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Michele Passalacqua LA ZONA IN MEMORIA DI Andrej Tarkovskij Arsenij Tarkovskij Cinque poesie tradotte da Amedeo Anelli NEL NOME DEL FIGLIO E DEL PADRE

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Michele Passalacqua

LA ZONA

IN MEMORIA DI

Andrej Tarkovskij

Arsenij Tarkovskij Cinque poesie

tradotte da

Amedeo Anelli

NEL

NOME

DEL

FIGLIO E DEL

PADRE

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Michele Passalacqua

LA ZONA

Un poemetto, sette icone e uno scritto in memoria di Andrej Tarkovskij

1986 - 2004

L’amore vuol dire tutti i doni nel rogo – e sempre per nulla!

(Marina Ivanovna Cvetaeva)

Era lì vicino, sembrava, ma non potevo avvicinarmi:

appena mi avvicinavo – lei era a sette passi.

(Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij)

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NON BASTA VIVERE Molti anni sono trascorsi dalla morte prematura di Andrej Tarkovskij. Nulla è stato di-menticato, e quel passato è una sorgente. Il poemetto La Zona è nato dalle ceneri arden-ti del grande regista russo. Tarkovskij non è stato soltanto un regista cinematografico, ma un autentico maestro di quella verità speciale e rara che è la vita poetica, forte testi-monianza etica di una certezza lirica: c’è un silenzio profondissimo, nella vita; un padre silenzio, intimo e “intraducibile”, che ci ordina di essere innocenti e assoluti, come goc-ce d’acqua che risuonano nell’abbandono “religioso” di una pura attenzione. Chi è? Cosa vede? Cosa ascolta? Nella verde dismisura della natura, una coscienza pani-ca, viandante tra boschi e acquitrini, percepisce gli elementi visibili e invisibili del pae-saggio come riflessi dell’Altrove, bisbiglio di icone ondeggianti. La natura che scioglie e consola, mediatrice tra l’angosciosa interrogazione storica e l’apparire “sghembo” del sacro, dell’immortalità. È la grande madre natura (la grande madre Russia!), memoria nel corpo, nel bàttito e nel respiro di una vicinanza struggente: la madre perduta, l’in-fanzia lontanissima. Madre vastità, grande spazio di affetti e afflizioni, selvaggia no-stalgia di una luminosa tenerezza che c’infonde la forza e le parole per non soccombere al sogghigno dei barbari, all’incubo del mondo. È una qualità estrema dell’amore, al di là di tutte le illusioni e regressioni interpersona-li, enigmatica e imperativa, per cui non resta altro che inginocchiarsi, benedire anche la foglia secca, la pozzanghera, l’alito di vento… Quando tutto è perduto (vanità delle am-bizioni e delle bramosie umane, che inquinano anche l’arte, la letteratura, la politica, la scienza!), la poesia torna a quel “vuoto” amniotico, al sussurro stranito di Dio, all’ocea-no sapiente, oscuro e informe, dell’origine, a quel non luogo di ogni dissolversi, trasfor-marsi e nascere. Il tempo mitico dell’infanzia, «quando tutto era possibile», affonda le sue radici nelle geologie siderali di un Grande Tempo, nella cupa genialità di un sonno-sogno che ci suggerisce i colori, le battute, le luci, gli accenti giusti. Dove niente è per-duto, impuro, e tutto si compie perché è già da sempre. Là ci sono voci che, dall’abisso naturale del silenzio, sorgono mormorando alla nostra nuca racconti di una bellezza che toglie il respiro: essenza dolorosa, macerata e feconda, che ci è necessaria come l’aria e il pane. È la bellezza che ordina la semplicità del gesto eroico, l’impresa da compiere, il sacrificio ineludibile, la parola decisiva: l’uomo non è più un animale spaventato, la maschera miserabile dell’io predato e predatore, ma la stele di uno spirito che risponde e attraversa il male, l’umiltà e lo stile di una divina im-personalità. Senza quel silenzio, senza quelle voci, l’uomo è condannato all’infamia di una infelicità improduttiva e divorante, impoetica e distruttiva, dove l’unica realtà è la stupidità sociale organizzata in funzione di una ottusa sopravvivenza “scientifica”, e fi-nalizzata alla violenza dell’indifferenza, alla normalità quotidiana del suicidio di mas-sa. Primavera 2004

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LA FORZA DI IVÀN La lucentezza incolore della fine: una bambina d’acqua cupa, fredda, che guarda la guerra. Diluvia la notte, corrono grandi alberi bianchi, e ridendo cade la stella, la testa nel pozzo di un altro mondo. Dalle dita – gocciola il sonno, il tempo dove tutti sono in pace perché hanno pagato.

