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16 Domenica 10 gennaio 2010 Domenica 10 gennaio 2010 17 QUELLE FORME GRAFFIATE di TONINO SICOLI C orrado Alvaro a Roma era uno scrittore già molto af- fermato quando lo scultore Giuseppe Rito negli anni Cinquanta aveva intrapreso a frequentare gli ambienti artistici della Capitale. Lo si poteva incontrare fra Piazza di Spagna e Piazza del Popo- lo, lungo via del Babuino nei pressi della sua abitazione in vicolo del Bot- tino. Alvaro era molto severo e incute- va rispetto ai tanti giovani intellettua- li in cerca di gloria che gli si facevano incontro per chiedergli amicizia e re- censioni. Capitò anche a Rito di avvicinarlo per chiedergli la presentazione di una mo- stra. Ricorda il giornalista Mario Proco- pio: «Era una sera d’inizio estate e Rito, da quell’istintivo che era, imprecava contro il caldo che a Roma secondo lui era insopportabile. Erano delle autenti- che filippiche le sue: contro il caldo e contro qualsiasi altra cosa che non gli andasse a genio - cani, femmine di lusso e artisti montati - Vedemmo d’improv- viso Alvaro venire sul solito marciapie- de, solo soletto stavolta, e Rito troncò immediatamente il suo ingrugnato mo- nologo contro il caldo per decidere tutta la propria attenzione al- lo scrittore: indubbia- mente stava chieden- dosi se fosse il caso di andare a bloccarlo lì sul marciapiede. Lo conosco - disse - mi co- nosce; ma che ne dici, è il caso? Lo blocco?. De- cise di farlo e pretese che lo accompagnassi. E, bè, Alvaro non mor- deva». (AA.VV., Cor- rado Alvaro e Catanza- ro, Catanzaro, 2007) L’episodio raccontato fa ben capire l’aura di rispetto che circondava lo scrittore di San Luca, ma rende bene l’idea anche del carattere di Rito, che era un uomo pieno di slanci e di ritro- sie. La presentazione di Alvaro venne, in- fatti, in occasione della mostra perso- nale alla Galleria della Carrozze, tenu- tasi a Roma nel 1956, così come venne la sua amicizia e quella di un altro grande scrittore calabrese, Leonida Repaci, che rappresentano il migliore ricono- scimento alla figura umana e artistica dello scultore calabrese. Rito agli occhi dei due scrittori con- terranei aveva saputo dare alla terra- cotta la grazia dell’antica arte fittile del- la Magna Grecia, dalle grandi statue al- le pinakes di Locri. Alvaro associò addi- rittura il rigato plastico delle opere di Rito con le incrostazioni fangose dei soggetti dipinti dal primo Van Gogh e le striature del suo co- lore. Rito era nato a Dinami, nel vibonese, durante la primavera del 1907. Ave- va studiato presso la Scuo- la d’arte e mestieri di Vibo Valentia e poi si era iscritto all'Accademia di Belle Arti di Napoli dove aveva seguito - correva l’anno 1929 - i corsi di Francesco Jera- ce, lo scultore di Polistena. A Napoli aveva imparato anche la tecnica della fusione in bronzo presso la fonderia Chiurazzi. Si era affacciato anche alla ribalta mi- lanese esponendo nel capoluogo lom- bardo alla VIII Mostra Sindacale (1937) meritandosi un premio di diecimila lire ed un acquisto da parte di re Vittorio Emanuele III, e successivamente anche alla Galleria Pesaro, spazio d’eccellenza della Milano artistica negli anni Dieci- Trenta, presso il quale era stato intro- dotto dal pittore e amico Lionello Bale- strieri. Poi era venuto il prestigioso invito al- la XXVI Biennale Internazionale di Ve- nezia del 1956, alla quale Rito partecipò con due sculture. Nel 1961 espose alla Galleria Torre di Pa- rigi, senza aver mai disdegnato tuttavia le partecipazioni alle mostre in Calabria come le Mostre sin- dacali d’arte calabre- se a Cosenza e