede all’agente una moratoria, ovvero chiede di fatto l’impegno – non formalizzato – a non agire. In tale evenienza sembra-no dunque riemergere profili di discrezionalità.

86 In tal senso Equitalia, Direttiva 15 aprile 2011, n. 12.

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4. La giurisdizione e la dialettica processuale

4.1. La giurisdizione: la natura di agevolazione tributaria

Negli ultimi anni si è riproposto agli operatori l’interrogativo di indivi-duare il giudice competente a decidere sull’impugnativa del provvedimento di diniego.

Secondo l’impostazione tradizionale della dottrina, la presenza di profili di discrezionalità amministrativa, almeno in punto di determinazione dell’e-stensione della rateazione, nonché la sua collocazione a valle dell’an e del quantum, hanno fatto concludere per la giurisdizione del giudice ammini-strativo

87. Ma la giurisprudenza è stata di diverso avviso

88 ed ha stabilito in modo piuttosto conciso che:

le controversie attinenti alla rateizzazione del debito tributario spetta-no alla giurisdizione tributaria, anche se la decisione debba essere assunta in base a considerazioni estranee alla materia tributaria;

la ripartizione del carico tributario va incontro alle necessità del debito-re per il quale, quindi, rappresenta un’agevolazione che nel linguaggio co-mune ha il significato di aiuto, favore, facilitazione.

In un successivo intervento, stavolta delle Sezioni Unite 89 si è inciden-

87 In tal senso LA ROSA, Principi di diritto tributario, cit., p. 381, che sembra così circo-scrivere la discrezionalità alla determinazione del tempo della rateizzazione. Altresì, circa il tema della giurisdizione, BASILAVECCHIA, Il riparto di giurisdizione tra commissioni tributarie e giudice amministrativo ordinario, in Boll. trib., 1990, p. 817, già all’epoca, nel respingere l’idea di fondare il riparto della giurisdizione in funzione delle situazioni giuridiche tutela-te, evidenziava che, nonostante fossero ravvisabili profili di discrezionalità, doveva prevale-re la consapevolezza che la rateizzazione incideva su profili di tipo sostanziale che riguar-davano le modalità ed i tempi di riscossione del tributo. Va ricordato, inoltre, che ai fini della giurisdizione, la Cass., sez. un., 27 marzo 2007, n. 7388 ha statuito che anche gli atti tipi-camente espressione di poteri discrezionali, come l’autotutela, sono impugnabili dinanzi al giudice naturale, ovvero al giudice tributario, visto che la giurisdizione è definita mediante una clausola generale. Si v. MONTI, La discrezionalità nell’azione amministrativa in materia tributaria e prospettive di riforma del contenzioso tributario, in Dir. prat. trib., 2008, I, p. 395. Tuttavia TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2011, I, p. 175 precisa che l’eser-cizio dei poteri di autotutela non presuppone valutazioni di convenienza, bensì vanno esercitati in applicazione della regola della buona fede.

88 Cass., 30 marzo 2010, n. 7612 e poi la successiva 1° luglio 2010, n. 15647. 89 Cass., sez. un., 14 marzo 2011, n. 5928, in Riv. dir. trib., 2011, II, p. 505 con nota di

GUIDARA, Note in tema di giurisdizione tributaria sulle dilazioni di pagamento.

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talmente e brevemente sottolineato che «... anche a prescindere dal concet-to di agevolazione è fuor di dubbio che la controversia riguarda la fase della riscossione del tributo, concernendo in particolare una modalità di riscos-sione che la legge predispone per l’ipotesi di contribuenti che si trovino in determinate condizioni economicamente sensibili».

La posizione della Corte è stata un po’ criticata visto che l’agente non e-serciterebbe un potere vincolato ma discrezionale, per cui il vizio dell’atto potrebbe rientrare più nell’eccesso di potere, che appartiene alla giurisdizio-ne amministrativa. Infatti si afferma che il contribuente non ha un diritto, bensì un interesse legittimo, perché il rifiuto può essere giustificato anche da valutazioni di interesse pubblico; quindi, mentre nel diritto tributario ci tro-viamo nell’ambito vincolato, per le rateizzazioni ciò non accadrebbe

90. Per quanto riguarda la nozione di agevolazione si fa rilevare che essa va

riferita non solo alle norme che comportano una riduzione del carico impo-sitivo, ma anche a quelle che, sotto il profilo attuativo, determinano per il contribuente un trattamento preferenziale. Ed è indubbio il vantaggio che si consegue con una rateizzazione a sei anni. Ma tale vantaggio è volto a com-pensare lo svantaggio – comprovato dalla situazione di temporanea ed obiet-tiva difficoltà – che il contribuente subirebbe ove dovesse pagare interamen-te e prontamente il carico tributario.

Lo svantaggio più probabile è quello del pregiudizio patrimoniale, poiché qualsiasi tipo di espropriazione comporta una perdita patrimoniale a causa dei suoi costi impliciti. Pregiudizio patrimoniale che coinvolge tanto il con-tribuente quanto l’Erario, visto che il prezzo del bene, venduto nell’ambito di procedimenti pubblici, competitivi solo formalmente ma non sostanzial-mente, potrebbe risultare incapiente.

La rateizzazione, quindi, comporta un notevole indebolimento dell’effetto esecutivo dei titoli predisposti dall’Amministrazione, derogando così a quella che è una delle principali prerogative dell’Amministrazione, ovvero quella di predisporre unilateralmente il titolo al fine di velocizzare e/o rendere imme-diatamente eseguibile la pretesa tributaria. Siffatta deroga non poteva che essere legata, quindi, ad un preciso fatto, ovvero la temporanea situazione di difficoltà, che il legislatore non vuole peraltro aggravare.

Una situazione per certi versi simile si verifica con il diniego di disappli-cazione di una legge antielusiva, che è stato inquadrato tra le agevolazioni fi-scali, sebbene a stretto rigore si tratti non di conseguire un’agevolazione, ma

90 DE MITA, Le regole su ricorsi e rate rilanciano l’utilità del codice, in Il Sole 24 Ore, 7 lu-glio 2010.

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di ripristinare il corrente trattamento tributario e non quello “peggiorativo”, risultando insussistente la paventata finalità elusiva

91. Quindi, l’agevolazione mira sì a favorire il contribuente, ma al fine di evi-

targli un pregiudizio; in tal modo la dilazione costituisce uno strumento di attuazione del principio dell’integrità patrimoniale del contribuente, analo-gamente agli strumenti disciplinati nell’art. 8 dello Statuto.

La natura tributaria dell’agevolazione sta proprio in questo: da un lato il rispetto dell’integrità patrimoniale e dall’altro lato la corrispondente limita-zione dell’interesse fiscale. La circostanza che il presupposto della tempora-nea situazione di difficoltà sia pertinente più alle discipline aziendali e meno a quella tributaria è un aspetto secondario, così come ad es. si è concluso per le Onlus, relativamente al diniego di iscrizione nell’anagrafe

92. Per quanto riguarda, invece, il profilo della discrezionalità amministrati-

va o politica, essa può essere senz’altro affermata per l’allora potere, del Mi-nistro delle Finanze, di concedere la rateizzazione, che era subordinata alla comprovata necessità di mantenere i livelli occupazionali, benché sussistes-se un fondato pericolo per la riscossione (originario comma 3, art. 19 del D.P.R. n. 602/1973). Un esempio opposto – nel senso che non si tratta di discrezionalità politica – ci viene invece dall’attuale art. 39 del D.P.R. n. 602/1973, che attribuisce all’ufficio la facoltà di sospendere il ruolo nel frat-tempo impugnato; il provvedimento così concesso, però, potrà essere revo-cato ove sopravvenga il fondato pericolo per la riscossione.

La natura discrezionale 93 della dilazione era confermata anche dalla giu-

91 In tal senso PISTOLESI, Impugnazione della risposta negativa all’istanza di interpello: condizioni e effetti, in Riv. dir. trib., 2011, II, p. 380, a commento della Cass., sez. trib., 15 aprile 2011, n. 8663.

92 Cass., sez. un., 27 gennaio 2010, n. 1625 ha puntualizzato che non essendoci alcun margine di discrezionalità la giurisdizione non può essere del giudice amministrativo; né può essere del giudice ordinario visto che la ragione dell’istituzione dell’anagrafe e la ratio dell’intera disciplina sono prettamente fiscali.

93 BASILAVECCHIA, (voce) Riscossione delle imposte, in Enc. dir., XL, 1988, p. 102 afferma la facoltà discrezionale dell’Amministrazione di concedere prolungate rateazioni. ID., Il ruolo e la cartella di pagamento: profili evolutivi della riscossione dei tributi, in Dir. prat. trib., 2007, I, p. 146, relativamente all’attività di riscossione in genere, fa rilevare come anche in tale fase si stia affermando l’idea di una funzionalità complessiva, che è affidata, tra l’altro, a valutazioni di economicità dell’azione. Quindi l’esattore, per la migliore realizzazione del-l’interesse pubblico alla riscossione dei tributi, potrà valutare la possibilità di desistenza o di accordo. Sempre la stessa dottrina, Rateizzazioni rinegoziabili, cit., p. 1293, con riferi-mento alla proroga della dilazione, sottolinea come essa non sia automatica ma si ricondu-ce alla discrezionalità di cui in materia certamente gode l’agente dalla riscossione.

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risprudenza costituzionale 94 secondo cui «contro il provvedimento discre-

zionale dell’intendente di finanza è ammesso ricorso al giudice amministra-tivo a norma dell’art. 113 Cost.». Ma tale discrezionalità, essendo limitata al quomodo e al quando, non si traduce mai, secondo la dottrina, in una valuta-zione comparativa di interessi

95. Infatti all’Amministrazione sono attribuiti poteri dispositivi di varia indole e intensità, finalizzati ed esclusivamente fun-zionalizzati ad accrescere le possibilità del felice esito della riscossione, de-terminando nel contempo il minor pregiudizio per il contribuente

96. Se-condo un altro orientamento, invece, in sede di rateizzazione, l’Amministra-zione pondera il fine primario dell’interesse fiscale con altri interessi, c.d. se-condari, tanto dei privati quanto pubblici (occupazione, rilevanza locale dell’attività svolta)

97. Invece, secondo l’attuale disciplina, la discrezionalità dell’Amministra-

zione ritengo sia assente 98; e seppure la si volesse ammettere, sarebbe co-

munque strutturalmente diversa da quella appena esaminata nell’ambito della sospensione, perché l’unico interesse che ha rilievo è la situazione di tempo-ranea ed obiettiva difficoltà

99. Circa la struttura della rateizzazione, la dottrina

100, in una prospettiva

94 Corte cost., 26 marzo 1982, n. 63. 95 Così FEDELE, I principi costituzionali e l’accertamento tributario, in Riv. dir. fin., 1992,

pp. 472-473. L’autore, dopo aver premesso che nella disciplina della riscossione è più facile ammettere la sussistenza di poteri discrezionali, dà conto dell’evoluzione della normativa, per cui se in un primo momento la tesi dell’attività discrezionale era priva di un fondamen-to normativo, successivamente la discrezionalità poteva ritenersi confermata.

96 Così FALSITTA, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, p. 196. 97 In tal senso PERRONE, (voce) Discrezionalità amministrativa (dir. trib.), in Dizionario

di diritto pubblico, diretto da Cassese, Milano, 2006, p. 2010. 98 Prende atto dei recenti orientamenti della giurisprudenza, che escludono la discre-

zionalità, e della posizione dell’Amministrazione, che, per evitare disparità di trattamento, ritiene doverosa la dilazione, PAPARELLA, Le situazioni giuridiche soggettive e le loro vicende, in FANTOZZI (a cura di), op. cit., p. 502; conclude diversamente ESPOSITO, La riscossione, in FANTOZZI (a cura di), op. cit., p. 795.

99 Nell’ambito della fase esecutiva della riscossione la tematica della discrezionalità è spesso ricorrente ed è apprezzata in modo diverso. Infatti, ad es., il fermo amministrativo è ora ritenuto un provvedimento discrezionale, ora un provvedimento vincolato. In tal sen-so, rispettivamente, BUCCICO, op. cit., p. 125 e CANNIZZARO, op. cit., p. 60

100 LA ROSA, Accordi e transazioni nella fase della riscossione dei tributi, in Riv. dir. trib., 2008, I, p. 320 s., nonché, ID., Gli accordi nella disciplina dell’attività impositiva: tra vincola-tezza, discrezionalità e facoltà di scelta, in Giust. trib., 2008, p. 236 s., suddivide l’attività amministrativa, superandone la visione monistica, in attività di indagine, di accertamento e di riscossione. Ciascuna di queste attività, poi, è finalizzata ad un interesse pubblico speci-

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avanzata evolutiva, ha analizzato se l’agente possa aderire o meno a propo-ste di adempimento del debito, che contemplano modalità diverse da quelle tipicamente stabilite dalla legge. In generale, secondo tale orientamento, la discrezionalità nella riscossione si presenta con caratteristiche diverse rispetto alla fase dell’accertamento, perché il fine da perseguire con la riscossione non è l’esistenza o la consistenza della capacità contributiva, bensì la certa e sol-lecita acquisizione delle risorse. Stabilito così il fine, tutto ciò che consente di perseguirlo in misura eguale, se non addirittura maggiore, non può essere o non dovrebbe essere osteggiato.

La conclusione è che non ci sono ostacoli alla possibilità di accordi nella fase della riscossione; accordi, beninteso, che abbisognano di limiti, in rela-zione ai quali va stabilito, poi, se i poteri dell’agente siano di natura privati-stica o pubblicistica. Nello specifico, la dottrina, nel proseguire, evidenzia le anomalie e l’ambiguità di fondo della disciplina della rateizzazione contenu-ta nell’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973, che offre una doppia e contrapposta visione: una di tipo agevolativo, secondo cui si tratta di un beneficio unilate-ralmente concedibile dall’Amministrazione a chi non è in grado tempora-neamente di adempiere, e una di tipo neutrale o strutturale secondo cui, inve-ce, si consente una pianificazione dei pagamenti, a patto che non risulti pre-giudizievole per l’interesse pubblico; ebbene tra queste due possibilità, quel-la maggiormente dispositiva dell’interesse pubblico è ritenuta la prima, no-nostante sia ad essa del tutto estraneo il profilo consensuale. Concordo con la conclusione, soprattutto se si considera che la rateizzazione comporta una modifica sostanziale e notevole del tempo dell’adempimento, in quanto, una volta concessa, non appare possibile chiederne la revoca se la originaria situazione di difficoltà è venuta meno.

Secondo un altro orientamento, l’Amministrazione compie una scelta di-screzionale, dove si ponderano interessi pubblici e privati, perché ci sono elementi testuali («può» e «concedere») nonché la condizione dell’esi-stenza di una situazione temporanea di obiettiva difficoltà

101. In particolare fico e diretto e non necessariamente sono tra di loro consequenzialmente legate, visto che ad es. la riscossione potrebbe anche riguardare terzi (responsabili di imposta, garanti ne-goziali, possessori di beni soggetti a privilegio, ecc.). Ne scaturisce che le giustificazioni teorico sistematiche di eventuali accordi sono strutturalmente diverse nell’attività di accer-tamento rispetto all’attività di riscossione.

101 GUIDARA, Commento all’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973, in Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo-Glendi, Milano, 2008, p. 804. RUSSO, L’accertamento tributario nel pensiero di Enzo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 667 inquadra la rateizzazione nell’ambito dei poteri discrezionali in senso tecnico.

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circa il potere di concedere la rateizzazione vi sono due momenti di discre-zionalità: una discrezionalità di tipo amministrativo, circa il se concedere o meno la rateizzazione, e una discrezionalità, invece, di tipo tecnico circa la individuazione del presupposto della temporanea situazione di obiettiva dif-ficoltà

102. La conseguenza di questo doppio profilo della discrezionalità, uni-tamente alla nozione molto lata di agevolazione, accolta dalla giurispruden-za per affermare la giurisdizione tributaria, fa sì che la posizione giuridica del contribuente rientra nell’ambito degli interessi legittimi pretensivi. Ne deri-va che, a fronte dell’illegittimo diniego, il contribuente potrà essere soddisfat-to soltanto attraverso il nuovo esercizio della potestà amministrativa emen-dato dai vizi censurati dal giudice. Inoltre, siffatta rateizzazione, per duttilità ed ambito di operatività rappresenta l’intero genus degli accordi in sede di riscossione

103, in cui, peraltro, gli interessi compensano efficacemente la ri-tardata acquisizione delle somme.

Secondo un’altra dottrina, la natura discrezionale della rateizzazione è stata notevolmente ridimensionata da Equitalia mediante le proprie Diretti-ve. Sebbene esse abbiano soltanto un rilievo interno, la loro violazione con-sente al contribuente un primo livello di tutela, qualora il diniego sia stato ispirato da criteri più restrittivi di quelli elaborati dalla Direttiva generale

104; altresì, sotto il profilo processuale l’intervento del giudice sarà limitato alla declaratoria dell’illegittimità del diniego e ciò comporterà l’obbligo dell’a-gente della riscossione di fornire una nuova risposta orientata, sulla base delle motivazioni della decisione stessa.

Ma si è anche sostenuto l’opposto, in quanto il soggetto attivo dell’obbli-gazione tributaria non è facoltizzato a ponderare l’interesse primario, alla pron-ta ed equa riscossione del tributo, con eventuali interessi secondari di cui sia titolare il contribuente; da qui l’affermazione che il potere sia necessariamente vincolato

105.

102 GUIDARA, Note in tema di giurisdizione tributaria sulle dilazioni di pagamento, in Riv. dir. trib., 2011, II, p. 523.

103 GUIDARA, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano, 2010, p. 47. 104 In tal senso BASILAVECCHIA, Sui criteri di valutazione della temporanea difficoltà, in

Riv. giur. trib., 2011, p. 623. 105 V. DI SIENA, Vizi della fase istruttoria e tutela del contribuente, in Rass. trib., 2009, p. 851.

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4.2. La dialettica processuale nel caso di impugnativa del diniego di rateizzazione

Quanto alle implicazioni processuali, se l’agente nega la rateizzazione, ri-tengo che il contribuente sarà tenuto a dimostrare la gravità la precisione e la concordanza degli elementi volti a comprovare la situazione di tempora-nea obiettiva difficoltà. Tale valutazione si concentrerà soprattutto sulla si-tuazione di obiettiva difficoltà, in quanto la reversibilità, già ridimensionata dalla prassi amministrativa, è stata oggetto di una ulteriore indulgenza da parte legislatore che, introducendo le disposizioni sulle rateizzazioni in pro-roga, ha di fatto istituzionalizzato la possibilità che la situazione di iniziale dif-ficoltà possa peggiorare.

Circa l’intervento sostitutivo del giudice tributario, si è sopra accennata la posizione della dottrina, secondo cui il giudice tributario, come peraltro accadeva durante la vigenza del D.P.R. n. 636/1972

106, non può disporla in considerazione della natura pretensiva degli interessi sottesi. Il giudice, dun-que, non potrebbe sostituire la propria volontà a quella dell’Amministrazio-ne, perché ne nascerebbero ulteriori problematiche

107, come quella ad es. di cumulare altri debiti o altre dilazioni a quella oggetto di diniego nel frat-tempo intervenute.

Ritengo che nell’attuale sistema processuale, invece, il potere sostitutivo del giudice risulti possibile, perché, la giurisdizione in tema di agevolazioni, tra cui è stata ricompresa la rateizzazione, sottintende il potere di rendere effettiva la tutela richiesta dal contribuente. Una volta accertata, in base ad elementi tra loro gravi, precisi e concordanti, la sussistenza della tempora-nea situazione di obiettiva difficoltà, il potere sostitutivo del giudice riguar-derà soltanto i residuali elementi della rateizzazione, ovvero l’ammontare del debito (che è stato indicato nella domanda di rateizzazione formulata dal contribuente), la cadenza temporale

108 delle rate (necessariamente men-

106 Cass., sez. un., 26 novembre 1993, n. 11717, già citata nella parte dedicata al preceden-te regime delle sospensioni, nonché per la dottrina si rinvia a LA ROSA, La tutela del contri-buente nella fase di riscossione dei tributi, in Riv. dir. trib., 2008, I, p. 1192 s. Circa il regime della dilazione nell’imposta sulle successioni, GLENDI, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, p. 389 afferma che «... le eventuali illegittimità connesse nel negare la concessione del beneficio o nel pronunciarne la decadenza potranno solo farsi valere mediante l’impugnativa di atti successivi dell’ufficio, considerati autonomamente impugnabili dalla legge».

107 Per tali problematiche si v. GUIDARA, Note in tema di giurisdizione tributaria, cit., p. 524. Si v. in generale anche BUTTUS, Il giudicato tributario nelle liti sulle agevolazioni, in Rass. trib., 2010, p. 131.

108 Che l’estensione temporale della dilazione implichi l’esercizio di una vera e propria di-screzionalità amministrativa è sottolineato da LA ROSA, Principi di diritto tributario, cit., p. 381.

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sili), l’estensione temporale del piano di rateizzazione e l’ammontare, even-tualmente crescente, della rata. Ed è probabile che se su questi ultimi due elementi è sorta contestazione, il giudice potrà efficacemente dettare la re-gola del caso concreto, nei limiti dei fatti dedotti dalle parti.

Le variabili più delicate, probabilmente, sono proprio queste ultime due 109.

Infatti l’estensione temporale e la forbice di importo, tra la prima e l’ultima rata, non sono affatto indifferenti o secondarie, anzi ne rappresentano un e-lemento sicuramente qualificante e significativo; a tal fine, le predette varia-bili potranno essere determinate in funzione della qualità e dell’entità dell’o-biettiva difficoltà, rifacendosi anche ai parametri numerici fissati preventi-vamente ed in linea generale da Equitalia con le proprie Direttive

110. ID., I rapporti giuridici d’imposta nell’evoluzione delle discipline positive (nel ricordo di Enzo Ca-paccioli), in Riv. dir. trib., 2013, I, p. 1161, ritiene, nel caso dei provvedimenti discrezionali, che i limitati poteri decisori del giudice comportino il ripristino dell’ordinario riparto di com-petenza tra uffici amministrativi e organi giurisdizionali. Tuttavia, nonostante le particolarità del caso, si veda Cons. Stato, sez. IV, 4 maggio 2010, n. 2568, secondo cui l’esistenza, nel-l’ambito di un rapporto convenzionale di lottizzazione, di un potere discrezionale dell’ente pubblico non vale di per sé ad escludere che gli atti amministrativi, incidenti su interessi pre-tensivi, possano essere assoggettati ad un sistema di tutela non solo mediante il tradizionale meccanismo impugnatorio e demolitorio, ma anche mediante applicazione diretta della di-sciplina dell’inadempimento del contratto. Oppure TAR Sicilia-Catania, sez. III, 21 luglio 1999, n. 1696, in Boll. trib., 1999, p. 1467, in cui il giudice amministrativo, con una sospen-sione a carattere positivo, ha disposto in via d’urgenza l’abilitazione del professionista al ser-vizio di trasmissione telematica delle dichiarazioni. A tal fine il TAR ha richiamato sia Cons. Stato, sez. V, 21 giugno 1996, n. 1210 secondo cui «la tutela degli interessi pretensivi, ... può essere efficacemente realizzata mediante l’adozione di misure d’urgenza di contenuto positi-vo, determinate autonomamente dal giudice, intese ad anticipare, in via meramente interina-le, la produzione degli effetti del provvedimento richiesto dall’interessato e negato dall’am-ministrazione», sia la Corte di Giustizia UE, 9 novembre 1995, causa C-465/93, Atlanta, per cui se, in base il diritto comunitario, il giudice nazionale può concedere provvedimenti caute-lari che disciplinano i rapporti giuridici controversi “comunitari”, a maggior ragione il giudice nazionale può accordare la tutela cautelare avverso provvedimenti negativi interni. Per il di-battito sul potere sostitutivo del giudice P. RUSSO, L’accertamento tributario nel pensiero di En-zo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 672 ss.

109 Per una vicenda in cui si contestava il ridotto numero delle rate concesse da Equita-lia, v. CTP Milano, sez. XXI, 12 aprile 2011, n. 152. Oppure Trib. Pescara, 12 luglio 2012, n. 906 secondo cui il tardivo pagamento, anche della prima rata, al più comporta la revoca ma non la decadenza automatica.

110 V. LA ROSA, Principi di diritto tributario, cit., pp. 280-288, assegna al decreto ministe-riale, nel diverso ambito del redditometro, una funzione amministrativa di indirizzo, giusti-ficata dall’esigenza di assicurare uniformità ed imparzialità nell’attività di concreta deter-minazione del quantum di ricchezza; ciò non esclude che il giudice possa ridimensionare o annullare l’accertamento, in relazione alle peculiarità del singolo caso concreto.