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RUBLËV E IL RAGAZZO «Solo un po’ di neve alla bocca, e quest’atroce macchia sul muro bianco! Vogliono inferni edificanti e madonne per i servi; altri spezzeranno le città, vorranno bellezza e bottino, ma non prenderanno questa mitezza incomprensibile.» Dalle icone, dai palazzi, gli angeli sono fuggiti nel bosco delle fiaccole calpestate, negli occhi assassinati, dove il silenzio messia, grondante, ha una madre pagana: la lingua mozzata del buffone la ninfa idiota del villaggio la mente muta del santo, torneranno ad essere l’armonia di tre viventi, la pura nudità della grazia. Il ragazzo non conosceva il segreto ma partì lo stesso. Felice tra rogo e pioggia, ai piedi della grande campana, ascolta l’oro cupo del cielo, un coro che incombe sul corpo stracciato, tre tuniche d’acquamarina nella pace che imperversa.

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LA MENTE DI SOLARIS

«Se penso agli ultimi giorni… Era peggio che uccidersi. La vergogna,

è la vergogna che può salvarci.»

Dopo una terra irriconoscibile splende la sfera di un oceano:

tempeste di memoria, suoni e vortici dove ognuno

ritornerà dolore, carezza, oppure maschera inconfessabile

che scruta gli sconosciuti della propria vita dimenticata.

L’infinito è buio, immobile: come canne sublimi

volano i corpi abbracciati, i dolci paesaggi invernali abitati dai fuochi umani.

«Se non vado, non posso saperlo.» I lampi della pioggia atterrano la vita, la offrono ad un vuoto scrosciante. Sapere nutrito di corsi d’aria, che calma il viso agli spazi, mentre i capelli e i vestiti, umiltà macerate, ascoltano l’erba d’acqua, l’adagio dell’abbandono. La tazza tintinna, i frutti sono lucidi, fermi, e un uomo lascia le sue ragioni.

«Il mio non è un sonno: è qualcosa che mi circonda e che viene da lontano, come il silenzio di un capo che ha una ciocca bianca.» Mare madre di corpi verdecupi che guardano sereni da un grigio d’oltrevita, voci di ricordi affondati, visioni udite nel ventre gravido di chi ritornava: là emergeranno soltanto le nostre isole benigne, l’acquazzone entrerà nella casa e bagnerà le spalle di quelli che ci radicarono il respiro. Nella veloce curva dei cieli sarà ancora la pace dei miracoli crudeli.

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LA BRACE DELLO SPECCHIO «Se parlo adesso, se decido, non balbetterò più.» Lentamente, il soffitto cede come un’anima di materia verde, a pezzi. Nel disgelo, le stanze sono caverne di grigiobruno, e dal cunicolo del corridoio fugge la spoglia di un uomo. Tempo crivellato da una marea di segni bianchi, augùri, voci in visibilio. Nel mirino dell’amore appare un pazzo con un rasoio, tramortito dall’applauso di una folla in volo. Lascerà la discordia dei sessi, delle famiglie, e sarà una sentinella d’acqua presso un roveto ardente. «Io sono caduto e qui ci sono erbe, radici.» Le dita sono beate, protese alla radura immobile, dove il dio di una folata sciama tra due sguardi: la mente è un attimo prodigio. La casa vuol dire: noi nella notte, coro stupore per un alone sulla tavola: chi svanì ritornando è stato qui adesso! Una stanza sfolgorante d’aria e legno – è vicina! La voce bianca chiama l’età dell’oro, la fertile calma dei campi che arresta il respiro. Nel fato di uno specchio, cupo uno sguardo vergine fissa la sua brace, l’èra del suo volto.

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Il silenzio di chi si sveglia con un viso di rame, e fiuta, punta con le mani, gli occhi. La stanza da letto è una miniera di neroverde, un sonno che brilla come un’alba sottoterra: oggetti, echi, respiri hanno l’età del bronzo.

