55487171 Storia Dell Arte Einaudi Tafuri Manfredo Architettura Italiana 1944 1981

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  • Architettura italiana 1944-1981

    di Manfredo Tafuri

    Storia dellarte Einaudi 1

  • Edizione di riferimento:in Storia dellarte italiana, II. Dal Medioevo al Nove-cento, 7. Il Novecento, a cura di Federico Zeri, Einau-di, Torino 1982

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  • Indice

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    1. Gli anni della ricostruzione

    2. Aufklrung I. Adriano Olivetti e la communitasdellintelletto

    3. Il mito dellequilibrio. Il piano Vanoni elIna-Casa secondo settennio

    4. Aufklrung II. Il museo, la storia, la metafora(1951-1967)

    5. Nuove crisi e nuove strategie (1968-1975)

    6. Due maestri: Carlo Scarpa e GiuseppeSamon

    7. Il frammento e la citt. Ricerche e exempladegli anni 70

    8. Architettura come colloquio e architetturacome invettiva civile

    9. Il caso Aldo Rossi

    10. Il rigorismo e lastinenza. Verso gli anni 80

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  • 1. Gli anni della ricostruzione.

    Una difficile dialettica fra il conoscere e lagire si impo-ne, allindomani della Liberazione, agli architetti impe-gnati a dare risposte alla nuova realt italiana1. Difficilea causa delle contraddittorie basi su cui poggiava la tra-dizione disciplinare, ma anche a causa della molteplicitdi livelli imposta da quel conoscere. Tanto pi che sem-brava scontato, alle forze pi qualificate, che non potes-se esistere un conoscere sganciato dallagire: lincontrocon la politica attiva appare un imperativo. Attraverso unsusseguirsi di ideologie, comunque, gli architetti italianiprocedono in unaffannosa ricerca di identit, appoggia-ta di continuo a tematiche extradisciplinari. In tal senso, sin troppo semplicistico individuare nel rapporto conla storia il filo rosso che lega le ricerche dellet neorea-lista agli esiti estremi dei viaggi nella memoria di archi-tetti come Scarpa, Rogers, Gabetti e Isola, Aldo Rossi oFranco Purini. Tuttavia, se per Ridolfi, Albini o Rogersvale limperativo che connette lio sono al cos furo-no, per le esperienze degli anni settanta vale piuttostoquello che stringe lessa dellarchitettura alle scatu-rigini prime del suo essere. La ricerca della grande casadellarchitettura: anche questa, camuffata sotto vesti nonancora sospette di heideggerismo, presente nelle primeesperienze posteriori al conflitto mondiale.

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  • Con un inevitabile ricorso allo schematismo, tuttavia.Il riesame del recente passato viene improntato a unalogica manichea, mentre il bisogno di autocritica nongiunge al cuore delle unit discorsive in cui il saperearchitettonico si era scomposto e in cui continuava ascomporsi. Quellautocritica, cos, si limita a questionidi stile. I convulsi fermenti che agitano la culturaarchitettonica italiana dopo il 45, espressi in coraggioseiniziative editoriali, con la presenza nei luoghi di deci-sione, con la formazione di gruppi e associazioni, con-vergono almeno su un punto: della tradizione formatada Persico e Pagano vista frettolosamente come uni-taria andavano raccolte principalmente le istanzemorali, quelle che sembravano condurre inevitabil-mente al di l dellarchitettura. Automaticamente,interi settori delle ricerche degli anni venti e trenta ven-gono messi fuori gioco: una rimozione provvisoria,comunque, destinata a pesare, nella forma del risve-glio, in anni a noi pi vicini.

    Solo su un fondamento etico, infatti, potevano rico-noscersi solidali gli architetti tesi a introiettare i valoridella Resistenza, compatti almeno nel perseguire unprogramma di verit. Ben pi complesso era definirei contenuti di quella verit e le forme di azioni conse-guenti. Che ci si trovasse di fronte a un ciclo nuovo dacostruire sembrava pacifico; altrettanto pacifica era lanecessit di fare i conti con unidea di ragione che come denunciava in quegli anni Elio Vittorini avevamostrato la propria disfatta.

    Non ci sembra cos casuale che la storia dellarchi-tettura italiana del dopoguerra si apra con due opereconcepite come commossi omaggi a ideali che avevanocostituito, nel ventennio trascorso, fragili punti di ap-poggio per unintelligencija costretta a ripiegare su sestessa. Il monumento alle Fosse Ardeatine a Roma(1944 sgg.) di Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini,

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  • Nello Aprile, Cino Calcaprina e Aldo Cardelli, e ilmonumento ai Caduti nei campi di concentramento inGermania dei Bpr (1946): un impenetrabile massosospeso, testimonianza muta al cospetto del luogo del-leccidio, e un reticolo metallico su base cruciforme inpietra, contenente al centro unurna piena di terra deicampi tedeschi2.

    Da un lato, una geometria che si compromette con lamateria, memore forse del progetto per il Palazzo del-lAcqua e della Luce allE 42 del gruppo Albini-Gar-della-Minoletti: in un solo segno contratto il dolo-rante ricordo di un evento che rende retorico ogni com-mento. Dallaltro, un omaggio lirico ai miti illuministidegli anni trenta, espresso con esplicite allusioni al tra-liccio di Persico e Nizzoli nella Galleria di Milano e aglioggetti prigionieri di Duchamp, Giacometti e Melot-ti. Si parlato, e a ragione, per il monumento dei Bpr,di commemorazione di un ideale3. Ma quel monu-mento, quel reticolo troppo razionale opposto allim-mensit delleccidio, costituisce anche un momento diriflessione che d senso al motivo della continuit pitardi teorizzata da Rogers.

    Una riflessione conclusiva sul passato, dunque, ilmonumento alle Fosse Ardeatine, alla luce delle succes-sive esperienze dellambiente romano; il punto di unasituazione culturale ritenuta ancora operante, il monu-mento dei Bpr nellambiente milanese. La lirica con cuici si volge allindietro, affinch non sia permesso dimen-ticare, per accompagnata da un impegno nella ricer-ca di strumenti specifici atti a contribuire al problemadella ricostruzione: immediatamente, quella cultura tesaal nuovo si mostra legata a pratiche discorsive tutte ope-ranti sin dagli anni venti e trenta. Nel dicembre 1945,al I Convegno nazionale per la ricostruzione edilizia, lavoce di Rogers si leva per lamentare lassenza di unpiano nazionale, mentre Zevi indica come modello pos-

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  • sibile quello delledilizia di guerra statunitense, tentan-do di trasferire alla situazione italiana i risultati di unsecondo New Deal letto in modo impressionistico4.

    De Finetti, il vecchio allievo di Loos, erede spiri-tuale di un Illuminismo lombardo di stampo rigorista,del tutto estraneo alle polemiche sui destini del moder-no e autore di alcune inattuali proposte per il cen-tro di Milano, fra il 44 e il 51, a mostrare un maggiorrealismo, leggendo gli sviluppi del tessuto milanese allaluce del mercato fondiario e preconizzando una nuovalegge urbanistica in grado di provvedere ad adeguatidemani pubblici di aree5. Ma il nodo politico della rico-struzione sfugge agli architetti: le loro petizioni verto-no sulla globalit dellintervento, rimanendo evasiverispetto allattrezzatura tecnico-istituzionale che avreb-be dovuto permetterla. Del resto, un documento comequello redatto nel 44-45 da Della Rocca, Muratori, Pic-cinato, Ridolfi, Rossi de Paoli, Tadolini, Tedeschi eZocca parla chiaro circa le ideologie che ispirano le ipo-tesi della cultura italiana in merito alla ricostruzione6:laccento batte sullagricoltura come settore prioritariodi intervento, su unItalia contadina ristrutturata erazionalizzata attraverso unurbanistica che punti suuna migliore distribuzione della popolazione e il po-tenziamento del turismo, salutato come sicura vocazio-ne economica del paese. Gli urbanisti italiani, di fronteal tema della ricostruzione, legano tenacemente la pro-pria tradizione disciplinare a scelte politico-economicheavanzate in proprio. Pi che alla supplenza, il lorolavoro tende alla simulazione.

    Non sembra comunque lecito riconoscere nelle espe-rienze urbanistiche del primo dopoguerra un reale saltometodologico rispetto alle elaborazioni della secondamet degli anni trenta e alle indicazioni contenute nellalegge del 42. Lentusiasmo e le generose illusioni checaratterizzano il clima ciellenistico permettono piutto-

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  • sto di fissare in modelli i contenuti ancora fluidi di quel-le elaborazioni. Il piano ar, elaborato sin dal 44 dalgruppo italiano dei Ciam per il capoluogo lombardo7,fissa le coordinate di un sistema urbano in cui struttu-re alternative si integrano a un consolidamento del patri-monio esistente: due assi attrezzati si incrociano legan-do una zona direzionale decentrata alla viabilit regio-nale8 un restauro conservativo previsto per il centrostorico cos liberato; nuclei integrati di residenza e pro-duzione sono localizzati presso Gallarate, Como, Vare-se, Monza, la Brianza, nella prospettiva di una riorga-nizzazione regionale, mentre lagglomerato urbano veroe proprio viene limitato a una citt di media grandezza.Lotta contro la speculazione, conservazione e valoriz-zazione dei nuclei storici, sviluppo unidirezionale dicitt alternative sono gli obiettivi che si vorrebbeintegrare, a Milano come a Roma. Nel 46, una com-missione di cui fanno parte Luigi Piccinato, MarioRidolfi, Aldo Della Rocca, Franco Sterbini, IgnazioGuidi, Cherubino Malpeli e Mario De Renzi chiama-ta ad elaborare un piano del traffico per la grande Roma;ne esce un programma urbanistico completo, offertocome base per una polemica che sfocer nelle vicende delpiano del 629.

    Tutto ci, tuttavia, rimane nei limiti della pura eser-citazione. Anche quando, come nel caso degli studi peril piano regionale del Piemonte, frutto delliniziativa diGiovanni Astengo e Mario Bianco, ci si confronta conuna tematica territoriale di complessa struttura econo-mica10, emerge la volont di consolidare una disciplinadotata di una indiscussa tradizione. opportuno perdistinguere le tendenze che fra il 44 e il 48 caratteriz-zano lapproccio italiano allurbanistica: il regionalismodel piano ar in linea con quello che aveva ispirato ilpiano della Valle dAosta, patrocinato da Adriano Oli-vetti nel 1936-37, pur nella diversit dei contesti; quel-

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  • lo affrontato da Astengo e Bianco per il Piemonte piuttosto frutto di una petizione di principio e di unaricerca di metodologie analitiche. Saranno le pressionicontingenti a far precipitare lesperienza urbanistica indogmatismi tenacemente vincolati a modelli di sviluppocittadino alla fine ineffettuali. Per suo conto, daltron-de, il territorio italiano sfugge ad ogni pianificazione: nelcatalogo delle utopie vengono relegate le proposte delpiano ar o quelle emergenti dal concorso del 46 per ilcentro direzionale di Milano, mentre il crollo progressi-vo delle speranze seguite alla lotta di liberazione spingegli architetti specie quelli settentrionali, in presenzadi una committenza pi dinamica e di un apparato indu-striale rapidamente riassestatosi a concentrare in mes-saggi formali le loro aspirazioni a nuovi ordinamenticivili.