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Una situazione critica, ad es., si può manifestare in relazione ad una iscri-zione a ruolo a titolo provvisorio, perché sub iudice e parallelamente non è stata accordata né la sospensione giudiziale, né è stata accolta la rateizzazio-ne in quanto l’impresa, a motivo delle ingenti risorse liquide disponibili – ri-sorse però destinate a investimenti di sviluppo o di rinnovo dei propri im-pianti – aveva un ottimo indice di liquidità. In tali casi si ritiene che i pro-grammati e documentati investimenti non possano essere pregiudicati e, dunque, vanno considerati al fine di accordare o meno la rateizzazione.

5. Conclusioni

L’attuale crisi economica ha accresciuto la tendenza dei contribuenti a perseguire una forma anomala di finanziamento, attuata procrastinando il pa-gamento dei debiti fiscali e previdenziali. Tale fenomeno si inserisce nell’am-bito di un consolidato “atteggiamento” delle imprese italiane, talmente radi-cato, che l’omesso versamento dei tributi e dei contributi previdenziali non costituisce per il nostro legislatore fallimentare un fattore di allarme, come è invece per l’ordinamento francese.

A fronte di questa situazione la rateizzazione delle imposte determina un affievolimento dell’interesse fiscale almeno nella sua interpretazione storica; detto interesse, invece, ne esce rafforzato se viene interpretato secondo la teo-ria progressista, che postula il rispetto e lo sviluppo della persona umana

111. Le rateizzazioni gestite dall’Agenzia costituiscono, oramai, una modalità

normale di pagamento del debito tributario – che può essere adempiuto nel ragguardevole termine di cinque anni – e l’eventuale morosità è tollerata ed è ravvedibile, purché sia contenuta nel trimestre. Permangono, come si è vi-sto, delle differenze, circa gli effetti della decadenza: se si decade dalla rateiz-zazione di una comunicazione di irregolarità, sebbene ciò non sia più ostati-vo per la rateizzazione della successiva cartella, le sanzioni sono calcolate in misura piena sull’intero debito e non solo sul residuo; invece per le rateizza-zioni ex D.Lgs. n. 218/1997 e D.Lgs. n. 546/1992, la sanzione per l’omesso versamento, sebbene raddoppiata, viene condivisibilmente applicata unica-

111 Sul rapporto tra interesse fiscale e interesse del contribuente si possono individuare due impostazioni; per GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Bologna, 2007, passim, la riscossione deve assicurare la regolare percezione dei tributi; per MARONGIU, Lo statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2010, p. 116 s., che segue un’impostazione più garantista, i diritti del contribuente nell’attuazione della pretesa fiscale non possono essere compressi al di là del necessario.

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mente sul residuo debito. Questa diversità, ingiustificata, conferma che le san-zioni, ferma restando la loro funzione afflittiva, hanno l’effetto non tanto di prevenire quanto quello di “retribuire” l’Erario, secondo una visione molto pragmatica

112. Dunque è proprio il caso che il legislatore intervenga 113 per

eliminare tale diversità, che finiscono col punire maggiormente quei contri-buenti che, avendo quasi concluso una rateizzazione a cinque anni, ritarda-no oltre il consentito il versamento delle ultime rate.

Discorso ben più articolato meritano quelle rateizzazioni gestite da Equita-lia sulla base del trasferimento di competenze avvenuto nell’anno 2007, giu-stificato dalla conoscenza più dettagliata della debitoria del contribuente da parte dell’agente

114. Dopo tale trasferimento c’è stato un notevole incremento delle rateizzazioni; infatti sotto il profilo statistico, va preso atto del numero molto elevato di istanze (1,9 milioni) per un debito complessivo rateizzato, a maggio 2013, di circa 22 miliardi di euro. Il debito statale per Entrate e Doga-ne pesa per circa l’85%, mentre il residuo riguarda gli enti non statali.

Le rateizzazioni per importi inferiori ad euro cinquantamila (tale limite, di originari euro ventimila, è stato innalzato da Equitalia, con un comunica-to stampa del maggio 2013) sono concesse automaticamente.

Per quelle di importo superiore c’è una maggiore e comprensibile rigidità, perché la concessione della rateizzazione è subordinata alla prova della tem-poranea situazione di obiettiva difficoltà, da dimostrare sulla base di parame-tri numerici, costruiti con riferimento al bilancio della società, che devono es-sere attestati da un professionista. La rigidità dei predetti parametri o indici è comunque temperata dalla rilevanza che, sempre ai fini della concessione del-

112 In relazione ai consistenti sconti in sede di definizione dei processi verbali di consta-tazione, conclude in tal senso DI SIENA, Dal velleitarismo preventivo al pragmatismo retribu-tivo: brevi considerazioni in tema di politica punitiva tributaria a margine delle nuove modalità di definizione agevolata delle sanzioni amministrative, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 1012, s.

113 La legge delega per la riforma del sistema fiscale, L. 11 marzo 2014, n. 23, prevede l’introduzione di «... meccanismi automatici ... per la concessione della dilazione del pa-gamento prima dell’affidamento in carico all’agente della riscossione, ove ricorrano speci-fiche evidenze che dimostrino una temporanea situazione di obiettiva difficoltà, eliminan-do le differenze tra la rateizzazione conseguente all’utilizzo di istituti deflativi del conten-zioso, ivi inclusa la conciliazione giudiziale, e la rateizzazione delle somme richieste in con-seguenza di comunicazioni di irregolarità inviate ai contribuenti a seguito della liquidazio-ne delle dichiarazioni o dei controlli formali».

114 Il predetto trasferimento delle competenze ad Equitalia non è stato però accompa-gnato dall’ulteriore auspicabile passaggio dell’accentramento dell’intera posizione debito-ria del contribuente, che potrebbe avere debiti distribuiti in più ambiti territoriali, ciascuno dei quali mantiene la propria autonomia.

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la rateizzazione, può essere riconnessa ad eventi straordinari, indicati nelle Direttive, non sussumibili all’area dei parametri numerici. La temporaneità o la reversibilità, fattispecie questa più difficile da accertare rispetto all’obiettiva difficoltà, ha condivisibilmente soltanto un rilievo secondario, attraverso il c.d. indice alfa, e, solo nei casi davvero critici, il contribuente deve dimostrare, con ulteriori elementi, la sostenibilità dell’impegno finanziario.

Le garanzie non sono più necessarie, ma, attraverso le proprie Direttive, Equitalia le ha ripristinate nei casi limite della cessazione dell’attività, del tra-sferimento della sede all’estero o dell’incapienza patrimoniale.

Le diverse Direttive in tema di rateizzazioni, oltre a svolgere una importan-te funzione di indirizzo, per i casi in esse esemplificati sono senz’altro vinco-lanti alla luce del principio costituzionale di imparzialità e, in pratica, compor-tano un’inversione dell’onere della prova. Per gli altri casi, invece, la prova del “doppio” presupposto della rateizzazione dovrà essere data dal contribuente in base ad elementi, tra di loro gravi, precisi e concordanti.

Nel contenzioso sui dinieghi, il giudice tributario potrà, in base ai predet-ti normali canoni della gravità, precisione e concordanza, ritenere provata, da parte del contribuente – che potrà tra l’altro argomentare a contrario pren-dendo come riferimento anche le Direttive di Equitalia –, la situazione di obiettiva difficoltà, e potrebbe essere in grado di statuire direttamente per l’accoglimento della istanza di rateizzazione, previa declaratoria dell’illegitti-mità del diniego, fissando nel contempo, sulla base anche delle difese delle parti, le altre variabili della rateizzazione.

Le c.d. rateizzazioni in proroga – che consentono di rimodulare il debito residuo in ulteriori 72 rate mensili – e la possibilità di fissare un piano di ri-entro a rata crescente, rappresentano validi strumenti per prevenire la deca-denza dal piano di rateizzazione concesso.

Il D.L. n. 69/2013 ha poi introdotto una “terza” tipologia di rateizzazio-ne, ovvero la c.d. “rateizzazione straordinaria”, che a sua volta si sdoppia in rateizzazione “straordinaria” e rateizzazione “straordinaria in proroga”. Il dato più significativo è che tali rateizzazioni straordinarie consentono di allunga-re il piano di ammortamento a dieci anni; per tale ragione le condizioni di accesso sono più stringenti e meno elastiche rispetto a quelle previste per le rateizzazioni ordinarie. Il dato finanziario è quello più importante; infatti la crisi finanziaria in cui versa l’impresa non deve essere talmente grave da de-terminare un indice di liquidità inferiore allo 0,5.

Questa condizione, invece, non deve sussistere per le rateizzazioni ordi-narie e per quelle “ordinarie in proroga”, per le quali un indice di liquidità in-feriore allo 0,5 non impedisce la rateizzazione.

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Quindi tra le diverse forme di rateizzazione esiste sì una fungibilità ma essa è soltanto parziale, nel senso che non sempre la condizione di fatto, in cui si trova il contribuente, consente di chiedere alternativamente la rateizza-zione ordinaria o quella straordinaria.

Circa la decadenza l’aspetto più problematico è quello di stabilire se il re-quisito dell’omesso pagamento di otto rate complessive determini sempre e comunque la revoca, o se invece possa ipotizzarsi una sorta di rimessione in termini, semmai per via giudiziaria. Ciò dovrebbe valere soprattutto quando il debito inizialmente rateizzato viene rideterminato al ribasso in sede di merito della controversia, oppure quando il contribuente riesce a rientrare dal debito scaduto. Pur a fronte del dato normativo, il quale è inequivocabile circa la na-tura essenziale del termine, si è visto, quantomeno in relazione ai casi predet-ti, che detto carattere di essenzialità possa essere ridimensionato, facendo ap-plicazione dell’orientamento della giurisprudenza civile, in base al quale l’es-senzialità o meno di un termine è questione da valutare caso per caso.

Anzi, l’essenzialità del termine è stata ridimensionata proprio in occasio-ne delle nuove norme introdotte nel 2013. Infatti Equitalia, nel fare riferi-mento alla ratio indicata nella relazione tecnica del D.L. n. 69/2013, ha già evidenziato, per i debitori decaduti dalla rateizzazione secondo le vecchie re-gole, l’esigenza di prevedere una disciplina di «... particolare favore per i de-bitori, che eviti loro di essere esclusi dalla fruizione dell’agevolazione intro-dotta dal legislatore»

115. Inoltre va anche considerato, come si è visto, la spe-cifica ratio insita nella molteplicità delle forme di rateizzazione che è quella di prevenire, quanto più possibile, proprio la decadenza.

Alcuni aspetti problematici della rateizzazione dipendono dal difficile co-ordinamento tra l’attività dell’Agenzia e quella di Equitalia. Ne sono un esem-pio gli avvisi di accertamento esecutivi, che possono essere rateizzati, ma co-stringono il contribuente ad una onerosa ed involontaria morosità. Detti av-visi pongono tra l’altro la questione se la verifica del fondato pericolo per la riscossione debba essere condotta alternativamente o congiuntamente dai due enti. Ulteriore problema è quello di stabilire se, accordata la rateizza-zione, l’ipoteca iscritta in sede cautelare dall’Agenzia possa essere mantenu-ta o debba essere cancellata. Si propende per la cancellazione, considerato che il subentro nelle misure cautelari dell’Agenzia (art. 15, comma 8-quater del D.L. n. 78/2009) pare funzionalmente legato all’esecuzione, dalla quale l’agente dovrebbe astenersi vista la rateizzazione accordata.

115 Equitalia, nota 1° luglio 2013.

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Anche sul fondato pericolo per la riscossione si avverte un insufficiente coordinamento, ben potendo accadere che nonostante l’Agenzia ravvisi det-to fondato pericolo, l’agente, dal canto suo, accordi la rateizzazione al con-tribuente. Da rilevare inoltre che la visione atomistica del periculum in mora, legata ai singoli atti della riscossione, anziché alla posizione globale del con-tribuente, come dovrebbe essere, può determinare altre situazioni contrad-dittorie, come nel caso in cui il contribuente, ammesso a godere di una con-sistente e irrevocabile rateizzazione automatica di un avviso bonario, si veda esposto al contempo ad una esecuzione motivata dalla mera sussistenza di un fondato pericolo.

I predetti difetti di coordinamento sono il riflesso dell’ampliamento, ora-mai chiaro, delle competenze “provvedimentali” dell’agente

116, le quali ri-guardano sia la fase concessoria del provvedimento di rateizzazione, fase nel cui ambito si instaura un vero e proprio contraddittorio con la controparte, sia l’emanazione del provvedimento di iscrizione ipotecaria “accelerata”

117, che, contrariamente al lacunoso dato normativo, dovrebbe indicare le speci-fiche ragioni per cui il credito viene “assicurato”.

Con particolare riferimento alla natura discrezionale o vincolata del prov-vedimento di rateizzazione, i parametri numerici e la svalutazione del dato della reversibilità della crisi costituiscono elementi che sotto il profilo pratico hanno ridotto notevolmente la discrezionalità dell’agente della riscossione.

116 Si tratta quindi di nuove competenze, proprie dell’agente della riscossione, che si aggiungono alle funzioni di ricerca e di indagine, altrettanto recenti. Con riferimento a que-ste ultime COMELLI, L’ampliamento dei poteri di indagine attribuiti agli agenti della riscossio-ne: profili sistematici, in COMELLI-GLENDI, La riscossione dei tributi, Milano 2010, p. 145, afferma che la sottofunzione dell’accertamento e quella della riscossione si presentano come le due facce della stessa medaglia, ovvero della macrofunzione impositiva, che ne risulta ulteriormente rafforzata. LA ROSA, Riparto delle competenze e concentrazione degli atti nella disciplina della riscossione, op. cit., 2011, I, p. 595, con riferimento alle norme sulla concentrazione della riscossione, sottolinea come l’unificazione dell’accertamento e del ruolo ha avvalorato l’autonomia funzionale della riscossione rispetto all’accertamento. Circa l’autonomia procedimentale della fase di riscossione si veda, Corte cost., 9 novem-bre 2007, n. 377, secondo cui «l’obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità del-la pubblica amministrazione». Tuttavia si veda anche la successiva Corte cost., 25 febbraio 2008, n. 41.

117 Si rimanda al par. 3.5.

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Altri tre elementi, di tipo giuridico e non pratico, ritengo siano utili per la medesima conclusione: il primo è la classificazione della rateizzazione tra le agevolazioni, che risulterebbe poco compatibile con l’esercizio di una discre-zionalità, pena la violazione del principio di uguaglianza. Segue, poi, il dato letterale dell’art. 19 del D.P.R. n. 602/1973 dove il «... può ... concedere ...» legittima un potere funzionalmente vincolato, anziché l’esercizio di una fa-coltà, come invece era letteralmente previsto prima del 1999. Infine l’eserci-zio di una discrezionalità sarebbe piuttosto difficoltoso alla luce dell’alterità, tuttora esistente, tra il titolare del credito e il titolare della attività delegata di riscossione che, accordando la dilazione, modifica sostanzialmente l’ob-bligazione tributaria in modo quasi irreversibile – si conferma così la natura agevolativa-dispositiva della rateizzazione –, visto che la rateizzazione non può essere revocata se viene meno la situazione di obiettiva difficoltà.

Al verificarsi del presupposto, il contribuente avrà il diritto di conseguire l’agevolazione della rateizzazione, ed il relativo provvedimento avrà conte-nuto, effetti e regime puntualmente disciplinati dal legislatore.

Agevolazione che ha la finalità di favorire il contribuente evitandogli il pro-babile pregiudizio derivante da una azione espropriativa, che altrimenti l’a-gente dovrebbe prima o poi intraprendere. L’aspetto secondo me prevalen-te è proprio quello di evitare siffatto rischio, che è implicito nella situazione di difficoltà in cui versa il contribuente; il tutto per rispettare l’integrità pa-trimoniale, da ricondurre all’art. 8 dello Statuto.

In tale contesto, tuttavia, il legislatore ha pensato, ad ogni buon fine, di ri-servarsi una facoltà, ed ha controbilanciato la natura vincolata della rateizza-zione con la c.d. “ipoteca accelerata”, iscrivibile dall’agente al solo fine di as-sicurare il credito, senza neanche attendere, così a me pare, il termine di pa-gamento dei sessanta giorni. Ma si dovrà trattare evidentemente di situazio-ni eccezionali perché una iscrizione ipotecaria, in sé, rappresenta comunque un danno per il contribuente. Quindi tra gli strumenti della riscossione esi-ste un nesso di complementarietà, che rappresenta un ulteriore motivo a fa-vore di una identica giurisdizione per i diversi strumenti contemplati nel D.P.R. n. 602/1973.

Se invece il contribuente o l’impresa hanno una liquidità che gli consente agevolmente di pagare il debito, l’agevolazione della rateizzazione, quantun-que abbia natura onerosa, non potrebbe essere concessa; al più l’agente potrà tollerare, di fatto, una moratoria, anche perché non c’è un termine perento-rio per l’inizio dell’azione esecutiva.

L’esecutività dei diversi titoli che l’Amministrazione può formare, sulla scorta dei quali potrà essere poi consentita l’iscrizione a ruolo – sebbene di

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tipo provvisorio – con conseguente avvio dell’esecuzione, è la principale pre-rogativa dell’Erario, sovente indicata come interesse fiscale.

Nell’attuazione di tale interesse è da sempre avvertita l’esigenza, non facile da applicare, di distinguere i debiti provvisori da quelli definitivi, di regolare i rapporti tra riscossione provvisoria, esecuzione su titolo provvisorio e fon-dato pericolo per la riscossione

118. Un primo tentativo, funzionale allo scopo che precede, è stato perseguito

dal legislatore con l’istituto della transazione fiscale, attraverso il quale il con-solidamento del debito, vale a dire la sua quantificazione “condivisa”, “defi-nitiva” e non “provvisoria”, ha proprio la finalità di velocizzare la determina-zione del quantum, attribuendo la giusta rilevanza ed il giusto peso ai crediti dell’Erario, rispetto a quelli degli altri creditori, e ciò allo scopo di evitare che la fine della vita di una impresa possa dipendere da un credito la cui esi-stenza è ancora sub iudice.

Una seconda disciplina, ovvero quella delle ipoteche sulla casa di abita-zione, che all’art. 76 del D.P.R. n. 602/1973 prevedeva un doppio limite ai fini dell’iscrizione ipotecaria in funzione della contestabilità o meno del cre-dito sottostante, è stata però poi abrogata.

In siffatto contesto normativo, si ritiene che la disciplina della dilazione sia uno dei rimedi più efficaci per aggirare la predetta questione, costituendo parallelamente strumento di effettiva tutela del principio dell’integrità pa-trimoniale del contribuente.

118 Su tale aspetto, LA ROSA, Riparto delle competenze, cit., p. 581, nell’auspicare una revi-sione della disciplina delle riscossioni provvisorie, ritiene che ad esse debba guardarsi come misure amministrative cautelari per preservare l’interesse fiscale da impugnazioni più o meno pretestuose o dettate da intenti meramente dilatori; quindi tali misure dovrebbero essere re-golate in modo da assicurare quella flessibilità che è tipica delle misure cautelari.

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GIURISPRUDENZA

SOMMARIO: Cass., sez. trib., 6 settembre 2013, n. 20526 – Pres. Cirillo, Rel. Valitutti, con no-

ta di R. Miceli, La decorrenza dei termini per l’esercizio dell’azione di rim-borso in caso di sopravvenuta (autorevole) interpretazione di una disposi-zione. In attesa di una svolta decisiva (The “dies a quo” for the exercise of the right of reimbursement in the event of supervening (authoritative) interpretation of a rule. Waiting for a crucial change)

Cass., sez. V., 8 maggio 2013, n. 10739 (udienza del 28 novembre 2012) – Pres. Greco, Rel. Bruschetta, con nota di V. Scalera, Nuovi orientamenti sull’onere della prova in materia di transfer pricing internazionale (New perspectives on the burden of proof in international transfer pricing)

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Cass., sez. trib., 6 settembre 2013, n. 20526

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Cass., sez. trib., 6 settembre 2013, n. 20526 – Pres. Cirillo, Rel. Valitutti Diritto al rimborso – termine di decadenza – dies a quo – overruling interpretati-vo – tutela del contribuente

La risposta all’interpello del contribuente, da parte dell’Amministrazione Finanzia-ria, ai sensi della L. n. 212/2000, art. 11, e l’essersi il contribuente conformato a indi-cazioni contenute in atti dell’Amministrazione Finanziaria, ai sensi dell’art. 10 della stessa legge, non valgono ad integrare un titolo per la restituzione dell’IVA versata inde-bitamente. Il dies a quo per il decorso del termine biennale (D.Lgs. n. 546/1992, ex art. 21) non può essere fatto coincidere con la data di emanazione di Risoluzioni o Circolari dell’Amministrazione Finanziaria interpretative della normativa tributaria, essendo tali atti interni certamente inidonei ad avere una rilevanza per la tutela di un diritto.

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza n. 37/38/08, depositata il 23.4.08, la Commissione Tributaria Re-

gionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate – Uf-ficio di Milano (omissis), avverso la decisione di primo grado con la quale era stato ac-colto il ricorso proposto dalla B. B. s.p.a. nei confronti degli avvisi di diniego di rimbor-so, emessi dall’Amministrazione Finanziaria ai fini IVA per gli anni di imposta dal 1998 al 2004, sull’istanza avanzata dalla contribuente in data 31.3.06 (omissis).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La società B. B. Milano s.p.a. proponeva, in data 31.3.06, istanza di rimborso del-

l’IVA – a suo dire – indebitamente versata, per gli anni dal 1998 al 2004, in relazione ad operazioni di cessioni gratuite di campioni di modico valore, non considerate ces-sioni di beni e, di conseguenza, non assoggettate ad IVA, in forza del disposto di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, lett. d).

Assumeva, invero, la contribuente che l’imposta era stata assolta in conseguenza della risposta fornita dalla stessa Amministrazione finanziaria – resa in data 3.8.00 e confermata con successiva comunicazione del 2.3.01 – a specifico interpello della con-tribuente, con la quale l’Ufficio affermava l’assoggettabilità ad IVA delle suddette ope-razioni.

1.1. Con successiva risoluzione n. 83/E del 3.4.03, l’Ufficio aveva – tuttavia – mu-tato orientamento, stabilendo che tali cessioni erano da ritenersi non assoggettabili ad

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IVA, ai sensi della succitata disposizione del Decreto n. 633/72. La B. B. Milano pro-poneva, pertanto, nuovo interpello, in risposta al quale l’Agenzia delle Entrate – confer-mando la risoluzione n. 83/E – dichiarava, con parer espresso in data 8.11.04, le ope-razioni in questione escluse dal campo di applicazione dell’IVA, in applicazione del disposto del D.P.R. n. 633del 1972, art. 2, comma 3, lett. d).

1.2. L’istanza di rimborso della B. B. Milano veniva, nondimeno, respinta dall’Uffi-cio, con distinti atti di diniego per ciascuna annualità, sul presupposto che essa fosse da ritenersi proposta oltre il termine biennale di decadenza D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21, essendo stata avanzata, in relazione a versamenti IVA effettuati tra il1998ed ilgennaio2004, solo in data 31.3.06.

1.3. Avverso gli avvisi di diniego, proponeva, quindi, ricorso in sede giurisdizionale la contribuente, sostenendo che il termine biennale di decadenza su indicato dovesse de-correre dalla data dell’ultimo parere reso sul caso concreto dall’Amministrazione finan-ziaria, ovverosia dall’8.11.04, anche in considerazione del legittimo affidamento della so-cietà, che si era determinata ad assolvere l’IVA non dovuta esclusivamente inconseguen-za dei precedenti, erronei, pareri espressi dalla stessa Agenzia delle Entrate. Il ricorso aveva esito favorevole alla B. B. Milano, in entrambi i gradi del giudizio di merito.

1.4. Nei confronti della decisione di appello, emessa dalla CTR della Lombardia, ha, pertanto, proposto ricorso l’Amministrazione finanziaria sulla base di tre censure.

2. Con il primo e secondo motivo di ricorso – che, per la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente – l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, L. n. 212 del 2000, artt. 10 e 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

2.1. Si duole, invero, la ricorrente del fatto che la CTR abbia erroneamente ritenuto che il parere reso dall’Amministrazione, in sede di interpello da parte del contribuente, possa costituire un autonomo presupposto, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21, comma 2, per il diritto al rimborso di somme indebitamente versate, in conformità ad un pre-cedente parere contrario espresso dalla medesima Amministrazione, in guisa da far decorrere da detto secondo parere, anziché dalla data del versamento, il termine bienna-le di decadenza per la proposizione dell’istanza di rimborso, previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2 (omissis).

2.2. D’altro canto, neppure coglierebbe nel segno – ad avviso dell’Agenzia delle En-trate – il riferimento operato dalla CTR al legittimo affidamento della società contri-buente, onde inferirne che solo dalla data (8.11.04) in cui quest’ultima era venuta a co-noscenza del mutato avviso dell’Amministrazione finanziaria – che riconosceva in via definitiva la non assoggettabilità ad IVA delle cessioni in discussione – sarebbe insorto il diritto della medesima alla restituzione dell’imposta versata, avendo la B. B. Milano ac-quisito solo in tale momento la consapevolezza della non debenza del tributo (omissis).

