Upload
others
View
1
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
02
30IN PROVA IN QUESTO NUMERO
TCL pronta al salto di qualità Il TV MiniLED con un nero da OLED768 zone per un nero da OLED ma con i vantaggi dei Quantum Dots. In arrivo anche una rivoluzionaria soundbar e il primo smartphone a marchio TCL09
Nikon sfida la concorrenza mirrorless Una notte di boxe e sudore con Z50Abbiamo messo alla prova la nuova mirrorless APS-C di Nikon con i gesti repentini e le luci artificiali di una notte di boxe. Risultato eccellente per una macchina da 1200 euro in kit
Samsung Tizen OS disponibile anche per altri produttori di TV
Microsoft Surface Pro X Tutto il resto di colpo sembra vecchio 17
Apple TV+ è arrivato in ItaliaTutto quello che c’è da sapereIl 1 novembre è partito il servizio di streaming Apple Un servizio dedicato a tutti, con contenuti esclusivi, originali e di qualità, per sfidare Netflix e compagni
Google Nest Mini Smontato e ascoltato
41
Google Pixel 4 Recensione completa
Canon EOS 1D X Mark III, la reflex che pensionerà il JPEG 23
24
Apple AirPods Pro Qualità e isolamento
39
DJI Mavic Mini La prova a Maiorca
42
35
La prova fotografica di Google Pixel 4 a Maiorca44
Ora è ufficiale FCA e PSA verso la fusione
06
Editing video professionale 4K su iPad Pro: si può 27
torna al sommario 2
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
Samsung renderà disponibile il suo Tizen OS ad altri produttori di TVSamsung ha deciso di aprire le porte di Tizen OS e di metterlo a disposizione di altri produttori di Smart TV. La società potrebbe avere in mente di spingere sulla vendita di servizi
di Sergio DONATO
Samsung ha deciso per la prima volta di rendere disponibile Tizen anche ad altri produttori di smart TV. Lo ha dichiarato Sang Kim, vi-cepresidente della divisione Smart TV di Samsung sul palco della SDC 2019, usando come preambolo gli oltre 100 milioni di televisori Sam-sung che sono governati dal si-stema operativo Tizen. Al termine della presentazione Sang Kim ha detto: “E presto, questa piattafor-ma diventerà ancora più grande. Questo perché, per la prima volta, metteremo il sistema operativo TV Tizen a disposizione di altri produt-tori.” Non sappiamo in che modo Samsung intenda procedere per erodere i territori conquistati da Android TV. Poiché Tizen OS ha in-tegrato negli ultimi anni il supporto a Bixby, non è escluso che Sam-sung voglia creare intorno a esso sinergie più strette ed espanderle anche attraverso altri produttori. Sang Kim ha dato spazio a Sam-sung TV Plus, piattaforma di conte-nuti gratuiti disponibile sui TV della casa coreana ma che non è mai riuscita a imporsi. Kim ha marcato anche il connubio tra televisione li-neare e contenuti on demand, che si spartiscono il 44% degli utenti che guardano uno schermo televisivo, ma sottolineando che gli utenti che guardano streaming video sono in crescita. Il terzetto composto da Samsung TV Plus, utenti raggiunti dallo streaming video e la disponi-bilità di Tizen ad altri produttori, fa pensare che Samsung possa diri-gersi verso la commercializzazione di servizi video.
di Roberto PEZZALI
I l 23 ottobre è una data cruciale per il
modem libero: Tim andrà in aula davan-
ti al Tar per fare ricorso contro la deli-
bera Agcom. Non tutta la delibera, solo
quella parte che più interessa tutti coloro
che hanno sottoscritto un abbonamento
con modem nei mesi durante i quali il Re-
golamento Europeo sul modem libero era
in vigore. Se TIM perde, ma non solo lei,
gli utenti potranno chiedere un rimborso
per le rate pagate dopo aver ovviamente
restituito il modem. La parte della delibera
in discussione riguarda anche lo sblocco
dei modem, ovvero la possibilità di usare
i terminali con tutti gli operatori una volta
che diventano di proprietà dell’utente.
TIM aveva avviato il ricorso lo scorso anno
insieme agli altri operatori: con lei c’erano
Wind, Fastweb e Vodafone. Oggi, tuttavia,
sembra che siano rimasti solo due gli ope-
ratori che domani dibatteranno davanti ai
giudici del Tribunale Amministrativo Re-
gionale del Lazio, TIM, quello principale,
e Wind. Che fine hanno fatto Vodafone
a Fastweb? Secondo le nostre fonti sem-
brerebbe che entrambi abbiano ritirato il
ricorso contro Agcom, quindi non si pre-
senteranno all’udienza. Una mossa un
po’ a sorpresa, anche perché il fronte era
decisamente compatto. La motivazione
ufficiale non esiste, ma possiamo pren-
dere un paio di elementi per fare qualche
ipotesi. Da una parte infatti c’è Fastweb
che ritira il ricorso contro Agcom, dall’al-
tra c’è Agcom che, come dimostra il do-cumento pubblicato sul sito dall’ente, ha
“archiviato il procedimento sanzionatorio
avviato nei confronti di Fastweb”. In po-
che parole Agcom ha cancellato la multa
che aveva dato a Fastweb per non aver
applicato entro i termini le disposizioni
della delibera. Tutti assicurano che le due
cose sono comunque scollegate, e noi ci
fidiamo. n seguito alla pubblicazione del-
l’articolo, Fastweb ha dichiarato a DDAY.it
di aver proceduto alla rinuncia del ricorso
poiché l’archiviazione dell’Agcom aveva
già riconosciuto la corretta implementa-
zione da parte di Fastweb della delibera.
In sostanza, è venuta mente la ragione
del contendere. L’operatore, inoltre, ha
chiarito sui rimborsi non ha alcun tema
parto poiché il loro modem viene fornito
ai clienti in comodato d’uso gratuito. Voci
di corridoio, ma qui manca il documento,
parlano anche di archiviazione per le mul-
te di Vodafone: anche lei sarebbe stata
“graziata” per aver applicato la delibera
in ritardo e anche Vodafone pertanto non
sarà in tribunale. Il caso di Vodafone è
ancora più eclatante perché Agcom po-
trebbe aver archiviato il provvedimento di
sanzione per un operatore che tutt’oggi
non rispetta a pieno quelle che sono le
disposizioni dell’authority. Sul sito di Vo-
dafone, infatti, è praticamente impossibile
fare un abbonamento senza modem e
pure il consulente telefonico, se contatta-
to, è restio a concedere quello che è un
diritto di tutti. Sancito dalla legge.
MERCATO TIM in aula per il ricorso presentato al TAR relativo alla questione modem libero
Modem libero, ricorso di TIM per evitare i rimborsi. Vodafone e Fastweb si defilano Si decide sui rimborsi per gli utenti costretti in passato all’abbonamento con modem incluso
MERCATO Male invece per Xbox e per le vendite di Surface
Microsoft cresce grazie al cloud Ricavi per 33,1 miliardi di dollari
di Gaetano MERO
S i chiude un ottimo trimestre
per Microsoft, che eviden-
zia una crescita dei ricavi
su base annua del 14% pari a 33,1
miliardi di dollari (29,7 miliardi di
euro). A godere di un ottimo stato
di salute è il segmento Microsoft
Productivity and Business Pro-
cesses, di cui fanno parte la suite
di Office, Skype e la piattaforma
LinkedIn, con una crescita complessiva in questo primo trimestre dell’anno fiscale
del 13% e ricavi per 11,1 miliardi di dollari. Bene anche il settore Intelligent Cloud in
cui sono inclusi servizi cloud computing e prodotti server e business che ha garan-
tito alla società ricavi per 10,8 miliardi $ con una crescita del 30% su base annua.
In particolare Microsoft ha registrato un incremento su base trimestrale degli utili
relativi ad Azure pari al 59%, un risultato che tuttavia rappresenta un lieve calo per
la piattaforma cloud rispetto allo stesso periodo del 2018 in cui si è ottenuto un au-
mento del 76%. Da sottolineare anche il dato relativo alla divisione Personal Com-
puter, relativa a dispositivi come Surface, Xbox e Windows 10, che si afferma con un
+4% e ricavi pari a 11,1 miliardi di dollari. Le vendite dei Surface sono calate del 4%.
Male anche Xbox: i ricavi videoludici sono scesi del 7% su base annua. L’utile netto
complessivo ha avuto un incremento del 21% pari a 10,7 miliardi di dollari, corrispon-
dente al valore di 1,38 dollari per azione. Le previsioni per il trimestre successivo
secondo il quale la società sfiorerà ricavi per 36 miliardi di dollari.
torna al sommario 3
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
Accordo Ericsson-Nvidia per sviluppare reti 5G basate sull’uso delle GPUEricsson e Nvidia hanno annunciato una collaborazione atta a sviluppare tecnologie radio 5G ad alte prestazioni, da offrire poi ai fornitori di servizi di comunicazione per la costruzione delle reti di accesso.Ericsson metterà in campo le sue competenze nella tecnologia RAN (Radio Access Network), mentre Nvidia darà a esse un cuore fatto di GPU, a cui abbinerà anche i recenti progressi in campo di supercomputing e intelligenza artificiale. Lo scopo della collaborazione è quello di creare reti RAN 5G completamente virtualizzate. L’obiettivo finale di Ericsson e Nvidia è di commercializzare le tecnologie RAN virtualizzate anche per la creazione, da parte degli operatori, di servizi di realtà aumentata, realtà virtuale e per i videogiochi. Non è escluso che questa unione sia destinata anche a contrastare le reti OpenRAN di Vodafone, Intel e Nokia, che propongono un modello di RAN aperto, liberamente sfruttabile e senza brevetti.
di Sergio DONATO
Amazon ha pubblicato i risultati finan-
ziari del terzo trimestre del 2019.
Sebbene abbia registrato un utile di
ben 2,1 miliardi di dollari, il dato è in calo
rispetto allo stesso periodo del 2018. Ep-
pure, le vendite sono aumentate del 24%
sul 2018. Il motivo di questa discrepanza
sta negli elevati costi di spedizione delle
merci. Amazon spende tantissimo: quasi
10 miliardi di dollari.
Spese per la consegna cresciute del 50% in un annoSe guardiamo sommariamente i dati pub-
blicati, Amazon dichiara che, rispetto al
relativo periodo del 2018, nel terzo trime-
stre del 2019 il flusso operativo di cassa
è aumentato del 33%, da 26,3 miliardi di
dollari a 35,3 miliardi e i ricavi delle ven-
dite sono passati da 56,6 miliardi a 70
miliardi tondi, aumentando del 24%. Tut-
tavia, l’utile - comunque considerevole - di
2,1 miliardi di dollari è in calo rispetto ai 2,9
miliardi del 2018. Parte della spiegazione
è da ricercare nei costi sostenuti da Ama-
zon per la spedizione delle merci.
Amazon ha dichiarato di avere speso il
50% in più per la spedizione e la gestione
logistica dell’e-commerce, che compren-
de il ricevimento degli ordini e la loro ese-
cuzione, quindi il prelievo, l’impacchet-
tamento, l’etichettatura e tutto ciò che
attiene al suo compimento. Questi costi
sono cresciuti fino alla cifra di 9,6 miliar-
di di dollari. I costi comprendono anche
l’espansione dei metodi di spedizione di
Amazon, che non riguardano solo il pas-
saggio della spedizione gratuita di Prime
da due giorni a un giorno, ma anche agli
investimenti nella diversificazione dei
mezzi di consegna: droni via terra e via aria.
Più centri logistici, meno rotte aree e terrestriTuttavia, in un comunicato, Jeff Bezos ha
spiegato che il cambio di passo della spe-
dizione Prime è ciò che ha pesato di più
nei costi: “I clienti amano la transizione di
Prime da due giorni a un giorno. Hanno
già ordinato miliardi di articoli con con-
segna gratuita in un giorno, quest’anno.”
Ha poi sottolineato: “Si tratta di un gran-
de investimento, ed è la giusta decisione
a lungo termine per i clienti. E sebbene
sia controintuitivo, consegne più rapide
generano le minori emissioni di carbonio
perché questi prodotti vengono spediti
da centri logistici molto vicini al cliente
- diventa semplicemente poco pratico
utilizzare rotte aree o lunghi percorsi via
terra.” Alla spedizione Prime di un giorno
si è aggiunta inoltre anche Prime Now,
cioè la spedizione in giornata per alcuni
prodotti in alcuni mercati, anche in Italia,
che riguardano soprattutto alimentari e
articoli per la casa.
I 10 miliardi dollari di spesa per le “con-
segne” hanno trovato sostentamento
soprattutto nella divisione Amazon Web
Services: il settore del cloud computing
che ha generato 9 miliardi di vendite con
il 40% trasformatesi in utili. Inoltre, anno-
vera introiti anche dalla vendita dei propri
dispositivi Echo, dalle vendite dei com-
mercianti terzi nel Marketplace e anche
attraverso la crescita dell’abbonamento
Prime. In più, la sola divisione pubblici-
taria di Amazon ha raccolto 3 miliardi di
dollari nel terzo trimestre del 2019.
MERCATO Amazon resta un’azienda sana con 2,1 miliardi di utili netti nel terzo trimestre del 2019
Risultati finanziari, utili in calo per Amazon La consegna veloce pesa per 10 miliardi $Utili sempre positivi ma la spesa per la logistica e le spedizioni è aumentata in un anno del 50%
Estratto dai quotidiani onlinewww.DDAY.it
Registrazione Tribunale di Milanon. 416 del 28 settembre 2009
e
www.DMOVE.itRegistrazione Tribunale di Milano
n. 308 del’8 novembre 2017
direttore responsabileGianfranco Giardina
editingMaria Chiara Candiago
EditoreScripta Manent Servizi Editoriali srl
via Gallarate, 76 - 20151 MilanoP.I. 11967100154
Per la pubblicità[email protected]
MAGAZINE
MAGAZINE
MERCATO Xiaomi deve mantenere il passo con Google e Apple
Xiaomi apre in Europa un centro di ricerca e sviluppo per le immagini
di SERGIO DONATO
A saperle leggere, le notizie possono
rivelare informazioni parallele e ap-
parentemente nascoste. È il caso
dell’apertura del più grande centro di Ri-
cerca e Sviluppo di Xiaomi al di fuori della
Cina. Xiaomi lo ha costruito a Tampere,
in Finlandia, e la sua missione principale
sarà quella di sviluppare tecnologie per le
fotocamere dello smartphone e potenziare gli algoritmi alla base di immagini e video. A
capo del centro ci sarà Jarno Nikkanen, per anni specialista dell’immagine prima in No-
kia (fino al 2011) e poi in Intel (fino a giugno di quest’anno). Pensiamo quindi che Xiaomi
abbia capito l’importanza di non rimanere indietro nel settore degli algoritmi fotografici,
dato che Apple e Google hanno dimostrato quanto il software a sostegno dell’hard-
ware possa spostare l’ago della bilancia nel campo delle immagini. Xiaomi si è trovata
costretta a non perdere la stessa pista battuta da Apple e Google con ottimi risultati.
Deve sbrigarsi e mettersi in cammino, magari recuperando tutto il terreno perso. Ecco
che il centro di Tampere acquista dunque un valore più specifico. Toccando argomenti
più concreti, Nikkanen ha poi aggiunto: “Stiamo costruendo un laboratorio fotografico
all’avanguardia che ci permette di facilitare lo sviluppo di algoritmi per le fotocamere.
Quello che stiamo sviluppando a Tampere finirà nelle mani di centinaia di milioni di
utenti e Mi Fan in tutto il mondo, e questo è davvero motivante.”
torna al sommario 4
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Massimiliano DI MARCO
N intendo Switch procede a passi
svelti verso un successo com-
merciale che pochi anni fa (dopo
il fallimento di Wii U) sembrava impen-
sabile. PlayStation 4 resta la regina di
questa generazione con 102,8 milioni
di console spedite in tutto il mondo.
Paragonando i primi undici trimestri
di disponibilità commerciale (PS4 ha
debuttato a novembre 2013; Nintendo
Switch a marzo 2017) i dati rivelano che
la console di Nintendo sta correndo
molto più velocemente di PlayStation
4 e persino di PlayStation 2, a oggi la
macchina da gioco più venduta di sem-
pre. Nei primi undici trimestri Nintendo
Switch ha venduto, come annunciato
dall’azienda durante il recente reso-
conto finanziario, 41,67 milioni di con-
sole. Nello stesso periodo, PlayStation
4 si è fermata a 30,20 milioni di unità;
PS2 arrivò, invece, a 38,31 milioni. PS4
pagò un inizio più lento di quanto i nu-
meri attuali lascino intendere.
L’accelerazione c’è stata a circa un anno
e mezzo dal lancio sul mercato, quando,
cioè, gli utenti hanno effettivamente ini-
ziato a spostarsi verso la nuova genera-
zione di console.
Perché non abbiamo considerato Xbox
One in questo confronto? Perché da
un certo momento in poi, Microsoft ha
cambiato politica e ha cessato di comu-
nicati i dati trimestrali di vendita della
console. Ergo, non avremmo potuto
confrontare il dispositivo con gli altri
sulla base di dati ufficiali. Per riferimen-
to, diamo l’ultima stima non ufficiale:
Xbox One è arrivata a circa 41 milioni
di unità. Poco in riferimento a PS4, ma
se pensiamo che Wii U è arrivata a
13,56 milioni di unità distribuite, la terza
MERCATO Con oltre 41 milioni di console distribuite, Nintendo sta superando le avversarie
Nintendo Switch procede verso il successo Vende più velocemente di PS4. E di PS2PS 4 resta la regina di questa generazione, ma Switch procede verso il successo commerciale
Alphabet spende sempre di più mentre cerca il nuovo Android: calano i profittiAlphabet, la casa madre di Google, ha presentato i risultati del terzo trimestre di quest’anno. I numeri sono generalmente molto buoni, ma i profitti per azione calano di Franco AQUINI
Alphabet, la casa madre di Goo-gle, ha pubblicato i risultati finan-ziari dell’ultimo trimestre dell’anno fiscale 2019 (da luglio a settem-bre). Le azioni hanno subito un im-mediato crollo del 4% nonostante i numeri mostrino una generale crescita sotto molti punti di vista. Il perché è facile da scoprire. I pro-fitti per azioni, ovvero il cosiddetto EPS (earning per share, un indica-tore della profittabilità dell’azienda) sono più bassi del 23% rispetto alle aspettative. Il risultato è che i pro-fitti per azioni sono di 10,12 dollari anziché gli attesi 12,42 dollari. Una differenza sostanziale, soprattutto dal punto di vista degli azionisti che hanno evidentemente provo-cato l’immediato il crollo in borsa.Leggendo i numeri, Alphabet se la passa tutt’altro che male, totalizzan-do quasi 34 miliardi di dollari di en-trate nel trimestre dal solo settore della pubblicità, che però continua a essere quello che porta il grosso dei profitto. Il totale delle entrate del trimestre è stato comunque di 40,5 miliardi di dollari, meglio di quanto si aspettassero gli analisti. E allora perché scendono i profitti? Perché Google spende molto. Si tratta dei numeri che riguardano Verily (azienda del gruppo che si occupa della scienza della vita) e Fiber, il progetto sperimentale per la costruzione di una rete in fibra. Probabilmente la strategia di Goo-gle è realmente a lungo termine e le maggiori spese sono tutte orien-tate a sviluppare tecnologie e stru-menti per dominare ancora di più il mercato digitale del futuro.
console di Microsoft non ha raggiunto
risultati negativi. Sicuramente, però,
sono stati inferiori alle aspettative della
società, che poi ha spostato la sua at-
tenzione prima su Xbox Live e poi su
Game Pass.
Anche per Nintendo Switch superare PlayStation 2 è un’impresa impossibileOsservando dati alla mano la corsa di
Nintendo Switch viene da pensare che
la macchina da gioco possa ambire a
superare persino PlayStation 2, che nel
suo ciclo vitale ha superato le 155 milio-
ni di unità spedite. È ben poco proba-
bile che succeda. Perché? PlayStation
2 ha vissuto un momento commerciale
poco replicabile: è rimasta sul mercato
per 12 anni (da marzo 2000 a dicembre
2012) e le sue vendite hanno avuto una
lunghissima coda. La seconda console
di Sony ha continuato a essere vendu-
ta ben oltre il debutto di PlayStation 3;
anzi, la disponibilità in Giappone è ces-
sata a meno di un anno dall’arrivo sul
mercato di PlayStation 4.
In quegli anni, il videogioco era sinoni-
mo di PlayStation e la seconda gene-
razione fu un successo commerciale
eccezionale.
Qualcosa di
molto simile
fecero Wii e
DS, che insie-
me raggiunse-
ro l’incredibile
traguardo di
oltre 255 mi-
lioni di unità
distribuite a
livello globale.
Nessuna delle due, però, riuscì singo-
larmente nell’impresa di superare Play-
Station 2. Nintendo Switch potrebbe
però avere l’ardire di superare PlaySta-
tion 4. Anche per quantità di software
venduto, Nintendo sta raggiungendo
risultati molto positivi: a oggi ha se-
gnato oltre 246 milioni di giochi distri-
buiti. Non ci sono dati ufficiali relativi
al software PlayStation 4 nello stesso
periodo temporale. Sony annunciò che
erano stati distribuiti 270,9 milioni di vi-
deogiochi a maggio 2016, ossia tredici
trimestri dal debutto della console sul
mercato.
Pokémon Spada e Scudo accelereranno le vendite hardware di Nintendo SwitchIl debutto di Nintendo Switch Lite ha
contribuito al raggiungimento di tale
obiettivo commerciale. E il meglio deve
ancora venire: presto debutteranno sul
mercato Pokémon Spada e Scudo, che
in combinazione con Switch Lite po-
trebbero accelerare nettamente le ven-
dite. Pokémon Sole e Luna hanno ven-
duto su Nintendo 3DS oltre 16,1 milioni
di copie. Meglio di loro solo Pokémon
X e Y (16,4 milioni) e Mario Kart 7 (18,47
milioni). Nintendo ha sicuramente az-
zeccato la natura di Switch. Ora resta
da capire per quanto tempo riuscirà a
tenere questo ritmo. A inizio del pros-
simo anno arriverà Animal Crossing
e sappiamo, come annunciato all’E3
2019, che è in sviluppo un nuovo ca-
pitolo di The Legend of Zelda, seguito
diretto di Breath of the Wild. Inoltre, la
casa giapponese sta lavorando a Me-
troid Prime e prossimamente ci sarà
anche No More Heroes 3.
torna al sommario 5
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Massimiliano DI MARCO
I l mercato libero dell’energia ancora
non c’è - bisogna aspettare luglio 2020
- , ma Axpo Italia non voleva perdere
tempo. Pulsee è la energy company sve-
lata dalla società e che debutta oggi, 22
ottobre: un fornitore di luce e gas solo
online e che sfrutta gli elementi digitali
per un servizio che, promette l’azienda, “è
attivo in 3 minuti. Senza fax, documenti da
scansionare o lettere da spedire”.
“Siamo quasi preistorici nell’uso del-
l’energia. Una nuova rivoluzione sta
arrivando” ha detto Salvatore Pinto, pre-
sidente di Axpo Italia, durante la confe-
renza stampa di lancio di Pulsee.
La ricetta non è inedita e l’abbiamo spes-
so vista applicata nel mondo fintech, so-
prattutto negli ultimi anni: fare leva sulla
flessibilità degli strumenti digitali per abi-
litare offerte modulabili e più convenien-
ti. Già il 50% delle utenze domestiche ha
deciso di passare al mercato libero non
appena saranno disponibili le offerte il
prossimo anno, secondo quanto rivelato
da Axpo Italia durante la presentazione
di Pulsee. “Pulsee è una porta d’ingresso
al mondo digitale”, ha sottolineato Pinto.
L’ispirazione è il mondo mobile: cambia-
re operatore e offerta è molto più facile
rispetto a cambiare fornitore di energia
elettrica, operazione che oggigiorno vie-
ne tipicamente effettuata con la collabo-
razione di un operatore telefonico. Per-
ché altrettanto non dovrebbe accadere
nel mondo dell’energia? Da qui nascono
le tre offerte principali di Pulsee dedicate
a luce e gas (in abbinamento o in modo
dedicato), con la consapevolezza che
l’utente moderno sente oggi l’esigenza
di poter affidarsi a una piattaforma digita-
le per qualsiasi incombenza quotidiana.
L’offerta Feeling, per esempio, ha sei
fasce d’orarie con i rispettivi prezzi
(fissi) dell’energia e del gas e si passa
dagli 0,065 euro al kWh tra le 6 e le 11
agli 0,050 kWh dalle 23 alle 6 nel caso
di abbinamento luce e gas. Le altre due
tipologie di offerte (ZeroVentiquattro
e ZeroDodici) permettono all’utente di
scegliere, in fase di avvio del contratto,
tra il prezzo fisso o il prezzo indicizzato.
Al momento Pulsee non prevede l’attiva-
zione di contratti per nuove utenze, ma
soltanto per volture o cambi di fornitore.
L’azienda ha confermato a DDAY.it che
tale possibilità, già implementata, verrà
resa disponibile da dicembre, una volta
completata la fase di test. Le tariffe, inol-
tre, possono essere cambiate in qualun-
que momento, senza che debba essere
convertito il contratto attivo. Per questio-
ni tecniche, inizialmente questo proces-
so potrebbe richiedere un certo lasso di
tempo; una volta che l’infrastruttura di
Pulsee sarà rodata questa operazione
sarà praticamente immediata.
La gestione dell’offerta e il monitoraggio
dei consumi possono essere fatti, oltre
che sul sito, anche dall’app ufficiale per
App Store e Play Store.
Servizi aggiuntivi: adottare un impianto “verde” costa 1 euro al meseLa modulabilità degli abbonamenti (pen-
siamo a Netflix) è uno dei canoni del
successo di questo tipo di contratti. Ecco
che Pulsee prende spunto e proporrà al-
cuni servizi aggiuntivi rispetto alla forni-
tura di base di luce e di gas che l’utente
può aggiungere o togliere quando vuo-
le e senza penali. Tra
questi, la possibilità di
adottare un impianto
“verde” (eolico, idroe-
lettrico o solare) per
assicurare che l’ener-
gia che viene fornita
all’utente provenga
da fonti rinnovabili
certificate. A fine anno
Pulsee rilascerà anche
un certificato per atte-
stare l’origine “verde”
dell’energia consuma-
ta e prodotta secondo
la tecnologia scelta.
Su questa falsa riga, Pulsee ha istituito
altri due servizi aggiuntivi. Il primo è My
Green Energy Gas Certification, pensato
per chi desidera che il gas che usa derivi
al 100% da fonti rinnovabili. Il secondo è
Zero Carbon Footprint, pensato per chi
ha un “comportamento mediamente re-
sponsabile nei confronti dell’ambiente”,
come l’uso misto di auto e mezzi pub-
blici o una temperatura media in casa
di 20° C. Sulla base di questi comporta-
menti Pulsee stima le emissioni annuali
individuali e acquista i certificati Co2, il
cui ricavato è destinato a livello euro-
peo a sostenere la creazione di progetti
ecologicamente sostenibili. Il costo di
tali servizi è di un euro al mese, attual-
mente in promozione, fino al 31 ottobre,
al prezzo simbolico di un centesimo di
euro al mese.
Non manca, infine, un servizio di assi-
stenza Vip, che garantisce a chi lo sot-
toscrive un accesso esteso (dalle 8 alle
20) e l’identificazione automatica. “Ne
arriveranno altri nei prossimi mesi” ha
promesso Carlo Occhiena, digital retail
manager di Axpo Italia.
MERCATO Pulsee è una nuova energy company di Axpo Italia nel mercato libero dell’energia
Pulsee, fornitore di luce e gas solo online E puoi anche adottare un impianto “verde”Il presidente di Axpo Italia Salvatore Pinto ne è sicuro: “una nuova rivoluzione sta arrivando”
Le tre tariffe di Pulsee per luce e gas in abbinamento. Il prezzo può essere fisso oppure indicizzato
Gli indirizzi IP disponibili stanno finendo. La soluzione c’è, ma bisogna accelerareSecondo il RIPE Network Coordination Centre, gli indirizzi IPv4 disponibili termineranno il prossimo novembre. Il più volte preannunciato termine è arrivato, ma non è una catastrofe come sembra di Franco AQUINI
Gli indirizzi IPv4 sono terminati e questa è davvero la volta buona. Si parla di indirizzi IP, ovvero del-l’identificativo con cui ogni dispo-sitivo connesso a una rete (anche una rete domestica) si presenta e comunica con gli altri. Si capisce dunque che l’esaurimento di que-sti indirizzi non è affatto una que-stione marginale. Gli indirizzi IPv4 sono cominciati a scarseggiare già qualche anno fa, quando gli organismi preposti hanno creato una nuova versione del protocollo chiamata IPv6. Se il primo metteva a disposizione poco più di 4 miliardi di indirizzi, il secondo espande notevolmente la platea di dispositivi che si pos-sono connettere. Una cifra che è persino difficile da scrivere, si tratta infatti di 2 elevato alla cen-toventottesima, qualcosa che si potrebbe tradurre in 340 trilioni di trilioni di trilioni di indirizzi. Insomma, IPv6 dovrebbe risol-vere il problema di disponibilità di indirizzi IP per i prossimi anni. Ora però gli indirizzi sono finiti e la transizione verso la versione 6 del protocollo, non particolarmen-te amata per via della difficile leg-gibilità, è più urgente che mai. Il Regional Internet Registry (RIR) ha infatti dichiarato di essere arrivato ad appena un milione di indirizzi disponibili all’inizio di ottobre, per cui si prevede di terminarli com-pletamente entro novembre. Il passaggio non sarà indolore.
torna al sommario 6
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
I l primo novembre parte il nuovo servizio di strea-
mijg video ad abbonamento Apple TV+. Il nome
scelto richiama il mondo Apple, ma siamo davanti
ad un prodotto che non è destinato esclusivamen-
te agli utenti Apple, possono fruirne tutti. Non serve
quindi un iPhone o un iPad, basta creare un account.
In un mondo dove i contenuti originali stanno diven-
tando sempre più importanti, Apple TV+ si pone come
una soluzione simile a Netflix, a Amazon Prime Video,
al nuovo Disney Plus, a Now TV e a Infinity. Non è una
alternativa perché quello che trovate su Apple TV+
non lo troverete altrove: sono solo ed esclusivamente
contenuti originali, come quelli di Amazon o di Netflix.
Con il budget a disposizione di Apple, e la collaborazio-
ne ottenuta da alcuni dei migliori talent di Hollywood,
l’azienda ha scelto come ricetta “pochi ma buoni”.
Apple TV+ partirà con pochi contenuti, meno di dieci,
ma con la promessa di offrire una qualità maggiore di
quella offerta dagli altri servizi che invece devono of-
frire quantità per giustificare un prezzo che piano pia-
no cresce, vedi Netflix, ormai a 16 euro al mese se si
vogliono 4K e l’HDR. Non è necessariamente un male
avere pochi contenuti di qualità: ormai i servizi sono
così tanti, così come le serie TV a basso budget, che
spesso si spreca più tempo a guardare i primi episodi
salvo poi rendersi conto che una serie TV non è gran
cosa. Per vedere cosa offre Apple TV+ su tv.apple.com/it ci sono i trailer dei contenuti disponibili, ma
ognuno può farsi un’idea provando il servizio.
Ci saranno infatti 7 giorni di prova gratuita.
Come iscriversi ad Apple TV+Per iscriversi ad Apple TV si deve andare su tv.apple.com/it: un utente che ha già un account Apple, perché
possessore di dispositivi Apple, potrà usare un suo ac-
count, agli altri invece sarà richiesto di fare un account
nuovo.
Quanto costa Apple TV+Apple TV costerà 4.99 euro al mese e sarà tariffato
dopo una settimana di prova gratuita. L’abbonamento
si rinnoverà automaticamente ogni mese e potrà esse-
re disdetto quando si vuole, senza vincoli. Nel caso di
account Apple uniti da in gruppo “In famiglia”, solo un
utente potrà sottoscrivere l’abbonamento, perché que-
sto verrà automaticamente condiviso tra tutti i membri
fino ad un massimo di sei. Chi ha acquistato iPhone,
iPad, iPod touch, Mac o una Apple TV potrà attivare un
anno gratuito.
Come attivare l’anno gratuito su Apple TV+Per ottenere l’anno gratuito è necessario aver acqui-
stato dopo il 10 settembre un prodotto idoneo: iPhone,
iPad, iPod touch, Mac o Apple TV. Dopo aver configura-
to il dispositivo, usando l’account sul quale si vogliono
attivare i tre mesi gratis, basta aprire l’app Apple TV per
ENTERTAINMENT Il primo novembre parte il servizio di streaming Apple. Un servizio dedicato a tutti, non solo a chi è utente Apple
Apple TV+ in Italia. Tutto quello che c’è da sapereBasta un account e una smart TV compatibile per vedere film e serie TV. Per conoscere i contenuti, ci sono 7 giorni di prova
visualizzare l’opzione. Un utente avrà tre mesi di tem-
po per attivare l’offerta a partire dal 1° novembre. Se un
utente ha già acquistato il dispositivo, avrà comunque
tre mesi di tempo per sottoscrivere l’anno gratis.
Che contenuti saranno disponibili il primo mese?Il primo mese ci saranno meno di dieci contenuti, e i ma-
lati di binge watching potranno sfruttare a pieno la loro
prova gratuita. Ecco cosa sarà disponibile:
- The Morning Show
- See
- For All Mankind
- Dickinson
- La madre degli elefanti
- Helpsters
- Lo scrittore fantasma
- Snoopy nello spazio
Servant arriverà il 28 novembre, Truth Be Told il 6 di-
cembre. Hala Prossimamente.
Cosa serve per vedere Apple TV+Apple TV può essere vista su un iPhone o un iPod con la
versione più recente di iOS, su un iPad con la versione
più recente di iPadOS, su Apple TV 4K o Apple TV HD
con la versione più recente di tvOS, su Apple TV di 3a
generazione con l’ultimo aggiornamento del software,
su Mac con la versione più recente di macOS e sul sito
tv.apple.com/it in un browser web Safari, Firefox o Chro-
me. Quindi anche da PC.
Sono compatibili anche le Smart TV Samsung, LG e
Sony, ma al momento l’unico TV che permette di vedere
i contenuti di Apple TV+ senza avere dispositivi Apple
è Samsung. E da pochi giorni è compatibile anche la
FireTV Stick.
Quali sono i televisori compatibili?Apple ha stretto accordi con Samsung Sony e LG per
portare Apple TV sui televisori Smart. Al momento in cui
scriviamo Samsung è l’unica azienda per la quale l’app
Apple TV è già disponibile, e questo vuol dire che chi ha
un TV Samsung compatibile può fruire del servizio sen-
za necessariamente avere un prodotto Apple, basta l’ac-
count. L’elenco dei TV Samsung compatibili è questo:
- Samsung FHD/HD serie 4 e 5 (2018)
- Samsung QLED 4K serie Q6, Q7, Q8 e Q9 (2018 e
2019)
- Samsung QLED 8K serie Q9 (2019)
- Samsung serie The Frame (2018 e 2019)
- Samsung serie Serif (2019)
- Samsung UHD serie 6, 7 e 8 (2018 e 2019)
LG ha aggiornato alcuni TV il 25 luglio aggiungendo Air-
Play 2, ma non c’è ancora l’applicazione, che arriverà
entro la fine dell’anno. Questo vuol dire che chi vuole
guardare un contenuto di Apple TV+ su un televisore LG
dovrà avere anche un prodotto Apple e usare AirPlay
per trasmetterlo al televisore. Questo in attesa che arrivi
l’applicazione, e LG, da noi interpellata, non ci ha dato
una data precisa. Questo è l’elenco dei TV aggiornati, e
sono tutti modelli 2019.
- LG OLED (2019)
- LG NanoCell serie SM9X (2019)
- LG NanoCell serie SM8X (2019)
- LG UHD serie UM7X (2019)
Infine c’è Sony: nonostante alcuni siti abbiano riporta-
to la notizia che sta arrivando l’app Sony per Apple TV,
Sony Italia ci ha confermato che la notizia non è veritie-
segue a pagina 07
torna al sommario 7
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
ra: non esiste ancora una data precisa né per l’applica-
zione né per l’aggiornamento ad AirPlay 2. I TV Sony al
momento sono tagliati fuori.
Qual è il modo più economico per vedere Apple TV+ in 4K su un televisore?Il modo più semplice per poter vedere Apple TV+ su
un televisore è dotarsi di una chiavetta FireTV Stick di
Amazon, normale o 4K. L’applicazione è disponibile da
qualche settimana. A 24.99 euro per la versione Full
HD e a 59.99 euro per la versione 4K, Fire TV Stick
permette di vedere AppleTV+ su ogni televisore con
ingresso HDMI o su un proiettore alla massima qualità
e con la minima spesa.
Che qualità avranno i contenuti di Apple TV+I contenuti originali saranno secondo Apple in 4K,
HDR10 e Dolby Vision. Il Dolby Vision sarà ovviamen-
te disponibile solo per chi ha un prodotto compatibile
e un televisore compatibile. Apple precisa anche che
per la maggior parte dei titoli sarà disponibile l’audio
Dolby Atmos. Ad oggi tutti i trailer non sono né in At-
mos né in HDR, quindi sa-
premo solo domani, quan-
do partirà il servizio, che
contenuti avranno il Dolby
Vision, quali il Dolby Atmos
e quale sarà la qualità.