Catan- zaro, in varie edizio- ni dal 1938 al 1942. Ma i suoi lavori mi- gliori e più apprez- zati erano stati quel- li relativi alla scultu- ra monumentale co- sì come l’aveva inte- sa in alcuni grandi bronzi realizzati nel- la sua regione di ori- gine. Rito non aveva mai tagliato i ponti con la Calabria e ri- tornava spesso a Ca- tanzaro, città dove era molto apprezza- to. La prima commes- sa pubblica l’aveva ricevuta nel 1945 dal Tribunale della città per la realizza- zione di un gruppo scultoreo in bronzo “Giustizia e Libertà” da porre all’ingresso del Palazzo di Giusti- zia. Il tema era dei più difficili per la portata simbolica che l’opera avrebbe assunto non solo verso magistrati e av- vocati, ma sopratutto verso i cittadini, tutti eguali e liberi di fronte alla Legge. L’allora presidente della Corte d’Ap- pello di Catanzaro Enrico Carlomagno autorizzò l’artista ad utilizzare per la fusione della scultura i resti in bronzo della statua di Michele Guerrisi che fa- ceva parte del Monumento ai caduti po- sto nella piazza antistante e danneggia- ta durante i bombardamenti sulla città nell’agosto del 1943. Anche questa notizia del riutilizzo del bronzo da parte di Rito getta una pa- rola definitiva sulle tante illazioni cir- colate e che continuano a circolare a proposito della sorte dei resti della scul- tura di Guerrisi colpita da una bomba. “Giustizia e Libertà”, dopo varie ipo- tesi prese in esame, fu collocata nel 1947 al centro dello scalone centrale nell'atrio del Tribunale e rappresenta due figure femminili con gusto arcai- cizzante e secondo stilemi tipici dell'ar- te celebrativa. A questa opera seguirono altri inca- richi pubblici, che consentirono a Rito di realizzare a Catanzaro un vero pro- prio percorso personale di sculture: “l’Assunta”, posta sulla sommità del campanile della Cattedrale di Santa Ma- ria Assunta e dei Santi Pietro e Paolo (1955-56); “l’Immacolata” nell’ex Orfa- notrofio “Stella”; il busto pensoso di “Giovanni Pascoli” nella scuola omoni- ma (1954); il bassorilievo dell'Immaco- lata e della “Via Crucis” sistemati nella Chiesa di Pontegrande; “l’Ecce Homo” collocato sempre nella cattedrale nei pressi della cripta dei vescovi (1961). Ma l’opera più nota di Rito, assurta addirittura ad emblema della città di Catanzaro, è “Il Cavatore”, immagine forte e simbolica del lavoro dell’uomo. La scultura eseguita fra il 1951 e il 1954 rappresenta una figura possente e muscolosa nell’atto di picconare le pie- tre per fare sgorgare l’acqua. Collocata all'ingresso della città, su piazza Mat- teotti, in una nicchia alla base del Com- plesso monumentale del San Giovanni, la fontana col Cavatore rappresenta un gigantesco omaggio ai lavoratori, che con la forza delle braccia traggono il proprio futuro. Alla fine degli anni Cinquanta realiz- za a Cosenza il monumento al poeta Mi- chele Di Marco, detto Ciardullo, collo- cato in piazza XXV luglio. Se nelle opere pubbliche emerge tutta la compostezza e l’impatto formale dell’arte cosiddetta commemorativa, nelle opere di piccolo forma- to Rito sa essere un arti- sta emotivo, incline alla fantasia, curioso anche dei nuovi linguaggi, contaminati da quelli più archetipi. Il suo caratteristico modo di lavorare la superficie delle pic- cole sculture ha i tratti magici e religio- si della ritualità primitiva, quasi come se le incidesse per private ritualità, an- tiche propiziazioni. Sono segni che so- migliano alle scarificazioni dell’art ne- gre, alle striature delle statue di Ife at- tributi di regalità. In entrambi i casi la bellezza ha una dimensione nascosta, una cifra arcana. «Io vidi e vedo in