3. I motivi suesposti sono fondati. 3.1. A tal fine, va anzitutto osservato che, come la Corte di Lussemburgo ha più volte

affermato, il diritto di ottenere il rimborso dell’IVA non dovuta, al pari del diritto alla

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detrazione dell’eccedenza, non può essere riconosciuto dagli ordinamenti degli Stati membri senza alcuna limitazione temporale, giacché tale riconoscimento si porrebbe in contrasto con il principio comunitario della certezza del diritto, in forza del quale la situazione fiscale del soggetto passivo, con riferimento ai diritti e dagli obblighi dello stesso nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, non può essere rimessa in di-scussione senza limiti di tempo (cfr. C. Giust. 8.5.08, C-95/07 e 96/07).

D’altro canto, la Corte Europea ha, altresì, precisato che, in mancanza di una disci-plina comunitaria in materia di ripetizione imposte nazionali indebitamente riscosse, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro regolare le proce-dure per l’esercizio dei diritti suindicati, stabilendo i relativi termini di decadenza o di prescrizione, purché ragionevoli, per la presentazione delle domande di rimborso (cfr. C. Giust. 17.11.98, C-228/96, C. Giust. 11.7.02, C-62/00, C. Giust. 8.5.08, cit., se-condo la quale un termine di decadenza di due anni, come quello in discussione, è da ritenersi ragionevole, C. Giust. 21.1.10, C-472/08).

3.2. Orbene, per quanto concerne il diritto nazionale, al quale – come dianzi detto – compete la regolazione della materia, va rilevato che, in forza del disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, la domanda di restituzione di un’imposta non dovuta “in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il pre-supposto per la restituzione”. Si tratta allora di stabilire se il parere reso dall’Ammini-strazione, in difformità ad altro parere precedente che abbia indotto il contribuente ad assolvere l’imposta non dovuta, possa configurare, o meno, un “presupposto per la resti-tuzione”, successivo ed autonomo rispetto al mero indebito versamento dell’imposta.

3.2.1. A tal proposito, questa Corte ha già avuto modo di statuire che il dies a quo per il decorso del termine biennale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21, non può essere fatto coincidere con la data di emanazione di risoluzioni o circolari dell’Amministra-zione finanziaria interpretative della normativa tributaria, essendo tali atti interni cer-tamente inidonei a determinare l’insorgenza di un diritto prima inesistente, ovvero a costituire nuovi titoli di un diritto già sussistente in forza di specifiche disposizioni di legge. Trattasi – per vero – non già di fonti del diritto, bensì di semplici presupposti chiarificatori della posizione espressa dall’Amministrazione su un dato oggetto (cfr. Cass.813/05, Cass. S.U. 23031/07, Cass. ord. 23042/12).

3.2.2. Nella medesima prospettiva, è – pertanto – evidente che neppure la risposta resa dall’Ufficio all’istanza di interpello inoltrata dal contribuente, L. n. 212 del 2000, ex art. 11, è idonea a fondare un diritto al rimborso dell’imposta indebitamente versa-ta, trattandosi di una mera promessa amministrativa o di un preatto amministrativo (Cass. 23523/08), di per sé, dunque, non suscettibile di fondare l’insorgenza di posi-zioni soggettive, che possono, semmai, scaturire dall’atto successivamente emesso in conformità a tali risposte (omissis).

Sicché è evidente che neppure tale atto vale a costituire un presupposto per la resti-tuzione autonomo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2.

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3.2.3. Del tutto errato si palesa, poi, a giudizio di questa Corte, il richiamo – opera-to dalla CTR – al disposto della L. n. 212 del 2000, art. 10. Ed infatti, tale norma, nel tutelare l’affidamento del contribuente che si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’Amministrazione finanziaria, limita gli effetti di tale tutela alla sola esclusio-ne delle sanzioni e degli interessi, senza incidere in alcun modo sull’obbligazione tri-butaria, che resta dovuta (Cass. 19479/09, 3757/12), a meno che sia la legge stessa a prevederne la non debenza. Sicché, l’essersi – nel caso concreto-la B. Braun conforma-ta al primo parere dell’Amministrazione, successivamente mutato, non vale a precosti-tuire a favore della contribuente, e per la sola ragione di avere la stessa fatto affidamen-to sulle opposte determinazioni della p.a., espresse con atti aventi, come detto, valore meramente consultivo, un titolo per la restituzione dell’IVA versata indebitamente, autonomo ed ulteriore, rispetto a quello legale, ovvero sia a quello fondato sulla men-zionata previsione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, lett. d).

3.2.4. Ne deriva che, in assenza di un “presupposto per la restituzione” posteriore al pagamento, idoneo a spostare la decorrenza del termine biennale di decadenza, sta-bilito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, il termine in parola non può che essere fatto decorrere, nella specie, che dalla data del versamento dell’IVA.

Per cui, essendo pacifico, nel giudizio, che i pagamenti indebiti di imposta siano avvenuti dal 1998 al gennaio 2004, l’istanza di rimborso proposta solo il 31.3.06 è da ritenersi senz’altro tardiva.

4. Da quanto su esposto consegue, dunque, l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, assorbito il terzo, con il quale l’Agenzia delle Entrate deduce, invia subordina-ta, che la decorrenza del termine D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21, dovrebbe operare, quantomeno, dalla data della risoluzione n. 83/E del 3.4.03.

5. L’impugnata sentenza va, pertanto, cassata, con rinvio ad altra sezione della CTR della Lombardia, che provvederà a nuovo esame della controversia attendendosi al seguente principio di diritto: “la risposta all’interpello del contribuente, da parte del-l’Amministrazione finanziaria, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 11, e l’essersi il con-tribuente conformato a indicazioni contenute in atti dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 10 della stessa legge, non valgono ad integrare un titolo per la restitu-zione dell’IVA versata indebitamente, autonomo ed ulteriore rispetto a quello legale, ovverosia a quello fondato, nel caso di specie, sulla previsione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, lett. d)”. Il giudice del rinvio provvederà, altresì, all’esame delle questioni relative al dedotto obbligo risarcitorio dell’Amministrazione per condotta illecita nei confronti della contribuente, ai sensi dell’art. 2043 c.c., ovvero indennitario per indebito arricchimento ai danni della medesima, ai sensi dell’art. 2041 c.c., propo-ste dalla B. B. Milano nei gradi di merito, e ritenute assorbite dall’impugnata sentenza, oltre che alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione accoglie il primo e secondo motivo di ricorso, as-

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sorbito il terzo; cassa l’impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Commis-sione Tributaria Regionale della Lombardia, che provvederà alla liquidazione anche delle spese del presente giudizio di legittimità.

La decorrenza dei termini per l’esercizio dell’azione di rimborso in caso di sopravvenuta (autorevole)

interpretazione di una disposizione. In attesa di una svolta decisiva

The “dies a quo” for the exercise of the right of reimbursement in the event of supervening (authoritative) interpretation of a rule.

Waiting for a crucial change

Abstract La pronuncia affronta la questione della decorrenza del termine per la presenta-zione dell’istanza di rimborso nel caso di overruling interpretativo dell’Ammini-strazione Finanziaria. Si tratta di un tema molto importante, oggetto di dibattiti nazionali e di pronunce europee. Le evoluzioni dell’ordinamento nazionale sem-brano annunciare una svolta nella disciplina del diritto al rimborso dei tributi, a favore della rilevanza (quale dies a quo per l’esercizio del diritto) degli atti inter-pretativi dell’Amministrazione Finanziaria e delle sentenze che incidono su un assetto normativo stabile, al quale il contribuente si è correttamente e fiduciosa-mente affidato. Si tratta di una passaggio importante, da tempo auspicato dalla dottrina, che potrebbe sovvertire un assetto consolidato da 25 anni. Parole chiave: diritto al rimborso, termine di decadenza, dies a quo, overruling interpretativo, tutela del contribuente The judgment deals with the issue of the “dies a quo” for the filing of a request of re-imbursement in the event of supervening overruling by the Financial Administration. This is a very important issue, addressed by relevant Italian and European judgments. The trend of national law seems to give relevance to the Tax Authorities’ administra-tive practice and case law (as “dies a quo” for the exercise of the right); this solution should apply to acts which change a stable regulatory framework, in which the tax-

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payer has correctly and confidently relied on. This is an important step that may sub-vert a national legislative framework followed for about 25 years. Keywords: right of reimbursement, statute of limitation, dies a quo, interpretative overruling, taxpayer’s rights protection

SOMMARIO: 1. I fatti oggetto della controversia e premessa sistematica. – 2. I parametri europei della disci-plina del rimborso dei tributi. In particolare, il termine nazionale per l’esercizio del diritto al rimborso. – 3. La decorrenza del termine. Le ipotesi in cui la tutela non è effettiva. – 4. Le posi-zioni nazionali sulla questione della decorrenza del termine in caso di sentenza della Corte di Giustizia e di overruling interpretativo dell’Amministrazione Finanziaria. Il recente rinvio alle Sezioni Unite. – 5. La maturata decadenza nel caso specifico. – 6. Ulteriori considerazioni sulla sentenza in esame. Apertura verso la giurisdizione delle Commissioni tributarie per le azioni ex artt. 2033 c.c. e 2041 c.c.? – 7. Considerazioni conclusive.

1. I fatti oggetto della controversia e premessa sistematica

Con la pronuncia della Corte di Cassazione n. 20526/2013 si affronta una que-stione centrale nel tema del diritto al rimborso dei tributi: la decorrenza del termi-ne per la presentazione dell’istanza (tecnicamente “dies a quo”) nel caso di muta-mento di orientamento interpretativo da parte della Amministrazione Finanziaria. Tale ultima fattispecie è oggi definita con il termine overruling (anche revirement) dell’Amministrazione Finanziaria 1.

1 Sulla questione si rinvia alle attente considerazioni di AMATUCCI, L’overruling interpretativo mi-nisteriale non incide sul dies a quo per il rimborso dell’IVA, in Rass. trib., 2012, p. 803; CIPOLLA, Diritto e processo nelle azioni di indebito comunitario: quando la Corte di Cassazione inventa l’overruling per rimettere in terminis i contribuenti, in Riv. giur. it., 2012, p. 502; MELIS, L’interpretazione nel diritto tri-butario, Padova, 2003, p. 455; MARCHESELLI, Tutelato l’affidamento nella legge interna contraria al diritto UE: la decadenza dal diritto al rimborso, in Corr. trib., 2013, p. 311; ID., Diritto costituzionale interno e diritto comunitario: un “doppio binario” per la decadenza dai rimborsi d’imposta?, in Riv. giur. trib., 2011, p. 785; MONDINI, L’obiettiva incertezza della norma tributaria e la disapplicazione delle sanzioni am-ministrative tra primato del giudice e prospettive comunitarie, in Rass. trib., 2009, p. 1630. L’importanza dell’overruling interpretativo dell’Amministrazione Finanziaria (anche revirement) nasce dalla circo-stanza che l’Amministrazione Finanziaria nel nostro ordinamento interpreta ed applica la legge tributa-ria. In questo senso gli atti dell’Amministrazione Finanziaria – anche se non vincolanti – condizionano indiscutibilmente il comportamento del contribuente. In via generale sul tema dell’overruling dell’Am-ministrazione Finanziaria, DELLA VALLE, Revirement ministeriale e buona fede nell’esercizio della fun-zione impositiva, in Riv. dir. trib., 1995, p. 597; ID., Affidamento e certezza del diritto tributario, Milano, 2001, p. 113; ID., La tutela dell’affidamento del contribuente, in Rass. trib., 2002, p. 459.

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In particolare, nella questione oggetto di analisi da parte della Corte (Cass. n. 20526/2013 d’ora innanzi, per semplicità, la sentenza in esame), è avvenuto un mutamento interpretativo in un ambito temporale di quattro anni in ordine all’as-soggettamento ad IVA di alcune prestazioni.

Una sintesi dei momenti essenziali della vicenda giuridica, da cui origina la sen-tenza in esame, risulta necessaria per comprendere le determinazioni della Corte di Cassazione. Si ritiene, infatti, che nel caso analizzato le date delle diverse attiva-zioni del contribuente (a titolo di interpello o di richiesta di restituzione) siano fon-damentali per riflettere sulla decisione della Corte, che si rivela (purtroppo) cor-retta, pur negando il rimborso delle somme ad un contribuente che ne ha senza al-cun dubbio diritto.

In data 3 agosto 2000, la Società contribuente ha presentato un interpello alla Amministrazione Finanziaria, la quale con risposta espressa ha rilevato l’assogget-tamento a tassazione delle cessioni di campioni gratuiti di modico valore ex art. 2, comma 3, lett. d), D.P.R. n. 633/1972, effettuate dalla Società contribuente. In os-sequio a tale risposta la Società contribuente ha versato le relative imposte per gli anni compresi tra il 1998 e il 2004.

Circa tre anni dopo, con Risoluzione 3 aprile 2003, n. 83/E, l’Amministrazione Finanziaria ha modificato il proprio orientamento sulla questione, ammettendo in via generale la non assoggettabilità ad IVA delle medesime prestazioni. In seguito a tale Risoluzione, la Società ha presentato un’altra istanza di interpello chiedendo un nuovo parere sulla questione all’Amministrazione Finanziaria; quest’ultima con risposta del 8 aprile 2004 ha confermato la posizione espressa nella Risoluzione n. 83/E, ammettendo l’esclusione dal campo di applicazione dell’imposta delle pre-stazioni in esame.

La Società contribuente inoltrava così istanza di rimborso delle somme versate per le annualità 1998-2004 in data 31 giugno 2006 (circa 3 anni e due mesi dopo l’overruling interpretativo).

La Corte di Cassazione nella decisione analizzata ha negato la possibilità di tu-tela del diritto alla restituzione del contribuente, in quanto è stata presentata una i-stanza tardiva. Secondo la Corte, il dies a quo del termine (per la presentazione) dell’istanza di rimborso decorre dal versamento dell’imposta e – in merito a tale de-corso – sono irrilevanti gli atti della Amministrazione Finanziaria (quali Circolari o Risoluzioni interpretative), in quanto «atti interni ed inidonei a determinare l’in-sorgenza di un diritto prima inesistente o a costituire nuovi titoli di un diritto già sussistente in forza di specifiche disposizioni di legge». La medesima soluzione de-ve essere adottata, secondo la Corte, nell’ipotesi di risposta all’interpello.

Il caso in esame ha un indiscutibile rilievo in questo momento storico, in quanto consente di riflettere su una questione importante, oggetto da qualche anno di dibat-titi: quella, come anticipato, della disciplina del termine per azionare la tutela del di-ritto alla restituzione nel caso di sopravvenuta autorevole interpretazione di una di-sposizione, che abbia sovvertito un precedente assetto (interpretativo) stabile.

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Sulla questione si ritiene siano in atto degli importanti cambiamenti, che pur sollecitati da principi e posizioni europee sembrano destinati a rivestire una valen-za generale nella materia del rimborso dei tributi.

I passaggi importanti di questo percorso evolutivo si individuano: nei principi europei di equivalenza e di effettività in senso stretto, nella sentenza della Corte di Giustizia “Banca popolare antoniana veneta” 2, nel recente contrasto interpretativo che (nel sistema nazionale) ha condotto ad una rimessione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Questi argomenti saranno affrontati (progressivamente e nell’ordine sopra in-dicato) al fine di dimostrare come le evoluzioni dell’ordinamento europeo stiano modificando alcuni assetti tradizionali (nazionali) in tema di rimborso dei tributi, ma permanga in ogni caso – come dimostra la vicenda giuridica affrontata dalla Cor-te di Cassazione – la necessità di una attenta osservanza delle decadenze previste dalla disciplina nazionale per essere in condizione di ottenere una tutela effettiva dei propri diritti.

2. I parametri europei della disciplina del rimborso dei tributi. In particolare, il termine nazionale per l’esercizio del diritto al rimborso

Nel caso in esame la necessità di osservare i principi comunitari e le determina-zioni della Corte di Giustizia nasce dalla circostanza che l’IVA è un tributo armo-nizzato; la corretta applicazione di tale imposta è quindi strumentale al raggiungi-mento degli obiettivi comunitari. Per tale motivo l’IVA è soggetta all’intera disci-plina europea del rimborso dei tributi.

La disciplina del rimborso dei tributi armonizzati o incompatibili con il sistema comunitario 3 è regolata sulla base dell’autonomia procedimentale degli Stati mem-

2 V. Corte di Giustizia UE, 15 dicembre 2011, causa C-427/10, Banca popolare antoniana veneta. 3 Sul tema del rimborso dei tributi secondo i principi comunitari, AMATUCCI, I vincoli posti dalla

giurisprudenza comunitaria nei confronti della disciplina nazionale del rimborso d’imposta, in Riv. dir. trib., 2000, I, p. 291; DEL FEDERICO, Azioni e termini per il rimborso dei tributi incompatibili con l’ordi-namento comunitario, in Giur. imp., 2003, p. 271, nonché ID., Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, p. 175; DI PIETRO, Tutela del contribuente, primato del diritto comunitario e rimborso tributario, in TASSANI (a cura di), At-tuazione del tributo e diritti del contribuente in Europa, Roma, 2009, p. 13; TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2009, p. 112; MICELI, Indebito comunitario e sistema tributario interno. Contributo allo studio del rimborso di imposta secondo il principio di effettività, Milano, 2009. Come evidenziato nel testo per la ricostruzione del tema sono state determinanti le pronunce della Corte di Giustizia sulla questione. V., ex pluribus, Corte di Giustizia UE, 16 dicembre 1976, causa C-33/76, Rewe; Cor-te di Giustizia UE, 16 dicembre 1976, causa C-45/76, Comet; Corte di Giustizia UE, 9 novembre 1983, causa C-199/82, San Giorgio; Corte di Giustizia UE, 14 gennaio 1997, cause riunite C-192/95 e C-218/95, Comateb; Corte di Giustizia UE, 2 dicembre 1997, causa C-188/95, Fantask; Corte di Giu-

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bri; questi ultimi devono riconoscere i diritti che discendono dall’ordinamento co-munitario attraverso l’utilizzo di procedimenti e di processi nazionali, con due li-miti individuati dall’ordinamento comunitario: il rispetto dei principi di equiva-lenza e di effettività in senso stretto.

Tali principi costituiscono i parametri generali che consentano di ottenere in ambito europeo una tutela omogenea per tutti i diritti collegati all’ordinamento co-munitario, a prescindere dallo Stato membro in cui materialmente si esplicano i procedimenti per il loro riconoscimento 4.

Il principio di equivalenza impone, in via generale, l’utilizzo di procedimenti e di disposizioni equivalenti rispetto a quelli utilizzati nello Stato membro per la tu-tela di una posizione giuridica dello stesso tipo, ma fondata sul diritto interno 5.

Il principio di effettività in senso stretto preclude, invece, l’applicazione di ogni disposizione nazionale che impedisca o renda troppo difficile o oneroso – per il tito-lare del diritto – il riconoscimento della posizione giuridica di origine comunitaria 6. stizia UE, 15 settembre 1998, cause riunite C-279/96, C-280/96 e C-281/96, Ansaldo; Corte di Giu-stizia UE, 15 settembre 1998, causa C-231/1996, Edis; Corte di Giustizia UE, causa 15 settembre 1998, C-260/96, Spac; Corte di Giustizia UE, 17 novembre 1998, causa C-228/96, Aprile; Corte di Giustizia UE, 9 febbraio 1999, causa C-343/96, Dilexport; Corte di Giustizia UE, 10 settembre 2002, cause riunite C-216/99 e C-222/99, Prisco; Corte di Giustizia UE, 15 marzo 2007, causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken; Corte di Giustizia UE, 15 dicembre 2011, causa C-427/2010, Banca an-toniana popolare veneta.

4 Nel caso del diritto al rimborso comunitario, come per la maggior parte delle ipotesi di posi-zioni giuridiche che si generano dalle disposizioni europee o dalle discipline nazionali armonizzate, l’ordinamento europeo non si è dotato di apparati amministrativi o giurisdizionali finalizzati ad un loro riconoscimento, ma ha utilizzato il rinvio al principio di autonomia procedimentale, ricavato dall’art. 4 TFUE (prima art. 10 del Trattato CE). In base a tale rinvio, con particolare riferimento al rimborso, è lo Stato membro a dover tutelare il diritto alla restituzione dei tributi, utilizzando i pro-pri apparati amministrativi e giurisdizionali e le proprie discipline procedimentali e processuali, nel rispetto dei due parametri indicati nel testo: il principio di equivalenza e quello di effettività in senso stretto. V., su questi aspetti, ADINOLFI, La tutela giurisdizionale nazionale delle situazioni soggettive individuali conferite dal diritto comunitario, in Il dir. dell’U.e., 2001, p. 41, nonché Corte di Giustizia UE, 14 dicembre 1995, cause riunite C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel.

5 L’equivalenza è, quindi, sia il criterio per individuare il procedimento utilizzabile, sia il parame-tro per valutare come ogni disposizione, che disciplina un procedimento, non discrimini la tutela di un diritto comunitario rispetto a quella di un diritto nazionale. È, pertanto, un principio che opera esclusivamente sul piano del “confronto” con diritti e procedimenti nazionali ed è finalizzato ad at-tuare una non discriminazione fra la disciplina delle posizioni giuridiche fondate su norme comunitarie e quella delle medesime posizioni basate su disposizioni nazionali. Sul principio di equivalenza, le pronunce più significative sono: Corte di Giustizia UE, 14 dicembre 1995, cause riunite C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel; Corte di Giustizia UE, 10 luglio 1997, causa C-261/95, Palmisani; Corte di Giustizia UE, 1° dicembre 1998, causa C-326/96, Levez; Corte di Giustizia UE, 16 maggio 2000, causa C-78/98, Preston.

6 In ordine al tale ultimo aspetto, nessuna disposizione relativa al procedimento o al processo, finalizzata al riconoscimento del diritto al rimborso, può limitare la possibilità di fare valere il diritto stesso senza essere giustificata da un principio generale del giusto procedimento o del giusto proces-

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La questione, oggetto della controversia in esame, deve quindi essere analizzata alla luce di tali principi europei. Pertanto, il termine per l’azionabilità del diritto alla restituzione e il dies a quo per la decorrenza di tale termine devono essere regolati dalle norme nazionali, ma nel rispetto dei suddetti principi di equivalenza di effet-tività in senso stretto.

Nel caso in esame il contribuente ha utilizzato per l’esercizio dell’azione di re-stituzione dell’IVA indebitamente versata il termine ex art. 21, comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992.

È noto come nel sistema IVA non sia previsto un termine specifico entro il qua-le presentare l’istanza di rimborso per la restituzione dei versamenti indebiti. Per questo motivo si ritiene applicabile il termine di due anni (dal versamento indebi-to), previsto dal suddetto comma 2 dell’art. 21, secondo il quale «la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero se posteriore dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione». Tale termine è infatti utilizzabile per tutte le ipotesi in cui le leggi di imposta non ne abbiano stabilito uno ad hoc.

Numerose pronunce della Corte di Giustizia hanno – nel tempo – evidenziato come il sistema di tutela nazionale dell’indebito tributario, che stabilisce termini di decadenza per la azionabilità del diritto al rimborso, sia compatibile con i principi europei 7. so; a quanto detto consegue la disapplicazione di ogni norma nazionale che non abbia tale giustifica-zione e che limiti in concreto la possibilità di far valere il diritto. Sul principio di effettività in senso stretto, v. Corte di Giustizia UE, 14 dicembre 1995, causa C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel; Corte di Giustizia UE, 10 luglio 1997, causa C-261/95, Palmisani; Corte di Giustizia UE, 1° dicembre 1998, causa C-326/96, Levez; Corte di Giustizia UE, 9 novembre 1983, causa C-199/82, San Giorgio.

7 Con diverse pronunce si è ammesso il generale allineamento ai principi europei (di equivalen-za e di effettività in senso stretto) della disciplina che prevede per la tutela del diritto alla restituzio-ne da indebito tributario la presentazione di un’istanza di rimborso all’Amministrazione Finanziaria entro termini di decadenza. È stato posto in evidenza, infatti, come il sistema comunitario non osti all’assoggettamento del diritto alla restituzione dei tributi dall’Erario a procedimenti differenti, ed anche più onerosi, rispetto a quelli utilizzabili per le azioni di ripetizione dell’indebito da privati, a patto che detti procedimenti siano ugualmente applicabili tanto alle azioni fondate sul diritto inter-no, quanto a quelle derivanti dal diritto comunitario (v. Corte di Giustizia UE, 16 dicembre 1976, causa C-33/76, Rewe; Corte di Giustizia UE, 16 dicembre 1976, causa C-45/76, Comet; Corte di Giustizia UE, 15 settembre 1998, causa C-260/96, Spac; Corte di Giustizia UE, 9 febbraio 1999, causa C-343/96, Dilexport; Corte di Giustizia UE, 15 marzo 2007, causa C-35/05, Reemtsma Ciga-rettenfabriken; Corte di Giustizia UE, 15 dicembre 2011, causa C-427/2010, Banca antoniana popo-lare veneta).

