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F. Garimoldi – Dispense di storia dell’antropologia 2 – Boas e allievi
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2. FRANZ BOAS E I SUOI ALLIEVI
Negli ultimi decenni dell’800 l’antropologia americana crebbe velocemente col moltiplicarsi
delle ricerche volte ad approfondire la conoscenza delle culture dei nativi. L’entusiasmo che
accompagnava i nuovi studi, legato in parte all’illusione di poter entrare in contatto con popolazioni
ancora «autenticamente primitive», richiamò progetti di ricerca anche dall’Europa. Ad uno di questi
progetti, promosso da un istituto di ricerca britannico, prese parte anche Franz Boas (1858-1942), un
linguista tedesco destinato a diventare uno dei protagonisti dell’antropologia statunitense.
Le sue ricerche fra gli indigeni lo portarono a concepire il lavoro etnografico come studio di
singole culture o di aree culturali particolari, generalmente ristrette, delle quali si trattava di
comprendere ogni elemento caratterizzante nella sua singolarità e nei rapporti reciproci che lo
legavano agli altri e alla cultura nel suo insieme. Questa impostazione, che fu alla base della
spedizione da lui stesso diretta negli anni 1897-1900 fra gli indigeni kwakiutl della costa
nordoccidentale del continente americano, segnò la nascita di un nuovo metodo di ricerca in
antropologia, noto come metodo storico o Particolarismo storico, che si poneva in aperta
contrapposizione rispetto al metodo comparativo degli evoluzionisti.
Nel 1896 Boas pubblica I limiti del metodo
comparativo dell’antropologia, opera in cui espone la
propria interpretazione del lavoro dell’etnografo.
Contro agli evoluzionisti, interessati a confrontare
culture diverse nell’ottica di stabilirne la rispettiva
collocazione sulla linea evolutiva dello sviluppo della
civiltà umana, Boas oppone l’esigenza di studiare le
culture umane nella loro singolarità astenendosi dalle
comparazioni se non dopo averne accertato la
legittimità metodologica. Come dire che da un punto di
vista rigorosamente scientifico non è sempre legittimo
astrarre singoli aspetti di una cultura dal loro contesto
complessivo per metterli in relazione con elementi
apparentemente simili appartenenti a contesti culturali
differenti. Questo perché tratti culturali che ad un’osservazione superficiale potrebbero sembrare
assimilabili, appartenendo a culture differenti possono in realtà avere origini storiche e significati
psicologici totalmente diversi. Ogni elemento culturale trae il proprio significato dalla tradizione che
lo ha generato e dal rapporto che lo lega al contesto di cui fa parte; se ne deduce che, secondo Boas,
è impossibile tracciare una storia sistematica e uniforme dell’evoluzione della cultura umana a
partire dall’analisi di alcuni elementi caratteristici (ad esempio la presenza di particolari rituali o la
forma e l’utilizzo di un determinato utensile), ma ogni società umana va studiata nella propria
singolarità7.
7 Si noti come questa concezione di Boas, nato e cresciuto in Germania, risenta dello storicismo tedesco di fine ‘800. E’
infatti del 1883 la pubblicazione della Introduzione alla scienze dello spirito di Dilthey, in cui il filosofo afferma non
solo la dignità del metodo delle scienze umane nei confronti delle scienze cosiddette «esatte», ma anche la sua
specificità, consistente appunto nel fatto di essere scienze idiografiche (e non nomotetiche) orientate dunque alla
comprensione (Verständnis) dei fenomeni studiati e non alla loro spiegazione (Erklärung) tramite leggi matematiche.
F. Boas al Museo americano di storia naturale,
mentre mostra la «tecnica di caccia con l’arpio-
ne» degli eschimesi.
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Non possiamo affermare che l’evento dello stesso fenomeno è sempre dovuto alle stesse cause, e
che in tal modo è dimostrato che la mente umana obbedisce alle stesse leggi in ogni luogo. Dobbiamo
fare in modo che le cause dalle quali si è sviluppato siano ricercate, e che i paragoni siano ristretti a
quei fenomeni i quali siano, per dimostrazione, effetti delle stesse cause. Dobbiamo insistere sul fatto
che questa ricerca costituisce un preliminare per tutti gli studi comparativi di una certa ampiezza. (...)