Rito - scrive Repaci - un mistero affascinante. Non so se sia stato lui ad inventare la tecnica del riga- to plastico, o se egli non abbia ripetuto d'istinto un procedimento giun- to a risultati di esterna perfezione nelle teste nere di Ifè scoperte da Frobenius intorno al 1912 e che rappresen- tano un grosso affasci- nante problema, quan- to alla loro collocazione nel tempo, e alla loro derivazione e influenza. Senza cer- to conoscere il miracolo plastico che va sotto il nome di teste di Ifè della Nigeria occidentale, la tecnica del rigato in Ri- to, attraverso la quale la sua scultura ri- vela la luce e il movimento che la forma nasconde nel segreto di sé, affermò un temperamento di creatore restio a cam- minare nel solco tracciato da altri, e in- vece proteso ad affermare una sua poe- tica verità, una sua maieutica plastica, che arriva alla resa del soggetto senza alcuna mistificazione, coi mezzi più schietti, con un dialogo tra scultore e personaggio mantenuto da principio alla fine sorgivo, attento sostanziale, partecipante, attivo». (L.Repaci, Calabria grande e amara, Sove- ria Mannelli, 2002) Da un punto di vista più moderno Rito sem- bra raccogliere le solle- citazioni delle pre- avanguerdie artisti- che, ovvero di quella vi- sione realistica filtrata da scomposizio- ni del colore e del tratto. Una sorta di di- visionismo delle tensioni epidermiche dà brusìo alla superficie prima an- cora che slancio dinamico alla forma come nei futuristi. Ten- sioni lineari disegnano rigati- ni come linee isostatiche sen- za tuttavia stravolgere la for- ma che vibra e si agita solamen- te. Le righe vengono rese eviden- ti e tirate fino a segnare longitudi- nalmente ogni fi- gura. Sono tratti fitti, accostati, striature este- riori che ri- mandano a sussulti inte- riori, impercet- tibili sensazioni di un fremito sottopelle. Rito alterna un realismo ar- caico, che fa sopravvivere mo- delli della tradizione tardo-ot- tocentesca (come in “L’ac- quaiolo”, che sintetizza nella forma due opere diverse di Vincenzo Gemito: “ ‘O pescato- riello” e “L’acquaiolo”, appunto) a saggi di vera trasfigurazione simil- futurista (come “Donna nella tempe- sta” e “Volti”) in cui sprigiona forze pla- stiche e tracciati diagonali che ricorda- no il fitto tratteggio grafico di “Quelli che vanno” di Umberto Boccioni. Preferisce soprattutto la terracotta e lascia al bronzo solo le grandi composi- zioni. Egli stesso dichiarava di non amare il marmo, perchè figlio del ghiaccio e del freddo. Mentre la terra- cotta e le fusioni in bronzo sono figlie del fuoco. «E c’è una ragione - confidava all’ami- co Nino Gimigliano - noi siamo figli del sole che ci illumina, riscalda e ci da la vi- ta. Invece penso che, in un certo senso, solo il metallo trattato con il fuoco (an- ch’esso figlio del sole) è la materia ideale per l’artista». (AA.VV., Giuseppe Rito. Le origini del contemporaneo in Cala- bria, Catanzaro, 2008) Quando muore a Dinami nel 1963 per un male incurabile, ha appena cin- quantasei anni ma fino all’ultimo ha modellato l’argilla, solcandola con le di- ta e accarezzandola come si fa con la ter- ra-madre, guardato alla materia come ad una generatrice dal cui grembo na- sce la vita che si eterna nell’arte. Fu amico intimo di Corrado Avaro e Leonida Rèpaci La sua opera più importante è “Il Cavatore” Giuseppe Rito Scultore nato a Dinami fu definito il “poeta della materia” Da sinistra: Donna nella tempesta, 1956; Ragazza con fiore, 1959-‘63; L’acquaiolo 1959 - ‘63 Al centro Ritratto di Corrado Alvaro Giuseppe Rito e Leonida Rèpaci 21 Il cavatore 1951- ‘54, Catanzaro, a lato Bambino, 1959