    Il confronto con la storia, che in modo pi o menoambiguo caratterizzer il decorso della ricerca italiana, daltronde imposto da occasioni clamorose, come quel-la della ricostruzione dei ponti e della zona di Por SantaMaria a Firenze, distrutti da uno dei pi gratuiti atticompiuti dalle truppe tedesche in ritirata. Nellaffan-noso tentativo di contrapporre le qualit della civiltallignominia della barbarie, gli architetti toscani sicimentano in progetti e polemiche che si concludono conuna ricostruzione del tessuto storico povera e compro-missoria: rispetto alle indicazioni anchesse, tuttavia,viziate da incertezze e ambiguit di Giovanni Miche-lucci, la vicenda fiorentina sfocia anchessa in un falli-mento, lasciando per emergere problemi su cui sem-brer degno impegnarsi a fondo11.

    La cultura architettonica italiana sente subito, peral-tro, di dover fronteggiare molteplici nemici, e non tuttiesterni. Non si tratta solo della battaglia contro la levadei morti di cui parlava Guido Dorso, ma anche diquella che gli intellettuali sentono di dover ingaggiare

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  • con se stessi, con le proprie tradizioni, con il nodo cheli lega a istituzioni da sovvertire.

    Sono esattamente questi i temi affrontati dallAsso-ciazione per larchitettura organica (Apao) e dallazionepersonale di Bruno Zevi, tornato in Italia dopo avercompletato i suoi studi negli Stati Uniti. Zevi esordiscecon un volume, Verso unarchitettura organica (1945)scritto come manifesto non solo di una scelta storio-grafica ma anche di un principio di azione: la fondazio-ne dellApao e della rivista Metron conseguentealle riflessioni depositate in quel volume, le cui lineemetodologiche saranno esplicitate pi tardi in Saper vede-re larchitettura12. Per Zevi, il superamento dellereditdel cosiddetto razionalismo non prescinde dalla rivo-luzione delle coscienze da esso preconizzato. Anzi, ilrinnovamento dovr completare e approfondire uno-perazione il cui ascetico calvinismo non ha pi ragiondessere dopo lampliamento alle masse del messaggiocontenuto nel terrorismo delle avanguardie. La lezionedi Wright, principalmente ma anche quella di Aalto dovr essere assorbita per liberare le forme, per pie-garle a una umana fruizione dello spazio. Ma linsi-stenza zeviana sulle valenze spaziali va colta nel suovalore di metafora. Lo spazio protagonista l dove esi-ste scambio fra progettazione e fruizione, dove il suooscillare fra condizioni naturali e innaturali permette ilrecupero di luoghi, dove si fa riconoscibile lambien-te di una societ democratica. Singolare lintegrazio-ne tentata da Zevi del metodo analitico della scuola diVienna con leredit crociana e con una volont diintervento diretto della storia nellazione contingente13.Certo, lontana da Zevi era lintenzione di proporre unamaniera linguistica. Ma il nuovo vessillo da lui agita-to come catalizzatore di energie altrimenti prive di cen-tri troppo mitico per non divenire adatto ad ogni uso.LApao afferma, nel suo programma ideologico, di per-

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  • seguire una pianificazione urbanistica e una libertarchitettonica come strumenti di costruzione di unasociet democratica in lotta: la libert sociale deve esse-re garantita dalla socializzazione dei grandi complessiindustriali, bancari e agrari14. Tale deciso appello rima-ne tuttavia generico e privo di relazioni con le scelte dacompiere nel settore edilizio. La politica viene evocata,piuttosto che praticata dallApao. I cui obiettivi speci-fici, comunque, sono anchessi vaghi: lequazionearchitettura organica = architettura della democrazia utile pi che altro per riconoscersi, non certo per rico-noscere. N le incertezze della cultura romana sonocompensate dal richiamo allortodossia proveniente dalMovimento studi di architettura (Msa) di Milano o dalgruppo Pagano di Torino: dietro le formule, si nascon-de unincertezza di fondo che lanalisi storiografica nonriesce a rimuovere.

    Eppure, riviste come Metron, Domus direttadal 1946 al 1947 da Rogers o La nuova citt, diret-ta dal 45 da Giovanni Michelucci, ereditano con diver-si orientamenti la vis polemica della Casabella diPagano: ma la prima rimane legata alle sorti dellApao,la seconda si presenta con un volto aristocratico, inci-dendo scarsamente sullarchitettura militante15, la terza costretta in limiti localistici. Rimane comunque allapubblicistica di questo periodo il merito di aver amplia-to le pertinenze dellanalisi critica e di aver abbozzatouna revisione delleredit storica del cosiddetto movi-mento moderno che produrr ben presto i suoi frutti.

    Nel frattempo, le istanze tese alla formulazione di unlinguaggio nuovo, libero dalle ambigue ipoteche delrecente passato e capace di entrare in consonanza conle speranze riposte nellordinamento democratico e coni valori espressi dalla Resistenza, sfociano per vie diffe-renti nella vicenda neorealista16.

    Sin troppo facile tracciare le linee di unarcheolo-

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  • gia del neorealismo architettonico: la mostra sullarchi-tettura rurale alla VI Triennale di Milano (1936), chevede lesordio di Pagano come fotografo, la villa a Por-to Santo Stefano di Quaroni (1938), il progetto di Ridol-fi per unazienda agricola a SantElia Fiumerapido(1940) sono l a testimoniare una volont antiretoricache suo malgrado entra in risonanza con le velleit ru-raliste della politica economica del regime, che nel volerreagire al lasciarsi vivere soltanto cerca parole primein una logica costruttiva legata al mito della natura-lit, che nelle sperimentazioni lecorbusieriane con imateriali poveri scopre unideologia di ricambio. E vieneda fantasticare su un archeologo del futuro privo didocumenti che non siano grafici o costruiti, perplesso neldover collegare opere cos distanti come quelle citate, aiquartieri progettati da Forbat per Karaganda (1932), agliedifici residenziali realizzati da Pschel ad Orsk (1935),ai progetti per case contadine di Melnikov (1918-19) oal folclore di maniera di Norristown, caposaldo dellaconquista rooseveltiana della regione del Tennessee.Impossibile isolare meccanicamente le anime dellatradizione del nuovo in separate stanze: avanguardie,populismi, rtours lordre convivono come maschereintercambiabili di un medesimo attore.

    Che sceglie, nel caso del neorealismo italiano, la viadella descrizione. Descrizione, innanzitutto, di unincontro traumatico con uno specchio imprevisto laconvenzione chiamata realt che restituisce a chiguarda immagini inquietanti; descrizione di emozioniprovate nello scambiare lorgoglio della modestia conlimmodestia di una volont di potenza frustrata; descri-zione di un viaggio l dove altri erano nella speranzadi poter cos comprendere il presente di tutti. Di talecontaminazione fra il soggetto, la collettivit, la parte eil tutto vive la stagione neorealista.

    Autobiografica infatti la narrazione dellimprovvi-

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  • so incontro dellintellettuale con le masse subalternerese auratiche dalla Resistenza; autobiografica la rive-lazione di una speranza, che proietta su unimmaginesentimentale della realt nazionale una volont di rige-nerazione che somiglia allespiazione di ataviche colpe;autobiografica la struttura di opere che della loro emar-ginazione fanno motivo di orgoglio. Cos che uno slogansembra permeare il progetto del gruppo Quaroni-Ridol-fi per la Stazione Termini, il quartiere Tiburtino o LaMartella: Io partecipo; dunque noi siamo.

    Sartrianamente, quegli intellettuali prendevano posi-zione: sceglievano di identificare il destino della loro tec-nica e del loro linguaggio con quello di classi venuteimprovvisamente alla ribalta, ricche di un passato per-dente eppure intriso di valori, se esso aveva permessoloro di emergere, di profilarsi come portatrici di nuovepurezze. Poco importava se ladesione somigliavatroppo a un bagno catartico, se lesplorazione di quelletradizioni nascondeva un masochistico bisogno di iden-tificarsi con i perdenti, se la ricerca di radici nel focola-re contadino rimuoveva lansia per lo spaesamentoincontrato a contatto con la societ di massa. N si erain grado di valutare che pensando di agire come re magi,recanti in dono ai nuovi eletti il proprio engagement, siera letteralmente parlati da un disegno di cui inconscia-mente ci si faceva docili strumenti.

    Ma nei primi anni del dopoguerra tale risvolto nonera avvertibile. Lorgoglio con cui si pronunciano lenuove parole proporzionale alla volont di cancellarequelli che vengono considerati i compromessi o gli erro-ri dellanteguerra: il linguaggio della materia e dellarealt popolare invocato per annullare un passato fattodi adesioni intellettualistiche o opportuniste agli etimicostruttivisti, internazionalisti o neoclassici. su talebase che prende forma lopera pi eloquente della scuo-la romana, il progetto presentato al concorso per il

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  • fabbricato viaggiatori della Stazione Termini dal grup-po Quaroni-Ridolfi (1947).

    Non forse azzardato leggere nel progetto del grup-po Quaroni, Ridolfi, Fiorentino, Cardelli, Car e Cera-dini per la stazione Termini limmagine di una faticosaliberazione. Liberazione, anzitutto, di una strutturadalla propria matericit: e ci non contrasta affatto conlespressionistica articolazione della copertura, grantetto al cospetto di una citt pesantemente conforma-ta ma di incerto destino. Ma liberazione, anche, dacanoni tranquillizzanti, da soluzioni. Arrivo e par-tenza fanno problema, in questo progetto che nonrinuncia allallegoria il risucchio e lespulsione percontaminare le tonalit, per fare della piazza coperta unomaggio alle contraddizioni del presente17. Ma nellosforzo teso al recupero di una rappresentativit voluta-mente ambigua e nel fascio di tendini che trasmettonole loro tensioni ai sostegni a doppia forcella non forseunesagitazione che rassomiglia sin troppo a un esorci-smo della tecnica? Nello stesso 1947, Quaroni proget-ta la chiesa al Prenestino a Roma18, con unidea ripresanella chiesa a Francavilla al Mare (1948-58): la formaaspira a ricongiungersi allinventio tecnologica, ma anchea far sparire, nella levitazione del rappresentato, il sog-getto stesso del fare tecnico19.

    Si tratta di un controcanto rispetto allabaco dellapiccola tecnica del Manuale dellarchitetto. Tormen-tosamente, e riproducendo una casistica di generi chenulla ha a che fare con la tipologia, si aprono sentieriobliqui al percorso di unarchitettura insofferente aridursi a semplice dispositivo, e condannata nonostantetutto a denunciare tale propria carenza. La liberazio-ne sopra riconosciuta come contenuto di fondo delprogetto per la stazione Termini di quelli che si stannoavviando a divenire i maestri della scuola romana ,alla fine, indice di uninconfessata aspirazione a elude-

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  • re lindagine circa le condizioni di senso della progetta-zione, pur presentandosi come accorato punto interroga-tivo sulle strutture della comunicazione.