Una donna si spezza, maledice le sue viscere, si contorce

ad ogni partenza. Non sa capire quel destinarsi

a vuoto, quell’inumano trascinato da un’armonia che sfida le pozzanghere

di ogni popolo, le luci spinate e i vicoli maligni

di ogni frontiera inaccessibile.

Da una sala di ghiaccio e cartapesta udire la nebbia delle sirene, ascoltare l’autunno delle industrie. Non basta l’infelicità, non basta vivere. Fili frustano l’aria, carrello e binari scandiscono il loro oblìo nel rovescio del mondo. Tre volti vanno nella quiete del tempo, e la loro storia si sgrana a fuoco e freddo.

Vogliono sparire dagli uomini che divorano anche il loro schifo, toccare il verde, la pace disabitata

di una zona che li chiama con la loro pupilla più semplice,

mite e intollerabile.

IL GENIO DELLA ZONA

Non serve a niente, non ha

senso, ma il suo buio scintilla nel suono del pozzo.

Grigio di una verità che piomba in fondo alla vita,

musica di pietra e cisterna. C’è una voce in ogni cosa e ascolta il genio dell’eco

con gli occhi sommersi. Un animale nero, fedele, fiuta la nostalgia di un uomo, abbattuto nella maceria cristallina di un’aurora palustre. Resterà come una contrada che dorme nella certezza di chi, crollando, ritorna. Altri disattivano gli ordigni, pezzo per pezzo, e l’acqua scioglie, in spirali di ruggine, secoli d’astio.

«Non possiamo entrare facilmente, qui tutto cambia ogni momento,

e il desiderio più intimo può realizzare anche un’infamia.

Dobbiamo fermare la nuca e procedere nell’intoccabile,

parola per parola, fino alla –»

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ACQUE DELLA NOSTALGIA

«Basta con queste bellezze eccessive.»

Cineraria, roccia, stanza della grotta dove riverbera l’acquazzone:

lentamente il corpo sottile di un respiro in esilio,

dalla pena di un crepuscolo cede al nero della sua terra,

affonda in pace.

«Madrelingua, sottovoce lèvita nel buio di cobalto,

tra lenzuola incandescenti, il sonno del ventre gravido. L’aria è quella cosa leggera che ruota intorno alla testa

e diventa più chiara quando sorridi!»

La fine del mondo è semplice come la luce che scava un paese improvviso,

tra valle e dirupo. Il sangue scende dal naso in memoria delle offese, e la candela attraverserà

lo stagno, per tutti. In quel punto grideranno

fuoco, si daranno pane, acqua e cielo,

parlerà il sogno di un’invettiva.

Dove sono fuggiti resta l’erba tra i pilastri,

il bene della neve, il vuoto di una cantilena.

Nudità di un addio, grande vento negli occhi, nello specchio

dove si volta la mente, amore che serra disamore,

e fissa il suo silenzio silvano, il sorriso che sfiora il mondo.

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NATURA DI UN SACRIFICIO I congegni di una nube irradiante uccidono il cielo, falciano l’idea del mondo. Un busto d’ombra annuncia, da un’èra spaventosa, il suo ultimo volto: «Maria dell’uomo sangue che ci salvi!». Strade macerate, calcinate, stanze che franano dove la voce è uno scheletro di fiamma, per ritornare ai grigi di un orto disumano, alla ruggine bellezza, ai nostri occhi di madre che ci perse. Per lo stesso verbo, principio di viscere e silenzio, gesto di ogni giorno, rinunciamo alle elemosine, al conforto dei lamenti. «Padre della vita strappata regno trafitto di lacrime carne gremita di voci pane della nostra passione!» Dopo un grande pericolo la luce il buio ruotano alle spalle e marcano la decisione di fare fuoco.

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Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij è fra i maggiori poeti del Nove-cento europeo di lingua russa. La sua poesia unisce tradizioni di pensiero dell'Occidente - umane-simo e personalismo, tradizioni visibili e tradizioni sotterranee, fra queste importante per l'Autore quella gnostica - e del vicino O-riente, aiutato in questo dalla po-derosa opera di traduttore da nu-merosissime letterature. La sua poesia inoltre possiede una forte tangibilità e figuratività e perse-gue quel filone di "pensiero ap-passionato" tanto caro a Dostoe-vskij e alla "linea skovorodiana” della cultura russa. Una poesia nutrita di elementi ed alterità, di terrestrità - Alla terra ciò che è ter-reno è il titolo della sua seconda raccolta - di una filosofia e tangi-bilità degli elementi e di forti ten-sioni sia fisiche che metafisiche.