In base al principio di equivalenza, l’ordinamento comunitario si è espresso a favore del ricono-scimento alle Commissioni tributarie della giurisdizione sulle controversie relative alla restituzione di tributi contrastanti con norme europee, escludendo la configurabilità di un’azione generale di ripetizione dell’indebito dinanzi al giudice civile nel termine di prescrizione decennale. Sulla que-stione dei termini e sul dibattito nazionale in merito al tema, v. DEL FEDERICO, Tutela del contribuen-te, cit., p. 171.

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In questo senso, secondo il paradigma della equivalenza, sono stati ritenuti ap-plicabili alle ipotesi di restituzione di tributi armonizzati o contrastanti con il dirit-to europeo i termini e i procedimenti stabiliti dal diritto interno per la tutela del-l’indebito oggettivo nella materia tributaria.

Secondo il principio di effettività, sulla base della consolidata giurisprudenza europea, il termine deve essere “congruo” e “ragionevole” e mettere in condizione ogni soggetto di ottenere la tutela del proprio diritto. A tale proposito, sono stati ritenuti ragionevoli i termini previsti dagli Stati membri per l’esercizio delle azioni di restituzione, laddove superiori a due anni dalla verificazione del fatto presuppo-sto del diritto alla restituzione. Tale spazio temporale (due anni) è stato valutato – infatti – come sufficiente a consentire un’efficace ed effettiva tutela dei soggetti titolari dei diritti 8.

Si ritiene – quindi – che il termine per la presentazione dell’istanza di rimborso nell’IVA, pari a due anni che decorrono dal presupposto della restituzione, sia con-gruo e ragionevole secondo i parametri europei.

Risulta – pertanto – necessario verificare il secondo punto della questione in esame, vale a dire l’allineamento ai principi europei della disciplina nazionale rela-tiva al dies a quo di decorrenza di tale termine.

3. La decorrenza del termine. Le ipotesi in cui la tutela non è effettiva

Nell’ordinamento nazionale la tutela del diritto alla restituzione da indebito tributario si avvia con la presentazione di un’istanza di rimborso entro termini di decadenza che decorrono dal versamento del tributo; tale disciplina è consolidata – nella nostra materia – a partire dagli anni ’90 del secolo scorso 9.

Secondo il principio di equivalenza, quindi, la decorrenza del termine per l’e-sercizio del diritto alla restituzione, anche nel caso di tributi armonizzati o incom-patibili con l’ordinamento europeo, deve essere individuata nel momento in cui è avvenuto il versamento indebito. Questa soluzione è stata adottata dalla giurispru-

8 V., su questo tema, Corte di Giustizia UE, 17 novembre 1998, causa C-228/1996, Aprile; Cor-te di Giustizia UE, 9 febbraio 1999, causa C-343/1996, Dilexport; Corte di Giustizia UE, 15 settem-bre 1998, causa C-231/1996, Edis; Corte di Giustizia UE, 10 settembre 2002, causa C-216/1999 e C-222/1999, Prisco; Corte di Giustizia UE, 29 settembre 2002, causa C-255/00, Grundig Italiana.

9 V. Cass., sez. un., 9 giugno 1989, n. 2786, la storica pronuncia che ha definito la disciplina at-tuale dell’indebito tributario. In termini chiari ed incondizionati la Corte di Cassazione ha eviden-ziato l’autonomia (rispetto alla giurisdizione civile) dell’azione di ripetizione da indebito tributario e la procedimentalizzazione della tutela del diritto alla restituzione (dei tributi). In base a tale ultimo principio, l’esercizio del diritto al rimborso è subordinato alla tempestiva presentazione di una istan-za all’Ufficio competente entro termini di decadenza. Da tale posizione la Corte di Cassazione na-zionale non si è più discostata negli anni.

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denza nazionale e condivisa dalla Corte di Giustizia Europea 10, sempre che non precludesse del tutto la possibilità del soggetto di ottenere una tutela del proprio diritto.

In tale ultima ipotesi, il sistema comunitario non valuta la disciplina come effet-tiva (vale a dire allineata al principio di effettività, come spiegato al par. 2) ed im-pone all’ordinamento nazionale di operare alcuni correttivi alle regolamentazioni tradizionali.

L’effettività delle disposizioni volte a regolare la tutela del diritto al rimborso deve essere valutata come possibilità concreta di ottenere una protezione in ogni caso specifico; ne consegue che in tutte le ipotesi in cui tale risultato non sia realiz-zabile deve essere riconosciuta una decorrenza dei termini differente e tale da rea-lizzarlo.

Ciò si traduce nel riconoscimento della decorrenza del termine a partire da un momento differente e successivo rispetto a quello del versamento dell’imposta; i termini dovrebbero prendere avvio da un fatto che realmente ponga il soggetto in condizione di conoscere la propria posizione giuridica e di ottenere una protezione.

In linea generale, quindi – sulla base del principio di autonomia procedimenta-le – è compatibile con l’ordinamento europeo far decorrere i termini per l’esercizio del diritto (alla restituzione) dal momento del versamento indebito. Tale imposta-

10 L’impostazione suddetta è stata pienamente recepita nell’ambito della questione della tassa di concessione governativa per l’iscrizione delle società sul registro delle imprese, fattispecie di notevo-le importanza nella evoluzione della disciplina nazionale del rimborso dei tributi contrastanti con l’ordinamento europeo. La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è consolidata a favore del-l’applicazione del termine di decadenza per la presentazione dell’istanza di rimborso dei tributi con-trastanti con l’ordinamento comunitario che decorresse dal versamento dei tributi stessi. V. Cass., sez. trib., 22 aprile 2004, n. 17625, Cass., sez. trib., 20 marzo 2003, n. 10220; Cass., sez. trib., 17 feb-braio 2003, n. 10665, II, 245. Tale conclusione si è ritenuto avesse una valenza generale e non circo-scritta al caso specifico della tassa di concessione governativa.

La posizione in esame ha – tuttavia – trovato delle opinioni dissenzienti in acuta dottrina nazio-nale, che ha evidenziato la necessità di far decorrere i termini di decadenza dalla pronuncia della Corte di Giustizia. Si ricorda che l’incompatibilità comunitaria della tassa di concessione governati-va è stata evidenziata da una pronuncia della Corte di Giustizia UE (20 aprile 1993, causa C-71/91 e C-178/91, Ponente Carni e Cispadana Costruzioni), che nel 1993 ha chiarito che la tassa in esame ricadeva nel divieto dell’art. 10 della Direttiva n. 335/69 ed ha consentito ai contribuenti italiani di acquisire conoscenza del contrasto fra la norma interna e quella comunitaria.

Con tale sentenza (e soltanto nel 1993) è nato l’interesse ad agire per la restituzione delle som-me, mentre i contribuenti versavano tali imposte dal 1973. V., in particolare, FALSITTA, Tassa sulle società indebita e diritto di rimborso, in Riv. dir. trib., 1996, II, p. 641, rilevava come la circostanza che «la Cassazione stabilisca che il dies a quo dell’azione decorre dal giorno del pagamento dell’indebito è una risposta che ignora le peculiarità del caso in esame ... Prima, infatti, del 20 aprile 1993 era buio sulla materia. La sentenza ha spazzato via questo cono d’ombra ed ha chiarito le idee a tutti ... È con questa sentenza, dunque, che i cittadini italiani e gli stessi giudici italiani acquistano sicura cono-scenza del contrasto per incompatibilità esistente fra la normativa interna sulla tassa di rinnovo an-nuale e la direttiva comunitaria 335».

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zione deve essere rivista in tutti i casi in cui alla data del versamento non esistono i presupposti che fondano l’interesse del soggetto ad agire (per la restituzione). Que-sto interesse – infatti – è collegato ad un fatto successivo, che consente al contri-buente di comprendere la natura indebita del versamento effettuato (in precedenza) a titolo di tributo.

Sulla questione specifica ed in relazione all’ordinamento nazionale, la Corte di Giustizia si è pronunciata in una recente sentenza interpretativa relativa alla “Ban-ca popolare antoniana veneta” 11. Nel caso di specie si è registrato un importante overruling interpretativo dell’Amministrazione Finanziaria in merito alla tassazione ai fini IVA dei contributi corrisposti ai consorzi di bonifica dai consorziati.

In tale ipotesi, la decorrenza dei termini di rimborso dal versamento dei tributi rendeva totalmente impossibile la realizzazione di una tutela in capo al cedente/ prestatore, realizzando una totale asimmetria nell’ambito del sistema dell’IVA. La Corte di Giustizia ha così censurato la disciplina nazionale, imponendo nel caso specifico di rimettere in termini il cedente/prestatore per l’esercizio dell’azione di restituzione.

Con tale pronuncia, l’ordinamento interno è stato messo di fronte alla necessità di rivedere gli assetti stabili e consolidati in tema di rimborso dei tributi, indivi-duando per l’ipotesi della tutela del cedente/prestatore un fatto diverso dal versa-mento, quale dies a quo per la decorrenza del termine per l’esercizio del diritto alla restituzione 12.

11 V. Corte di Giustizia UE, 15 dicembre 2011, causa C-427/10, Banca popolare antoniana veneta. La questione è nata dalle incertezze nazionali in merito al riconoscimento della natura di tributo al contributo consortile dovuto per legge dai consorziati ai consorzi. In ambito nazionale, durante l’ul-timo ventennio del secolo scorso, erano registrati dibattiti sulla natura dei contributi consortili, chia-riti da una Circolare della Amministrazione Finanziaria del 29 febbraio 1999, che ha ammesso la natura tributaria dei contributi, riconoscendo, quindi, la non assoggettabilità ad IVA sia dei contri-buti (in quanto tributi), sia delle operazioni di riscossione attinenti agli stessi (in quanto servizi di riscossione dei tributi, rientranti nella esenzione di cui all’art. 10, n. 5, del D.P.R. n. 633/1972). V. AMATUCCI, L’overruling interpretativo ministeriale, cit., p. 9, il quale pone in rilievo come il caso in esame deve essere inquadrato tra le vicende di efficacia temporale degli atti interpretativi, che gene-rano il diritto al rimborso dei tributi indebitamente versati. Più in particolare, è riconosciuta sulla base del principio di effettività una forma di tutela ampia, basata sulla efficacia degli atti amministra-tivi (contenenti un overruling interpretativo), che determina l’azionabilità del rimborso con il supe-ramento dei rapporti esauriti e della decadenza.

12 V. MICELI, Nuove prospettive nazionali in materia di rimborso IVA, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 767. Nel caso in esame la difficoltà ad ottenere il rimborso nasceva dalla questione relativa alla diffe-rente tutela riconosciuta in relazione alla restituzione dell’imposta tra il cedente/prestatore e il ces-sionario/committente. La possibilità per quest’ultimo di promuovere un’azione di ripetizione del-l’indebito oggettivo dinanzi al giudice ordinario gli consente di ottenere una tutela della propria po-sizione giuridica, differentemente dalla sua controparte dell’operazione economica, che è soggetta ai termini di decadenza stabiliti dalla legge tributaria. Nel caso specifico il cessionario/committente aveva agito ed ottenuto la restituzione delle somme (indebitamente assolte) dopo la Circolare dell’Ammi-

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La fattispecie, analizzata dalla Corte in quest’ultima sentenza, presenta – però – delle differenze rispetto a quella che si è realizzata nel caso in esame, in quanto il problema oggetto della sentenza “Banca popolare antoniana veneta” nasceva dalla differenza di termini per la tutela del diritto alla restituzione tra i due soggetti del-l’operazione economica IVA, che impediva una protezione del soggetto prestato-re/cedente, realizzando la suddetta asimmetria tra le due posizioni giuridiche.

Nel caso oggetto di analisi in questa sede il soggetto da tutelare è soltanto il sol-vens e la questione si sostanzia nella possibilità di far decorrere il termine per l’azio-ne da un fatto diverso e successivo rispetto al versamento. Secondo tale prospetti-va, la sentenza “Banca popolare antoniana veneta” costituisce un importante prece-dente perché la Corte di Giustizia ha ammesso che i termini nazionali, anche se astrattamente congrui e ragionevoli, non sono allineati al principio di effettività se il fatto presupposto (da cui iniziano a decorre) rende impossibile una tutela nel caso concreto.

4. Le posizioni nazionali sulla questione della decorrenza del termine in caso di sentenza della Corte di Giustizia e di overruling interpretativo dell’Ammini-strazione Finanziaria. Il recente rinvio alle Sezioni Unite

Come anticipato in premessa, le questioni trattate nella sentenza in esame sono oggetto di una recente ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite della Corte di Cas-sazione, in merito alla quale la Corte non si è ancora pronunciata 13.

Le evoluzioni della giurisprudenza europea e la necessità di garantire una tutela effettiva nella disciplina nazionale di restituzione delle imposte (armonizzate o in-compatibili) hanno alimentato un importante dibattito interpretativo nell’ordina-mento interno, che verte sulla possibilità di riconoscere quale dies a quo – per la decorrenza dei termini (relativi alle azioni di restituzione) – un fatto differente dal versamento indebito, costituito da una pronuncia della Corte di Giustizia o da un atto interpretativo dell’Amministrazione Finanziaria, che abbiano modificato un assetto normativo stabile e consolidato nel tempo.

Una posizione in questo senso scardinerebbe il sistema di tutela tradizionale in materia di indebito oggettivo tributario, che fonda la sua struttura e disciplina, or-mai da circa 25 anni, sulla decorrenza dei termini dell’azione dal momento del ver-samento indebito e non riconosce alcuna rilevanza alle fattispecie indicate. nistrazione Finanziaria oggetto dell’overruling interpretativo, mentre la stessa possibilità non era sta-ta riconosciuta ad cedente/prestatore a seguito della restituzione delle somme alla sua controparte contrattuale. Nel caso in esame, come analizzato, il dies a quo del termine dell’azione doveva essere individuato nell’ingiustificato arricchimento dell’Erario ai danni del soggetto IVA, che si realizzava con la restituzione dell’imposta da parte di quest’ultimo al cessionario/prestatore.

13 Ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite della sez. VI, 16 gennaio 2013, n. 959.

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Il suddetto dibattito nasce da alcuni importanti casi che si sono verificati nel-l’ordinamento interno negli ultimi anni, fra i quali – in particolare – vi è anche la questione della “Banca antoniana popolare veneta”, analizzata nel paragrafo prece-dente.

La fattispecie, oggetto del rinvio alle Sezioni Unite, si è invece originata dalla pronuncia della Corte di Giustizia UE, 21 luglio 2005, C-207/04, causa Vergani, con la quale è stata dichiarata l’incompatibilità comunitaria della disposizione nazionale che ha previsto una tassazione differente tra uomini e donne sugli incentivi all’esodo riconosciuti ai lavoratori 14. All’interno di tale questione, le Commissioni tributarie di merito hanno deciso a favore del decorso dei termini per l’azione di restituzione dalla data della decisione della Corte di Giustizia.

Quest’ultima fattispecie è stata di poco successiva alla nota questione dell’im-posta di consumo sugli oli lubrificanti dichiarata (dalla Corte di Giustizia UE, 25 settembre 2003, C-437/2001) 15 non conforme ai principi comunitari. In merito a tale questione è noto che in una occasione la Suprema Corte nazionale abbia rile-vato come il termine per l’esercizio del diritto al rimborso non decorresse dal ver-samento del tributo, ma dal momento della pronuncia della Corte di Giustizia che aveva evidenziato l’incompatibilità comunitaria 16.

14 La questione (affrontata in Corte di Giustizia UE, 21 luglio 2005, causa C-207/04, Vergani) atteneva più specificamente alla incompatibilità comunitaria dell’art. 19, comma 4 bis del TUIR con la Direttiva comunitaria n. 76/207. Tale disposizione nella versione introdotta dall’art. 5 del D.Lgs. n. 314/1997 stabiliva una tassazione differenziata tra uomini e donne in relazione agli incentivi all’e-sodo. La Corte di Giustizia ha affermato che tale disposizione si poneva in contrasto con la suddetta Direttiva relativa al principio di parità di trattamento tra uomini e donne in relazione all’accesso al lavoro e al trattamento retributivo. Sulla questione, la Corte di Giustizia è ritornata nella sent. 16 gennaio 2008, causa C-128/2007, a seguito di un ulteriore rinvio nazionale in merito alla possibilità di tutela dei contribuenti anche a seguito della modifica normativa messa a punto con la L. n. 248/2006. V. SCALINCI, Primato comunitario, affidamento del contribuente e decorrenza del termine per l’istanza di rimborso del tributo comunitariamente illegittimo, in Giur. merito, 2012, p. 1722.

15 Si tratta della incompatibilità che riguarda l’accisa versata sugli oli minerali non destinati alla combustione o carburazione, ai sensi dell’art. 62, comma 1, D.Lgs. n. 504/1995 (prima art. 30, comma 1, del D.L. n. 331/1993). Tale disposizione è stata dichiarata incompatibile con quanto sta-bilito nella Direttiva n. 92/12/CE (art. 3, par. 2) e nella Direttiva n. 92/81/CEE (art. 8, par. 1, lett. a), dalla sentenza della Corte di Giustizia UE, 25 settembre 2003, causa C-437/01, Commissione contro Repubblica italiana, resa ad esito di un procedimento di infrazione verso lo Stato italiano. In ambito europeo, infatti, la destinazione dell’uso degli oli minerali è determinante per definirne il regime tri-butario. Sulla questione, CIPOLLA, op. cit., p. 502.

16 Si tratta della sent. 26 ottobre 2011, n. 22282. In questa sede, la Corte di Cassazione ha – in-fatti – affermato che ove una posizione (dell’Amministrazione Finanziaria ovvero della giurispru-denza) si connoti per l’imprevedibilità deve escludersi l’operatività della preclusione ovvero della de-cadenza nei confronti della parte che abbia incolpevolmente confidato in una precedente interpre-tazione. Sulla medesima questione, invece, hanno ribadito i principi tradizionali, affermando che il termine del rimborso decorra dal versamento indebito, altre pronunce della medesima Corte di le-gittimità (Cass., sez. trib., 23 marzo 2012, n. 4670 e Cass., sez. trib., 25 luglio 2012, n. 13087).

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Nell’ordinanza di rimessione la Suprema Corte rileva la necessità di rivedere il sistema del rimborso dei tributi per quel che attiene alla disciplina delle decadenze, evidenziando l’esistenza di «indici di un processo evolutivo attualmente in corso nell’ordinamento giuridico», di cui è necessario tener conto per ricostruire una di-sciplina effettiva e realmente allineata ai valori europei 17.

La Corte di Cassazione definisce la nozione di termine di decadenza alla luce del ruolo che tali termini assolvono nella tutela dei diritti nel sistema tributario. La ricostruzione presenta alcuni caratteri innovativi rispetto alla disciplina giuridica nazionale.

Secondo la Corte, i termini di decadenza nascono per garantire il valore della certezza dei rapporti giuridici; a tale fine determinano degli effetti preclusivi (all’e-sercizio di un’azione) legati al decorso del tempo allo scopo di consolidare le en-trare erariali. Gli effetti (preclusivi) operano verso colui che non si è attivato per l’esercizio all’azione finalizzata al riconoscimento del proprio diritto. In relazione a tale ultimo elemento, i termini di decadenza realizzano (implicitamente) anche una sorta di “effetto sanzionatorio” nei confronti del soggetto che – per un certo e de-finito lasso di tempo (quello del termine di decadenza) – sia rimasto colpevolmente inerte ed indifferente in relazione alla tutela del proprio diritto. Pertanto, un ter-mine di decadenza può correttamente operare e decorrere soltanto nei confronti di chi sia messo in condizione effettiva di conoscere l’esistenza del proprio diritto e la possibilità di azionarlo.

In senso opposto – quindi – la decadenza non può operare se il soggetto non ha alcuna colpa o responsabilità in merito all’inutile decorso del tempo, in quanto non ha conoscenza della propria posizione soggettiva e (conseguentemente) della facoltà di farla valere.

Il principio della tutela effettiva dei diritti dovrebbe condurre – pertanto – ad un temperamento della “intangibilità dei meccanismi decadenziali”, che si traduca nella necessità di non sanzionare (con una preclusione alla tutela dei diritti) tutte le ipotesi in cui la decadenza è frutto di errore incolpevole del contribuente, che risulti sostenuto – a causa della presenza di posizioni interpretative stabili – dalla convinzione di aver attuato un comportamento conforme all’ordinamento giuridi-co vigente 18.

In tale impostazione e nei passaggi argomentativi principali pare che i termini di decadenza siano trattati alla stregua di quelli di prescrizione, dal momento che

17 Testualmente nei motivi dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite della sez. VI, 16 gen-naio 2013, n. 959.

18 Secondo la Corte di Cassazione, infatti, l’esistenza di una legge o di una posizione consolidata dell’Amministrazione Finanziaria determinano un’indiscutibile efficacia dissuasiva in capo al titolare del diritto in ordine ad una possibile tutela delle proprie posizioni soggettive, in quanto lo stesso è convinto di aver agito secondo diritto ed in conformità alle disposizioni vigenti (v. ord., sez. VI, 16 gennaio 2013, n. 959).

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solo in relazione a questi ultimi dovrebbe, secondo la disciplina giuridica tradizio-nale, rilevare l’inerzia del soggetto in merito all’esercizio del proprio diritto. Diffe-rentemente, i termini di decadenza nascono per garantire (esclusivamente) la cer-tezza del diritto e non attribuiscono alcun rilievo al comportamento della parte che, senza colpa, non abbia esercitato l’azione a tutela del proprio diritto.

In questo senso la Corte di Cassazione si distacca dalla disciplina tradizionale della decadenza, per utilizzare dei percorsi giuridici nuovi per l’ordinamento nazio-nale 19.

Secondo tale ricostruzione, infatti, si riscontrerebbe sempre una decadenza in-colpevole in tutte le ipotesi in cui il contribuente abbia agito in coerenza a posizio-ni interpretative consolidate, che sono state invece modificate radicalmente in un momento successivo.

La necessità di trovare una giusta composizione tra la certezza del diritto (ga-rantita dai termini decadenziali) e l’effettività della tutela dovrebbe così condurre il sistema nazionale ad eliminare ogni distanza tra «la possibilità teorica di esercitare il diritto al rimborso e il momento in cui tale possibilità teorica acquista la conno-tazione di una iniziativa ragionevolmente esperibile alla luce del quadro normativo vigente» 20.

In attesa che la Corte di Cassazione si pronunci sulla questione, si auspica una evoluzione in questa direzione, che assecondi l’effettiva possibilità di tutela del soggetto. Sulla base di tale impostazione – quindi – ogni atto interpretativo quali-ficato (giurisdizionale o amministrativo), che modifichi una interpretazione stabile e consolidata, potrebbe assurgere a presupposto del diritto alla restituzione e defi-nire il dies a quo per l’esercizio del diritto al rimborso.

19 La prescrizione è l’istituto giuridico che determina l’estinzione di un diritto a causa dell’inerzia del proprio titolare, protratta per un determinato periodo di tempo. L’inerzia è fondamentale perché si perfezioni la prescrizione e si configura nel caso di comportamento giuridico permanente consistente nel non esercizio di un diritto. La centralità dell’inerzia nell’ambito della nozione di prescrizione si rileva anche nella disciplina della sospensione o della interruzione, ove si evidenziano fatti giuridici che impediscono l’esercizio del diritto e determinano come effetto la sospensione ovvero l’interruzione del termine di prescrizione. V. GRASSO, (voce) Prescrizione (dir. trib.), in Enc. dir., XXXV, Milano, 1968, ad vocem.

La decadenza è, invece, l’istituto giuridico che determina l’estinzione di un diritto a causa del man-cato esercizio dell’azione entro tempi definiti. La non attività nella decadenza è valutata come circo-stanza obiettiva (decorso del termine in assenza dell’esercizio di un atto giuridico) e non è ricono-sciuta l’operatività della interruzione (in via assoluta) e della sospensione del termine (quest’ultima è preclusa solo se non sia differentemente previsto). V. TEDESCHI, (voce) Decadenza (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XI, Milano, 1968, ad vocem. Si ritiene, a tal proposito, che mentre nella prescrizione la non attività è un fatto giuridico (estintivo), nella decadenza invece è una condizione risolutiva. V. TEDESCHI, op. ult. cit.

20 Testualmente nei motivi dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite della sez. VI, 16 gen-naio 2013, n. 959.

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Tra gli atti interpretativi qualificati si possono menzionare: le sentenze della Cor-te di Giustizia, le posizioni dell’Amministrazione Finanziaria, le pronunce naziona-li della Corte di Cassazione a Sezioni Unite o della Corte costituzionale 21.

Naturalmente l’accoglimento di una posizione di questo tipo necessiterà di pre-cisazioni e di limiti specifici.