    Ma il progetto Quaroni-Ridolfi per Termini diceanche altro. In esso loggetto e lidea di citt formanoununit: a differenza dello strutturalismo severo maesibito del progetto di Saverio Muratori per il concorsoper il nuovo Auditorium di Roma20, l la gestazione diun linguaggio implicato nel dolore e nelle speranze delmomento parla epicamente. Monumentalmente, il neo-realismo pronuncia inediti etimi.

    Tuttavia, non unoccasione unica bens temi genera-lizzabili costituiscono il terreno naturale di crescita delneorealismo: sia Quaroni che Ridolfi incontrano subitoil problema della nuova committenza sociale. Per Ridol-fi, la cerniera che congiunge le opere degli anni trentaalla poetica populista costituita da unintensa ricercamanualistica21. Del 40 il suo Contributo allo studio sullanormalizzazione degli elementi di fabbrica, del 42 i Pro-blemi dellunificazione: lindagine verte sugli elementiminimi, sul dettaglio, sul recupero di un sicuro mestie-re, dove lattenzione per la correttezza e la normaliz-zazione si riallaccia alle ricerche concretizzate negli arre-di fissi e nei particolari delle palazzine di via di VillaMassimo e di via San Valentino a Roma, per metternefra parentesi i modi del linguaggio. La porta aperta perla tassonomia del Manuale dellarchitetto, pubblicato nel1946 sotto il patrocinio del Cnr e dellUsis: quello cheabbiamo chiamato un abaco per una piccola tecnica,dedicato allet della ricostruzione22. In esso il valoredellesperienza viene esaltato; alledilizia dellItaliapostfascista viene consegnato un prontuario da botte-ga. In realt, la concretezza della tradizione costrutti-va che il Manuale esalta frutto di una media di cultu-re regionali non immune da intellettualismo: lesperan-to vernacolare che assume in esso forma tecnologica si

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  • riallaccia alla celebrazione del regionalismo in abitofolk che era stato uno degli ingredienti ideologici delNew Deal. Il manuale destinato a divenire testo di rife-rimento per larchitettura tesa alla ricerca del nazio-nal-popolare funge da tramite rispetto alle esperienzedi una politica sperimentata oltre oceano e divenutamerce di esportazione.

    Al Manuale e alle tipologie studiate da Ridolfi per ifascicoli normativi dellIna-Casa, tipiche espressioni del-lambiente romano, risponde il Problema sociale costrut-tivo ed economico dellabitazione, opera di Diotallevi eMarescotti gi collaboratori di Pagano per il progettodi citt orizzontale edita a Milano nel 194823. Alculto del dettaglio costruttivo, il volume di Diotallevi eMarescotti oppone analisi sociologiche e tipologiche, conespliciti riferimenti ai modelli della Germania di Wei-mar, specie nel primo gruppo di tavole: la stessa orga-nizzazione dellopera, per schede successivamente inte-grabili, ne caratterizza il contenuto, in presa diretta conla grande tradizione dellarchitettura e dellurbanisticaradicali fra le due guerre. Ve nera abbastanza perriservare unaccoglienza men che disattenta al Problemasociale dei due milanesi, destinato, a differenza delManuale ridolfiano, a divenire rarit bibliografica. Maper inquadrare storicamente quella sfortunata iniziativaeditoriale, necessario considerarla una tappa interme-dia, nellattivit teorica di Marescotti, fra la mostra Lacitt del sole (Catania 1945) e lo studio sui problemidelledilizia per il piano del lavoro proposto dalla Cgil24.Limpegno di Marescatti in presa diretta con le riven-dicazioni del movimento operaio e del movimento coo-perativo: i suoi sbocchi limitati conseguono alla sconfit-ta delle sinistre alle elezioni del 48 e allavvento dellapolitica centrista, ma anche alle proprie interne utopie.Per Marescotti, infatti, i centri sociali cooperativi sonoluoghi di organizzazione autonoma dellutenza con obiet-

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  • tivi antiburocratici: lassociazione cooperativa salutatacome forma di azione politica dal basso, in polemica conogni gestione piramidale. Era inevitabile per Marescot-ti entrare immediatamente in conflitto con gli stessi par-titi di sinistra: fra Bottoni, che offrir la sua tecnicalineare al movimento operaio organizzato, e le istanzeantiburocratiche di Marescotti, si apre un incolmabilevarco. Quello di Marescotti, tuttavia, populismo ideo-logico espresso in forme ascetiche: i suoi quartieri perlIacp di Milano Baravalle e Varesina del 1947, Man-giagalli del 1949 sono fedeli agli studi sulla casadelluomo elaborati dallo stesso Marescotti negli annitrenta, mentre il centro sociale e cooperativo Grandi eBertacchi (1951-53) costituisce il canto del cigno dellesue idee partecipative25.

    Daltro lato, opere come la Casa del Viticultore diIgnazio Gardella (1945-46) e il Rifugio Pirovano a Cer-vinia di Albini (1949-51) testimoniano come poco pitardi il quartiere di Cesate la penetrazione anche aMilano delle ideologie populiste: anche se, specie nelrifugio albiniano, queste vengono accolte come valoreaggiunto di un aristocratico distacco dal materiale for-male. Vero , piuttosto, che il volume di Diotallevi eMarescotti, il quartiere qt8 a Milano, alcune delle operedegli anni quaranta dei Bpr, come le case in via Alcui-no (1945), le testimonianze di fedelt alla sintassi ele-mentarista di Figini e Pollini (casa in via Broletto del1947-48), di Ghidini e Mozzoni (la terragnesca villa aGallarate del 1948), di Piero Bottoni (edificio polifun-zionale in corso Buenos Aires, 1947-49), o il raffinatoascetismo di Asnago e Vender, autori, fra laltro, del-ledificio per uffici e abitazioni in piazza Velasca (1950),esprimono nel loro insieme una proposta radicalmentealternativa allorganizzazione della produzione ediliziadellet della ricostruzione. N un caso che tale linea perdente si profili in un centro industrialmente

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  • sviluppato, laddove da Roma si afferma lipotesi vin-cente di una gestione delledilizia come sacca di con-tenimento della disoccupazione e settore subordinato almercato finanziario e speculativo.

    Dal punto di vista linguistico, la continuit lom-barda e il populismo romano sembrano concordare alme-no su un punto: sulla messa fra parentesi del problema.Una comune linea riduzionista viene abbracciata. Siparla anche in opere indubbiamente elaborate come laCasa al Parco di Gardella (1947) con sintassi pove-re, come a voler riflettere le condizioni del frangentestorico impedendosi di oltrepassarle.

    Eppure, afone, nei confronti delle ricerche neoreali-ste, appaiono le testimonianze di continuit con lespe-ranto moderno. Ed significativo che su questultimosi innesti la pratica sociale che muove lopera di Ma-rescotti o di Bottoni: la forma che riveste le ricerche chepuntano a una produzione di massa e a una riforma pia-nificata dellabitazione affatto dimessa. Daltronde,non certo con problemi formali che si confronta Bot-toni nel progettare, per lVIII Triennale di Milano, ilquartiere sperimentale qt8. Iniziativa indubbiamenteinnovatrice, quella di Bottoni, che unifica una propostadi rivitalizzazione della Triennale con una chiamata araccolta delle forze vive della cultura architettonica ita-liana intorno al tema della residenza popolare. Il qt8, ilcui piano urbanistico diviene parte integrante del pro-getto di piano regolatore di Milano e dei piani di rico-struzione, concepito come mostra permanente dinuove tipologie, di programmi costruttivi e igienici spe-rimentali, di una tecnologia basata sulla prefabbricazio-ne e lindustrializzazione: norme speciali vengono ela-borate da Luigi Mattioni in collaborazione con lufficiotecnico della Triennale di cui Bottoni commissario mentre i diversificati tipi edilizi si attengono a unasciutto elementarismo26.

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  • Eppure, nel clima politico-economico definito dallastrategia di Luigi Einaudi, imprese come il qt8 o impo-stazioni del tema sociale dellalloggio come quella diMarescotti assumono tratti utopistici. La stabilizzazionemonetaria einaudiana aveva allontanato il pericolo del-linflazione e ridotto progressivamente il deficit delloStato: ma a spese di unaumentata divaricazione dellaforbice fra regioni settentrionali e regioni meridionali,senza risolvere il problema del passivo dei conti conlestero, e soprattutto con un pauroso aggravio delladisoccupazione, che da 1 654 872 unit del 1946 toccaun massimo di 2 142 474 unit nel 48. Ledilizia chia-mata a risolvere il problema coscientemente creatodalla politica neoliberista: il piano Fanfani diviene leggenel febbraio 1949, originando la Gestione Ina-Casa, conil titolo Provvedimenti per incrementare loccupazione ope-raia, agevolando la costruzione di case per lavoratori. Chia-re sono le finalit del piano: arginare laumento del tassodi disoccupazione, usare ledilizia in funzione subordi-nata ai settori trainanti, tenendola ferma a un livellopreindustriale e in funzione dello sviluppo delle piccoleimprese, mantenere inalterato pi a lungo possibile unsettore della classe operaia fluttuante, ricattabile e nonmassificabile, fare dellintervento pubblico un sostegnoper lintervento privato.

    Non certo le proposte di innovazione produttivaimplicite nella manualistica di Marescotti o nel qt8 pos-sono essere funzionali a tali obiettivi. Piuttosto, lesal-tazione di una tecnologia povera e legata alle tradizioniregionali, cos come si configura nelle tavole del Manua-le dellarchitetto e nelle aspirazioni del neorealismo, entrain singolare consonanza con essi: la celebrazione del-lartigianato, del localismo, della manualit, cos comelinsistenza sullorganicit degli insediamenti, distanti idealmente e spazialmente dalla citt del compro-messo formano gli ingredienti privilegiati della poeti-

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  • ca neorealista e delle esperienze del primo settennioIna-Casa27.

    La politica urbanistica dellIna-Casa appare subito aipi avvertiti antitetica a una sana pianificazione urba-na. Dislocati in aree lontane dai centri urbanizzati perusufruire di terreni a basso costo, i quartieri Ina-Casasfuggono a inquadramenti di piano o condizionano que-sti ultimi, stimolando la speculazione fondiaria e edili-zia che progressivamente li raggiunge ed accerchia,approfittando delle infrastrutture create dalloperatorepubblico. Non a caso, programma e gestione dellentesono condizionati dal paternalismo di Arnaldo Foschi-ni: per suo tramite, si cala nella nuova realt un ulterioremotivo di continuit con i risvolti populisti agiti nel ven-tennio fascista. Si pone quindi un problema di coscien-za agli architetti italiani riuniti nellApao: esso sarrisolto scegliendo la via della Realpolitik, ma con con-traccolpi non indifferenti sulla compattezza di quel grup-po di pressione.