Inoltre è presente una dualità e spe-cularità che è propria di un trattamen-to molteplice, fra temporalità e intem-poralità, dei piani e dei luoghi della poesia. Nel contenimento intempora-le del tempo, presente, passato e futu-ro si danno come luoghi di una mor-fologia unica e non prendibile del mondo, luoghi di una natura natu-rante in una storia infera ed in una naturalità della storia che sopravanza ogni letteralizzazione verso tradizioni a venire. Amedeo Anelli

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Arsenij Tarkovskij LA CACCIA Sta per terminare la caccia. Mi hanno aizzato i cani. Il levriero è attaccato penzoloni alla mia coscia. La testa rovescio all’indietro cosicché le scapole mi segnano le corna. Barrisco. Mi recidono i tendini. Mi ficcano la canna del fucile nell’orecchio. Cade su un fianco, s’impiglia le corna alle verghe inzuppate. Vedo l’occhio velato che ha un filo d’erba appiccicato. Il bulbo oculare nero rigido senza riflessi. Le zampe legate, infilato nella pertica, lo caricheranno sulle spalle... 1944 KORE Quando a lunghi sorsi berrò l’eterna separazione come gelido mercurio, non andare via, dammi la mano e conducimi nell’ultimo viaggio. Fermati sul limitare della morte sino alle tenebre, come un raggio di giorno, resta ancora un poco almeno due metri1 sopra di me. La bocca terribile della divina Kore ci dà il benvenuto con un sorriso, e gli sguardi dei suoi occhi ciechi denudano l’ anima, occhi d’oltretomba. 1) letterale: tre aršcin (1 aršcin è circa 0,71 m) 1958

OXOTA

KÓPA

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TERRESTRE Se il destino avesse voluto che fossi nato nella stessa culla degli dei, la balia celeste mi avrebbe nutrito del latte divino delle nuvole, sarei divenuto spirito dei giardini o delle acque guardiano delle messi e delle tombe. Ma sono un uomo e temo una sorte non terrestre L’immortalità non fa per me. Grazie, perché mi togli l’impulso di sorridere sul sale e sul fiele di quaggiù. Violino d’Olimpo, dunque addio, non compiangermi, non ridere di me. 1960 Come Gesù messo in croce, il dente della montagna diventava nero alla cima dov’era il limite fra il cielo e la polvere vicina alla terra ocra, mentre il sole saliva lungo la croce, e tutti noi, come su una zattera di pietra navigavamo sull’oceano di pietra. Così sognavo. In mezzo a quali steppe, in quale luogo, tra quali altipiani e l’anima di chi tanto vicina alla mia portava il proprio accecante dolore? E da chi dei miei antenati ricevetti questo lascito fatale: le spine sull’architrave torto, la luce lilla degli zigomi cerei e l’iscrizione sul capo reclinato? 1962

ЗEMHOE

Как Иисус

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ППΟΟЛЕВЛЕВΟΟЙ ГЙ ГΟΟСПИСПИΤΑΤΑЛЬЛЬ

OSPEDALE DA CAMPO Voltarono il tavolo alla luce. Ero disteso la testa china verso il basso, come carne sulla stadera, l’anima appesa a un filo palpitava, mi vidi dal di fuori! Com’ero tale e quale ero soppesato con unti pesi da bazar. Eravamo nel mezzo di uno scudo di neve, sbrecciato sul limite occidentale, nel cerchio d’acquitrini che non gelano, di alberi dai fusti fracassati e dove erano piccole stazioni ferroviarie dai crani fracassati, nere con i berretti di neve doppio tripli. Quel giorno il tempo si fermò, fermi gli orologi, anche le anime dei treni non sfrecciarono più sulla massicciata, senza fanali, sugli ultimi grigi sbuffi del vapore. Non c’erano in quel limbo dove ero disteso, nudo nella vergogna, né le nozze di corvi, né le tormente, né i disgeli, ero nel mio sangue, fuori dalla forza di gravità del futuro. Ma si mosse lo scudo accecante di neve e fece un giro attorno al proprio asse e bassi sopra la mia testa virarono sette aereoplani, la garza, come una scorza legnosa sul corpo s’era indurita, fluiva nelle mie vene un sangue estraneo dal flacone; ma respiravo, come un pesce sulla sabbia inghiottendo forte, la terrestre, di mica, fredda e benedetta aria. Le labbra erano arse, ed ancora a cucchiaini mi abbeveravano, e ancora non potevo ricordare il mio nome, ma resuscitò sulla mia lingua il vocabolario di re Davide. Poi se ne andò anche la neve, e venne prematura la primavera, venne in punta di piedi, anche gli alberi avviluppò col suo scialle tutto verde. 1964

