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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI Ver. 01 CAP. 57 - MECCANISMI DI DANNO NEI VELIVOLI ATMOSFERICI Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633. G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 1 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale Politecnico di Milano CAPITOLO 57 57 MECCANISMI DI DANNO NEI VELIVOLI ATMOSFERICI Sinossi e strutture aerospaziali, una volta realizzate attraverso i processi tecnologici, sono sottoposte, nello svolgimento della loro funzione, a carichi di progetto variabili nel tempo, a carichi derivanti da eventi accidentali e all’azione dell’ambiente esterno. Il processo tecnologico, le ripetute sollecitazioni, l’esposizione all’ambiente esterno e a sollecitazioni accidentali inducono danni di diversa natura. La capacità di trasferire i carichi applicati al veicolo aerospaziale in modo da garantirne l’equilibrio statico o dinamico, soddisfacendo i requisiti imposti di rigidezza e resistenza può ridursi in seguito a tali danneggiamenti. Spesso, il degrado interessa i livelli di resistenza strutturale che possono risultare, in seguito a difetti derivanti da una qualsiasi delle cause precedenti, inadeguati ai carichi applicati. Senza tenere conto di questi fenomeni in fase di progetto e di manutenzione, le strutture sarebbero quindi inevitabilmente soggette a cedimenti nel corso della loro vita operativa. La comprensione e la previsione dei fenomeni in grado di ridurre la resistenza strutturale è maturata, nell’ambito della scienza delle strutture, nel corso degli anni. In molti casi, in ambito aerospaziale, e non solo, sono stati eventi catastrofici, con perdita di vite umane, a motivare l’approfondimento delle indagini sul comportamento dei materiali, a migliorare la capacità di tollerare la presenza del danneggiamento delle strutture, a sviluppare nuovi metodi di analisi e previsione dell’insorgere del degrado, nuove filosofie di progetto, più efficienti metodi di ispezione e riparazione. Il presente capitolo intende riassumere le cause di origine del danno nelle strutture, a presentare i fondamentali aspetti dei fenomeni di propagazione del danno e a illustrare le principali filosofie progettuali in ambito aeronautico che permettono di garantire la sicurezza strutturale dei velivoli in servizio. Uno degli aspetti più studiati del comportamento strutturale è lo sviluppo del danneggiamento dovuto alle sollecitazioni meccaniche ripetute. Tale fenomeno, noto sotto il nome di fatica, spiega il verificarsi di cedimenti in strutture sollecitate sotto i limiti di resistenza che esse mostrano in prove quasi-statiche. Il primo paragrafo del capitolo riguarda gli aspetti più significativi del fenomeno della fatica in generale e, in particolare, nei metalli. I danni derivanti da eventi accidentali quali gli impatti da volatile e i fulmini sono l’oggetto del secondo paragrafo. Alle cause di danno presentate in questo capitolo vanno aggiunte i danni derivanti dai fenomeni corrosivi, che fanno parte di un altro capitolo delle dispense, e quelli imputabili alla difettologia derivante dai processi tecnologici. L’ultimo paragrafo, infine, presenta, adottando un punto di vista storico, le diverse filosofie L

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 57 - MECCANISMI DI DANNO NEI VELIVOLI ATMOSFERICI

Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza

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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 1 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

CAPITOLO

57

57 MECCANISMI DI DANNO NEI VELIVOLI

ATMOSFERICI

Sinossi

e strutture aerospaziali, una volta realizzate

attraverso i processi tecnologici, sono sottoposte,

nello svolgimento della loro funzione, a carichi di

progetto variabili nel tempo, a carichi derivanti da

eventi accidentali e all’azione dell’ambiente esterno. Il

processo tecnologico, le ripetute sollecitazioni,

l’esposizione all’ambiente esterno e a sollecitazioni

accidentali inducono danni di diversa natura. La

capacità di trasferire i carichi applicati al veicolo

aerospaziale in modo da garantirne l’equilibrio statico

o dinamico, soddisfacendo i requisiti imposti di

rigidezza e resistenza può ridursi in seguito a tali

danneggiamenti. Spesso, il degrado interessa i livelli di

resistenza strutturale che possono risultare, in seguito a

difetti derivanti da una qualsiasi delle cause

precedenti, inadeguati ai carichi applicati.

Senza tenere conto di questi fenomeni in fase di

progetto e di manutenzione, le strutture sarebbero

quindi inevitabilmente soggette a cedimenti nel corso

della loro vita operativa. La comprensione e la

previsione dei fenomeni in grado di ridurre la

resistenza strutturale è maturata, nell’ambito della

scienza delle strutture, nel corso degli anni. In molti

casi, in ambito aerospaziale, e non solo, sono stati

eventi catastrofici, con perdita di vite umane, a

motivare l’approfondimento delle indagini sul

comportamento dei materiali, a migliorare la capacità di

tollerare la presenza del danneggiamento delle strutture, a

sviluppare nuovi metodi di analisi e previsione

dell’insorgere del degrado, nuove filosofie di progetto, più

efficienti metodi di ispezione e riparazione.

Il presente capitolo intende riassumere le cause di origine

del danno nelle strutture, a presentare i fondamentali

aspetti dei fenomeni di propagazione del danno e a

illustrare le principali filosofie progettuali in ambito

aeronautico che permettono di garantire la sicurezza

strutturale dei velivoli in servizio.

Uno degli aspetti più studiati del comportamento

strutturale è lo sviluppo del danneggiamento dovuto alle

sollecitazioni meccaniche ripetute. Tale fenomeno, noto

sotto il nome di fatica, spiega il verificarsi di cedimenti in

strutture sollecitate sotto i limiti di resistenza che esse

mostrano in prove quasi-statiche. Il primo paragrafo del

capitolo riguarda gli aspetti più significativi del fenomeno

della fatica in generale e, in particolare, nei metalli. I

danni derivanti da eventi accidentali quali gli impatti da

volatile e i fulmini sono l’oggetto del secondo paragrafo.

Alle cause di danno presentate in questo capitolo vanno

aggiunte i danni derivanti dai fenomeni corrosivi, che

fanno parte di un altro capitolo delle dispense, e quelli

imputabili alla difettologia derivante dai processi

tecnologici. L’ultimo paragrafo, infine, presenta,

adottando un punto di vista storico, le diverse filosofie

L

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progettuali sviluppate in ambito aeronautico per tenere

conto dei fenomeni di difettologia e degrado.

57.1 La fatica nei materiali metallici

57.1.1 Fenomeni di danneggiamento originati da

sollecitazioni meccaniche cicliche

l comportamento dei materiali è studiato, in primo

luogo, indagando le prestazioni di provini in prove

quasi-statiche. Per un materiale metallico i risultati di

tali prove indicano che le sollecitazioni meccaniche

non modificano irreversibilmente lo stato del materiale

se si mantengono sotto il limite di snervamento. Tale

limite individua, infatti, il confine del comportamento

elastico. In base a tali considerazioni, nessun tipo di

danneggiamento, degradazione o cedimento è atteso se

la sollecitazione del materiale rimane in campo

elastico. Tuttavia è noto fin dal XIX secolo che

l’applicazione di sollecitazioni cicliche, ripetute nel

tempo, può provocare il cedimento completo di

elementi strutturali metallici anche se lo stato di sforzo

rimane sempre ben al di sotto del carico elastico. Tale

fenomeno è noto con il nome di fatica. Storicamente

uno dei fenomeni che motivarono le indagini sulla

fatica fu il comportamento degli assi dei vagoni

ferroviari. L’asse è una trave su due appoggi, soggetta,

nel tratto centrale, a un momento flettente costante,

come mostrato in Figura 57.1. Sebbene inizialmente

gli assi fossero progettati per mantenere gli sforzi

massimi abbondantemente sotto il limite di

snervamento, l’esperienza dimostrò che ciò non li

metteva al riparo da rotture dopo un certo periodo di

funzionamento.