Si possono scaricare i contenuti per guardarli senza connessione?Come sulla maggior parte
dei servizi di streaming Ap-
ple TV+ permette la visione
offline in mobilità. I contenuti
possono essere scaricati su
iPhone, iPad, iPod touch e Mac.
Si può condividere l’abbonamento?Un abbonamento ad Apple TV+ permette l’accesso di
sei membri dello stesso gruppo Famiglia e ognuno può
accedere con il suo account, quindi senza la necessità
di condividere una password. Inoltre non ci sono limiti
di stream: sei persone possono guardare contempora-
neamente sei contenuti diversi.
Tutti i contenuti saranno doppiati e sottotitolati?I contenuti originali Apple verranno sottotitolati e/o
doppiati in quasi 40 lingue, compresi i sottotitoli per
non udenti e ipoudenti o i sottotitoli standard. Le serie
e i film Apple TV+ saranno disponibili anche con audio-
descrizioni in otto lingue tra le quali dovrebbe esserci
anche l’italiano.
Il numero di contenuti crescerà?Apple promette che ogni mese verranno aggiunti nuovi
contenuti originali ad Apple TV+, anche se ci aspettia-
mo una crescita molto controllata. Apple era stata molto
chiara: poche cose originali di qualità, nessun contenuto
acquisito da terzi. Al momento non si conoscono piani o
dettagli sui contenuti del 2020.
di Franco AQUINI
I laboratori di ricerca di Facebook
hanno creato una tecnologia che fa
l’esatto contrario del riconoscimento
facciale: il de-riconoscimento facciale.
Nell’era dell’intelligenza artificiale im-
piegata per riconoscere automatica-
mente qualsiasi cosa, Facebook sem-
bra andare nella direzione opposta e lo
fa, almeno ufficialmente, per perseguire
il buon proposito del rispetto della pri-
vacy degli utenti. Privacy minacciata, in
questo caso, dalle agenzie governative
che utilizzano i video provenienti da
qualsiasi fonte per trovare tracce delle
persone ricercate.
La tecnologia di Facebook, descritta
in un documento pubblicato sul sito ufficiale dei laboratori di ricerca e mo-
strata in un video, modifica alcuni det-
tagli somatici del volto per trovare il
giusto connubio tra la fedeltà del volto
e la difficoltà del riconoscimento da
parte degli algoritmi.Tale risultato vie-
ne ottenuto solo parzialmente, stando
al video pubblicato. Il test è stato fatto
su volti celebri del cinema e il risultato
non è sempre ottimale dal punto di vista
della riconoscibilità del personaggio.
Basti guardare Willem Dafoe e George
Clooney. Da notare che Facebook, per
il momento, non utilizzerà questa tecno-
logia in nessuno dei suoi prodotti, ma
l’algoritmo con cui riconosce automa-
ticamente i volti per facilitare il tag di
amici o conoscenti, è stato disattivato di
default da qualche mese a questa par-
te. Segno che scandalo dopo scandalo
in Facebook, l’attenzione alla privacy
degli utenti, comincia a essere presa
con un po’ più di attenzione.
SOCIAL MEDIA Una tecnologia dai laboratori di Facebook può cambiare i volti delle persone
Volti camuffati dall’IA: così Facebook vuole impedire il riconoscimento facciale delle agenzie governative Per Facebook, finalmente, la privacy sembra essere diventata ufficialmente una cosa importante
ENTERTAINMENT
Le serie HBO rimangono esclusiva Sky. Dal 2021 tornano i film Warner Brosutte le serie TV di HBO, co-produzio-ne di mini serie TV e i film Warner Bros che dopo anni tornano sugli schermi Sky. È questo il succo del-l’accordo firmato da Sky e Warner Media, che prolunga ed amplia l’accordo già in essere. L’accordo prevede la redistribuzione di tutti i contenuti HBO sui canali Sky e su Now TV. Parliamo quindi di serie quali The Walking Dead, Little Big Lies e Watchmen. Da gennaio 2021 torneranno sugli schermi di Sky Cinema anche tutti i film Warner Bros, negli anni scorsi passati a Mediaset. L’accordo riguarda tutti i mercati europei in cui opera Sky. La collaborazione fra le due compa-gnieprevede anche la co-produzione di serie TV.
ENTERTAINMENT
Apple TV+ ufficiale in Italiasegue Da pagina 06
torna al sommario 8
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Pasquale AGIZZA
M enu tutto nuovo com-
pletamente ridisegnato,
miglioramento dell’area
on demand e suggerimenti per-
sonalizzati sull’homepage per
non perdersi niente della pro-
grammazione Sky. Sono queste
le novità più importanti della
nuova versione di Sky Go, l’ap-
plicazione che consente di guar-
dare i canali Sky in mobilità. Lanciata ormai da qualche anno, ha visto varie evoluzioni
importanti, come l’introduzione di Sky Go Plus nel 2016, che consente di scaricare i
programmi e vederli offline, oltre alla possibilità di far ripartire dall’inizio i programmi
in diretta, o l’arrivo di Sky Go per i clienti Sky Q nel 2017. Il punto più importante della
nuova app è il menu completamente ridisegnato. La navigazione fra le varie opzioni
sarà più facile che in passato e sarà molto più immediato trovare i programmi di nostro
interesse. L’area on-demand avrà una homepage diversa per ogni genere, rendendo
più ordinata la sezione e più facile trovare film che corrispondono alla categoria cerca-
ta. Abbinata a questa funzione, c’è l’introduzione dei suggerimenti personalizzati in ho-
mepage che, basandosi sulle nostre precedenti visioni, ci consiglierà film e programmi
simili.Per avere la nuova versione di SkyGo basterà aggiornare l’applicazione da App
Store o Play Store. Alcuni utenti potrebbero non trovare subito la nuova versione, dato
che l’aggiornamento arriverà a scaglioni. Già disponibile la nuova interfaccia, invece,
per tutti gli utenti che utilizzano Sky Go da PC.
ENTERTAINMENT L’app Sky Go si rinnova e diventa più semplice
App Sky Go: menu più chiaro e suggerimenti personalizzati
di Pasquale AGIZZA
N uovo chip Tegra X1+, doppia ver-
sione e telecomando rinnovato.
Sono queste le caratteristiche
fondamentali della rinnovata gamma di
Nvidia Shield TV, che si sdoppia in un
modello base (con design rinnovato) e
un modello Pro più potente.
Stesso processore, cambia il quantitativo di RAMDal punto di vista tecnico entrambe le so-
luzioni di Nvidia Shield TV utilizzeranno il
chip Tegra X1+, che promette prestazio-
ni del 25% superiori rispetto al modello
precedente.La dotazione di RAM è di 2
GB per la Shield TV classica e 3 GB per il
modello Pro. Cambia anche lo spazio di
archiviazione: 8 GB per il modello base
e 16 GB per il modello Pro. Entrambi i
modelli, però, hanno la possibilità di uti-
lizzare una microSD.Il modello rinnovato
di Shield TV cambia completamente de-
sign. Il dispositivo di Nvidia è, infatti, un
cilindro molto simile ad una torcia o ad
un altoparlante Bluetooth. Design molto
più vicino alla versione originale, invece,
per quel che riguarda Shield TV Pro, che
rispetto al modello base fa sfoggio an-
che di 2 porte USB 3.0.
Telecomando retroilluminato e con microfonoEntrambi i modelli di Shield TV verranno
venduti con il nuovo telecomando. Cam-
bia la forma, adesso ha un profilo triango-
lare, e si collega ai dispositivi tramite blue-
tooth. C’è anche un microfono interno,
utile per interagire con Google Assistant,
e un tasto specifico per lanciare Netflix.
Nvidia ha dichiarato di aver fatto tesoro
delle lamentele dei clienti riguardo al vec-
chio telecomando, risolvendo alcune del-
le problematiche più comuni. Si parla, ad
esempio, della retroilluminazione dei tasti
quando si solleva il telecomando o del lo-
calizzatore inserito nel dispositivo che, in
maniera simile a quanto succede con gli
smartphone, fa suonare il telecomando
quando non lo troviamo.
A bordo c’è Android TV. Supporto a Dolby Vision e Dolby AtmosRiguardo al software, Nvidia Shield con-
tinua ad eseguire Android TV. Il modello
precedente è stato uno dei dispositivi
Android TV accolti con più favore dal
pubblico, ed il produttore è intenzionato a
proseguire su questa strada. I dispositivi
assicurano supporto completo alle funzio-
nalità Dolby Vision e Atmos e HDR 10. Ma
quando si parla di Nvidia non si può non
pensare al gioco. Oltre alla miriade di titoli
presenti sulla piattaforma Android, infatti,
le Shield potranno godere del supporto
a GeForce Now, il servizio di giochi in
streaming che consente di giocare a cen-
tinaia di videogames per PC e console.
Entrambe le soluzioni sono già acqui-
stabili in Italia, dal sito ufficiale di Nvidia,
al prezzo di 159,99 euro per il modello
base e 219 euro per il modello Pro.
ENTERTAINMENT Nvidia ha tolto i veli sull’aggiornamento 2019 di Shield TV, ecco le novità
Nvidia Shield TV supporta Dolby VisionTelecomando rinnovato: c’è il tasto NetflixDue i modelli, uno base con design rinnovato e uno Pro più potente, entrambi con processore Tegra X1+
Come attivare l’anno gratuito di Apple TV+ tramite iPhone, iPad o sito AppleEcco come fare a trovare l’opzione per sbloccare l’anno gratuito di Apple TV+ offerto a chiunque abbia acquistato un nuovo dispositivo Apple a partire dal 10 settembre
di Franco AQUINI
Apple TV+ ha aperto ufficialmente i battenti. Uno dei valori aggiunti per gli utenti di dispositivi Apple è il fatto che, a patto di aver acqui-stato un dispositivo come iPhone, iPad, iPod touch o AppleTV dal 10 settembre, si potrà usufruire di un anno di abbonamento gratuito, an-ziché sborsare i 4,99 euro al mese richiesti per l’abbonamento. Molti utenti di iPhone 11, tuttavia, stanno lamentando il fatto che non si rie-sca a trovare l’opzione. Ecco come fare. Aprendo l’app per iPhone, ap-parentemente non c’è traccia del tasto dedicato alla promozione. Per trovarlo, bisogna cliccare sul tasto dedicato a TV+, che si trova scorrendo di poco la pagina verso il basso, appena sotto il titolo “Sco-pri di più sull’app Apple TV”. Per tutti gli altri, si può riscattare l’anno gratuito anche dal sito ufficiale. Basterà andare su https://tv.apple.com/it e fare il login (col proprio ac-count iCloud, o quello associato al nuovo dispositivo acquistato) tra-mite il tasto in alto a destra.
torna al sommario 9
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Gianfranco GIARDINA
TCL è pronta a fare il salto di qualità e andare a oc-
cupare una fascia più alta, non solo per la qualità
dei prodotti, sempre in crescita in questi anni, ma
anche nella percezione che gli utenti hanno del mar-
chio. Un’arma importante è l’arrivo del TV miniLED (il
modello si chiama Serie X10), un LCD retroilluminato
da una matrice di miniLED decisamente fitta.
Si tratta di un pannello di retroilluminazione compo-
sto da 15mila LED molto piccoli che garantiscono una
riserva di luce enorme (il TV raggiunge 1500 nits con
facilità) con una distanza di questo substrato dal pan-
nello LCD ridotta, che corrisponde anche a uno spes-
sore altrettanto ridotto del TV, per essere un Full LED
768 zone indipendenti per un nero senza “sbavature”Ma il vantaggio della matrice di retroilluminazione
MiniLED non è certo solo nello spessore del TV ma
soprattutto nella gestione ad aree: i 15mila LED infatti
sono raggruppati in sottomatrici 4x5 (20 LED quin-
di) illuminante indipendentemente le une dalle altre.
Questo corrisponde a 768 zone indipendenti (24 x
32), quindi sufficientemente piccole per minimizzare
l’eventuale effetto alone che TV full LED convenzio-
nali possono generare nella visualizzazione di scritte
bianche su fondo nero. In questo modo il contrasto
del TCL Serie X10 è esemplare, il nero, quando serve,
super-profondo e i colori incredibilmente brillanti e
precisi, come sanno fare i Quantum Dots, che equi-
paggiano il pannello LCD impiegato in questo TV.
Per il resto si tratta di un vero top di gamma: l’audio
è gestito da una generosa soundbar Dolby Atmos fir-
mata Onkyo (che non abbiamo ancora potuto ascol-
tare) che certamente sarà in grado di offrire un suono
ben diverso dai TV convenzionali, anche se il prezzo
da pagare è un design non per tutti i gusti e che ri-
corda alcuni OLED Panasonic. Il sistema operativo è
Android TV con Assistant e microfoni integrati ed è
prevista la compatibilità con tutti gli standard HDR: ol-
TV E VIDEO TCL, in una conferenza stampa a Milano, ha annunciato l’arrivo in Italia del TV MiniLED presentato all’IFA di Berlino
TCL TV MiniLED: 768 zone per un nero da OLED Ma con gli stessi vantaggi dei Quantum DotsIl TV si basa su una matrice di retroilluminazione da 15mila LED. In arrivo anche il primo smartphone a marchio TCL
tre a HLG e HDR10, sono contemplati anche i formati a
metadati dinamici come Dolby Vision e HDR10+. Il TV
TCL Serie X10 sarà disponibile, almeno per ora, solo
nel taglio da 65” sin dal prossimo mese di novembre
a un prezzo consigliato di 2400 euro: non appena di-
sponibile, sarà ovviamente oggetto di una prova da
parte di Dday.it che siamo molto curiosi di fare per
capire la resa.
MiniLED, siamo solo all’inizio. Ma per i pannelli veramente self emitting ci vorranno ancora anniTCL, nella conferenza stampa di Milano, ha anche sve-
lato la propria roadmap di sviluppo di nuovi pannelli
che - lo ricordiamo - la società produce “in casa”, nel-
la consociata CSOT, da noi visitata alcuni anni fa. Tra
un paio d’anni TCL prevede di lanciare un’evoluzione
di questi MiniLED mantenendo sempre la matrice da
15mila LED ma passando a blocchi indipendenti di 4
LED, quindi 2 x 2: in questo modo si viene a creare
una matrice molto più fitta di retroilluminazione per
un totale di 3840 aree indipendenti, con un fattore 5x
rispetto a quelle di oggi.
Lo step successivo, previsto per il 2023, porterà le
aree gestite in maniera indipendente a 15mila: ogni
LED della matrice sarà pilotato in maniera autonoma,
per celle che disteranno l’una dall’altra meno di un
centimetro (precisamente 8,7 millimetri), niente per un
65 pollici. A questo punto la possibilità di discernere
eventuali aloni di luce, se la retroilluminazione sarà
correttamente gestita, diventano praticamente ine-
sistenti. Questa strada non considera l’OLED come
una soluzione vincente, come indica anche una slide
comparativa mostrata da TCL: a tendere, man mano
che il MiniLED prenderà piede e sarà migliorato, lo
spazio competitivo dell’OLED, secondo TCL, si farà
sempre più stretto fino a scomparire. La soluzione di
TCL, a tendere, è invece il microLED, in cui si perde il
substrato LCD e l’immagine è composta solo da una
matrice fittissima di microLED: oggi soluzioni di que-
segue a pagina 10
Clicca per l’ingrandimento delle immagini
torna al sommario 10
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
sto tipo esistono solo in dimensioni “videowall” ma fra
qualche anno potrebbero diventare possibili anche su
dimensioni di schermo più contenute (ma magari più
grandi di un 65”) e quindi con densità di LED impres-
sionati, per arrivare ai 24 milioni di LED che servono
per un pannello 4K di questo tipo.
Non solo MiniLED: arrivano anche nuovi LCD TCL dal rapporto qualità-prezzo eccellenteA fianco della serie X10, ci sono altre tre serie di An-
droid TV con i quali TCL conta di affrontare la stagio-
ne natalizia e almeno tutta la prima metà del 2020.
Oltre alla serie ES (quella entry level solo Full HD), e
le serie EP (4K entry con Android e HDR) sulle quali
non spendiamo parole in questa sede, è certamente
interessante la serie EC, che aggiunge anche il Wide
Color Gamut su base Quantum Dots, l’assistente Goo-
gle integrato e una soundbar Onkyo Dolby Atmos in-
tegrata nel telaio: la versione da 65” si tiene, in termini
di prezzo consigliato, sotto i 1000 euro, mentre quella
55” arriva a 699. I TV TCL della serie EC stanno per
arrivare nei negozi.
Abbiamo ascoltato Ray-Danz, la rivoluzionaria soundbar dal nome curioso e dalla forma altrettanto stranaNon sappiamo da dove venga un nome così strano,
ma Ray-Danz è certamente qualcosa di diverso ri-
spetto alle soundbar convenzionali: si tratta di uno
speaker a forma di soundbar ma che ai lati appare
“scavato”, come se fosse stato svuotato dei tipici
altoparlanti. In realtà all’interno della cavità c’è una
parabola, praticamente una lente acustica, capace di
ricevere e riflettere l’emissione di due speaker posti al
centro e rivolti praticamente all’indietro.
L’immagine acustica che ne risulta - si capisce an-
che con il veloce ascolto che abbiamo potuto fare in
conferenza stampa - è effettivamente molto larga e a
canali discreti, più di quanto non accada con le soun-
dbar convenzionali. La direzionalità secca del canale
centrale è invece garantita dallo speaker, anch’esso
integrato nel blocco centrale, e rivolto direttamente
verso l’ascoltatore. La resa acustica è completata da
un subwoofer esterno. Ray-Danz sarà disponibile nei
primi mesi del 2020 al prezzo consigliato di 349 euro.
Debutta anche Plex, il primo smartphone TCL, ma nasce dall’esperienza AlcatelNel futuro sentiremo sempre più parlare del marchio
TCL, che la Casa madre sembra voler proporre in tutto
il mondo con più forza di quanto non fatto in passato.
Infatti forse non tutti sanno che è proprio TCL a essere
proprietaria dei marchi di TV Thomson e di smartpho-
ne Alcatel e Blackberry, questi ultimi fino a oggi con-
siderati più forti di TCL in Europa. E non tutti sapran-
no che per anni, anche prima dell’acquisizione delle
divisioni, questi e anche altri marchi di smartphone
hanno utilizzato le fabbriche del gruppo TCL in Cina
per realizzare i propri smartphone. Ebbene, in questo
frangente, invece, la società ha voluto presentare an-
che il suo primo smartphone europeo a marchio TCL,
che ovviamente è tutt’altro che un’opera prima, vista
l’esperienza della società in questo ambito.
Si tratta di TCL Plex, uno smartpone decisamente in-
teressante, caratterizzato da una finitura cangiante
come se si trattasse di un ologramma, che punta tutto
su display ad alta luminosità e prestazioni e tripla fo-
tocamera. In particolare, il display da 6 pollici e mezzo
è in grado di visualizzare contenuti HDR e anche di
fare una sorta di conversione in alta gamma dinamica
di contenuti standard, operazione rispetto alla quale
però abbiamo qualche dubbio sull’efficacia e soprat-
tutto sulla fedeltà dei risultato. Al livello dei migliori
smartphone la camera frontale da 24 megapixel inte-
grata nello schermo (di cui oscura solo un puntino) e
le tre camere posteriori: la principale è basata su un
sensore Sony da 48 megapixel alla quale si affianca
una camera supergrandangolare da 123° di angolo di
campo; completa la dotazione una camera “low light”
TV E VIDEO
TCL TV MiniLEDsegue Da pagina 09
Clicca per l’ingrandimento delle immagini
la cui grandezza particolare dei fotosensori consente
di riprendere anche in condizioni di luce estremamen-
te bassa. Molto interessante la funzione multi strea-
ming Super Bluetooth che consente di connettere
al TCL Plex fino a quattro cuffie (o anche speaker)
Bluetooth per un ascolto di gruppo. TCL Plex arriverà
in Italia a metà novembre al prezzo consigliato molto
interessante di 329 euro.
torna al sommario 11
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Sergio DONATO
È arrivata anche in Italia la nuova se-
rie 8200 di TV Philips LED 4K che
dovrebbe porsi qualche gradino più
in alto della serie Performance 7304, co-
nosciuta come “The One”. La differenza
principale: la serie 8200 copre il 90% del
gamut DCI-P3. Sebbene sia previsto an-
che il 65”, a comparire sul sito italiano di Philips per il momento è solo il 55” della
serie 8200, che ha come codice prodotto
55PUS8204/12. Si tratta di un 4K LCD con
retroilluminazione a LED, che ovviamente
si tiene stretto il nuovo processore d’im-
magine P5 Perfect Picture di terza gene-
razione presentato a inizio 2019.
Come per il 7304, anche l’8204 ha la tec-
nologia Ambilight su tre lati posteriori del
TV E VIDEO Il primo è il 55” 8204, 4K LCD retroilluminato a LED con supporto a tutti gli HDR
Arriva in Italia la serie 8200 di TV LED 4K Philips Presenti anche Dolby Vision e HDR10+È compreso anche l’audio Dolby Atmos. Il pannello copre il 90% dello spazio colore DCI-P3
TV: superiore, sinistro e destro. Il pannel-
lo supporta HLG, HDR10, HDR10+ e Dolby
Vision. Il TV legge anche le immagini in
formato HEIF. L’audio, pur non fregiandosi
della cura di Bowers & Wilkins come per
le gamme più alte dei nuovi TV Philips, è
in grado di gestire i segnali Dolby Atmos.
A capo dell’8204 abbiamo ovviamente
Android TV nel quale è integrato anche
il controllo vocale tramite l’Assistente
Google. Inoltre, il TV ha la certificazione
“Works with Alexa”, quindi può essere
abbinato a un dispositivo compatibile con
l’assistente di Amazon, come gli Amazon
Echo.
Nonostante Philips ne comunichi la dispo-
nibilità nel nostro Paese, per il momento
non ha ancora indicato il prezzo italiano.
di Pasquale xxx
L a registrazione di alcuni marchi
commerciali in Europa ha sollevato
parzialmente i veli sui piani futuri di
Samsung per i suoi pannelli TV e moni-
tor. Le parole d’ordine sono: “Zero Bezel”,
“Infinity Screen” e soprattutto “Dual LED”,
che potrebbe indicare lo sviluppo di pan-
nelli con doppio LCD. Il termine “Zero
Bezel” è stato registrato presso l’EUIPO
(European Union Intellectual Property Of-
fice) sia per il settore TV sia per quello dei
monitor; mentre “Infinity Screen” e “Dual
LED” saranno un’esclusiva dei prossimi
TV Samsung. La sensazione è che Zero
Bezel e Infinity Screen (così affine all’In-
finity-O degli smartphone) troveranno
la loro ragion d’essere nel campo del
design: potendo immaginare qualcosa
che riguardi l’estensione dello schermo
in rapporto alla cornice. Per Dual LED il
discorso si fa più interessante e richiama
immediatamente novità tecniche.
Non due LED ma due LCD?È di qualche settimana fa l’indiscrezione
TV E VIDEO Samsung registra tre marchi commerciali in Europa e rivela il nome di “Dual LED”
Samsung ha in mano il marchio “Dual LED” Sarà pronta ad annunciare la sua idea di doppio LCD?Forse è la sua versione della tecnologia a doppio LCD, già presentata da Hisense e Panasonic
circa un investimento
di 11 miliardi di dollari
da parte di Samsung
per il rinnovo delle
linee produttive dei
due stabilimenti di
produzione coreani. Si
è parlato di LCD futuri,
ma anche di una ri-
conversione di alcune
linee alla tecnologia
QD-OLED, che però ha dato non poche
gatte da pelare a Samsung.Dual LED però potrebbe identificare la
progettazione da parte di Samsung di
pannelli con doppio LCD: tecnologia
che è in fase avanzata di esplorazione
sia da parte di Hisense, con i suoi Uled XD TV presentati a gennaio al CES
2019, e da Panasonic, che all’IFA 2019 ci
ha mostrato il suo prototipo Megacon.
Il pannello a doppio LCD prevede la vi-
cinanza di due matrici LCD, una a colori
anteriore e una monocromatica poste-
riore, che nella coppia svolge il ruolo
di “otturatore” per la matrice colorata.
Questa ibridazione dovrebbe garantire
un microdimming pixel per pixel ana-
logo a quello dell’OLED. Una vera è
propria commistione tra LCD e OLED.
Al momento, l’unico limite concreto
della tecnologia sembra essere il con-
sumo di corrente, con Panasonic che
pare essere in netto vantaggio rispetto
a Hisense. Insomma, se con il Dual LED
Samsung potrebbe apportare significativi
miglioramenti tecnologici, le “zero corni-
ci” potrebbero invece strizzare l’occhio ai
consumatori più attenti allo stile del TV.
Inoltre, l’assottigliamento delle cornici è
sempre di grande richiamo.
In arrivo multe contro il pezzotto. De Siervo: “Da 2.500 a 25mila euro per tantissimi utenti”In un’intervista, l’AD della Lega Serie A, Luigi De Siervo, ha preannunciato l’arrivo dei primi provvedimenti amministrativi. Apertura con il canale Mediapro di Pasquale AGIZZA
Da 2.500 a 25mila euro. Sono questi gli importi delle multe che raggiungeranno i fruitori delle IPTV illegali (il famigerato pezzotto) piz-zicati nelle recenti operazioni della Guardia di Finanza. A preannun-ciarlo è Luigi De Siervo, ammini-stratore delegato della Lega Serie A, durante un’intervista a una emit-tente radio campana.“Nelle prossime ore arriveranno multe da 2.500 a 25mila euro per tantissimi utenti. Il consumo digita-le di prodotti illegali - ha detto De Siervo - lascia delle impronte che danno la possibilità di ricostruire al contrario il flusso del file consu-mato, dunque restano tracce inde-lebili per gli inquirenti”. De Siervo apre ancora una volta le porte al-l’idea di un canale tematico della Lega, in collaborazione con il grup-po audiovisivo spagnolo Media-pro. La società spagnola ha fatto un’offerta per 1,23 miliardi di euro a stagione. “Mediapro non ha for-mulato nessuna offerta d’acquisto per i diritti, ma stiamo valutando insieme l’opportunità di creare un canale tematico” ha commentato De Siervo. “La Lega di Serie A è pronta ad indire un nuovo bando nelle prossime settimane, nel caso in cui i risultati del bando originale
torna al sommario 12
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Alessandro CUCCA
TCL stupisce tutti mostrando un
primo prototipo di smartphone
pieghevole, che però va oltre il
Galaxy Fold e il Mate X, ed è in grado
di piegarsi non una, ma ben due volte,
ovvero in tre parti. TCL, marchio noto in
Italia per i display e televisori, in realtà
produce anche smartphone con marchi
meglio noti come Alcatel, BlackBerry
e Palm e pare si stia focalizzando in
maniera particolare proprio sui dispo-
sitivi ripiegabili. Il prototipo presentato
va oltre quanto già visto e infatti una
volta aperto completamente risulta un
normale tablet da 10 pollici. Piegandosi
due volte in tre parti il tablet torna ad
essere smartphone, a tutto vantaggio
della praticità e comodità di trasporto.
Interessante la possibilità di utilizzo che
lo vede, una volta aperto completamen-
te, usare un terzo dello schermo come
tastiera digitale dello schermo princi-
pale, come se fosse un piccolo tablet
MOBILE TCL stupisce tutti e amplia la sua collezione di apparecchi con sistema DragonHinge
Il prototipo di smartphone TCL si piega in 3Il prototipo di smartphone si ripiega in tre parti e una volta aperto diventa un tablet da 10 pollici
con tastiera inclusa.Per fare questo, il
prototipo ha due cerniere di tipo Dra-
gonHinge (il sistema brevettato da TCL
che permette di piegare lo schermo
in entrambe le direzioni) e ovviamen-
te uno schermo OLED di produzione
interna a TCL che si chiude una volta
verso l’interno, come il Galaxy Fold, e
una volta verso l’esterno facendo sì che
tutto l’apparecchio si pieghi come una
fisarmonica. In questo modo un terzo
dello schermo totale rimane sempre a
vista esternamente come in un norma-
le smartphone. L’oggetto visto finora è
solo un prototipo non-funzionante, una
specie di esercizio di stile, ma che nel-
l’idea di TCL sarà in grado di ospitare
4 fotocamere esterne, una fotocamera
interna per i selfie e il connettore di tipo
USB-C. Detto questo non è stata annun-
ciata nessuna data di rilascio né un ipo-
tetico prezzo di lancio, anche se è molto
probabile che TCL porterà sugli scaffali
questo rivoluzionario prodotto.
di Alessandro CUCCA
Oppo lancia sul mercato europeo il
nuovo smartphone A9, un prodotto
pensato e dedicato ai giovani che
sono molto attenti al comparto fotografi-
co pur interessati a un prodotto dal prez-
zo contenuto, che sarà di 249 euro. Oppo
A9 2020 infatti, vanta un sistema fotogra-
fico basato su una “quadrupla” fotocame-
ra posteriore con risoluzione massima di
48 MP, e una fotocamera anteriore da 16
MP. Il blocco posteriore è composto dalla
fotocamera principale da 48 MP, unito a
una fotocamera grandangolare da 8MP
a cui si aggiungono una monocromatica
da 2MP e una lente ritratto anch’essa da
2 MP. Con questo sistema il nuovo Oppo
A9 può scattare alla risoluzione massima
di 48 MP, e paesaggi grandangolari ampi
119°, mentre le 2 lenti aggiuntive permet-
tono di ottenere ritratti di grande qualità
e con effetti interessanti. Per queste foto
è disponibile anche la nuova modalità
Ultra Night Mode 2.0, per scattare foto
molto luminose anche di notte e anche in
MOBILE Arriva in Italia a 249 euro il nuovo OPPO A9 2020 con una batteria da 5.000 mAh
Oppo A9 2020, batteria da 5.000 mAh e cam da 48 MPLa fotocamera ha una risoluzione massima fino a 48 MP. Oppo A9 2020 costerà 249 euro
modalità panorama. Per chi
vuole invece scattare foto o
girare video d’azione men-
tre si trova in auto o sta cor-
rendo c’è anche un ottimo
sistema di stabilizzazione,
che funziona combinando
il sensore EIS (Electronic
Image Stabilization) con una
tecnologia smart e un giro-
scopio interno. Oppo A9
2020 arriva quindi in Italia a
249 euro, con 4GB di RAM
e 128GB di memoria di archiviazione e in
due colorazioni: Marine Green e Space
Purple. L’altro punto di forza è la batteria
molto capiente, da 5.000 mAh, che per-
mette ben 19 ore di utilizzo e anche la
ricarica inversa di altri apparecchi tramite
cavo. Il processore è lo Snapdragon 665:
un processore octacore a 64 bit che mi-
gliora del 40% le perfomance della CPU,
rispetto alla generazione precedente, e
di oltre il 100% quelle della GPU. Il display
è da 6,5” con l’89% di rapporto corpo/
schermo protetto da Gorilla Glass 3+ che
è ben visibile anche in condizioni di luce
elevata. Il nuovo smartphone Oppo è do-
tato di due altoparlanti, della tecnologia
Dolby Atmos® e della certificazione Hi-
Res Audio. Il tutto gestito dalla versione
6 di ColorOS, basata su Android 9.0, e
garantisce tutti i sistemi di sblocco tipici
degli smartphone Oppo, come riconosci-
mento facciale e sblocco con riconosci-
mento dell’impronta, l’assistente smart e
la navigazione con le gesture.
Galaxy M30s arriva in Italia Super batteria da 6.000 mAh e tre fotocamere posterioriDopo il lancio nel mercato indiano, Samsung Galaxy M30s è arrivato anche in Italia, in esclusiva con Amazon. Promette un’autonomia di primo livello di Riccardo DANZO
Samsung Galaxy M30s è ufficial-mente arrivato anche in Italia ed è attualmente in vendita solo su Amazon. Pur essendo un disposi-tivo di fascia medio-bassa, Galaxy M30s ha delle caratteristiche tecni-che di tutto rispetto. In particolare, si fa notare la batteria da 6.000 mAh, Lo schermo è un SuperAMO-LED Full HD+ da 6,4 pollici e una memoria interna da 64 GB espan-dibile con microSD fino a 512 GB. La RAM, invece, si ferma a 4 GB.Anche le tre fotocamere poste sul retro dovrebbero garantire una di-screta qualità. Il sensore principale da 48 MP (f/2.0) è affiancato da obiettivo ultragrandangolare (con un angolo di visione da 123 gradi) da 8 MP con apertura f/2.2 e da un sensore da 5 MP che consente di regolare la profondità di campo al meglio durante lo scatto. Per quan-to riguarda la fotocamera anterio-re, invece, Samsung ha montato un modulo da 16 MP con apertura f/2.0. Presenti, infine, il lettore di impronte digitali sul retro per lo sblocco del dispositivo e il pro-cessore Exynos 9611 octa-core da 2,3 GHz. Samsung Galaxy M30s è disponibile in tre colorazioni (nero, bianco e blu) su Amazon al prezzo di 259 euro. Presto sarà possibile acquistarlo anche tramite il sito uf-ficiale di Samsung.
torna al sommario 13
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Massimilano DI MARCO
L ’impietosa situazione della fascia bas-
sa e medio-bassa degli smartphone:
distinguere i prodotti l’uno dall’altro
sta diventando una missione sempre
difficile, ai limiti dell’impossibile. Motoro-
la ha annunciato tre nuovi smartphone:
Moto E6 Play, Moto G8 Plus e Moto One
Macro. A guardarli da vicino, però, si fa
fatica a distinguerli, per esempio, dai Re-
dmi o gli Honor di prezzo equivalente. Te-
nendo in mano i tre smartphone, allora,
non si riesce a capire in cosa Motorola
possa aver tentato di distinguere questi
terminali. Il design a tutto schermo con la
“mini tacca” a goccia è ormai la soluzione
più usata in questo segmento e anche la
fotocamera principale da 48 MP di Moto
G8 Plus non fa più la differenza: Redmi si
è spinta persino fino a 64 megapixel se
vogliamo perseguire questa strada. One
Macro punta, come il nome lascia ben a
intendere, sulle fotografie macro grazie
a un sensore dedicato da 2 megapixel
(f/2.2), che quanto meno dà un valore
aggiunto all’esperienza d’uso e potrebbe
dargli una spinta in più in un segmento
incredibilmente uniformato.
Né Moto E6 Play né One Macro sono compatibili con Wi-Fi 5Per il resto, siamo di fronte a smartpho-
ne estremamente canonici. E6 Play
viene proposto a 119 euro con schermo
da 5,5” HD+, 2 GB di RAM, 64 GB di
archiviazione (espandibile) e proces-
sore MediaTek MT6739. La fotocamera
posteriore da 13 megapixel. A questo
prezzo è probabilmente il massimo che
si poteva fare, ma va detto che sugli
aggiornamenti di sistema Motorola ha
MOBILE Tre modelli per la fascia bassa e medio-bassa: Moto E6 Play, Moto G8 Plus e Moto One Macro
Motorola ha deciso di rilanciarsi in Europa Ma i tre nuovi smartphone sanno di già vistoLa casa vuole rilanciarsi sul mercato europeo, ma i tre dispositivi sono davvero poco originali
una marcia in più rispetto ai concorren-
ti cinesi presenti in questo segmento
commerciale. Valore aggiunto che non
va sottovalutato.
Dove la questione si fa più critica è in
Moto G8 Plus e One Macro. Si fa più
critica perché la concorrenza tra i 200
e i 299 euro è molto più agguerrita
nonché apprezzata. One Macro costa
209 euro e si fa forza, come anticipato,
del sensore da 2 megapixel destinato
alle fotografie macro con una messa a
fuoco che arriva a 2 cm. Proposta che
può essere interessante, ma la qualità
di un simile sensore in questa fascia di
prezzo è tutta da valutare. La fotocame-
ra principale, dotata di messa a fuoco
automatica a rilevamento di fase, ha in
dote una risoluzione di 13 megapixel
(f/2.0); quella frontale, invece, si ferma
a 8 megapixel. L’hardware è il minimo
indispensabile: schermo da 6,2” HD+,
processore MediaTek Helio P70, 4 GB di
RAM e 64 GB di archiviazione (espan-
dibile) e batteria da 4.000 mAh con
ricarica rapida a 10 W. Stona fortissimo
la mancanza di compatibilità con Wi-Fi
802.11 ac (ora noto come Wi-Fi 5) di One
Macro ed E6 Play.
Infine, Moto G8 Plus,
che viene venduto
al prezzo di listino di
269 euro. Rispetto
agli altri due ha uno
schermo Full HD+
da 6,3” e adotta uno
Snapdragon 665,
alzando la posta in
gioco. La fotocamera
posteriore ha quattro
sensori: due obiettivi,
uno da 48 megapixel
(f/1.7) e uno ultragran-
dangolare da 16 megapixel (f/2.2), un
sensore di profondità da 5 megapixel e
l’autofocus laser. Completano la scheda
tecnica 4 GB di RAM e 64 GB di archi-
viazione (espandibile) e una batteria da
4.000 mAh compatibile con la ricarica
rapida. Tutti e tre gli smartphone saran-
no disponibili da novembre.