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Notizie TARKOVSKIJ ARSENIJ (Elizavetgrad, 1907 - Mosca, 1989), uno dei più grandi poeti e traduttori russi del Novecento, pur avendo scritto poesie fin dalla prima giovinezza, ha dovuto attendere l’era del disgelo e l’anno 1962 perché finalmente potesse essere pubblicata una sua raccolta: Pered snegom (Neve immi-nente). È accusato di misticismo fin dalla fine degli anni venti ed è ritenuto nocivo, pericoloso, proprio in vir-tù del suo talento - dunque da non stampare né divulgare - alla vigilia di quella che doveva essere la pubblicazione del suo primo volume (1946). Ennesima condanna da parte di un regime che, nello stes-so tempo, insignisce il capitano Tarkovskij dell’Ordine della Stella Rossa per aver combattuto eroica-mente per il suo paese, in una guerra dalla quale ritorna mutilato (1941-1943). La fede incrollabile nella verità della poesia e nell’eternità della vita (non riducibili alle convulsioni della storia, né tantomeno al realismo socialista) gli ha permesso di attraversare il lungo inverno so-vietico senza sporcare l’icona della propria anima. Così, dopo il 1962 e fino all’anno della morte, ve-dranno la luce altre nove raccolte. La Russia comunista non lo può più ignorare e, nel 1987, lo onora con l’Ordine della Bandiera Rossa per il Lavoro. Negli ultimi anni di vita, sopporta un’ultima, grande ferita: quella di sopravvivere al figlio Andrej Tarkovskij. Quel figlio che, ereditando e trasmettendo la sostanza immortale delle sue parole, aveva contribuito non poco alla conoscenza internazionale della sua poesia. TARKOVSKIJ ANDREJ (Zavraž’e, 1932 - Parigi, 1986), nasce in un villaggio, sulle rive del Volga, oggi quasi del tutto scomparso in un lago artificiale: l’acqua, mito originario e onnipresente nei suoi film, custodisce e dissolve i luoghi felici e leggendari della prima infanzia. I luoghi del famoso “cascinale”, dove andava in villeggiatura con la sorellina Marina e i genitori giovani e felici. La magia di quell’età dell’oro ritornerà, dolorosa e trasfigurata, nel film Lo specchio (1974). Dopo la separazione dei genitori, Andrej resta con la madre, Maria Višniakova Tarkovskaja, stabilen-dosi a Mosca. La forza, la religiosità, la cultura della madre, saranno fondamentali per la formazione di Andrej, così come la costante “presenza” poetica del padre, pur fisicamente assente, anche a causa della guerra, per lunghi periodi. Studia arte figurativa, musica, arabistica, geologia. Come geologo raccoglitore parte per una spedizio-ne in Siberia, al termine della quale, nel 1954, torna a Mosca per iscriversi al VGIK, prestigioso Istituto Cinematografico, dove studia regia. Le diverse passioni culturali di un giovane brillante e irrequieto, trovano finalmente una via certa per esprimersi e, nel 1960, si diploma. Dal 1962 al 1979 realizza, nonostante il crescente ostracismo delle autorità sovietiche, cinque film con-siderati, dalla critica internazionale, cinque vette della cinematografia mondiale. Nel 1982, Andrej è in Italia per girare il suo sesto lungometraggio, Nostalghia, e in quest’occasione matura lo strappo defini-tivo che lo allontanerà dal suo paese. Dopo aver realizzato l’ultimo film, Sacrificio, si spegne esule a Parigi alla fine del 1986. PASSALACQUA MICHELE è nato nel 1952 a Santeramo in Colle (Bari). Dal 1980 al 1995 ha vissuto e lavo-rato a Milano. Risiede nel paese di origine e lavora in una biblioteca di Bari. Ha pubblicato due raccolte poetiche. Altri testi sono sparsi su riviste, antologie, etc. Dal 1985 al 1995 ha lavorato ad un ciclo di opere pittoriche, allestendo mostre personali e partecipando ad alcune colletti-ve. Ha pubblicato materiali critici, artistici e letterari, su vari periodici. Ha collaborato, con interventi critici o creativi, alla cura e all’organizzazione di mostre d’arte.