Figura 57.1 – Sollecitazione di momento flettente in un

asse di un vagone ferroviario

In realtà, un criterio di progettazione basato sul limite

di snervamento, quindi su una proprietà del materiale

ricavata da una prova statica, non tiene conto di due

aspetti particolarmente importanti:

1) i carichi cui è sottoposta una struttura, in generale,

non sono applicati staticamente, ma subiscono

delle variazioni nel tempo. Ad esempio, nel caso

dell’asse di un vagone ferroviario, la trave ruota ed il

materiale è sottoposto a un ciclo di sforzo

rappresentato da una oscillazione sinusoidale fra un

valore massimo positivo e un valore minimo negativo.

Semplici calcoli consentono di affermare che, nel

compiere qualche migliaio di chilometri, il materiale è

soggetto a milioni di cicli. Anche la struttura di un

velivolo è soggetta a variazioni di carico nel tempo. La

Figura 57.2 illustra qualitativamente l’andamento del

momento flettente in una generica sezione alare

durante il volo di un velivolo commerciale. Nelle fasi

a terra vi sono delle oscillazioni di carico, in

particolare durante il taxiing. Con il decollo, la

portanza generata dalle ali sollecita la struttura dell’ala

ai livelli tipici del volo orizzontale rettilineo uniforme

durante la crociera. La turbolenza provoca una

sollecitazione ciclica delle ali, particolarmente nella

fasi di salita e discesa, tipicamente,. Vi sono quindi

sollecitazioni dovute alle manovre e all’atterraggio. Il

ciclo, detto anche G-A-G (Ground-Air-Ground), si

ripete ad ogni volo. Nella fusoliera, inoltre, vi è da

tenere conto dei carichi originati dal ciclo di

pressurizzazione. I cicli G-A-G di velivoli militari

sono ancora più complicati e dipendono dalla

missione.

Figura 57.2 – Andamento del momento flettente in un ala

durante un volo tipico di un velivolo commerciale

2) la definizione del limite di snervamento e,

complessivamente, la descrizione del comportamento

del materiale derivata dalla prove di trazione è

effettuata a livello di sforzi e deformazioni medie nel

provino, senza considerare le variazioni dello stato di

sforzo a livello micro-strutturale. Si può, infatti, intuire

che, a livello microscopico, vi siano disomogeneità

nella struttura nel materiale, quali, ad esempio:

- la presenza di grandi cristallini di diversa dimensione

e forma;

- l’anisotropia elastica a livello di struttura cristallina e

le variazioni di orientamento del cristallo da grano a

grano;

- la presenza di punti deboli , inclusioni e difetti.

Queste disomogeneità del materiale comportano,

anche, disomogeneità nello stato di sforzo-

I

Mf

Asse neutro

sinrJ

M f

r

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deformazione e nelle caratteristiche di resistenza

agli scorrimenti plastici. Localmente è quindi

possibile che, a livello micro-strutturale, si

verifichino fenomeni irreversibili in zone molto

limitate e senza che si possa registrare lo sviluppo

di deformazioni permanenti nella risposta

macroscopica del materiale. L’effetto di questi

fenomeni irreversibili porta alla formazione di

difetti che rimangono invisibili, a meno di

utilizzare metodi d’indagine basati su strumenti

adeguati, per un periodo molto lungo. Con il

ripetersi dei cicli di sollecitazione, tuttavia, questi

difetti evolvono in una o più macro-fratture che,

infine, portano l’elemento strutturale a rottura.

Il fenomeno della rottura a fatica è ben osservabile

nelle prove che sono specificamente condotte per

studiare le proprietà a fatica dei materiali. La più

classica delle prove è quella a flessione rotante (Figura

57.3), che riproduce le condizioni di sollecitazione

dell’asse ferroviario. Il provino ruota su due serie di

cuscinetti volventi. Il carico Q applicato alla coppia di

cuscinetti interna, provoca un momento flettente nella

parte centrale del provino.

Figura 57.3 – Prova di flessione rotante

Per caratterizzare quantitativamente il fenomeno della

fatica è possibile individuare una relazione fra il

numero di cicli, N, al quale avviene la rottura, e

l’ampiezza, Sa, dell’oscillazione dello sforzo durante la

prova di fatica. Nella prova di flessione rotante,

l’ampiezza dell’oscillazione è data dal carico Q ed il

numero di cicli rappresenta il numero di giri necessari

per portare a rottura il provino.

Se le prove sono ripetute a diversi livelli di carico e i

punti sono riportati in un piano Sa-logN, si ottiene un

diagramma come quello riportato in Figura 57.4.

Tradizionalmente, si usa sempre la scala logaritmica

per l’asse delle ascisse.

La tendenza all’aumento del numero di cicli con la

riduzione dell’ampiezza dell’oscillazione del carico è

evidente in Figura 57.4, ma altrettanto evidente è la

dispersione dei dati. Si osservi che alcuni provini,

sottoposti a prova con ampiezze attorno a 225 MPa,

presentano cicli a rottura inferiori al massimo numero

di cicli ottenuto per un provino soggetto a cicli con

ampiezza superiore a 300 MPa. Intuitivamente, la

resistenza a fatica dipende dalla probabilità di trovare

difetti, punti deboli o zone in cui la disomogeneità

strutturale comporta distribuzioni di sforzo altamente

sfavorevoli. Di conseguenza la dispersione dei dati è tipica

dei fenomeni di fatica e evidenzia la necessità di

interpretare statisticamente i risultati ottenuti. La curva

interpolante, mostrata in Figura 57.4, detta curva di

Wöhler, è ottenuta mediante elaborazioni statistiche. In

assenza di ulteriori indicazioni, la curva di Wöhler è

riferita a un livello probabilistico del 50%. Essa

rappresenta, quindi, per ogni livello di carico, il numero di

cicli corrispondente al 50% di probabilità di rottura del

provino.

Figura 57.4 – Diagramma S-N relativo a una lega Al 7075-

T6

Per bassi livelli di sforzo ed elevato numero di cicli, la

curva di Wöhler presenta, per molti materiali, un asintoto

orizzontale. In questa zona, accanto ad alcuni punti che

rappresentano i risultati delle singole prove, in Figura

57.4, sono state apposte delle frecce. Questa simbologia

indica che il provino non si è rotto al termine della prova,

che, necessariamente ha una durata temporale finita. Dalla

presenza dell’asintoto orizzontale, e’ possibile allora

affermare che, per molti materiali, esiste un limite

inferiore dell’ampiezza di oscillazione degli sforzi sotto al

quale la rottura a fatica non avviene. Questo limite, detto

limite di fatica, è particolarmente importante in ambito

progettuale. E’ evidente che, mantenendo le sollecitazioni

al di sotto del limite di fatica, è possibile, in linea teorica,

eliminare il rischio di rottura a fatica. Oltre alle

considerazioni, che saranno presentate nel par. 57.1.4, a

proposito delle sollecitazioni ad ampiezza variabile, si può

fin d’ora osservare che il rischio di rottura non è

completamente eliminabile, poiché difetti di produzione o

danni prodotti da carichi accidentali possono innescare

difetti che cicli di carico inferiori al limite di fatica

possono poi essere in grado di propagare.