Motorola poteva giocare la carta Android 10Il valore aggiunto della gamma Motoro-
la, lo abbiamo anticipato, è il software:
l’Android di Google in versione “pura”;
le principali (ma pur sempre minime)
personalizzazioni applicate dalla casa
(parte del gruppo Lenovo) sono sul ver-
sante fotocamera. Su questo versante,
Motorola avrebbe potuto spingere ulte-
riormente adottando Android 10. Inve-
ce, Moto E6 Play, Moto G8 Plus e Moto
One Macro si fermano ad Android 9 Pie,
ossia la versione dello scorso anno. La
concorrenza della fascia bassa e me-
dio-bassa è sicuramente quella più ag-
guerrita: tirare 10-20 euro sul prezzo di
listino significa andare a limare ancora
di più margine di profitto già molto bassi
ed è quindi molto difficile. In particolare
Xiaomi, con una vastissima gamma di
prodotti Redmi, copre questo segmen-
to commerciale con prodotti per tutte le
tasche e ha quindi ulteriormente stres-
sato una situazione commerciale molto
complessa. Durante la presentazione,
Carlo Barlocco, direttore esecutivo di
Motorola Europe Expansion, ha parlato
di un mercato europeo che, per Motoro-
la, “era appannato” e che ora deve es-
sere rilanciato per portarlo ai livelli po-
sitivi registrati, per esempio, in America
Latina. Come inizio del rilancio, però, è
ancora ben poco convincente.
Il nuovo Motorola Razr svelato in anteprima. Identico design dell’originaleIl Motorola Razr con schermo pieghevole sarà presentato il 13 novembre, ma la sorpresa è stata rovinata: eccolo nella prima foto di anteprima. Avrà anche un tasto fisico di Massimiliano DI MARCO
Motorola Razr non avrà soltanto il nome del telefono a conchiglia che ha segnato i tempi. Il nuovo modello, che sfrutterà, secondo le indiscrezioni, uno schermo pie-ghevole, avrà anche l’estetica della versione originale. Lo dimostrereb-be un’immagine pubblicata in an-teprima su Twitter da Evan Blass, generalmente affidabile. Anche Mobielkopen ha pubblicato alcune foto di anteprima, aggiungendo alcune specifiche tecniche: scher-mo da 6,2”, processore Snapdra-gon 710 e batteria da 2.730 mAh. L’evento di presentazione del nuo-vo Motorola Razr è in programma il 13 novembre. A giudicare dall’unica fotografia, il nuovo Motorola Razr avrà anche un tasto fisico, dispo-nibile anche a smartphone chiuso. Sotto tale tasto fisico, potrebbe celarsi anche un lettore d’impron-te digitali. Se le voci di corridoio fossero confermate, Motorola Razr sarebbe commercializzato a circa 1.500 dollari. A un simile prezzo sarebbe molto difficile posizionare il nuovo Razr come una proposta commerciale concreta da lanciare nei negozi, soprattutto perché i dispositivi pieghevoli (chiedete a Samsung o a Huawei) hanno anco-ra tanto da dimostrare.
torna al sommario 14
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
È davvero necessario rilasciare ogni anno un nuo-
vo iOS o un nuovo macOS? Se lo chiedete ad
uno sviluppatore Apple probabilmente risponde-
rà di no, se lo chiedete ad un uomo di marketing la
risposta non può che essere positiva: per continuare
a vendere nuovi modelli servono nuove funzioni, e le
nuove funzioni richiedono nuovo software. E il softwa-
re, lo sappiamo, può avere dei bug. Che nel caso di
macOS Catalina o iOS 13 sono tanti, troppi.
Soprattutto se ci troviamo davanti a sistemi operativi
complessi come quelli dei Device Apple, che sono
passati dalle 100.000 righe di codice di dieci anni fa
alle decine di milioni di righe di codice di oggi. Sistemi
come iOS e macOS - ma questo vale anche per tutti
gli altri sistemi operativi - sono diventati ormai fragilis-
simi castelli di carte: la chiusura di un singolo bug può
aprirne altri dieci, con una reazione a catena che se
non viene fermata in tempo diventa inarrestabile.
Una problematica che vale per tutte le aziende che
devono oggi gestire software, vale per Google e vale
per Microsoft, ma per Apple la sfida è particolarmen-
te difficile perché è lei a creare il software e l’hard-
ware, e non può certo scaricare la responsabilità o
condividerla con altri. Oltre a questo, Apple vanta un
ecosistema invidiabile, che con il passare del tempo
abbraccia sempre più dispositivi e scenari, ognuno
dei quali è un potenziale rischio. Più funzioni e un nu-
mero sempre maggiore di dispositivi vuol dire mag-
gior rischio di bug, molti dei quali rischiano di restare
“bug” a vita perché nessuno mai si prenderà cura di
sistemarli, sempre che non siano gravi sul fronte delle
funzionalità o della sicurezza. La divisione software di
Apple sta vivendo un momento difficilissimo, perché il
numero di bug segnalati sia sui forum di supporto sia
da coloro che hanno partecipato alle open beta delle
MOBILE Apple non aveva mai rilasciato finora un sistema operativo con tanti bug come quelli di iOS 13 o macOS Catalina
Troppe novità, troppi dispositivi, troppo ecosistema Apple perde il controllo sulla qualità del softwareTroppe funzioni, troppi dispositivi e un ecosistema ormai diventato enorme stanno creando all’azienda non pochi problemi
ultime release continua a crescere anziché diminuire.
Apple ha sempre fatto della qualità e della stabilità
dei suoi sistemi un vanto, e deve rapidamente trova-
re una soluzione per invertire questa rotta che, con
il passare del tempo, rischia davvero di danneggiare
anni di buona reputazione. Già lo scorso anno se ne
era resa conto: con iOS 12 ha lavorato quasi esclu-
sivamente su bug fix e miglioramenti di prestazioni,
senza aggiungere nuove carte al fragile castello. iOS
13 invece torna ad aggiungere, e aggiunge tanto, for-
se troppo.
I limiti di un sistema di tracciamento dei bug automaticoA raccontare quanto sia un momento delicato per
la divisione software di Apple ci ha pensato David
Shayer, un ingegnere software che ha lavorato per 18
anni in Apple prima sull’iPod, poi sull’ Apple Watch e
infine su Radar, il sistema di bug tracking di Apple.
Shayer ha elencato sei motivi che hanno por-tato al rilascio di due sistemi operativi, iOS 13
e macOS Catalina, con
così tanti bug, una cosa
insolita per Apple.
Il primo dei motivi è
molto semplice: Apple
non si accorge di tutti i
bug. Quando un uten-
te sceglie di inviare ad
Apple automaticamente
il report dei bug, cosa
che consigliamo di fare
perché va a vantaggio
di tutti gli utenti, l’iPhone
invia un report ai server
dell’azienda di Cupertino
solo se c’è un crash. Questo report si chiama “stack
trace”, e indica perché c’è stato un crash dell’inter-
faccia, dell’app o del kernel e cosa ha causato quel
crash. Grazie alla traccia lo sviluppatore ha disposi-
zione tutti gli elementi per ricostruire le stesse con-
dizioni dell’utente che lo ha segnalato, trovare il bug
e correggerlo.
Quando il server che gestisce i bug si accorge che ci
sono tanti report sullo stesso crash con una traccia
che coincide, quel particolare bug viene marcato di al-
tissima priorità e risolto subito. Secondo David Shayer,
Apple ha dato istruzioni ben precise agli sviluppatori:
i bug che portano ad un crash devono essere siste-
mati il prima possibile, perché il loro manifestarsi in
modo evidente è poco “Apple”. Una applicazione che
si chiude senza motivo non deve esistere. È proprio
per questo che storicamente macOS non ha avuto i
problemi stile “blu screen” di Windows: i bug che cau-
sano crash vengono corretti subito.
Tuttavia il sistema che segnala questi bug pericolosi
in modo totalmente automatico non può far nulla con-
tro quei bug che non portano ad un problema eviden-
te: un bluetooth che non si collega, un copia e incolla
tra Mac e iPhone che non funziona o un problema di
interfaccia sono totalmente invisibili al sistema auto-
matico. L’utente se ne accorge, lo segnala ma non esi-
ste una traccia e tante volte molti utenti, di fronte ad
un bug, non perdono nemmeno il tempo per segna-
larlo. Apple per raccogliere le segnalazioni di questi
bug utilizza i modi classici: si raccolgono le lamentele
nei negozi, sui forum di supporto, dai partner e da-
gli sviluppatori e poi si cerca di replicare questo bug,
ma non sempre si riesce. È difficile, anche per noi su
DDay.it tante volte, figuriamoci su una architettura sof-
tware complessa come quella di Cupertino.
segue a pagina 15
torna al sommario 15
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
Le beta “ingessate” e i bug “rari”Il secondo motivo è invece legato alla scala di priorità.
Quando si programma una nuova release di sistema
operativo, fino a quando il software è in fase “alpha”,
ovvero è da poco iniziato lo sviluppo, c’è la piena
libertà di intervenire su ogni aspetto, correggendo
ogni tipo di bug. Uno sviluppatore trova un bug e può
chiuderlo in autonomia, anche se questo “fix” può
avere ripercussioni con altro. Il tempo per interveni-
re c’è, è un rischio che si può correre. Ma quando si
passa alla fase beta, a pochi mesi dal lancio, solo i
bug delle funzioni più importanti e quelli che blocca-
no le funzioni dei dispositivi pubblicizzati come no-
vità vengono gestiti. Su iOS 13.2, ad esempio, Deep
Fusion è una di quelle funzioni ad alta priorità e deve
funzionare: era stato promesso e deve uscire senza
bug. Tutto il resto passa in secondo piano, e più ci si
avvicina alla data di rilascio dell’aggiornamento o del
sistema operativo, fissata da tempo e con un basso
margine di rinvio, solo i bug che causano una perdita
di dati o crash vengono sistemati.
Tutti gli altri restano nel sistema di bug tracking, e
vengono assegnati alla release successiva. Un modo
di lavorare sensato: con la complessi-
tà dei software di oggi, come abbiamo
detto prima, c’è il rischio che chiudere
anche un bug piccolo a pochi giorni
dal rilascio di una versione nuova
possa portare ad un numero enorme
di altri bug, la reazione a catena che è
gestibile solo in una fase preliminare,
non certo la sera prima del rilascio.
In Apple è fondamentale il rapporto
con i clienti, e proprio per questo se
gli Apple Store o i callcenter ricevono
molte telefonate riguardo ad un pro-
blema specifico questo problema en-
tra in una lista ad altissima priorità, de-
v’essere sistemato. Assistere i clienti
negli Apple Store, o rispondere alle
telefonate, ha un costo in termini di
risorse usate più alto rispetto al tem-
po richiesto a un paio di sviluppatori
per risolvere il problema. Questa politica di priorità,
dove solo i bug più visibili e comuni perché segnalati
dagli utenti vengono gestiti con la massima urgenza,
ha però un rovescio della medaglia: i bug più rari, o
quelli relativi a funzioni meno usate, restano sempre
in fondo alla lista. E vengono ignorati, magari per
sempre.
Priorità alle regressioni: piccoli bug diventano “cronici”David Shayer spiega perché molti bug presenti in più
versioni di iOS o macOS non sono ancora stati cor-
retti. Oltre ai bug ad alta priorità citati prima, infatti,
esiste solo un altro tipo di bug che Apple chiede ai
suoi ingegneri software di sistemare: “le regressio-
ni”. Una “regression”, nel linguaggio degli sviluppa-
tori, è una funzione specifica che viene “rotta” nel
tentativo di chiudere un altro bug.
Tutto quello che non è regressione è opzionale:
quando un responsabile della qualità riceve la se-
gnalazione di un bug, e si accorge che quel bug c’era
già anche nelle versioni precedenti, viene marchiato
come “not a regression”. Non è un nuovo bug, c’era
già, non era prioritario prima e quindi non è necessa-
rio chiuderlo, almeno per ora. Ma così facendo molti
di questi non vengono mai chiusi: oggi esistono al-
cuni bug di funzioni usate poco, secondarie, presenti
da anni su macOS e iOS. Shayer racconta che non
tutti i gruppi di sviluppo lavorano con questa politica,
alcuni che si occupano di funzioni specifiche sono
più attenti, ma chi lavora sulle cose grosse, come
Mail, Safari o le funzioni core di iOS e macOS deve
rispettare le priorità.
La difficoltà di gestire una complessità in aumento esponenziale senza potersi fermare maiGestire un ecosistema in crescita come quello di Ap-
ple, anche avendo a disposizione un budget enorme
per lo sviluppo e con i migliori sviluppatori al mondo
è un vero e proprio incubo, perché chi scrive softwa-
re è pur sempre un uomo, e l’uomo può sbagliare.
Anche senza accorgersene, ed è per questo che si
sta lavorando sul machine learning e sul deep lear-
ning cercando di spiegare ai computer come scrive-
re codice, e soprattutto come aiutare nel debug di
codici che diventano sempre più complessi. Anni fa
c’erano processori con un solo core, quindi un solo
thread, controllati da sistemi operativi snelli e senza
troppe interazioni con l’esterno. Oggi Apple deve
fare i conti con diverse versioni di software dotati di
diverse funzioni ognuna delle quali va installata su
diversi prodotti e interagisce con altri prodotti di ter-
zi. Una matrice complessa, quasi infinita, che rende
impossibile la scrittura di una suite di test completa.
E, anche se esistesse un modo per eseguire un test
automatico di tutte le funzioni, ci sarebbe da fare i
conti con le difficoltà di automatizzare i test di inte-
razione con il mondo esterno, dalle notifiche push
alla latenza della rete. Non sussistono per Apple le
condizioni per poter lavorare nel modo in cui può
lavorare una azienda software classica. Sicuramente
Apple è consapevole del problema, e sta cercando
di trovare una soluzione a tutto questo, ma il mercato
veloce e il product planning non aiutano. Perché se
gli ingegneri software hanno di fronte a loro un elen-
co lungo di bug da chiudere, con tanti di questi che
sono fermi da anni, chi deve vendere e promuovere
sta già guardando al futuro e spinge verso questo
futuro. L’ideale sarebbe fermare tutto, chiudere ogni
bug segnalato in questi anni e poi ripartire, magari
con un buon refactoring (riscrittura) di alcune funzio-
ni che ancora sono scritte in Objective C in Swift.
Il linguaggio creato di recente da Apple, per la sua
struttura e la sua logica, facilita allo sviluppatore la
vita perché è più difficile commettere errori. Apple
però non si può fermare, e David Shayer raccon-
ta di come gli sviluppatori software e gli ingegneri
del controllo qualità lavorino di giorno, di notte e
nei weekend per rispettare le scadenze. Perché le
funzioni promesse in un keynote non possono esse-
re posticipate, e questo vale per i sistemi operativi
come per le app. iOS 13 non poteva uscire a dicem-
bre: è uscito a settembre, e il risultato è il rilascio di
un sistema operativo che per il numero di funzioni
previste avrebbe avuto bisogno di qualche mese in
più di lavoro. Microsoft ha avuto la giusta intuizione,
gestendo i rilasci di Windows 10 in modalità progres-
siva senza grosse major release, ma anche Microsoft
ha avuto i suoi problemi, aggiornamenti pieni di bug,
aggiornamenti che bloccavano i compu-
ter e tanto altro. Più andiamo avanti, più
crescono le funzioni e le linee di codice e
più aumenta la probabilità di creare bug,
e questo vale per tutti. Bug che per esse-
re chiusi rischiano di aprire altri bug.
La ricerca di una soluzione per Apple è
delicata, perché si deve trovare l’equi-
librio tra quelle che sono due reali ne-
cessità. Da una parte mantenere alta la
percezione di qualità del software, quin-
di pochi bug e tanta velocità, dall’altra
mantenere alta l’attenzione sul marchio
a colpi di prodotti innovativi e nuove
funzionalità. Si potrebbe separare il lan-
cio di iOS o macOS dall’aggiornamento
di tutte le app: ogni volta che aggiorna
iOS Apple aggiorna anche molte delle
sue applicazioni, al contrario di Google
che quando rilascia una nuova versione
di Android integra nella release solo le funzionalità
del sistema operativo, con le varie applicazioni, da
Gmail a Chrome, che vengono progressivamente
aggiornate durante l’anno quando serve, anche per
correggere un bug piccolo, tramite Play Store. Op-
pure si potrebbe rallentare un po’: il rilascio annuale
dell’aggiornamento di tutte le piattaforme, che coin-
cide con il keynote alla WWDC, è più una esigenza
di marketing e “spettacolo” che una esigenza reale.
Ma un rallentamento sarà inevitabile, perché i bug
ora sono davvero troppi e non è una situazione che
si risolve assumendo migliaia di sviluppatori freschi
di università, per certe cose serve esperienza. E tem-
po, altrimenti il castello di carte crolla, e con lui una
reputazione, meritata, guadagnata in anni di lavoro.
MOBILE
Apple sta perdendo il controllo sulla qualità del softwaresegue Da pagina 14
210x297_LG_Oled_New.pdf 1 20/05/19 10:16
torna al sommario 17
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
M icrosoft ci aveva già provato con Windows RT
e Surface RT: era il 2013, erano i primi anni di
Surface e Windows in versione ARM era, inutile
girarci attorno, un vero disastro.
Oggi i tempi sono cambiati: ARM, con i suoi processo-
ri, sta dominando il mercato della mobilità e l’utilizzo di
questa architettura ha permesso di superare quei limiti
storicamente imposti dalla presenza di un processore
Intel. Un iPad Pro non solo riesce ad essere più sottile
e leggero delle soluzioni simili basate su Windows, ma
gode anche di una autonomia enorme e di una con-
nessione always on. E poi c’è Windows: Windows 10 on
Snapdragon funziona, è veloce, la compatibilità con le
applicazioni sia a 32 bit sia a 64 bit (ma devono essere
compilate per ARM, no in emulazione) è cresciuta e oggi
non sono tante per applicazioni che, su una soluzione
simile, non girano o si bloccano. Ci sono, e ci saranno
sempre, ma si tratta quasi esclusivamente di applicativi
legati alla produttività o di giochi che non rientrano in
quelli che sono i casi di utilizzo tipici di un 2 in 1. Prendi
la filosofia di Surface, un processore ARM realizzato ap-
positamente da Qualcomm per Microsoft chiamato SQ1,
un sistema operativo come Windows 10 ulteriormente
ottimizzato e con driver dedicati ed ecco che esce Surfa-
ce Pro X, il futuro dei 2 in 1 secondo Microsoft. Il classico
Surface Pro non scompare, è appena arrivato alla ver-
sione 7, ma di fianco al nuovo Pro X sembra incredibil-
mente vecchio, superato. Surface Pro X, siamo stati i pri-
mi a toccarlo con mano ieri, non è ancora una versione
definitiva quindi non ci è stato permesso né fotografare
la configurazione hardware e neppure fare prove di pre-
stazioni. Abbiamo solo potuto giocarci un po’, e in tutta
onestà sembra di trovarsi davanti ad un Surface tradizio-
nale se si guardano la fluidità del sistema e la velocità di
apertura delle singole applicazioni.
Il lato prestazioni, soprattutto per quelle applicazioni che
non sono native, sarà valutato attentamente in fase di
recensione non appena Microsoft ci darà un campione.
Da quanto avevamo potuto vedere lo scorso anno allo
Snapdragon Summit di Qualcomm il C8X, processore
dal quale è derivato il Microsoft SQ1 con GPU Adreno
685 era decisamente più veloce di tutte le precedenti
generazioni di processori ARM per Windows e riusciva a
gestire senza problemi anche applicazioni impegnative
come quelle della suite Adobe. Sul prodotto Microsoft
c’è una versione ancora più evoluta e personalizzata,
per la quale Microsoft ha pure adattato e ottimizzato
Windows 10.
Il sistema operativo e i suoi driver, il browser edge e la
suite Office sono ovviamente compilati per ARM e gira-
no nativamente su Surface Pro X, le applicazioni scritte
per processori X86 vengono eseguite da un emulatore
che nella sua forma più aggiornata è compatibile con
le app a 32 bit. Per quelle a 64 bit c’è da aspettare un
PC Il nuovo 2 in 1 di Microsoft ha un look tutto nuovo e fresco, da far sembrare vecchio l’appena presentato Surface Pro 7
Abbiamo provato Microsoft Surface Pro X Tutto il resto, di colpo, sembra vecchioDopo Windows RT, Microsoft torna a guardare alle soluzioni ARM, che, con i suoi processori, domina il mercato della mobilità
po’. Sistema operativo a parte, oggi non è possibile fare
valutazioni, ci soffermiamo invece su quello che è il 2 in
1. Lo schermo da 13”, incastonato in una cornice sottilis-
sima, ha un angolo di visione, una luminosità e una riso-
luzione eccellente, 2880 x 1920 in formato 3:2. Non è
uno schermo HDR, ma sotto la luce diretta è ben visibile
con un filtro antiriflesso decisamente efficace: secondo
specifiche tocca i 450 nits e ovviamente è compatibile
con la penna Microsoft.
La scocca è leggera, sottile e si discosta come canone
stilistico dalle linee nette e marcate della gamma Surfa-
ce: per la prima volta di fianco agli spigoli compaiono
anche curve morbide, all’interno delle quali Microsoft
ha nascosto le due porte USB Type C e il connettore
Surface per la ricarica rapida. Anche Pro X non abban-
dona il connettore dedicato, al quale si può collegare la
docking opzionale: ci sarebbe piaciuta una deriva totale
verso USB Type C, ma almeno c’è coerenza. Non c’è lo
slot per la porta microSD, c’è invece una porta per acce-
dere all’SSD che può essere sostituito e c’è lo slot per la
nano SIM perché, sempre bene ricordarlo, la presenza
del processore Snapdragon oltre all’autonomia garanti-
sce anche la connettività LTE.
L’angolo di appoggio è garantito dalla classica cerniera
posteriore dei Surface, e la stessa logica 2 in 1 con le co-
ver tastiere si trova anche sul Pro X con una variante, ov-
vero la presenza della penna magnetica all’interno della
cover. Una soluzione intelligentissima che aiuta a non
perdere la penna, solitamente attaccata al bordo ester-
no, e soprattutto migliora il grip perché la penna non è
tonda, sembra più la classica matita da cantiere, piatta
e larga. La tastiera, apparentemente sacrificata, non è
poi così diversa da quella del Surface classico, anche se
non siamo amanti delle tastiere cover perché flettono
inevitabilmente sotto le dita di chi è abituato a preme-
re un po’ forte. Una considerazione infine sul nome. Lo
avremmo chiamato Surface X, un po’ perché rappre-
senta un incrocio tra la via tradizionale, quella Intel, e il
futuro, quello ARM based, un po’ perché ci sembra poco
“pro”. Il suffisso “Pro” si sposa bene con il resto della
gamma, dove un Adobe Premiere può essere usato per
fare rendering di video anche 4K e dove soluzioni per
la musica o il disegno sono di casa, ma non con questo
X, dove la scelta di un processore particolare potrebbe
porre diversi limiti sul fronte della produttività.
Il prezzo parte da 1169 euro per il 128 GB, e non sono in-
clusi né la penna e neppure la tastiera. Un prezzo che è
allineato a quello scelto da Apple per l’iPad Pro da 13” in
versione LTE, che costa 1459 euro con 256 GB. Surface
Pro X con 256 GB costa 1499 euro, e arriva a 1999 euro
nella sua versione più potente con 16 GB di RAM e 512
GB di storage. Un prezzo che cozza un po’ con quella
che era l’idea originale di Qualcomm per Windows con
Snapdragon, ovvero poter fornire prodotti connessi e
leggeri ad un prezzo accessibile a tutti. Oggi, i pochi pro-
dotti usciti sul mercato, sono prodotti premium. Surface
Pro X è una novità importante non solo per il sistema
Surface, ma per tutto il mondo Windows: i tempi per le
soluzioni ARM sono finalmente maturi. Qualcomm sorri-
de, Intel un po’ meno.
torna al sommario 18
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
Arriva in Italia la nuova gamma di dispositivi hard-
ware Microsoft: l’abbiamo toccata con mano,
partendo dal nuovo modello di Surface Pro
7 fino ad arrivare a Surface Laptop. Se la versione
da 13.5” del portatile di casa Microsoft ha avuto ri-
tocchi minimi, un trackpad leggermente più ampio,
finalmente la porta USB Type C, un rivestimento in
alcantara un po’ meno soffice e l’ovvio upgrade di
processori e memorie, la versione da 15” è stata rivi-
sta interamente.
Sparisce il rivestimento in alcantara, e la scocca nera
carbone ci mette davanti ad uno dei prodotti più belli
che sia mai uscito dal reparto hardware di Microsoft.
Il Surface Laptop 3 da 15” trasuda professionalità e
solidità: è costruito benissimo, con una scocca com-
pletamente in alluminio, non è pesantissimo (ma
neppure una piuma) ed è perfettamente bilanciato
nei pesi. Non c’è l’incavo per aprire il monitor, ma la
cerniera è talmente morbida che basta un dito per
rivalare lo schermo in rigoroso formato 3:2.
Per chi è Surface Laptop 15? La scocca nera e l’assenza del rivestimento in alcan-
tara potrebbero lasciar pensare che Microsoft abbia
deciso di posizionare il prodotto verso un pubblico
più “pro”, in realtà non ci troviamo davanti ad una
macchina per creatori di contenuti o per gamer. Le
specifiche tecniche non sono allineate a quelle dei
laptop che produttori come Asus o HP stanno propo-
nendo oggi per chi gioca o per chi fa editing spinto,
anche in 4K, e la soluzione Ryzen proposta per la pri-
ma volta da Microsoft sul taglio da 15” è una scelta
assolutamente valida per chi vuole un prodotto che
può destreggiarsi agevolmente in ogni tipo di appli-
cazione, purché non si chieda troppo.
Ryzen 5 o Ryzen 7, a seconda della configurazione
scelta dall’utente, viaggiano con la Radeon Vega 9 e
con la Radeon RX Vega 11 che sono comunque solu-
zioni di ben altro spessore se paragonate alla grafica
integrata Intel. Tra qualche settimana, quando riceve-
remo un esemplare, potremmo fare qualche analisi
prestazionale per capire dove possono arrivare, sia in
abito gaming sia in ambito produzione video, la cop-
PC Il nuovo nato di casa Microsoft offre uno schermo da 15” e una scocca nera accattivante e moderna. L’abbiamo toccato con mano
Anteprima di Microsoft Surface Laptop 3 15” La libertà di avere uno schermo più grandeAMD Ryzen è una fresca novità, lo schermo in formato 3:2 bellissimo. Ma qualche porta USB in più non ci sarebbe dispiaciuta
pia CPU – GPU proposta da AMD.
Lo schermo è in Pixel Sense Microsoft, buon rivesti-
mento antiriflesso e risoluzione adeguata, 2496 x
1664; c’è il supporto per la penna, che va acquistata
a parte. Notevole l’audio inserito sotto la tastiera, e
davvero bella anche la tastiera: rispetto a quella a
corsa breve dei MacBook e a quella che si flette leg-
germente sotto i polpastrelli del Surface Pro la tastie-
ra di Laptop 15 è ampia, confortevole, precisa.
L’assenza di alcantara sotto i palmi si sente, l’allu-
minio trasmette una sensazione di freddo, ma dob-
biamo dire che non ci dispiace affatto, il notebook
sembra più serio. Purtroppo, nella versione nera, va
letteralmente trattato con i guanti perché si riempie
di impronte.
Sulle prestazioni possiamo dire davvero poco, non
abbiamo avuto abbastanza tempo per giocarci, ma ci
sono alcuni aspetti che meritano una piccola critica.
Microsoft ha mantenuto ancora la sua porta di ricari-
ca proprietaria, questa volta con fast charging: se è
bello vedere il laptop che si carica molto velocemen-
te, era più bello vederlo caricare tramite un caricatore
USB Type C power delivery universale.
Connessioni un po’ povere, c’è solo USB Type C e USB classicaPerché è proprio nella parte “connettività” che que-
sto Surface Laptop 3 da 15” esce con le ossa un po’
rotte: ha solo una USB Type C e una USB classica, e
non ha neppure uno slot per le card di memoria. Non
c’è ovviamente Thunderbolt, è una soluzione Intel,
ma almeno quattro porte su un 15” sarebbero state
altamente gradite. Guardando in controluce la cor-
nice si vedono i sensori per l’autenticazione tramite
Windows Hello, soluzione questa sempre gradita. Dif-
ferenze tra il 15” e il 13.5”? La versione più piccola ha
uno schermo da 2256 x 1504 pixel, processori Intel e
modulo wireless Intel, che vuol dire anche Wi-fi 6 a
bordo: il 15” ha ancora Wi-fi 5, 802.11ac. Cambia ov-
viamente il rivestimento in alcantara e il processore,
sul 13.5” c’è Intel quad core di decima generazione.
Prezzi allineati, anzi forse più bassi della concorenzaPer il modello da 15” si parte da da 1.399 nella versio-
ne platino, Ryzen 5 con 8 GB di RAM e 128 GB di SSD.
Chi vuole 256 GB di storage deve spendere 1699
euro, ma si deve considerare che per la prima vol-
ta Microsoft permette di sostituire l’SSD anche dopo
aver acquistato il prodotto. Non può farlo l’utente (in
realtà si, ma Microsoft lo sconsiglia), ma si può fare
presso un centro di assistenza. Questa versione c’è
anche in nero, e sempre in nero c’è anche la versione
con 16 GB e 256 GB di SSD, Ryzen 5 e 1.899 euro di
listino. Poi c’è il top di gamma, Ryzen 7, 16 GB, 512
GB di storage e 2.349 euro: tanti, ma se guardiamo la
concorrenza, e ci riferiamo a Apple, il prezzo è asso-
lutamente allineato. Anzi, forse pure più basso.
torna al sommario 19
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Gianfranco GIARDINA
B elle novità in arrivo da Synology per i nuovi NAS
ma anche per quelli già venduti, a patto che sia-
no degli ultimi anni: è in arrivo la versione 7.0 di
Disk Station Manager, che aggiunge moltissime nuo-
ve interessanti funzioni che sonos tate spiegate alla
convention Synology 2020. La società infatti l’anno
prossimo si prepara a festeggiare i proprio 20 anni
dalla fondazione. Era in effetti un po’ che Synology
non rilasciava una “major release”, anche se l’attuale
6.2 di fatto ha portato di per sé, nelle varie sottorelea-
se, così tante ottimizzazioni da poter essere conside-
rata, a dispetto del numero identificativo, una pietra
miliare di DSM. Ora è tempo di cambiare e Synology
è riuscita a trovare altre aree di miglioramento nelle
funzionalità attribuibili a un NAS tanto da realizzare
DSM 7. Una versione che come prima cosa conferisce
al DSM, anche a parità di “ferro”, prestazioni decisa-
mente migliori, soprattutto nell’interfaccia Web.
Arriva Hybrid Share e il NAS diventa una super cache locale del cloudSynology ha già aggiunto la possibilità per alcuni dei
suoi modelli di configurare un SSD come cache di
scrittura e lettura veloce in un NAS con dischi rotativi.
Così, malgrado lo storage sia quello degli hard disk
tradizionali, la velocità del NAS è quella di un SSD,
che in realtà serve solo per le scritture temporanee.
Un sistema che in DSM 7 viene migliorato e diventa
più granulare, riuscendo a predire ancor meglio quale
file tenere nella chache SSD perché scritti recente-
mente o di maggior accesso abituale. Ma la grande
novità è la possibilità di aggiungere un nuovo livello
di “cache” (anche se è improprio chiamarla così): si
tratta della funzione Hybrid Share, grazie alla quale è
possibile costruire un volume logico presente sul NAS
che in realtà si appoggia a C2, il cloud di Synology,
per lo storage completo, mentre il NAS è utilizzato e
gestito automaticamente per ospitare i file di utilizzo
più frequente. In poche parole, si hanno i vantaggi di
PC Alla propria Convention, Synology ha approfondito le funzioni della nuova versione del proprio sistema operativo DSM
I NAS Synology ora sono ancora più “sicuri” Con DSM 7.0 sono una super-cache del cloudSynology è riuscita a trovare altre aree di miglioramento nelle funzionalità attribuibili a un NAS tanto da realizzare DSM 7
disaster recovery di un cloud esterno con tutti i van-
taggi di velocità e controllo di un cloud privato basa-
to su NAS. Un po’ come l’SSD fa per i dischi rotativi
all’interno del NAS, così il NAS fa per lo storage in
cloud. Questa funzione permette un disaster recovery
velocissimo, anche grazie a una nuova funzione che
permette di salvare l’intera configurazione di unità
condivise e utenti per un ripristino al volo anche su
altro NAS, anche con dischi di dimensione diversa:
infatti si può montare un un’unità “hybrid” d a 4 TB an-
che su un NAS con un solo disco da 1TB. La totalità dei
dati stanno in cloud mentre vengono tenuti sul disco
locale quelli più utilizzati. Il costo di C2 è in linea con i
più diffusi servizi cloud: 7 euro al mese per TB.
Active Insight, per controllare cos’è successo e scoprire cosa potrebbe succedereLa versione 7 del DSM si arricchisce anche di Active
Insight: si tratta di una sorta di pannello di controllo
analytics storico e in tempo reale di una serie molto
ampia di parametri di sistema sul NAS su quale gira e
su tutti gli altri NAS Synology in
linea e appartenenti al medesimo
proprietario. Il sistema è preditti-
vo: l’analisi di tutti i dati in tempo
reale, incrociata con la banca dati
di tutti i problemi noti, permette
di dare indicazioni anche in an-
ticipo sui fatti che un determi-
nato guasto possa manifestarsi.
Un’apposita app permette dii ri-
cevere tutte le notifiche in tempo
reale sullo smartphone, così da
poter intervenire con tempestivi-
tà in caso di problemi. Il collega-
mento con il cloud di “controllo”
di Synology, permette di avere tutte le informazioni
sugli ultimi stati di attività di un NAS anche quando
questo dovesse “morire” per un guasto: l’analisi dei
dati permette a un amministratore di sistema di capire
la gravità del guasto e comportarsi di conseguenza.
Addio Photo Station, arriva Synology PhotosSynology ha deciso di unire le funzioni di PhotoSta-
tion e quelle dell’applicazione Moments in Synology
Photos: si tratta di un sistema per archiviare, gestire e
condividere un gran numero di fotografie in maniera
comoda e pienamente funzionale.
Tutte le fotografie presenti nelle cartelle configurate
sono catalogate non solo sulla base della data di scat-
to ma anche di tutti gli altri dati EXIF. Inoltre, viene
fatto anche un riconoscimento dei volti per raggrup-
pare le foto con le stesse persone. La modalità di con-
divisione è stata poi ulteriormente semplificata, ren-
dendo i singoli album condivisibili liberamente o con
password ai propri contatti o anche solo a chiunque
possieda il link. L’interfaccia è stata poi decisamente
migliorata e resa più moderna. La versione 7 di Syno-
logy DSM dovrebbe essere lanciata in beta pubblica
a breve mentre la versione finale dovrebbe arrivare
nelle prime settimane del 2020.
Il login e l’apertura delle prime schermate, a parità di NAS, passando al DSM 7 prende un tempo dimezzato rispetto a quanto avviene con la DSM 6.2
torna al sommario 20
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Massimiliano DI MARCO
E lite Dragonfly è l’ultima fatica di HP
nel segmento business. Una fascia
di mercato che, in realtà, è molto
ampia: i professionisti possono essere
dirigenti di impresa, PR o fotografi. Allo-
ra, a chi si rivolge esattamente il nuovo
PC portatile di HP? Il processore adotta-
to ci dà una prima indicazione: gli Intel
Core vPro di ottava generazione da i3
a i7). Si tratta della gamma di CPU che
l’azienda destina al mondo professio-
nale, con una serie di funzioni (soprat-
tutto legate alla sicurezza) dedicate. Le
configurazioni hardware sposano fino
a 16 GB di RAM e 2 TB di SSD.
Di certo, è un gran bel portatile. Lo
abbiamo potuto provare brevemente
durante una presentazione dedicata. Il
lavoro fatto da HP per far sì che Elite
Dragonfly non sia un portatile business
qualunque è eccezionale. Il chassis in
alluminio ha permesso di ridurre il peso
a meno di un chilo (nella versione con la
batteria a 2 celle e un’autonomia stimata
di 16,5 ore). È compatibile con Wi-Fi 6 e
c’è anche l’opzione LTE. Due le opzioni
di riconoscimento biometrico: il lettore
d’impronte e la fotocamera a infrarossi.
Quest’ultima può anche essere coperta
tramite l’interruttore meccanico.
La tastiera è comoda e ha un doppio li-
vello di luminosità, selezionabile tramite
il tasto dedicato. Convincente anche il
touchpad, con un fattore di forma di 4:3
e facilmente a portata di indice per brevi
spostamenti del cursore. La parte audio
- come già visto per altri PC portatili di
HP - è realizzata in collaborazione con
Bang & Olufsen. Lo schermo da 13” sarà
disponibile in tre versioni: la prima a riso-
luzione Full HD (400 nits); una 4K HDR
(550 nits) e l’ultima, invece, a risoluzione
Full HD ma con la modalità Sure View,
che limita la visione agli angoli in modo
che soltanto chi sta guardando lo scher-
mo perpendicolarmente possa vedere
ciò che c’è in esecuzione. Lo schermo
Sure View arriva fino a 1.000 nits.