In breve, prima di fare studi comparativi di una certa ampiezza è necessario dimostrare che è
possibile sottoporre a paragone il materiale. (...) Abbiamo visto che i fatti non favoriscono per nulla
l’assunto di cui stiamo parlando; che essi tendono invece verso la direzione opposta. Pertanto dobbiamo
anche considerare che tutti i tentativi ingegnosi di costruire un vasto sistema dell’evoluzione della società
hanno un valore molto dubbio, se non è fornita, contemporaneamente, una prova che gli stessi fenomeni
debbono sempre aver avuto la stessa origine. Fino al momento in cui ciò non avviene, la supposizione è
sempre a favore di una varietà di direzioni che lo sviluppo storico può aver assunto.
Uno dei principali scopi della ricerca antropologica sarà quello di mettere a punto questo problema.
Abbiamo convenuto che esistono certe leggi le quali regolano lo sviluppo della cultura umana, ed è nostro
sforzo scoprirle. Oggetto della nostra ricerca è di scoprire i processi mediante i quali certi livelli di cultura
si sono sviluppati. Anche gli stessi costumi e credenze non sono l’oggetto definitivo della ricerca.
Desideriamo conoscere le ragioni per cui tali costumi e credenze esistono; in altre parole, desideriamo
scoprire la storia del loro sviluppo. Il metodo attualmente impiegato più di frequente in ricerche di questo
tipo, confronta le variazioni sotto l’influsso delle quali ricorrono i costumi o le credenze, e si sforza di
trovare la causa psicologica comune che ne è alla base. Ho affermato che si deve sottoporre questo metodo
ad una obiezione di carattere fondamentale.
Abbiamo a disposizione un altro metodo, che per certi riguardi è molto più sicuro. Uno studio
dettagliato dei costumi nella loro relazione con la cultura complessiva della tribù che li pratica, in
correlazione con una ricerca della distribuzione geografica fra le tribù limitrofe, ci offre quasi sempre un
mezzo per determinare con considerevole accuratezza le cause storiche le quali hanno portato alla
formazione dei costumi in questione ed i processi psicologici che operavano durante il loro sviluppo. I
risultati di ricerche condotte con questo metodo possono essere triplici. Essi possono rivelare le condizioni
ambientali che hanno creato o modificato elementi culturali; possono chiarire fattori psicologici che
contribuiscono alla formazione della cultura; o possono metterci innanzi agli occhi gli effetti che le
relazioni storiche hanno avuto sullo sviluppo della cultura.
Abbiamo, con questo metodo, un mezzo per ricostruire la storia dello sviluppo delle idee con una
accuratezza ben maggiore di quella che ci sarebbe consentita dalle generalizzazioni del metodo
comparativo. Quest’ultimo deve sempre procedere da un tipo di sviluppo ipotetico, la probabilità del quale
deve essere soppesata, più o meno accuratamente, per mezzo di dati osservati. Ma, finora, non ho ancor
visto alcun ampio tentativo di provare la correttezza di una teoria, dimostrandola alla luce di sviluppi colle
cui storie abbiamo familiarità. (...)
La sua applicazione [del metodo storico] si basa innanzitutto su un piccolo territorio geografico ben
definito, e le sue comparazioni non si estendono oltre i limiti dell’area culturale che forma la base dello
studio. Solo quando si saranno ottenuti precisi risultati concernenti quest’area sarà ammissibile estendere
l’orizzonte oltre i suoi limiti, ma si dovrà avere la massima cura di non procedere con questo sistema in
modo troppo affrettato, poiché diversamente, l’affermazione fondamentale che ho in precedenza
formulato, potrebbe essere trascurata; vale a dire che quando troviamo singoli tratti analoghi di cultura tra
popoli lontani fra loro, non vale la congettura che vi sia stata una comune origine storica, ma quella che
essi sono sorti separatamente. Pertanto la ricerca deve sempre esigere una continuità di distribuzione come
una delle condizioni essenziali per dimostrare la connessione storica, e la supposizione di anelli di
collegamento perduti deve essere applicata con la maggior moderazione possibile. Questa chiara
distinzione fra i vecchi e i nuovi metodi storici tuttora è spesso trascurata dai difensori appassionati del
metodo comparativo. Essi non apprezzano la differenza fra l’uso indiscriminato di somiglianze di cultura
atte a dimostrare una connessione storica e lo studio accurato e lento dei fenomeni sociali.