16 21 FORME G R A F F I AT E - toninosicoli.eu · più moderno Rito sem-bra raccogliere le solle-citazioni delle pre-avanguerdie artisti-che, ovvero diquella vi-sione realistica filtrata

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Page 1: 16 21 FORME G R A F F I AT E - toninosicoli.eu · più moderno Rito sem-bra raccogliere le solle-citazioni delle pre-avanguerdie artisti-che, ovvero diquella vi-sione realistica filtrata

16 Domenica 10 gennaio 2010 Domenica 10 gennaio 2010 17

QUELLE FORMEG R A F F I AT E

di TONINO SICOLI

Corrado Alvaro a Roma era

uno scrittore già molto af-fermato quando lo scultoreGiuseppe Rito negli anniCinquanta aveva intrapreso

a frequentare gli ambienti artisticidella Capitale. Lo si poteva incontrarefra Piazza di Spagna e Piazza del Popo-lo, lungo via del Babuino nei pressidella sua abitazione in vicolo del Bot-tino. Alvaro era molto severo e incute-va rispetto ai tanti giovani intellettua-li in cerca di gloria che gli si facevanoincontro per chiedergli amicizia e re-censioni.

Capitò anche a Rito di avvicinarlo perchiedergli la presentazione di una mo-stra.

Ricorda il giornalista Mario Proco-pio: «Eraunasera d’inizio estate e Rito,da quell’istintivo che era, imprecavacontro il caldo che a Roma secondo luiera insopportabile. Erano delle autenti-che filippiche le sue: contro il caldo econtro qualsiasi altra cosa che non gliandasse a genio - cani, femmine di lussoe artisti montati - Vedemmo d’improv -viso Alvaro venire sul solito marciapie-de, solo soletto stavolta, e Rito troncò

immediatamente ilsuo ingrugnato mo-nologo contro il caldoper decidere tutta lapropria attenzione al-lo scrittore: indubbia-mente stava chieden-dosi se fosse il caso diandare a bloccarlo lìsul marciapiede. Loconosco - disse - mi co-nosce; ma che ne dici, èil caso?Lo blocco?.De-cise di farlo e preteseche lo accompagnassi.E, bè, Alvarononmor-deva». (AA.VV., Cor-rado Alvaro e Catanza-

ro, Catanzaro, 2007)L’episodio raccontato fa ben capire

l’aura di rispetto che circondava loscrittore di San Luca, ma rende benel’idea anche del carattere di Rito, cheera un uomo pieno di slanci e di ritro-sie.

La presentazione di Alvaro venne, in-fatti, in occasione della mostra perso-nale alla Galleria della Carrozze, tenu-tasi a Roma nel 1956, così come venne lasua amicizia e quella di un altro grandescrittore calabrese, Leonida Repaci,che rappresentano il migliore ricono-scimento alla figura umana e artisticadello scultore calabrese.

Rito agli occhi dei due scrittori con-terranei aveva saputo dare alla terra-cotta la grazia dell’antica arte fittile del-la Magna Grecia, dalle grandi statue al-le pinakes di Locri. Alvaro associò addi-rittura il rigato plastico delle opere diRito con le incrostazioni fangose dei

soggetti dipinti dal primo VanGogh e le striature del suo co-

lore.Rito era nato a Dinami,

nel vibonese, durante laprimavera del 1907. Ave-va studiato presso la Scuo-la d’arte e mestieri di Vibo

Valentia e poi si era iscrittoall'Accademia di Belle Arti di

Napoli dove aveva seguito - correval’anno 1929 - i corsi di Francesco Jera-ce, lo scultore di Polistena. A Napoliaveva imparato anche la tecnica dellafusione in bronzo presso la fonderiaChiurazzi.

Si era affacciato anche alla ribalta mi-lanese esponendo nel capoluogo lom-bardo alla VIII Mostra Sindacale (1937)meritandosi un premio di diecimila lireed un acquisto da parte di re VittorioEmanuele III, e successivamente anchealla Galleria Pesaro, spazio d’eccellenzadella Milano artistica negli anni Dieci-Trenta, presso il quale era stato intro-dotto dal pittore e amico Lionello Bale-strieri.

Poi era venuto il prestigioso invito al-la XXVI Biennale Internazionale di Ve-nezia del 1956, allaquale Rito partecipòcon due sculture.Nel 1961 espose allaGalleria Torre di Pa-rigi, senza aver maidisdegnato tuttaviale partecipazioni allemostre in Calabriacome le Mostre sin-dacali d’arte calabre-se a Cosenza e Catan-zaro, in varie edizio-ni dal 1938 al 1942.