Convertibile 2 in 1 leggerissimo. Ma come tablet resta poco adattoElite Dragonfly è un 2 in 1: la cerniera
permette di ruotare lo schermo, così da
poter usare il PC in modalità tablet HP
ritiene che la sua natura 2 in 1 sia un va-
lore aggiunto. E così è: avere più opzio-
ni è sempre
meglio che
averne me-
glio. La mo-
dalità tablet
di questi con-
vertibili, però,
continua a
non convin-
cerci: usato
come tablet
lo schermo
da 13” di Elite Dragonfly rimane un po’
ingombrante, complice la presenza del-
la tastiera che dà fastidio. Continuiamo
a preferire la soluzione di Microsoft con
Surface Book 2: lo schermo si stacca,
il peso è più contenuto e la forma più
adatta. Ma ogni soluzione ha i suoi com-
promessi. Come altri portatili convertibili,
Elite Dragonfly è un 2 in 1 principalmente
sulla carta: siamo convinti che la maggior
parte delle persone lo userebbe come
laptop convenzionale; magari “a tenda”
per qualche presentazione a un cliente.
Ancora meno come tablet.
HP Elite Dragonfly è un portatile dedica-
to al business, ma la verità è che è una
proposta accattivante anche per il mer-
cato consumer. La vera discriminante,
in questo senso, è il prezzo di parten-
za di 1.299 euro
(IVA esclusa), più
alto della me-
dia. Considerato
che a specifiche
tecniche simili si
trovano Surface
Laptop 3 (il cui
prezzo di listino
parte, IVA inclu-
sa, da 1.169 euro)
e MacBook Air
(da 1.279 euro) HP chiede uno sforzo
economico in più per una soluzione 2
in 1 con funzioni per la privacy dedica-
te; costo aggiuntivo che non tutti sono
disposti a versare.
Per il business, Elite Dragonfly si posi-
ziona in una fascia di mercato dove esi-
stono ottime alternative come Dell XPS
13 e la serie Thinkpad di Lenovo. HP ha
puntato più su dimensioni e flessibilità
d’uso, pensando più alle esigenze di
portatilità che alle prestazioni spinte. In
tal senso, le nostre prime impressioni
sono positive. Elite Dragonfly sarà di-
sponibile da novembre.
PC Elite Dragonfly è pensato come proposta business, ma piacerà anche all’utenza consumer
Abbiamo provato HP Elite Dragonfly Non è un portatile business qualunqueIl pc presenta una leggerezza e design di primo livello. ll prezzo di partenza è superiore alla media
Crucial si dà all’archiviazione mobile: ecco X8, l’SSD portatile da 1 GB/s in letturaResiste a cadute di 2 metri e ha una velocità di 1.050 MB/s. L’X8 è il primo SSD portatile di Crucial. Basa la sua velocità su un’unità NVMe P1 con tecnologia NAND QLC di Sergio DONATO
Col tempo e con buoni prodotti al giusto prezzo, Crucial, marchio di Micron Technology, è riuscita a creare una buona immagine di se stessa nel settore delle memorie e dell’archiviazione. Ha deciso quindi di espandere le proprie offerte anche al mercato dell’ar-chiviazione mobile annunciando l’SSD portatile Crucial X8 nei tagli da 500 GB e da 1 TB. All’interno della struttura unibody in alluminio anodizzato che resiste a cadute da 2,2 metri, Crucial ha messo un SSD NVMe basato sul Crucial P1 con NAND flash QLC. Questa unità NVMe ha dimostrato di raggiunge-re velocità in lettura di circa 1 GB/s, e infatti Crucial parla di 1.050 MB/s. La tecnologia QLC potrebbe non eccellere in velocità di scrittura, ma l’X8 si pone sul mercato dal lato consumer, nel quale la rapidità nel leggere i dati è spesso più impor-tante della scrittura degli stessi.La connessione del Crucial X8 è affidata a un’interfaccia USB 3.2 Gen 2 Type-C, e nella confezione sono presenti sia un cavo da USB-C a USB-C da 10 GB/s, sia un USB-C a USB-A da 5 GB/s compatibile con l’interfaccia USB 3.2 Gen 1.Compatibile con ogni tipo di siste-ma: Windows 10 e 8.1, MacOS, PS4 e PS4 Pro, Xbox One, iPad Pro con USB-C e i dispositivi Android.
torna al sommario 21
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Sergio DONATO
Sul numero che sancisce il 150° anniversario della
rivista, Nature ha pubblicato un articolo che ce-
lebra un risultato storico ottenuto da Google e dal-
l’informatica quantistica. Grazie al computer quantistico
di Google è stato possibile effettuare in 200 secondi un
calcolo di prova che con i normali supercomputer avreb-
be trovato una soluzione in 10.000 di anni. A renderlo
noto, oltre a Nature, è un entusiasta Sundar Pichai, CEO di Google, in un post sul blog ufficiale, nel quale
viene raccontata la storia dietro il computer quantistico
di Mountain View. È iniziato tutto nel 2006, quando alle
dipendenze di Google lo scienziato Hartmut Neven ha
iniziato a esplorare l’idea di accelerare la ricerca nel ma-
chine learning servendosi dell’informatica quantistica.
I bit che si sovrappongono in qubitL’informatica quantistica non utilizza i transistor per
definire lo stato di aperto o chiusi (1 o 0) dei bit, ma si
serve di elettroni che possono assumere stati diversi. Il
qubit non può assumere solo il valore di 1 o 0, ma può
rappresentare anche una sovrapposizione di stati, cioè
può essere sia 1 che 0 allo stesso tempo. Sundar Pichai
pone l’esempio di 333 qubit, nei quali ci sono 2^333, op-
pure 1,7x10^100^100 stati computazionali che possono
andare in sovrapposizione, permettendo a un computer
quantistico di esplorare simultaneamente uno spazio
che comprende molte possibili soluzioni a un problema.
Il lavoro di Neven ha portato alla fondazione del team
Google AI Quantum che ha accolto nel 2014 John Mar-
tinis dell’Università della California. Queste nuove forze
hanno permesso al team nel suo complesso di costruire,
a detta di Pichai, il primo sistema quantistico al mondo
che supera le capacità dei supercomputer per calcoli
specifici. Il premio Nobel alla fisica Richard Feynman di-
chiarò: “Se pensate di capire la meccanica quantistica,
non capite la meccanica quantistica.”. La frase serve, in
un certo senso, a introdurre il tipo di calcolo che è stato
effettuato dal team di Google per provare la “suprema-
zia quantistica” del proprio elaboratore.
SCIENZA E FUTURO Google ha annunciato di avere raggiunto la “supremazia quantistica”, con il proprio computer quantistico
Il computer quantistico di Google ha risolto in 200 secondi un calcolo di 10.000 anni. IBM non ci staSecondo IBM, una simulazione dello stesso calcolo potrebbe essere risolta in 2,5 giorni da un supercomputer tradizionale e con più precisione
10.000 anni in 200 secondiIl cuore del computer è il processore Sycamore, che
consiste in un array bidimensionale di 54 transmon qu-
bits che, semplificando, rappresentano la carica super-
conduttiva dei qubit, la quale definisce la sovrapposizio-
ne degli stati. La superconduttività è essenziale perché
in un circuito superconduttore, gli elettroni di conduzio-
ne si condensano in uno stato quantico macroscopico.
Questa condensazione fa in modo che le correnti e le
tensioni abbiano comportamenti meccanici misurabili. Il
processore Sycamore è realizzato in alluminio per ciò
che riguarda la metallizzazione e le giunzioni di Joseph-
son, cioè le due strisce di superconduttori separate da
un isolante che permettono di ottenere l’effetto-tunnel
quantistico. Mentre è stato utilizzato l’indio, affine all’allu-
minio, per l’incollaggio tra due wafer di silicio. Il tutto raf-
freddato a 20 mK, cioè poco al di sopra dei -273,15° C
L’informatica quantistica è per natura incline agli errori,
dato che la smisurata potenza di calcolo è fornita pa-
radossalmente dalla probabilità di ottenere un risultato
corretto. Il risultato di un calcolo è più vicino all’elevata
probabilità dello stesso che non a un risultato univoco,
ed è in un certo senso il modo in cui viene definita la
precisione e la capacità di calcolo di un computer quan-
tistico. Secondo il team di Google, simulando un sistema
non quantistico, per completare il calcolo che Sycamore
ha risolto in 200 secondi, servirebbero 10.000 anni di
calcoli del supercomputer Jülich con 100.000 core e
una memoria di 250 terabytes.
IBM: “Bastano due giorni e mezzo...”IBM non ci sta. Soprattutto non concorda con quei
10.000 anni di calcoli rapportati a un “normale” super-
computer. In modo particolare, non le va a genio la “su-
premazia quantistica” tirata fuori da Google per il suo
Sycamore. Per “supremazia quantistica” si intende infatti
un concetto espresso nel 2012 da John Preskill, fisico
teorico americano, secondo il quale tale supremazia si
verifica quando i computer quantistici riescono a fare
cose impossibili per i computer tradizionali. IBM arriva
a dire che una simulazione dello stesso calcolo effettua-
to dal computer quantistico di Google potrebbe essere
risolta in 2,5 giorni da un supercomputer tradizionale e
con molta più precisione. Altro che 10.000 anni.
La spiegazione di IBM sta nella limitazione di Google nel-
l’avere considerato la sola capacità di memorizzazione
della RAM come spiegazione dei 10.000 anni necessari
al calcolo. Tuttavia, dice IBM, i computer classici hanno
risorse proprie, come una gerarchia hardware per le me-
morie e i calcoli ad alta precisione, varie risorse softwa-
re, e una vasta base di conoscenza degli algoritmi, ed è
fondamentale sfruttare tutte queste capacità quando si
confronta l’informatica quantistica con la classica.Il computer quatistico di Google.
Il processore Sycamore alla base del computer quantistico di Google.
torna al sommario 22
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
F ujifilm X-Pro3 è una macchina molto particolare.
Raccoglie l’eredità della X-Pro2, una delle fotoca-
mere di maggior successo del brand giapponese,
ma allo stesso tempo cambia direzione e guarda ad una
nicchia ben precisa, quella dei nostalgici. Le tipologie di
persone che possono essere interessate a questa XPro-
3 sono due: da una parte il giovane un po’ alternativo,
quello che ha scoperto prima il vinile e che ora sogna
una Leica al collo ma non può permettersela, e dall’altra
chi invece ha scattato tanto con le reflex a rullino, assa-
pora ancora il fascino dell’analogico e soprattutto non
ha la più pallida idea di cosa siano Lightroom e Photo-
shop, vuole una fotografia pronta che esce direttamente
dalla fotocamera, senza bisogno di ritocco. Chi non rien-
tra in questa categoria troverà nella XPro-3 una macchi-
na assurdamente inutile, per due motivi: il primo è che ci
troviamo di fronte a una X-T3 castrata se guardiamo alle
pure funzionalità, e l’unico vero punto dove la X-Pro3
manifesta superiorità è sull’algoritmo autofocus, che è
stato rivisto e arriva ora a lavorare fino a -6ev, quindi in
condizioni di luminosità davvero difficili. Ma, trattandosi
di una semplice revisione del software dell’autofocus, le
altre fotocamere top della gamma lo riceveranno trami-
te aggiornamento software. La X-Pro3 ha un corpo che
guarda come tradizione della serie X al passato più che
al futuro, e mai come su questo modello il design viene
estremizzato per dare davvero l’impressione di trovarsi
davanti ad una fotocamera di altri tempi. Tutte le regola-
zioni vengono fatte tramite ghiere meccaniche, e i pochi
tasti disponibili sono giusto quelli per gestire il menu e la
messa a fuoco. Anche il selettore per cambiare le moda-
lità del mirino ibrido è analogico, una levetta da azionare
con l’indice sulla parte anteriore della fotocamera.
Il corpo è meravigliosamente solido, e se quella che ab-
biamo fotografato è la versione classica tutta nera che
unisce titanio e magnesio, della X-Pro3 esistono anche
le versioni “DR Black” e “DR Silver” dove la parte su-
periore è rifinita con una tecnologia di indurimento su-
perficiale denominata Duratect che raggiunge un grado
FOTOGRAFIA Fujifilm annuncia la nuova X-Pro3 e noi siamo andati a trovarla. Raccoglie l’eredità della X-Pro2, ma cambia direzione
Anteprima e foto con la X-Pro3 di Fujifilm La fotocamera digitale che si crede analogicaUna fotocamera particolare, destinata ad un pubblico ben preciso di nostalgici che rimpiange il sapore del vecchio rullino
di durezza Vickers pari a 1500Hv. Con un punteruolo,
tanto per intenderci, non si sfregia. Una nota: avendole
viste dal vivo queste versioni super resistenti denomi-
nate “Black” e “Silver” sembrano più grafite e gold, e
soprattutto nonostante siano più robuste attirano anche
le ditate. Cambia anche il prezzo, perché X-Pro3 versio-
ne BLACK solo corpo sarà in vendita da fine novembre
2019 a 1939,99 euro iva inclusa mentre per le due ver-
sioni Duratect ci sarà da aspettare fino a metà dicembre
e serviranno 200 euro in più, 2139,99 euro.
Il monitor è nascosto e non si usaDesign a parte, quello che rende particolare la XPro 3
oltre alle funzioni del software di cui parleremo dopo è
il display. O il “non display”: Fujifilm ha infatti deciso di
inserire sul retro solo un piccolo display LCD a colori da
1,28 pollici, protetto da un vetro temperato, che visualiz-
za le impostazioni di scatto indipendentemente dal fatto
che la fotocamera sia accesa o meno.
Questo schermo può essere impostato in due modalità,
una standard per visualizzare la velocità dell’otturatore,
la sensibilità ISO e i dati che ogni display LCD di servizio
mostrerebbe su una fotocamera di questo livello e una
classica, dove viene simulata la finestrella trasparente
dalla quale ai tempi delle analogiche si vedeva che tipo
di pellicola era stata inserita. Cambiando profilo pellicola
cambia anche la grafica, che richiama i disegni
dei vecchi rullini. Chi scatta non ha a disposizione
lo schermo, che è nascosto: uno schermo LCD
Touch inclinabile ad alta risoluzione da 1,62 milio-
ni di punti che può ruotare di circa 180 gradi e si
può usare quindi solo per quei tipi di scatto dove
è davvero difficile inquadrare tramite mirino. Lo
schermo è un componente fondamentale per ca-
pire questa fotocamera: chi scatta tramite mirino
non vedrà subito la foto. Se vuole vederla ogni
volta deve girare lo schermo, e per chi è abituato
alle fotocamere digitali questa è una vera scoc-
ciatura. Ma è quello che Fujifilm voleva ottenere:
concentrati sul soggetto, prova a fare una bella
foto, fidati della macchina.
L’unico punto di collegamento tra occhio e soggetto è
quindi il mirino ibrido, che può essere impostato come
mirino ottico per avere una visione immediata del sog-
getto senza ritardi e senza elaborazioni e quello elettro-
nico che in esce ci adatta alle impostazioni di scatto. E’
un bel mirino, 3,69 milioni di punti, 1:5000 di contrasto,
una luminosità massima di 1500cd/m2 e una copertura
sRGB quasi totale permettono a chi scatta di dimentica-
re il monitor. C’è anche una modalità ibrida, una sorta di
telemetro elettronico dove una piccola finestra del miri-
no OLED viene visualizzata nell’angolo del mirino ottico.
L’anima della fotocamera non cambia, resta sempre il
sensore X-Trans CMOS 4 da 26,1 MP con processore
X-Processor 4, ma cambiano le possibilità operative per-
ché come abbiamo detto Fujifilm ha cercato di inserire
una serie di opzioni fatte apposta per eliminare la ne-
cessità di editing in fase successiva. La camera è desti-
nata più a chi scatta in jpeg che in RAW, e punta proprio
su una serie di funzioni di “sviluppo” che permettono di
ottenere un file già pronto con il look desiderato.
Ecco quindi che c’è una nuova funzione di scatto HDR
“in macchina”, una simulazione pellicola “CLASSIC Neg”,
che simula la pellicola negativa a colori e un rinnovato
“Monochromatic Color” che consente all’utente di sce-
gliere il colore chiave da una matrice di toni caldi / freddi
e tonalità magenta / verde per dare subito alle fotografie
un tocco personale. Sempre per mantenere l’idea “ana-
logica” la funzione Effetto Grana che simula la pellicola
fotografica analogica è stata migliorata in modo da po-
ter regolare “intensità” e “dimensione” della granulosità.
Sempre per lo stesso motivo sono state ridotte al mini-
mo le funzioni video: registra il 4K a 30 fps, ma poteva
fare molto di più: è stata strozzata volutamente.
La X-Pro3 è una macchina particolare: inutile criticarla
per le sue mancanze, anche perché Fujifilm ha un mo-
dello, la X-T3, che è praticamente identico ma più votato
al digitale. Chi vuole una fotocamera digitale deve sce-
gliere la T3, chi invece rimpiange i vecchi tempi, quelli
dove il risultato si vedeva solo quando il fotografo ci
consegnava le fotografie stampate, apprezzerà il corag-
gio di Fujifilm nel proporre qualcosa di così diverso.
torna al sommario 23
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
Nuovi scanner 3D negli aeroporti USA distruggono le pellicole fotograficheNuovi scanner 3D garantiscono controlli più efficaci ma distruggono le pellicole fotografiche. C’è anche una buona notizia però di Alessandro CUCCA
i controlli di sicurezza negli ae-roporti degli Stati Uniti stanno fa-cendo la loro comparsa dei nuovi scanner 3D che purtroppo hanno lo spiacevole “effetto collatera-le” di distruggere totalmente le pellicole fotografiche non ancora sviluppate. C’è anche una buona notizia: con questo nuovo siste-ma, PC portatili e tablet possono esser lasciati dentro la valigia, con un gran risparmio di tempo nelle operazioni di controllo e minori di-sagi per i passeggeri. Questi nuovi scanner 3D infatti, prodotti da Ana-logic Corporation, utilizzano una si-gnificativa quantità di radiazioni in più rispetto ai precedenti modelli per creare una mappa tridimensio-nale del bagaglio da controllare e restituiscono delle immagini che possono essere osservate dagli addetti alla sicurezza da qualsiasi angolazione. Tutto questo però a discapito delle pellicole fotografi-che ancora da sviluppare, che con questo nuova scansione vengono sottoposte a una quantità di raggi X un migliaio di volte superiore a quelle dei precedenti scanner 2D, rendendole di fatto inutilizzabili. Per i fotografi non è detta l’ultima parola. Nel caso ci siano delle pelli-cole da proteggere, sarà sufficien-te riporle in una busta trasparente, fuori dal bagaglio principale, e mo-strarle agli addetti alla sicurezza prima di accomodarsi al controllo.
è decisamente più efficace - e meno
adatto per le fotocamere e per le foto.
HEIF comprime di più e si vede meglio.
Nonostante sia un prodotto pensato per
le foto, la nuova EOS riprende video in
4K a 60fps e può anche creare un file a
10-bit 4:2:2 Canon Log da lavorare suc-
cessivamente. Su una camera di que-
sto tipo l’autofocus è importantissimo,
soprattutto nel tracking dei soggetti in
movimento, e proprio per questo mo-
tivo Canon ha sviluppato un algoritmo
che traccia i soggetti usando il ma-
chine learning e la computer vision. È
una delle primissime volte che su una
fotocamera professionale viene usata
l’intelligenza artificiale in modo così in-
tensivo. Il sensore autofocus della 1D X
Mark III avrà una risoluzione di 28 volte
superiore rispetto a quella del model-
lo precedente nella zona centrale del
fotogramma, e passando al Live View,
dove non si usa il sensore AF, la mac-
china può sfruttare la tecnologia Dual
Pixel del sensore che copre il 90% del
sensore su un asse e il 100% sull’altro.
Sempre in relazione all’autofocus, Ca-
non ha aggiunto anche un nuovo con-
trollo per selezionare più rapidamente il
punto di messa a fuoco dentro il tasto di
selezione dei modi.
Canon snocciola anche qualche dato
sulla velocità: 16 fps con otturatore
meccanico e 20 fps in live View, con un
buffer di memoria enorme che permette
di tenere 170 scatti RAW a piena riso-
luzione durante la raffica. Praticamente
si può tenere premuto il tasto di scatto
dalla partenza dei 100 metri di atletica
fino all’arrivo, 10 secondi dove la mac-
china cattura 14 fotogrammi ogni secon-
do per 140 file RAW. Serve ovviamente
una card velocissima, e la Canon avrà
un doppio slot CFexpress.
Come le altre macchine professionali
Canon la EOS 1D X Mark III avrà Wi-Fi,
Bluetooth, GPS e connessione Ethernet
integrata, un corpo in magnesio sigillato
contro pioggia, gelo e umidità, una mi-
gliore autonomia di scatto e alcuni tasti
retroilluminati per l’uso al buio.
Prezzi, specifiche complete e disponibi-
lità verranno annunciati più avanti.
di Roberto PEZZALI
L a prossima top di gamma Canon
sarà ancora una reflex: l’azienda
giapponese ha annunciato di es-
sere in fase avanzata di sviluppo della
EOS 1D X Mark III, la fotocamera che
sostituirà l’attuale modello Mark II usa-
to da fotografi sportivi e naturalisti di
tutto il mondo. Le specifiche complete
ancora mancano, ma Canon parla di
un nuovo sensore CMOS fatto in casa
e di un processore DIGIC pensato per
aumentare ulteriormente il range di
sensibilità ISO. I megapixel restano al
momento segreti.
La vera novità per il mondo dell’imma-
gine è la scelta di sposare, di fianco al
classico RAW, il formato HEIF: adottato
già dal settore smartphone perché più
efficiente come compressione, l’HEIF è
a 10-bit e ha una gamma dinamica più
ampia. Questa mossa potrebbe segna-
re l’inizio della fine per il Jpeg: è meno
efficiente per il web - WebP di Google
FOTOGRAFIA Canon annuncia la EOS 1D X Mark III, in perfetto timing per le prossime Olimpiadi
Canon EOS 1D X Mark III, la reflex pro che vuole pensionare il formato JPEGLa vera novità è che per la prima volta una reflex pro scatterà in HEIF invece che in JPEG
FOTOGRAFIA Verrà utilizzato per usi medicali e in altre app
40 kilopixel: ecco a voi il sensore fotografico più piccolo al mondo
di Alessandro CUCCA
Omnivision, azienda california-
na leader nella produzione di
sensori fotografici e varie so-
luzioni per i mercati automotive, me-
dicale e telefonia mobile, ha presen-
tato un nuovo sensore ottico che è
entrato di diritto nel Guinness World
Record. Il nuovo sensore, sviluppato
per usi medicali, ha una risoluzione
di di 40 kilopixel (200x200 pixel) e
misura appena 0,575mm x 0,575mm.
Questo minuscolo sensore trova alloggiamento all’interno della fotocamera
OVM6948 che a sua volta è un minuscolo cubetto che misura 0,65mm x 0,65mm x
1,158mm. Questa nuova fotocamera, grande quanto una punta di spillo, ha un’am-
piezza di campo di 120° e una profondità di fuoco da 3 a 30 mm, in grado inoltre di
catturare video da 30 fps a 40 kilopixel di risoluzione.
L’utilizzo per cui è stata progettata questa nuova fotocamera è per applicazioni me-
dicali, applicata su endoscopi, cateteri e altri strumenti usa-e-getta al posto delle at-
tuali fibre ottiche collegate a sensori esterni, permettendo di fornire immagini molto
più nitide e chiare a un costo decisamente inferiore rispetto agli attuali sistemi.
torna al sommario 24
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Gianfranco GIARDINA
N ikon è condannata a correre forte sulla pista
delle mirrorless: è partita dopo Sony e ora deve
recuperare il tempo perduto nella contemplazio-
ne della qualità di riferimento delle reflex. Una rincorsa
che però sta facendo molto bene: alle Z6 e Z7, nate per
contrapporsi alle A7 e A7R di Sony leader di mercato,
ora Nikon affianca anche Z50, la nuova mirroless in for-
mato APS-C (quello che Nikon chiama DX) che punta
diritta alla gamma Sony A6000 e in particolare all’ulti-
ma nata, la A6600. Stesso il formato di sensore e me-
desima anche la capacità di scattare a 11 fotogrammi al
secondo. Nikon, grazie probabilmente a una risoluzio-
ne un po’ più bassa (20,9 contro 24,2 megapixel) rag-
giunge addirittura una sensibilità maggiore, 51200 ISO
contro i 32000 di Sony. Ma soprattutto aggancia un
posizionamento di prezzo più basso, più simile a quello
della A6400 e certamente in grado di convincere molti
appassionati “nikonisti” a passare alle mirrorless.
FOTOGRAFIA Abbiamo messo alla prova la nuova Nikon Z50 con i gesti repentini e le luci artificiali di una notte di boxe
Nikon tira un cazzotto alla concorrenza Le foto incredibili con la Z50 in una notte di boxeAnche a ISO altissimi, il rumore è contenuto e il dettaglio dell’immagine conservato. Incredibile per una macchina da 1000 €
Una notte di sudore, lacrime e sangueAbbiamo avuto la possibilità di provare per un solo
giorno in anteprima la nuova Z50. Senza pietà, invece
di fotografare paesaggi assolati e placidamente im-
mobili, abbiamo voluto studiarcela e configurarla nel-
le ore diurne e farla scattare solo di notte. Una notte
di sudore e sangue, una notte di lacrime (sì, si sono
viste anche quelle); una notte di boxe. Abbiamo infat-
ti approfittato dell’ultima tappa dell’anno del circuito
di pugilato inaugurato quest’anno nel nostro Paese
da DAZN, che ha portato alcuni importanti incontri e
2500 tifosi a riempire la Allianz Cloud di Milano. Quan-
to di peggio possa capitare a una macchina piccola e
leggera, dal sensore non full frame: luci artificiali, gesti
atletici velocissimi, difficoltà nella messa a fuoco per
le basse luci e i tanti piani sovrapposti. Una sfida nella
sfida, per spremere il succo di questa macchina in po-
che ore. Per vedere se ce la fa o finisce KO. Nelle foto
di questo servizio c’è la risposta, forte e chiara.
Z50, una macchina piccola e bella. Ma un pizzico di usabilità in più sarebbe graditaCosa si può dire al corpo della Z50? Nulla, è piccola e
leggera: pesa solo 450 grammi, più di 200 in meno ri-
spetto alle Z6 e Z7. Malgrado ciò è terribilmente “Nikon”:
un utente della casa giapponese si trova a casa sua, sia
segue a pagina 25
Per vedere le foto nella versione originale (al-cune solo leggermente riquadrate) basta cliccare sull’immagine.
Lung. focale: 185.0 mm / Apertura: 5.6 / Tempo di posa: 1/1250 / ISO: 4500 / Bilanciamento del bianco: Auto
Lung. focale: 51.0 mm /Tempo di posa: 1/1250 /Apertura: 4.5 / ISO: 5600 / Bilanciamento del bianco: Auto
Lung. focale: 87.0 mm /Tempo di posa: 1/1250 /Apertura: 5 / ISO: 20000 / Bilanciamento del bianco: Auto
torna al sommario 25
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
FOTOGRAFIA
Le foto con Nikon Z50 in una notte di boxesegue Da pagina 24
per la disposizione dei tasti che per il menù, che segue
la classica impostazione delle ultime reflex, migliorando
ulteriormente alcuni aspetti di chiarezza. Certo, guar-
dando la macchina e il sensore, colpisce la dimensione
dell’attacco, decisamente generoso. Tanto da far sem-
brare il sensore forse più piccolo di quello che è dav-
vero: sì, la paura che potesse sfigurare alle prese con
i rapidi movimenti dei boxeur ci è venuta. Questa Z50
è una macchina che si presta anche all’utilizzo da parte
dei videomaker, che trovano l’ingresso microfonico (ma
manca l’uscita cuffia) e l’uscita HDMI per collegare un
monitor/recorder esterno. Quello che forse manca in
termini di usabilità è qualche tastino in più, ma soprat-
tutto un selettore rotativo, per esempio per navigare tra
le immagini scattate: le freccette avanti e indietro fan-
no fare più fatica. Molto buono invece il touch screen:
sensibile, preciso, multi-touch.Abbiamo voluto portare
con noi l’ottica 50-250 che verrà lanciata tra un meset-
to, insieme al debutto commerciale della Z50, ma - lo
confessiamo - già convinti che avremmo usato altre
ottiche ben più costose e blasonate, sottratte tempora-
neamente al nostro kit reflex e utilizzabili sulla Z50 con
l’anello adattatore. Sulla carta il 50-250 con attacco Z
è una lente un po’ buia (f/4.5-6.3) e al tatto appare un
po’ troppo leggera per poter fornire grandi prestazioni.
Eppure evidentemente la coperta del sistema Z è mol-
to lunga e basta per coprire alla grande eventuali limiti
della lente, che infatti non si palesano. Tanto che, dopo i
primi sorprendenti scatti, abbiamo fatto fotografie quasi
solo con l’ottica kit, evitando la fatica dell’anello adatta-
tore. E questa è forse stata la sorpresa più inattesa della
serata: se si confrontano i prezzi dei diversi kit (vedi più
avanti) l’ottica 50-250 comporta un aggravio di costo di
250 euro. Non sarà certamente l’ottica più compatta del
mondo (tra l’altro va estesa prima di poterla utilizzare),
ma certamente una dal miglior rapporto qualità/prezzo.
La boxe “dimenticata”, uno sport nobile ed eroico rilanciato da DAZNAndare al tappeto; alzare la guardia; finire KO; schivare
un colpo; essere alle corde; ricevere un colpo basso.
Incredibile quante siano le locuzioni tipiche della boxe
che sono entrate a far parte del linguaggio di tutti i gior-
ni. A dimostrazione di come il pugilato faccia parte della
nostra cultura e della nostra storia e sia sempre stato
considerato uno sport nobile. Fino agli ultimi anni: dopo i
grandi pesi massimi, Cassius Clay e poi Tyson, e tramon-
tata anche l’epica di Rocky, la boxe è entrata in una sorta
di “dimenticatoio”. Da cui DAZN intende liberarla, non
solo mandando in onda i grandi eventi internazionali ma
producendo - scelta coraggiosa - un vero e proprio cir-
cuito italiano di boxe che ha debuttato quest’anno con
otto eventi, culminati con la tappa finale di Milano, im-
preziosita dall’incontro di cartello tra Scardina e Acher-
gui con in palio il titolo europeo IBF del supermedi.
Era la prima volta - confessiamo - che ci capitava di as-
sistere a degli incontri di boxe dal vivo; fino a prima, la
segue a pagina 26
clicca sulle immagini per l’ingrandimento
Lung. focale: 87.0 mm / Tempo di posa: 1/1250 / Apertura: 5 /ISO: 14400 / Bilanciamento del bianco: Auto
Lung. focale: 115.0 mm / Tempo di posa: 1/1250 / Apertura: 5.3 /ISO: 20000 / Bilanciamento del bianco: Auto
Lung. focale: 125.0 mm / Tempo di posa: 1/1250 / Apertura: 5.3 /ISO: 18000 / Bilanciamento del bianco: Auto
Lung. focale: 250.0 mm / Tempo di posa: 1/1000 / Apertura: 6.3 / ISO: 11400 / Bilanciamento del bianco: Auto
torna al sommario 26
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
boxe per noi era solo uno spettacolo televisivo, spesso
relegato ai veloci incontri da tre riprese delle Olimpia-
di. Invece ci siamo trovati di fronte a uno sport vero,
con grandi atleti capaci di saltare come grilli, tirare di
destro e di sinistro e scansare con gesti fulminei i col-
pi dell’avversario; così per 40 minuti netti continuativi,
fatte salve le brevi pause di meno di un minuto tra
un round e l’altro. Atleti che rischiano tutto, la propria
faccia, se solo si distraggono un attimo abbassando
la guardia; atleti che devono arrivare super-allenati al-
l’appuntamento: un po’ di stanchezza a fine incontro
può significare la distrazione che ti manda al tappeto.
Atleti che si sfidano fino a procurarsi qualche ferita
e che al suono dell’ultimo gong si abbracciano e si
sorridono, con lealtà e senso sportivo. Uno sport che
evidentemente torna a piacere se - come ci ha spie-
gato DAZN a margine dell’evento - in questa stagione
le ore di visione sono state circa 900mila, un fenome-
no non più trascurabile e sulla quale la payTV sportiva
intende investire ancora. Il nostro posto, decisamente
bello, era nell’ultima fila del settore bordo ring. Mal-
grado ciò, va detto che non disponevamo di un pass
foto, cosa che ha reso impossibile guadagnare le po-
stazioni riservate ai fotografi. Abbiamo scattato solo
da spettatori normali, dal nostro posto e, in qualche
caso, spostandoci più in alto, sugli spalti di quello che
fu il mitico Palalido di Milano.
Le riprese a 120 fps full HD senza crop: così lo slow motion è perfettoTra le qualità della Nikon Z50 c’è la possibilità di fare
riprese Full HD a 120 fps senza ritaglio del fotogram-
ma e senza interpolazioni di risoluzione. Il risultato,
anche se non è 4K, è molto buono e convince, anche
se la gestione dell’esposizione con ISO Auto tende a
cambiare qualche volta un po’ troppo marcatamente
al cambiamento dell’inquadratura. Sarebbe servito
probabilmente più tempo per arrivare alla configura-
zione migliore per le condizioni di illuminazione artifi-
ciale e parziale controluce. Non semplicissimo anche
da “domare” il fuoco, che ogni tanto è stato attratto
dalle corde in primo piano durante i movimenti di
camera. In questo video un esempio delle riprese in
slow motion, interamente riprese a mano libera, mor-
bide grazie anche all’ottica stabilizzata.
FOTOGRAFIA
Le foto con Nikon Z50 in una notte di boxesegue Da pagina 25
Le foto: anche a 1/1600 di secondo, la Z50 non sprofonda nel rumoreInsomma, questi pugili
saltellano e si muovono
continuamente: servono
necessariamente tempi
brevi, anche perché nella
maggior parte degli scatti
tiriamo il teleobiettivo ver-
so focali ardite anche per i
rischio di micromosso. De-
cidiamo quindi di scattare
in priorità di tempi fissando
nella maggior parte dei casi
tempi più corti di 1/1000
sec. e accettando la modali-
tà ISO Auto, fissando il tetto
massimo a 20000 ISO. Mol-
to: siamo a rischio rumore
abbondante. Non a caso l’estetica classica delle fo-
tografie di boxe, nell’era della pellicola, prevede una
grana molto visibile: le condizioni di illuminazione non
sono favorevoli, spesso si lavora anche controluce.
L’autofocus ha ovviamente qualche difficoltà: le cor-
de in primo piano tendono ad attrarre il fuoco. Se si
chiede alla macchina di lavorare sulla base del ricono-
scimento dei visi, si fa fatica: la guardia prevede che
il volto sia spesso nascosto dietro ai guantoni, quanto
basta per impedire al sistema di riconoscimento dei
volti di non intervenire. Malgrado gli ISO alti, il rumore
non è eccessivamente presente e neppure fastidioso.
Va detto che non abbiamo scattato in RAW perché an-
cora i principali strumenti di fotoritocco (quelli Adobe,
per esempio) non dispongono dell’interprete corretto
per i file RAW della Z50. Tutte le foto di questo servi-
zio sono infatti scattati in formato JPG, con quello che
ne consegue in termini di qualità. Se avessimo avuto
i RAW editabili, sicuramente avremmo potuto gestire
il poco rumore in maniera ancora migliore. L’ottica kit,
anche se non ha un’apertura esemplare, ha un bel-
lo sfuocato e riesce a separare bene i soggetti dallo
sfondo. La Z50 ci ha dato grandi soddisfazioni, mal-
grado le condizioni di scatto non fossero né protette
né ottimali: impossibile alzarsi in piedi per evitare di
“impallare” gli altri spettatori; difficile cogliere l’azio-
ne malgrado le corde in primo piano. In questo caso,
scattando con la raffica a 11 fotogrammi al secondo,
siamo riusciti a catturare momenti molto espressivi
anche in queste condizioni.
Pugilato fa rima con bianco e nero: forti contrasti per forti emozioniIn fase di post produzione, abbiamo voluto virare al-
cune fotografie al bianco e nero, condizione che no-
toriamente massimizza i contrasti. E insieme ad essi,
anche la forza intrinseca dell’immagine, ripulita dalle
“distrazioni” cromatiche. L’immagine è fissata in questi
scatti con un dettaglio, un contrasto e una bassa grana
che per anni, per tutti gli anni della pellicola, i fotografi
di boxe si sarebbero sognati. La grana è contenuta, le
immagini belle, la dinamica dei gesti e le tensioni mu-
scolari come fossero scolpite nella pietra.
Grandi soddisfazioni anche dai ritratti, malgrado le luci spesso taglientiNon solo gesti atletici ma, tirando spesso il tele al mas-
simo, abbiamo potuto fare anche ritratti decisamente
soddisfacenti. E questo malgrado tutto ci sia sul ring e
attorno ad esso tranne che le luci diffuse e morbide,
ideali per un ritratto. Catturando così momenti molto
particolari dello spettacolo sportivo, alcuni anche deci-
samente crudi. Altri quasi teneri, con il pugile che ha ap-
pena visto vanificarsi mesi di allenamento nell’incontro
appena perso, che inizia a piangere come un bambino
davanti al pubblico. O quello che si esalta per la vittoria
appena conquistata...