La trattazione quantitativa del fenomeno della fatica non

spiega, comunque, i meccanismi all’origine del

cedimento. Per comprenderli è necessario considerare

alcuni aspetti qualitativi, a partire dalla tipica morfologia

Q

d

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che presentano i pezzi ceduti in seguito a sollecitazioni

di fatica.

La rottura a fatica, infatti, mostra una morfologia

caratteristica, rappresentata in Figura 57.5.

L’immagine e la mappa riportate in Figura 57.5

riportano tre zone tipiche. La prima zona è quella di

iniziazione o nucleazione, dove hanno avuto origine i

primi meccanismi irreversibili (micro-fratture) che,

senza modificare le caratteristiche del materiale a

livello macroscopico, sono evoluti in difetti visibili

(fratture o macro-fratture). Una volta nucleatisi la

macro-frattura essa si propaga progressivamente. Nei

provini soggetti a una sollecitazione di fatica continua,

l’avvicinamento e l’allontanamento delle superfici

della frattura dà luogo a fenomeni di abrasione che

lucidano la zona di frattura. Negli elementi strutturali

ceduti in condizioni di servizio, la zona in cui la

frattura si è propagata mostra le linee irregolari

sviluppatesi attorno alla zona di nucleazione, mostrate

in Figura 57.5, che sono dette linee di spiaggia (beach

marks).

Figura 57.5 – Morfologia tipica della rottura a fatica

Le linee di spiaggia sono tipiche delle rotture in

elementi strutturali in condizioni operative, e indicano

l’alternarsi di periodi di sollecitazione a fatica continua

con periodi di riposo. Esse testimoniano con chiarezza

la riduzione progressiva dell’area resistente nella

sezione del provino. L’area resistente, oltre un certo

limite, non è più in grado di mettere in gioco un sistema di

sforzi in grado di equilibrare il momento applicato. Lo

sforzo supera, quindi, il carico unitario a rottura del

materiale e si verifica una rottura definitiva, di schianto,

nella zona indicata in figura (final failure).

Negli elementi strutturali reali, la rottura a fatica è

facilmente diagnosticabile dalla tipica morfologia della

zona di frattura. L’indagine delle modalità di rottura e

l’individuazione della fatica come causa, in molti casi, di

rotture non previste in fasi di progetto hanno motivato una

intensa attività di ricerca nel corso del XIX e del XX

secolo, che ha permesso di comprendere in dettaglio i

meccanismi della fatica nei metalli e di mettere a punto

strumenti e filosofie di progetto per realizzare strutture

sempre più sicure.

57.1.2 Il meccanismo del cedimento a fatica nei

materiali metallici

a comprensione dettagliata del fenomeno fisico della

fatica è fondamentale per comprenderne gli effetti

sulle strutture e per capire quali proprietà, caratteristiche e

variabili ambientali influenzino maggiormente le

prestazioni a fatica. Nei metalli, il meccanismo di

sviluppo del danno a fatica è stato compreso mediante

osservazioni al microscopio ed è noto dall’inizio del XX

secolo. L’innesco della rottura a fatica è sempre legato

alla nascita di una micro-frattura che può avvenire fin dal

primissimo ciclo di carico, se l’ampiezza dell’oscillazione

è superiore al limite di fatica. Tuttavia, la cricca rimane

invisibile per un lungo periodo.

Figura 57.6 – Fasi e sottofasi nella vita a fatica di un

elemento strutturale metallico

L

Nucleazione della micro-frattura

Scorrimento ciclico

Crescita della micro-frattura

Crescita della frattura

Cedimento finale

Fase di

nucleazione

Fase di propagazione della frattura

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La micro-frattura evolve successivamente in una

frattura visibile che riduce progressivamente in modo

consistente l’area resistente dell’elemento strutturale e

del provino. E’ però importante sottolineare che questa

fase del processo di rottura a fatica è, in generale,

molto più breve del primo periodo.

La vita a fatica di un pezzo, dunque, può dividersi in

due grandi fasi: un periodo iniziale, di nucleazione, in

cui si generano le micro-fratture, ed un periodo

successivo, più breve, di propagazione della frattura.

Questa distinzione, ulteriormente suddivisa nelle sotto

fasi mostrate in Figura 57.6, è fondamentale poiché

alcuni fenomeni o condizioni che influenzano la

nucleazione delle micro-fratture nella prima fase,

possono avere scarsa o diversa influenza nella seconda

fase.

Per quanto riguarda la prima fase, di nucleazione della

frattura, il fenomeno dominante nei metalli è il

verificarsi di scorrimenti ciclici, all’interno di bande di

scorrimento. Questi scorrimenti sono fenomeni di

micro-plasticità che possono verificarsi in alcuni grani

della micro-struttura cristallina del metallo. Come

affermato in precedenza, questi fenomeni irreversibili

avvengono nei punti deboli della struttura o in

presenza di valori elevati dello stato di sforzo, a loro

volta influenzati da disomogeneità micro-strutturali.

Fra i motivi di disomogeneità assumo particolare

importanza gli aspetti cristallografici. La Tabella 57.1

mostra, a titolo indicativo, i massimi e minimi valori

del modulo elastico in alcune configurazioni cristalline

di metalli.

Tabella 57.1 – Valori del modulo elastico lungo diversi

piani cristallografici per alcuni metalli

Materiale Emax[1 1 1]

(MPa)

Emax[0 0 0]

(MPa)

Rapporto

(max/min)

-Fe 284500 132400 2.15

Al 75500 62800 1.2

Cu 190300 66700 2.85

Come si può osservare, esistono grandi variazioni di

rigidezza a livello micro-strutturale e, di conseguenza,

lo stato di sforzo, descritto a questa scala di

osservazione, può variare notevolmente, come

schematicamente illustrato nella Figura 57.7.

Un altro caso di disomogeneità a livello micro-

strutturale è la presenza di inclusioni, che possono

essere presenti in numerose forme nei materiali

utilizzati in ambito strutturale, come nel caso delle

impurezze introdotte durante la produzione delle leghe

metalliche. Lo sviluppo di micro-fratture di fatica a

partire da inclusioni è stato osservato in acciai ad alta

resistenza (da inclusioni non metalliche di dimensione

microscopica) e nelle leghe di alluminio, a partire dalle

inclusioni formate dai composti intermetallici.

Figura 57.7 – variazione dello stato di sforzo a livello micro-

strutturale in un metallo

Un altro caso di disomogeneità a livello micro-strutturale

è la presenza di inclusioni, che possono essere presenti in

numerose forme nei materiali utilizzati in ambito

strutturale, come nel caso delle impurezze introdotte

durante la produzione delle leghe metalliche. Lo sviluppo

di micro-fratture di fatica a partire da inclusioni è stato

osservato in acciai ad alta resistenza (da inclusioni non

metalliche di dimensione microscopica) e nelle leghe di

alluminio, a partire dalle inclusioni formate dai composti

intermetallici.

E’ di grande importanza, tuttavia, rilevare che la

possibilità di micro-scorrimenti è maggiore alla superficie

della struttura rispetto all’interno dell’elemento strutturale

per diversi motivi:

alla superficie dell’elemento il materiale è collegato ad

altro materiale da un solo lato e ciò riduce lo sforzo

necessario per produrre un difetto e la possibilità che,

in presenza di un punto debole, il materiale adiacente

possa collaborare;

la superficie di un elemento strutturale è spesso sede di

fori e intagli che aumentano la concentrazione di

sforzo, anche su scala macro-strutturale;

la superficie presenta irregolarità (rugosità

superficiale) che rappresentano dei micro-intagli e

quindi possibili punti di innesco delle micro-fratture;

sulla superficie è possibile la formazione di difetti

dovuti alla corrosione e a fenomeni di attrito;

lo stato di sforzo nelle zone periferiche dell’elemento

strutturale è tipicamente più elevato che all’interno

(vedi i casi di flessione e torsione di travi e piastre).