passalacqua1952.wordpress.com myspace.com/micheledellerma ilmiolibro.it ANELLI AMEDEO è nato nel 1956 a Santo Stefano Lodigiano. Si occupa di poesia, filosofia, critica letteraria e critica d’arte. Ha fondato e dirige dal 1991 la rivista in-ternazionale di poesia e filosofia Kamen’. Ha pubblicato alcune raccolte poetiche. Ha curato volumi di letteratura e cataloghi d’arte. Numerosi i suoi interventi su riviste e volumi collettivi. Ha tradotto, con Stefania Sini, l’opera dei poeti russi Arsenij Tarkovskij e Osip Mandel’štam. viadelvento.it lietocolle.it vicolodelpavone.it

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Note Per la definizione dell’inserto, sono stati utilizzati ed elaborati due ritratti fotografici di Arsenij Tar-kovskij ed uno di Andrej Tarkovskij, nonché alcuni dettagli di fotogrammi, anch’essi rielaborati, tratti dai seguenti film di Andrej Tarkovskij: Solaris (1972), Lo specchio (1974), Stalker (1979). Per informa-zioni più precise in merito ai ritratti fotografici e alle fonti, si rimanda, in particolare, ai siti www.nostalghia.com (molto ricco di immagini, documenti e aggiornamenti internazionali sull’opera del regista), www.tarkovskij.altervista.org (sito italiano, in costruzione, ma già ricco di materiali) e www.tarkovskij.com (sito in costruzione dell’Andrei Tarkovsky International Institute).

I testi del poemetto La Zona si articolano su sfondi e campiture elaborati a partire dai sette quadri di Michele Passalacqua che accompagnano, nella versione originaria, i testi stessi (La cosa è grigia - Per Milo De Angelis, 1986; L’iconoclasta, 1989-1990; Blu fuoco di Persefone, 1993; Autoritratto I - Le notti bianche, 1988-1990; Luogo innato, 1988-1990; L’angelo della vertigine II, 1991; Caput mortuum, 1989-1990). Le soluzioni grafiche-immaginali del presente inserto sono relative al progetto specifico, nell’ ambito della rivista «incroci» – www.incrocionline.wordpress.com. La versione originaria, testi e imma-gini a colori, è visibile sul sito della rivista e all’indirizzo www.myspace.com/micheledellerma, oltre ad essere disponibile in forma di plaquette, a richiesta, sul sito www.ilmiolibro.it. L’inserto è stato curato da Michele Passalacqua, con la collaborazione di Amedeo Anelli e la supervi-sione di Lino Angiuli. Bibliografia essenziale Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, a cura di Vittorio Nadai, Ubulibri, Milano 1988. Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, Poesie scelte, a cura di Gario Zappi, Libri Scheiwiller, Milano 1989. Arsenij Tarkovskij, La steppa e altre poesie, a cura di Amedeo Anelli e Stefania Sini, Via del Vento Ed., Pistoia 1998. Lorenzo Pompeo, I due Tarkovskij: la poesia di Arsenij e il cinema di Andrej, in “Controluce”, 1999, 11. Andrej Tarkovskij, Diari: martirologio, 1970-1986, a cura di Andrej A. Tarkovskij, trad. di Norman Mozzato, Ed. della Meridiana, Firenze 2002. Andrej Tarkovskij, Luce istantanea, a cura di G. Chiaramonte e Andrej A. Tarkovskij, introduzione di T. Guerra, Ed. della Meridiana, Firenze 2002. Andrej Tarkovskij, L’Apocalisse, trad. di Andrej A. Tarkovskij, Ed. della Meridiana, Firenze 2005. Lo specchio della memoria, foto di Lev Gornung e Vladimir Muraško, testi di Andrej e Arsenij Tarko-vskij, Ed. della Meridiana, Firenze 2007. Paola Pedicone, Aleksandr Lavrin, I Tarkovskij: padre e figlio nello specchio del destino, Tracce Ed., Pe-scara 2008.