Le foto della Z50 sono capaci di mettere in discussione molti kit più costosiInsomma, la prova è superata: la Z50, che ci sta comoda
nello zaino, con il suo 50-250, ci ha permesso di portare
a casa delle ottime foto, in grado di tenere vivo il ricor-
do di una serata densa di emozioni. La prova è in realtà
doppiamente superata se si considera il prezzo di que-
sta Z50. I kit disponibili viaggiano dai 1119 ai 1390 euro
a seconda delle ottiche in dotazione. Per tutti i kit c’è il
pancake 15-50 VR, ideale per il pochissimo spazio occu-
pato. Il kit mediano aggiunge l’anello adattatore FTZ per
utilizzare ottiche con attacco F. Quello più costoso non
ha l’anello adattatore ma comprende l’ottica zoom tele
da noi testata. Si tratta di prezzi convenienti, soprattutto
per il kit da 1390 euro, anche in considerazione che in
tutti i casi è compresa nel prezzo anche una SD Card
Pro Lexar da 64 GB. Ma c’è di più: Nital, il distributore di
Nikon, ha annunciato un’attività di sconto straordinario
da qui fino al 15 gennaio che vale su diverse macchine
Nikon, compresa la Z50. Lo sconto si riscuote diretta-
mente in cassa nei negozi che partecipano alla promo-
zione e sulla Z50 in kit comporta un abbattimento di 150
euro del prezzo di listino, che così scende fino a 1240
euro. A questi prezzi, un “reflexista” propenso a entrare
nel mondo mirrorless si trova di fronte una scelta natura-
le, anche in considerazione del fatto che il passo succes-
sivo, la Z6, viaggia a prezzi doppi. Se non è proprio un
cazzotto alla concorrenza, ci assomiglia molto.
Nikon Z50 La prova in video slow motion
lab
video
Lo sguardo all’angolo prima dell’inizio dell’incontro: si fa di tutto per far paura all’avversario.
Lung. focale: 185.0 mm /Tempo di posa: 1/1250 /Apertura: 5.6
ISO: 20000 / Bilanciamento del bianco: Auto
torna al sommario 27
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
L ’uscita di iOS 13 ha tolto alcuni vincoli che limitavano
l’utilizzo di iPad nell’ambito della produttività: final-
mente si possono collegare chiavette e dispositivi
esterni, anche di rete, ad un iPad e usare i file senza
necessariamente copiarli. Non solo: si possono anche
importare font di terze parti, cosa indispensabile per chi
deve produrre materiale, filmati o video, usando un ca-
rattere particolare. Basta pensare a presentazioni azien-
dali, che richiedono un font istituzionale, o ad un filmato
dove la sigla e le grafiche sono personalizzate.
Da anni si critica la “chiusura” del sistema operativo Ap-
ple, e si evidenzia la differenza tra un prodotto come
Microsoft Surface, che essendo un vero PC fa girare le
app di Windows e un iPad, che con un sistema operativo
di derivazione mobile è limitato alle app di iOS. Se su
Surface si può usare Premiere, su un iPad non si può
usare FinalCut. Non solo perché Final Cut per iPad non
esiste, ma anche perché fino ad iOS 13 sarebbe stato
impossibile realizzare un prodotto per il tablet con la
stessa versatilità della versione macOS. Con l’arrivo di
iPad OS parte di questi limiti sono stati abbattuti, ed è
anche per questo motivo che Adobe sta lavorando ad
un Photoshop per iPad e, in futuro, vedremo sempre più
applicazioni professionali su iPad: la gestione flessibile
dei file e le novità di iPadOS hanno spianato la strada
delle aziende che oggi hanno applicazioni di un certo li-
vello su Mac, e non sono mai riuscite a trasferirle su iPad
in modo soddisfacente. Creata dalle stesse persone
che nei primi anni 2000 lavoravano al famoso softwa-
re Pinnacle Studio, LumaFusion è il migliori editor video
per iPad e iPhone. Con l’uscita della versione 2.1 Luma-
Fusion ha integrato le novità di iPadOS, e finalmente
gli utenti possono fare editing usando file su sorgenti
esterne e collegando quindi alla porta USB Type C una
chiavetta, un hard disk con i filmati o direttamente una
fotocamera. Questo anche con filmati 4K. Le cartelle
sulle periferiche esterne vengono “collegate” con una
serie di link virtuali, diventando parte integrante dei pro-
getti, e questo vale anche per eventuali server di rete o
NAS. La finestra dei caratteri per i titoli inoltre prevede la
gestione dei fonts importati dall’utente (sempre da chia-
vetta) o dei fonts che si possono comprare su AppStore.
Abbiamo usato LumaFusion su iPad Pro per fare l’edi-
ting del filmato del Mavic Air, un filmato che nel nostro
flusso di lavoro abituale avremmo lavorato con Adobe
Premiere su un notebook. E abbiamo cercato di mante-
nere gli stessi elementi esterni usati su Premiere, quindi
il font Proxima Nova per i titoli, i livelli di trasparenza per
titoli e loghi, le dissolvenze e anche il voiceover.
LumaFusion dimostra che è l’applicazione a fare la differenzaLumaFusion è un capolavoro di applicazione per l’edi-
VIDEO CREATIVO Abbiamo usato l’ultima versione di LumaFusion su iPad Pro per fare editing 4K di un video da periferiche esterne
Editing video professionale 4K su iPad Pro, si può E con le dita al posto del mouse è più veloceL’iPad Pro con iPadOS può davvero sostituire un computer, e LumaFusion dimostra che sono le app a fare la differenza
ting video, supporta infatti fino a sei tracce audio per
foto, video, audio e titoli con sei tracce addizionali per
la musica. Sulla timeline, con un iPad Pro, siamo riusci-
ti a gestire senza problema più tracce 4K, applicando
sulla principale anche una LUT senza perdere di pre-
stazioni in playback. Il risultato, oltre che sullo schermo
dell’iPad, può essere visualizzato anche su un monitor
esterno. La musica è uno degli aspetti più curati: si può
ascoltare il montato mentre si regolano i livelli con il
mixer e si possono impostare anche i classici keyframe
con una interfaccia semplice e intuitiva.
Non mancano una tonnellata di effetti audio e video,
filtri, effetti di livello per le tracce video che possono
anche loro essere gestiti usando i keyframe. E non po-
tevano mancare lumakey e chroma key per blu screen
e green screen. Tutto fatto sulla time line del progetto
in tempo reale, e questo con un processore con archi-
tettura ARM come l’A12X Fusion. C’è, ma lo abbiamo
già detto, una completa gestione dei file e delle sor-
genti esterne da periferiche, sia fisiche che di rete e
da cloud, e tutto quello che non si importa lo si può
costruire.
Si possono creare dall’applicazione titoli di ogni tipo,
combinandoli con grafiche e usando font di sistema o
personalizzati, aggiungendo a questi titoli effetti e tran-
sizioni. I titoli si possono anche salvare, creando dei
template da riutilizzare per altri progetti come abbiamo
fatto noi.
Un iPad Pro non è e non vuole essere un PC. Ma con le applicazioni giuste è una ottima alternativaDopo un paio d’ore per studiare tutte le opzioni del
software, non lo avevamo mai usato, non solo siamo
riusciti a fare editing di un filmato in 4K su un iPad Pro
ma ci siamo trovati anche decisamente bene. L’uso del
touch e una interfaccia pensata appositamente per es-
sere usata con le dita (o con la Apple Pencil) ci hanno
fatto risparmiare moltissimo tempo quando si è trattato
di scegliere le tracce e lavorare, anche di fino, sul trim,
quindi sulla selezione della porzione di girato che vole-
vamo inserire nel progetto. La curva di apprendimenti
è rapidissima: in meno di un’ora chi ha già usato un
software di editing desktop capirà come sfruttare al
meglio LumaFusion. Ci troviamo di fronte a quella che
è a nostro avviso la miglior soluzione che si può avere
oggi su un tablet per l’editing dei filmati: meglio di Pre-
segue a pagina 28
torna al sommario 28
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
miere Rush, meglio di iMovie. La potenza dell’iPad Pro
abbinato ad un software ottimizzato regalano presta-
zioni di assoluto riguardo: per esportare e renderizzare
2 minuti di clip a 60 Mbps, quindi massima qualità, ser-
vono circa 70 secondi, e siamo abbastanza certi che le
prestazioni non sono diverse da quelle di un MacBook
Pro. Può un tablet o un 2 in 1, categoria alla quale iPad
Pro appartiene, sostituire un computer? Certo, ma solo
ad una condizione: che vengano realizzate applicazio-
ni dedicate pensate proprio per quel tipo di utilizzo e
di interfaccia, quindi non derivate da quelle per le quali
invece servono tastiera e mouse. Lumafusion, ma esi-
stono altri software simili per ambiti diversi, insegna
che non si deve cercare su iPad la versione “ridotta”
di un software nato e pensato per il PC, ma si deve
creare una versione pensata appositamente per i ta-
blet, per la loro interfaccia e il loro schermo. Lo sanno
bene coloro che usano un Surface, e spesso si trovano
a gestire con un po’ di difficoltà l’interfaccia affollata
di applicazioni nate per schermi più grandi. Software
che non devono poi necessariamente sostituire in tutto
e per tutto un computer: all’applicazione che abbiamo
provato mancano alcune cose richieste da chi deve ef-
fettuare una lavorazione più professionale, si pensi ad
esempio alla gestione dei file a 10 bit o ad un controllo
fine di alcuni effetti, ma è proprio LumaFusion ha sug-
gerire la soluzione.
Il software infatti può esportare, sempre si chiavetta
esterna o su storage cloud, tutti i file del progetto in
un pacchetto, e questo vuol dire che si può creare con
l’iPad un semilavorato da concludere poi su un Mac o
su un PC. E non è affatto cosa da poco: l’interfaccia di
un tablet è più pratica, e un tablet si può usare anche in
piedi: abbiamo rivisto le clip registrare con il Mavic Mini
mentre eravamo in piedi in metropolitana, scegliendo
i punti di taglio con le dita e assemblando le clip sulla
timeline, cosa che difficilmente avremmo potuto fare
con un computer. Un professionista potrebbe iniziare
a lavorare su un pre-montato subito dopo aver girato
delle sequenze, in viaggio, per poi concludere e fi-
nalizzare il tutto seduto alla sua postazione di lavoro
abituale. L’iPad Pro, per consacrare il suo suffisso e dif-
ferenziarsi dai normali iPad, ha bisogno di app come
LumaFusion, programmi non certo economici, 30 euro,
ma con un prezzo giustificato dall’impegno e dalle ri-
sorse necessarie per mantenerli.
Sono software professionali pensati per la mobilità, e di
software professionali che dovrebbero seguire la stes-
sa strada ce ne sono tanti, tantissimi: ci viene in mente
ad esempio Xcode, dove una versione “light” potrebbe
aiutare lo sviluppatore a riempire i tempi morti, ma non
è il solo. Dal CAD al coding, dalla musica al video, ci
sarebbero decine di applicazioni che finalmente po-
trebbero arrivare in una versione mobile più evoluta e
completa.
iPadOS ha finalmente rivisto quella gestione dei file ri-
gida e ostica che impediva alle applicazioni basate su
file, progetti e cartelle di essere gestite al meglio, e i
tempi per accelerare sulla produttività in mobilità sono
finalmente maturi.
VIDEO CREATIVO
Editing video 4K su iPad Prosegue Da pagina 27
EFFETTI AUDIO
FILTRI ED EFFETTITITOLI
torna al sommario 29
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
B asta guardare il nuovo RoboMaster S1 e avere
l’anima un po’ nerd per capire che questo drone
robot terrestre di DJI ha tutte le carte in regola
per diventare l’oggetto del desiderio con la D maiu-
scola. Un prodotto meravigliosamente tecnologico,
un mix di Lego, si costruisce, di gioco, si guida e spa-
ra, di intelligenza, si programma. Certo, il prezzo da
pagare non è indifferente, DJI chiede 549 euro, ma si
può pensare che un corso di Python serio almeno 300
euro li chiede e DJI assicura che con Road to Mastery,
il corso a progetto che accompagna S1, è davvero pos-
sibile imparare a programmare partendo proprio dalle
azioni di base robot. E Python, per chi non lo conosce,
è uno dei linguaggi più usati soprattutto in questi ultimi
anni, non tanto per il web quanto per il machine lear-
ning, dove è il “linguaggio” per eccellenza.
DJI assicura che i corsi offerti saranno costantemente
aggiornati sia in RoboAcademy che su Road to Maste-
ry, e che continuerà a produrre più contenuti da ag-
giungere al curriculum oltre a nuovi blocchi per Scra-
tch 3.0. Una vera scuola di coding, dove ogni utente
potrà seguire il tempo speso nella programmazione,
il numero di lezioni completate, il numero di linee che
eseguono il codice e il punteggio più alto raggiunto
nei quiz e nelle prove confrontandolo con quello degli
altri studenti di tutto il mondo.
RoboMaster S1, dove S1 sta per “Step 1”, nasce dal-
l’esperienza di DJI nel mondo dei robot. DJI promuove
ogni anno una sfida tra università cinesi dove viene
chiesto di costruire un robot che poi “combatte” con
gli altri, e il piccolo S1 deriva proprio da uno di questi
robot. Non è un giocattolo, anche se può sembrarlo,
perché permette davvero di approcciare temi non
sempre semplici come l’intelligenza artificiale e la ro-
botica.
RoboMaster S1 è tutto da montare, o meglio da assem-
blare perché alcuni pezzi arrivano già montati, ed è
equipaggiato con trentuno sensori: sei di questi sono
posizionati sulla corazza intelligente e sono utilizza-
bili durante le gare, gli altri aiutano nella mappatura
dell’ambiente. Nella parte anteriore c’è una videoca-
GADGET L’atteso robot terrestre educativo DJI, programmabile in Python e Scratch, arriva finalmente anche in Europa
DJI RoboMaster S1 arriva in Italia. Per questo meraviglioso gioco da grandi servono 549 €RoboMaster S1 avrà nuove nuove funzionalità: si costruisce, si guida, si programma. Qualità incredibile e divertimento assicurato
mera da usare per il visual recognition con machine
learning, che può anche inviare lo streaming video al-
l’applicazione; sul “gimbal” che gestisce la camera DJI
ha aggiunto un lanciatore di pallini gel con un sensore
a raggi infrarossi, indispensabile per una vera “robot
wars”. Il robot si muove su quattro ruote particolari do-
tate di dodici rulli che permettono un movimento om-
nidirezionale, spinte da un ponte motore brushless.
S1 non è un prodotto finito e chiuso: oltre ad essere
componibile con parti DJI include sei porte PWM e una
porta seriale che gli utenti può esperti possono usare
per ampliare le possibilità operative. Alla porta s-bus
possono essere agganciati non solo telecomandi di
terze parti ma anche una development board che può
essere programmata con altri linguaggi oltre a quelli
supportati dal sistema, Scratch appunto e Python.
Ma cosa si può fare con RoboMaster S1? Imparare
a programmare prima di tutto, ma anche giocare. O
sfruttare una serie di funzioni uniche che usano la
visione visione artificiale della camera integrata. S1
può seguire una linea, può riconoscere fino a quaran-
taquattro marcatori visivi, inclusi numeri, lettere e ca-
ratteri speciali, può identificare e seguire una persona
selezionata nel campo visivo della fotocamera e rico-
noscere il battito delle mani. Quest’ultimo può essere
gestito in base al ritmo e al numero di battiti, e anche
a riconoscere gesti fisici simili a quelli con cui si può
pilotare, solo usando le mani, un drone DJI.
Per chi non vuole sporcarsi le mani con il codice, o
comunque vuole prendere una pausa, ci sono anche
modalità pensate proprio per la competizione tra ro-
bot come “Tiro al bersaglio” e “Corsa al bersaglio”. Ci
sono anche modalità multiplayer come “Gara” e “Tutti
contro tutti”, quest’ultima che sfrutta lo spara pallini e
il “cannone a infrarossi”.
A novembre arriverà anche una nuova feature, Inter-
com, con S1 che potrà essere utilizzato come interfo-
no. Gli utenti potranno trasmettere clip audio dall’app
RoboMaster al robot. RoboMaster S1 sarà disponibile
per l’acquisto a partire da fine ottobre al prezzo di
€549. Le novità come la modalità Intercom e Master-
Board, il pannello per seguire i proprio progressi, sa-
ranno disponibili a novembre tramite update firmware.
Come esiste per i droni un kit “FlyMore” esiste anche
un kit PlayMore che include il radiocomando, una
scorta aggiuntiva di pallini gel, una batteria di riserva
e il contenitore per pallini: sono €169 in più. Roboma-
ster S1 è un vero giocattolo per grandi. E ovviamente
da appassionati di tecnologia non potevamo restare
indifferenti di fronte a questo piccolo drone terrestre.
Ecco perché non vi raccontiamo troppo, la prova com-
pleta arriva a breve. Quando, tra una battaglia e un’al-
tra, ci prendiamo una piccola pausa.
torna al sommario 30
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
O k Google, scusa il ritardo. Ci siamo presi un po’
più di tempo per provare a fondo quello che è
lo smartphone più controverso del momento, il
Pixel 4 di Google. Un prodotto che ha diviso il pubbli-
co, perché da una parte c’è chi vede il bicchiere mez-
zo pieno e dall’altra chi vede il bicchiere mezzo vuoto.
Giudicare il Pixel non è facile, perché il punto di vista
di un appassionato di tecnologia non coincide con il
punto di vista di un utente che cerca in un prodotto la
semplicità, e non si fa troppi problemi per quelle che
sono le specifiche tecniche. Il rap dell’appassionato lo
possiamo anche intonare: “La batteria da 2700 mAh
dura poco e dove finito il super grandangolo per le
foto. Senza 4K a 60 fps come faccio a girare un cor-
to? E lo sblocco ad occhi chiusi che funziona anche
se son morto? Con 64 giga non ho spazio per i selfie,
per i porno e per le app, ha più memoria il mio crice-
to o un cantante che fa rap. Cosa dire di quel bordo
nero scuro e spesso, ci puoi mettere i sensori ma ci fan
schifo lo stesso”.
Una rivista di tecnologia come la nostra dovrebbe can-
tare questo ritornello insieme a tutti gli altri, tuttavia il
Pixel non è il Nexus, e Google con il Pixel ha voluto
dare soprattutto esperienza, non specifiche tecniche,
quindi cercheremo di pesare i vari pregi e i vari difetti
in base a quella che è l’esperienza. Andiamo quindi su-
bito al punto: dove il ritornello stona? Sicuramente sul
4K a 60 fps: pochissimi lo usano, e Google stessa ha
confermato che la scelta di non aggiungerlo alla sua
applicazione è dovuta alla volontà di non lasciare che
un utente, per sbaglio o selezionando l’opzione sba-
gliata, si trovi con video che occupano il doppio dello
spazio, inutili ai fini pratici. Il 4K a 60 fps oggi è utile
forse per un content creator, ma anche uno Youtuber
o un Vlogger che usa i video per lavoro probabilmente
sceglie 1080p a 60 fps, non 4K.
C’è poi la questione dello spazio: 64 GB sono pochi
se si guarda a quello che offrono oggi molti produttori,
ma la memoria sugli smartphone assomiglia sempre di
più ai GB di traffico dati dagli operatori, una soglia che
TEST Abbiamo provato a fondo lo smartphone più controverso del momento, Pixel 4: un prodotto che ha diviso il pubblico
Google Pixel 4, la recensione. Pregi e difetti dello smartphone più discusso del momentoFotografie eccezionali, un sensore innovativo che funziona come un radar e una scocca colorata per mostrare il suo animo allegro
pochi raggiungono. Oggi gli smartphone sono pieni
soprattutto di video e di foto personali, le app non oc-
cupano così tanto e neppure i video e la musica offli-
ne di Netflix e Spotify riempiono la memoria: usando
Google Foto difficilmente un utente avrà problemi di
spazio. Google poteva dare un po’ più di memoria a
questo prezzo? Sicuramente si, ma i 64 GB non sono
un grosso problema. Come non lo è lo sblocco anche
ad occhi chiusi: Google lo dice, lo scrive chiaramen-
te: lo smartphone si sblocca anche senza l’attenzione
della persona e con gli occhi chiusi, e lo sblocco con il
sorriso non è affatto una funzione di sicurezza.
Per quello c’è il pin, che Google suggerisce di usare
nel caso di pagamenti e per l’apertura di certe app
che contengono dati sensibili (o da nascondere). Lo
sblocco con il volto è solo una questione di comodità,
permette di avere uno smartphone sbloccato non ap-
pena lo si prende in mano. Google dopo le polemiche
ha scelto di intervenire, e probabilmente sta allenan-
do il modello di machine learning per escludere i cam-
pioni dai quali manca attenzione: ci vorrà un mese,
magari meno magari di più. Le schermate e le indica-
zioni sullo smartphone lasciano comunque intendere
che Google lo sblocco lo aveva pensato proprio così.
Google Pixel 4NON È UN PIXEL PER CHI AMA I PIXEL. È UN PIXEL PER TUTTI 759,00 €Pixel 4 di Google, almeno nella sua versione piccola, è un gioiello mancato. Se solo Google ci avesse messo un quinto dell’impegno nel progettare e pensare lo smartphone di quello che ci ha messo nel fare il software dello smartphone saremmo qui a raccontare un altra storia, e i produttori di smartphone Android dovrebbero iniziare a preoccuparsi sul serio. Bastava poco, una fotocamera grandangolare aggiuntiva e una batteria leggermente più capiente. Quando Google mostrò il Pixel 4 su Twitter negli scorsi mesi si era capito che fondamentalmente il contenitore, lo smartphone, era già pronto: il Pixel 4 è uno smartphone che è nato un anno fa, pronto e finito, e questi mesi sono serviti per cucirci sopra Android 10 con la perfezione e la cura che solo un sarto può avere quando crea un vestito su misura. Nessun ci leva dalla testa che buona parte del team che realizza il Pixel lo vede come un esperimento, un modo per mostrare quanto Google è brava a fare le cose sfruttando le tecnologie più avanzate, vedi machine learning e computer vision. Certe decisioni sono dettate proprio dalla volontà di mostrare la bravura: l’astrofotografia è tecnicamente uno sballo, ma quanti la useranno veramente, calcolando che servono anche condizioni adeguate? Lo zoom 8x, per il modo in cui l’hanno calcolato partendo da una lente che come ingrandimento di base ha solo 1.8x è altrettanto incredibile, ma all’atto pratico la qualità che guadagna rispetto ad uno zoom digitale classico non è così eclatante. Google si esalta per queste cose, e snobba la semplicità e l’essere standard di un obiettivo ultra grandangolare che, anche senza particolari chicche software, poteva davvero dare qualcosa in più. Su certe cose si è un po’ persa in un bicchiere d’acqua, ma resta il fatto che i Pixel sono comunque ottimi prodotti. E dal punto di vista dell’esperienza offrono davvero un qualcosa in più, una coerenza che non sempre si trova su altri prodotti con Android. L’errore, spesso, è pensare che i Pixel siano come i Nexus: forse in Italia, dove li prendono in considerazione solo veri appassionati che vogliono un telefono fatto da Google, ma non negli States, dove il Pixel è uno smartphone “lifestyle” pensato per un pubblico che è totalmente distante, nei criteri di scelta, dagli appassionati di tecnologia. Appassionati che però Google non vuole deludere, e in quest’ottica vanno letti gli aggiornamenti promessi per migliorare il funzionamento dei 90 Hz e del face unlock: non era obbligata a farlo, anche perché non erano bug ma scelte ben precise, ma ha voluto far vedere che è pronta ad ascoltare gli utenti e a migliorare.
Qualità Longevità Design Semplicità D-Factor Prezzo
9 9 8 8 8 88.5COSA CI PIACE COSA NON CI PIACEQualità fotografica eccezionaleSblocco con il volto fulmineoAndroid 10 con aggiornamenti garantiti
Autonomia sotto la mediaAssenza di super grandangoloTroppo sforzo per funzionalità poco utili: zoom, astrofotogra-fia e Motion Sense
segue a pagina 31
Google Pixel 4La video recensione
lab
video
torna al sommario 31
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
Non è un bug, è una scelta. Il super grandangolo per
le foto invece manca, e la sua mancanza si sente so-
prattutto ora che anche Apple lo ha aggiunto. Perché
anche il super wide, come molte innovazioni presen-
ti su Android da anni e arrivate nel mondo Apple di
recente, diventano “popolari” solo quando toccano il
melafonino. Tante persone, e lo diciamo per esperien-
za diretta, non sapevano di avere sul loro smartphone
la fotocamera super grandangolare, hanno sempre e
solo usato la camera principale. Il super grandangolo
lo hanno ormai tutti, anche smartphone da poche cen-
tinaia di euro, e quando Mark Levoy dice che tra super
grandangolo e zoom hanno preferito lo zoom perché
secondo loro è più utile non considera che c’era una
terza scelta, metterli entrambi. Volendo essere pignoli
il super wide c’è, è realizzabile tramite software, e non
funziona neppure male, ma è comunque molto limi-
tato come si può leggere dalla nostra prova relativa
alla fotocamera. C’è poi la batteria, sulla carta poco
capiente. La batteria è chimica, miracoli non se ne
possono fare e Google ha anche inserito un display
dinamico che tocca i 90 Hz: non è una batteria che
porta fino a sera chi fa un uso moderato dello smar-
tphone, la giornata si riesce a fare solo se si utilizza
poco o durante la giornata si riesce a dare un colpetto
di ricarica. Google poteva mettere una batteria più ca-
piente solo aumentando lo spessore o le dimensioni,
ma il Pixel 4 è un gioiellino con dimensioni e pesi bi-
lanciati alla perfezione, questo è quello che ci sta. E
bisogna farselo bastare. C’è da dire, in ogni caso, che
la maggior parte delle persone fa un uso molto mo-
derato del telefono, e non è raro sentire persone che
arrivano a sera con smartphone anche datati, e con
una batteria con tanti cicli di ricarica alle spalle. Il Pixel
4 nella versione piccola ha indubbiamente una auto-
nomia inferiore alla media degli smartphone di oggi,
chi lo acquista deve considerarlo, e trovarsi pronto a
caricarlo almeno a metà giornata se l’uso che fa dello
smartphone è intenso. Chiarite queste cose andiamo
un po’ più nel dettaglio della prova, ricordandovi che
per la fotocamera come abbiamo già fatto per altri
smartphone top abbiamo fatto una prova dettagliata
sul campo, un weekend completo a Maiorca. Il link per raggiungerlo è qui.
Il coraggio di essere PixelIn un mondo dove il design degli smartphone si dirige
verso una convergenza tale che oggi, tra i vari pro-
dotti soprattutto di stampo cinese, è davvero difficile
capire cosa sia uno e cosa sia l’altro, il Pixel riesce ad
essere diverso. La versione in edizione limitata che
Google chiama “Oh so orange” in realtà non è così
arancio, è un salmone che cambia colore a seconda
della luce ambientale. Un po’ più arancio, un po’ più
rosa a volta, ma diverso. Il Pixel è piacevole da sentire
al tatto, ha una finitura posteriore soft che non trat-
tiene le impronte, merito della lavorazione del vetro,
e una cornice in alluminio satinato con il tipico tasto
di accensione colorato che centra l’obiettivo: essere
alternativo. Il design, per il Pixel, passa tuttavia in se-
condo piano perché a nostro avviso anche le custodie
in tessuto che Google ogni anno prepara solo parte
integrante del design: se con altri smartphone tendia-
mo a non mettere la custodia perché maschera quelle
che sono le linee volute dal produttore, nel caso dei
Pixel la custodia è parte integrante della linea. Oltre
a proteggere lo schermo, e lo protegge bene grazie
ad uno scalino di un millimetro sul bordo, la custodia
migliora il grip ed è piacevolmente bella da vedere, in
ogni versione. Sul frontale non c’è notch, ma c’è una
cornice abbondante nella parte superiore necessaria
per in numero di sensori che Google ha inserito, più
quelli per lo sblocco 3D del volto che quelli richiesti
dal Motion Sense, sistema simile ad un radar che
sfrutta una emissione di onde per avere cognizione di
quello che succede attorno allo smartphone. Motion
Sense è un sensore piccolo che non richiede visibilità
verso l’esterno, poteva essere inserito anche con uno
smartphone senza notch.
Il corpo è ovviamente waterproof, c’è la ricarica wire-
less e c’è la porta USB Type C nella zona inferiore,
unica porta presente perché manca il jack.
Due note: la ricarica wireless è velocissima
con il caricatore di Google, ma molto più
lenta con altri caricatori e incompatibile con
altri. Il caricatore Belkin usato per caricare
un Samsung Note 10 tutti i giorni non riesce
a caricare il Pixel oltre il 15%, anche lascian-
dolo tutta notte. La ricarica a filo è danna-
tamente veloce, basta usare un qualsiasi
caricatore power delivery.
L’assistente di Google si richiama come
sulle generazioni precedenti, oltre che con
le modalità classiche, anche stringendo lo
smartphone, scorciatoia molte volte utile.
L’audio è di ecellente qualità, decisamante
TEST
Google Pixel 4, la recensionesegue Da pagina 30
elevato come volume di emissione, e c’è anche una
ottima separazione stereofonica. Restiamo dell’idea
che nel 99% dei casi i diffusori degli smartphone ven-
gono usati per ascoltare i vocali e per il vivavoce, e
questa missione gli speaker integrati del Pixel la as-
solvono benissimo, ma se si mette un po’ di musica
il Pixel 4 non delude affatto. Decisamente meglio di
molti altri smartphone per timbrica, pressione sonora
e ricostruzione della scena stereofonica.
L’autonomia non è il suo forte. Ricezione, meglio il 3G del 4GLo schermo da 5.7” del Pixel 4 è un buonissimo scher-
mo. Ne abbiamo già parlato in modo approfondito,
e abbiamo spiegato perché Google ha fatto certe
scelte, anche relativamente ai 90 Hz dello schermo.
Funzionano, quando ci sono si vede e li percepisce
anche una persona che non ha idea di cosa siano i 90
Hz dopo avergli fatto notare la differenza, ma il fatto
che quando c’è poca luce o con certe applicazioni il
telefono non li usi, un po’ per evitare problemi un po’
per risparmiare energia, non è un dramma. Non è una
funzione che cambia radicalmente il modo di usare lo
smartphone quanto può esserlo il super grandangolo,
la ricarica rapida o una autonomia super.
Lo schermo è perfettamente visibile anche all’aperto,
nonostante sotto forte luce incidente manchi un po’
di contrasto: quando si legge una mail, o si naviga
una pagina web prevalentemente bianca, non ci sono
troppe differenze con gli schermi di altri top di gam-
ma. E, come resa cromatica, è decisamente ben cali-
brato e fedele al contenuto che deve mostrare.
Perde un po’ di brillantezza quando si usa il tema scuro
o quando si devono vedere a schermo fotografie fatte,
oppure un video: schermi più luminosi, come quello di
un Galaxy S10, riescono ad essere molto più incisivi an-
che in pieno giorno. Crediamo che anche questa sia
una scelta legata alla necessità di risparmiare un po’
di batteria. E proprio in termini di batteria qui si tocca
il tasto dolente: la versione piccina del Pixel 4 ha una
autonomia che non è allineata a quella degli altri top
di gamma. Se non si ricarica a metà giornata difficil-
mente si arriva a sera, sempre che non si prendano
alcuni accorgimenti, come ad esempio la disattivazio-
ne dell’Always On Display che consuma tanto. Con un
uso attento, quindi niente giochi, video, poche foto, la
semplice routine quotidiana fatta di whatsapp, un po’
di social, la mail e la navigazione web la giornata si
segue a pagina 32
torna al sommario 32
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
copre, ma resta comunque un limite. C’è da dire che,
dopo una settimana abbondante di utilizzo, l’autono-
mia è migliorata leggermente, ma niente miracoli: sia-
mo attorno alle 3 ore e mezza / 4 ore di schermo. Chi
vuole uno smartphone così piccolo e compatto deve
scendere a qualche compromesso. Nella norma la ri-
cezione, sia per quanto riguarda il wi-fi sia per quanto
riguarda la rece cellulare. A Maiorca, dove abbiamo
fatto il nostro reportage fotografico (che vi invitiamo a
leggere), la copertura è assicurata solo nelle principali
città mentre in alcune zone, soprattutto la Sierra de Tra-
montana che abbiamo attraversato più volte, c’è totale
assenza di segnale. L’altro smartphone che avevamo
con noi alternava assenza di segnale a 4G, il Pixel 4
in molte situazioni riusciva ad avere il 3G funzionante
dove l’altro smartphone, con una sola tacca di 4G, non
riusciva a navigare. La qualità telefonica è discreta, sia
il vivavoce sia l’audio in capsula: l’interlocutore arriva
all’orecchio decisamente cristallino, con un buon filtro
su quelli che sono i rumori esterni, tuttavia qualche vol-
ta chi ci ha chiamato si è lamentato di un po’ troppo
rumore di fondo. Anche il volume della capsula aurico-
lare non è elevatissimo, nei luoghi rumorosi un po’ di
fatica a sentire si fa.
La fotocamera è eccezionale. Ma certe scelte non sono comprensibiliSulla fotocamera del Pixel apriamo solo una parentesi,
perché l’ampia prova che abbiamo dedicato alla foto-
camera fatta negli scorsi giorni a Maiorca toglierà ogni
possibile dubbio su quelle che sono le reali possibi-
lità fotografiche dello smartphone. Pixel 3 era uno dei
migliori, se non il migliore smartphone fotografico lo
scorso anno e Pixel 4 cerca di migliorare ulteriormente
quella base. Sul punta e scatta la resa è come sempre
superba: la modalità HDR sempre attiva regala imma-
gini con un perfetto bilanciamento di luci e ombre, e
questo permette anche a chi spesso si trova in difficol-
tà con controluce e scene difficili di gestire al meglio la
situazione e di portare a casa una foto godibile. Inoltre
quest’anno Google ha aggiunto un secondo controllo
proprio per gestire prima dello scatto la resa di luci e
ombre, e abbiamo trovato questo controllo molto più
utile di quello generale presente in tutti gli smartphone,
che regola solo l’esposizione. La possibilità di vedere il
risultato a schermo, prima dello scatto, l’abbiamo trovata
anche lei fondamentale, e ci sarebbe piaciuto avere le
stessa preview in tempo reale per lo sfuocato dei ritratti,
cosa ancora non possibile.
I fiori all’occhiello del Pixel 4 sono sostanzialmente 3:
ritratti, zoom e modalità notturna. Il Pixel 4 per i ritratti è
in assoluto il nostro smartphone preferito, perché nono-
stante la funzione si chiami “ritratto” permette di gestire
lo sfuocato su ogni cosa. E, per ogni cosa, intendiamo
anche il riflesso di uno specchio, una statua, un oggetto.
Non solo: la sfocatura può essere regolata, ma questo lo
fanno tutti, e spostata su più piani, per avere lo sfondo
a fuoco e il primo piano con effetto blur. È tutta una si-
mulazione, ma la resa si avvicina sempre di più a quella
di una vera fotocamera e, cosa da non dimenticare, per
arrivare ad avere un qualcosa di simile con una fotoca-
mera serve un bell’investimento sulle ottiche. Perfetta
quando c’è tanta luce, la modalità ritratto (foto 1) soffre
abbastanza le condizioni di luminosità più critiche: una
foto al tramonto non esce pulita come si si potrebbe
aspettare. E se parliamo di cose usate pochissimo non
TEST
Google Pixel 4, la recensionesegue Da pagina 31
possiamo citare il ramo “astrofotografico” della modalità
notte. Sia chiaro, il fatto che con uno smartphone si pos-
sano fare le foto che abbiamo scattato la notte è qualco-
sa che ha del miracoloso a nostro avviso, la questione
è che raramente capiterà l’occasione per fare foto simili.
Serve inquinamento luminoso molto basso, tanta pa-
zienza, un treppiedi e la notte giusta, senza luna piena.
Per scattare la foto 2 le altre le vedete nel reportage,
siamo dovuti andare lontano dall’Italia, su un’isola, anda-
re nella punta più estrema dell’isola a 26 km da un cen-
tro abitato, trovare la notte di cielo sereno e luna nuova
e, armati di santa pazienta, aspettare i 4 minuti richiesti
Lo zoom “ibrido” basato sull’intelligenza artificiale è uno dei motivi di vanto dei tecnici di Google, ed effettivamente funziona meglio di altri zoom. Quanto meglio? Non così tanto da rinunciare al super grandangolo. Se l’obiettivo tele lo abbiamo usato più volte, lo zoom l’abbiamo usato davvero pochissimo. Qui sopra, una foto progressivamente ingrandita.
clicca sulle immagini per l’ingrandimento
segue a pagina 33
torna al sommario 33
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
da ogni scatto con la consapevolezza che dopo 4 minuti
nel 70% dei casi lo scatto era da buttare.