Per questi motivi la nucleazione delle micro-fratture

avviene alla superficie. Anche nel caso di inneschi

originati da inclusione, le zone prossime alla superficie

sono da considerarsi le più pericolose.

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La fase di nucleazione nella vita a fatica è quindi un

fenomeno che interessa essenzialmente la superficie

dell’elemento strutturale o del provino. In questa zona

si verificano gli scorrimenti ciclici, causati da sforzi di

taglio agenti a livello micro-strutturale nel materiale

dove le condizioni, per severità dei livelli di sforzo e

presenza di punti deboli, sono più favorevoli. Come

mostrato in Figura 57.8, durante l’incremento di carico

nella fasi di oscillazione, si forma un microscorrimento

nella direzione di un piano di scorrimento a bassa

resistenza. Questo scorrimento espone nuova

superficie all’ambiente esterno e ciò comporta la

creazione di uno strato di ossido e provoca

l’incrudimento locale del materiale.

Figura 57.8 – Meccanismo di formazione di una banda

di scorrimento

A causa dell’incrudimento, quando lo sforzo si inverte,

nella seconda parte dell’oscillazione di carico, è

probabile che si formi uno scorrimento in una banda

adiacente (Figura 57.9). Questo meccanismo dà luogo

ad un intrusione che è, in effetti, una micro-frattura.

Figura 57.9 – Formazione di bande di scorrimento in un

provino di rame sottoposto a fatica

La descrizione fornita è semplificata e, inoltre, altri

meccanismi possono produrre bande di scorrimento o

altre micro-fratture. Comunque, il meccanismo

descritto rende evidente che un singolo ciclo è

sufficiente per creare un’intrusione microscopica, che

comporta fenomeni irreversibili nel materiale, come

l’incrudimento e l’ossidazione.

La micro-frattura si forma poiché la formazione delle

intrusioni provoca, conseguentemente agli sforzi di taglio

e, soprattutto, agli sforzi di trazione normali alle bande, la

decoesione del materiale, con la rottura dei legami

atomici.

Fintanto che la micro-frattura ha le dimensioni di qualche

grano cristallino, la sua crescita dipende dalla

disomogeneità della struttura cristallina del materiale e

segue i piani di scorrimento cristallografici. In seguito , le

fratture tendono ad orientarsi nella direzione degli sforzi

principali di trazione agenti nel materiale. Questa

tendenza si amplifica nel momento in cui la micro-frattura

diviene essa stessa origine di una forte concentrazione di

sforzo al suo apice. In questa situazione la fratture si

accresce sempre, a livello microscopico, per la formazione

di bande di scorrimento e di intrusioni, ma la direzione

macroscopica di propagazione si orienta nella direzione in

cui agisce il massimo sforzo di trazione, cioè nella

direzione principale dello stato di sforzo. La Figura 57.10

illustra la situazione durante la transizione.

Figura 57.10 – Transizione da micro a macro-frattura in un

materiale metallico

Dalla Figura 57.10 si può osservare una caratteristica

fondamentale della frattura a fatica, la transgranularità che

rappresenta un altro aspetto caratteristico del fenomeno e

permette di diagnosticarlo con sicurezza come causa del

cedimento in situazioni ambigue.

Quando la transizione è completata, si entra nella seconda

fase della vita a fatica dell’elemento, la fase di

propagazione della frattura.

In questa fase il fenomeno non interessa più la superficie

dell’elemento. La rugosità superficiale non influenza più

la propagazione della frattura che è invece governata da

altre proprietà, prima fra tutte la tenacità, cioè l’energia

necessaria a creare nuovi superfici libere all’interno del

materiale. Alcuni aspetti che influenzano la fase di

nucleazione, come la presenza di un ambiente corrosivo,

influenzano anche la fase di propagazione della frattura,

ma in modo diverso.

t

t

A B

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 57 - MECCANISMI DI DANNO NEI VELIVOLI ATMOSFERICI

Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza

autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.

G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 7 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

E’ in generale difficile formulare un criterio che

distingua chiaramente le due fasi e si potrebbe

affermare che la fase di nucleazione termina,

effettivamente, quando la propagazione del difetto non

è più influenzata da fattori superficiali. Ad esempio,

un’accurata lavorazione superficiale può migliorare

notevolmente la vita a fatica di un pezzo, allungando la

fase di nucleazione ma, oltre un determinato livello di

sviluppo della frattura, la velocità di crescita sarà

uguale a quella ottenuta per un pezzo con una

lavorazione molto più grossolana.

La crescita della frattura nella direzione principale

dello sforzo è testimoniata dalla forma della superficie

di frattura in provini sottoposti a torsione ciclica (fatica

torsionale). In questa caso, infatti, sui piani paralleli e

perpendicolari agli assi del cilindro, si hanno sforzi di

taglio puro mentre gli sforzi principali sono orientati a

45°, come mostrato in Figura 57.11.

Figura 57.11 – Stato di sforzo in un provino cilindrico

sottoposto a torsione

Figura 57.12 – Superficie di frattura in una prova di

fatica torsionale

La propagazione della frattura lungo le superfici

perpendicolari agli sforzi principali di trazione porta a

superfici di frattura con caratteristiche peculiari, che si

evolvono seguendo spirali inclinate a 45°, come mostrato

in Figura 57.12. La freccia, in figura, mostra il punto di

nucleazione della frattura.

57.1.3 Fattori che influenzano le proprietà a fatica

a quantificazione delle proprietà a fatica dei materiali

è lo strumento essenziale per la progettazione a fatica

degli elementi strutturali. Tale quantificazione è

complicata dai numerosi aspetti e condizioni che

influenzano la prestazione a fatica che, a tutti gli effetti,

non può essere considerata una proprietà vera e propria

del materiale. Nel par. 57.1.1, sono stati introdotti il

diagramma S-N, la curva di Wöhler e il limite di fatica per

caratterizzare la prestazione a fatica dei provini di

materiale. In realtà, tali proprietà dipendono da numerosi

aspetti, fra i quali:

il valore del livello di carico medio attorno al quale

avviene l’oscillazione;

la dimensione del pezzo e lo stato della sua superficie;

la presenza di intagli;

l’effetto dei carichi combinati e di stati di sforzo

complessi;

gli effetti ambientali.

Il paragrafo descrive alcuni degli aspetti più importanti

che influenzano la vita a fatica degli elementi strutturali e

gli strumenti, in termini di diagrammi, coefficienti, leggi,

che sono stati sviluppati per prevedere la prestazione a

fatica.

Descrizione dell’andamento del ciclo di carico e curve di

Wöhler

La prova di flessione rotante, descritta nel par. 57.1.1,

origina un andamento del carico di tipo sinusoidale con

valore medio del carico nullo. In queste condizioni il tipo

di fatica cui è sottoposto il provino si definisce fatica

alternata. In molti casi, tuttavia, il carico oscilla attorno

ad un valore medio, che ha un significativo effetto sulla

vita a fatica. Per caratterizzare l’andamento del ciclo di

carico si possono definire alcuni parametri, quale il valore

medio del carico, Sm, l’ampiezza dell’oscillazione di

sforzo, Sa, ed il rapporto di sforzo, R, espressi dalle

seguenti relazioni ed illustrati in

max

minminmaxminmax ;2

;2 S

SR

SSS

SSS am

Una qualsiasi delle coppie Sa - Sm, Sm - R o Smax - Smin

possono essere utilizzate per definire il tipo di fatica.