    Manifesto del neorealismo architettonico e insie-me dellideologia dellIna-Casa primo settennio il quar-tiere Tiburtino a Roma, che vede riuniti, fra il 49 e il54, i due nuovi maestri, Quaroni e Ridolfi, insiemea giovani e giovanissimi collaboratori, come CarloAymonino, Carlo Chiarini, Mario Fiorentino, FedericoGorio, Lanza, Sergio Lenci, Piero Maria Lugli, CarloMelograni, Giancarlo Menichetti, Rinaldi, MicheleValori: la scuola romana ha qui un ulteriore momen-to fondativo28. Esiliato dalla citt, il Tiburtino volgesdegnosamente le spalle a questultima. I suoi modellisono i luoghi della purezza popolare e contadina; diessi, il nuovo quartiere intende riprodurre la vitalit, laspontaneit, lumanit. Non pi le rigorose griglie oil terrorismo geometrico della Neue Sachlichkeit: lin-tento esaltare lartigianalit che costituisce il modoobbligato di produzione del complesso, salutandola come

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  • antidoto antialienante. Ne esce una planimetria vaga-mente informale, solo marginalmente controllata tipo-logicamente, e unarchitettura ricca di motivi strapae-sani, dai balconi in ferro battuto, alle coperture a tettotradizionale, al taglio delle finestre, alle sequenze dellescale esterne e dei ballatoi. Ma proprio qui che, invo-lontariamente, la polemica antiavanguardista del neo-realismo si morde la coda. Il lessico popolare, elevato anorma linguistica, assunto, specie nei blocchi control-lati personalmente da Ridolfi, come puro materiale.La comunicazione, ricercata con tanta accoratezza,avviene grazie alla deformazione di quel materiale lin-guistico, grazie alla sua distorsione: il procedimento esattamente quello preconizzato dal formalismo e dalleavanguardie tecnologiche. Il che contiene un ulteriorerisvolto. Lansia conoscitiva nel neorealismo si rivelainfatti, sulla base di tali considerazioni, per quello che: ansia di un gruppo intellettuale di conoscere se stes-so, nei casi peggiori attraverso limmersione nei teporidelleterna pace contadina, in quelli migliori comeespressione di rancore e di traboccante volont dicomunicazione.

    Nonostante tutto, rimane nel Tiburtino uno schiaffoalla rispettabilit piccolo-borghese. N citt, n periferia,il quartiere, a rigore, non neanche un paese, bens unaffermazione, insieme, di rabbia e di speranza, anchese le mitologie che lo sostengono rendono la rabbia im-potente e la speranza ambigua. Uno stato danimotradotto in mattoni, laterizi e intonaci di scarsa qualit:come ogni stato danimo, esso doveva essere superato.Era necessario lasciar l il Tiburtino, fra la montagnasabina, le sconnesse zone industriali, la ferrovia e il quar-tiere di San Lorenzo, come testimonianza di un incon-tro unilaterale fra intellettuali e lotte popolari.

    Poich chiaro che tutta la carica eversiva che pro-mana dallantiformalismo del Tiburtino, da questo

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  • monumento allincerta linea di confine che separa ladelusione dellengagement, contiene, paradossalmente,un grande s detto alle forze che dellisolamento del-ledilizia popolare fanno incentivo per la speculazione,dellarretratezza tecnologica uno strumento di sviluppoper i settori avanzati, delleloquenza un motivo di sta-bilizzazione. Era necessario lasciar solo il Tiburtino. Siprocedette invece in direzione contraria, riducendo aformula quellirripetibile episodio, che con troppa gene-rosit offriva materiali di facile uso e consumo.

    Eppure, sia Ridolfi che Quaroni intuiscono che le-sperienza l fatta irripetibile: le loro diverse declina-zioni dellideologia populista battono ben presto nuovestrade.

    Praticamente a ridosso dellesperienza del Tiburtino,infatti, Ridolfi offre, calata nel vivo della periferia roma-na, una delle pi alte testimonianze dellinquietudineintellettuale dei primi anni cinquanta, dimostrando lafecondit della propria disponibilit linguistica. Il nucleodi case alte in viale Etiopia a Roma, realizzato da Ridol-fi per lIna (1950-1954), accetta la densit edilizia diquello che non a caso stato chiamato il quartiere afri-cano: anzi, la continuit della struttura cementizia esi-bita, la perentoriet volumetrica delle torri ad angolismussati, la violenza chiaroscurale si traducono in epicapopolare, ostentano la propria drammaticit come com-mento dolorosamente partecipe di una condizioneumana non riscattabile con certezze architettoniche.Per questo le orgogliose torri di Ridolfi adottano solu-zioni irripetibili. Luso del colore, del ferro lavorato,della maiolica smaltata non introduce notazioni ironiche,bens una piccola scala quella alla quale ha ancorapossibilit di esprimersi il fare artigiano che sottolinea,per scarti, la grande scala del complesso29. Assoluta-mente nuova, per lo stesso Ridolfi, tale composizioneper scarti. Indubbiamente, lautore si trova, nel con-

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  • testo di viale Etiopia, in una situazione che lo spinge amettere fra parentesi ogni afflato sentimentale e ogninostalgia; la sapienza con cui egli tratta la doppia scalain cui sceglie di giocare il suo intervento la sensibiliz-zazione delle intelaiature cementizie e delle coperturerispondono, con tonalit grave, alle sfacciate varia-zioni delle soluzioni di dettaglio segnano, per Ridol-fi, il passaggio dal neorealismo al realismo.

    Un realismo che, malgrado quanto stato scritto incontrario30, non sembra colto da Mario Fiorentino nelleattigue torri residenziali realizzate fra il 1955 e il 1962sullo stesso viale Etiopia al ciglio della ferrovia: grazio-samente agnostiche, le torri di Fiorentino riducono letensioni ridolfiane, per proporsi come civili divaga-zioni in una violenta periferia. Daltra parte, il rischiocui la ricerca ridolfiana si espone proprio questo: i suoistrumenti espressivi divengono facilmente commestibi-li: da Roma citt aperta sin troppo facile passare a Paneamore e fantasia. Ma la ricerca di Ridolfi procede per dia-gonali: nello stesso 1950, insieme a Wolfgang Frankl,suo collaboratore fisso, Ridolfi realizza un quartiere Inaa Cerignola, frutto di un attento studio del comporta-mento umano dei futuri abitanti e, ancor pi, di unasevera declinazione della tipologia e del gioco con lamateria31. Il fare sofferto ancora quello delle torri diviale Etiopia; ma a Cerignola la densit delle allusionirapprese nella tessitura dei materiali e nellasciuttezzadei volumi non permette copie. Anche lisolamentocui si condanna lalto artigianato atto involontario di realismo: la poesia concessa e stimolata dal ritardotecnologico sublimazione di una transeunte contin-genza, e il canto che ne scaturisce sa di vivere una sta-gione colpevolmente felice. Che poi tale colpa fossevissuta in qualche modo da Ridolfi lo dimostra unulte-riore opera del 1950-51, la palazzina romana in via G.B. De Rossi. Un ritorno alledilizia per il ceto medio,

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  • dunque: ma ora non pi possibile al lirico dellaltraRoma affrontare il tema con il medesimo distacco uti-lizzato nellanteguerra nella vicina palazzina in via diVilla Massimo o ai Parioli. Non v pi tipologia da pro-porre per quel ceto, nessun modo di vita. Ne esce unespressionistico cozzare di forme, un irrequieto e dode-cafonico elenco di distorsioni geometriche, culminantinella tormentata trave cementizia a profilo spezzato chefa da basamento. Lo schiaffo al gusto del pubblicoviene reiterato, in questopera ridolfiana. Alla scontro-sa dignit del quartiere di Cerignola si sostituisce a viaDe Rossi una sorta di ritratto della committenza:disgregata, inutilmente ansiosa, volgare in definitiva,essa appare, nella lettura di Ridolfi, singolarmente vici-na a quella che in diverse occasioni vorr darne Viscon-ti. E un ulteriore confronto si impone. La palazzina divia De Rossi e le torri di viale Etiopia: due lingue perdue realt compresenti, leccezione e la regola, anche sela prima non scalfisce la realt da cui si divincola, e laseconda obbligata a un semplice commentare.

    questo il dramma cui la poetica ridolfiana va ineso-rabilmente incontro: il gioco delle manipolazioni dellamateria diviene sempre pi tormentoso, come nelle palaz-zine in viale Marco Polo (1952) e in via Vetulonia(1952-53) a Roma, colloquia con la struttura urbana diTerni citt cui il Nostro dedica una meticolosa e conti-nua opera di cura urbanistica32 come nella magistra-le Scuola media in via Fratti, si staglia polemicamente aldi sopra di edifici eclettici, come nelle sopraelevazioni divia Paisiello (1948-49) e di via Mercadante (1954-55) aRoma, sottost a un rigoroso imperativo geometrico nellenuove carceri di Nuoro, progettate nel 1953-5533. Ma allesoglie del miracolo economico, la scomparsa progressi-va delle condizioni che avevano sostenuto il sorgere diquella poetica riducono quello che era stato un incontrofra lurgere di un soggettivo bisogno di comunicare e le

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  • necessit imposte dalla situazione storica a una coerenzache sopravvive a se stessa parlando con inopportunanostalgia di un cattivo mondo scomparso.

    Nel frattempo, la complessit della ricerca ridolfianacontribuisce ad alimentare polemiche disgreganti in senoallApao. Lattenzione della critica si rivolge quasi esclu-sivamente alle pi scoperte motivazioni populiste delneorealismo: ma non certo questo un esito accettabi-le per chi, come Zevi, aveva proposto la formula orga-nica come strumento di arricchimento e non di ever-sione della tradizione moderna. Nel 1950, la Storiadellarchitettura moderna di Zevi precisa e sistema defi-nitivamente i concetti anticipati in Verso unarchitettu-ra organica e in Saper vedere larchitettura. In un sugge-stivo racconto, le cui articolazioni molto debbono adesclusioni obbligate da una ricerca storiografica ancoraembrionale e ad azzardati giudizi ben presto smentiti daifatti, Zevi tenta di riportare il dibattito sui destinidellarchitettura in ambiti non viziati da folclorismi o dacadute populiste. Non a caso, in quel volume egli nonriconosce nel neorealismo unincarnazione, sia pure par-ziale, della poetica organica, limitandosi ad indicare,come esempi di una tendenza nascente, il progetto diSamon per lOspedale traumatologico di Roma, il risto-rante a Sabaudia di Claudio DallOlio, la palazzina dalui stesso progettata insieme a S. Radiconcini in viaPisanelli a Roma. N Scarpa non ancora scoperto n Carlo Mollino vengono considerati in quel volume.Eppure, proprio Mollino, con la Stazione per slittoviacon albergo al Lago Nero in Val di Susa (1946 sgg.) econ i suoi oggetti di design, procedeva verso uninte-grazione di membrature ridotte a scheletri animati inorganismi aerodinamici, che fornivano, come gi la suasede della Societ ippica a Torino (1935-39), una ver-sione originale e ironica dellorganicismo34. In effetti,una vera tendenza organica non prende piede in Italia,

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  • malgrado lappassionata predicazione zeviana. Operecome il Villaggio del fanciullo a Trieste-Opicina (1949)di Marcello DOlivo una delle pi notevoli di queglianni , o la villa a Mondello di Samon (195o) riman-gono isolate insieme alle geniali riletture wrightiane diScarpa e a pochi exploits di maniera. Il dibattitosullarchitettura organica rimane a livello letterario. Nel51, Giulio Carlo Argan risponde implicitamente al dise-gno contenuto nella Storia zeviana con un volume pub-blicato anchesso da Einaudi, dedicato a Walter Gropiuse la Baubaus. Non si tratta di una contrapposizione dilinee normative. Il Gropius ricostruito da Argan erededelletica protestante cos come viene interpretata daWeber e da Troeltsch, portatore di un mito europeodella ragione che reca in s i germi del dubbio e deldisinganno, protagonista di un salvataggio in extre-mis di unidea di civilt dallinevitabile collasso dellaclasse dirigente. La razionalit di Gropius, comequella di Le Corbusier o di Mies preciser pi tardiArgan35 nasce da unultima illusione dimmunit por-tata nel vivo della mischia, dato che il concetto moder-no di libert non pi identificabile con una sconfinataeffusione nellimmenso dominio della natura: la fedelta quella lezione, gi data come perdente sul piano ideo-logico, considerata unimprescindibile necessit.