Per portare a casa 7 foto ci abbiamo messo 4 ore: noi
dovevamo farlo, c’era la funzione e andava provata,
ma a chi serve realmente una cosa simile? Zoom e
astrofotografia sono una dimostrazione di superiorità
tecnologica nel campo del machine learning tanto stu-
pefacente quanto difficile da utilizzare. E sulla modalità
notte standard, che era uno dei punti di forza di Google,
non è riuscita a mantenere il gap con la concorrenza.
Cosa avremmo preferito avere al posto di zoom e astro-
fotografia? Un bel super grandangolo e una interfaccia
migliore. Il super grandangolo volendo c’è via softwa-
re, e guardando la foto 3 si capisce che è usabilissimo,
soprattutto per i panorami, e ha una resa superiore a
quella delle altre fotocamere ultrawide perché combina
più scatti. Ma non può essere usato per i video o per
gli oggetti in movimento, e questo è un limite. La len-
te super wide serviva. Come ci serviva una interfaccia
migliore: la modalità notte deve funzionare automati-
camente, perché ci sono condizioni dove l’utente non
ha idea se convenga usarla o no. E soprattutto l’editor
integrato non è così efficiente su molti controlli e manca
di qualche funzione che può essere utile all’utente poco
esperto, come la correzione prospettica per le foto scat-
tate leggermente fuori asse. Per la parte video, la stabi-
lizzazione funziona benissimo, e, se guardiamo a come
Google ha pensato questo Pixel e al suo target molto
lifestyle e consumer, questa scelta ha senso: il Pixel aiuta
a riprendere video non mossi, anche se siamo su una
macchina o su un tram.
Dallo sblocco veloce a Motion Sense Così Google completa AndroidQuando si parla di Pixel spesso si parla anche di espe-
rienza Pixel. Avere uno smartphone di Google vuole an-
che dire portarsi a casa la migliore integrazione possibi-
le tra uno smartphone e il sistema operativo, e avere la
certezza di aggiornamenti rapidi sia per quanto riguarda
la sicurezza sia le nuove versioni di Android. Ma come
si traduce, all’atto pratico, questa “esperienza Google”
sapendo che esistono molti altri smartphone con una
interfaccia quasi “stock”? In realtà non sono tantissime
le cose che questo Google Pixel offre in più rispetto ad
altri smartphone dove il produttore ha cercato di toccare
il meno possibile l’interfaccia. La più nuova è forse il Mo-
tion Sense, ovvero la possibilità di controllare usando
una serie di gesti lo smartphone. Questo grazie al pic-
colo radar che Google ha inserito nella cornice, che pro-
ietta una sorta di bolla sensibile attorno allo smartphone
rilevando quelli che sono i movimenti delle mani. Dalle
demo che Google aveva mostrato di Project Soli, questo
il nome di Motion Sense quando era in fase di sviluppo,
la tecnologia sembrava molto più promettente. Ad oggi,
per quello che può fare, sembra di trovarsi davanti ad un
sensore avanzato ancora allo stato embrionale: saltare
un brano spostando la mano davanti al display o saluta-
re Pikatchu sono due inutili giochini utili per una presen-
tazione, ma non per l’uso di uno smartphone. Più inte-
ressante l’uso del sensore per rendersi conto di quello
che accade attorno allo smartphone, dal volume della
suoneria che si abbassa se Motion Sense si accorge
che stiamo per rispondere al sensore di sblocco che si
attiva se stiamo per prendere lo smartphone in mano. Lo
sblocco con il volto è rapidissimo: se si sceglie dalle op-
zioni di non mostrare le schermata di blocco quando lo
smartphone viene sbloccato, appena si prende lo smar-
tphone in mano, in qualsiasi condizione di luminosità, lo
si trova sbloccato. Anche se lo prendiamo al contrario,
o se non siamo totalmente in asse: sblocca sempre.
Della polemica legata alla facilità di sblocco abbiamo
già parlato: a nostro avviso è una polemica un po’ ste-
rile, anche perché ad oggi molte app che richiedono
autenticazione biometrica non funzionano con questo
sblocco, richiedono ancora il pin. Dopo due ore che si
è provato lo sblocco del Pixel, ci si dimentica del sen-
sore di impronte sotto lo schermo e non si vorrebbe
più tornare indietro. Ci sono poi due funzionalità che
sono interessanti: il registratore vocale trascrive l’audio
usando il machine learning, e lo fa offline, quindi senza
internet. Questo grazie ad un nuovo processore creato
da Google per velocizzare questo tipo di calcoli, e non
solo: moltissime operazioni che su altri smartphone
sono più lente, come ad esempio l’esportazione di un
video, sul Pixel vengono accelerate da quello che è un
vero co-processore di servizio. La trascrizione al mo-
mento non è attiva sulla lingua italiana, arriverà.
E poi c’è la traduzione in tempo reale dei contenu-
ti multimediali: al momento funziona con l’inglese e
funziona incredibilmente bene, lo abbiamo provato su
diversi video. Quando arriverà l’italiano sarà utilissima,
e ipotizziamo che in futuro Google possa addirittura
azzardare un doppiaggio in real time di alcuni video.
Miracoli del machine learning.
TEST
Google Pixel 4, la recensionesegue Da pagina 32
clicca sulle immagini per l’ingrandimento
3
2
1
Neri profondi, infinita varietà di colori
Scopri di più su www.tcl.com
Serie 65”
torna al sommario 35
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
Spesso i prodotti vengono creati a immagine di chi
li pensa e in Google, se guardiamo ai Pixel, sicu-
ramente c’è qualcuno che passa le domeniche
con la macchina fotografica al collo. Qualcuno che ha
cercato, con ogni soluzione possibile, di portare buona
parte di quello che riesce a fare con quella macchina
fotografica in un qualcosa che può stare in tasca, uno
smartphone. Pixel 4 è l’elogio della fotografia compu-
tazionale: come abbiamo già scritto nella nostra recen-
sione completa sembra quasi che Google abbia voluto
usare il suo smartphone come showcase per far vedere
che è molto più brava di altri quando si tratta di sor-
passare limiti che sembrano invalicabili. E il Pixel 4, per
certi aspetti, li supera. La nostra prova arriva in ritardo
per due ragioni: la prima è l’ovvio tempo che serve per
far le cose per bene, la seconda è la completezza. Non
potevamo uscire senza aver provato quella funzione,
l’astrofotografia, che è la testimonianza vivente di come
oggi con il software si possano abbattere tutti i limiti del-
l’hardware. Scattare le fotografie a Maiorca, al buio più
totale e con uno smartphone, fino a pochi anni fa era
totalmente impensabile. Ma l’astrofotografia è tanto bel-
la e tanto “wow “ quanto poco applicabile durante l’uti-
lizzo di tutti i giorni, servono condizioni particolari che
non sempre è facile trovare. Diamo inizio al nostro lungo
viaggio alla scoperta della fotocamera dei Pixel.
La magia dell’HDR con la fotocamera principaleIl sensore principale del Pixel 4 è del tutto simile a quello
già usato sul Pixel 3: è un sensore da 12.2 megapixel
con pixel da 1.4 μm, il classico bilanciamento tra risolu-
zione e dimensione dei pixel che garantisce una buo-
na dinamica e una dimensione di file accettabile. Un
obiettivo stabilizzato, con una apertura fissa a ƒ/1.7 e una
focale equivalente al classico 27mm, presente come fo-
tocamera principale su quasi tutti gli smartphone. Siamo
davanti ad un sensore dual pixel, con messa a fuoco
ibrida a ricerca di contrasto e di fase: abbiamo trovato
TEST Proseguono i nostri viaggi sul campo per mettere alla prova gli smartphone che fanno della fotografia il loro punto di forza
La prova fotografica di Google Pixel 4 a MaiorcaAbbiamo portato per qualche giorno a Maiorca il nuovo Pixel 4, in cerca del suo habitat naturale. Le stelle. Ecco i risultati
la messa a fuoco decisamente veloce, e soprattutto ca-
pace di agganciare un soggetto e inseguirlo tramite fo-
cus tracking. Se si clicca una macchina, o una persona,
e si modifica leggermente l’inquadratura, il Pixel terrà
comunque agganciato quell’oggetto. Le foto realizzate
con la fotocamera principale sono ottime per il livello di
dinamica che riescono a esprimere in ogni situazione,
e sicuramente la funzione HDR+ di Google aiuta e non
poco, così come aiuta il Live HDR+ a far capire ad una
persona, senza scattare, quale sarà poi il risultato finale
della foto. Solitmente su uno smartphone quello che vie-
ne mostrato a schermo è diverso dal risultato finale: con
il Pixel questo non succede. opo averci fatto la mano
abbiamo trovato molto più utile il controllo aggiunto del
tone mapping rispetto a quello dell’esposizione: mentre
scattavamo alcune foto al tramonto, grazie a questa op-
zione aggiunta da Google sui Pixel 4, siamo stati in gra-
do di regolare subito il bilanciamento tra ombre e luci
ottenendo una foto più naturale e meno finta. Qualcuno
potrebbe dire che questa correzione si può fare anche
dopo, ma in realtà non si ottiene affatto lo stesso risul-
tato, perché alcune zone bruciate o alcune ombre che
ci siamo persi non le recuperiamo più con l’editor, il file
Jpeg è compromesso. Si può fare solo con Lightroom,
aprendo successivamente il file RAW su un PC. E non è
certo cosa da tutti. Apprezzabile anche il nuovo sistema
di bilanciamento del bianco basato sul machine lear-
ning: Google lo aveva messo nel Pixel 3 ma solo per la
modalità notte, ora viene esteso a tutte le modalità. In
molti casi è preciso, qualche volta sbaglia, come la foto
al tramonto eccessivamente rossa.
Ecco le foto con il super grandangolo Che c’è, ma non si vedeLa prima grande critica che si può fare al Pixel sotto il
profilo della dotazione hardware è l’assenza di un ultra
grandangolo. Un 14 mm non è sempre indispensabile,
ma su uno smartphone che guarda alla fotografia non
deve mancare, soprattutto ora che lo hanno tutti. In real-
segue a pagina 36
clicca sulle immagini per l’ingrandimento
torna al sommario 36
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
TEST
La prova fotografica di Google Pixel 4segue Da pagina 35
tà un super grandangolo il Pixel 4 lo ha, ed è softwa-
re: combinando 9 scatti della fotocamera principale in
modo semplice è possibile scattare una fotografia che
può tranquillamente essere usata come scatto super
wide, pochi si accorgerebbero della differenza. Questa
modalità di scatto per certi aspetti semplifica anche la
vita: possiamo prenderci delle pause mentre compo-
niamo la foto. Il superwide di Google Pixel è semplice:
si scatta il soggetto, e poi si sposta lo smartphone agli
estremi per catturare la parte periferica. Il software poi
unirà le foto in una sola immagine,
compenserà luci ed esposizione, e in
una decina di secondi il risultato è ser-
vito su un piatto.
La foto che esce ha una risoluzione
molto più alta e dev’essere ritagliata
perché è fin troppo ampia, ma il risul-
tato, sia di notte che con poca luca, al
tramonto o di giorno, è assolutamente
buono. Problema: non si può usare
con i soggetti in movimento, viene
un pasticcio, e serve un po’ di prati-
ca. Non si può usare nemmeno per il
video, e ovviamente non è la stessa
cosa di avere un vero super wide che
crea la foto con un click: per portare
a casa uno scatto servono almeno 40
secondi. Google ha sbagliato due vol-
te: la prima perché non ha messo un
super grandangolo vero, la seconda
perché in fase di presentazione non
ne ha parlato, e non ha pensato di migliorare questa
funzionalità rendendola più veloce e pratica. Fino al
Pixel 3 ha scattato ritratti perfetti con un solo obiettivo
usando il software, e puntare sul software anche sul su-
per wide sarebbe stato in perfetto stile Google.
Per lo zoom c’è un obiettivo con sensore da 16 megapixel ‘virtuali’Google ha affiancato all’obiettivo principale con sensore
da 12 megapixel un secondo sensore da 16 megapixel
con pixel da 1.0 μm, quindi pixel decisamente più piccoli
di quelli adottati sul sensore principale. Un obiettivo sta-
bilizzato, con una focale equivalente di 48 mm che equi-
vale ad uno zoom di 1.8x. Ed effettivamente, coprendo
con le dita i sensori, ci si accorge che il passaggio tra
l’obiettivo principale e quello zoom è esattamente a
1.8x, e non a 2x. In fase di presentazione Google si è
clicca sulle immagini per l’ingrandimento
segue a pagina 37
Foto con supergrandangolo, clicca per l’ingrandimento.
Nelle foto 1 e 2, alcuni ritratti fatti, dove abbiamo regolato la profondità di campo e il punto di fuoco usando l’opportuna regolazione.
2
1
Una foto scattata a 48 mm.
Uno scatto notturno
torna al sommario 37
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
voluta soffermare sul lavoro enorme fatto per avere uno
zoom ibrido che potesse avere un’ottima resa da 3x a
8x, ed effettivamente anche a 8x lo zoom non è affatto
male. Uno smartphone con zoom ottico, come un P30
Pro o un Oppo Reno, offre però una resa nettamente
superiore. L’implementazione dello zoom da parte di
Google si basa sui principi dell’astrofotografia, sfrutta
quindi i leggeri movimenti della mano per raccogliere
più informazioni da una serie di foto in rapida sequenza
e aumentare la risoluzione.
Quello che lascia perplessi, ma siao certi che una logica
c’è, è l’uso del sensore. Il sensore è da 16 megapixel
ma in nessun caso si riescono ad ottenere foto da 16
megapixel, i file hanno tutti risoluzione inferiore. Un raw
di uno zoom 2x ha 3744 x 2804 pixel di risoluzione, che
il sistema di interpolazione del Pixel poi trasforma in un
Jpeg da 12 megapixel.
Lo chiamano ritratto, ma è molto di piùLa modalità ritratto è il fiore all’occhiello di questo Pixel,
un po’ come lo era stata sui modelli precedenti: nono-
stante avesse un solo obiettivo il Pixel 3 era in grado
di scattare ritratti migliori di quelli che riuscivano a scat-
tare altri smartphone Android con due obiettivi. Pixel 4
va oltre, perché se il Pixel 3 usava il riconoscimento del
volto per identificare il soggetto in primo piano, il nuovo
modello riesce a riconoscere anche altri soggetti, dagli
animali alle cose, e applicare la sfocatura.
Google dice che su questo nuovo modello vengono
usate entrambe le lenti per un effetto sfuocato perfetto,
ma coprendo la lente “tele” con un dito la modalità ritrat-
to funziona uguale. Come è possibile? In realtà la lente
aggiuntiva serve, anche se il suo intervento è subdolo e
lo si nota confrontando lo stesso scatto fatto con la lente
1.8x coperta e con la lente scoperta: le informazioni in
più raccolte dalla diversità di prospettiva, unite a quelle
raccolte dal sensore principale, permettono di avere uno
sfuocato molto più realistico su più piani. In poche paro-
le il Pixel 3 riusciva a sfocare perfettamente gli oggetti in
secondo piano ma non aveva la netta separazione dei
piani che invece il Pixel 4, con due obiettivi, riesce ad
ottenere. Oltre al fatto che non serve più essere vici-
nissimi al soggetto per sfuocare lo sfondo, e questo in
molti casi restituisce alle foto quella profondità che gli
smartphone non riescono mai a dare.
Google ha anche rivisto il modo in cui viene calcolata
proprio la sfocatura nei punti di luce, rendendola del
tutto simile a quella di una vera lente fotografica. Il risul-
tato è in molti casi eccezionale, sembra di trovarsi da-
vanti a quello che si ottiene con un vero obiettivo mol-
to luminoso. Come abbiamo scritto, la modalità ritratto
funziona anche sugli oggetti, e talvolta ha comporta-
menti sorprendenti: la foto qui sotto, ad esempio, usa
l’effetto ritratto sul riflesso di uno specchio. Incredibile.
Tecnicamente la modalità “portrait” sfrutta il sensore da
12 megapixel, quindi quello principale, ma quando si
clicca su “ritratto” il quadro viene ingrandito di 1.5x per
avvicinarsi al soggetto e viene usata solo la parte cen-
trale del sensore. La foto, poi, viene nuovamente ridi-
mensionata a 12 megapixel. L’uso della lente principale
TEST
La prova fotografica di Google Pixel 4segue Da pagina 36
per i ritratti è una buona cosa, perché il sensore è mi-
gliore, più luminoso, ma in condizioni di luminosità non
eccellenti i ritratti soffrono di un po’ di rumore e perdo-
no di dettaglio. E le foto non sono così definite come
quelle di altri smartphone che invece usano il sensore
tele da 50 mm come ottica principale per i ritratti.
Scatti di notte, Pixel non ha paura del buioLa modalità notturna del Pixel 4 è una evoluzione di
quella del Pixel 3: la maggior velocità di elaborazione
dei dati permette al Pixel di ottenere la stessa resa che
si otteneva con il Pixel 3 in un tempo inferiore, tenen-
do come sempre lo smartphone in mano, quindi senza
treppiede. La tecnica è sempre la stessa: più pose mol-
to rapide, immagine divisa in tante zone che vengono
poi allineate e addizionate per tirar fuori il risultato mi-
gliore. La modalità notturna del Pixel 4 regala grandis-
sime soddisfazioni in molte situazioni, e anche il fare
della lente con le sorgenti molto luminose è decisa-
mente contenuto. Ecco alcune immagini che abbiamo
scattato di notte.
L’astrofotografia non è per tutti. Ma il risultato è superQuelle che vedrete più sotto (dopo aver spento la luce)
sono, con molta probabilità, tra le poche foto reali del
Pixel 4 usato in modalità “astrofotografia” disponibili ad
una settimana dal lancio del Pixel 4. Le guardiamo, sia-
mo soddisfattissimi del risultato ottenuto, ma quando
guardiamo la via lattea nitida delle foto che ha realizza-
to Google ci rendiamo conto che le condizioni neces-
sarie per scattare foto simili sono a dir poco proibitive.
Per fare foto come quelle che abbiamo scattato si deve
andare in una zona a basso inquinamento luminoso,
trovare la notte giusta, senza luna, guardare nella giu-
sta direzione e sperare. Siamo andati a Maiorca, Cap
de Formentor, punta estrema dell’isola indicata dalle
app della luminosità come una delle zone più buie.
Google, per fare le sue foto, è andata probabilmente
in qualche deserto, o in qualche territorio inesplorato,
e ha trovato una condizione che capita una volta su
100.000. L’astrofotografia è da mascella a terra, ma bi-
sogna essere realisti e pensare che probabilmente in
due anni di Pixel 4 una persona si troverà pochissime
volte nelle condizioni di fare una foto simile: non può
essere un criterio di acquisto.
Detto questo la resa è sorprendente: alcune delle foto
sono state scattate da noi nel buio più totale, ci siamo
dovuti muovere con una torcia perché eravamo in una
zona dove davvero non si poteva vedere nulla. Il Pixel
4 riesce a “tirar” fuori dal buio la torre mantenendo an-
che una cromia credibile, gestisce alla perfezione una
città illuminata in lontananza e anche una variazione
di dinamica forte come quella del faro acceso, la cui
luce non disturba più di tanto il processo di creazione
della foto. Quello del cielo è uno scatto alla cieca: si
punta senza vedere cosa si sta fotografando, con lo
smartphone sul treppiedi, e si aspetta.
Dopo circa 1 minuto appare l’immagine rumorosissima,
e solo alla fine di tutto il processo, dopo diversi passag-
gi di riduzione del rumore, la foto viene restituita “quasi”
a posto. Quasi perché nell’editor Google ha previsto un
segue a pagina 38
Clicca sulle foto per l’ingrandimento
segue Da pagina 36
torna al sommario 38
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
profilo “astro” che funziona solo con le foto scattate in
modalità astrofotografia e mette in risalto le stelle, ag-
giungendo un po’ di contrasto. Variando l’esposizione
si accorcia il tempo di posa necessario, un minuto, due
minuti, ma non sempre il risultato è soddisfacente, a vol-
te esce una foto totalmente buia. Due critiche: la prima
è la disponibilità di una sola modalità fotografica, quella
dello scatto singolo, sarebbe stato bello avere anche lo
star trail, ovvero le scie stellari. La seconda è una man-
cata integrazione tra i servizi Google: sarebbe stato
utile avere le costellazioni in sovrimpressione con real-
tà aumentata, ci sono su Google Earth, e una versione
semplificata poteva aiutare a posizionare correttamente
lo smartphone sul treppiedi. Come abbiamo detto non
si vede nulla quando si scatta, lo schermo è totalmen-
te grigio. Il tempo massimo richiesto, nel caso di buio
più totale, è stato di 4 minuti e 10 secondi, ma il novello
astrofotografo deve mettere in conto che la pazienza è
uno degli ingredienti richiesti in questo campo.
Per chi vuole di più c’è sempre il file “RAW”Una piccola premessa: il Pixel 4, rispetto ad altri smar-
tphone, salva quasi tutte le foto in formato RAW: una
opzione che si può attivare dal menu impostazioni diret-
tamente sull’app fotocamera principale, con la consape-
volezza che un file in RAW occupa 11 MB.
Quando diciamo tutte le foto intendiamo anche le foto
scattate con modalità particolari: lo zoom ad 8x, ad
esempio, utilizza algoritmi software per migliorare la riso-
luzione, e quando si scatta una foto usando lo zoom a 8x
troviamo salvato tra i file sullo
smartphone un file RAW con
la risoluzione di 924 x 688
pixel a 300ppi. E’ la piccola
zona centrale del sensore
abbinato al teleobiettivo. La
stessa cosa vale anche per la
fotografia notturna e l’astro-
fotografia: sullo smartphone
vengono salvati i file RAW
dello scatto privo di quella
che poi è la magia “Google”,
sta all’utente lavorarli. Le foto
delle stelle, ad esempio, pos-
sono essere lavorate anche con software come Photo-
shop, che sicuramente hanno controlli migliori di quelli
dell’editor integrato. Ci abbiamo provato, e talvolta si
ottengono anche risultati migliori. Gli unici scatti che non
vengono salvati in RAW sono quelli relativi alla modalità
ritratto. Di fianco ad ogni fotografia abbiamo lasciato la
possibilità di scaricare sia i file RAW, se disponibili, sia i
file Jpeg originali. Lo abbiamo fatto anche per far vedere
il grosso lavoro fatto da Google con l’HDR: basta aprire
un RAW e vedere il risultato finale creato dal Pixel per
capire il motivo per il quale la Google Camera funziona
molto meglio di altre applicazioni fotografiche stock.
Smartphone per tutti, interfaccia per pochiIl Pixel, lo abbiamo scritto nella recensione, è uno smar-
tphone pensato per tutti. Qualcuno lo definisce l’iPhone
di Google e non si sbaglia, ci troviamo davanti ad un pro-
dotto che è più esperienza che specifiche. E se restiamo
nel campo di Android l’esperienza c’è, l’integrazione
con i servizi e con il mondo di Google è totale, tutto è
coerente e pensato per essere semplice e immediato,
sulla fotocamera questo vale un po’ meno. La qualità
delle fotografie altissime resta, e difficilmente si può
dire il contrario, ma l’interfaccia a schermo, il modo in
cui è impostata e certe scelte anche sulla gestione delle
foto le abbiamo trovate poco pensate ad un pubblico
mainstream. L’assenza di modalità notte automatica, il
selettore dello zoom poco preciso da gestire, la doppia
selezione di esposizione luci e ombre anche lei un po’
troppo difficile da regolare sono solo alcuni esempi. Tra
le altre cose che avremmo preferito avere ci sono la
preview in tempo reale dell’effetto ritratto, si vede solo
dopo aver scattato, e un inserimento automatico della
modalità notte, non serviva una modalità di scatto a
parte. Capire quando usare una e quando usare l’altra
non è sempre semplice, soprattutto nelle situazioni di
confine. Lo stesso editor è un po’ ostico da gestire: soli-
tamente un utente scatta, apre l’editor per fare qualche
ritocco di base e poi condivide, ma la modalità “auto”
di ritocco rende la foto troppo poco naturale e gli altri
strumenti non sono semplici da usare. Se si modifica poi
una foto ne viene salvata una copia, ma non c’è modo di
raggruppare la modificata e quella originale e soprattut-
to non viene indicata delle due qual’è la foto modificata,
quindi il rischio è di trovarci diverse foto doppie. Questa
se ci pensiamo è una cosa paradossale: lo smartphone
ha solo 64 GB di memoria, e Google per ogni versione
salva un file diverso. E, per i ritratti, salva due file, questo
sempre, uno con defocus e uno senza. Uno spreco di
spazio insensato. Tutto software, ma il software è impor-
tante e Google ne è consapevole: l’applicazione fotoca-
TEST
La prova fotografica di Google Pixel 4segue Da pagina 37
mere e l’editor fotografico devono essere rivisti non tan-
to in ottica di semplificazione quanto di flusso di lavoro:
scelta modalità migliore, scatto, ritocco e condivisione.
Promosso sulle foto, ma basterà per restare il re?L’assenza di un super grandangolo pesa non poco sul
Pixel, più che altro perché è rimasto l’unico a non aver-
lo. Serve? Non a tutti, e la versione software che si può
sfruttare sui Pixel potrebbe bastare nel 90% dei casi. Più
che sulle foto crediamo che il valore aggiunto del super
video sia in ambito video, ma Google non ha fatto del
Pixel uno smartphone “video”. Sulle foto il super wide
spesso è abusato, tanto cielo, tanto pavimento e sog-
getti piccolissimi. La qualità fotografica del Pixel 4 è altis-
sima, come era altissima quella del Pixel 3 dello scorso
anno, e qui la domanda da farsi è se ci sono motivi per
prendere il Pixel 4 al posto di un economico Pixel 3a,
che ha lo stesso sensore. Se consideriamo le foto soli-
tamente fatte dalle persone nell’80% dei casi un Pixel 4
scatta come un Pixel 3A, in più ha solo un controllo più
preciso della temperatura colore e dell’esposizione.
Ma una cosa che notano il pochi. La modalità ritratto,
usando due obiettivi, è molto più precisa e proprio la
facoltà di giocare con il fuoco e la profondità di campo
su tutti i soggetti, non solo i volti, è a nostro avviso uno
dei veri punti di forza. Si faceva anche con il 3, ma non è
così precisa come quella che Google riesce a calcolare
con la doppia lente. Lo zoom, tanto elogiato, funziona
effettivamente bene ma non è una cosa che si usa poi
così tanto, soprattutto a 6x o 8x: l’immagine esce pur
sempre sgranata, migliore di quella prodotta da sistemi
totalmente digitali ma sgranata. Se Google teneva in
modo particolare allo zoom esistevano soluzioni che
permettevano di ottenere una resa migliore semplice-
mente tramite le buone leggi della fisica e dell’ottica,
vedi la soluzione adottata da Oppo su Reno 10x. E poi
c’è la modalità notturna: di notte funziona praticamente
come quella del Pixel 3, quando calano le tenebre e
si deve fotografare la volta celeste il Pixel 4 fa la dif-
ferenza. Ma come abbiamo scritto sono casi rari. Pixel
aveva in primato che doveva difendere, quello di re dei
“photo smartphone”. Più che fare un passo avanti lo
ha fatto di fianco, guardando a cose che non vengo-
no usate moltissimo, sono più un vanto tecnologico. E
così facendo Apple si è avvicinata, perché inserendo la
modalità notte e il super grandangolo ha dato ai suoi
utenti quello che volevano. Google aveva un’ottima
occasione per staccare nettamente gli altri competitor,
ma non l’ha sfruttata al meglio. La competenza ce l’ha,
lo ha dimostrato più volte.
torna al sommario 39
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
Criticate inizialmente per il design, grazie alla loro
praticità le AirPods sono diventate in pochissi-
mo tempo le cuffie più vendute al mondo. Oggi
è difficile fare qualche decina di metri in piazza Duomo
a Milano, o prendere una metropolitana, senza vedere
qualcuno che le indossa. Dopo aver lanciato a fine mar-
zo le AirPods 2 con case di ricarica wireless, Apple ha
aggiunto alla gamma la versione “Pro”. Due le caratte-
ristiche di punta: migliore qualità audio e cancellazione
attiva del rumore, finalmente possibile grazie al design
in-ear. Un prodotto sofisticato, con un processore che
effettua l’equalizzazione in tempo reale e che gestisce
due microfoni, uno verso l’esterno per captare i rumo-
ri ambientali e uno verso l’interno, in quella zona tra
cuffia e timpano che si trasforma in cassa acustica. Un
prodotto pensato per gli utenti Apple, ma che funziona,
come vedremo, anche su Android perchè le alterative in
questo segmento non sono poi così tante. Un prodotto
che mancava, perché la cancellazione del rumore, più
che la qualità audio, era in cima alla lista dei desideri di
coloro che in questi anni hanno apprezzato le AirPods.
Che sono e restano comodissime, piccole, pratiche, ma
sono incapaci di isolare dall’ambiente esterno e per mol-
ti questo è un problema.
Stessa praticità, ma migliorano design ed ergonomiaLa resa audio non è mai stata la qualità migliore delle
cuffie di casa Apple: gli utenti hanno apprezzato so-
prattutto l’immediatezza, la semplicità e il feeling, quella
sensazione di averle addosso senza sentirlo. Le AirPods
Pro vogliono mantenere la stessa praticità, ma con un
form factor più impegnativo: un auricolare di tipo in-ear
è più invasivo. I gommini in dotazione, di tre taglie, sono
dello stesso materiale usato per le Beats, una gomma
morbida ed elastica, e abbiamo apprezzato due cose in
particolare: si attaccano e si staccano come dei piccoli
bottoncini, bastano pochi secondi per sostituirli, e non
è affatto necessario spingere le cuffie dentro l’orecchio
per indossarle. L’auricolare non si regge infatti sull’inca-
stro del gommino nella cavità auditiva, in modalità tap-
po, ma sfrutta la sua particolare sagomatura esattamen-
TEST Siamo andati in treno, in metropolitana e in palestra con le nuove AirPods Pro, la versione in-ear dei famosi auricolari di Apple
Apple AirPods Pro ufficiali, le abbiamo provate Qualità del suono e cancellazione del rumoreDue le caratteristiche di punta: migliore qualità audio e cancellazione attiva del rumore, finalmente possibile grazie al design in-ear
te come le normali AirPods. La percezione è di averle
all’orecchio, ma non danno affatto fastidio.
Apple non ha realizzato un auricolare totalmente sigil-
lato: la piccola griglia che si vede verso l’esterno è in
realtà un condotto che serve proprio per liberare even-
tuale pressione nella zona tra timpano e auricolare. Le
AirPods Pro non sono tappi, e non isolano come posso-
no isolare i tappi per le orecchie.
Non abbiamo mai avuto problemi di vestibilità con le
AirPods, anche se siamo consapevoli che qualcuno non
riesce a tenerle all’orecchio, si staccano: le AirPods Pro
dovrebbero risolvere questo problema. Trattandosi di
cuffie in-ear Apple aveva poi un problema da risolvere:
non si può fare “tap” su una cuffia che è inserita nel-
l’orecchio, è fastidioso e può portare anche a problemi,
ecco perché per controllare le AirPods Pro c’è un picco-
lo sensore capacitivo che offre la percezione tattile di un
bottone senza essere un bottone. Lo abbiamo trovato
più comodo e preciso del tap, ed è anche multifunzio-
nale: una lunga pressione alterna la modalità “cancella-
zione rumore” a quella di “trasparenza acustica”, mentre
uno, due o tre pressioni rapide attivano rispettivamente
play e pausa, salto traccia in avanti e salto traccia indie-
tro. Il bottone è presente su entrambi gli auricolari, e può
essere riconfigurato dal menù di iOS. Manca ancora la
regolazione del volume, e senza un Apple Watch al pol-
so si può solo chiedere a Siri si alzare o abbassare, ma
è scomodo. Non manca una interfaccia per controllare
le AirPods da iPhone o da Apple Watch, dove si può
regolare il volume (ovviamente) e inserire il filtro di can-
cellazione. La presenza della protezione IPX4, quindi
acqua o sudore, denota anche una vocazione sportiva:
li abbiamo usati questa mattina in palestra senza alcun
problema, sia per correre sia per gli esercizi a corpo li-
bero. Rispetto alle AirPods il nuovo modello è anche più
gradevole da vedere, il lungo bastoncino della versione
classica si accorcia di circa mezzo centimetro e l’impatto
visivo è più discreto. La custodia non è così diversa da
quella delle altre AirPods: è più larga, ma è anche più
bassa, e la differenza è solo di 5 o 6 millimetri. Avere in
tasca questa, o avere il modello vecchio, non fa differen-
za. Nella scatola c’è una piacevole sorpresa, un utilissi-
mo cavo USB Type C – Lightning da usare con i carica-
batterie degli iPad, degli iPhone Pro e con i MacBook. La
presenza di questo cavo lascia intendere che Apple non
ha alcuna intenzione di togliere, nemmeno il prossimo
anno, il Lightning come molti speravano.
La cancellazione del rumore è veramente efficaceLa linea gialla della metropolitana di Milano è la più
recente ma anche la più rumorosa. Usando un paio di
auricolari classici, come le AirPods, per sentire qualco-
sa si deve prendere il palmo della mano e schiacciare
l’auricolare contro l’orecchio. E questo al massimo del
volume, situazione non troppo salutare per il nostro
apparato uditivo. Va un po’ meglio con le normali cuffie
in-ear, che grazie ai gommini isolano, ma il rumore della
maledetta linea 3 resta comunque assordante. Le AirPo-
ds Pro superano in test “ATM Linea 3” a pieni voti: si può
ascoltare la musica, telefonare e guardare un film tenen-
do il volume a metà scala, senza neppure esagerare.
Non è un miracolo di Apple, qualsiasi cuffia con un
ottimo sistema di riduzione del rumore come la Sony
WH-1000XM3 o la Bose QC35 esce vincente, ma que-
sti piccoli auricolari, se guardiamo alle dimensioni e alla
comodità, sono incredibilmente efficaci. Le AirPods non
vanno premute nelle orecchie con forza, non creano
quell’effetto ventosa che causa un po’ di nausea quan-
do subentra l’isolamento totale dall’esterno, basta aver-
le appoggiate con i gommini, comunque aderenti, per
godere di un eccellente effetto di isolamento. Quanto
contribuisce a questa resa il sistema di cancellazione
del rumore attiva? Tanto, gran parte del merito è suo: se
lo disattiviamo e sfruttiamo solo l’isolamento garantito
dalla forma dell’auricolare il rumore di fondo, soprattutto
sulle frequenze medio basse, non viene abbattuto del
tutto, solo attutito. Come si posizionano le AirPods Pro
segue a pagina 40
torna al sommario 40
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
tra le diverse cuffie con riduzione del rumore a livello di
prestazioni? Sicuramente non sono come le Sony WH-
1000XM3, ad oggi la miglior cuffia al mondo quando si
tratta di isolare l’orecchio dai rumore esterni. Ma è una
cuffia, le dimensioni e gli ingombri sono altri, anche il
target è un altro. E non sono nemmeno le Bose QC35.
Ma se guardiamo al prodotto più simile esistente oggi
sul mercato, le Sony WF-1000XM3, siamo davanti a due
prodotti che potrebbero equivalersi. Di gran lunga supe-
riori a tutti gli altri auricolari che promettono la riduzione
del rumore e che, in questi mesi, abbiamo avuto modo di
ascoltare. Sentiamo però di dare un suggerimento: non
comprate le cuffie del rumore a scatola chiusa, prova-
tele. Anche le AirPods Pro: andate in un Apple Store e
chiedete un test. Questo perché ogni orecchio è diver-
so, e oggi in redazione abbiamo fatto ascoltare sia le
Sony che le AirPods ad un po’ di persone raccogliendo
pareri diversi, a qualcuno si adattavano meglio le AirPo-
ds ad altri invece è sembrata migliore la riduzione del
rumore delle Sony, anche se l’auricolare risultava più
scomodo e fastidioso indossato. Da apprezzare il fatto
che Apple si sia resa conto che solo la perfetta unione
tra cuffia e orecchio riesce a dare la resa desiderata, sia
in termini di isolamento sia in termini di resa acustica, e
ha inserito un test per vedere se la taglia di “gommino”
scelta è adatta e in caso contrario avvisa che è meglio
cambiare. Non sempre serve la riduzione del rumore, e
proprio per questo motivo Apple ha inserito una moda-
lità “trasparenza” che amplifica leggermente quello che
succede attorno a noi. La latenza è effettivamente mini-
ma, e non sembra affatto di trovarsi davanti ad un suono
percepito da un microfono e amplificato. Le voci di chi
parla giungono chiare, l’ascolto sembra assolutamente
naturale e per nulla fastidioso: sembra quasi di non aver
le cuffie addosso.
Finalmente si può parlare di qualità musicalePer la prima volta da quando indossiamo le AirPods si
può parlare di qualità audio: se il modello precedente
era paragonabile ad un paio di auricolari a filo da 40
euro, le AirPods Pro suonano come può suonare un’otti-
ma cuffia di livello. Chi ha un orecchio allenato potrà ca-
pire perché Apple le ha chiamate “pro”: sono assoluta-
mente neutrali, con un ottimo dettaglio, ottima dinamica
e un ottimo senso di profondità. Molto simili a quelli che
possono essere auricolari da palco o da studio, quindi
senza una particolare colorazione aggiunta al suono.