L’applicazione di cicli in cui lo sforzo non varia di segno

è definita fatica pulsatoria. Il caso in cui Smax o Smin sono

nulli, definiscono la fatica pulsatoria dello zero o ciclo

dello zero.

L

I

Mt Mt

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Figura 57.13 – Parametri che caratterizzano

l’andamento del ciclo di carico a fatica

L’effetto del livello medio di carico è rilevante. E’

però anche importante osservare che la forma del ciclo

(sinusoidale, a onda quadra, a dente di sega …) può

influenzare la resistenza a fatica di un provino, così

come la sua frequenza (Figura 57.13). La frequenza,

infatti, diviene importante quando assumono rilevanza

fenomeni dipendenti dal tempo, quali la corrosione, il

creep o la sensibilità del materiale alla velocità di

deformazione.

Il punto di partenza per la descrizione delle proprietà a

fatica di un materiale è rappresentato dalle proprietà a

fatica di provini, senza intagli, soggetti a fatica

alternata, con Sm = 0, descritte nel diagramma S-N

dalla curva di Wöhler, che è stata introdotta al

paragrafo 57.1.1. La Figura 57.14 si riferisce alle

prestazioni a fatica alternata di un acciaio ad alta

resistenza utilizzato in ambito aeronautico.

Figura 57.14 – Curva di Wöhler di un acciaio ad alta

resistenza (SAE 4130)

La variabile in ordinata nel grafico, è l’ampiezza del

carico Sa. In ascissa vi è il numero di cicli, N, in scala

logaritmica. Per ottenere una curva di questo tipo, occorre

un programma di prova molto intensivo. Il diagramma

riportato è stato ottenuto con 25 prove, eseguite fino a 107

cicli, alle frequenza di 30 Hz, per un tempo complessivo

di prova di 60 giorni. Come nel curva mostrata in Figura

57.4, la dispersione dei dati è notevole. La curva mostrata

si riferisce a una probabilità di rottura del 50%.

Elaborando i dati è possibile tracciare una curva più bassa,

scegliendo una probabilità di rottura più bassa, cui

corrisponde una probabilità di sopravvivenza più alta, o

viceversa.

La scala logaritmica permette, per i materiali metallici, di

ottenere, nella parte centrale del diagramma, un tratto con

andamento lineare, caratterizzato dalla relazione:

costNS ka

detta relazione di Basquin. Il campo di validità della

relazione di Basquin si definisce campo della resistenza a

fatica finita o a termine. Nel grafico di Figura 57.14, si

individua attorno a N = 104, il confine fra fatica a basso

numero di cicli e ad alto numero di cicli.

Dalla figura sono evidenti due asintoti orizzontali. Il

primo, per alti numeri di cicli, individua il limite a fatica

del materiale, indicato con il simbolo Sf. La zona si

definisce campo della resistenza a fatica illimitata. Dal

punto di vista fisico, si potrebbe ritenere che, sotto il

limite a fatica, lo stato di sforzo applicato non sia tale da

provocare la comparsa di micro-fratture nel materiale.

Tale affermazione è invece scorretta. Infatti, si rileva che

micro-fratture possono formarsi anche sotto il limite a

fatica, ma che tali micro-fratture, nelle prove effettuate

con ampiezza Sa costante, non evolvano a causa della

presenza di barriere (bordi grano, zone a resistenza più

elevata) che le arrestano. Una corretta definizione del

limite di fatica lo individua, quindi, come il livello di

sforzo (per un determinato tipo di fatica, ad es. alternata o

pulsatoria, e in determinate condizioni) sotto al quale le

micro-fratture non possono evolvere fino a provocare la

rottura del provino. Il livello di sforzo sotto al quale le

micro-fratture non si creano è, pertanto, ancora più basso,

in generale. Tale distinzione è importante poiché permette

di osservare che un elemento strutturale può accumulare

danno a fatica anche lavorando al di sotto del limite di

fatica. Se l’ampiezza dell’oscillazione è aumentata o se le

condizioni variano, il danno accumulato avrà il suo peso

nel determinare la prestazione a fatica in condizioni

operative.

Il secondo asintoto orizzontale, visibile in Figura 57.14, è

posto a numeri di cicli molto bassi, nel cosiddetto campo

della fatica oligociclica. La sua presenza testimonia che,

come si può intuire, non è possibile, in una prova ciclica,

superare comunque il limite di rottura del materiale

ottenuto in una prova quasi-statica. D’altra parte, se il

Smin

Smax

Sm

Sa

Sa

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carico è inferiore al limite di rottura, ma superiore al

limite di snervamento, il provino si plasticizza, sempre

rompersi, ed è in grado di resistere a un grande numero

di cicli (anche dell’ordine delle decine di migliaia) che

comportano, all’inizio, lo sviluppo di plasticizzazioni a

livello macroscopico e l’incrudimento del materiale.

Effetto dello sforzo medio nel comportamento a fatica

Nella fatica alternata lo sforzo medio durante il ciclo

di oscillazione del carico, Sm, è nullo. Attrezzature di

prova diverse da quella per l’esecuzione della prova di

flessione rotante, permettono di far oscillare il carico

attorno a un valore medio non nullo. Tale tipo di

sollecitazione è caratteristica della situazione operativa

di molte strutture. Ad esempio, se si osserva il

diagramma di carico mostrato in Figura 57.2, relativo

all’andamento del momento flettente in un ala durante

un volo tipico di un velivolo commerciale, si può

osservare come le oscillazioni di carico a più bassa

ampiezza si sovrappongono all’applicazione di un

elevato carico medio (dato dalla portanza in VORU).

Anche per la fusoliera, i carichi derivanti dalle

perturbazioni in volo si sovrappongono alla

sollecitazione di pressurizzazione. Nei metalli,

l’applicazione di uno sforzo medio maggiore di zero,

abbassa sensibilmente la curva di Wöhler, come

mostrato in Figura 57.15-A, dove Sm4 > Sm3 > Sm2 >

Sm1 = 0.

Figura 57.15 – Effetto dello sforzo medio Sm (A) e

diagramma di fatica a vita costante

Il modo più utilizzato per rappresentare l’effetto di Sm

sulla prestazione a fatica è fissare il numero di cicli, N, e

diagrammare i punti delle diverse curve di Wöhler su un

piano Sa - Sm, come indicato in Figura 57.15-B. Il

diagramma ottenuto prende nomi diversi in letteratura

(diagramma di fatica a vita costante, diagramma di

Goodman, diagramma di Haigh) e presenta una curva o

una famiglia di curve monotonamente decrescenti al

crescere di Sm. Ciascuna curva si riferisce a un valore di N

e le curve si abbassano al crescere di N. Il diagramma, per

i metalli, è spesso tracciato solo per Sm > 0. Il meccanismo

stesso di evoluzione delle micro- e macro-fratture, infatti,

porta a concludere che uno stato di sforzo medio di

compressione aumenta la vita a fatica del pezzo, rispetto

al caso di fatica alternata. Infatti, sebbene le micro-fratture

possano sviluppare ed evolvere, lo sforzo medio di

compressione, che avvicina le superfici di frattura, è

trasmesso per contatto fra le superfici e non sollecita

l’apice della macro-frattura, provocandone la

propagazione progressiva. La zona di maggiore interesse,

per i metalli, è dunque quella con Sm > 0, dove lo sforzo

medio tende ad accelerare l’evoluzione della micro-

frattura in macro-frattura e ad aumentare la velocità di

propagazione di quest’ultima. In tale quadrante, il

diagramma interseca, per Sm = 0, il valore di Sa

corrispondente alla fatica alternata. Con l’aumentare di

Sm, il valore di Sa diminuisce. Per Sm = R (carico a rottura

del materiale) non è più ammessa alcuna oscillazione. In

questa condizione estrema, la prova si riduce a una prova

quasi-statica, a carico costante. Va osservato che, nel

quadrante non disegnato, con Sm < 0, vi sarà anche qui un

punto in cui la curva tenderà a scendere, fino a che, per Sm

= RC

(carico a rottura del materiale a compressione), Sa

sarà uguale a 0.