Nel testo che segue è lo stesso Boas a chiarirci l’opportunità del metodo storico8.
8 F. Boas, I limiti del metodo comparativo in antropologia, 1896, trad. in L. Bonin e A. Marazzi, Antropologia culturale,
Milano 1970, pp. 131-33.
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Come linguista, Boas dedicò gran parte della sua attività alla raccolta di materiali di lingue
americane in via di estinzione contribuendo alla compilazione della grammatiche amerindiane e
prendendo posizione su importanti problemi linguistici quali il rapporto fra lingua e razza, la
classificazione delle lingue, il rapporto fra linguaggio e pensiero e tra lingua e cultura. Significativa
in questo senso è la monografia sui nomi geografici dei Kwakiutl in cui, attraverso l’analisi della
toponomastica indigena, Boas ricostruisce la visione dello spazio e tutto il mondo, reale e mitico, di
questa popolazione (Razza, linguaggio e cultura, 1936). Il lavoro di Boas diede inizio a quel rapporto
fra ricerca antropologica e studio dei fenomeni linguistici che vede fra suoi più importanti esponenti
B. Malinowski, E. Sapir, R. Lowie, A. L. Kroeber e B. L. Whorf.
Un altro degli aspetti particolari della cultura dei Kwakiutl studiato
da Boas è il potlatch, un complesso di attività cerimoniali messe in atto
dagli indigeni dell’isola di Vancouver allo scopo di definire, confermare
o accrescere il proprio prestigio all’interno della comunità. La relazione
fra i valori culturali di un popolo e il loro grado di condivisione, da un
lato, e, d’altro canto, il tipo di visione del mondo e di personalità che ad
essi corrispondono, così come emergono dalle analisi di Boas, costi-
tuirono il punto di partenza per la scuola antropologica di Cultura e
personalità che nacque proprio ad opera di alcuni allievi di Franz Boas.
Il brano seguente, illustrando il significato del potlatch, indirettamente ci fornisce anche
informazioni interessanti per capire una mentalità tanto diversa dalla nostra9.
E’ necessario descrivere il modo in cui il rango sociale viene acquisito. Questo consiste nel potlatch,
o distribuzione di proprietà. (...)
Il possesso della ricchezza è considerato onorevole e lo scopo di ogni indiano è quello di accumulare
una fortuna. Ma non è tanto il possesso di ricchezza, quanto piuttosto la possibilità di dare grandi feste ciò
che fa della ricchezza l’oggetto delle aspirazioni degli indiani. Quando un ragazzo giunge all’età in cui
prende il suo secondo nome e acquisisce lo stato di adulto per mezzo di una distribuzione di beni, i quali nel
tempo gli ritorneranno con l’interesse, il nome dell’individuo acquista maggior peso nei consigli della tribù,
ed una maggiore fama tra la gente tutta nella mistura in cui egli è in grado di distribuire quantità sempre
maggiori di beni in feste successive. Di conseguenza ragazzi e adulti gareggiano fra loro per organizzare
grandi distribuzioni di beni. (...)
La rivalità tra capi e clan ha la sua manifestazione più rilevante nella distruzione dei beni. Un capo
brucerà coperte, una canoa, o romperà un rame10, indicando così il suo distacco nei confronti della proprietà
distrutta e mostrando che il suo spirito è più forte, e il suo potere maggiore di quello del rivale. Se
quest’ultimo non è in grado di distruggere la stessa quantità di beni entro breve tempo, il suo nome sarà
«spezzato». Sarà vinto dal suo rivale e la sua influenza nella tribù verrà perduta, mentre il nome dell’altro
capo acquisterà, per contro, maggiore fama.