La riproduzione della scena è davvero notevole: abbia-
mo ascoltato brani hi-res da Tidal di ogni tipo, dal jazz al
rock, e la AirPods hanno mantenuto un eccellente detta-
glio senza mai scomporsi nei momenti più impegnativi.
La resa audio non viene influenzata dall’attivazione della
modalità di riduzione del rumore o della modalità “tra-
sparenza acustica”, con gli auricolari che mantengono
quella eccellente dinamica e quella timbrica neutra e bi-
lanciata che dovrebbe sposarsi un po’ con i gusti di tutti.
Ricordiamo che nel menu Musica dell’iPhone è possibile
variare l’equalizzazione, a patto di usare il player di Ap-
ple Music. Apple non ha migliorato solo la qualità audio
per quanto riguarda la musica: la cancellazione acustica
aiuta durante le telefonate, e l’interlocutore sente deci-
samente meglio, anche se stiamo correndo o se siamo
in bicicletta. La nostra voce arriva più pulita, senza fruscii.
La qualità delle chiamate con le AirPods a nostro avviso
è sempre stata eccellente, anche per la posizione parti-
colarmente efficace del microfono, ma il nuovo modello
ha un qualcosa in più. È bene sottolineare che il sistema
non comporta alcun ritardo audio: il parlato è perfetta-
mente sincronizzato con il video a schermo.
L’autonomia rispecchia quella dichiarataLe AirPods Pro cariche durano circa 4 ore, anche se è
difficile fare un calcolo preciso perché l’inserimento della
cancellazione acustica riduce leggermente l’autonomia
e la stessa cosa vale per le telefonate. Con gli auricolari
nuovi 4 ore sono un obiettivo realistico, anche se solo
in un lungo viaggio aereo una persona tiene gli aurico-
lari addosso per 4 ore senza mai toglierli. La custodia
ha “energia” per arrivare fino a 20 ore circa, anche qui
con un giusto bilanciamento di telefonate, riduzione del
rumore attiva e sistema di noise reduction disattivato. Si
scaricano? Bastano davvero 5 minuti nella custodia per
avere autonomia per un’ora circa.
Funzionano anche con Android, ma si perde qualcosaLe AirPods Pro funzionano anche con Android. Ed è
una cosa che ci teniamo a precisare, perché al prez-
zo delle normali AirPods alternative per Android se ne
trovano a centinaia. In casa AKG passando per JBL, ma
anche guadarando alle Samsung Galaxy Buds, ottime,
si possono trovare cuffie wireless che suonano meglio
delle AirPods a 180 euro. Se guardiamo invece alle
AirPods Pro, gli unici auricolari wireless di livello con
cancellazione del rumore attiva (in attesa delle Huawei
FreeBuds 3) sono le Sony WF-1000XM3, gran qualità
e ottima resa.
Ma sono grosse, e non sono così comode da indos-
sare, quindi un utente Android potrebbe essere ten-
tato di provare il modello Apple con un abbinamento
per molti sacrilego. Tutta la parte di cancellazione del
rumore viene fatta direttamente nel dispostivo, quindi
collegando le AirPods Pro ad Android non si perde nul-
la: il passaggio tra cancellazione e trasparenza avviene
sempre con la pressione del tasto sull’astina. Funziona-
no anche i comandi di play, salto traccia e pausa: l’unica
cosa che non si può fare è personalizzare i tasti, serve
per forza un iPhone. Ma non si perde poi così tanto,
perché la personalizzazione è comunque limitata.
Il prezzo da pagare per un prodotto con una data di scadenzaLe AirPods Pro costano 279 euro. Tanto? Niente affatto
se consideriamo che la qualità audio è paragonabile a
quella di auricolari a filo che costano circa 200 euro, ed è
di gran lunga superiore a quella delle AirPods classiche.
Il prodotto che più si avvicina a queste AirPods Pro sono
le WF-1000XM3, anche loro a cancellazione del rumore
attiva, anche loro con una buonissima qualità audio ma
più ingombranti e sicuramente meno pratiche.
Anche le Sony non costano poco, più di 250 euro, per-
ché la tecnologia per avere una buona cancellazione
del rumore ha costi di implementazione non indifferenti.
L’unico dubbio è legato alla “data di scadenza”, che non
è scritta sulla custodia ma che è inevitabile: le AirPods
Pro hanno una batteria al litio piccola, e le batterie si
consumano. Un prodotto come le AirPods in un anno
arriva ad avere anche 300 cicli di ricarica, in due anni
500 o 600 cicli, anche di più se una persona vive con
gli auricolari addosso. Tra due anni l’autonomia delle
AirPods Pro sarà ridotta del 30% circa, e a seconda del-
l’utilizzo sarà anche diversa tra i due auricolari. Questo
vale per tutti i prodotti che non hanno e non possono
nemmeno avere una batteria facilmente sostituibile, non
solo per le AirPods. La soluzione migliore è acquistare
contestualmente alle cuffie la polizza aggiuntiva Ap-
ple Care: costa 39 euro e se la batteria scende sotto
l’80% dell’autonomia originale le AirPods vengono
sostituite gratuitamente.
Non sostituiscono le AirPods Ma dovrebbero farloLe AirPods Pro non sono economiche, ma non lo sono
neppure le cuffie e gli auricolari di qualità. Costano
100 euro in più delle AirPods 2 con ricarica wireless,
ma offrono tanto di più: la cancellazione attiva del ru-
more è un “must have” per chi ogni giorno frequenta
luoghi affollati, per una questione di salute perché si
può tenere un volume decisamente più basso e an-
che per una questione di benessere.
Non sono al livello delle vere cuffie noise canceling,
ma chi ha usato fino ad oggi le AirPods e proverà le
nuove sarà quasi commosso dal sentire come la qua-
lità audio è nettamente migliore e di come davvero
queste piccole cuffie abbattono parte dei disturbi
esterni. Senza sacrificare la praticità e l’immediatez-
za che ha reso le AirPods il prodotto più apprezzato
di sempre dagli utenti Apple. Qualcuno ha detto che
queste sono le AirPods che Apple avrebbe dovuto
lanciare fin dal primo giorno, ed effettivamente tra il
modello da 179 euro e quello da 279 euro non abbia-
mo il minimo dubbio: AirPods Pro.
TEST
Apple AirPods Prosegue Da pagina 39
torna al sommario 41
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
D a fuori sembrano uguali, ma basta dire “OK
Google metti un po’ di musica” per capire dove
Google ha migliorato quello che è il suo smart
speaker più venduto. Dai cestoni dei centri commerciali
negli ultimi due anni i Google Home Mini sono finiti in
tantissime case, e se qualcuno non li ha poi usati come
smart speaker, o non ha mai avuto intenzione di farlo, in
tanti apprezzano il fatto che a cinquanta euro si possa
acquistare un diffusore per la musica wireless sfruttabile
anche in modalità multiroom.
Google Home Mini aveva, e ha tutt’ora, un limite non da
poco: la qualità audio non è affatto eccezionale. Soprat-
tutto se la paragoniamo a quella offerta da Amazon Echo
Dot, anche lui piccino ma capace di riempire una stanza
con maggiore corposità e con bassi più sostenuti.
Il nuovo Nest Mini cerca di risolvere proprio questo pro-
blema, la qualità audio, e promette di migliorala senza
però alterare quelle che sono le forme originali. Questo
perché molti potrebbero acquistare il modello recente
da affiancare a quelli attuali, e Google voleva mantenere
una coerenza stilistica. C’è un cambiamento importan-
te che tuttavia non si vede: il corpo è fatto in plastica
riciclata e il tessuto che copre il Nest Mini è realizzato
riciclando le bottiglie dell’acqua in plastica.
Tornando allo speaker, con la sua classica forma schiac-
ciata, c’è un dettaglio che merita una critica: Google
Home Mini è alimentato tramite un cavo micro USB, e
questo vuol dire che è affatto difficile trovare un cavo
più lungo di quello in dotazione, ad esempio un cavo
da 2 metri necessario per posizionarlo su una mensola
TEST Abbiamo provato il nuovo Nest Mini di Google per capire dove Google ha migliorato quello che è il suo smart speaker più venduto
Google Nest Mini suona molto meglio di Home Mini Lo abbiamo smontato per capire perchéIl nuovo Nest Mini cerca di risolvere proprio il problema della qualità audio e promette di migliorala senza alterare le forme originali
sopraelevata. Nest Mini ha un connettore di alimentazio-
ne diverso, bisogna fare una prolunga ad hoc perché il
cavo in dotazione è piuttosto corto. Come mai Google
ha fatto preso questa decisione? Perché Google Home
Mini consumava meno di 10 watt, il nuovo Nest Mini ne
consuma fino a 15 di Watt: la maggiore pressione sonora
richiede un amplificatore più potente. Un USB Type C
sarebbe stata una scelta migliore, oltre che più flessibile.
Sul retro Google ha ricavato un piccolo incavo per ag-
ganciare il Mini ad una vite: si può appendere lo speaker
a muro, ma è una soluzione pratica per gli utenti america-
ni dove i muri di cartongesso si tagliano con un grissino
e antiestetica per le nostre case in muratura, dove una
installazione simile senza predisposizione lascerebbe il
filo a penzoloni. Come ha migliorato Google il Nest Mini?
All’interno ci sono tre microfoni che dovrebbero aiutare
a riconoscere il comando di attivazione anche con una
buona dose di rumore ambientale, in realtà non abbiamo
percepito differenza, dicendo “OK Google” il Nest Mini
risponde più o meno sempre. A fianco del processore
quadcore di base c’è anche un nuovo processore desti-
nato all’elaborazione in locale di alcune richieste vocali,
questo ovviamente tramite machine learning. Il fatto di
non dover più inviare al server una richiesta velocizza di
qualche millisecondo la risposta, oltre ad essere più “pri-
vacy oriented”. Ma veniamo alla musica, dove per capire
come Google avesse migliorato la resa, e se si trattava
di una vera modifica hardware o di una diversa equaliz-
zazione, abbiamo aperto i due smart speaker. Nest Mini,
come si può vedere qui sotto, usa un trasduttore che
lavora in camera chiusa leggermente diverso da quello
sfruttato dal modello precedente. Sparisce anche quella
piccola guida d’onda inserita nel Google Home Mini, che
aveva la duplice funzione di ottimizzare la resa audio e
di dissipare il calore generato dall’amplificatore.
Il diffusore è un full range, con una cupola leggermente
più ampia e una sospensione più rigida, e questo per-
mette di gestire meglio le distorsioni. Anche ad alto vo-
lume Nest Mini non delude, e il suono secco del modello
precedente viene addolcito da una buona dose di basse
frequenze. Non ci troviamo davanti ad un diffusore hi-fi,
resta una qualità audio mediocre se paragonata ad uno
speaker tradizionale o alla versione più grande, tutta-
via Google si è messa alla pari di Amazon, e riesce a
competere con Echo Dot anche sotto il profilo della resa
acustica. Quello che abbiamo apprezzato sicuramente
è la capacità di riempire una stanza di medie dimensioni
senza apprezzabili distorsioni, neppure a volume quasi
massimo, e non è affatto scontato per un prodotto di
queste dimensioni. Più di così, per ovvi limiti fisici, proba-
bilmente non si può fare. Un Nest Mini costa 59 euro, ma
il consiglio è di acquistarli a coppia: utilizzando l’app di
Google Home, la stessa che si usa per il setup, si posso-
no infatti usare due Nest Mini in modalità stereofonica.
Chi ascolta la musica in mono è un criminale.
Sopra il vecchio Google Home Mini, sotto il nuovo Nest Mini.
Diffusori a confronto: Nest Mini a sinistra, Home Mini a destra.
torna al sommario 42
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
di Roberto PEZZALI
C ’è un solo numero che deve restare impresso
nella mente quando si guarda questo Mavic Mini
DJI: la scritta 249 impressa sulla fiancata. Perché i
249 grammi di peso sono a tutti gli effetti la caratteristica
che rende questo drone molto più interessante di tutti i
modelli DJI. Chi lo compra, a partire da luglio 2020, non
dovrà ottenere il patentino richiesto dal regolamento
europeo, e potrà volare senza problemi a 150 metri da
aree congestionate e a 50 metri dalle persone.
Restano ovviamente dei limiti: dovrà essere registrato
per non violare la privacy e dovrà rispettare la spazio
aereo. Ricordiamo infatti che libertà vuol dire rispettare
le regole e questo include anche gli spazi aerei previsti
da ENAC: basta fare un giro sul sito D-Flight.it, il sito
ufficiale con la mappa delle zone regolamentate, per
rendersi conto che ci sono tante aree, anche parchi
naturali, per i quali serve comunque una autorizzazio-
ne speciale. L’app DJI aiuta, perché grazie al database
integrato indica quando si sta per far decollare il drone
in una zona vietata. Il Mavic Mini ha una libertà (con le
dovute precauzioni) che non hanno tutti gli altri droni
del catalogo DJI: ci troviamo avanti a quella che è a tutti
gli effetti la prima videocamera / fotocamera volante.
Un solo dubbio: pesa 249 senza i paraeliche che non
sono in dotazione, ma sono nel kit fly more: il regola-
mento europeo per i droni prevede che le eliche siano
protette contro i contatti accidentali, e se i paraeliche
fossero obbligatori il drone passerebbe i 250 grammi.
Basterà la protezione elettronica? Crediamo che DJI
abbia fatto bene i suoi calcoli, perché altrimenti basta-
va ridurre leggermente la batteria sacrificando un paio
di minuti di autonomia per includere nei 250 grammi
anche i paraeliche. Abbiamo avuto la fortuna di ricevere
il drone prima di partire per Maiorca, dove siamo andati
a fare la prova del Pixel di Google, e abbiamo portato
il drone con noi.
Conosciamo bene il Mavic Air e il Mavic Pro 2: questo
Mavic Mini assomiglia molto a entrambi, al Mavic Air nel
concetto e al Mavic Pro nel design, con una livrea in pla-
stica grigia e i braccetti che si piegano per agevolare il
trasporto. Il Mavic Mini è leggero e piccolissimo: le an-
tenne sono inserite nei braccetti e, nella parte anteriore,
è montato il gimbal derivato da quello della Osmo Poc-
TEST Abbiamo provato per una settimana il Mavic Mini di DJI: il nuovo drone compatto è definito da DJI come una “Everyday Fly Cam”
DJI Mavic Mini: autonomia super e che foto!In pochi minuti è in aria, si guida facilmente e si portano a casa foto e video super. Il tutto in soli 249 grammi di peso
ket. La videocamera stabilizzata a tre assi è l’elemen-
to principale: DJI ha creato il Mavic Mini con l’obiettivo
esplicito di realizzare un drone per le foto e per i video
facile da pilotare e senza troppe funzioni evolute. Pro-
prio per questo motivo insieme al drone arriva una nuo-
va app DJI FLY, una versione semplificata di DJI Go 4
che include solo le funzioni di base, poi vedremo quali.
La camera è montata sul gimbal stabilizzato a tre assi:
secondo DJI è la stessa camera del Mavic Air, 1/2.3” da
12 megapixel con video 2.7K a 30 fps e Full HD a 60 fps.
Ci sono anche i QuickShots, quindi le riprese assistite
che il drone effettua in autonomia dopo aver evidenzia-
to un soggetto. Dal menu, molto pratico, si può sceglie-
re a che distanza effettuare il “QuickShots”, e sta a chi
effettua la riprese assicurarsi che non ci siano ostacolo
attorno. Il drone, infatti, non è dotato di alcun sistema
di rilevamento ostacoli, presente invece, anche se non
completo, sul Mavic Air. Questo per contenere non tan-
to il prezzo, quanto il peso: se si considera la batteria,
mantenere il tutto sotto i 249 grammi è un vero miraco-
lo. Non c’è memoria interna, c’è solo una microSD, e il
connettore è micro USB, niente USB Type C come sul
modello superiore. Il telecomando è simile a quello del
Mavic Air: non c’è il selettore sport diretto, i joystick sono
neri ma la logica è esattamente quella, la forma anche.
Sulla carta il Mavic Mini può arrivare a 2 km di distanza
in modalità CE, quindi usando le frequenze consenti-
te dalla normativa europea, e il collegamento avviene
sempre tramite Wi-fi. L’autonomia dichiarata da DJI è di
30 minuti. Ma è davvero così?
Grande autonomia. Ed è stabilissimo con tanto ventoAbbiamo usato il drone DJI sulla Sierra de Tramontana
a Maiorca, prima nell’entroterra e poi sul mare, vicino
a Pollenca. Abbiamo scelto una giornata con un po’ di
vento, forse troppo in alcuni frangenti, tanto che l’app ci
ha avvisato più volte del pericolo di vento forte.
Il vento, per un insettino di queste dimensioni, potrebbe
essere un problema, eppure le riprese sono risultate as-
solutamente stabili. Nonostante sia ancora una versione
preliminare con un firmware non definitivo, abbiamo tro-
vato il coraggio di farlo volare sul mare, anche ad una
DJI MAVIC MINI, recensioneLe riprese, l’autonomia e il range
lab
video
segue a pagina 43
torna al sommario 43
MAGAZINEn.209 / 194 NOVEMBRE 2019
distanza di circa mezzo km dalla costa: rischioso. L’app
italiana non era ancora stata tradotta a pieno, e ogni
tanto uscivano popup da premere alla cieca, ma tutto
è andato per il vero giusto, il drone è sempre tornato a
casa. Qualche bug c’è, come ad esempio la regolazione
dell’angolo del gimbal che ogni tanto al termine della
ripresa ha un piccolo scatto, ma crediamo che questi
vengano risolti prima del rilascio. Il drone vola benissi-
mo, è veloce quando basta ed è incredibilmente stabile
nelle riprese, che potete vedere nella nostra video pro-
va. Neppure il vento lo ha disturbato più di tanto. Esi-
stono due modalità di registrazione, quella automatica
o quella manuale, dove si possono regolare esposizio-
ne e ISO, ma l’automatico per questo tipo di utilizzo va
più che bene. Trattandosi di un prodotto amatoriale le
riprese in Full HD e 2.7K sono compresse in Mpeg4 e
per le foto non sono disponibili né il formato RAW né il
braketing per l’HDR. Non si hanno quindi a disposizio-
ne tutte le opzioni che invece un utente di Mavic Air, o
dei modelli superiori, può sfruttare. E’ semplice, ha solo
quello che serve, punto. Le ventole sono piccoline ma
non sono silenziose come DJI ci ha detto in fase di pre-
sentazione: quando il drone è sopra la nostra testa si
sente, ma appena si allontana di un centinaio di metri
sparisce alla vista, impossibile davvero notarlo. Le eli-
che sono agganciate con le viti, e per la prima volta su
un drone DJI c’è il cacciavite in dotazione. Questione
anche qui di peso, ogni grammo è vitale.
La velocità è ottima sul piano orizzontale e quando si
tratta di prendere quota, un po’ meno veloce nella di-
scesa, ma non c’è fretta, anche perché la batteria dura.
Dura tantissimo.
Con una sola carica dopo due voli
da 13 minuti e da 7 minuti aveva
ancora un 35% di batteria residua.
I piani di volo e i log, qui sotto, lo
dimostrano. Questo anche con
vento contrario in una fase di ri-
torno lunga circa 500 metri, non
poco. I 30 minuti dichiarati da DJI
sono assolutamente reali, e que-
sto si traduce in circa 25 minuti di
volo vero, tenendo un margine di
“emergenza” che noi consigliamo
sempre di considerare. Il pacchet-
to Fly more combo, che include
tre batterie, un caricabatterie e
la custodia è assolutamente con-
sigliato, sono 90 minuti di video
e foto, più di quanti ne possano
realmente servire. Abbiamo vola-
to tantissime volte con il Mavic Air,
con circa 450 km di voli all’attivo,
e abbiamo un’idea della distanza
massima che si può raggiungere
con l’Air. Il Mini, a sensazione, ha
una ricezione leggermente miglio-
re. Non abbiamo voluto rischiare
con un sample, se fosse caduto in
mare sarebbero stati guai e dove-
vamo finire la prova, ma l’abbiamo
portato a 1 km di distanza senza
perdere segnale. C’era visibilità
tra il drone e il telecomando, con
un ostacolo sicuramente si riduce
un po’, ma crediamo che per auto-
nomia e raggio di utilizzo il Mavic
Mini abbia prestazioni di gran lun-
ga superiori a quelle servono real-
mente a chi vuole un drone per realizzare foto e video.
Qualità delle fotografie ottima, anche con poca lucePer quanto riguarda la qualità delle fotografie è asso-
lutamente buona, e ci ha sorpreso anche in condizioni
di bassa luminosità: qui sotto alcuni scatti a 12 mega-
pixel non ritoccati. Il software DJI FLY integra anche un
editor con alcuni scenari che permettono di creare, in
pochi secondi, un piccolo trailer o una piccola clip, si-
mile a quello presente all’interno dell’applicazione della
Osmo Pocket. L’attuale versione dell’app presenta tut-
tavia ancora alcuni elementi in cinese e non siamo stati
in grado di provare a fondo tutte le funzioni dell’editor. I
file si possono comunque lavorare con ogni editor. Inte-
ressante la modalità di volo CineSmooth, che funziona
come un modulatore di frenata e di partenza, cosa che
evita di avere video “a strappo”.
L’unico drone che ha senso comprare oggiMavic Mini, soprattutto per la regolamentazione, è
l’unico drone che ha senso comprare oggi per un uso
amatoriale. Perché si può usare, in montagna, al mare,
durante la gita fuori porta. Fino a quando non viene fatto
volare in piazza Duomo a Milano non ci sono grossi pro-
blemi, basta un po’ di testa, buon senso e il rispetto delle
regole: prima di volare verificare sulla mappa dell’ENAC
se può volare e con che limitazioni.
Non ha i sistemi di assistenza al volo evoluti che hanno
altri droni, ma il rischio di collisione è davvero ridotto: il
volo tipico del Mini, per le esigenze di chi vuole fare foto
o video, prevede il decollo del drone, il raggiungimento
di una quota di sicurezza e il volo verso un determinato
obiettivo da riprendere o fotografare.
Con un po’ di abilità, e usando il segnale video di ritor-
no dal drone, è possibile pilotare il Mini anche in spazio
piuttosto angusti, soprattutto se si inserisce la modalità
di guida CineSmooth che rende i movimenti più lenti e
più fluidi. La qualità, anche in condizioni di luminosità
non eccellenti, resta comunque molto buona: non è e
non sarà mai il Mavic Pro 2, ma sono prodotti diversi.
Anche l’assenza del 4K non è un limite: le fotografie che
un drone permette di scattare sono qualcosa di unico,
perché il drone aggiunge un grado di libertà che chi fo-
tografa con i piedi per terra non ha. E a questo prezzo,
399 euro (ma noi consigliamo la versione da 499 con
caricabatterie, custodie e batterie aggiuntive) il Mavic
Mini è un best buy assoluto.
Clicca sulle foto per l’ingrandimento
TEST
DJI Mavic Minisegue Da pagina 42
torna al sommario 44
MAGAZINEn.42 / 194 NOVEMBRE 2019
di Massimiliano ZOCCHI
L o scorso maggio Fiat Chrysler ha
ufficializzato l’accordo con Tesla,
per unificare le flotte ed evitare
così multe salate in Europa a causa delle
emissioni inquinanti. La collaborazione
porterà quasi 2 miliardi di euro nelle
casse di Tesla, ma potrebbe non restare
l’unico accordo tra le due aziende. Il CEO
di FCA Mike Manley, durante un’intervi-
sta, ha dichiarato che tutte le porte resta-
no aperte, e che in futuro la sua azienda
potrebbe acquistare tecnologia da Tesla
per costruire auto elettriche. Già, ma qua-
le azienda? Come sappiamo dagli ultimi
eventi, FCA è ormai in fase avanzata di
trattativa per una fusione con PSA, ope-
AUTO ELETTRICA Il gruppo nato dalla fusione potrebbe acquistare la piattaforma di base da Tesla
Spunta Tesla tra FCA e PSA: il nuovo gruppo potrebbe acquistare tecnologia da Elon MuskLa piattaforma servirebbe per realizzare berline elettriche e SUV o sportive, come Maserati
razione che genererà il quarto gruppo
mondiale come volume di vendite. Sul
fronte dell’elettrico i francesi hanno già
buone opzioni, ma finora declinate in
una gamma di sole auto compatte. Ecco
quindi che anche la nascente
FCA-PSA potrebbe beneficiare
della piattaforma “skateboard”
(definizione sdoganata da Rivian
in realtà) di Tesla, per realizzare
auto elettriche berline e SUV, ol-
tre che eventuali sportive, come
Maserati. Chiaramente al mo-
mento si tratta solo di ipotesi, ma
Manley è possibilista, dichiarando che
“sarebbe sbagliato dire di no”. Il CEO ritie-
ne inoltre che per l’identità dei brand non
sarebbe un problema. I clienti sono quasi
sempre indifferenti alla provenienza del
pianale, e talvolta anche della motorizza-
zione, identificando una vettura più per
il marchio, per l’aspetto estetico e per le
prestazioni al volante. In quest’ottica Te-
sla potrebbe fornire solo la piattaforma,
con batteria, e lasciare ad FCA e PSA (o
comunque si chiamerà il nuovo gruppo) il
compito di lavorare su sospensioni, resto
del telaio ed elettronica.
di Massimiliano ZOCCHI
Arrivano le conferme di trattative in
fase avanzata per FCA e Groupe
PSA sulla possibile fusione, an-
dando a formare il quarto gruppo mon-
diale come volume di vendite.
Arrivano inoltre conferme sia sulle ca-
riche, sia sulle modalità, oltre a nuovi
dettagli.
Come anticipato, Carlos Tavares sarà
Amministratore Delegato, mentre John
Elkann assumerà la carica di Presiden-
te. La sede del nuovo gruppo sarà in
Olanda, e si prevede una presenza in
Borsa a Parigi, Milano e Wall Street. Le
due aziende prevedono che le sinergie
produttive messe in campo offriranno
vantaggi pari a 3.7 miliardi di euro, e
non sarà necessaria nessuna chiusura
degli stabilimenti attualmente operativi.
Confermata anche la modalità di crea-
zione del nuovo gruppo, che sarà dete-
nuto al 50% dagli azionisti di PSA e al
50% da quelli FCA. Sostanzialmente gli
assetti aziendali resteranno invariato,
con la solo PSA che dovrà scorporare
la controllata Faurecia, per riequilibrare
i valori dei gruppi, cosa che vede FCA
con una quotazione inferiore.
Bufera sulla finanziaria: gasolio più caro per finanziare il super ammortamentoUn emendamento alla legge di bilancio propone una nuova accisa sul diesel per finanziare l’acquisto di veicoli elettrici e ibridi plug-in da parte delle aziende di M. ZOCCHI
Come noto il Governo è al lavoro sulla Legge di Bilancio 2020 e le questioni ancora aperte sono molte. Tra queste c’è un emen-damento che propone la reintro-duzione del superammortamento per le aziende, per la precisione per i soggetti titolari d’impresa e gli esercenti di arti e professioni. Questi soggetti acquistando dal 1 gennaio 2020 a 31 dicembre 2020 un’auto elettrica o ibrida plug-in, o comunque aventi emessioni di CO2 fino a 60 g/km, potrebbero godere del superammortamento del 30%.Il dibattito è acceso su come l’esecutivo possa trova-re i fondi per sostenere questo provvedimento. L’emendamento propone una accisa sul gasolio, pari a 0,13 centesimi al litro, che si tradurrebbe con un aumento alla pompa di 0,16 centesimi al litro. Si verrebbe a creare quindi un fondo di almeno 30 milioni, cifra stimata per coprire il superammortamen-to. Un eventuale aumento delle accise sul gasolio, anche se di pic-cola entità, si andrebbe a inserire nel progetto più a lungo termine di cui si stava già discutendo alcune settimane fa, con la volontà di to-gliere gradualmente i sussidi statali di cui gode ad oggi il diesel.
TRASPORTI Arrivano come da previsione le conferme dell’operazione di fusione dei due gruppi
Ora è ufficiale: FCA e PSA verso la fusione Sede in Olanda, sinergie per 3,7 miliardiSalvo intoppi, FCA e PSA convoleranno a nozze formando un nuovo gruppo diviso al 50%
torna al sommario 45
MAGAZINEn.42 / 194 NOVEMBRE 2019
di M. ZOCCHI
D opo anni di immobilismo, sembra
proprio che i piani a medio-lungo
termine di FCA siano davvero cam-
biati. Infatti, dopo aver installato i primi robot per la nuova linea di assemblaggio
che produrrà la 500 elettrica, lo stabili-
mento di Mirafiori è ancora protagonista,
questa volta per quanto riguarda la pro-
duzione di batterie.
Fiat Chrysler ha messo sul piatto altri 50
milioni di euro per creare quello che chia-
ma un “battery hub”, ovvero un centro
che produrrà le batterie necessarie a tut-
te le vetture elettrificate che verranno as-
semblate nello stesso stabilimento. Que-
sto è quello che si legge nel comunicato:
“Verrà creato un centro di assemblaggio
completo delle batterie in un edificio ap-
positamente progettato, con il potenziale
da espandere per progetti futuri. La tec-
nologia più avanzata verrà utilizzata con
processi modulari e flessibili, compreso
AUTO ELETTRICA Nello stabilimento da cui usciranno le 500 elettriche sarà allestito un battery hub
FCA, in arrivo investimento di altri 50 milioni di euro Lo scopo è creare una fabbrica di batterie a MirafioriSembra che FCA sia intenzionata a recuperare terreno e buttarsi in forza nel settore dell’elettrico
l’uso di robot collaborativi che lavorano a
stretto contatto con gli operatori. Il nuovo
“Battery Hub” avrà anche spazio per corsi
di formazione, nonché prototipazione e
sperimentazione durante il processo pi-
lota. Questa iniziativa consentirà a FCA
di rispondere rapidamente al settore
dell’elettrificazione in continua evoluzio-
ne. Il nuovo Battery Hub avrà anche un
centro tecnologico avanzato dedicato
al controllo di qualità e al collaudo dei
componenti forniti da fornitori leader del
settore. Dopo il montaggio, verranno
utilizzati sistemi a controllo elettronico
all’avanguardia per testare l’efficienza
delle batterie. Comau sarà partner dell’i-
niziativa grazie alla sua esperienza nel
processo di assemblaggio”. Sembra quin-
di che FCA sia pienamente intenzionata a
recuperare il terreno perso di recente, e
buttarsi in forza nel settore dell’elettrico,
a partire dalle 80.000 Fiat 500 elettriche
previste nella prima fase. Anche il COO
Pietro Gorlier ha sottolineato questo cam-
biamento dicendo che “con il suo nuovo
centro di assemblaggio delle batterie per
auto presso Mirafiori, FCA accelera la sua
spinta verso l’elettrificazione”.
di Massimiliano ZOCCHI
Ancora novità da Tesla, dopo giorna-
te in cui l’azienda è stata sotto la
lente di ingrandimento per i risulta-
ti positivi del passato trimestre. Questa
volta si torna a parlare di aggiornamenti
software, con la solita modalità OTA che
a reso famoso questo lato di Tesla. Elon
Musk lo aveva anticipato e pare che già
alcuni clienti stiano ricevendo un nuo-
vo update che porta più potenza per le
auto elettriche californiane.
Tramite una nuova gestione dell’energia
e del motore, Tesla è riuscita a spremere
più potenza dai suoi propulsori, aumen-
tandola di circa il 5%. Quindi più acce-
lerazione e più prestazioni per tutta la
gamma. Insieme a questa novità ne arri-
vano altre più sul fronte della praticità. Il
nuovo aggiornamento introduce la fun-
AUTO ELETTRICA Con un aggiornamento software Tesla ha scoperto come gestire meglio il motore
Nuovo aggiornamento software per Tesla Più potenza e nuove interessanti funzionalitàPotenza aumentata di un ulteriore 5%. Arrivano partenza programmata e navigazione automatica
zionalità “partenza programmata”, ovve-
ro la possibilità di impostare un orario in
cui si desidera l’auto pronta per partire,
e il sistema cercherà di completare la
ricarica negli orari con tariffa migliore,
oltre a climatizzare l’abitacolo per far sì
che sia confortevole all’ora impostata
per la partenza. Come ultima novità vie-
ne introdotta “Automatic Navigation”, una
sorta di navigatore predittivo, in grado di
riconoscere i percorsi abituali e pertanto
proporre la strada ideale in automatico.
La navigazione automatica funziona nei
giorni feriali, quando ci si sposta da casa
a lavoro e viceversa (avendo inserito i re-
lativi indirizzi nelle impostazioni) e anche
in associazione con gli eventi del calen-
dario con location indicata.
Trimestre finanziario Tesla: ricavi sotto le attese, ma arrivano sorprendenti profittiTesla ha rilasciato i dati finanziaria relativi al terzo trimestre. Dopo l’ennesimo record di consegne arrivano anche i tanto attesi profitti di M. ZOCCHI
Tesla ha rilasciato i risultati finan-ziari per il terzo trimestre. Sapeva-mo già che i tre mesi avevano fatto segnare un nuovo record di con-segne, poco sotto le 100.000 vet-ture, ma gli esperti di Wall Street si attendevano comunque piccole perdite. L’azienda di Elon Musk ha invece ribaltato le aspettative, con profitti nettamente superiori alle attese. I ricavi, al contrario sono stati inferiori rispetto alle previsio-ni, con una entrata di 6.3 miliardi contro i 6.5 miliardi prospettati da Wall Street. Nonostante questo mancato traguardo, sono arrivati profitti di 1.91 dollari ad azione, mentre gli analisti si aspettavano perdite per 0.15 dollari per share.Un risultato strabiliante, che secon-do Tesla è dovuto a miglioramenti nella catena produttiva, nella ridu-zione delle spese operative e alla buona risposta dei clienti verso funzionalità e optional venduti con sovrapprezzo. Tutto questo si traduce in un margine lordo per il settore automotive del 22.8%.Nel frattempo il titolo ha avuto una crescita di oltre il 10%, come pre-vedibile. Ecco altre novità emerse a margine delle comunicazioni fi-nanziarie:- Prodotte nella Gigafactory 3 di Shanghai le prime Tesla Model 3 cinesi-Tesla Solar Roof, oggi verrà pre-sentata la versione V3- Tesla Semi finalmente arriverà nel 2020, ma in volumi limitati
torna al sommario 46
MAGAZINEn.42 / 194 NOVEMBRE 2019
di Massimiliano ZOCCHI
L ’ottava incarnazione dell’iconica Volkswagen
Golf è finalmente realtà, ed è stata presentata in
maniera ufficiale in diretta mondiale dalla sede
VW di Wolfsburg. La Golf 8 torna rinnovata in questa
nuova versione, ma restando fedele a sé stessa an-
che se profondamente aggiornata e rimane un’auto
al top della sua categoria grazie a tutte le importanti
innovazioni al passo coi tempi. Golf 8 è lunga 4.284
mm, larga 1.789 mm e alta 1.456 mm, e ha un passo
di 2.636 mm: dunque con dimensioni praticamente
identiche alla precedente versione, forse un po’ più
bassa. Sul frontale troviamo i fari dal design rinno-
vato, decisamente più futuristici sottili, già di serie di
tipo LED su tutti i modelli, e il sistema Matrix IQ.LIGHT
come opzione.
La prima Volkswagen a debuttare in cinque versioni ibrideMa le novità principali riguardano i motori e infatti la
nuova Golf 8, benché non prevista in versione 100%
elettrica (si lascia a ID.3 questo onere), sarà la prima
Volkswagen a debuttare con ben cinque versioni ibri-
de, denominate eTSI ed eHybrid. Le varianti eTSI saran-
no mild-hybrid a 48V e offriranno potenze da 110, 130 e
150 CV, mentre le versioni eHybrid saranno quelle più
performanti, con potenze a partire da 204 fino ai 245
CV nella potente variante GTE. In media, i nuovo moto-
ri installati a bordo della nuova Golf 8, permetteranno
una riduzione delle emissioni di Co2 fino al 17% rispetto
alle versioni del precedente modello.
All’interno la Golf più tecnologica di sempreGli interni di Golf 8 sono stati completamente ridise-
gnati e ad oggi non presentano analoghi all’interno
della gamma Volkswagen, anche se l’impostazione
con schermo centrale alto e non integrato alla plancia
riprende il feeling già visto su ID.3. Il cruscotto princi-
pale, di fronte al guidatore, sarà di tipo digitale di serie
mentre sopra sarà possibile avere anche un sistema
HUD, mentre la gestione e la fruizione dell’infotain-
ment è tutta destinata all’ampio display touch centrale.
Nel centro troviamo il tunnel che, almeno nelle versio-
ni a cambio automatico, vede scomparire la tradiziona-
le leva del DSG a favore di più moderni tasti e levette.
Sotto lo schermo ci sono le bocchette dell’aria gover-
nate da un sistema Climatronic ora a 3 zone, dotato
della funzione Smart Climate che prevede nuove mo-
dalità dai nomi decisamente esplicativi come “Riscalda
mani” o “Aria fresca”. Scendendo nel tunnel troviamo
numerosi vani portaoggetti e anche quelli dedicati allo
smartphone che integrano la ricarica wireless.