Un modo alternativo di rappresentate le proprietà di

materiale per il generico tipo di fatica, è il diagramma di

Smith, mostrato in Figura 57.16. Il diagramma di Smith è

anch’esso ottenuto per un valore N = cost e indica, al

variare di Sm, l’oscillazione ricavata dalla corrispondente

curva di Wölher. La rappresentazione è però effettuata in

termini di curve di inviluppo che rappresentano gli sforzi

massimi e minimi (Smax e Smin ) raggiunti durante

l’oscillazione.

L’effetto dello sforzo medio può venire approssimato

attraverso andamenti semplificati nei diagrammi di fatica

a vita constante. Fra le approssimazioni più utilizzate vi è

l’approssimazione mediante una parabola, denominata

parabola di Gerber, con asse verticale coincidente con

l’asse delle ordinate e la relazione lineare, detta relazione

lineare modificata di Goodman, entrambe mostrate

inFigura 57.17.

La parabola di Gerber è, storicamente, il primo tipo di

approssimazione ad essere utilizzato, ma tende a essere

non conservativa e per alcuni materiali, quali gli acciai ad

alta resistenza, non è adeguata. La relazione lineare di

Goodman è tipicamente conservativa, sebbene, per alcuni

N

Sa

Sm1=0

Sm2 Sm3

Sm4

Sa

Sm

104

107

R

Sm2 Sm3 Sm4

A

B

N = 104

N =

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materiali, la curva sperimentale possa trovarsi sotto di

essa.

Figura 57.16 – Diagramma di Smith

Figura 57.17 – Approssimazioni del comportamento a

fatica nei diagrammi di fatica a vita costante

Effetto della dimensione e dello stato della superficie

Come accennato nel par. 57.1.2, il comportamento a

fatica di elementi strutturali metallici è fortemente

influenzato dalla presenza di specifici punti deboli o di

concentrazioni di sforzo alla superficie o appena al di

sotto della superficie. Tali punti sono i siti

preferenziali per lo sviluppo delle micro-fratture. La

probabilità di trovare zone particolarmente deboli che

risultano determinanti per la prestazione a fatica del

pezzo, cresce se le zone in cui si verifica la massima

sollecitazione strutturale sono più estese.

Queste considerazioni sono, in effetti, semplificate,

poiché è noto che l’effetto delle dimensioni si

manifesta soprattutto nei casi sollecitazione a fatica

flessionale e torsionale ed è meno rilevante nel caso di

trazione. Sebbene la fase di nucleazione della micro-

frattura sia determinata dallo sforzo superficiale, non si

può trascurare il fatto che, nella flessione e nella

torsione di provini di piccole dimensioni, lo sforzo

diminuisce rapidamente procedendo verso l’interno

della sezione. Vi è quindi un effetto dei gradienti di

sforzo, che modificano gli sforzi medi agenti nei grani

cristallini in prossimità della superficie e amplificano

l’effetto dimensionale nei casi di fatica flessionale e

torsionale.

A parità di tutte le altre condizioni, forma geometrica e

tipo di sollecitazione incluse, la prestazione a fatica è

dunque caratterizzata da un effetto della dimensione dei

pezzi. Le prove a fatica, pertanto, forniranno prestazioni a

fatica minori, e in particolare limiti di fatica minori, per

provini più grandi e viceversa, come mostrato in Figura

57.18.

Figura 57.18 – Effetto della dimensione sul limite a fatica in

provini soggetti a flessione rotante

Lo stato della superficie è un'altra caratteristica che

influenza in modo sensibile le prestazioni a fatica. La

rugosità superficiale – o la presenza di danni superficiali –

implicano che la superficie dell’elemento non sia

perfettamente piatta. Come conseguenza, si producono

concentrazioni di sforzo a livello micro-strutturale e ciò è

sufficiente, sebbene tali aspetti svaniscano rapidamente

procedendo verso l’interno, a nucleare bande di

scorrimento e micro-fratture. I risultati ottenuti nelle

indagini sperimentali indicano che la rugosità superficiale

ha un effetto rilevante sulla vita a fatica. Indagini

approfondite mostrano che tale effetto è quasi

esclusivamente imputabile all’accelerazione della fase di

nucleazione. Gli effetti sul periodo di propagazione della

frattura sono irrilevanti. Tale osservazione è consistente

con l’andamento mostrato in Figura 57.19. Si osserva

come la presenza di rugosità superficiale (surface effect in

figura) provoca una piccola riduzione del carico di rottura

per fatica a bassi numeri di cicli e una riduzione ben più

consistente per elevati numeri di cicli.

L’effetto dello stato della superficie è quindi scarso per la

fatica oligociclica e massimo e la vita a fatica illimitata.

La presenza del danno superficiale o la realizzazione di

elementi strutturali con lavorazione superficiale

grossolana, rappresentano pertanto fattori che limitano

severamente la prestazione di elementi strutturali

progettati per resistere a un grande numero di cicli a

fatica.

Uno dei metodi più utilizzati per ridurre il rischio di

cedimenti prematuri a fatica è la pallinatura (shot peeling)

Sa

Sm R

Parabola di

Gerber

Relazione lineare

modificata di Goodman

Smax, Smin

Sm

S

a

R

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che consiste nel sottoporre la superficie dell’elemento

strutturale all’impatto di particelle di piccola

dimensione e grande durezza. Gli impatti provocano la

deformazione plastica a trazione della superficie e la

deformazione elastica del materiale sottostante. Il

ritorno elastico del materiale all’interno provoca la

comparsa di sforzi di compressione alla superficie e

tale stato di sforzo innalza il limite a fatica

dell’elemento.

Figura 57.19 – Effetto della finitura superficiale sulla

curva di Wöhler

Entrambi gli effetti accennati questo sottoparagrafo,

quello della dimensione e dello stato della superficie,

possono essere quantificati mediante l’utilizzo di

opportuni coefficienti, reperibili nella letteratura

tecnica. Tali fenomeni mostrano come le prestazioni a

fatica, pur essendo convenzionalmente considerate una

proprietà del materiale, dipendono, in realtà, da aspetti

relativi alla forma, alla dimensione e al tipo di

lavorazione del provino o dell’elemento strutturale. La

standardizzazione delle condizioni di prova e la

conoscenza di tutti i possibili effetti che possono

influenzare la prestazione a fatica sono dunque

fondamentali per la progettazione a fatica e la

selezione ottimale dei materiali.

Effetto degli intagli

La presenza di intagli negli elementi strutturali quali

fori, cave, zone di raccordo in presenza di variazioni di

spessore e forma, è importantissima per la prestazione

a fatica degli elementi strutturali. In effetti, tali zone

sono le più sollecitate anche in condizioni quasi-

statiche, poiché gli intagli provocano concentrazioni di

sforzo con valori di picco molto maggiori di quelli

nominali in stato di trazione, flessione o torsione di

travi o di piastre. L’incremento di sforzo rispetto alla

soluzione nominale è quantificato dal coefficiente di

intaglio, Kt, che esprime il rapporto fra il valore di

picco dello sforzo e il valore ottenuto applicando la

soluzione nominale:

0 tpicco K

Si consideri, a titolo di esempio, il caso di una piastra di

spessore costante e larghezza W, con un foro di diametro

d, mostrata in Figura 57.20-A. Lontano dal foro, dove la

piastra ha spessore th e larghezza W, lo sforzo sia pari a S.