    Difficile lettura, quella di Argan, per la cultura ita-liana dei primi anni cinquanta. Considerate con unrispetto proporzionale allincomprensione, le pagine diArgan formano unlite di giovani storici, ma, comequelle di Zevi, non modificano sostanzialmente la vicen-da architettonica. La crisi dellApao e del Msa pone ilproblema, per conto suo, di nuovi modi di organizza-zione della cultura architettonica, che ha ancora daabbattere residui accademici particolarmente forti nellesedi universitarie. A Venezia, Giuseppe Samon racco-glie alcuni dei protagonisti pi vivi del dibattito italia-

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  • no: Zevi, Albini, Gardella, Belgiojoso, Giancarlo DeCarlo, Scarpa, Luigi Piccinato, Giovanni Astengo con-tribuiscono a fare della scuola da lui diretta una roc-caforte avanzata; ma Venezia subito isolata dal mondoaccademico, e lisola felice costretta a crescere su sestessa. LInu procede invece agitando il vessillo dellapianificazione, cercando un colloquio con le forze poli-tiche che avr alterne fortune.

    Ed appunto vivendo da protagonista la battagliadellInu che Quaroni prosegue, dopo il Tiburtino, ilproprio tragitto. Anche per lui, quellesperienza supe-rata mentre si compie: senza poetiche, senza lingue,Quaroni si obbliga a un bagno nella realt italiana, allaricerca di strumenti in grado di potere. Prima unbreve periodo allinterno del Gruppo tecnici socialisti,poi limpegno meridionalista, lincontro con il movi-mento Comunit di Adriano Olivetti, le ricerche perlinchiesta parlamentare sulla miseria36: Quaroni nonmette in questione solo gli strumenti della progettazio-ne urbana, ma anche le tecniche di analisi. Con un inter-rogativo di fondo, relativo alle strutture destinate a coa-gulare e rendere realmente sociale la domanda prove-niente dalla base.

    Non casuale, al proposito, lincontro di Quaroni conOlivetti. Il movimento di Comunit, infatti, tramite lasua azione capillare, lorganizzazione che tende ad offri-re agli intellettuali in nome dellunit della cultura, i suoistrumenti editoriali, appare come una repubblica degliintellettuali in presa diretta con il sociale, priva delleremore nei confronti delle nuove scienze umane cheprovengono dai partiti di sinistra. Lanima terzaforzistadi molta intelligencija italiana trova cos in Comunit unterreno obbligato. Il quale si concreta privilegiando,appunto, lurbanistica, con riferimenti propagandatisia dalla rivista Comunit che dalle edizioni del movi-mento alla sociologia urbana e ai modelli di interven-

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  • to anglosassoni. I motivi populisti serpeggianti nelletdella ricostruzione si incontrano in tal modo con imodelli decentralisti e con un pensiero teso a recupera-re qualit comunitarie in insediamenti concepiti in alter-nativa alla Dinosaur City: i testi di Lewis Mumford,le Greenbelt Cities di et rooseveltiana, lesperienzadella citt-giardino possono cos essere filtrati attraver-so lideologia olivettiana divenendo materia di riflessio-ne per nuovi esperimenti37. Lurbanistica diviene coslinguaggio che pretende di ridurre a sintesi le molte lin-gue che governano la citt: in essa, quella inquietantepluralit di tecniche trova una patria e una dimora.

    Per Adriano Olivetti si tratta di unazione in conti-nuit con quella intrapresa nellanteguerra e che avevaportato ai progetti teorici di pianificazione della ValledAosta: alle sue idee presiede una concezione dellim-presa come luogo da cui si irradii una razionalizzazioneneoumanistica dellambiente fisico. quindi conse-guente il percorso che porta Olivetti alla presidenza del-lInu e alla vicepresidenza dellUnrra-Casas, come con-seguente quello che conduce lo stesso Olivetti, Quaro-ni e una serie di architetti romani ad agire nel cuore delsottosviluppo meridionale.

    Proprio come vicepresidente dellUnrra-Casas, Oli-vetti, sfruttando nuovi finanziamenti da parte del fondoErp (European Recovery Program) centra lattenzionesul Mezzogiorno, nella prospettiva di un programma didecentramento industriale in regioni come la Campania,la Basilicata, le Puglie. Non si tratta, per lui, solo dichiudere la forbice del dualismo economico nazionale.Partire dal sottosviluppo significa anche intervenire inzone non compromesse, al fine di raggiungere equilibriterritoriali pi difficilmente ottenibili nelle regioni svi-luppate. I modelli newdealisti, e quello della TennesseeValley Authority in particolare, sembrano agire esplici-tamente in tale concezione38.

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  • Lattenzione si accentra sul caso dei Sassi di Mate-ra, lagglomerato che aveva commosso la cultura italianadopo la lettura delle pagine del Cristo si fermato a Ebolidi Carlo Levi, e che era stato definito sia da Togliatti cheda De Gasperi vergogna dItalia. Matera cos assun-ta anche a causa delle lotte popolari che vi scoppianonel 1945 a capitale-simbolo delluniverso contadino, eviene sottoposta ad analisi da sociologhi americani e ita-liani, da giornalisti, da economisti, da architetti39: nel1950, una relazione di Mazzocchi Alemanni e Calia peril Consorzio di bonifica della media valle del Bradanopropone una ristrutturazione agricola del territorio lega-ta alla creazione di borghi rurali e allo sfollamento deiSassi. a questo punto che interviene Olivetti. Su suainiziativa, viene costituita, nel 1951, la Commissione distudio della citt e dellAgro di Matera, a cura dellInue dellUnrra-Casas, per la quale lavorano Quaroni, Fede-rico Gorio, Tullio Tentori e Rocco Mazzarone con unimpegno pressoch volontaristico e fra difficolt dognigenere. La legge n. 619 del 1952 per il risanamento deiSassi, infatti, usa in modo distorto le indagini della Com-missione, prevedendo linabitabilit di 2472 case sulle3374 censite e la creazione di borgate rurali per il trasfe-rimento delle famiglie evacuate. In realt, in presenza diquella che stata definita la controriforma fondiaria40,il caso di Matera esemplifica il ruolo assegnato al sotto-sviluppo dal grande capitale industriale: il sottosviluppostesso, infatti, va gestito come serbatoio di manodoperadi riserva per le aree industrializzate, e per questo necessario confermare la vocazione contadina del Sud,gonfiare artificialmente il settore terziario, attuare unapolitica di opere pubbliche nel Mezzogiorno che ne sti-moli il ruolo di consumatore41.

    In tale ottica vanno inquadrati sia il villaggio UnrraLa Martella che i quartieri Serra Venerd, Lanera eSpine Bianche. La Martella viene progettata da Quaro-

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  • ni, con Gorio, Piero Maria Lugli, Michele Valori e Agaticome nucleo modello di intervento territoriale e digestione: alcuni dei progettisti del Tiburtino si trovanodi nuovo insieme a scoprire la realt meridionale42. Neesce un insediamento aderente alla situazione geografi-ca e a suo modo plasmato come omaggio commosso aquella realt: lunit di vicinato, rilevata nei Sassi,viene reinterpretata in un linguaggio a met fra il popu-lista e lastratto, nelle case dislocate secondo le curve dilivello e che hanno nella chiesa di Quaroni, dominata dauna torre sullaltare, il loro punto fisso di riferimento.Ma i conflitti fra lEnte riforma e i criteri dei tecnici del-lUnrra rendono inefficienti i servizi e fanno fallire gliobiettivi primi del villaggio: lestremismo conservatoredel blocco agrario ha ragione sui progetti di riformaeconomica, sociale e fondiaria.

    Per Quaroni si tratta di un duplice fallimento: lim-pegno meridionalista trova come ostacoli interessi con-solidati e il conflitto fra i poteri si risolve negativamen-te a causa dellambiguit interna, anche, delle illusioniterzaforziste. I Sassi, nel frattempo, contribuisconoad alimentare indirettamente lideologia comunitaria edecentralista: i nuovi quartieri materani di SerraVenerd, di Spine Bianche, di Borgo Venusio, che rea-lizzano le linee portanti del piano regolatore redatto nel1952-56 da Luigi Piccinato43, sorgono come paesi nelpaese, mentre incerto rimane il rapporto residenza-lavoro nello sviluppo urbano.

    Il caso di Matera, su cui tanto si affanna la culturaitaliana, non certo il pi grave del sottosviluppo nazio-nale: esso per il pi letterario, e ci giustifica laconcentrazione degli interessi. In realt, per citt meri-dionali come Napoli, Bari o Palermo, opere pubblicheed edilizia fungono da mezzi di contenimento delladisoccupazione e come strumento di primo addestra-mento al lavoro per ceti agricoli da indirizzare verso

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  • limmigrazione nelle regioni sviluppate, a formare unesercito di riserva atto a contenere i livelli salariali.

    Di fronte a tale piano sotteso, la cultura architetto-nica e urbanistica non ha armi adeguate, n il riferi-mento peraltro generico e sospettoso ai partiti disinistra riesce a fornirne. L dove gli architetti tentanodi calare la propria tecnica nella trasformazione dellestrutture si registrano scacchi cocenti: le citt e i terre-ni periferici sono sedi delle pi sfrenate speculazioni,come conseguenza collaterale della politica neoliberistaimposta dai centri di potere.