Anche le feste possono essere considerate come distruzioni di beni, in quanto il cibo offerto non potrà
esser reso se non dando un’altra festa. Il tipo di festa più dispendiosa – chiamata «festa del grasso» – è
quella in cui viene consumata e bruciata una enorme quantità di olio di pesce. Pertanto anch’essa
contribuisce ad elevare il nome di chi può permettersi di darla, e mancare di ricambiarla in tempi brevi
comporta una forte perdita di prestigio. Ancor più temuta è la rottura di un rame di valore. Un capo può
rompere un rame e dare le parti rotte di esso al suo rivale. Se quest’ultimo tiene a conservare il proprio
prestigio, deve rompere un rame di uguale valore o superiore e dare tanto il suo rame spezzato quanto i
frammenti ricevuti in un primo tempo dal suo rivale. Quest’ultimo allora può pagare per il rame che ha così
9 F. Boas, The Social Organization and the Secret Societies of the Kwakiutl Indians, Report of the U. S. National
Museum for 1895, Washington 1897; trad. di U. Fabietti, in id., Storia dell’antropologia, Bologna 2001, p. 260. 10 Si tratta di tavole di rame sbalzato e modellato che hanno la stessa funzione delle banconote di grosso taglio nelle
nostre società. Il valore in senso stretto di ogni pezzo è piccolo, ma serve a rappresentare un gran numero di coperte, e
può essere venduto solo in cambio di esse.
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ricevuto. (...) Alla fine qualcuno riesce a comprare tutti i frammenti, i quali sono nuovamente rimessi
insieme facendo sì che il rame acquisti un valore ancora maggiore. Dal momento che il rame spezzato
indica il fatto che il possessore ha distrutto dei beni, gli indiani sono orgogliosi di possederlo.
Alfred KROEBER
Alfred Kroeber (1876-1960) fu il primo studente di antropologia a laurearsi sotto la guida di
Franz Boas e il principale esponente del Diffusionismo americano.
Il Diffusionismo è un indirizzo di ricerca che pone al centro dei propri interessi l’individua-
zione delle aree di distribuzione delle diverse culture. Attraverso l’analisi di determinati aspetti di un
sistema culturale, come possono essere un rituale di iniziazione, una tecnica di caccia piuttosto che
specifiche credenze religiose, gli antropologi tentano di determinare i contatti e i prestiti reciproci
avvenuti in passato o tuttora in corso fra società diverse. Si tratta di un tentativo mosso dall’esigenza,
molto viva alla fine del XIX secolo, di catalogare e sistematizzare secondo criteri coerenti l’enorme
massa di dati etnografici provenienti dalle società indiane degli Stati Uniti verso le quali, come si è
visto, si era indirizzato un numero considerevole di ricercatori in altrettante spedizioni.
L’esigenza di mettere ordine in questa abbondanza di materiale si coniuga, in Kroeber, con uno
degli insegnamenti ricevuti dal maestro Franz Boas: la necessità di prestare attenzione all’individua-
lità delle singole culture, astenendosi da facili generalizzazioni, tanto più audaci e affascinanti quanto
meno sostenibili dal punto di vista scientifico.
Kroeber formula così il concetto di area culturale, per indicare un’area geografica all’interno
della quale siano presenti determinati tratti culturali. Schematizzando, l’idea è che la popolazione che
si trova più o meno al centro di questa area sia quella a partire dalla quale quegli specifici elementi
culturali si sono diffusi, influenzando anche popolazioni vicine. In questo modo, determinando la
distribuzione dei tratti specifici delle varie culture sarebbe stato possibile, nel progetto di Kroeber,
classificare le rispettive società: più frequenti occasioni di contatto e scambi, maggiore diffusione dei
tratti considerati e più elevata affinità culturale.
Sulla base di questi presupposti, i diffusionisti europei si proposero una ricostruzione globale
dei processi di diffusione delle culture umane, tentativo, questo, che suscitò tuttavia anche molte
perplessità e riscosse numerose critiche. In generale, oggi gli studiosi sono concordi nel riconoscere
il fenomeno della diffusione dei tratti culturali, ma non si ritiene più che la contiguità di residenza sia
l’unica o la principale causa della variabilità culturale. Fenomeni altrettanto determinanti in questo
senso sono infatti ad esempio le migrazioni di popoli, in seguito alle quali il centro di un’area
culturale può mutare considerevolmente, di fatto non consentendo più di individuare con i criteri
proposti da Kroeber la popolazione presso la quale determinati tratti culturali hanno avuto origine.