Ma i suoi lavori mi-gliori e più apprez-zati erano stati quel-li relativi allascultu-ra monumentale co-sì come l’aveva inte-sa in alcuni grandibronzi realizzati nel-la sua regione di ori-gine. Rito non avevamai tagliato i ponticon la Calabria e ri-tornava spesso a Ca-tanzaro, città doveera molto apprezza-to.

La prima commes-sa pubblica l’avevaricevuta nel 1945dal Tribunale dellacittà per la realizza-zione di un grupposcultoreo in bronzo“Giustizia e Libertà”da porre all’ingressodel Palazzo di Giusti-zia. Il tema era deipiù difficili per laportata simbolicache l’opera avrebbeassunto non solo verso magistrati e av-vocati, ma sopratutto verso i cittadini,tutti eguali e liberi di fronte alla Legge.

L’allora presidente della Corte d’Ap -pello di Catanzaro Enrico Carlomagnoautorizzò l’artista ad utilizzare per lafusione della scultura i resti in bronzodella statua di Michele Guerrisi che fa-ceva partedel Monumentoai cadutipo-sto nella piazza antistante e danneggia-ta durante i bombardamenti sulla cittànell’agosto del 1943.

Anche questa notizia del riutilizzodel bronzo da parte di Rito getta una pa-rola definitiva sulle tante illazioni cir-colate e che continuano a circolare aproposito della sorte dei resti della scul-

tura di Guerrisi colpita da una bomba.“Giustizia e Libertà”, dopo varie ipo-

tesi prese in esame, fu collocata nel1947 al centro dello scalone centralenell'atrio del Tribunale e rappresentadue figure femminili con gusto arcai-cizzante e secondo stilemi tipici dell'ar-te celebrativa.

A questa opera seguirono altri inca-richi pubblici, che consentirono a Ritodi realizzare a Catanzaro un vero pro-prio percorso personale di sculture:“l’Assunta”, posta sulla sommità delcampanile della Cattedrale di Santa Ma-ria Assunta e dei Santi Pietro e Paolo(1955-56); “l’Immacolata” nell’ex Orfa-notrofio “Stella”; il busto pensoso di“Giovanni Pascoli” nella scuola omoni-ma (1954); il bassorilievo dell'Immaco-

lata e della “Via Crucis” sistemati nellaChiesa di Pontegrande; “l’Ecce Homo”collocato sempre nella cattedrale neipressi della cripta dei vescovi (1961).

Ma l’opera più nota di Rito, assurtaaddirittura ad emblema della città diCatanzaro, è “Il Cavatore”, immagineforte e simbolica del lavoro dell’uomo.La scultura eseguita fra il 1951 e il1954 rappresenta una figura possentee muscolosa nell’atto di picconare le pie-tre per fare sgorgare l’acqua. Collocataall'ingresso della città, su piazza Mat-teotti, in una nicchia alla base del Com-plesso monumentale delSan Giovanni,la fontana col Cavatore rappresenta ungigantesco omaggio ai lavoratori, che

con la forza delle braccia traggono ilproprio futuro.

Alla fine deglianni Cinquanta realiz-za a Cosenza il monumento al poeta Mi-chele Di Marco, detto Ciardullo, collo-cato in piazza XXV luglio.

Se nelle opere pubbliche emerge tuttala compostezza e l’impatto formaledell’arte cosiddettacommemorativa, nelleopere di piccolo forma-to Rito sa essere un arti-sta emotivo, incline allafantasia, curioso anchedei nuovi linguaggi,contaminati da quellipiù archetipi.

Il suo caratteristicomodo di lavorare la superficie delle pic-cole sculture ha i tratti magici e religio-si della ritualità primitiva, quasi comese le incidesse per private ritualità, an-tiche propiziazioni. Sono segni che so-migliano alle scarificazioni dell’art ne-gre, alle striature delle statue di Ife at-tributi di regalità. In entrambi i casi labellezza ha una dimensione nascosta,una cifra arcana.