Secondo il nostro punto di vista, soltanto i suddetti atti interpretativi qualifica-ti, in grado di modificare radicalmente una interpretazione stabile, possono costi-tuire il dies a quo per la (nuova) decorrenza dei termini di decadenza.

Tali termini, inoltre, possono (ri)decorrere soltanto nelle ipotesi di contribuenti che al momento dell’overruling non siano già decaduti dall’esercizio del diritto al rimborso perché il termine è già spirato. Nel casi in cui l’atto interpretativo venga emesso quando il termine (di decadenza) per l’esercizio del diritto al rimborso è già decorso si ritiene che il contribuente non possa più esperire l’azione; in tali ipotesi – infatti – la certezza dei rapporti giuridici dovrebbe prevalere sulla necessità di tute-la del contribuente.

A tale posizione possono fare eccezione soltanto le ipotesi in cui il soggetto che chiede la restituzione sia stato destinatario di un’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo ai fini IVA (o delle accise o di altri tributi indiretti connati da rivalsa o tra-slazione tra privati) dinanzi al giudice ordinario ed abbia restituito le imposte alla sua controparte contrattuale, come avvenuto nella causa della “Banca popolare an-toniana veneta”, analizzata nei paragrafi precedenti.

In tali casi, l’asimmetria dei termini tra l’azione dinanzi al giudice ordinario e quella dinanzi alle Commissioni tributarie impone di far decorre il termine di deca-denza dal momento in cui il soggetto IVA è obbligato a restituire l’imposta alla sua controparte economica 22.

In assenza di una soluzione di questo tipo la restituzione dell’imposta alla pro-pria controparte realizzerebbe un ingiustificato arricchimento a favore dell’Erario, vietato dall’ordinamento europeo.

21 Come rilevato anche nell’ordinanza di rimessione alle sez. un., della sez. VI, 16 gennaio 2013, n. 959, tale ricostruzione risulta coerente con i principi generali nazionali e comunitari. Secondo le ricostruzioni europee, infatti, in adesione al canone dell’effettività l’ordinanza afferma il principio secondo il quale le decadenze decorrono della concreta possibilità di far valere i propri diritti. A li-vello nazionale l’ordinanza stessa percorre – invece – una strada già avviata da qualche anno con la disciplina della rimessione in termini a livello processuale e di altre discipline, che affermano l’e-sistenza di una responsabilità dei soggetti che incorrono in decadenze soltanto in presenza di colpa.

22 V. MICELI, Nuove prospettive nazionali, cit., p. 267.

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5. La maturata decadenza nel caso specifico

Trasponendo le riflessioni effettuate nei paragrafi precedenti alla fattispecie a-nalizzata in questa sede, si osserva che nella sentenza in esame non si sono valoriz-zati gli importanti passaggi realizzati in questi ultimi mesi sul tema del dies a quo della decorrenza del termine per la tutela del diritto al rimborso.

Si afferma, infatti, nella sentenza qui commentata, che «il decorso dei termini per le azioni di rimborso non può essere fatto coincidere con la data di emanazio-ne di Risoluzioni o Circolari dell’Amministrazione Finanziaria, essendo tali atti in-terni certamente inidonei a determinare l’insorgenza di un diritto prima inesisten-te»; tali atti – secondo la Corte – sono soltanto «semplici presupposti chiarifica-tori della posizione espressa» e il termine per la tutela decorre – comunque – dalla data del versamento dell’imposta.

Nel caso analizzato – invece – si sarebbero potuti riscontrare i requisiti che at-tualmente hanno determinato il nuovo orientamento sull’overruling interpretativo (analizzato nel paragrafo precedente), in quanto l’Amministrazione Finanziaria ha effettivamente modificato la propria posizione in modo radicale in ordine alla im-ponibilità IVA di alcuni proventi, sovvertendone una precedente espressa nei con-fronti del contribuente.

In ogni caso, però, nella fattispecie analizzata la tutela restitutoria non avrebbe potuto comunque avere luogo, in quanto il contribuente ha presentato un’istanza (indiscutibilmente) tardiva. Tale istanza, infatti, è successiva di quasi tre anni dalla emanazione della Risoluzione con la quale l’Amministrazione Finanziaria ha modi-ficato il suo orientamento interpretativo nonché di ben oltre due anni dall’ultimo versamento indebitamente effettuato dal contribuente 23.

Quindi, se anche la Corte avesse recepito il suddetto principio (secondo il qua-le il termine per l’azione decorre dalla emanazione della Circolare), non si sarebbe modificato l’esito della controversia.

Nella fattispecie oggetto della sentenza sarebbe stata necessaria, al fine di otte-nere una tutela restitutoria, la presentazione di una tempestiva istanza di rimborso dopo l’emanazione della Circolare dell’Amministrazione Finanziaria. In questo mo-do, si sarebbe comunque conseguita la tutela restitutoria per i versamenti relativi ai due anni precedenti (2001-2002) e si sarebbe potuta ottenere (con il recepimento della nuova posizione della Corte di Cassazione) la remissione in termini anche per i due anni ancora precedenti (1999-2001).

23 Il contribuente ha effettuato i versamenti IVA fino a gennaio 2004; la Circolare con la quale l’Amministrazione ha cambiato orientamento è del 2003 (3 aprile 2003, n. 83/E); l’istanza di rimborso è stata presentata nel marzo 2006 quando il termine biennale (previsto dall’art. 21, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992) era del tutto spirato sia se decorrente dal momento dell’ultimo versamento inde-bito (gennaio 2004), sia se decorrente dalla emanazione della Circolare interpretativa (3 aprile 2003).

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Un’istanza di rimborso tempestiva avrebbe comunque garantito almeno due anni di tutela restitutoria, anche in assenza delle auspicate aperture da parte della Corte di Cassazione.

Inoltre, la circostanza che il contribuente abbia presentato un interpello nel 2004 non modifica in alcun modo l’esito della decisione.

L’istanza di interpello è finalizzata ad ottenere un parere preventivo dell’Ammi-nistrazione Finanziaria in ordine a comportamenti che non sono stati ancora posti in essere in presenza di obiettiva incertezza. È noto, peraltro, come l’interpello sia uno strumento interpretativo e non un mezzo per ottenere una tutela di proprie posizioni giuridiche.

Nel caso in esame – pur sussistendo sicuramente uno stato di obiettiva incer-tezza (in quanto l’Amministrazione Finanziaria aveva modificato la propria posi-zione in merito alla tassazione delle somme) – non esisteva però il requisito della “anteriorità” del parere rispetto al comportamento del contribuente, in quanto (in relazione al secondo interpello presentato nel 2004) le imposte erano state già in-teramente versate.

La scelta di presentare un’istanza di interpello appare, pertanto, non corretta sul piano giuridico e, comunque, non in grado di garantire una tutela nel caso spe-cifico.

Infine, un’ultima possibilità di azione che, nel caso in esame, avrebbe potuto consentire al contribuente di addivenire ad una tutela era quella della presentazione di un’istanza di autotutela all’Amministrazione Finanziaria, giustificata dalla presen-za di fatti sopravvenuti (per l’appunto l’overruling interpretativo).

In merito a tale ultima fattispecie è noto come in ambito nazionale si siano aperti alcuni spazi di tutela in capo al contribuente, ammettendo anche la possibilità di un’a-zione dinanzi alle Commissioni tributarie, avviata con l’impugnazione del diniego a provvedere da parte dell’Amministrazione Finanziaria 24. A tale proposito si ritie-ne che, in seguito alla maturazione della decadenza dall’azione, la presentazione di

24 È noto come a seguito della pronuncia della Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776, sia stata pacificamente ammessa la giurisdizione delle Commissioni tributarie, per i casi di impugnazione del diniego dell’Amministrazione Finanziaria a fronte della presentazione di un’istanza di autotutela tri-butaria da parte del contribuente. Si evidenzia, però, come attualmente (sebbene non vi sia una po-sizione unanime in merito alla questione della impugnabilità o meno del diniego di autotutela), si regi-stri un indirizzo abbastanza importante che rileva l’impugnabilità del diniego di autotutela, quando il contribuente abbia sollevato elementi e fatti sopravvenuti originariamente non valutati, perché avve-nuti successivamente rispetto all’emissione dell’(originario) atto impositivo. V. Cass., sez. un., 10 agosto 2005, n. 16776; Cass., sez. trib., 20 febbraio 2006, n. 3608; Cass., sez. trib., 26 dicembre 2007, n. 1710; Cass., sez. un., 6 febbraio 2009, n. 2870; Cass., sez. un., 16 febbraio 2009, n. 3698 e Cass., sez. trib., 12 maggio 2010, n. 11457. Nel caso in esame non vi sarebbe un atto impositivo ille-gittimo, ma un versamento indebitamente effettuato, ascrivibile (senza alcun dubbio) tra i vizi gravi dell’imposizione che legittimano l’autotutela tributaria.

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un’istanza di autotutela avrebbe potuto costituire uno strumento utilizzabile per tentare di riaprire il procedimento ed ottenere una tutela piena del diritto alla resti-tuzione.

6. Ulteriori considerazioni sulla sentenza in esame. Apertura verso la giurisdi-zione delle Commissioni tributarie per le azioni ex artt. 2033 c.c. e 2041 c.c.?

Nella sentenza in esame si effettua un ulteriore passaggio importante in tema di tutela del contribuente.

La Corte di legittimità cassa con rinvio la sentenza, inoltrandola alla Commissio-ne regionale, al fine di esaminare le questioni relative ad un’eventuale obbligazione risarcitoria dell’Amministrazione Finanziaria ex art. 2043 c.c. ovvero ad un’obbli-gazione di tipo indennitario da ingiustificato arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c.

In merito a tale statuizione è necessario effettuare alcune riflessioni. Potrebbero effettivamente sussistere i presupposti per una tutela di tipo risarci-

torio (ex art. 2033) ovvero di tipo indennitario da ingiustificato arricchimento (ex art. 2041), in quanto nel caso in esame si riscontrano indici sintomatici di una pos-sibile responsabilità amministrativa, quali: l’assenza di colpa del contribuente che si è costantemente adeguato alle posizioni dell’Amministrazione Finanziaria in meri-to ai comportamenti da tenere, l’evidente non debenza delle somme versate, la ne-cessità di garantire una tutela nel caso specifico.

A tale proposito si precisa che la verifica dei presupposti della tutela risarcitoria debba essere effettuata preventivamente rispetto a quella relativa ai presupposti del-l’azione da ingiustificato arricchimento. Nel nostro ordinamento, infatti, la tutela da ingiustificato arricchimento è sussidiaria e residuale e può essere riconosciuta soltanto nelle ipotesi in cui non è possibile esperire una tutela di tipo restitutorio o risarcitorio. Si tratta, inoltre, di un tipo di tutela molto debole nei confronti del sol-vens, al quale è riconosciuto esclusivamente un equo indennizzo.

Si comprende quindi che si dovrà procedere, in prima battuta, al riscontro dei presupposti di un diritto di risarcimento del danno e soltanto in caso di esito nega-tivo di tale ultimo riscontro alla verifica dell’esistenza dei presupposti di un diritto all’indennizzo da ingiustificato arricchimento.

L’elemento che desta stupore nella pronuncia in esame è tuttavia quello relati-vo al rinvio per la determinazione dei presupposti di tali azioni. Fino a questo mo-mento la dottrina e la giurisprudenza nazionali erano concordi nel ritenere che la giurisdizione relativa all’azione di responsabilità dell’Amministrazione Finanziaria e quella inerente all’azione di ingiustificato arricchimento fossero senza alcun dub-bio del giudice civile. Le Commissioni tributarie hanno infatti una giurisdizione circoscritta alla “controversia tributaria” (relativa dalla definizione dell’an e nel

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quantum del tributo) ovvero alle materie comunque rientranti nell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992 25.

Nella pronuncia in esame, come anticipato, la Corte rinvia alla Commissione tri-butaria regionale per verificare l’esistenza dei presupposti per tali azioni, afferman-do espressamente che «il giudice del rinvio provvederà all’esame delle questioni relative al dedotto obbligo risarcitorio dell’Amministrazione Finanziaria per con-dotta illecita nei confronti della contribuente ovvero indennitario per ingiustificato arricchimento».

In merito a tale questione, la sentenza in esame potrebbe aver effettuato un pas-saggio inaspettato, relativo al riconoscimento della giurisdizione di queste azioni al giudice tributario.

Sulla questione – però – è necessario attendere le successive posizioni che ver-ranno espresse sul punto nonché la decisione che la suddetta Commissione Regio-nale renderà sulla questione.

7. Considerazioni conclusive

La sentenza analizzata ha evidenziato numerosi spunti di riflessione su questio-ni attuali, che hanno messo in luce l’approssimarsi di importanti evoluzioni nella disciplina della tutela del diritto alla restituzione dei tributi.

Tali questioni si possono sintetizzare:

nella rilevanza che potrebbe essere riconosciuta agli atti interpretativi per la decorrenza dei termini per la tutela del diritto al rimborso;

nella garanzia che ogni soggetto sia messo in condizione di ottenere una giu-stizia effettiva in ogni caso concreto;

nella necessità che si rispettino i termini per l’esercizio delle azioni, al fine di mettersi in condizione di ottenere la suddetta giustizia effettiva.

Nel caso analizzato non si riconosce una rilevanza agli atti interpretativi, igno-rando un dibattito che – da qualche anno – ha coinvolto l’ordinamento nazionale ed ha condotto anche alla rimessione della questione alle Sezioni unite della Corte di Cassazione. In merito a tale controversia la Corte di legittimità non si è ad oggi pronunciata.

Sul punto si ritiene possibile il riconoscimento di un rilievo, ai fini della de-correnza dei termini per l’esercizio dell’azione di restituzione, agli atti interpreta-tivi qualificati che abbiano modificato una interpretazione stabile e consolidata

25 V. recentemente sul tema FICARI, Il processo tributario, in FANTOZZI (a cura di), Diritto tributa-rio, Milano, 2012, p. 983.

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Cass., sez. trib., 6 settembre 2013, n. 20526

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di norme giuridiche, alla quale il contribuente si è fiduciosamente affidato. Il compimento di un passaggio in questa direzione metterà indiscutibilmente in

crisi punti fondamentali dell’impianto logico e normativo del diritto alla restitu-zione dei tributi secondo l’ordinamento nazionale 26.

Il passaggio appare però inevitabile. La disciplina tradizionale non riesce a garantire una giustizia in diverse ipotesi

(come quella analizzata nel caso in esame) in cui il contribuente si è affidato, nel-l’adempimento dei propri obblighi tributari, alle indicazioni fornite dagli atti inter-pretativi qualificati.

Questi ultimi – nell’attuale sistema giuridico multilivello e globalizzato – hanno assunto un ruolo centrale ai fini della comprensione da parte di ogni contribuente delle diverse norme giuridiche e della fondatezza dei diritti da azionare.

In altre parole, gli atti interpretativi guidano e indirizzano il contribuente nei comportamenti da tenere, rivestendo a livello sostanziale un ruolo affine a quello delle norme giuridiche stesse.

Il rinnovato ruolo degli atti interpretativi è anche il riflesso della circolazione dei modelli giuridici e dei principi dell’ordinamento europeo; in tale ultimo assetto – in particolare – sulla base della tradizione dei paesi anglosassoni, si è da sempre af-fermata la centralità dell’attività interpretativa (soprattutto giurisdizionale) per la definizione dei contenuti delle diverse norme giuridiche.

L’accoglimento di questa posizione reca con se un’altra inevitabile conseguen-za, sempre espressione della circolazione dei modelli giuridici indotta dall’espe-rienza comunitaria.

I termini di decadenza potrebbero assumere dei caratteri differenti rispetto alla disciplina tradizionale e più affini a quelli dei termini di prescrizione, in quanto si ammette in determinate circostanze un rilievo dell’inerzia incolpevole del contri-buente.

In ogni caso, come dimostrato dalla sentenza in esame, permane la necessità che ogni contribuente eserciti le azioni tempestivamente, attivandosi attraverso l’utiliz-zo dello strumento di tutela corretto ed adeguato, in quanto in assenza di queste condizioni, pur essendo titolare di legittime pretese, potrebbe non trovare alcun ristoro ai propri diritti.

26 In particolare, i punti che risultano maggiormente messi in crisi da una ricostruzione di questo tipo sono: la decorrenza dei termini di decadenza dal versamento indebitamente realizzato; l’assen-za di sospensione nella disciplina dei termini di decadenza; la natura esclusivamente interpretativa degli atti dell’Amministrazione Finanziaria o della giurisprudenza (e – quindi – l’assenza di rilievo di tali atti in merito alla natura indebita del versamento a titolo di tributo, che dipende esclusivamente dal contrasto con una norma giuridica). In altre parole, soltanto la contrarietà alla norma giuridica di un versamento lo può qualificare come indebito e soltanto dal momento del versamento dovrebbe-ro decorrere i termini di decadenza per l’azionabilità del diritto alla restituzione.

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A tale proposito, per quel concerne la tutela del diritto alla restituzione, la tem-pestiva presentazione di un’istanza di rimborso costituisce in ogni caso un requisi-to fondamentale ed imprescindibile per ottenere una tutela restitutoria dei tributi indebitamente versati.

* * *

Nelle more della pubblicazione del presente contributo è intervenuta la pro-

nuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, alla quale si è più volte fatto riferimento nel corso della trattazione. Si tratta di Cass., sez. un., 16 giugno 2014, n. 13676. In questa sede la Corte di Cassazione ha deciso di confermare l’assetto tradizionale della disciplina del diritto al rimborso da indebito tributario, ribaden-do la necessità che i termini di decadenza per l’azione di restituzione decorrano dal momento del versamento indebito. La Corte di Cassazione ha continuato cosi a riferire ai tributi incompatibili con l’ordinamento comunitario gli stessi principi messi a punto per i tributi dichiarati costituzionalmente illegittimi nella nota (stori-ca) sentenza delle Sezioni Unite 9 giugno 1989, n. 2786. In senso analogo, infatti, la Suprema Corte asserisce che «costituisce un principio immanente in ogni stato di diritto quello in virtù del quale qualsiasi situazione o rapporto giuridico diviene irretrattabile in presenza di determinati eventi, quali lo spirare dei termini di pre-scrizione o di decadenza, l’intervento di una sentenza passata in giudicato, o altri motivi previsti dalla legge, e ciò a tutela del fondamentale e irrinunciabile principio, di preminente interesse costituzionale, della certezza delle situazioni giuridiche».

Si tratta di una posizione che, come messo in luce nel testo del contributo, è coerente con i principi generali nazionali in materia di indebito oggettivo, ma risul-ta poco attenta rispetto alle evoluzioni comunitarie ed all’esigenza di garantire una giustizia effettiva nei casi in cui è soltanto il sopravvenire di un’interpretazione normativa autorevole a far nascere l’interesse ad agire per la tutela dei propri diritti.

Rossella Miceli

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Cass., sez. V, 8 maggio 2013, n. 10739 (udienza del 28 novembre 2012) – Pres. Greco, Rel. Bruschetta Imposte sui redditi – elusione fiscale – transfer pricing – prova dell’elusione – ne-cessità – non sussiste

La disciplina di cui all’art. 110, comma 7 del TUIR è norma di carattere sostanzia-le e rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva dell’elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare, incombendo sull’Amministrazione Finan-ziaria soltanto l’onere di provare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate, spet-tando invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova, dimo-strare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi dell’art. 9, comma 3, TUIR, D.P.R. n. 917/1986.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza n. 105/01/08 depositata in data 15 dicembre 2008 la Commissione

Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna – in parziale riforma della decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Rimini n. 199/01/06 depositata in data 30 otto-bre 2006 – annullava l’avviso di accertamento n. (Omissis) IRPEG ILOR 2003 emesso dalla territoriale Agenzia delle Entrate nei confronti della contribuente Optima S.r.l. nella parte in cui venivano ripresi a tassazione costi per Euro 200.000 relativi al paga-mento del marchio “Il cono d’oro” ritenuti dall’Ufficio indeducibili perché eccessivi oltreché maggiori redditi per complessivi Euro 557.566,23 relativi ad “abbuoni” a be-neficio di controllate estere ritenuti non veritieri.

Secondo la CTR, con riguardo alla ripresa a tassazione di Euro 200.000, l’Ammini-strazione non aveva dato dimostrazione del minor valore del marchio “Il cono d’oro”. Una dimostrazione che non potevasi ricavare dalle sole allegate circostanze che il mar-chio, inventato solo tre mesi prima, non fosse ancora stato registrato e pubblicizzato o anche dalle contrarie affermazioni di imprese concorrenti. Con riguardo alla ripresa a tassazione di Euro 557.566,23 – ricondotta alla fattispecie cosiddetta di transfer pricing – dalla CTR si riteneva che l’Amministrazione non avesse dimostrato il regime fiscale di maggior favore dei Paesi esteri sede delle controllate. E, questo, perché l’ammontare degli sconti praticati alle controllate estere era da considerarsi plausibile e perché l’Am-ministrazione non aveva allegato il “valore normale” delle cessioni e mentre doveva considerarsi “inconferente” la evidenziata sproporzione tra prezzi praticati a clienti e prezzi praticati alle controllate.

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Contro la sentenza della CTR, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassa-zione affidato a quattro motivi.

La contribuente resisteva con controricorso, a sua volta proponeva ricorso inciden-tale condizionato affidato a due motivi.

Contro il ricorso incidentale condizionato, l’intimata Agenzia delle Entrate non presentava difese.

La contribuente si avvaleva della facoltà di presentare memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Ex art. 335 c.p.c., riunisce i ricorsi principale e incidentale condizionato. 2. Col primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi

dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 di-cembre 1986, n. 917, artt. 9 e 75, del

D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, artt. 4 e 5, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, e dell’art. 2697 c.c.

L’Agenzia delle Entrate, a riguardo, deduceva che la CTR era incorsa in errore ad-dossando all’Amministrazione l’onere della dimostrazione del “valore adeguato del co-sto” relativo al pagamento del marchio “Il cono d’oro”. Secondo l’Agenzia delle Entra-te, difatti, l’Amministrazione non poteva esser “tenuta a provare il valore normale del bene”. E, ciò, particolarmente nel caso in esame, “in cui era impossibile Enucleare cri-teri analitici di determinazione del valore normale della transazione”. Cosicché avreb-bero dovuto esser considerati “sufficienti” i “precisi elementi indiziari circa la sussi-stenza di una rilevante divergenza tra il valore esposto in bilancio e valore effettivo”, for-niti dall’Amministrazione, per ritenere che al contribuente spettasse “l’onere di provare l’inerenza del costo o di parte di esso, fornendo tutti gli elementi atti a supportare la de-ducibilità”. La illustrazione del motivo terminava con il quesito: “se – in una fattispecie in cui l’Amministrazione finanziaria abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG, IRAP e IVA i costi sostenuti per la cessione in via esclusiva dell’uso di un marchio sostenendone l’evidente sproporzione rispetto al valore effettivo – incorra nella violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 75 e 9, D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 4 e 5, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, e art. 2697 c.c., la sentenza della CTR la quale affermi che l’Amministrazione fi-nanziaria sia tenuta a provare il valore normale del bene, mentre le anzidette disposizioni debbono essere correttamente interpretate nel senso che la stessa amministrazione deb-ba esclusivamente fornire precisi elementi indiziari circa la sussistenza di una rilevante divergenza tra il valore esposto in bilancio e valore effettivo ovvero di un comportamen-to contrario a criteri di coerenza e razionalità economica; in tale ipotesi, spetta al contri-buente l’onere diprovare l’inerenza del costo o di parte di esso”.

Il motivo è fondato. Questa Corte, a riguardo, rammenta la sua costante giurisprudenza orientata nel-

l’interpretare il D.P.R. n. 917 del 1973, art. 75, comma 4, testo applicabile ratione tem-

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Cass., sez. V, 8 maggio 2013, n. 10739

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poris, nel senso che, poiché trattasi di provare una deduzione, spetta al contribuente ex art. 2697 c.c., dimostrare, quando l’Ufficio abbia dato conto di taluni elementi di ir-realtà del valore dedotto, l’ammontare delle spese per beni o servizi da dedursi (Cass. n. 19489 del 2010; Cass. n. 9917 del 2008). E, nel caso concreto, l’Amministrazione aveva evidenziato come la novità del marchio, oltreché l’assenza di spesa pubblicitaria a sostegno dello stesso, ecc., deponessero nel senso della eccessività del costo – dedot-to a titolo di pagamento della privativa. La CTR, quindi, non ha correttamente appli-cato le disposizioni, laddove, dal mancato assolvimento di un inesistente onere della prova posto a carico dell’Amministrazione, ha fatto derivare la deducibilità del costo.

3. Col secondo motivo la sentenza è stata censurata à sensi dell’art. 360 c.p.c., com-ma 1, n. 5, per insufficiente motivazione circa la inesistenza di una rilevante divergenza tra il pagamento di Euro 200.000 del marchio e il valore “reale” dello stesso, senza al-cuna considerazione per gli elementi allegati dall’Amministrazione come, ad es., l’esser stato il marchio appena realizzato e non ancora registrato e oltreché per il fatto che non era stata sostenuta alcuna spesa per pubblicità.