Lo smartphone fra l’altro diventerà parte integrante
del sistema dato che potrà essere usato anche come
chiave digitale e per impartire all’auto semplici coman-
di a distanza, come accensione luci, chiusura finestri-
ni, ecc. L’illuminazione della plancia e delle portiere
AUTO IBRIDA È stata presentata la nuova Golf 8: fa il pieno di tecnologie e sistemi ADAS ed è un’auto totalmente connessa
Volkswagen Golf 8, la prima in 5 versioni ibrideLe 5 versioni ibride saranno eTSI ed eHybrid. Le varianti eTSI sono mild-hybrid, lmentre le eHybrid sono più performanti
è affidata a un completo sistema di led multicolori e
configurabile, immaginiamo con un sistema di temi
che si coordinano anche con i colori delle interfacce
dei display. Il computer di bordo con schermo touch
centrale supporterà pienamente le tecnologie We
Connect e We Connect Plus, che portano a bordo lo
streaming audio, le web-radio e altri servizi connessi,
tra cui anche la funzione We Upgrade che permetterà
di aggiornare i sistemi elettronici e software di Golf 8
in tempo reale e in qualsiasi momento. Pochissimi i
tasti fisici presenti; infatti quasi tutti i comandi, a parte
quelli sul volante e alcuni nel tunnel centrale, sono
a sfioramento o attivabili tramite il touchscreen. Cilie-
gina sulla torta anche la piena compatibilità con l’as-
sistente vocale di Amazon Alexa, potendo così otte-
nere informazioni meteo, ultime notizie e controllare i
dispositivi Smart Home compatibili (come ad esempio
l’apertura della porta del garage?) utilizzando sempli-
cemente la nostra voce.
Sicurezza e piacere di guida al top della categoriaCon 45 di storia sulle spalle, la nuova Golf 8 non può
permettersi di deludere i milioni di fedeli estimatori
sparsi in tutta Europa, e anche questo modello arriva
sul mercato con i più avanzati sistemi di sicurezza e as-
sistenza alla guida che Volksvagen ha in catalogo, per
garantire il miglior confort e piacere di guida possibile.
Oltre al già citato HUD infatti, sistema che permette di
non distogliere lo sguardo dalla strada a favore della
maggior sicurezza di guida, troviamo anche una lunga
serie di sistemi di assistenza alla guida, tutti raccolti
all’interno del pacchetto tecnologico IQ.DRIVE Travel
Assist, che controllano in modo intelligente sterzo, ac-
celeratore e freno fino a 210 km/h, con lo scopo di evi-
tare collisioni e uscite involontarie dalla carreggiata.
Golf 8 inoltre dovrebbe essere la prima auto a inte-
grare di serie la nuova tecnologia Car2X che connet-
te l’auto al mondo esterno tramite onde radio, con lo
scopo di aver informazioni in tempo reale per avverti-
re il conducente di vari problemi, come ad esempio la
presenza di un incidente o l’arrivo di un veicolo di soc-
corso che deve trovare strada libera. Il sistema Car2X
può anche aiutare nelle situazioni di frenata di emer-
genza, avvertendo le auto che seguono e prevenendo
un tamponamento, oppure segnalare la presenza di
pedoni, ciclisti e motociclisti negli incroci, evitando
situazioni di pericolo. A questo punto non rimane che
attendere di avere informazioni più precise sulla data
di commercializzazione, sul prezzo di listino e su tutte
le opzioni che saranno disponibili in questa che si
preannuncia essere la nuova regina del mercato delle
auto del segmento C.
torna al sommario 47
MAGAZINEn.42 / 194 NOVEMBRE 2019
di Alessandro CUCCA
Si è svolta a Milano una presentazione a porte chiu-
se della nuova Volkswagen ID.3, riservata ai clienti
che hanno preordinato la 1st Edition. A presentare
l’incontro erano Fabio Di Giuseppe, direttore marketing
di VW e Francesco Quaglieri, product manager di ID.3.
L’incontro è iniziato con una entrata scenografica del-
l’auto, uno dei modelli pre-serie visti anche a Francofor-
te. Fra l’altro, non si trattava neanche di una versione 1st
Edition, che come vedremo ha delle peculiarità anche
sul fronte del design, ma di un generico esemplare di
medium-range. Il modello in mostra era un pre-serie,
quindi non ancora definitivo al 100%. Quel che è certo
è che questa nuova ID.3 sarà assolutamente ecologica,
dato l’impegno di Volkswagen di rendere tutto il ciclo di
vita dell’auto a impatto zero, dalla fabbrica, fino al secon-
do utilizzo delle batterie per sistemi di accumulo dome-
stici. Di Giuseppe ha ricordato poi le caratteristiche della
piattaforma MEB, creata appositamente per la mobilità
elettrica del gruppo VW, capace di garantire, a parità di
spazio esterno, una maggiore abitabilità interna, grazie
al passo maggiorato. Previste anche varie configurazio-
ni di batteria e la possibilità di gestire trazione integrale e
non. ID.3, benché permesso dalla piattaforma MEB, sarà
un’auto a sola trazione posteriore. Le prime auto elet-
triche a trazione integrale di VW saranno quindi i SUV
derivanti dal concept ID.Crozz.
La massima sicurezza è di serieOttime notizie sul versante della sicurezza attiva del-
l’auto che, di serie, sarà equipaggiata con tutti i siste-
mi ADAS possibili. Ogni cliente di ID.3 troverà quindi a
bordo della sua auto il Cruise Control adattivo, capace
di regolare la velocità in base al veicolo che precede
fino a fermarsi e ripartire quando necessario; avrà poi
di serie Lane Assist e Front Assist, il sistema Park Pilot
e quello per il riconoscimento automatico della segna-
letica e limiti di velocità. Ogni ID.3 venduta in Italia avrà
di serie tutta questi ADAS che la rendono quasi un’auto
con guida autonoma di Livello 2. Questi pacchetti sono
già in catalogo anche su altre auto VW, ma qui alcuni di
questi sono stati ulteriormente migliorati e faranno parte
di ogni versione del veicolo. Arriva poi il momento, con
Francesco Quaglieri, di parlare delle caratteristiche spe-
cifiche della 1st Edition, che in Italia è stata preordinata
da circa 650 clienti. Per il nostro paese tuttavia sono sta-
te assegnate 500 auto con queste caratteristiche, ma ci
hanno assicurato che tutti i clienti verranno accontentati,
anche perché prevedono che di questi 650, un 20% cir-
ca non procederà con l’ordine.
Si ordina a dicembre, arriva in estate 2020Le ordinazioni erano partite a Maggio 2019, e gli ordini
potranno essere finalizzati in concessionaria a partire
AUTO ELETTRICA L’esclusiva “1st Edition” di Volkswagen ID.3 è stata presentata ufficialmente a Milano e noi eravamo presenti
Presentata Volkswagen ID.3 First Edition Tutto su prezzi, allestimenti e disponibilitàTutti i dettagli su allestimenti, prezzi e disponibilità. In italia ne arriveranno solo 500 esemplari per chi l’ha prenotata a maggio
da Dicembre 2019. In questo periodo infatti, tutti i clienti
a cui è stato nel frattempo assegnato un personal assi-
stant che li segue e li aiuta nel processo, verranno invita-
ti a recarsi presso il proprio concessionario di fiducia per
finalizzare il contratto, scegliere l’allestimento preferito e
avere così la certezza del prezzo che andranno a pagare
per la loro Volkswagen ID.3 1st Edition. Le consegne, per
questi clienti partiranno nella seconda metà del 2020,
mentre la produzione è prevista sempre a Dicembre
2019, in concomitanza con la stipula dei contratti. Tutti i
clienti che non hanno prenotato la 1st Edition, potranno
iniziare a ordinare l’auto a partire da marzo 2020, con
consegne a partire da inizio 2021.
In cosa si distinguerà la 1st Edition dalle altre ID.3 che verranno più avanti?Partiamo da alcuni dettagli estetici esclusivi esterni come
le 4 colorazioni disponibili, le calotte degli specchietti sil-
ver, un badge descrittivo sulla fiancata e un particolare
decoro sulla coda. Internamente troveremo invece un
badge descrittivo sul volante, e l’originale pedaliera con
i simboli di “play & pause” su acceleratore e freno. A
tutto questo si aggiungono un anno di ricariche gratuite
con il servizio WeCharge (fino a un massimo di 2.000
kWh) per percorrere circa 15.000 km gratis.
Sotto il cofano invece la 1st Edition avrà la batteria in-
termedia da 58 kWh (per un’autonomia da test di 420
km) con la possibilità di ricarica fino a 11 kW in AC e 100
kW in DC e una potenza del motore maggiorata capace
di coprire da 0 a 100 km/h in 7,5 secondi contro i 9,4
della versione di serie. Per concludere, ci saranno tre
allestimenti pre-confezionati tra cui scegliere, che pur-
troppo non permetteranno personalizzazioni di sorta.
L’unico optional che forse si potrà aggiungere a parte
sarà la pompa di calore (inizialmente non prevista per le
versione di lancio), ma non c’è ancora certezza. Anche i
colori della plancia e del volante, saranno parzialmente
personalizzabili, in varie combinazioni tra bianco/aran-
cio, bianco/grigio, nero/grigio e nero/nero. Delle 500
unità previste per l’Italia avremo quindi 100 esemplari in
versione “Standard” che oltre a tutte le dotazioni di serie
e particolari esclusivi già visti avrà in più i cerchi in lega
da 18” e il volante e i sedili riscaldabili. Questa versio-
ne costerà meno di 40.000 euro. Segue poi la versione
“Plus” in 300 esemplari, che per meno di 45.000 euro
aggiunge a quanto già visto i cerchi in lega da 19”, Mirror
Pack, vetri posteriori oscurati, fari Led Matrix, ambient li-
ght interna a 30 colori, carrozzeria bicolore, sistema key-
less avanzato, videocamera posteriore e sedili di design.
Infine ci sarà la versione “Max” in 100 esemplari, che a
meno di 50.000 euro aggiungerà a tutto questo il tetto
in vetro panoramico e apribile, cerchi in lega da 20”, im-
pianto audio di qualità sviluppato da Beats e il sistema
evoluto HUD con realtà aumentata.
Ma il prezzo? Gli Sconti? Gli Incentivi?Ancora non ci sono i prezzi definitivi, ma verranno co-
municati e finalizzati nel contratto. Molte le domande
sugli sconti e la giungla degli ecoincentivi attualmente
presenti in Italia. La confusione nasce dal fatto che ol-
tre agli incentivi nazionali, fino a 6.000 euro a fronte di
una rottamazione, ci sono poi quelli regionali come ad
esempio in Lombardia ed Emilia Romagna, che hanno
valori e termini di erogazione differenti. Volkswagen
ha assicurato che stanno lavorando per permettere ai
clienti di poter accedere ai massimi benefici disponibili e
per questo stanno anche valutando la possibilità di uno
sconto fino a 2.000 euro su tutte le auto per accedere
al contributo della regione Lombardia, sconto che ver-
rebbe esteso a tutta Italia. L’unica certezza riguarda gli
incentivi nazionali, per cui la ID.3 potrà aderire al 100%
senza alcuna difficoltà. Non sono previste particolari
offerte finanziarie con tassi agevolati, mentre anche su
ID.3 si potrà accedere alla formula Progetto Valore,
torna al sommario 48
MAGAZINEn.42 / 194 NOVEMBRE 2019
di Gianfanco GIARDINA
U ber sbarca in Italia con Jump, il suo “braccio arma-
to” sul fronte del bike sharing. La società ha scelto
Roma per il debutto del servizio nel nostro Paese,
la città probabilmente più evocativa e turistica d’Italia ma
che, per la grande estensione e i profili mossi dai sette
colli, potrebbe non sembrare lo scenario migliore per
girare in bicicletta. Ma la scelta di Uber è quella di allesti-
re solo flotte di biciclette elettriche a pedalata assistita,
mezzi in grado di ammorbidire molto distanze e penden-
ze, rendendo lo spostamento a Roma a colpi di pedale
(buche permettendo) decisamente indolore.
2800 biciclette per coprire il centro di RomaLa flotta al debutto, che ha visto l’inaugurazione con la
sindaca Virginia Raggi, sarà composta inizialmente da
700 biciclette, che però diventeranno 2800, quattro vol-
te tanto, nel giro di poche settimane. Il pacco batteria
estraibile permetterà agli addetti di ripristinare la cari-
ca delle biciclette non appena ce ne fosse bisogno (le
esperienze delle altre città dicono che il cambio batterie
avviene ogni giorno e mezzo circa); la localizzazione
GPS e la connessione 4G fa sì che la gestione sia to-
talmente free floating (ovverosia si possa parcheggiare
quasi dove si vuole e non nelle stazioni prefissate) pur-
ché all’interno dell’area operativa, che peraltro è vasta,
arrivando anche a zone meno centrali come l’EUR, Mon-
teverde Nuovo e Fleming. Si tratta di mezzi molto belli,
più simili a motorini elettrici che a biciclette (malgrado il
telaio sia in alluminio, il peso supera i 30 kg); non manca
poi un porta smartphone per la funzione di navigazione.
Il servizio di bike sharing è integrato nella app di UberPer localizzare i mezzi disponibili e iniziare il noleggio, si
usa la app di Uber, la stessa che si utilizza per i trasporti
in auto; il pagamento segue le modalità abituali di Uber,
come anche l’account utilizzato è il medesimo. Contraria-
mente ad altri sistemi di bike sharing free floating, Jump
di Uber prevede che le biciclette possano essere legate
a un palo o a una rastrelliera con il lucchetto integrato
nella parte posteriore, e questo a cura di chi termina il
noleggio; malgrado ciò, è anche possibile parcheggia-
re la bicicletta legandola a se stessa. Così Uber spera
di arginare i fenomeni di incivile vandalismo che hanno
caratterizzato i mezzi di altri gestori, che addirittura dopo
poco tempo hanno deciso di interrompere il servizio.
Prezzi alti, anche per selezionare l’utenzaNon c’è dubbio che quello di Jump si proponga come un
servizio “di lusso”; e non solo per la disponibilità esclu-
siva di mezzi a pedalata assistita, ma anche per i prezzi,
almeno quelli previsti a Roma, capaci di tagliare a monte
una certa fascia d’utenza: il costo del noleggio è di 0,2
MOBILITÀ URBANA Ha debuttato a Roma, con la sindaca Raggi come madrina, il servizio di bike sharing elettrico di Uber
Uber Jump, il bike sharing elettrico a Roma Il servizio si paga caro, ma le bici sono belle2800 biciclette per coprire tutto il centro di Roma. Il servizio costa 0,2 euro al minuto, quasi come il car sharing
euro a minuto, con un extra allo sblocco della bici di 50
centesimi. Tra l’altro il tempo di noleggio decorre sin dal
momento di un’eventuale prenotazione e prosegue in
eventuali “pause” che possono durare al massimo 60
minuti. Si parla quindi di costi comparabili a quelli del car
sharing (Enjoy costa 0,25 a minuto, per esempio) però
in questo caso per un mezzo monoposto; il vantaggio,
soprattutto per la realtà romana, è da ricercare nella faci-
lità quasi deterministica di trovare parcheggio nei pressi
della destinazione e in tempi brevi. Volendo, è anche
possibile parcheggiare fuori dall’area operativa con un
aggravio di costo di 25 euro, qualcosa che assomiglia di
più a una “multa” che a una tariffa. Lo stesso costo viene
applicato in caso di parcheggio in zone vietate (identi-
ficate sulla mappa pre-
sente sull’app e ben
segnalate al momen-
to della chiusura del
noleggio), che sono
abbastanza presenti
nel centro storico. Nei
costi di noleggio è già
compresa un’assicu-
razione responsabilità
civile verso terzi, che
mette al riparo il no-
leggiatore da eventuali
costi per danni a terzi
che dovessero verifi-
carsi nell’utilizzo della
bicicletta; va detto
però che in questa po-
lizza non sono coperti
i danni alla bici Jump
vera e propria, se ar-
recati per negligenza
del cliente, mentre
sono garantiti i danni
accidentali e causati
nel normale e corretto
utilizzo del mezzo
Potrebbero arrivare pacchetti scontatiÈ chiaro che con queste tariffe non si possa prendere
una Jump per percorrere grandissime distanze (pratica-
mente la velocità massima è di 25 km/h oltre i quali per
legge si interrompe l’erogazione del motore elettrico).
Ma il servizio, proprio perché free floating e con 2800
biciclette in campo, va pensato come complementare
alle altre modalità di spostamento: la soluzione è ideale,
per esempio, per percorrere l’ultimo miglio dopo aver
utilizzato i mezzi pubblici; o integrandone l’uso con taxi
o gli stessi mezzi Uber Black.
I prezzi non devono comunque spaventare: potrebbero
arrivare delle attività promozionali da Uber finalizzate a
creare dei pacchetti di minuti a prezzo più conveniente
per gli utenti che, provata la bicicletta, la trovassero una
soluzione da utilizzare abitualmente.
Va detto che Jump (acquisita da Uber a metà 2018),
è già operativa in una ventina di città negli Stati Uniti,
mentre in Europa ha dimostrato una certa predilezione
per le capitali: tra la decina di città attive, ci sono Berli-
no, Madrid, Parigi, Londra, Lisbona, Bruxelles. In Europa
i prezzi sono simili a quelli proposti per Roma: a Berlino,
per esempio, allo sblocco viene tariffato 1 euro e il costo
a minuto è di 0,15 euro. Anche negli Stati Uniti siamo nel-
l’intorno delle tariffe italiane (che restano comunque più
alte): a San Francisco il servizio costa 3 dollari per i primi
20 mimuti (cioè 0,15 al minuto)
Jump by UberIl bike sharing elettrico arriva a Roma
Zoomando il centro di Roma si trovano tante zone in cui è vietato il parcheggio della bicicletta per motivi “urbanisitici”
torna al sommario 49
MAGAZINEn.42 / 194 NOVEMBRE 2019
di Massimiliano ZOCCHI
N issan, al Tokyo Motor Show, ha
appena presentato il concept
del suo nuovo crossover 100%
elettrico in arrivo entro la fine del 2021
negli Stati Uniti. Si chiama Ariya EV, ed
è basato sul concept già visto IMx Con-
cept, e sarà un diretto concorrente della
prossima Tesla Model Y.
La presentazione di oggi si è concen-
trata più sugli aspetti legati al design,
di questa nuova Ariya, e meno sulle
specifiche tecniche anche se sappiamo
che dovrebbe garantire circa 480 km
di autonomia e uno scatto da 0 a 100
km/h in meno di 5 secondi. Per quello
che riguarda il gruppo propulsore avre-
AUTO ELETTRICA Nissan presenta al Tokyo Motor Show il concept di un nuovo crossover elettrico
Nissan Ariya EV, il nuovo crossover 100% elettrico Previsto in strada entro la fine del 2021, sarà un diretto rivale della futura Tesla Model Y
mo una configura-
zione 4x4 con due
motori elettrici e la
compatibilità con il
sistema V2G, ovvero
con l’opportunità per
i possessori di que-
st’auto di riversare
nel sistema elettrico
l’energia prodotta in
più o inutilizzata nel-
le batterie dell’auto durante i giorni di
non uso. Nell’interno troveremo poi un
display centrale da 12,3 pollici e solo
comandi touch; l’unico vero tasto fisico
sarà quello di avvio. Anche se chiamato
“concept”, quello che abbiamo visto sul
palco di questa presentazione a Tokyo
era una vettura molto, molto vicina alla
versione di produzione. Non resta che
attendere i prossimi comunicati per
approfondire le specifiche tecniche di
questo nuovo crossover che è abba-
stanza chiaro vedremo presto in strada.
di Franco AQUINI
K ia ha da poco aggiornato la Niro,
uno dei SUV più fortunati della
gamma, con le versioni EV, Hybrid
e Plug-in Hybrid. Quest’ultima ha rice-
vuto un sostanzioso restyling che l’ha
resa più aggressiva e imponente. Merito
di una revisione completa di paraurti e
gruppi ottici sia frontali che posteriori.
Davanti c’è una nuova griglia denomi-
nata Tiger Nose in nero lucido, ai cui lati
trovano posto i fari full LED a doppia frec-
cia e i fendinebbia. Sia nel frontale che
nel posteriore arrivano anche le nuove
protezioni sottoscocca che ne rendono
l’aspetto più importante.
Anche gli interni migliorano e, grazie al
AUTO IBRIDA Kia ha da poco aggiornato la Niro con le versioni EV, Hybrid e Plug-In Hybrid
Kia Niro Plug-in Hybrid ha fatto restyling Il SUV spazioso con 65 Km di autonomiaIn questa rassegna analizziamo quella che forse sarà la più apprezzata: la Plug-In Hybrid
cruscotto nero lucido con finiture croma-
te, diventano al tempo stesso più elegan-
ti e sportivi. Il comfort è assicurato invece
dai sedili anteriori riscaldati, ventilati e
con memory system.
Kia Niro Plug-in Hybrid è disponibile in una
sola motorizzazione 1.6 GDI PHEV 141CV
6DCT (cambio automatico con doppia fri-
zione DCT a 6 marce) e tre allestimenti: la
versione Urban, che comprende cerchi in
lega da 16”, climatizzatore Dual Zone, Luci
diurne e fari posteriori a LED, Sistema di
intrattenimento con schermo touch da 8
pollici compatibile con CarPlay/Android
Auto, DAB, Camera posteriore e sistemi
di sicurezza ADAS (frenata di emergen-
za con riconoscimento pedoni e ciclisti,
correzione carreggiata, guida autonoma
di livello 2) viene proposta a un prezzo di
listino di 36.250 euro. La versione Style
richiede invece 2.000 euro in più e of-
fre il navigatore con schermo touch da
10,25 pollici, servizi UVO Connect, sedi-
li in misto pelle e sensori di parcheggio
anteriori e posteriori. Infine l’allestimento
Evolution, listino da 41.500 euro, offre i
fari anteriori Full LED, sedili in pelle e an-
teriori ventilati, sistema audio JBL, Super-
vision Cluster con schermo da 7 pollici e
sistemi di monitoraggio angolo cieco e
veicoli in retromarcia. Infine due dati sul
motore elettrico e sulla batteria: il primo
ha una potenza massima dichiarata di
44,5 kW, mentre la batteria è da 8,9 kWh
e promette 65 km di autonomia in mo-
dalità completamente elettrica. I consumi
dichiarati sono di 1,3 l per 100 km nel ciclo
combinato NEDC.
Il Supervision Cluster con schermo da 7 pollici.
Renault ci ripensa: l’elettrica K-ZE da 8.000 euro arriverà in EuropaLa K-ZE, inizialmente presentata solo per la Cina, arriverà in edizione speciale anche in Europa. Il prezzo sarà il suo punto forte, anche nel vecchio continente di M. ZOCCHI
Recentemente, Renault ha presen-tato la versione di produzione di K-ZE, l’auto elettrica urbana con una caratteristica molto importante: costo di soli 8.000 euro. Il prezzo è basso grazie alla semplicità della vettura e per la batteria di dimen-sioni ridotte, 26.8 kWh, il che la rende adatta ai tratti urbani. Questo perché inizialmente K-ZE era previ-sta solo per la Cina, o al limite per altri Paesi in via di sviluppo. Ora in-vece sembra che l’idea di Renault sia cambiata. Il capo della divisione elettrica della casa francese, Gilles Normand, durante un’intervista con Autocar, ha rivelato che i piani di Renault sono cambiati, e K-ZE ar-riverà anche in Europa. Per la pre-cisione Normand ha parlato di una “versione speciale”, senza specifi-care altro. Il prezzo abbordabile re-sterà un tratto distintivo, anche se è probabile che una volta esporta-ta in Europa (prodotta in Cina) K-ZE verrà a costare una cifra vicino agli 11.000 euro. L’idea della versione speciale nasce anche dall’esigen-za per Renault di mantenere una distinzione tra il marchio principale e Dacia. Un’altra possibilità è che K-ZE possa arrivare nel vecchio continente proprio sotto l’ala di Dacia, rivelandosi quindi la prima elettrica del marchio.
www.audiogamma.it
50 anni d’innovazione nella nostra cuffia wireless migliore di sempre.
Comandi intelligenti che rispondono naturalmente al tuo comportamento
Funzione di cancellazione del rumore adattiva
Batteria con un’autonomia di 22 ore
torna al sommario 51
MAGAZINEn.42 / 194 NOVEMBRE 2019
di Franco AQUINI
S tando a quanto riportato da alcuni
utenti al magazine Techcrunch.
com, l’app di controllo remoto di
Mercedes-Benz MercedesMe avrebbe
mostrato, per qualche ora nel corso della
giornata del 18 Ottobre, i dati di altri uten-
ti. Dati sensibili come nome, cronologia
della posizione e numero di telefono. A
riportarlo sono stati diversi utenti che si
sono trovati improvvisamente l’app piena
di dati di altri utenti. Come se avesse, in
altre parole, fatto il login un’altra persona.
Per fortuna, in quel frangente, le funzioni
più delicate, come la chiusura e l’apertu-
ra dell’auto o la messa in moto, non sono
state disponibili. Tuttavia, una gran quan-
tità di dati sensibili sono stati esposti ad
altri utenti. Mercedes non ha confermato
direttamente l’accaduto, l’ha fatto invece
INFOTAINMENT Molti utenti hanno denunciato un malfunzionamento dell’app MercedesMe
App Mercedes-Benz, dati altrui visibili per errore L’azienda non conferma, ma ci sono le immaginiPare che il giorno 18 ottobre, l’app avrebbe mostrato ad alcuni clienti i dati di altri utenti
una portavoce di
Daimler, Donna
Boland:”C’è stato
un piccolo inter-
vallo di tempo nel
quale sono stati
mostrati sull’app
MercedesMe i dati
non corretti degli
utenti. Quelle mo-
strate erano infor-
mazioni memoriz-
zate nella cache e
non provenivano
da un accesso in tempo reale all’account.
Nessuna informazione finanziaria era
visibile e non era possibile interagire o
conoscere la posizione dal vivo del vei-
colo associato all’account”. In ogni caso,
poco dopo l’accaduto, l’app è stata mes-
sa in manutenzione fino alla risoluzione
del problema. Un problema che, seppur
minimizzato dall’azienda, rappresenta
un caso preoccupante di violazione del-
la privacy. La domanda è semplice: con
l’uso crescente della connettività in auto
e delle app di controllo remoto, i nostri
dati sono davvero al sicuro?
di F. AQUINI
D a qualche mese si risente parlare
spesso di idrogeno, soprattutto
in settori particolari come quello
dei veicoli commerciali. Oggi è il turno
di Renault, che ha appena annunciato
due nuovi veicoli in uscita a fine 2019 e
inizio 2020. Si tratta di Renault Kangoo
Z.E. Hydrogen, in arrivo a fine 2019, e
Renault Master Z.E. Hydrogen, che arrive-
rà invece nel primo semestre del 2020.
Entrambi i veicoli, pur essendo alimentati
da una batteria, potranno godere dei van-
taggi dell’idrogeno, ovvero un’autonomia
maggiore rispetto ai veicoli full electric e
tempi di rifornimento estremamente ridot-
ti. Sono infatti le fuel-cell ad idrogeno a
fornire corrente elettrica alle batterie. Re-
nault ha sviluppato la tecnologia presen-
te su Kangoo e Master Hydrogen in part-
nership con Symbio, azienda del gruppo
Michelin che vanta una vasta esperienza
proprio nel campo dell’idrogeno. L’auto-
nomia attesa, in questo caso, è di 350 Km
(in corso di omologazione WLTP). Di so-
lito, quando si tratta di idrogeno, si parla
di autonomie più alte, ma c’è da conside-
AUTO ELETTRICA Renault lancia i nuovi veicoli Kangoo Z.E. Hydrogen e Master Z.E. Hydrogen
Renault, nuovi veicoli commerciali a idrogenoNonostante il peso, garantiranno autonomie maggiori e tempi di rifornimento inferiori
rare che in questo caso si tratta di veicoli
commerciali. Kangoo Z.E. Hydrogen avrà
infatti un volume di carico di 3,9 metri cubi
e, nonostante l’incremento di peso di 110
kg rispetto alla versione Z.E., ovvero quel-
la completamente elettrica, avrà un’auto-
nomia superiore di 140 Km.
Renault Master Z.E. Hydrogen si decline-
rà invece in due versioni di furgone e due
versioni di telaio, portando il volume di ca-
rico, a seconda delle versioni, da 10,8 a 20
metri cubi. Il peso, vista la presenza di due
serbatoi di idrogeno posti sotto la scocca,
è superiore di 200 kg rispetto alla versio-
ne esclusivamente elettrica. Nonostante
ciò, l’autonomia passa da 120 a 350 Km.
Il prezzo di Kangoo Z.E. Hydrogen sarà,
in Francia, di 48.300 euro + IVA, batteria
inclusa. È evidente come l’autonomia e
i tempi di ricarica rimangano un aspetto
fondamentale per i veicoli commerciali.
Tuttavia sarà difficile che Renault decida
di commercializzare questi due veicoli
anche in Italia, vista la scarsa rete di rifor-
nimento presente nel nostro paese. Basti
pensare che, nei soli dintorni di Parigi, ci
sono attualmente il doppio delle stazio-
ni di rifornimento rispetto all’intera Italia,
dove le stazioni di rifornimento di idroge-
no si contano sulle dita di una mano.
Ford, il SUV elettrico per battere Tesla Model Y sarà svelato il 17 novembreIl produttore americano dà qualche piccola anticipazione sul SUV che sarà presentato nelle prossime settimane a Los Angeles. Richiamerà lo stile della Mustang, e nelle speranze di Ford sarà l’avversario più forte di Tesla Model Y di P. AGIZZA
Un SUV totalmente elettrico, che riprenda le forme dell’iconica Mustang e che possa impensie-rire Tesla e la sua Model Y. Sono queste le linee guida del primo progetto totalmente elettrico della casa americana.In attesa del 17 novembre e del Sa-lone dell’Auto di Los Angeles, che vedrà la presentazione di questo inedito SUV, Ford ha rilasciato tramite i canali social alcune anti-cipazioni riguardanti il design del suo nuovo modello. Le linee sono chiaramente ispirate a quelle della Mustang e c’è molta curiosità nel vedere come Ford abbia declina-to il look della muscle-car in tema SUV. L’obiettivo di Ford è molto chiaro. Il suo primo modello elet-trico è un chiaro guanto di sfida lanciato a Tesla e alla sua Model Y. La sfida alla Model Y riguarde-rà anche il periodo di uscita. Sia il nuovo SUV Ford che il nuovo mo-dello Tesla, infatti, dovrebbero es-sere disponibili sul finire del 2020, e le indiscrezioni vogliono che Ford marchi stretto Tesla anche sulla questione prezzi. Il SUV elet-trico è il primo passo della nuova strategia Ford. Il nuovo CEO Jim Hackett crede molto nelle poten-zialità del nuovo settore, al punto da creare un team interno dedica-to unicamente alla ricerca e allo sviluppo di auto elettriche.
torna al sommario 52
MAGAZINEn.42 / 194 NOVEMBRE 2019
di Massimiliano ZOCCHI
E sattamente un anno fa Ducati ave-va presentato la prima eBike uffi-
cialmente acquistabile tramite il suo
sito e la rete di concessionari, realizzata
sulla base della Thok MIG-R. Sembra
che il progetto sia piaciuto e che quindi
la casa di Borgo Panigale abbia deciso
di ampliarlo ulteriormente, sempre con
Thok come punto di riferimento tecnico.
La Ducati MIG-RR quindi raddoppia, ed
oltre al modello dello scorso anno sarà
disponibile una nuova Limited Edition,
prodotta in soli 50 esemplari numerati e
marchiati con il nome del cliente. Questa
nuova eBike avrà sempre motorizzazione
BICI ELETTRICA Alla Ducati World Premiere la casa di Borgo Panigale svela tre nuove eBike
Ducati e Thok calano il tris di eBike In arrivo due nuove MIG e una ScramblerThok resta il partner scelto per il mondo eBike. Tutte verranno consegnate a febbraio 2020
Shimano STEPS E8000, con batteria da
504 Wh. Inclusa però anche una seconda
batteria, sempre da 504 Wh, con zaino
Evoc E-Ride, per un totale di 1.008 Wh.
La Ducati MIG-RR
Limited Edition
punta su escur-
sioni generose,
170 mm all’ante-
riore e 160 mm
al posteriore,
con sospensioni Ohlins. La forcella è una
RXF36 m.2 mentre l’ammortizzatore è
un TTX Air. La componentistica è di alto
livello, come il cambio wireless SRAM X01
AXS (qui una spiegazione di come funzio-
na) o i freni Shimano Saint a 4 pistoncini
con dischi da 203 mm. L’eBike sarà di-
sponibile a inizio 2020 al prezzo di 8.890
euro. Resta sempre disponibile anche la
normale MIG-RR a 6.250 euro. Quest’an-
no però debutta anche una versione più
abbordabile, la Ducati MIG-S, che con lo
stesso telaio offre una componentistica
più semplice e per questo un gradino sot-
to per quanto riguarda il prezzo. Le escur-
sioni scendono rispettivamente a 150 mm
e 140 mm, con forcella Marzocchi Bomber
Z2 e ammortizzatore Fox Float TPS. Più
semplice anche la trasmissione, SRAM
SX a 12 velocità, mentre il motore resta lo
STEPS E8000 ma con un’unica batteria
da 504 Wh. Le grafiche (così come per la
MIG-RR) sono sempre curate dalla D-Perf
di Aldo Drudi e in questo caso privilegia-
no il bianco e il rosso. Consegna sempre
a febbraio 2020 per 4.699 euro. Infine
la new entry, la prima Thok marchiata
Scrambler, che precisamente prende il
nome di E-Scrambler. Restano le tipiche
forme del telaio Thok, con la batteria al-
loggiata sotto il tubo obliquo, ma in que-
sto caso si tratta di una front da trekking.
La parte elettrica è sempre affidata a Shi-
mano, sempre con 504 Wh in dote, ma
con motore STEPS E7000. Trasmissione
sempre SRAM, NX a 11 velocità, mentre
la forcella è una Suntour XCR 34 a mol-
la con 80 mm di escursione. C’è anche
qualche componente in più adatto alla
città e al trekking come i fari, i parafango
e il portapacchi. Sempre con stessa data
di consegna, il prezzo è di 3.699 euro.
Dal Salone di Tokyo, le prime foto della eBike Yamaha: ecco la YPJ-YZIn occasione della kermesse dedicata alla mobilità, Yamaha ha anche esposto la sua particolare eBike di M. ZOCCHI
Il Salone di Tokyo riservato ai motori non è certo noto per es-sere particolarmente importan-te per il mondo delle bici, ma in questo caso l’eccezione è Yamaha, che essendo presente in forze all’evento ha deciso di esporre nel proprio stand anche la sua inedita eBike, che potrem-mo definire in un certo modo ri-voluzionaria. La YPJ-YZ (che vediamo grazie alle foto pubblicate da MBR e scattate da Damo Blakemore) ha un telaio con una linea abba-stanza classica, a parte il tubo superiore che se guardato dal-l’alto nasconde un dettaglio: si separa in due. Tra i due tralicci del suddetto tubo trova colloca-zione il fissaggio dell’ammortiz-zatore. Essendo un primissimo avvistamento non possiamo dar-vi troppi dettagli sulla compo-nentistica. Ovviamente il motore è Yamaha, così come la batteria, l’ammortizzatore è Fox e la for-cella è una X-Fusion rovesciata. Sia la forcella che il reggisella telescopico (anche questo Fox) hanno il trattamento Kashima Coat (qui potete leggere di cosa si tratta).Non sappiamo ancora se si tratta solo di un prototipo per mettere in mostra la tecnologia, o se Yamaha porterà questa eBike alla produzione di massa.
DUCATI E-SCRAMBLER DUCATI MIG-S
FONTI RINNOVABILI Tetto solare Tesla a partire da 34.000 $
Tesla Solar Roof V3, il tetto fotovoltaico di terza generazione
di Massimiliano ZOCCHI
E lon Musk lo aveva comunicato, e i tempi
sono stati rispettati. Tesla ha svelato la
nuova versione del suo tetto fotovoltai-
co, il Solar Roof V3, o più semplicemente So-
lar Glass. I ritardi nella produzione e la neces-
sità di una nuova versione sono dovuti a due
fattori principali: abbassare i costi e aumenta-
re la durata nel tempo. Sembra che Tesla sia
riuscita ad ottenere entrambe le cose.
Secondo quanto dichiarato, la durata ora dovrebbe essere di 30 anni, anche se oltre
questo periodo le tegole fotovoltaiche continuerebbero a produrre energia, pur con
minore efficienza. Anche il prezzo è diminuito, e ora Tesla propone un impianto me-
dio da 10 kW a circa 34.000 dollari (con incentivi americani). Novità anche sul fronte
produttivo, con la previsione nei prossimi mesi di poter raggiungere il volume di 1.000
tetti solari alla settimana, presso la Gigafactory 2 di Buffalo. Il Solar Roof V3 dovrebbe
anche essere più semplice da installare, con la posa che impiegherebbe solo tra i 5
e i 7 giorni. Questo sarebbe un tempo di lavorazione decisamente inferiore alle due
settimane necessarie per installare i primi tetti prodotti in volumi ridotti. Al momento
sul sito italiano di Tesla non ci sono informazioni sulla possibilità di prenotare il nuovo
prodotto, ma solo un generico preordine con un acconto di 100 euro.