«Io vidi e vedo in Rito - scrive Repaci -un mistero affascinante. Non so se siastato lui ad inventare la tecnica del riga-to plastico, o se egli nonabbia ripetuto d'istintoun procedimento giun-to a risultati di esternaperfezione nelle testenere di Ifè scoperte daFrobenius intorno al1912 e che rappresen-tano un grosso affasci-nante problema, quan-to alla loro collocazione nel tempo, e allaloro derivazionee influenza.Senza cer-to conoscere il miracolo plastico che vasotto il nome di teste di Ifè della Nigeriaoccidentale, la tecnica del rigato in Ri-to, attraverso la quale la sua scultura ri-vela la luce e il movimento che la formanasconde nel segreto di sé, affermò untemperamento di creatore restio a cam-

minare nel solco tracciato da altri, e in-vece proteso ad affermare una sua poe-tica verità, una sua maieutica plastica,che arriva alla resa del soggetto senzaalcuna mistificazione, coi mezzi piùschietti, con un dialogo tra scultore epersonaggio mantenuto da principioalla fine sorgivo, attento sostanziale,

partecipante, attivo».(L.Repaci, Calabriagrande e amara, Sove-ria Mannelli, 2002)

Da un punto di vistapiù moderno Rito sem-bra raccogliere le solle-citazioni delle pre-avanguerdie artisti-che, ovvero diquella vi-

sione realistica filtrata da scomposizio-ni del colore e del tratto. Una sorta di di-visionismo delle tensioni epidermichedà brusìo alla superficie prima an-cora che slancio dinamico allaforma come nei futuristi. Ten-sioni lineari disegnano rigati-ni come linee isostatiche sen-za tuttavia stravolgere la for-ma che vibra e si agita solamen-te.

Le righe vengono rese eviden-ti e tirate fino a segnare longitudi-

nalmente ogni fi-gura. Sono trattifitti, accostati,striature este-riori che ri-mandano asussulti inte-riori, impercet-tibili sensazionidi un fremito

sottopelle.Rito alterna un realismo ar-

caico, che fa sopravvivere mo-delli della tradizione tardo-ot-tocentesca (come in “L’ac -quaiolo”, che sintetizza nellaforma due opere diverse diVincenzo Gemito: “ ‘O pescato-riello” e “L’acquaiolo”, appunto) asaggi di vera trasfigurazione simil-futurista (come “Donna nella tempe-sta”e“Volti”) in cui sprigiona forze pla-stiche e tracciati diagonali che ricorda-no il fitto tratteggio grafico di “Quelliche vanno”di Umberto Boccioni.

Preferisce soprattutto la terracotta elascia al bronzo solo le grandi composi-zioni. Egli stesso dichiarava di nonamare il marmo, perchè figlio delghiaccio e del freddo. Mentre la terra-cotta e le fusioni in bronzo sono figliedel fuoco.

«E c’è una ragione - confidava all’ami -co Nino Gimigliano - noi siamo figli delsole che ci illumina, riscalda e ci da la vi-ta. Invece penso che, in un certo senso,solo il metallo trattato con il fuoco (an-ch’esso figlio del sole) è la materia idealeper l’artista». (AA.VV., Giuseppe Rito.Le origini del contemporaneo in Cala-bria, Catanzaro, 2008)

Quando muore a Dinami nel 1963 perun male incurabile, ha appena cin-quantasei anni ma fino all’ultimo hamodellato l’argilla, solcandola con le di-ta e accarezzandola come si fa con la ter-ra-madre, guardato alla materia comead una generatrice dal cui grembo na-sce la vita che si eterna nell’arte.

Fu amico intimodi Corrado Avaroe Leonida Rèpaci

La sua operapiù importanteè “Il Cavatore”

Giuseppe RitoScultor e

nato a Dinamifu definitoil “poeta

della materia”

Da sinistra: Donna nellatempesta, 1956; Ragazzacon fiore, 1959-‘63;L’acquaiolo 1959 - ‘63Al centro Ritratto di CorradoAlvaro

Giuseppe Rito e Leonida Rèpaci

21

Il cavatore 1951- ‘54, Catanzaro, a lato Bambino, 1959