Il motivo è da ritenersi assorbito dall’accoglimento del primo. 4. Col terzo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi

dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, e del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 4 e 5. Secondo l’Agenzia delle Entrate, difatti, la CTR aveva errato nel ritenere che, in materia di transfer pricing, regolata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, testo applicabile ratione tempo-ris, l’Amministrazione fosse anche tenuta all’onere della dimostrazione della esistenza di un regime di miglior favore fiscale dei Paesi esteri in cui hanno sede le altre Società del Gruppo. La circostanza del miglior regime fiscale, sempre secondo l’Agenzia delle Entrate ricorrente, era, invece, da ritenersi estranea alla fattispecie del transfer pricing, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, “Ciò in quanto la disposizione in esame ha la finalità non già di valutare il carico fiscale complessivo gravante sull’opera-zione infragruppo, ma piuttosto di procedere a una corretta determinazione del reddi-to imponibile allocabile in Italia”. L’illustrazione del motivo si concludeva col quesito: “se – in fattispecie in cui l’Amministrazione abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG e IRAP i maggiori ricavi in capo a Società di capitali derivanti da operazioni intercorse con Società controllate estere in applicazione del criterio del valore normale di merca-to dei beni oggetto di scambio in applicazione dell’art. 76, comma 5, cit. T.U.I.R., in-corra nella violazione di tale disposizione (e, conseguentemente del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 4 e 5) la sentenza della CTR la quale affermi che l’Amministrazione finan-ziaria sia tenuta a provare che in Italia viga un carico fiscale maggiore rispetto a quello del Paese di residenza delle Società controllate con cui sono intercorse le operazioni, in quanto l’anzidetto art. 76, comma 5, cit. T.U.I.R. deve esser correttamente interpre-tato nel senso che l’aspetto della potenziale elusività complessiva dell’operazione non riveste alcuna rilevanza ai fini dell’applicazione dell’anzidetta disposizione, soggiacen-do le operazioni infragruppo unicamente al rispetto del valore normale”.

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GIURISPRUDENZA RTDT - n. 2/2014

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Il motivo è fondato. Deve esser preliminarmente evidenziato come il cosiddetto transfer pricing costi-

tuisca, dal lato economico, un’alterazione del principio della libera concorrenza. E que-sto nel senso che transazioni tra Società appartenenti ad uno stesso Gruppo, ma con sede in Paesi diversi, avvengono per prezzi che non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mercato. Il fenomeno, quindi, da luogo ad uno spostamen-to di imponibile fiscale. E, pertanto, permette di sottrarre imponibile a Stati con mag-giore fiscalità. Cosicché, proprio allo scopo di preservare la esatta pretesa impositiva di ciascuno Stato, sono state adottate normative nazionali predisposte a eliminare il fe-nomeno stesso del transfer pricing. Normative che recepiscono il principio del prezzo normale delle transazioni commerciali, contenuto nel Modello OCSE art. 9, comma 1, Convenzione del 1995.

Principio recepito anche in Italia, nel testo applicabile ratione temporis, dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5. La disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale. Se si vuo-le, la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente re-pressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare. E que-sto, appunto, perché la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno eco-nomico in sé. Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing di cui dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete, provare la elusione. È pertanto ne-cessario, da parte dell’Amministrazione, soltanto dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vici-nanza della prova di cui all’art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenu-te per valori di mercato da considerarsi normali à sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3. Disposizione per la quale, come noto, son da intendersi normali i prezzi di be-ni e servizi praticati “in condizioni di libera concorrenza” con riferimento, “in quanto possibile”, a listini e tariffe d’uso. Ciò che, quindi, non esclude altri mezzi di prova do-cumentali (Cass. n. 11949 del 2012; Cass. n. 7343 del 2011). La CTR, quindi, non ha correttamente interpretato la disciplina, quando ha preteso dall’Amministrazione la pro-va dell’elusione e particolarmente la prova di una fiscalità di favore della legge straniera e della anormalità dei prezzi di transazione intergruppo.

5. Col quarto motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per insufficiente motivazione circa un punto decisi-vo della controversia, questo rappresentato dalla prova del valore normale dei beni ce-duti relativamente alla fattispecie cosiddetta di transfer pricing, che il giudice di merito illogicamente non avrebbe ritenuta assolta nonostante gli indizi portati dall’Ammini-strazione, come per es. l’ammontare degli abbuoni.

Il motivo è assorbito dall’accoglimento del terzo. 6. Col primo motivo di ricorso incidentale, condizionato all’“accoglimento del se-

condo motivo del ricorso” principale, la contribuente censurava la sentenza à sensi del-l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per “omessa/insufficiente motivazione circa un fatto

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decisivo e controverso”. La contribuente, a riguardo, deduceva che la CTR aveva erro-neamente riconosciuto all’Amministrazione la possibilità di non riconoscere i costi “con riferimento a scostamenti evidenti e del tutto irrazionali”. Fatto decisivo e con-troverso doveva quindi intendersi quello “degli elementi sufficienti a sostenere la ra-zionalità” del costo del marchio “Il cono d’oro”. Elementi che la contribuente afferma-va di aver fornito.

Il motivo è da rigettarsi, intanto, perché condizionato all’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale, rimasto, però, assorbito. Peraltro, col motivo in esame, non viene in realtà censurato un vizio di motivazione. Bensì, inammissibilmente, si cen-sura un error in iudicando consistente in thesi nell’aver la CTR ritenuto che l’Ammini-strazione potesse sindacare il costo del marchio “con riferimento a scostamenti evi-denti e del tutto irrazionali” (Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 4178 del 2007).

7. Col secondo motivo del ricorso incidentale, “condizionato all’accoglimento dei motivi n. 3 e/o 4 del ricorso” principale, la contribuente censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c., per non aver statui-to sulla eccezione circa l’inesistenza del “rapporto di controllo” tra la contribuente e le Società straniere con le quali erano avvenute le transazioni. L’argomentazione del mo-tivo terminava col quesito: “se – in una fattispecie in cui l’AF abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG e IRAP i maggiori ricavi in capo a società di capitali da operazione inter-corse con società controllate estere in applicazione dell’art. 76, comma 5, cit. T.U.I.R., incorra nel vizio di omessa pronuncia e, quindi, nella violazione dell’art. 112 c.c., la sentenza della CTR la quale, a fronte dell’eccepita carenza di prova in ordine: – alla sussistenza di un rapporto di controllo; – alla costituzione in forma societaria di acqui-renti straniere; ometta di pronunciarsi sul fatto specifico trattandosi al contrario di una questione preliminare e decisiva essendo il concetto di controllo un presupposto sog-gettivo della applicabilità della norma sopra citata, che deve essere correttamente in-terpretata nel senso che solo le operazioni tra società residenti e società estere (con esclusione quindi di entità non costituite sotto tali forme) nelle quali la prima eserciti un potere di controllo a norma dell’art. 2359 c.c., possono esser oggetto di ripresa a tassazione laddove venga secondariamente dimostrato il mancato rispetto del valore normale quale stabilito dall’art. 9 del cit. T.U.I.R.”.

Il motivo è inammissibile, giacché con lo stesso, in realtà, viene messa in discussio-ne l’interpretazione giuridica del “concetto di controllo” adottata dalla CTR. La quale ultima ha implicitamente ritenuto l’esistenza del controllo societario, senza omissioni di pronuncia sul punto, tanto che il ricorso della contribuente venne in effetti accolto sulla errata giuridica considerazione che l’Amministrazione non aveva provato il regi-me fiscale di maggior favore né la anormalità dei prezzi praticati. Ciò che, invero, pre-suppone l’esistenza del “gruppo” societario.

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Nuovi orientamenti sull’onere della prova in materia di transfer pricing internazionale

New perspectives on the burden of proof in international transfer pricing

Abstract In tema di transfer pricing internazionale la Cassazione si è ripetutamente espres-sa in favore di una qualificazione elusiva della norma di cui all’art. 110, comma 7 del TUIR. Al contrario, ora la sentenza si sofferma sulla natura sostanziale della disciplina, interpretando secondo modalità innovative la ripartizione dell’onere probatorio; secondo la Cassazione, sull’Amministrazione Finanziaria grava solo la prova della sussistenza di operazioni transnazionali, non dovendo essa dimo-strare il vantaggio fiscale ritratto dal contribuente, dunque, non dovendo provare l’elusione. Parole chiave: operazioni transnazionali, transfer pricing, elusione, onere della prova, valore normale Dealing with transfer pricing issues, the Italian Supreme Court (ISC) has often remar-ked that the national provision (Art. 110, para. 7, Presidential Decree No. 917/1986) is a specific anti-avoidance clause. On the contrary, decision No. 10739 of 8 May 2013 followed an innovative interpretation of transfer pricing rules, with particular reference to the burden of proof. In such decision, the ISC held that Tax Authorities shall demon-strate only the existence of cross-border transactions, while it shall not necessarily prove that the taxpayer obtained a reduction of his tax burden. Therefore, the Tax Authorities are not obliged to demonstrate an elusive behaviour. Keywords: cross-border transactions, transfer pricing, tax avoidance, burden of proof, market value

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità. – 3. Natura della discipli-na sul transfer pricing e onere della prova. – 4. Conclusioni.

1. Premessa

La Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata in tema di transfer pricing

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Cass., sez. V, 8 maggio 2013, n. 10739

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producendosi in un’interpretazione innovativa della disciplina in materia di prezzi di trasferimento, sia dal punto di vista sostanziale, sia con riferimento all’onere probatorio.

La conclusione raggiunta dalla Suprema Corte in merito al caso esaminato, in cui il contribuente contestava le ricostruzioni dell’Amministrazione Finanziaria, rilevando la carenza probatoria di un accertamento che non dimostrava l’effettivo vantaggio ottenuto mediante le operazioni intercorse con svariate consociate este-re, appare perentoria: l’amministrazione finanziaria, in caso di operazioni rettifica-bili ai sensi dell’art. 110, comma 7, TUIR, non deve provare l’elusione.

Per vero, la sentenza in commento presenta svariati snodi interpretativi di par-ticolare interesse, atteso che, nelle motivazioni, il giudice di legittimità si spinge mol-to al di là delle considerazioni sinora svolte in materia, giungendo a conclusioni forse non del tutto condivisibili.

Occorre premettere che, nel tempo, il transfer pricing, in virtù della rilevanza pra-tica sempre crescente delle transazioni cross-border ha acquisito un ruolo di primo piano nell’ambito dell’indagine nazionale ed internazionale, dottrinale e giurispru-denziale 1.

Il tema vive oggi un nuovo momento di notevole interesse, in virtù dell’evolu-zione della disciplina, dovuta in particolare alla rinnovata attenzione delle istitu-zioni internazionali 2, in particolare dell’UE 3, dell’OCSE 4, e dell’ONU 5.

1 In generale, sul tema, v. MAISTO, Il transfer price nel diritto tributario e comparato, Padova, 1985; CORDEIRO GUERRA, La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib., 2000, I, p. 421 ss.; BALZANI, Il Transfer price, in UCKMAR (coord. da), Diritto tributario internazionale, Pa-dova, 2005, p. 565 ss.

2 In ambito UE, con l’intento di supplire alle carenze della MAP di cui al Modello OCSE di con-venzione fiscale, è stato definito un ulteriore strumento di risoluzione delle controversie relative ai prezzi di trasferimento, ovvero la Convenzione 90/436/CEE, relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate (c.d. Convenzione Arbitrale), ratificata dall’Italia nel 1993 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1995.

3 Il Joint Transfer Pricing Forum (JTPF), istituito formalmente istituito formalmente nel 2006 con la decisione della Commissione europea 22 dicembre 2006, 2007/75/EC per assistere la Com-missione in materia di prezzi di trasferimento, il 25 gennaio 2011, ha ottenuto la proroga del proprio mandato fino a marzo 2015.

4 Aggiornamento del Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Admini-strations, approvato dal Consiglio dell’OCSE il 22 luglio 2010.

5 Con riferimento ai c.d. Paesi in via di sviluppo si rammenta nel mese di ottobre 2012, nel corso dell’ottava sessione del Committee of Experts on International Cooperation in Tax Matters, è stata adottata una nuova versione del Practical Manual on Transfer Pricing for Developing Countries (“Ma-nuale ONU”), che rappresenta «a complete draft covering the central policy, administrative and techni-cal issues likely to be relevant for developing countries in this area. It has become clear, however, that the Manual would benefit from further, more detailed, examination of issues such as the treatment of intangi-bles and services».

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Ad oggi si può affermare che le scelte istituzionali in ambito internazionale siano coerenti con due scopi distinti e tuttavia complementari: da un lato, emerge l’in-tento di incentivare l’approccio attivo del contribuente e la collaborazione con le Amministrazioni finanziarie, valorizzando in particolare la compliance di adempi-menti preventivi rispetto a verifiche e accertamenti 6, dall’altro, l’espresso inserimen-to del transfer pricing nel novero delle pratiche di pianificazione fiscale aggressiva 7 ne delinea la qualità particolarmente distorsiva e ciò a sua volta spiega le ragioni di avversione degli Stati nei confronti delle pianificazioni che strumentalizzino i prez-zi di trasferimento.

Nella sostanza, se da un lato si procede a censurare la portata anti concorren-ziale 8 delle pratiche legate ai prezzi di trasferimento, dall’altro si tenta di incentiva-re la compliance volontaria del contribuente, al fine di evitare trasferimenti di mate-ria imponibile da uno stato all’altro mediante strumenti utili in un’ottica sempre più collaborativa tra amministrazioni fiscali e contribuenti.

6 Il 30 luglio 2013 l’OCSE ha pubblicato il draft for discussion White Paper on Transfer Pricing Documentation (consultabile sul sito). L’obiettivo del documento è iniziare un dibattito a livello in-ternazionale sulla semplificazione degli oneri/obblighi di documentazione cercando, al tempo stesso, di preservare le esigenze informative delle Amministrazioni fiscali in caso di controllo. Il White Pa-per prosegue una linea di sviluppo già avviata con la pubblicazione del report OECD’s Current Tax Agenda 2012 che aveva identificato tra le aree di intervento per una semplificazione i principi relativi alla documentazione a supporto della politica di transfer pricing adottata. Il documento pubblicato aveva preso atto della circostanza che il tema della documentazione è particolarmente critico per i gruppi multinazionali che operano su scala mondiale e devono confrontarsi con le diverse normative a livello locale. Tale tematica è stata affrontata anche da diverse organizzazioni internazionali come il PATA (Pacific Association of TaxAdministrators) e l’ICC (International Chamber of Commerce), mentre a livello europeo l’azione dell’European Joint Transfer PricingForum ha portato all’emanazione, da parte del Consiglio UE il 27 giugno 2006, del codice di condotta sulla documentazione per le im-prese associate.

È bene precisare che nell’ordinamento nazionale, le innovazioni relative alla fase di cooperazio-ne tra contribuente e amministrazione sono state introdotte con D.L. n. 78/2010. In particolare, l’art. 26 del D.L. n. 78/2010 ha introdotto la possibilità, per il contribuente compliant in materia di documentazione sul transfer pricing, di beneficiare dell’esclusione dall’applicazione delle sanzioni pre-viste dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 471/1997, connesse alla rettifica del valore normale dei prezzi di trasferimento praticati nell’ambito delle operazioni di cui all’art. 110, comma 7, del TUIR.

7 A seguito del meeting del Consiglio OCSE, tenutosi a Parigi in data 29 e 30 maggio 2013, è stato pubblicato il documento Update: Base Erosion and Profit Shifting, il quale illustra le azioni intraprese dall’OCSE in materia. In particolare, nel contesto dell’azione di contrasto al fenomeno dell’erosione della base imponibile e del profit shifting, l’OCSE ha istituito tre gruppi di lavoro temporanei, uno dei quali denominato “transfer pricing”, incaricato dello studio delle questioni connesse alla determi-nazione e applicazione del principio dell’arm’slength.

8 In merito, tra gli altri, UCKMAR, Le motivazioni economiche e i presupposti giuridici delle conven-zioni contro le doppie imposizioni, in Quaderni, n. 2, 1995, p. 11; STEVANATO, Il «transfer pricing» tra evasione ed elusione, in GT-Riv. giur. trib., n. 4, 2013, p. 303; NAVARRINI, Il trattamento delle singole categorie reddituali, in CORDEIRO GUERRA (a cura di), Istituzioni di Diritto Tributario Internazionale, Padova, 2012, p. 397 ss.; DELLA VALLE, Il fisco non deve provare l’elusione nel “Transfer Pricing”, in GT-Riv. giur. trib., n. 10, 2013, p. 772 ss.

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Cass., sez. V, 8 maggio 2013, n. 10739

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La sentenza in commento, al pari di altre significative sentenze, concerne in pri-mo luogo l’interpretazione della natura della norma di cui all’art. 110, comma 7 del TUIR, e la conseguente ripartizione dell’onere della prova.

La norma, secondo la dottrina 9 e la giurisprudenza 10 prevalenti, sarebbe chia-ramente connotata da un intento antielusivo, la cui ratio appare rinvenibile nella repressione della manipolazione dei prezzi delle transazioni tra imprese consociate residenti in Stati differenti, effettuata allo scopo precipuo di canalizzare il reddito verso un Paese a più bassa fiscalità, ovvero, comunque, di minimizzare il carico im-positivo del gruppo d’imprese 11.

Letteralmente, l’art. 110, comma 7 citato, dispone che «I componenti del red-dito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valo-re normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determi-nato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito» 12.

La disposizione, invero, è evidentemente sorretta dalla precisa ratio di impedire che operazioni commerciali o finanziarie intercorse tra soggetti appartenenti ad

9 V., per tutti, UCKMAR, Le motivazioni economiche, cit., p. 1; GIANNINI, L’imposizione sulle impre-se: regime vigente ed ipotesi di riforma, in Riv. dir. fin., 1995, I, p. 229 ss.; CROVATO-PASSERI, Il transfer pricing sui beni materiali, in Corr. trib., Inserto 1997, n. 13, p. 2 ss.; CORDEIRO GUERRA, op. cit., p. 428.

Di contro, alcuni, valorizzando la formulazione letterale dell’art. 110 ne disconoscono la conno-tazione antielusiva, e rilevano come la norma di cui all’art. 110, comma 7 non proponga alcun rife-rimento al vantaggio fiscale indebito che caratterizza l’elusione. Né la condotta del contribuente cui venga contestato un simile rilievo appare improntata all’aggiramento di norme.

Infatti, posto che l’art. 110 TUIR prescrive una valutazione al valore normale, una volta intesi su ta-le elemento, il contribuente ha l’obbligo di calcolare il proprio reddito imponibile come se le transazio-ni infragruppo fossero avvenute al valore normale. L’inosservanza della regola comporterebbe una vio-lazione diretta e sostanziale. Ammettendo un intento lato sensu antielusivo della norma di cui al 110, e riconoscendone però il valore e la struttura sostanziali, in particolare, DELLA VALLE, op. cit., p. 778.

Nello stesso senso, FAGGION-ZILIOTTO, Transfer Pricing, natura della norma e onere della prova: la confusione persiste, in Boll. trib., n. 3, 2013, p. 221 ss.; AVOLIO-D’AGOSTINO-SANTACROCE, La cassa-zione «corregge il tiro» sull’onere della prova in materia di prezzi di trasferimento, in Corr. trib., n. 20, 2013, p. 1569 ss.

10 Ex multis, v. Cass., 13 luglio 2012, n. 11949; Cass., 16 maggio 2007, n. 11226; Cass., 13 otto-bre 2006, n. 22023; Cass., 16 maggio 2007, n. 11226.

11 Fra gli altri, sulla ratio sottesa alla disciplina, v. TOSI, Transfer pricing: disciplina interna e regime convenzionale, in Il Fisco, n. 7, 2001, p. 2184 ss.; GARBARINO, Transfer price, in Dig. disc. priv., sez. comm., 1999, p. 1 ss.

12 Sul concetto di valore normale v. LUPI-CARPENTIERI, Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi, Milano, 1997. In particolare, in merito all’art. 9, p. 503, «il corrispettivo contrat-tuale viene giudicato come un elemento inidoneo a misurare l’effettiva portata reddituale della tran-sazione commerciale, stante la mancanza di un contrasto di interessi tra le parti negoziali che possa portare ad un valore fondato sulla valutazione delle leggi del mercato. Pertanto si assume il criterio del valore normale quanto parametro di misurazione dell’effettivo valore espresso dall’operazione infragruppo».

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uno stesso gruppo d’imprese e dunque tra loro non indipendenti, siano utilizzate per concentrare il reddito in un Paese a fiscalità più bassa, sottraendo materia im-ponibile alla ordinaria e fisiologica tassazione in Italia 13.

Come precisa la migliore dottrina 14, coerente con gli indirizzi internazionali, la disciplina in esame non intende «reprimere operazioni fittizie o inesistenti, bensì [...] attribuire a scambi reali di beni o servizi [...] il giusto valore di mercato, onde evitare che i corrispettivi siano pattuiti fra parti correlate tenendo conto della pro-pria, reciproca convenienza fiscale».

La pratica avversata, dunque, si fonda sul legame intercorrente tra le parti, le-game di controllo o collegamento societario che impedirebbe la fisiologica com-posizione degli interessi confliggenti tra i contraenti, inficiando la normale dina-mica di determinazione dei prezzi.

Pertanto, i corrispettivi pattuiti per tali transazioni possono non corrispondere al loro valore normale, da determinarsi ai sensi dell’art. 9 del TUIR come quel valo-re che alla transazione sarebbe stato attribuito se le parti non fossero state tra loro legate, in un ordinario regime di libera concorrenza 15.

Così individuata la ratio della disposizione, risulta comprensibile la qualifica-zione antielusiva che le è stata prevalentemente attribuita dalla dottrina e dalla giu-risprudenza di merito e legittimità. Infatti, la manipolazione dei prezzi delle transa-zioni comporterebbe un aggiramento delle norme ordinariamente applicabili al fi-ne di determinare il reddito d’impresa, inteso ad ottenere un vantaggio fiscale con-sistente nell’abbattimento del carico impositivo sul gruppo.

Peraltro, guardando al di là dei confini domestici, la posizione della Corte di Giustizia sembrerebbe confortare questo orientamento, che recepisce riallaccian-dolo col più generale principio della salvaguardia della potestà impositiva dei sin-goli Stati.

Infatti, secondo la giurisprudenza europea, consentire ad una società di trasferire alla propria consociata estera utili senza corrispettivo rischierebbe di compromet-tere una ripartizione equilibrata della potestà impositiva tra gli Stati; e nelle dispo-sizioni sul transfer pricing può ravvisarsi una funzione di ripartizione del potere im-positivo tra gli Stati, accompagnata da una finalità di prevenzione dell’elusione fi-scale, non sussistendo un’illegittima restrizione alla libertà di stabilimento qualora l’intento sia quello di contrastare le c.d. costruzioni di puro artificio 16.

Ad aderire a tale impianto, evidentemente, da un punto di vista probatorio, si configura l’obbligo per l’Amministrazione di dimostrare l’aggiramento delle nor-me, e l’indebito vantaggio fiscale che ne deriva.

13 Amplius, MAISTO, op. cit., p. 1 ss.; NAVARRINI, op. cit., p. 397 ss. 14 NAVARRINI, op. cit., p. 397 ss. Dello stesso avviso anche STEVANATO, op. cit., p. 303. 15 In tal senso v. STEVANATO, op. cit., p. 303. 16 In merito v. sent. C-311/08, SGI vs Stato Belga, 21 gennaio 2010, punto 63, punto 66.

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Cass., sez. V, 8 maggio 2013, n. 10739

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Questa impostazione, non del tutto pacifica 17, è stata tuttavia dominante nella giurisprudenza di legittimità, sino alla sentenza in commento ed invero anche suc-cessivamente.

Fisiologicamente, alla qualifica antielusiva della disciplina di contrasto al trans-fer pricing, infatti, non può che corrispondere un determinato predicato probatorio che la giurisprudenza ha coerentemente applicato, disponendo che l’onere della prova, in caso di rettifica da transfer pricing, gravasse, almeno in parte, sull’Ammini-strazione Finanziaria 18.

2. Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità

Con la sent. 13 ottobre 2006, n. 22023 19, la Suprema Corte si era espressa per dissipare i dubbi interpretativi, negando che il criterio del valore normale di cui al-l’art. 9 TUIR assurgesse al rango di principio generale e che l’art. 110 stabilisse una presunzione assoluta in danno del contribuente. Posto che il “valore normale” de-ve sostituirsi al corrispettivo contrattuale, ove sia rilevato uno scostamento rimar-chevole, il contribuente è comunque ammesso a dimostrare l’aderenza a tale valo-re del prezzo pattuito e la conseguente infondatezza dei rilievi operati dal Fisco. Non sembrano esservi dubbi, in definitiva, sulla possibilità che si sviluppi una dia-lettica tra contribuente e Amministrazione circa l’entità del “valore normale”. Inol-tre, la sentenza dichiarava espressamente lo scopo antielusivo della disciplina esa-minata, da cui le conseguenze sul piano probatorio, specificando che «Lo scopo della disciplina dettata dall’art. 76, comma 5, del Tuir (che regola il cosiddetto transfer pricing) è di evitare che all’interno del gruppo vengano posti in essere tra-sferimenti di utili tramite applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti onde sottrarli alla tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori. Si tratta di clausola antielusiva [...] Questa Corte ha già avuto modo di precisare che l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusione grava in ogni caso sull’Amministrazione [...]».