    Il che spiega come mai ledilizia che d forma allanuova Roma degli anni cinquanta non abbia nulla a chefare con lo sperimentalismo di Quaroni n con laccoratolirismo ridolfiano. Per lalta e la media borghesia lpronta la tipologia della palazzina, consacrata dalpiano regolatore del 1931 e perfettamente adeguata avellicare le ambizioni condominiali di una classe sostan-zialmente statica44; alle classi popolari sono riservati gliintensivi che si ammassano alla periferia; al sottoprole-tariato le borgate e i vani abusivi, che ancora neglianni settanta ammontano a cinquecentomila, ospitandoun quinto della popolazione romana. Ugo Luccichenti,Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti si incaricanodi rendere la palazzina oggetto di piacevole consumo:cordialmente, questa tipologia di compromesso si instal-la nelle fasce contigue al centro storico, a designare, coni suoi balconcini neoorganici o alla Rietveld, le suevolumetrie obbligate ma che non rinunciano a esibizio-nismi, i suoi materiali ben curati, lo status symbol chead essa viene richiesto45. N mancano interpretazionimonumentali della palazzina: Luigi Moretti, nella suaCasa del Girasole a viale Bruno Buozzi (195o), attribuira quel tipo edilizio le cadenze solenni del tempio, squar-ciato da una rampa ascendente. Si viene cos a creareuna situazione paradossale. Il professionismo di Mona-

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  • co e Luccichenti o le rarefazioni formali di Luigi Morettibattono la via del disimpegno declinando alfabeti chehanno comunque le loro radici nella tradizione della-vanguardia; lengagement, per suo conto, sembra segui-re vie regressive. Il che ha persino una sua coerenza: lalingua del Neues Bauen mostrava la propria disponibi-lit, ma anche la propria aulicit. Chi voleva esser com-prensibile pensava bene di doversene allontanare, ripie-gando sulla deverbalizzazione architettonica.

    Certo, era facile accusare di formalismo Moretti daparte della cultura impegnata. Eppure, le sue case-albergo a via Corridoni (1948-50) 0 il complesso per abi-tazioni e uffici in corso Italia a Milano (1952-56), assaipi della Casa Astrea a Roma (1949), sono qualificateda una scrittura sicura, non immune da tonalit irreali-ste per eccesso di astrazione. La sapienza del comporre,rivendicata da Moretti, investe organismi che traduco-no in lingua astratta forme classiche: il purismo elo-quente dei suoi edifici milanesi fedele, in sostanza, allericerche pi metafisiche degli anni trenta, quelle diTerragni comprese. Ma nel clima degli anni cinquantatale ricerca destinata a rimanere isolata o ad essererespinta. Il lirismo di Moretti raggiunge ancora alti livel-li nella Villa Pignatelli a Santa Marinella (1952-54), per-seguendo uno spazio come scrive il suo autore estra-neo alle avventure grandi e piccole della vita quotidia-na: volumi incurvati e ciechi, intonaci mediterranei,allusioni arabizzanti proteggono una casa gelosa, sara-cena, degli affetti e dei pensieri. Ben presto, tuttavia, leastrazioni morettiane pencoleranno verso grafie fini a sestesse, come nella Casa San Maurizio a Roma (1962), onel nuovo complesso termale di Fiuggi (1965)46.

    Ma intanto, la Palazzina del Girasole, gli edifici mila-nesi e i pochi numeri della rivista Spazio diretta daMoretti fra il 5o e il 53, si appropriano, da destra,delleredit linguistica dellavanguardia; magari per ten-

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  • tare di dimostrarne la non estraneit a una cultura chepaga i propri debiti allaccademia. Se nelle auremorettiane comunque leggibile una sintassi inequivo-cabile, insieme a un legame diretto con le velleit dellasua committenza, nelle opere degli architetti impegnatisul fronte del rinnovamento e non attestati n sulla lineaorganica n su quella neorealista, facile scorgereuna cautela che si nasconde dietro timide eleganze. Le-dificio per abitazioni e uffici di Samon a Treviso(1949-53) o lOspedale Inail a Bari dello stesso autore(1948-53) si affidano a formule sicure, mentre Gardel-la, con le sue case per impiegati ad Alessandria (1952),la Galleria dArte Moderna a Milano (1951-54), leTerme Regina Isabella a Ischia (1950-53), intesse tenuicolloqui fra vibrazioni dei volumi e tessiture di mate-riali47. La tacita parola dordine sempre quella del supe-ramento dialettico del razionalismo: senza clamore,ma pervicacemente, la nuova qualit cercata in varia-zioni basate sullesaltazione della materia, sulla cordia-lit e lindeterminazione delle forme, su unempiriaassunta come metafora di una condizione artigianaleche costringe a produrre opere uniche dissimulate sottouna patina di modestia.

    Eppure, proprio tale condizione costrittiva a per-mettere ad Albini di pervenire a uno dei risultati pinotevoli di tale fase di ricerca, ledificio per lIstitutonazionale delle assicurazioni a Parma (1950). Ricucendola smagliatura di un tessuto urbano ampiamente defini-to, Albini ricorre a una calibrata misura: lintelaiaturacementizia ridotta a esile trama, a puro suggerimento rit-mico, entra in colloquio con una distillata modulazionedi pannellature e di vuoti48. Un design en plein air, dun-que, una correttezza formale fatta di precisione tecno-logica e di gusto irrealista pensiamo anche alla scalainterna delledificio parmense che verranno lette, enon solo da Rogers, come interpretazioni critiche delle

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  • preesistenze ambientali: lopera di Albini pu cos esse-re accostata alla casa di via Borgonuovo dei Bpr a Mila-no, alledificio di Samon a Treviso, alla Borsa Merci aPistoia di Giovanni Michelucci (1947-50).

    Il colloquio con lambiente: questo il tema cheemerge da tale complesso di opere e che sembra costi-tuire loriginalit dellesperienza italiana in quegli anni.Il rivolgersi allambiente, peraltro, non che la secon-da faccia del rivolgersi alla natura: si cerca protezione,ci si mette a riposo, ci si infila fra tiepide coltri. E anchea questo proposito si pencola fra due estremi: unecce-zionale spregiudicatezza nei confronti del lascito delleavanguardie; unaltrettanto eccezionale cautela nelladefinizione dei limiti concessi al dialogo con la storia. Inverit, lambiente non era considerato come struttu-ra storica in senso proprio; prevale latteggiamentoimpressionistico, il saggio in definitiva strumentale auna sospensione di giudizio.

    proprio Michelucci, a Firenze, a dar corpo a unar-chitettura che aspira costantemente a negarsi, per risol-versi nella vita vissuta49. Dopo le inospitali cifre meta-fisiche del Palazzo del Governo ad Arezzo (1939) e diVilla Contini-Bonacossi a Forte dei Marmi (1941), concui Michelucci sembra sconfessare i risultati raggiuntinella stazione di Santa Maria Novella, gi gli schizzi perla ricostruzione della zona Ponte Vecchio a Firenze(1945) parlano di una forma urbana plasmata da flussiintrecciati di esistenze50. Una forma che nasce con lur-genza e levidenza di un fatto vitale: questo lobiet-tivo cui Michelucci tende con i delicati equilibri e lo-stentata chiarezza della Borsa Merci di Pistoia, oggettoche si affida allelementariet dello spazio unico inter-no e allevidenza della struttura per pervenire a una fis-sit albertiana posta in relazione diretta con le tipologiedel Rinascimento toscano. Nella chiesa di Collina a Pon-telungo (progetto 1947-50, terminata nel 53) larchi-

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  • tettura tende a immergersi nel paesaggio, a commentar-ne la desolazione, a segnare in essa una presenza umanaunicamente con variazioni sul tema del casolare. Sitratta di una declinazione personale del neorealismo,materico come quello ridolfiano, ma privo degli accen-ti espressionistici in quello presenti. La ricerca miche-lucciana, fatta di adesioni spesso irriflesse a sensazionicontraddittorie, fra le pi insofferenti, nel clima ita-liano del dopoguerra, alla fissazione di cifre o frasari:malgrado tutto, essa aspira a unimprobabile fusione dilingua ed esistenza. Ci porta Michelucci a unassimila-zione della non-forma, o comunque allaccettazionetranseunte e provvisoria, quasi suo malgrado, di formedettate dal genius loci: ci spiega, dopo lomaggio allacampagna pistoiese compiuto nella chiesa di Collina,lenfasi dimensionale dei due grattacieli allacciati pro-gettati per Sanremo (1952), la confidente essenzialitdella chiesa della Vergine a Pistoia (1954-56)51, la niti-da strutturalit della Cassa di Risparmio di Firenze(1953-57)52, il delicato equilibrio raggiunto nelledificioper abitazioni e negozi a via Guicciardini a Firenze(1955-57). Che la forma, per Michelucci, rappresenticomunque un arresto rispetto al fluire della vita dimo-strato dallossessivo gioco di vibrazioni con cui egli inve-ste le superfici della chiesa di Larderello (1956-59); men-tre linsofferenza per i limiti di ogni sintassi si fa esi-genza di liberazione fantastica: ne escono losteria delGambero Rosso a Collodi e la chiesa del Villaggio Bel-vedere a Pistoia (1959-61), esperimenti di fluidificazio-ne dello spazio e di ramificazione delle strutture. Sitratta di un preludio ai temi che Michelucci affronternegli anni sessanta e settanta, a partire dalla grandetenda della Chiesa dellAutostrada.

    Lambiente, cui le poetiche degli anni cinquantarendono omaggio comunque inconscia metafora diunaspirazione alla contemplazione della staticit rifrat-

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  • ta da specchi in movimento. La consolazione che nederiva certo inappagante; eppure, questo il valoreperseguito. Lintervento in campagne dal volto ben defi-nito, o in centri di cui si accentua non senza residuimentali di tipo giovannoniano lunitariet, fa emergerela corale socialit dellambiente storico: si persegueuna classica utopia regressiva, quella della comunitcontrapposta allanonimato di una metropoli in cui siva come in terra straniera. Siamo tornati alle ideologieolivettiane, al fantasma di Tnnies, al Mumford piromantico. Con il medesimo atteggiamento, gli archi-tetti si adoperano a definire i loro strumenti di lavoroper affrontare il tema del quartiere. Ancora una socio-logia di importazione: al mito della citt nucleare nu-cleare = organico corrisponde lideologia dellunit divicinato di dimensione conforme, raccolta intorno aiservizi primari, alle scuole innanzitutto. Lunit quar-tiere si scinde in sottosistemi idillicamente organizzati,almeno sulla carta: piccole, controllabili comunit amisura di bimbo e per la pedagogia delladulto si som-mano fra loro, dando corpo a insiemi che sotto la ricer-ca di valori riaggreganti celano unadesione a paciinterclassiste.

    La mitologia dellunit di vicinato, in realt, non ,per gli architetti italiani, che materiale compositivo: piche per salvarsi lanima, la sociologia entra nella defini-zione del quartiere come strumento di controllo figura-tivo e come garanzia di un rapporto con il reale. Da unlato, i limiti imposti dalle scelte a monte divengono ilimiti stessi del comporre: tutto si risolve nel microco-smo della sottounit urbana, considerata in possesso diun suo linguaggio. Dallaltro, larticolazione di quel lin-guaggio reticente: sistemato in codici, il neorealismoperde ogni vis polemica per divenire piuttosto stru-mento di dissimulazione. E si potrebbe anche osservareche la sintassi della modestia, divenuta generalizzata,

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  • permette persino a vecchi accademici di rientrare incampo: ma losservazione rimane marginale di fronteallesigenza di sistema che trapela dalle realizzazioni delprimo settennio Ina-Casa.