Il foro provoca una riduzione dell’area resistente di un

fattore thd e, applicando la soluzione nominale derivata

dalla teoria delle piastre, si ottiene, nella zona del foro,

uno sforzo 0 dato dalla seguente espressione:

dW

WS

0

Figura 57.20 – Esempi rappresentativi di intagli: piastra

forata (A) e albero cilindrico con riduzione di diametro (B)

In realtà, lo sforzo in prossimità del foro è notevolmente

superiore a tale valore nominale. L’andamento dello

sforzo è qualitativamente indicato in Figura 57.20-A ed il

coefficiente di intaglio ha espressione:

3

12

W

dK t

Si può dunque valutare che, per una piastra di larghezza

infinita, il coefficiente di intaglio comporta sforzi di picco

pari a 3 volte il valore di sforzo nominale. Un altro

significativo esempio di intaglio è la riduzione del

diametro, da D a d, in un albero cilindrico sottoposto a

trazione o a flessione, schematizzato in Figura 57.20-B.

picco=Kt0

S

d

S

W

M

M

A B

r

d

D

N

N

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La distribuzione di sforzo nominale nella sezione di

diametro minimo, con area A e momento di inerzia J è

data da:

A

F0 per la trazione e

J

dM2

0 per la flessione

Tale distribuzione è tuttavia alterata dall’effetto di

intaglio. In casi di questo tipo, il raggio di raccordo r

con cui è realizzato l’intaglio svolge un ruolo decisivo.

Figura 57.21 – Coefficienti di intaglio a trazione e a

flessione per una variazione di diametro in un albero

con d/D = 2/3

La Figura 57.21 mostra l’andamento del coefficiente di

intaglio a trazione e a flessione, per una riduzione del

diametro caratterizzata da d = 2/3D, al variare del

rapporto fra il raggio di raccordo e il diametro minore.

I due esempi riportati in Figura 57.21 sono indicativi

del significato e dell’utilizzo dei coefficienti di intaglio

per quantificare le concentrazioni di sforzo. In

letteratura sono disponibili molti testi che riportano i

coefficienti di intaglio per numerosi casi di interesse

(cfr. ad es. Peterson, R.E., Stress Concentration

Factors, John WIley & Sons, New York, 1974).

La previsione del comportamento a fatica di un

provino intagliato deve quindi tenere conto

dell’amplificazione di sforzo all’intaglio, che è

calcolabile noto il Kt del caso in esame. Si osservi che

il fattore Kt dipende solo dai rapporti dimensionali, e

non dalle dimensioni assolute, nella zona di intaglio e,

durante un ciclo di carico, amplifica l’intero ciclo,

applicandosi quindi sia all’ampiezza Sa che al valore

medio Sm.

L’effetto delle dimensioni assolute sulla proprietà a

fatica degli elementi strutturali, impedisce, allora, una

applicazione diretta dei coefficienti di intaglio

nell’ambito del progetto o dell’analisi a fatica delle

strutture.

Va, infatti, considerato che le dimensioni della zona

soggetta alla massima sollecitazione, nel caso di provini o

elementi strutturali intagliati, sono molto piccole e che i

gradienti di sforzo sono molto elevati. In queste

condizioni gli effetti delle dimensioni, come affermato nel

precedente sottoparagrafo, si amplificano. Il coefficiente

di intaglio relativo alla soluzione elastica, Kt, va quindi

modificato, per quantificare gli effetti dell’intaglio sulla

prestazione a fatica, di un fattore che dipenderà dalle

dimensioni assolute della zona intagliata. Si andrà così a

definire un coefficiente di intaglio a fatica, Kf, che

rappresenta il fattore con il quale amplificare lo sforzo

nominale, 0, ed applicare, quindi, i diagrammi di S-N o

di fatica a vita costante per stimare la prestazione a fatica

di un elemento intagliato.

Il coefficiente di intaglio a fatica Kf è generalmente più

piccolo del coefficiente di intaglio Kt, in conseguenza del

fatto che le limitate dimensioni della zona intagliata

mitigano l’effetto di amplificazione degli sforzi. Si

definisce un fattore q che mette in relazione fatica Kf con

Kt:

1

1

t

f

K

Kq

Una delle espressioni proposte in letteratura, detta formula

di Peterson, è la seguente:

*1

1

aq

dove, a* è una costante del materiale e è il raggio

dell’intaglio. In base ai dati sperimentali i valori di a*

adeguati per quantificare l’effetto di intaglio a fatica

risultano pari a 0.063 mm per gli acciai ad alta resistenza

(temprati o bonificati), a 0.0254 per gli acciai normalizzati

o ricotti, a 0.51 per lamiere o barre in lega di alluminio.

Effetto dei carichi combinati

Nella trattazione precedente si è sempre considerato che la

fatica si sviluppi sotto l’azione di sollecitazioni semplici

di trazione, flessione o torsione. Nel caso di applicazione

di carichi combinati, è necessario, in modo analogo ai

criteri di snervamento o rottura, cercare di derivare una

grandezza indice del pericolo, valida per il generico stato

di sforzo. La trattazione della fatica nel caso generale di

sforzo è, tuttavia, estremamente complessa.

La trattazione più semplice, risalente agli anni ’30 del

secolo scorso, è quella di Gough-Pollard che proposero un

criterio quadratico per determinare il limite a fatica in stati

di sforzo bi-dimensionali, ottenuti applicando

contemporaneamente sollecitazioni flessionali e torsionali.

Il criterio proposto individua una curva limite di forma

ellittica nel piano dello sforzo normale e dello sforzo di

taglio.

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 57 - MECCANISMI DI DANNO NEI VELIVOLI ATMOSFERICI

Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza

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12

2

2

2

ffS

Nell’espressione di Gough-Pollard, Sf è il limite di

fatica ottenuto in una prova di pura flessione, mentre f

è il limite ottenuto in una prova di pura torsione. Si

può osservare che se il rapporto fra f e Sf fosse uguale

a quello che deriva dal criterio di Hubert-Hencky-Von

Mises (cioè 3/1 =0.577), il criterio equivarrebbe a

quello di Von Mises per stati di sforzo bi-

dimensionali. Per la maggior parte dei materiali questa

ipotesi è verificata con buona approssimazione e,

pertanto, il criterio di Von Mises fornisce una

grandezza indice del pericolo adeguata per stati di

sforzo bi-dimensionali.

E’ importante però sottolineare che criteri di questo

tipo hanno significato solo per la fase di nucleazione

della frattura. Infatti, quando il danno a fatica si è

evoluto in una frattura vera e propria, solo lo stato di

sforzo locale, all’apice, conta ai fini della velocità di

propagazione. Il criterio di Gough-Pollard risulta

valido poiché si applica al limite di fatica dei materiali

metallici, caso in cui la vita a fatica consiste quasi

interamente nel periodo di nucleazione.

Effetti ambientali (corrosione)

Le condizioni ambientali possono influenzare

significativamente sia la fase di nucleazione che quella

di propagazione della frattura nella vita a fatica di un

elemento strutturale metallico. La problematica più

rilevante, in questo ambito, è indubbiamente quella

della corrosione che, oltre a rappresentare un

meccanismo di danneggiamento a sé stante (in assenza

quindi di sollecitazioni cicliche) peggiora

notevolmente le prestazioni a fatica, a parità di tutte le

altre condizioni.