Oltre al diffusionismo, di Kroeber ricordiamo l’idea della natura superorganica della cultura,
espressa in Il superorganico (1917), in cui l’autore, proseguendo le critiche di Boas all’evoluzio-
nismo, prende posizione contro il darwinismo sociale che all’epoca trovava una certa diffusione negli
Stati Uniti.
Applicando alle culture umane il concetto darwiniano di evoluzione e selezione naturale, il
darwinismo sociale sosteneva che all’affermarsi di una cultura corrisponde una superiorità bio-
psicologica dei suoi membri. Fu sulla base di queste teorie, ad esempio, che in quegli anni gli Stati
Uniti attuarono una politica di forte contenimento dell’immigrazione, rifiutandosi di accogliere
persone appartenenti a razze ritenute biologicamente inferiori.
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A queste idee Kroeber oppone la tesi secondo cui non esiste un rapporto di continuità diretta fra
il livello dei fenomeni biologici e il livello culturale, per cui i fenomeni culturali non sarebbero per
nulla spiegabili sulla base di condizioni organiche, ma solo a partire da altri fatti culturali.
LA SCUOLA DI CULTURA E PERSONALITA’
La Scuola di Cultura e personalità è un indirizzo di studi che si afferma negli Usa a partire
dagli anni Venti del ‘900.
Fortemente influenzati dall’insegnamento di Boas, secondo cui lo studio di una cultura nella
sua singolarità permette di evidenziare una stretta connessione fra i valori che quella società esprime
e la dimensione psicologica di chi quei valori condivide, gli studiosi di Cultura e personalità
condividono l’idea che ogni cultura costituisca un tutto, coerente al proprio interno, e che eserciti
un’influenza decisiva nella formazione della personalità individuale dei suoi membri. Per effetto di
questa influenza, ogni soggetto facente parte di una certa società, nonostante le variazioni
individuali, si troverebbe a condividere con gli altri membri del gruppo alcune strutture psicologiche
caratteristiche della cultura di appartenenza (definite da Abram Kardiner, 1891-1981, «personalità
di base»).
Ruth BENEDICT
Una delle figura più significative della scuola di Cultura e
personalità fu Ruth Benedict (1887-1948). Allieva di Boas, da cui ereditò
la propensione a guardare le culture umane come un tutto organico, si unì
alle critiche che già negli anni Venti venivano mosse a coloro che si
interessavano alla distribuzione dei tratti culturali.
Procedere secondo il metodo proposto da Kroeber presuppone che si
concepisca la cultura come un’aggregazione di elementi fra loro isolati,
ma questo modo di vedere non sembra adeguato a Ruth Benedict, la quale
osserva invece come l’aspetto e il significato di un certo tratto culturale
possano variare da una società all’altra in base alla presenza, in esse, di
altri elementi con cui quel tratto entra in relazione. La cultura va intesa
quindi piuttosto come una «configurazione» di elementi (da qui il termine
«configurazionismo» con cui venne anche denominata questa prospettiva),
in cui l’insieme complessivo non coincide semplicemente con la somma delle parti che lo com-
pongono, ma presenta un valore aggiunto: con la terminologia odierna diremmo che la cultura ha i
caratteri di un sistema.
Benedict sviluppa questa idea in Modelli di cultura (1934), dove approfondisce lo studio della
relazione esistente fra il modello culturale caratterizzante una determinata società e i suoi svariati
elementi particolari. La funzione del modello sarebbe quella di conferire una connotazione
particolare a tutti i tratti che gli appartengono, siano essi per così dire autoctoni o mutuati da culture
vicine: in tutti i casi i tratti selezionati ed accolti subiscono le trasformazioni necessarie per essere
integrati nel modello culturale dominante. Avverrebbe così un processo di «modellizzazione», il cui
effetto sarebbe l’affermarsi di un modello culturale medio, specifico di un determinato gruppo
sociale, che comprende atteggiamenti, schemi di pensiero e comportamenti organizzati in modo
coerente e non riconducibili a nessun altro tipo di cultura.