17 Scrive BALLANCIN, nel commentare la sent. 13 ottobre 2006, n. 22023 che non è possibile «af-fermare che perché possa trovare applicazione la disciplina del transfer pricing, l’Ufficio debba in-nanzitutto accertare se effettivamente la fiscalità in Italia sia superiore rispetto a quella in vigore ne-gli Stati di residenza delle consociate. Invero, come detto, la disciplina pone – al verificarsi dei pre-supposti d’applicabilità – un criterio inderogabile di valutazione delle operazioni infragruppo, es-sendo del tutto aliene ulteriori dimostrazioni (di elusività o di non elusività della fattispecie) da par-te dell’Ufficio ovvero del contribuente». BALLANCIN, La disciplina italiana del transfer price tra onere della prova, giudizi di fatto e l’(in)esistenza di obblighi documentali, in Rass. trib., n. 6, 2006, p. 1982.

18 V. Cass., 13 luglio 2012, n. 11949, commentata da STEVANATO, op. cit., p. 303. 19 Pubblicata in Fiscalità internazionale; v. BONARELLI, “Transfer pricing”: secondo la cassazione

spetta al fisco l’onere della prova, in Fiscalità Internazionale, n. 1, 2007, p. 25.

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Successivamente, l’interpretazione evolutiva della Cassazione 20 aveva ribadito la natura antielusiva della disciplina sul transfer pricing e tuttavia aveva spostato l’onere della prova sul contribuente, per lo meno con riferimento alle rettifiche re-lative ai componenti negativi di reddito. In tale occasione, la Suprema Corte ha operato una significativa distinzione tra rettifiche di ricavi e rettifiche di costi – re-cepita anche nel caso che qui occupa – affermando che nel primo caso l’onere della prova incombe certamente sull’Amministrazione Finanziaria, mentre nel caso di rettifiche di costi sarebbe il contribuente a dovere fornire la dimostrazione dell’esi-stenza e dell’inerenza delle componenti negative del reddito, oltre che di ogni altro elemento che consenta all’Amministrazione di verificare il valore normale dei cor-rispettivi. Inoltre, in coerenza con la natura elusiva attribuita alla pratica realizzata e controversa, era precisata la rilevanza dei differenziali di tassazione tra gli Stati coinvolti nelle operazioni considerate, seguendo una linea interpretativa consoli-data 21. Nella sostanza, si era stabilito che l’Amministrazione dovesse provare il vantaggio fiscale, nel caso di specie rinvenibile, come si accennava, nel differenziale di tassazione (notevole) intercorrente tra l’Italia e il Delaware, stati in cui avevano sede le imprese collegate 22.

Da ultimo, con la Pronuncia 24 luglio 2013, n. 17955 23, successiva alla sentenza in commento, ancorché relativa ad un ambito parzialmente diverso, – si trattava di transfer pricing c.d. domestico – la Corte ha ribadito l’orientamento consolidato: «si è ritenuto che la disciplina che regola il “transfer pricing internazionale”, secon-do cui i componenti di reddito derivanti da operazioni “intercompany” con società non residenti sono valutati in base al “valore normale” dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, determinato ex art. 9 cit., costituisce una clausola antie-lusiva che non solo trova radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto, ma anche immanenza in settori del diritto tributario nazionale (C. 22023/06). In-vero, i principi antielusivi diretti a evitare che all’interno di gruppi di società siano effettuati trasferimenti di utili mediante l’applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti, onde sottrarli alla tassazione ordinaria a favore di tassa-

20 Cass., 13 luglio 2012, n. 11949. Per un commento, v. BORGOGLIO, Transfer pricing e natura elu-siva dell’operazione, in Il Fisco, n. 31, 2012, p. 4991.

21 V. anche Cass., 27 marzo 2007, n. 11226, in Il Fisco, n. 33, 2007, p. 4874, con commento di BONTEMPO, Transfer pricing: le preziose indicazioni della Corte di Cassazione per smascherare le opera-zioni infragruppo con finalità elusive (Sentenza n. 11226 del 27 marzo 2007, depositata il 16 maggio 2007, della Corte di Cassazione); in senso conforme, Cass., 13 ottobre 2006, n. 22023, in Corr. trib., n. 47, 2006, p. 3727, con commento di BERGAMI, Onere della prova a carico dell’amministrazione nel transfer pricing.

22 Sulle problematiche relative ai gruppi di società e alla relativa imposizione fiscale v. RICCI, La proposta di direttiva sulla CCCTB: profili soggettivi, base imponibile e suo consolidamento, in Riv. trim. dir. trib., n. 4, 2012, p. 1019 ss.

23 In merito, v. DELLA VALLE-TOMBOLESI, «Transfer price interno» tra corrispettivo e valore nor-male, in GT-Riv. giur. trib., n. 12, 2013, p. 957.

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zioni agevolate territoriali, trovano radici sia nei capisaldi comunitari sull’abuso del diritto (C. 10257/08, 8772/08; C.G. sul caso Halifax) 24, sia nelle clausole antielu-sive di diritto interno predisposte in via generale (cfr. TUIR, art. 9, sul “prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni o servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza ed al medesimo stadio di commercializzazio-ne”) o per ipotesi e settori peculiari (es. L. n. 408 del 1990, art. 10, sui vantaggi fi-scali da operazioni societarie; D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, su talune fattispe-cie elusive)».

Emerge in sostanza come, anche successivamente alla sentenza di cui si tratta, i giudici di legittimità trattino delle controversie relative al transfer pricing senza ri-nunciare alla qualificazione antielusiva, con le conseguenze probatorie che ne con-seguono 25.

3. Natura della disciplina sul transfer pricing e onere della prova

Alla luce di quanto sin qui evidenziato, la sentenza in commento, appare un ve-ro e proprio arresto giurisprudenziale, di particolare interesse per l’operatore, po-sto che la Cassazione sembra riconsiderare la natura dell’art. 110, comma 7 del TUIR, individuando una struttura della disposizione più rigida di quella usualmen-te riconoscibile nell’esame di una norma antielusiva.

Se l’evoluzione giurisprudenziale, come evidenziato, non è lineare, la sent. n. 10739/2013 26 sembra effettivamente dare atto di tale incoerenza.

Occorre riconoscere, preliminarmente, che la norma, nella sua espressione let-terale, si atteggia come norma di comportamento, di carattere certamente sostan-

24 Sulla modalità di ingresso dei principi generali europei nell’ambito degli ordinamenti tributari nazionali, v. DEL FEDERICO, circa «L’incidenza del diritto europeo sul diritto tributario nazionale che si attua attraverso la previsione di principi e modelli procedimentali ai quali gli ordinamenti nazionali debbono comunque attenersi, ovvero che risultino di tale valenza conformativa da incidere inarresta-bilmente sul progresso osmotico che caratterizza i rapporti tra ordinamento europeo ed ordinamenti nazionali»; ID., Tutela del contribuente ed integrazione giuridica Europea – Contributo allo studio della prospettiva italiana, in L’ordinamento tributario Italiano, collana diretta da Falsitta e Fantozzi, Milano, 2010, p. 62.

25 Sarebbe ipotizzabile, anche alla luce delle elaborazioni fornite nella copiosa documentazione OCSE, che la qualifica elusiva del transfer pricing si debba più ad un ragionamento operato per e-sclusione, per il quale la pratica non si risolverebbe in una forma di evasione o frode, dovendo dun-que ricadere nell’ambito residuale e generale dell’abuso del diritto. Circa l’utilizzo di principi tra loro non sempre conciliabili, v. FERRANTI, Il transfer pricing secondo la Corte di Cassazione tra elusione ed inerenza, in Corr. trib., n. 33, 2013, p. 2605, «Nella confusa e asistematica motivazione della senten-za in esame la Cassazione ha, quindi, fatto riferimento a diversi principi (quelli del valore normale, dell’elusione, dell’abuso del diritto e dell’inerenza “quantitativa”), che hanno distinti presupposti e una difforme disciplina dell’onere probatorio».

26 V. DELLA VALLE, op. cit., pp. 772-782.

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ziale, laddove dispone che i componenti di reddito derivanti da operazioni infra-gruppo fra imprese residenti in Stati diversi sono valutati al valore normale 27.

Ne emerge un obbligo positivo, posto direttamente in capo al contribuente 28, il quale deve calcolare il reddito imponibile valutando le operazioni infragruppo se-condo il c.d. valore normale, a prescindere dalla effettiva corrispondenza di quest’ul-timo con il corrispettivo che per quelle transazioni è stato pattuito e corrisposto.

Tale caratteristica formulazione, la cui tassatività non collima del tutto con la ratio antielusiva attribuitale in via interpretativa 29, se da un lato appare di singolare incisività con riferimento agli effetti sulla condotta del contribuente (i.e. da un punto di vista sostanziale), dall’altro comporta notevoli difficoltà interpretative quanto alle conclusioni da trarre in ambito probatorio.

Nel caso esaminato nella sentenza de qua, l’argomento trattato è dei più classici, e riguarda l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 110, comma 7, TUIR ad una società italiana che commerciava con svariate consociate estere, deducendo costi ritenuti eccessivamente alti rispetto al valore normale delle merci acquistate.

I giudici di secondo grado avevano accolto le istanze della società contribuente ritenendo che l’Amministrazione non avesse dimostrato il vantaggio fiscale deri-vante dalla pianificazione, visto che gli Stati esteri in cui avevano sede le consociate non presentavano livelli di tassazione inferiori rispetto a quello italiano, e aveva ri-tenuto insufficienti le prove relative alla anormalità del valore delle transazioni.

Nella sostanza, la Commissione Tributaria regionale aveva recepito quello che sembrava essere il più recente orientamento della Cassazione, e aveva tratto dalla qualificazione antielusiva della disciplina sul transfer pricing le dovute conclusioni sul piano probatorio.

La sentenza di cassazione però, appare del tutto innovativa rispetto a tale posi-zione.

Infatti, con riferimento alla natura dell’art. 110, la Corte precisa che «se si vuo-le, la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione». Orbene, la ricostruzione operata dalla Corte non risulta del tutto chiara, atteso che non specifica se la disciplina sul transfer pricing sia da ritenersi antielusiva (o quantomeno anti-abusiva), qualificandosi magari per una

27 Ancora, AVOLIO-D’AGOSTINO-SANTACROCE, op. cit., p. 1569. 28 Tale assunto è condiviso da DELLA VALLE, op. cit., p. 778, «tale regola opera innanzitutto in

sede di adempimento spontaneo ed è perciò rivolta, in un primo momento al contribuente». 29 In questo senso, v. DELLA VALLE, op. cit., p. 778, «Stante la ratio della norma in discorso [...] si

ritiene che la stessa una valenza lato sensu anti-elusiva. Ed invero alla suddetta manipolazione non consegue il pagamento di somme di ammontare diverso dal corrispettivo pattuito; non vi è, nella fissa-zione di prezzi di trasferimento non in linea con il valore normale (non at arm’s lenght), alcun “nero” che transiti da un soggetto ad un altro. Né il comportamento in questione può essere ricondotte ad ipotesi simulatorie [...] In questo senso, dunque, la regola in oggetto può dirsi antielusiva ed in que-sti termini è stata, in effetti, definita dalla giurisprudenza di legittimità».

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precisa individuazione della pratica esecrata dall’ordinamento, ovvero se la stessa, costituendo un fronte più avanzato a tutela dei principi dell’ordinamento, finisca con l’uscire dall’alveo antielusivo.

La questione non è affatto oziosa, posto che l’affermazione della Cassazione, lungi dall’avere un rilievo meramente astratto, si appunta su una questione centra-le della controversia, ossia la necessità e l’onere, per il fisco di provare il vantaggio fiscale – indebito – derivante dall’operazione posta in essere.

La Corte, infatti, chiarisce le conseguenze della pure ambigua espressione uti-lizzata: «Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare». Qualche riga dopo, ha cura di ribadire il concetto: «non occorre, si ripete, provare la elusione».

Ora, nel caso di specie, i giudici si riferiscono espressamente alla dimostrazione della sussistenza di un differenziale nel livello di tassazione tra gli stati coinvolti nelle operazioni infragruppo (nel caso di specie si trattava di consociate estere situate in diversi paesi).

Un eventuale scarto dimostrerebbe infatti, senza troppi contorcimenti argo-mentativi, che la pianificazione fiscale di cui si è servito il gruppo d’imprese, è inte-sa a realizzare un indebito vantaggio fiscale, collocandosi così, nel più classico dei modi, nel rassicurante solco della repressione antielusiva. Tale impostazione, adotta-ta dai giudici di seconde cure nel caso di specie e drammaticamente cassata con la esaminata sentenza di legittimità, è stata invece adottata dalla Corte in più occasioni.

Peraltro, nella sentenza esaminata, la coerenza dell’impianto si vorrebbe garan-tita da una preventiva considerazione: «Deve esser preliminarmente evidenziato come il cosiddetto transfer pricing costituisca, dal lato economico, un’alterazione del principio della libera concorrenza. E questo nel senso che transazioni tra Società appartenenti ad uno stesso Gruppo, ma con sede in Paesi diversi, avvengono per prezzi che non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mer-cato. Il fenomeno, quindi, da luogo ad uno spostamento di imponibile fiscale. E, pertanto, permette di sottrarre imponibile a Stati con maggiore fiscalità. Cosicché, proprio allo scopo di preservare la esatta pretesa impositiva di ciascuno Stato, sono state adottate normative nazionali predisposte a eliminare il fenomeno stesso del transfer pricing. Normative che recepiscono il principio del prezzo normale delle transazioni commerciali, contenuto nel Modello OCSE art. 9, comma 1, Conven-zione del 1995. Principio recepito anche in Italia, nel testo applicabile ratione tem-poris, dal D.P.R. n. 917/1986, art. 76, comma 5. La disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fi-scalità nazionale».

In altre parole, la Corte recepirebbe l’impostazione internazionalistica 30 per cui, principalmente, le pratiche di transfer pricing attentano al diritto dello Stato

30 V. MAISTO, op. cit., p. 4 ss. CORDEIRO GUERRA, op. cit., p. 424; NAVARRINI, Il trattamento, cit., p. 339.

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alla “esatta pretesa impositiva”, ossia il potere di ogni Paese di tassare la ricchezza laddove prodotta, potere dello stato che, ricondotto in una prospettiva costituzio-nale, corrisponde al dovere di ogni contribuente di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva 31.

Se così è, l’Amministrazione può a buon diritto disinteressarsi della circostanza che le pratiche esaminate siano volte ad ottenere un vantaggio fiscale, potenziale o concreto che sia.

Occorre ammettere che questo impianto risulta coerente col dettato normati-vo, che in nessun punto indica l’obbligo di evidenziare, provare, rilevare, l’aggira-mento di norme tributarie, né lo scopo abusivo di un indebito vantaggio fiscale.

Tale eccezione, peraltro, era stata reiteratamente formulata da alcuni interpre-ti 32, che hanno sempre guardato con sospetto all’accostamento operato dalla giuri-sprudenza italiana della disciplina in esame ai principi di contrasto all’abuso elabo-rati in sede comunitaria.

Ora, il transfer pricing non consiste solo nella pratica fiscale per cui, piuttosto grossolanamente, manovrando i prezzi di trasferimento, l’imponibile viene sottratto in uno stato a più alta fiscalità e lasciato emergere in uno Stato a più bassa fiscalità.

Perciò, il principio di diritto enunciato dai giudici di legittimità parrebbe gene-ralmente applicabile a tutte le modalità pratiche di transfer pricing. In altre parole, con le precisazioni della Corte, si finisce con l’asserire che l’Amministrazione Fi-scale non è tenuta a provare nessun vantaggio fiscale in capo al gruppo, né poten-ziale né concreto, vantaggio che potrebbe sostanziarsi in un beneficio impositivo dovuto alle peculiari situazioni delle consociate (i.e. perdite spendibili), piuttosto che in un astratto differenziale di aliquota, o in un’ipotetica fiscalità minore degli Stati esteri.

La soluzione che la Corte propone in ambito probatorio sembrerebbe chiarire la portata sostanziale dell’infelice inciso precedente, e dunque, nell’escludere l’o-nere probatorio dell’elusione in capo all’Amministrazione, sembrerebbe escludere anche la rilevanza antielusiva della norma esaminata, con una svolta interpretativa di non poco momento rispetto agli orientamenti precedenti.

Orbene, se da un lato, l’esclusione della natura antielusiva della norma di cui all’art. 110 TUIR consente di alleggerire il carico probatorio dell’Amministrazione Finanziaria, che non è più tenuta a provare il vantaggio fiscale (prevalente ed inde-bito) delle operazioni contestate, dall’altro, appare quanto meno dubbio che tale

31 Occorre rammentare, peraltro, che il principio di capacità contributiva è stato ritenuto coper-tura costituzionale dell’ingresso nell’ordinamento nazionale anche delle clausole antiabusive, e per-tanto difficilmente l’indiretto richiamo della Corte può servire da discrimen tra le discipline che sono repressive di condotte abusive e discipline che non lo sono.

32 V. FERRANTI, op. cit., p. 2605. COMI-MARCONI, Transfer pricing: al contribuente l’onere della pro-va anche sull’inerenza dei costi, in Fiscalità e commercio internazionale, n. 5, 2013, p. 15.

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passaggio costituisca un valido presupposto per caricare il contribuente di oneri che vadano al di là della ragionevolezza.

I giudici, infatti formulano un’ulteriore petizione di principio: «È pertanto ne-cessario, da parte dell’Amministrazione, soltanto dimostrare l’esistenza di transazio-ni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali à sensi del D.P.R. n. 917/1986, art. 9, comma 3. ... La CTR, quindi, non ha correttamente interpretato la disciplina, quando ha preteso dall’Amministrazione la prova dell’elusione e par-ticolarmente la prova di una fiscalità di favore della legge straniera e della anorma-lità dei prezzi di transazione intergruppo».

Sul punto, le considerazioni della Corte meritano un’analisi più approfondita. Infatti, se da un lato è proprio quella attitudine internazionalistica ad incentiva-

re la compliance ante – accertamento a determinare una tendenziale inversione del-l’onere probatorio in capo al contribuente, non pare del tutto plausibile l’imposta-zione integralista in cui la Corte si produce in questo caso.

La statuizione per cui l’Amministrazione deve limitarsi a provare la sussistenza delle transazioni e non la normalità dei prezzi, oltre che sproporzionata, appare po-co calata nella realtà dei fatti.

In merito, occorre rammentare come, con una manovra logica non del tutto condivisibile, la Cassazione aveva già inserito, nell’ambito della discussione sui prez-zi di trasferimento, un richiamo al principio dell’inerenza, quando la questione con-troversa era relativa ai componenti negativi di reddito 33.

Invero, la Cassazione aveva già provveduto a pronunciare tale assioma, basandosi su una tradizionale inversione dell’onere probatorio in capo al contribuente quan-do la contestazione tributaria riguardi i componenti negativi di reddito. Si sostiene in giurisprudenza 34 che nel caso in cui la materia del contendere sia relativa ai co-sti, spetti al contribuente provare i requisiti di deducibilità, al contrario di quanto accade in caso di contestazioni relative ai ricavi, quando è l’Amministrazione a do-ver dimostrare l’esistenza di componenti positivi non dichiarati.

33 Cass., 20 dicembre 2012, n. 23551; in merito, v. DAMIANI, Lo spettro largo dell’inerenza e la sua valenza anche quantitativa, in Corr. trib., n. 10, 2013, p. 771 ss.

34 La Corte di Cassazione che ha, infatti, affermato, con giurisprudenza costante, che l’onere della prova dell’inerenza dei costi grava sul contribuente, trattandosi di uno dei presupposti per la deducibili-tà dei componenti negativi, mentre in presenza di fenomeni elusivi incombe sull’Amministrazione Fi-nanziaria l’onere di provare la “anomalia” del comportamento del contribuente che induce a ritenere che lo stesso abbia conseguito indebiti vantaggi fiscali. In merito, la giurisprudenza di legittimità si è ripetutamente pronunciata: Cass., 25 maggio 2002, n. 7680; Cass., 24 luglio 2002, n. 10802; Cass., 26 febbraio 2010, n. 4750; Cass., 21 gennaio 2011, n. 1372, in GT-Riv. giur. trib., n. 4, 2011, p. 285, con commento di BASILAVECCHIA, L’autonomia contrattuale recupera sull’abuso del diritto.

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In ossequio a questo principio, la Cassazione ha affermato che, anche in caso di rettifiche operate ex art. 110, comma 7, TUIR, l’onere della prova sia da ribaltare in-tegralmente in capo al contribuente, che deve dimostrare l’inerenza dei costi 35.

Nel caso in esame, se anche tale partizione non viene apertamente richiamata, tuttavia, con espresso riferimento ai principi sulla c.d. vicinanza della prova, la re-gola viene recepita ed applicata dai giudici di legittimità.

Ora, preliminarmente, corre l’obbligo di notare come il richiamo all’inerenza operato dalla giurisprudenza nelle sentenze precedenti appaia non del tutto utile, nell’ambito della disciplina del transfer pricing, in parte proprio per la portata parti-colarmente incisiva della norma. Si è già detto come con il ricorso all’art. 110, sia-no contestate non già operazioni inesistenti, fittizie, simulate, che quindi darebbe-ro luogo ad una integrale indeducibilità dei costi relativi indicati. Né ci si riferisce a costi di cui va dimostrata l’inerenza, nel qual caso, poco rileverebbe la circostanza che gli stessi possano essere stati calcolati secondo il valore normale o meno. L’in-deducibilità di costi non inerenti discende dalle regole generali relative alla deter-minazione del reddito d’impresa e nulla ha a che dividere con il transfer pricing. In un percorso logico, la verifica dell’inerenza c.d. qualitativa dei componenti negativi di reddito è sicuramente preliminare rispetto alla verifica del valore normale ed è trasversale, operata con riferimento a tutti i costi, quelli relativi a operazioni infra-gruppo e quelli derivanti dai rapporti con fornitori terzi.

L’inerenza c.d. quantitativa, cui si riferiscono i giudici di legittimità nelle pro-nunce indicate, tuttavia, si rivela strumento utile, per i giudici e l’Amministrazione Finanziaria, in presenza di vuoto normativo, ed infatti il concetto è stato recupera-to nelle trattazioni relative ai casi di transfer pricing interno, per i quali non esiste una norma diretta di contrasto alle pratiche dei prezzi di trasferimento. Dunque, il con-cetto di inerenza sviluppato in senso quantitativo, con riferimento alla congruità delle spese sostenute rispetto ai canoni di ordinaria economicità, è stato utilizzato per conferire valore di principio generale, sempre applicabile, ad una norma, l’art. 9 del TUIR, che individua il concetto di valore normale, sino a quel momento uti-lizzata in funzione strumentale dell’art. 110 relativo al transfer pricing internaziona-le, o dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, in un’ottica antielusiva.

35 Nello specifico la Cassazione rinvia alle regole sulla c.d. vicinanza della prova: «Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali à sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3» «è, invero, di tutta evidenza che, ai fini della deducibilità di un costo addebitato da una controllante ad una controllata, è pur sempre necessario che risulti, se non che il costo sia correlato a specifici ricavi conseguiti da quest’ultima, quanto meno che l’addebito di tale costo si sia tradotto in un’effettiva utilità per la controllata. L’onere di fornire la dimostrazione dell’esistenza e dell’inerenza di tali componenti negative del reddito ... non può pertanto che cedere – in forza del principio di vicinanza alla prova – a carico del contribuente».

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Nella disamina delle operazioni infragruppo in ambito transnazionale, pertanto, il ricorso al principio dell’inerenza quantitativa rischia di apparire asistematico, po-sto che la disciplina derivante dal combinato disposto degli artt. 9 e 110, comma 7 del TUIR è compiuta, applicabile senza articolati sostegni giurisprudenziali, e soprat-tutto già votata ad un approccio estimativo, che presuppone un’intervenuta valuta-zione sulla non ordinaria economicità della condotta delle società del gruppo.

4. Conclusioni

Sgomberato il campo dalla confusione concettuale ingenerata dalla sovrapposi-zione di principi diversi tra loro per natura e funzione, e tornando alla sentenza in esame, anche l’affermazione secondo la quale l’Amministrazione Finanziaria è te-nuta a provare solo l’esistenza delle operazioni internazionali infragruppo appare in-coerente con la portata della norma. Se ci si riferisse agli ordinari requisiti di dedu-cibilità dei costi, infatti, il principio indicato potrebbe anche aver ragion d’essere. Invero, ordinariamente, una volta che il contribuente non dimostra la sussistenza dei requisiti di deducibilità, i costi contestati possono essere integralmente recupe-rati a tassazione.