    Una mimesis di maniera sostituisce ora laccoratezzaautobiografica. Si consideri pure la differenza di impo-stazione fra i vari quartieri come frutto di un omaggioa un malinteso genius loci: la contrapposizione ti-pologica, che lunico elemento emergente dalla tavo-lozza disordinata del quartiere a Borgo Panigale a Bolo-gna, vale quella, fondata su un ambientismo tanto espli-cito da divenire macchiettistico, del quartiere San Giu-liano a Mestre (1951-55), del gruppo Samon-Piccinato.Ed significativa, in quanto sintomatica di un clima, la-desione di un architetto come Giuseppe Samon alla lin-gua dellaccattivante domesticit non solo a San Giu-liano, ma anche nel quartiere Ina a Sciacca (1952-54) qualora si consideri che dalla matita dello stesso erauscito, nel 1945, il progetto di sistemazione del quartieredel Lavinaio a Napoli, attento alle elaborazioni lecor-busieriane e sicuro nella sua monumentalit senza tem-po53. Essere nel tempo significa invece pagare unoscotto, fare professione di astinenza, fingersi disponibi-li con locchio fisso al di l dellarchitettura.

    E ci vale anche per i complessi realizzati a Milanoe a Torino. Nel quartiere di Cesate (1950 sgg.), Albini,Albricci, i Bpr e Gardella declinano con passiva pulizialinguistica un dialetto paradossalmente divenuto unesperanto54, mentre Figini, Pollini e Gio Ponti tentanoil recupero di valenze elementariste nei grandi blocchidisposti a turbina intorno a uno spazio centrale a verdenel quartiere di via Dessi a Milano (1951-1952). Sin-golare, comunque, la disinvoltura con cui la riduzionedel populismo a idioletto si stempera in complessi chepassivamente accettano tipologie fissate a priori. Dietrolo schermo dellimpegno e del moralismo, si cela una

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  • rinuncia: la contraddittoriet del clima intellettuale chesegue agli eventi del 1948 informa pesantemente la pro-gettazione delledilizia pubblica italiana. La quale risen-te, come si accennato, anche delle influenze del NewEmpiricism scandinavo: attraverso la lezione dei quar-tieri di Backstrm e Reinius, principalmente, sembravapossibile recuperare valenze legate a una ricerca tipolo-gica e morfologica connessa in modo articolato alla cel-lula-tipo. Ma non era estranea a tale riferimento cultu-rale una ricerca di identit, risolta in una simulazione:limmagine del piccolo interno di famiglia contadinaviene appiattita contro quella della rarefatta pace rag-giunta dalla grande famiglia socialdemocratica, model-lo provvisorio e sperimentale di una cultura che scontanel limbo dellincertezza le proprie scelte terzaforziste.

    Dalle aggregazioni continue sperimentate dal NewEmpiricism svedese e dalla cordiale ovviet degli impa-ginati di facciata e dei dettagli, su cui quello stesso movi-mento gioca la propria ricerca di artificiosa naturalit,prendono le mosse sia il quartiere Unrra-Casas di SanBasilio a Roma, di Mario Fiorentino e S. Boselli(1949-55), che quello di Falchera a Torino, del gruppoAstengo-Renacco (1950-51). Per il primo di essi, la cri-tica pi spietata quella che si risolve nello stato dani-mo cui non si sfugge a una visita del complesso nello statoattuale: ghetto per emarginati, il suo deperimento fisicoparla chiaramente circa le condizioni produttive che nehanno condizionato il sorgere, denunciando la dose diutopia che il realismo conteneva in s. E il risultatoindubbiamente pi positivo di Falchera, basato, comeSan Basilio, su una successione di corti aperte di formapoligonale, non ha certo fra le sue cause ultime la realtdi una Torino che va divenendo sempre pi una companytown in grado di collocare lintervento pubblico allin-terno delle proprie esigenze complessive55.

    Da tale panorama in definitiva mediocre si staccano

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  • due esperienze, non fossaltro che per il loro caratteresperimentale: il quartiere di Villa Bernab Brea a Geno-va, di Luigi Carlo Daneri (1951-54) e lunit di abita-zione orizzontale al Tuscolano, a Roma, di AdalbertoLibera (1950-1951) ai margini del dignitoso complessoprogettato da Muratori e De Renzi56. Sia Daneri cheLibera prendono le loro distanze dal sottolinguaggiopopulista la page, rivendicando con diversi strumentiuna fedelt, che poteva persino suonare anacronistica,rispetto alle ricerche del rigorismo italiano anteguerra.In particolare, il complesso genovese dimostra che lin-serimento nella natura tanto pi valido quanto menosi sforza di essere mimetico, introducendo allinterno diuna morfologia aperta, ma rigorosamente calibrata, ele-menti di definizione tesi a saldare ipotesi linguistiche aipotesi produttive, come la prefabbricazione in cementoarmato, i pilotis che staccano i blocchi dal suolo, lastandardizzazione tipologica, la strada pensile interpo-sta ai piani. Ancora pi polemica appare lunit di Libe-ra, scontrosamente chiusa nel proprio rigore teorico egeometrico. A un tessuto continuo, fatto di cellule a unsolo piano connesse in modo da formare una piastra sol-cata da percorsi pedonali, si contrappone un blocco aballatoi: le memorie delle tipologie olandesi degli annitrenta e degli studi di Pagano per la citt orizzontalerivivono quindi nel complesso di Libera, valido cometestimonianza di una possibile alternativa al formulariocorrente, anchesso rivolto allindietro.

    E rientra perfettamente nel disegno generale delpiano Fanfani gestito con ammirevole agilit burocra-tica da un tecnico certo non di avanguardia, come Arnal-do Foschini che le proposte di Daneri e di Libera ven-gano accuratamente isolate: esse sono ospiti tollerateallinterno delledilizia del primo settennio Ina-Casa. Epour cause. Anche se fra le righe, entrambe contengonoindicazioni produttive incompatibili con gli obiettivi

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  • del programma che liberalmente concede loro spazio.Cos, laccerchiamento dei quartieri da parte della

    citt speculativa fenomeno previsto e calcolato, dal-tronde rende ben presto palese che neanche isole diutopia realizzata il disegno degli architetti riesce a pro-durre: il realismo si mostrava per quel che era, il fruttodi un compromesso inutile.

    2. Aufklrung I. Adriano Olivetti e la communitasdellintelletto.

    Nel frattempo, le idee olivettiane puntano sulla tra-sformazione dellambiente di lavoro nellimpresa diIvrea: concentrandosi su una citt, Olivetti vuol dimo-strare la concretezza delle sue teorie comunitarie, offren-do nello stesso tempo unimmagine sociale della ditta in piena espansione fra il 46 e il 54 e tentando dicontrapporre alle incertezze dellintervento pubblico lecertezze di un intervento illuminato di tipo impren-ditoriale57.

    Lalleanza fra la politica cultural-manageriale di Oli-vetti e limmagine che ne viene offerta dagli architetti,peraltro, regge, negli anni cinquanta, a livello di manu-fatti, mentre rivela le sue crepe a livello di pianificazio-ne. La razionalit umana della comunit del lavorodeve mostrare la propria olimpica continuit: nellin-grandimento della fabbrica, realizzato fra il 1947 e il1949, Figini e Pollini rimangono sostanzialmente fede-li allimpostazione da loro data al nucleo degli ultimianni trenta, e ancora nelle nuove officine Ico, che essirealizzano nel 1955-57, il linguaggio non si distacca daun monumentale ascetismo. Ma il volto sociale dellin-dustria abbisogna di mediazioni: la communitas vivedelle proprie articolazioni e si proietta nella vita quoti-diana elargendo paterni sorrisi. Se il centro direzionale

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  • Olivetti a Milano, di Bernasconi, Fiocchi e Nizzoli(1955) adotta ancora un formulario International Style,il Centro studi e ricerche a Ivrea di Edoardo Vittoria(1952-55), ma ancor pi la fascia dei servizi sociali diFigini e Pollini (1954-57), il ristorante aziendale di Gar-della (1955-59), il centro di vacanze a Brusson, realiz-zato da Carlo Conte e Leonardo Fiori nel 68, usano concordiale disinvoltura geometrie basate sul rombo, sul-lesagono, o su spezzate irregolari58. La via organicaqualifica gli spazi destinati alla riproduzione della forza-lavoro: il sorridente recupero della natura, da parte delristorante di Gardella, proteso ad abbracciare un giar-dino ricco di japonismes, sintomatica testimonianza delprogramma olivettiano, daltronde liberamente introiet-tato da parte dei suoi interpreti.

    Onnicomprensiva, pertanto, deve presentarsi larepubblica dellintelletto. Ivrea accoglie opere diarchitettura come fossero quadri da collezione, miran-do a una qualit sempre meno legata a linguaggi precosti-tuiti. Per questo, accanto al Gardella del ristoranteaziendale e dellospedale, e a Figini e Pollini nella loroduplice versione, ecco il Quaroni autore della neutrianascuola elementare di Canton Vesco (1955) e delponte-diga a due livelli sulla Dora (1958), progettato conZevi, Adolfo De Carlo e Sergio Musmeci, ricco di impli-cazioni urbane ed esibito come macchina dalle fun-zioni complesse59; ma ecco anche il Ridolfi dellasilo-nidodi Canton Vesco (1955-63), materica dissonanza incemento e pietra a vista, snodata allinterno del quar-tiere dominato dai blocchi residenziali di Nizzoli e Fioc-chi (1950-53)60. Le inquietudini ridolfiane qui severa-mente controllate e ironicamente rivissute: vedi le aereegabbie che culminano sulle terrazze vengono cos acommentare la regolare griglia che d forma al principalenucleo residenziale della comunit olivettiana, men-tre il quartiere Castellamonte, su piano del 38 di Picci-

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  • nato, modificato e realizzato da Figini e Pollini, si arric-chisce, dal 51 in poi, di ville per dirigenti e alloggi col-lettivi per impiegati progettati da Nizzoli e Oliveri,prima secondo canoni internazionali, poi con matricilinguistiche che sembrano rifare il verso, senza convin-zione, alle compiaciute distorsioni dello Scharoun deldopoguerra. Lappel aux architectes olivettiano intrisodi implicazioni pedagogiche: la buona forma l persaldare ogni differenza, per dimostrare che una vitaaltra attende chi vorr entrare nella koin permessa darapporti di produzione in cui capitale e lavoro adottanonuove forme di scambio; lofficina di vetro vuol esse-re omaggio alla trasparenza di tale scambio, tende adannullare come, del resto, gli organici edifici dei ser-vizi la realt delle ineliminabili differenze, la realt dellavoro a catena, le leggi, imperscrutabili ad ogni progettocomunitario, che regolano la strategia nazionale e inter-nazionale dellimpresa. La quale, ancora agli inizi deglianni cinquanta, tenta di concretizzare la politica meri-dionalistica di Adriano installando una fabbrica a Poz-zuoli, su progetto di Luigi Cosenza (1951 sgg.)61. Laregione del Canavese come alternativa alle concentra-zioni metropolitane settentrionali; un impianto nelMeridione del sottosviluppo, come esempio di possibi-le politica alternativa a quella imposta dal blocco dipotere. Intervenendo direttamente a Pozzuoli, Olivetticerca di provocare uninversione di tendenza, sperandodi suscitare rotture e ripercussioni a catena nel sistemaeconomico napoletano. Non a caso, la sua unofficinamodello, ad alta tecnologia e ad alti salari, i cui risvoltisociali vengono demandati a un letterato, Ottiero Ottie-ri, che nel 55 incaricato di selezionare i futuri operaidella nuova fabbrica fra i molti aspiranti attirati dal-limpresa olivettiana: le lucide pagine di Donnarummaallassalto rimangono a testimoniare il dramma e le spe-ranze frustrate di quel proletariato, insieme allisola-

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  • mento in cui il tentativo di Olivetti condannato avivere.