Ruth Benedict nel 1937.
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Ecco come Benedict illustra il rapporto fra la cultura e i suoi tratti specifici11
:
Una cultura, come un individuo, è un insieme più o meno coerente di pensieri e di azioni, e nello
ambito di ogni cultura si delineano certi scopi caratteristici, che possono essere soltanto suoi, non condivisi
da nessun altro tipo di società. Perseguendo tali scopi ogni popolo dà alla sua vita forme sempre più ferme,
e in proporzione alla loro forza gli eterogenei modi di comportamento si fondono in un’immagine sempre
più coerente. Raccolti da una civiltà ben integrata, i tratti di comportamento peggio assortiti diventano
caratteristici dei suoi scopi particolari (spesso attraverso le più improbabili metamorfosi), e possiamo
spiegarceli solo dopo aver compreso quali siano le molle del pensiero e del sentimento di quella società. La
tendenza all’integrazione non può essere ignorata come un particolare privo di importanza. Il tutto, come la
scienza moderna non si stanca di ripetere a molti propositi, non è soltanto la somma di tutte le parti, ma il
risultato di una sistemazione particolare e di un’interrelazione che ha dato vita a un’entità nuova. (...)
Le culture non sono semplicemente la somma dei loro elementi costitutivi. Possiamo sapere tutto
sulle forme di matrimonio, danze rituali, riti della pubertà in una tribù, e tuttavia non capire nulla di quella
cultura come un tutto che ha usato quegli elementi ai propri scopi. In vista di questi scopi una cultura
sceglie, fra gli elementi offerti fra le civiltà delle regioni circostanti, quelli che può usare, scarta quelli di cui
non può far uso, mentre altri ne riplasma secondo le proprie necessità. Naturalmente non è detto che questo
processo sia sempre cosciente; ma non tenerne conto nello studio dei modi in cui si configura il com-
portamento umano significherebbe rinunciare alla possibilità di un’interpretazione intelligente.
Margaret MEAD
Margaret Mead (1901-78), figlia del filosofo e psicologo George H. Mead, allieva di Boas e
della Benedict, fu la prima fra gli antropologi americani a fare ricerche sul campo fuori dal territorio
degli Stati Uniti, tra il 1926-27 in Polinesia, dove esaminò in particolare la vita dei giovani nelle
Isole Samoa, e all’inizio degli anni Trenta fra le popolazioni della Nuova Guinea.
Lo studio condotto alle Isole Samoa, i cui risultati furono pubblicati in L’adolescenza in una
società primitiva, del 1938, rappresentò l’occasione per un confronto con la condizione dei giovani
della moderna società americana e la conferma delle teorie della scuola di
Cultura e personalità, secondo cui il contesto culturale è determinante nel
plasmare la personalità degli individui.
Il fatto che l’adolescenza rappresenti nelle società occidentali un’età
problematica, mentre non sia quasi avvertito come periodo particolare
della vita in Polinesia dipenderebbe secondo Mead dai caratteri dei diversi
modelli culturali trasmessi ai giovani nelle due società.
La società americana, da un lato, è una società altamente compe-
titiva, che offre – è vero – una vasta gamma di possibilità e ampia libertà
di scelta, ma che di fronte ai molteplici modelli di riferimento proposti
lascia i ragazzi soli con se stessi, senza certezze circa la bontà delle
proprie scelte e senza garanzie circa il futuro successo, elemento, questo,
che viene peraltro percepito come irrinunciabile per una piena afferma-
zione e soddisfazione esistenziale. D’altro canto troviamo la società
samoana, semplice e omogenea, in cui né i maschi né le femmine hanno
apparentemente grande libertà di scelta, perché sono poche le alternative fra le quali si deciderà la
loro vita futura, ma dove nessuno è spinto più di tanto alla competizione e l’adolescenza viene
vissuta con estrema naturalezza e senza traumi.
11 R. Benedict, Patterns of Culture, 1934, trad. it. Modelli di cultura, Milano 1960, pp. 52 sgg.
Margaret Mead fra due
giovani samoane, 1926.