Diversamente, in caso di transfer pricing, l’esame dei requisiti della deducibilità, secondo gli ordinari principi del reddito d’impresa, dovrebbe essere stata prelimi-narmente condotta ed anche già risolta in senso positivo.

Quel che resta da determinare è proprio il valore normale delle transazioni. È l’art. 110, comma 7 del TUIR a disporre l’obbligo di commerciare a valore norma-le (i.e. secondo principi di ordinaria economicità), dunque non occorre scomodare un principio ulteriore ed alquanto sfuggente come quello dell’inerenza quantitativa, o dell’antieconomicità 36.

Orbene, anche qualora il contribuente non dimostrasse la congruità con i valori di mercato delle proprie transazioni, i costi non potrebbero essere integralmente recuperati a tassazione 37. E dunque, nella sostanza, l’accertamento dell’Ammini-

36 Tale principio peraltro, non essendo normato, appare molto più sensibile ad eventuali corret-tivi in ordine a principi di economicità da riferire all’intero gruppo e non al singolo soggetto nazio-nale sottoposto a verifica o accertamento.

37 «La questione dell’onere della prova, nel transfer pricing, si atteggia in verità in modo peculia-re; non vi è infatti un «fatto materiale» puntuale, di cui dimostrare l’esistenza (si pensi all’occulta-mento di un ricavo), la falsità (si pensi ad un costo fittizio) e così via. È difficile dunque seguire il tradizionale orientamento fondato sull’art. 2697 c.c., per cui chi vuole affermare un fatto è tenuto a fornirne la dimostrazione, con la conseguenza che l’onere della prova dei maggiori ricavi spettereb-be all’Amministrazione, mentre la prova dei costi e dei requisiti per la loro deducibilità incomberebbe sul contribuente. Qui si tratta infatti di individuare i metodi più appropriati per il raffronto col mer-cato, di “valutazioni estimative”, di ragionamenti per ordini di grandezza, che è problematico ridurre agli ordinari schematismi sull’onere della prova»: così STEVANATO, op. cit., p. 303.

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strazione avrà necessariamente una connotazione valutativa 38, intesa ad individua-re una quota di costi indeducibile perché non coerente con i valori di mercato in condizioni di libera concorrenza.

Tale natura estimativa, e i riflessi indiscutibili che la stessa produce sull’onere della prova sono riconosciuti anche in ambito internazionale 39.

Lo stesso Rapporto OCSE in materia di prezzi di trasferimento sottolinea che le Amministrazioni fiscali sono tenute a provare la bontà delle loro determinazioni e la coerenza con il valore normale, indipendentemente dalla ripartizione dell’one-re della prova 40.

È evidente che l’individuazione della quota di costi di cui occorre provare l’in-deducibilità è l’ultima fase di un percorso logico e valutativo operato dall’Ammini-

38 Sulla necessaria caratteristica estimativa delle rettifiche da transfer pricing, DELLA VALLE, op. cit., p. 778, «In ogni caso, le questioni di fatto coinvolte dalla ricerca del valore normale, numerose, presentano un alto grado di approssimazione e di opinabilità e ciò, sia nella fase di individuazione del metodo di stima.[...]. In materia di transfer price dunque si apprezza maggiormente il relativismo dell’argomentazione probatoria e la natura dialettica del giudizio di fatto e si comprende come, qua-le che sia la conclusione cui si pervenga in ordine alla ripartizione dell’onere della prova in tale mate-ria, tale conclusione valga solo come punto di partenza per un’attività condizionata da una serie di variabili, incluso il comportamento del contribuente nella fase istruttorio-procedimentale [...]».

39 In merito v. MASTELLONE, The shift in the burden of proof in regard to Transfer pricing, in IBFD-European Taxation, May 2011, p. 211 ss.

40 Rapporto OCSE sul Transfer pricing, 22 luglio 2010 «because of the difficulties with transfer pricing analyses, it would be appropriate for both taxpayers and tax administrations to take special care and to use restraint in relying on the burden of proof in the course of the examination of a transfer pricing case. More particularly, as a matter of good practice, the burden of proof should not be misused by tax administrations or taxpayers as a justification for making groundless or unverifiable assertions about transfer pricing. A tax administration should be prepared to make a good faith showing that its determi-nation of transfer pricing is consistent with the arm’s length principle even where the burden of proof is on the taxpayer, and taxpayers similarly should be prepared to make a good faith showing that their transfer pricing is consistent with the arm’s length principle regardless of where the burden of proof lies». L’OCSE ha pubblicato l’aggiornamento del Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations, approvato dal Consiglio dell’OCSE il 22 luglio 2010.

Inoltre, il 30 aprile 2013 la bozza del manuale Draft Handbook on Transfer Pricing Risk Assess-ment è stata pubblicata in attesa di commenti entro il 13 settembre 2013. Va ricordato che in mate-ria l’OECD Forum on Tax Administration ha pubblicato nel gennaio del 2012 un rapporto dal titolo Dealing Effectively with the Challenges of Transfer Pricing. A testimonianza della rinnovata attenzione delle organizzazioni internazionali, il Joint Transfer Pricing Forum ha ottenuto una proroga del pro-prio mandato sino al 2015. Nel programma di lavoro 2011-2015, gli argomenti prioritari di discus-sione sono i cost contribution agreement, il risk assessment, i secondary adjustments e i compensating end year adjustments. Il recente Discussion paper del giugno 2012 si sofferma sullo stato dell’arte dei lavo-ri del JTPF e, in particolare, sull’analisi del rischio per i prezzi di trasferimento affrontando i seguenti argomenti: definizione della gestione del rischio (risk management) in materia di transfer pricing, ampliando il contesto di riferimento (... They addressed the broader context of what to do when risks assessed and how to create the administrative framework for assessing risk); obiettivi della gestione del rischio nella prospettiva delle amministrazioni finanziarie, dei contribuenti e per i punti comuni ad entrambi.

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strazione, che di tale percorso dovrà comunque dar conto in sede di motivazione dell’Avviso di accertamento e successivamente in sede contenziosa 41.

E dunque, l’Amministrazione non potrà semplicemente indicare la quota di quei costi che ritiene indeducibile, ribaltando sul contribuente l’onere di dimostrar-ne la coerenza con il valore normale e di conseguenza la deducibilità, ma dovrà il-lustrare la ragione per la quale ritiene che il valore di mercato non sia quello indica-to dal contribuente, e quali siano le ragioni a supporto della propria determinazio-ne. Altrimenti argomentando, l’atto amministrativo incorrerebbe nel più classico vizio di carenza della motivazione, poiché non risulterebbe chiara la modalità di determinazione dell’imponibile recuperato a tassazione 42.

In altre parole, anche nel caso in cui un accertamento costituisca l’esito di una procedura virtuosa, in cui Ufficio e contribuente si siano confrontati, l’Ammini-strazione potrà sì affermare che, in sede di verifica il contribuente non ha dimostra-to la normalità dei corrispettivi infragruppo esaminati, ma dovrà altresì individuare quale sia il valore normale, al fine di quantificare lo scarto tra i due dati, scarto che costituisce l’imponibile da recuperare. Tale differenziale, è evidente, non potrà es-sere arbitrariamente determinato, atteso che l’atto impositivo deve dare conto del-le ragioni fattuali e giuridiche a sostegno della pretesa impositiva 43.

In conclusione, si impone l’esame della disciplina del transfer pricing anche da una prospettiva più generale, evidenziando le conseguenze delle singole differenti

41 La stessa Corte di Cassazione, con la sent. 13 ottobre 2006, n. 22023 chiarisce: «Questa Cor-te ha già avuto modo di precisare che l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusio-ne grava in ogni caso sull’Amministrazione che intenda operare le conseguenti rettifiche (ex multis n. 4317/2003). Ciò trova conferma anche in materia di transfer pricing posto che le direttive OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) da tempo rivolte ad elaborare i crite-ri di determinazione del prezzo di trasferimento nelle transazioni commerciali internazionali [...] nel rapporto del 1995 hanno espressamente sottolineato che, laddove la disciplina di ciascuna giurisdi-zione nazionale preveda che sia l’Amministrazione finanziaria ad essere gravata dell’onere di provare le proprie pretese, il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimen-to applicati, se non prima che l’Amministrazione fiscale abbia essa stessa provato prima facie il non rispetto del principio del valore normale».

42 V. anche DENARO, Le rettifiche secondarie di transfer pricing: stato dell’arte e prospettive di svilup-po, in Il Fisco, n. 21, 2012, p. 3286, «Al fine di inquadrare concettualmente gli effetti sul reddito ope-rativo delle politiche di pricing tra imprese appartenenti ad un medesimo gruppo societario nelle operazione transnazionali tra loro poste in essere, è bene precisare che una divergenza dei corrispet-tivi contrattuali rispetto al criterio del “valore normale” attua tra di esse un trasferimento di materia imponibile nei limiti della differenza che ne emerge, posto che si tratta un effetto sul reddito che de-riva da una problematica di natura valutativa».

43 Tra gli altri, circa l’obbligo di motivazione negli atti tributari, si rinvia a CIPOLLA, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Rass. trib., n. 3, 1998, p. 671 ss.; LUPI, L’onere della pro-va nella dialettica del giudizio di fatto, in Riv. dir. trib., n. 11, 1993, p. 1199 ss.; CALIFANO, La motiva-zione degli atti impositivi, Torino, 2012. Sul coordinamento con i principi processualcivilistici in ma-teria tributaria e di transfer pricing, si veda CAPOLUPO, Transfer pricing e prova di elusione, in Il Fisco, n. 28, 2008, p. 5017; BALLANCIN, op. cit., p. 1982 ss.

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ricostruzioni teoriche cui l’istituto è stato nel tempo ricondotto. Una ricostruzione in termini di disciplina di contrasto all’evasione sarebbe in-

coerente sia con la lettera della norma, sia con l’evoluzione interpretativa che l’ha interessata.

Tuttavia, una tale ipotesi merita attenzione, se non altro per la ragione che spes-so, come ricostruito, la ratio antielusiva della disciplina de qua, è stata individuata per esclusione, in opposizione ad una ratio di contrasto all’evasione, ragionando ex adverso.

Ad escludere la percorribilità di una tale ricostruzione teorica, oltre alle argo-mentazioni già rappresentate in ordine alla veridicità ed effettività delle operazioni realizzate sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 110 citato, vale anche la conse-guenza logica che se ne dovrebbe trarre ai fini IVA.

Infatti, qualora si iscriva l’art. 110 nella categoria delle norme di contrasto all’e-vasione, stricto sensu intesa, sarebbe poi naturale correlare alla fattispecie dei ricavi sottratti a tassazione, ovvero dei costi indebitamente dedotti, anche l’IVA relativa.

Dunque, ad essere coerenti con un simile approccio, si dovrebbe svuotare della precipua connotazione estimativa la rettifica da transfer price, con la logica conse-guenza di operare anche la rettifica dell’IVA non versata o dell’IVA indebitamente detratta, correlandola all’importo recuperato ai fini delle imposte dirette.

Singolarmente, però, da un punto di vista probatorio, tale interpretazione sa-rebbe l’unica davvero coerente con il principi di vicinanza della prova, così come acriticamente recepiti dalla Cassazione nella sentenza ivi esaminata, al fine di ribal-tare integralmente sul contribuente il carico della dimostrazione della normalità delle proprie transazioni.

In altri termini, ad ascrivere la fattispecie all’ambito delle condotte tipiche di evasione, si dovrebbe riconoscere una rilevanza ai fini IVA, oggi tipicamente e pa-cificamente esclusa in tutte le ipotesi di transfer pricing, e di operazioni infragruppo interne stigmatizzate come antieconomiche 44.

Non è un caso, dunque, che maggior fortuna abbia avuto nel tempo l’interpre-tazione prettamente antielusiva, che ricomposta in termini di opposizione all’ap-proccio di contrasto all’evasione, sembra corrispondere meglio alla ratio della nor-ma di cui all’art. 110 TUIR.

Infatti, le operazioni internazionali suscettibili di essere rettificate ai sensi della disciplina sui prezzi di trasferimento appaiono, dal punto di vista civilistico, esistenti e lecite. La repressione fiscale, con riferimento ai benefici prodotti, si manifesta con il disconoscimento dei valori derivanti dalle operazioni, esistenti e lecite, rea-lizzate.

44 In merito, senza pretese di esaustività, si rinvia ad una recente pronuncia in materia di diritto alla detrazione dell’IVA, in caso di operazioni infragruppo generanti costi ritenuti indeducibili in ragione dell’antieconomicità della condotta dell’imprenditore. Cass., 21 settembre 2013, n. 22130.

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Cass., sez. V, 8 maggio 2013, n. 10739

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Pertanto, la manipolazione dei prezzi di trasferimento si avvicina alla fattispecie elusiva 45 sia in ordine alle modalità di realizzazione della condotta, apparentemen-te del tutto ammissibili, sia in ordine allo strumento utilizzato dal legislatore al fine di reprimere detta condotta, i.e. il disconoscimento degli effetti fiscali derivanti dal-la alterazione dei valori.

Nondimeno, la ratio normativa della disposizione non sembra semplicemente intesa a reprimere condotte lecite, collegate tra loro al fine di aggirare una disposi-zione o un principio ed ottenere così un indebito vantaggio fiscale.

E dunque, in ossequio al valore letterale del disposto normativo, alcuni autori negano un carattere squisitamente antielusivo alla disciplina de qua, accedendo ad una interpretazione sistematica, e attribuendo natura sostanziale alla norma 46, va-lorizzando in prima battuta la collocazione della norma, inserita tra quelle relative alla determinazione della base imponibile ai fini IRES nel TUIR, ed in secondo luogo il dato testuale, che sembra porre in capo al contribuente un obbligo positi-vo di condotta.

Un tale orientamento recepisce peraltro la visione sostanzialistica elaborata in ambito internazionale ed esposta in sede di line guida dall’OCSE «A tax adjust-ment under the arm’s length principle would not affect the underlying contractual obli-gations for non-tax purposes between the associated enterprises, and may be appropria-te even where there is no intent to minimize or avoid tax. The consideration of transfer pricing should not be confused with the consideration of problems of tax fraud or tax avoidance, even though transfer prices policies may be used for such purposes» 47.

Pertanto, un approccio sostanzialistico, che valorizzi adeguatamente la conno-tazione estimativa dei rilievi da transfer pricing, oltre a consentire all’interprete, e al giudice, di porre rimedio alle aberrazioni probatorie che scaturiscono dalla confu-sione tra le due categorie, potrebbe cogliere meglio il senso della ratio sottesa alla normativa di contrasto al transfer pricing.

Inoltre, tale ricostruzione si rivela utile a superare le problematiche ingenerate dalla dicotomia evasione elusione 48, consentendo, altresì, di superare indenni lo scoglio dell’eventualità di un recupero IVA da correlare alle rettifiche di transfer pricing operate ai fini delle imposte dirette.

45 Così anche DELLA VALLE, op. cit., p. 778. 46 A questa conclusione perviene, chiaramente, anche DELLA VALLE, op. cit., p. 778. 47 OECD, Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations, Parigi,

2010, par. 1.5 48 V. DELLA VALLE, op. cit., p. 778, «Stante la ratio della norma in discorso [...] si ritiene che la

stessa una valenza lato sensu anti-elusiva. Ed invero alla suddetta manipolazione non consegue il pa-gamento di somme di ammontare diverso dal corrispettivo pattuito; non vi è, nella fissazione di prezzi di trasferimento non in linea con il valore normale (non at arm’s lenght), alcun “nero” che transiti da un soggetto ad un altro. Né il comportamento in questione può essere ricondotto ad ipo-tesi simulatorie [...]».

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GIURISPRUDENZA RTDT - n. 2/2014

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Infatti, se la caratterizzazione in termini di condotta meramente sottrattiva del-le pratiche legate ai prezzi di trasferimento pone difficoltà nel cogliere adeguatamen-te la portata fenomenica delle stesse, posto che appare intesa a disciplinare ipotesi di operazioni fittizie, inesistenti, ovvero omesse in sede di dichiarazione, la caratte-rizzazione antielusiva rischia però di allontanare l’interprete dalla ratio più profon-da della norma, che è di matrice internazionale ed è intesa ad impedire lo sposta-mento di materia imponibile da uno stato all’altro, a prescindere dalla circostanza che lo stesso generi un vantaggio fiscale indebito ai sensi dell’art. 37 bis, che sia la ragione prevalente dell’operazione.

Sul punto, dovrebbe forse prevalere il dato letterale. In primo luogo, la disciplina di contrasto alle operazioni di transfer pricing, al di

là dei tentativi di giurisprudenza e amministrazione finanziaria di estenderne l’am-bito applicativo, per scelta del legislatore è applicabile solo alle operazioni interna-zionali 49. Se così è, il profilo della ripartizione della potestà impositiva tra stati non può essere relegato ad aspetto marginale della ricostruzione della ratio della nor-ma, poiché, invece, la investe integralmente, costituendone il presupposto. Solo in un’ottica così ricostruita, e non perfettamente allineata sulla prospettiva antielusi-va, può giustificarsi l’assunto della Cassazione che nega che l’amministrazione deb-ba provare il vantaggio fiscale. La formulazione della disciplina, così come la sua interpretazione internazionalmente orientata, parrebbe colpire la manipolazione dei prezzi di trasferimento, a prescindere dalla realizzazione di un vantaggio, per la sola ragione che la condotta del contribuente, quale che ne sia il beneficio che ne ritrae, sottrae materia imponibile nello Stato in cui la stessa si produce per lasciarla emergere in un altro Stato, intaccando così, prima del principio di capacità contri-butiva costituzionalmente tutelato, i principi della ripartizione della potestà impo-sitiva tra stati.

In quest’ottica, effettivamente, l’elemento soggettivo doloso del soggetto ope-rante e il vantaggio che ottiene appaiono irrilevanti.

Ne sia prova il paragone con il caso del transfer pricing interno, categoria di ma-trice giurisprudenziale, posto che il fenomeno, come detto, non è normato nell’or-dinamento nazionale, anche se ciò appare in contrasto con l’evoluzione normativa degli altri Stati aderenti all’OCSE.

In caso di transfer pricing interno, l’emersione del vantaggio fiscale appare neces-saria per poter ritenere intaccato il bene giuridico tutelabile in una simile ipotesi, i.e. il diritto dello stato di tassare l’imponibile prodotto sul proprio territorio. Un’in-terpretazione antielusiva è funzionale a colpire una condotta che intacca un bene giu-

49 Sui nuovi orientamenti in tema di transfer pricing interno, v. Cass., 24 luglio 2013, n. 17955, in Riv. dir. trib., n. 9, 2013, II, p. 423, con commento di BORIA, Il transfer pricing interno come possibile ope-razione elusiva e l’abuso del diritto, p. 427 ss. e CARPENTIERI, Valore normale e trasfer pricing “interno” ovvero alla ricerca dell’arma di accertamento perduta, p. 448 ss.

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Cass., sez. V, 8 maggio 2013, n. 10739

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ridico differente (direttamente il principio di capacità contributiva) rispetto a quello tutelato dalla norma di cui all’art. 110, comma 7 del TUIR.

Infatti, in questi casi, risulta carente il duplice profilo, che valorizza la disciplina de qua, e non viene ad emergere la violazione del principio della ripartizione della potestà impositiva tra Stati, e pertanto la condotta del contribuente potrà al limite essere vagliata a fini antielusivi, utilizzando l’art. 9 sul valore normale come norma strumentale, come confermato da svariate pronunce in merito 50.

Pertanto, in quest’ottica, la Cassazione non cade in errore nel valutare l’irrile-vanza del beneficio fiscale in capo al contribuente nel caso specifico, classicamente inquadrato nell’ambito del transfer pricing internazionale.

Infatti, in queste ipotesi, il vantaggio fiscale eventualmente conseguito dalla parte non costituisce requisito della fattispecie, non è elemento fondante, ma al li-mite può rivelarsi circostanza sintomatica della condotta manipolativa, indicando il movente soggettivo del contribuente, che però va valutato alla stregua di un indi-zio, non sovrapponibile alla ratio della norma.

Quel che appare invece illogico, come ampiamente rappresentato infra, è l’ul-teriore conclusione cui la Corte si spinge nell’apprezzare la ripartizione dei carichi probatori tra contribuente ed Amministrazione Finanziaria.

Invero, dalla qualificazione sostanzialistica della norma, che a ben vedere appare corretta, non può discendere la applicazione acritica di canoni probatori che coz-zano espressamente con il richiamo, testuale, ad un parametro estimativo come quel-lo previsto nell’art. 9.

In conclusione, ricostruita nei termini indicati, appare apprezzabile la spinta de-gli interpreti verso un’esegesi che valorizzi sia l’essenza della tutela della norma, sia la modalità sostanzialistica con la quale la stessa è perseguita, imponendo in capo al contribuente un obbligo positivo sulle valutazioni, nell’ambito della determina-zione del reddito d’impresa. Tale avanzamento teorico dovuto anche al supera-mento della rigida dicotomia ricostruttiva evasione-elusione, consente un recupero della originaria ratio della disciplina, che vive in un’ottica anti distorsiva, funzionale alla tutela della libera concorrenza, coerentemente con la disciplina europea che è stata motore propulsivo dell’evoluzione che l’ha caratterizzata negli anni 51.

Virginia Scalera

50 Sul punto, BORIA, op. cit., p. 493 ss. 51 In merito v. SIKKAA-WILLMOTT, The dark side of transfer pricing: Its role in tax avoidance and

wealth retentiveness, Critical Perspectives on Accounting, vol. 21, issue 4, April 2010, pp. 342-356; PER-ALTA-WAUTHY-VAN YPERSELE, Should countries control international profit shifting?, in Journal of Inter-national Economics, vol. 61, issue 1, 2006, pp. 24-37.

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L’ACCERTAMENTO TRIBUTARIO

a cura di Antonio Felice Uricchio

pp. XVIII-478 | € 52,00 | ISBN 978-88-7524-276-3

I profondi mutamenti intervenuti nella disciplina dell’accertamento tri-butario, in larga parte dipesi dall’esigenza di contrastare in modo più ef-ficace la diffusa evasione, e i più recenti approdi della giurisprudenza in materia sia interna che comunitaria disegnano un quadro complessivo sotto certi aspetti nuovo e meritevole di essere ulteriormente esplorato. Il presente volume analizza la complessa e delicata materia da una pro-spettiva che coniuga opportunamente approccio teorico ed esperienza applicativa. I saggi raccol-ti, testimonianza della vivacità scientifica e di coagulo di un gruppo di lavoro composto da docenti autorevoli e giovani studiosi, consentono di mettere a fuoco le tante problematiche che si addensa-no in questo ambito. La varietà dei contributi e la numerosità degli istituti non rendono, tuttavia, il lavoro frammentario per la costante attenzione all’unitarietà del fenomeno ed al difficile bilancia-mento tra interesse fiscale alla percezione del prelievo erariale e tutela dei diritti del contribuente.

Gli Autori. – Presentazione. – I. Introduzione generale sull’accertamento e teoria dei metodi (A. Parlato). – II. Prospettive di sviluppo dei modelli accertativi (A.F. Uricchio). – III. L’interpello del contribuente (S. Di Giugno). – IV. Le attività istruttorie (N. D’Alessandro e G. Di Gennaro). – V. L’emendabilità della dichiarazione tributaria (F.G. Perrone). – VI. L’accertamento sintetico (G. Selicato). – VII. I metodi della rettifica tributaria secondo il modello “analitico” e “analitico-contabile” (L. Riccardi). – VIII. Gli studi di settore (F. Campobasso e M. Nencha). – IX. L’accer-tamento d’ufficio (L. Iacobellis). – X. L’accertamento parziale e l’accertamento integrativo (G. In-grao). – XI. L’accertamento bancario (D. Liuni). – XII. Segreto d’ufficio (F. Rasi). – XIII. La par-tecipazione degli enti territoriali all’accertamento dei tributi erariali (M. Aulenta). – XIV. Elusio-ne ed abuso del diritto in materia tributaria (R. Franzè). – XV. I rapporti tra accertamento tribu-tario e accertamento nel diritto penale (A. Perrone). – XVI. Procedimento penale e procedimento tributario (M.C. Parlato). – XVII. Termini per l’accertamento delle imposte dirette e loro compu-to (F. Rasi). – XVIII. L’accertamento con adesione (G. Selicato). – XIX. Adesione ai processi ver-bali di constatazione e agli inviti al contraddittorio (A. Apruzzi). – XX. L’autotutela (O. Lobefa-ro). – XXI. Eredi del contribuente (F. Rasi). – XXII. Pubblicazione degli elenchi dei contribuenti (F. Rasi). – XXIII. Accertamento dei tributi locali (A.F. Uricchio). – Indice analitico.

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