    Nulla di quel dramma traspare per dalle terse volu-metrie di Luigi Cosenza, preoccupato di inserire nelgolfo di Napoli la sua fabbrica verde, edificio che vuolapparire antiindustriale, luogo di integrazione fra spa-zio del lavoro e spazio sociale. La grande casa dellacatena di montaggio si articola colloquiando con il pae-saggio, con la natura e con laghetti sinuosamente dise-gnati: la catarsi disalienante si rivela fatto privato del-larchitetto e delle sue forme.

    La confluenza occasionale fra le ideologie del movi-mento di Comunit e le fuoriuscite ideologiche di archi-tetti alla ricerca di miti cui consacrare velleit extradi-sciplinari o il bisogno di essere presenti aveva comun-que basi troppo fragili per sopravvivere alla breve sta-gione in cui lutopia olivettiana sembrava compensarelirraggiungibilit delle istituzioni. La collezione archi-tettonica radunata a Ivrea ha, negli anni cinquanta, unsignificato simile a quello assunto dallIstituto univer-sitario di architettura di Venezia diretto da Samon.Due carceri dorate da cui levasione difficile. Mauna koin non si raggiunge semplicemente rimanendovicini.

    In un certo senso, laspirazione olivettiana che nonriesce a farsi realt con larchitettura viene soddisfattanel settore del design. Come stato acutamente osser-vato62, il mito americano fordismo + riorganizzazio-ne societaria informa in modo del tutto particolare laproduzione degli oggetti della Olivetti, a partire dallamacchina da scrivere mp1 del 1932. Nizzoli, principal-mente, e Xanti Schawinsky, con un grafico come Pin-tori e un letterato come Sinisgalli, interpretano in modofedele un progetto che punta sul dialogo, attraversolimmagine incorporata al prodotto, non con un pubbli-co e una societ reali, bens con unipotesi metastorica

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  • di pubblico e di societ. Il classicismo del nuovoinstaurato da Nizzoli con la Lexikon 80 (1948), la Let-tera 22 (1950) la Divisumma (1956), la Summa Prima 20(196o), non costituisce unimmagine credibile del pro-dotto, bens fa entrare in circolo unimmagine signifi-cante del progetto politico-culturale complessivo che siinnesta sulloperazione di mercato.

    Un mercato, peraltro, che va toccato anchesso concanali conseguenti al carattere sovrasignificante dei pro-dotti: i luoghi normali di distribuzione appaiono ad Oli-vetti, gi negli anni trenta, inadeguati; Schawinsky eNizzoli vengono incaricati di allestire spazi di esposizio-ne a Torino e a Venezia, in cui ci che messo in mostra,pi che loggetto, il valore aggiunto cui esso allude, ilprogetto di cui esso frammento63. Conseguen-temente, i negozi Olivetti, in Italia e allestero, diven-gono preziosi scrigni spaziali, la cui qualit affidata aun surrealismo architettonico che sospende il prodottonel vuoto: che lo isola, principalmente, dal suo contestomateriale tendendo a cancellarne il carattere di merce.Compiutamente surreali, infatti, sono i magazzini espo-sitivi Olivetti di New York il primo ad essere creatoallestero, sulla prestigiosa Quinta Avenue, su progettodei Bpr (1954) , di Dsseldorf, su progetto di Gardel-la, di Venezia, su progetto di Scarpa (1957-58), di Pari-gi, su progetto di Albini e Helg (1958). Agli architetti ita-liani che pi daltri avevano contribuito a rinnovare lamuseografia viene cos affidato il compito di caricare glioggetti Olivetti di unaura impalpabile64.

    Meno felice, come si accennato, il rapporto diAdriano Olivetti con le operazioni urbanistiche da luistesso innescate a Ivrea e nel Canavese. Nel 1938,Adriano aveva patrocinato presso il comune di Ivrea laredazione di un piano regolatore, affidato a Luigi Pic-cinato: mai adottato dal consiglio comunale, sulla scor-ta delle direttive da esso previste che sorgono i due

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  • quartieri di Canton Vesco e Castellamonte. Nel 1952, ancora Olivetti a sollecitare lo studio di un piano didimensioni regionali: questa volta i progettisti sonoQuaroni, Fiocchi, Ranieri e Renacco, cui si affianca unavasta quipe di sociologhi, economisti, specialisti di pro-blemi agricoli e industriali. Per la cultura italiana sem-bra arrivato il momento di sperimentare tecniche dianalisi sui pi diversi aspetti della struttura territoriale,cogliendo loccasione per mettere a punto stru-mentazioni interdisciplinari di alto valore scientifico. Inaltre parole, si trattava di dar sostanza allo slogan lur-banistica per lunit della cultura: pi che il risultatofinale il progetto di piano interessa agli intellettualiil processo compiuto per giungere ad esso. Daltra parte,la complessa organizzazione impiantata per lanalisi delterritorio canavese, e che avrebbe dovuto sfociare inpubblicazioni modello, dimostra in che modo gli intel-lettuali meno organicamente legati allideologia olivet-tiana interpretassero, per se stessi, il concetto di comu-nit: sotto legida di un impresario illuminato, la cul-tura che si ricementa, che compie un notevole sforzo persuperare le barriere delle specializzazioni, che si dispie-ga come coacervo di tecniche fra loro colloquianti. Ilmito dellinterdisciplinarit si salda, qui, a quello comu-nitario, rivelando per che lunica reale comunit orga-nizzabile concretamente ma in una ulteriore situazio-ne di eccezione quella dei clercs65.

    Per tali ragioni, il piano di Ivrea rappresenta lasumma delle teorie e dei modelli circolanti nella cultu-ra italiana dellepoca, coniugati, per dovere dufficio,allidea olivettiana della comunit a misura duomo.Il piano, presentato senza fortuna nel 54 e rimaneggia-to nel 59, prevede unespansione per nuclei a dimen-sione controllata e in simbiosi con centri minori di pro-duzione, la valorizzazione conservativa del centro sto-rico, uno sviluppo frazionato delle zone industriali, la

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  • creazione di due centri direzionali a raggio urbano e ter-ritoriale, uno dei quali al di l della Dora, legati dalponte poi progettato, come se visto, da Quaroni, Zevi,De Carlo e Musmeci.

    Il processo che ha condotto al piano, tuttavia, e le dif-ficili relazioni fra intellettuali e interessi di impresadeludono profondamente. Per Quaroni quel processo sirivela di nuovo insoddisfacente o incompiuto: anche ilmito dellinterdisciplinarit appare in esso consunto. Ilriflesso di tali delusioni si manifesta in modo singolarealla X Triennale di Milano (1954). La mostra dellurba-nistica, organizzata da Quaroni, Giancarlo De Carlo eCarlo Doglio, assume tonalit decisamente provocatorie:i tre cortometraggi l presentati specie Una lezione diurbanistica, al cui progetto collabora Elio Vittorini e cheha come protagonista Giancarlo Cobelli66 rivolgono unsevero e caustico monito agli urbanisti, perch preci-sino come scrive De Carlo in quali limiti sono dispo-sti ad affrontare il rischio di un confronto con la realt:a portare nellurbanistica la collaborazione di tutte leforze attive della cultura che vi sono implicate ed esco-gitare i mezzi che rendono possibile una effettiva capil-lare partecipazione della collettivit. Ma la provoca-zione rimane senza effetto. I Grandi Sacerdoti, inef-fabili prosegue De Carlo67 hanno respinto la provo-cazione con sdegno e non hanno risposto.

    Il ripensamento sugli strumenti della pianificazioneproposto da intellettuali come De Carlo e Quaroni, inrealt, toccava ancora di striscio il nesso piano - istitu-zioni - riforme di struttura. Al sostanziale fallimento deigenerosi tentativi dell Aufklrung urbanistica, nel Meri-dione e a contatto di Olivetti, non si riesce a risponde-re con analisi compiutamente politiche della situazionereale. Da parte sua, di fronte a quegli stessi fallimenti,lideologia comunitaria tenter di tradursi per suo contoin politica diretta: nel 58, Adriano Olivetti partecipa in

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  • prima persona alle elezioni politiche. Lanacronismodella via terzaforzista diverr cos pesantemente evi-dente. Del resto, alla fine degli anni cinquanta, il sognoolivettiano era gi andato in frantumi, compromessodal tentativo di entrare nel mercato dellelettronicagigante, da una crisi di finanziamenti e dalla perdita delcontrollo assoluto dellimpresa da parte degli Olivetti:Adriano, morto nel 196o, non assister alle trasforma-zioni dellazienda, che, oltre a comportare una revisio-ne dei suoi programmi sociali, richiede unimmagineinternazionale di mercato ben diversa da quella propu-gnata negli anni cinquanta.

    3. Il mito dellequilibrio. Il piano Vanoni e lIna-Casasecondo settennio.

    Le profonde modificazioni delleconomia italianaavviate nel corso della ricostruzione erano state condi-zionate dallincalzare del capitale internazionale. Ilruolo trainante dellimpresa pubblica aveva peraltroavuto buon gioco nei confronti dei settori del padronatoancorato a nostalgie autarchiche: lingresso dellItalianella Ceca, con la conseguente espansione della side-rurgia, trascina con s, in particolare, il settore mec-canico, rendendo evidente la necessit di una strategiadi lungo periodo volta a una trasformazione dellinterasociet. Alla fine del 54, il piano Vanoni sembrarispondere a tale necessit: mantenendo un saggio di in-cremento del reddito nazionale annuo del 5 per centoe prevedendo posti di lavoro addizionali extraagricoli,il piano punta al potenziamento dellefficienza e dellacapacit concorrenziale del sistema produttivo, fissan-do come obiettivo da raggiungere la creazione di quat-tro milioni di nuovi posti di lavoro. Il programma cheguider le linee di crescita del capitale di Stato cos

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  • fissato: le vicende della sua attuazione dipenderannostrettamente dalle variabili politiche messe fra parentesidal modello. Solo in tal modo, infatti, si spiega lab-bandono di alcuni settori propulsivi a favore di altri,che non tarderanno a rovesciarsi come un boomerangcontro la strategia dello sviluppo. Le grandi infrastrut-ture autostrade e linee di distribuzione dei gas natu-rali chiamate a riorganizzare il territorio fungono inrealt da sostegno allespansione dei consumi privati(settore dellauto), accentuano il formarsi di aree metro-politane, si rivelano inca