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Altri studi di Mead ispirati al problema della socializzazione e
della formazione della personalità nelle culture tribali furono quelli
condotti presso alcune popolazioni della Nuova Guinea, da cui nacquero
libri di grande successo come Sesso e temperamento in tre società
primitive, del 1935, e Maschio e femmina, pubblicato nel 1949. Questi
testi di Margaret Mead inaugurarono gli studi sulla differenza di genere
in antropologia, dal momento che, cercando di individuare il tipo
psicologico «normale» di uomo e di donna per ogni società, fornirono
una prova evidente che la definizione del genere non è in alcun modo
espressione naturale e necessaria dell’appartenenza biologica a uno dei
due sessi, ma si configura come il risultato di un processo di costruzione culturale.
Nel breve passo che segue, Margaret Mead riassume i caratteri ideali della personalità di
uomo e donna secondo le tre diverse culture indonesiane da lei studiate12
.
Abbiamo visto che gli Arapesh, uomini e donne, presentano una personalità alla quale, nei limiti
storici della nostra ricerca, si può riconoscere un carattere materno (se si considera il comportamento nei
confronti della prole) e femminile (se si considera il comportamento sessuale). Abbiamo trovato che tanto
gli uomini quanto le donne sono educati alla collaborazione, alla non aggressività, alla comprensione delle
necessità e delle esigenze altrui. Nulla fa pensare che, in questo popolo, il sesso sia una potente forza
motrice, né nell’uomo né nella donna. In netto contrasto con queste caratteristiche, abbiamo constatato che
fra i Mundugumor tanto gli uomini quanto le donne si sviluppano in individui duri, crudeli, aggressivi, con
una carica sessuale positiva e gli aspetti materni ridotti al minimo. Tanto gli uomini quanto le donne si
avvicinano a un tipo di personalità che nella nostra cultura, può apparire soltanto in un maschio
indisciplinato e molto violento. Né gli Arapesh né i Mundugumor presentano alcun contrasto fra i sessi;
l’ideale arapesh, infatti, è rappresentato da un uomo mite e sensibile sposato a una donna mite e sensibile,
mentre l’ideale mundugumor è rappresentato dall’uomo violento e aggressivo, sposato a una donna violenta
e aggressiva. Nella terza tribù, i Ciambuli, abbiamo trovato il vero e proprio rovescio della nostra cultura,
con la donna in veste di partner dominante, direttivo, impersonale, e l’uomo nella posizione di minore
responsabilità e di soggezione sentimentale.
Queste tre situazioni diverse e contrastanti suggeriscono una conclusione molto precisa. Se quegli
elementi di temperamento che noi, per tradizione, consideriamo femminili, – come la passività, la
sensibilità e la propensione a curarsi dei bambini – possono tanto facilmente, in una tribù, entrare a far parte
del carattere maschile, e in un’altra tribù essere invece esclusi sia dal carattere maschile sia da quello
femminile, almeno per quanto riguarda la maggioranza degli uomini e delle donne, viene a mancarci ogni
fondamento per giudicarli legati al sesso. Conclusione, questa, rafforzata da ciò che abbiamo constatato fra i
Ciambuli, dove c’è un vero e proprio rovesciamento della posizione di predominio dei due sessi, nonostante
vi esistano istituti formalmente patrilineari.
I lavori di Ruth Benedict e di Margaret Mead furono molto importanti per l’antropologia
statunitense. Se da un lato infatti il loro stile divulgativo contribuì ad avvicinare le ricerche
etnografiche al grande pubblico, d’altra parte i risultati di questi studi introdussero fra studiosi e
profani il concetto di «relativismo culturale».
Ci si rese conto per la prima volta che le realtà culturali diverse da quella occidentale, per
quanto lontane dalle consuetudini di chi le studiava, non per questo erano meno dotate di senso.
Appariva dunque ormai chiaro che per una piena comprensione di mondi culturali «altri» era
necessario abbandonare il punto di vista della propria cultura e ricercare il significato dei fenomeni
osservati all’interno del contesto specifico di cui erano espressione.
12 M. Mead, Sex and Temperament in three Primitive Societies, 1935, trad. It. Sesso e temperamento in tre società
primitive, Il Saggiatore, Milano, pp. 295-96.