Infatti, occorre differenziare fra la propagazione,

promossa dalle sollecitazioni cicliche di fatica, di un

danno originato da un fenomeno corrosivo e il

comportamento a fatica di un provino o di un elemento

in un ambiente aggressivo. Nel presente sottoparagrafo

ci si occuperà unicamente del secondo aspetto. Si

parla, in questo caso, di corrosione-fatica, termine che

si riferisce, in generale, all’accelerazione dei processi

di nucleazione e propagazione del danno a fatica sotto

l’azione combinata delle sollecitazioni meccaniche e

della corrosione. La corrosione-fatica, dunque,

riguarda il contributo dell’ambiente corrosivo al

meccanismo della rottura a fatica. La Figura 57.22

mostra l’effetto della corrosione sulla prestazione a

fatica di provini di acciaio in tre ambienti: aria, acqua

dolce e acqua salata.

La curva S-N riportata nel grafico mostra un effetto

notevole dell’ambiente sulle prestazioni a fatica. E’

soprattutto visibile una rilevante riduzione del limite a

fatica, e, nel complesso, l’intera curva di Wöhler appare

spostate verso il basso. Si osservi anche che, in acqua

salata, le curve non tendano a presentare un effettivo

asintoto orizzontale per bassi valori di sforzo, indicando

che tale ambiente è in grado di promuovere la nucleazione

e la propagazione della cricca anche a livelli di sforzo

molto bassi. La frequenza della sollecitazione ha un

effetto sistematico in ambiente corrosivo, come

dimostrano i risultati a 42 Hz e 14 Hz per l’acqua dolce e

salata. Tale effetto è giustificato dal fatto che la corrosione

è un fenomeno dipendente dal tempo.

Figura 57.22 – Effetto dell’ambiente corrosivo sulla

prestazione a fatica di un acciaio dolce

Dal punto di vista fisico, i meccanismi della

corrosione-fatica sono piuttosto complicati. Per

quanto riguarda la nucleazione delle cricche, è

stato suggerito in letteratura che gli scorrimenti

ciclici possono produrre danni più gravi se vi è

la possibilità di reazioni chimiche fra le superfici

create dallo scorrimento e l’ambiente. In

seguito, dopo la nucleazione, la propagazione

della frattura può essere favorita da un agente

corrosivo all’apice della frattura stessa. Poiché

l’estensione della frattura è, in sostanza, una

decoesione del materiale, la presenza di ioni

nell’ambiente può ridurre la resistenza del

materiale in molti modi. Il meccanismo in

dettaglio, comunque, dipende dalla specifica

combinazione di ambiente e materiale.

57.1.4 Fatica in presenza di sollecitazioni ad

ampiezza variabile

ei paragrafi precedenti, lo studio delle proprietà a

fatica si è focalizzato sul comportamento di elementi N

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strutturali in presenza di sollecitazioni cicliche

caratterizzate da una certa ampiezza e un certo carico

medio. Tuttavia, come si può desumere dalla Figura

57.2, nelle strutture aerospaziali i carichi ciclici hanno

un andamento molto più complesso e possono essere

considerati come sovrapposizioni di numerosi tipi di

sollecitazione a fatica, ciascuno con una sua ampiezza

ed un suo carico medio. Uno dei metodi più semplici

per tentare di valutare la vita a fatica di un elemento in

questi casi è noto come legge di Miner, che può venire

illustrata a partire dal semplice esempio in Figura

57.23. Nell’esempio, si hanno due tipi di cicli, con due

livelli di ampiezza, ripetuti per n1, il secondo per n2

volte.

Figura 57.23 – Esempio di sollecitazione a fatica con

ampiezza variabile

Conoscendo la curva di Wöhler del materiale è

possibile stabilire che, considerati separatamente, i due

cicli porterebbero a rottura dopo un numero di

ripetizioni rispettivamente pari a N1 e N2. Alla base

della legge di che Miner sviluppò nel 1945, da una

intuizione di Pålmgren del 1924, vi è la definizione

delle frazioni della vita a fatica consumata da ciascun

ciclo. Il primo tipo di sollecitazione, che condurrebbe

alla rottura dopo N1 cicli ha consumato una frazione di

vita a fatica pari a n1/ N1. Nel secondo ciclo si è

consumata una frazione di vita a fatica pari a n2/ N2.

Per la legge di Miner, la rottura avviene se:

12

2

1

1 N

n

N

n

Generalizzando, la rottura a fatica di un elemento

soggetto a m diversi tipi di sollecitazioni ad ampiezza

costante, ciascuno dei quali, separatamente, porterebbe

il pezzo a rottura dopo Ni cicli, si ottiene quando si

verifica la condizione:

1m

i i

i

N

n

In realtà la legge di Miner non rappresenta uno strumento

particolarmente accurato, come dimostrano i risultati

ottenuti da Miner stesso che, a rottura, ottenne come

somma delle frazioni della vita a fatica valori compresi fra

0.61 e 1.45.

Fra le assunzioni implicite nell’applicazione della legge vi

è il fatto che tutti i cicli con ampiezza inferiori al limite di

fatica sono ignorati. Come si è osservato nel par. 57.1.3,

invece, il limite di fatica individua il livello al di sotto del

quale i danni, durante una sollecitazione ad ampiezza

costante, non evolvono, ma ciò non significa che il danno

a fatica non si accumuli. Un’altra, fondamentale

assunzione, è la trascurabilità dell’ordine di applicazione

dei carichi. In realtà l’ordine di applicazione non può

essere trascurato per due motivi:

carichi elevati, con la possibilità di plasticizzazione

nelle zone di intaglio, alterano le caratteristiche del

materiale, variando, dal momento in cui sono applicati

in poi, la tendenza all’accumulo di danno e la velocità

di propagazione delle fratture

nella fase di propagazione della frattura, sforzi uguali,

applicati in presenza di lunghezze di cricche diverse,

corrispondono a velocità di propagazione diverse,

come sarà evidenziato nel successivo par. 57.1.5.

Pertanto, sebbene la legge di Miner resti uno strumento di

semplice applicazione per fornire valutazioni preliminari,

la possibilità di prevedere in modo affidabile la vita a

fatica di elementi, quali le strutture aeronautiche, soggette

a spettri di carico molto complessi, richiede modelli molto

più elaborati, la cui trattazione esula dallo scopo di queste

dispense.

57.1.5 Propagazione delle fratture

a distinzione fra le due fasi di nucleazione del danno

a fatica e di propagazione delle fratture è un aspetto

fondamentale nella trattazione dei fenomeni di fatica. Al

di là degli aspetti fisici che differenziano i due fenomeni,

vi sono due considerazioni, di ordine ingegneristico,

particolarmente importanti:

lo studio delle propagazione delle fratture si può

applicare anche a difetti che non sono originati dalle

sollecitazioni meccaniche a fatica, ma che nascono per

altre cause, di cui si tratterà al par 57.4, e sono poi

propagati dalle sollecitazioni di fatica.

La propagazione delle macro-fratture è l’oggetto di

studio di una branca della scienza delle strutture, la

meccanica della frattura, che permette di prevederne

l’evoluzione e tale possibilità è di particolare interesse

per l’applicazione di filosofie di progetto basate sulla

previsione della propagazione di danni macroscopici

nelle strutture, che saranno discusse al par. 57.3.

L

S

N

Sa1

Sa2

n1 n2

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Figura 57.24 – Stati di sforzo in presenza di intagli e di

fratture

La presenza di una macro-frattura altera

significativamente lo stato di sforzo nell’elemento

strutturale. La Figura 57.24-A schematizza una

intagliata con un foro ellittico e mostra, in assenza di

fratture, lo stato di sforzo xx, nella sezione di minima

resistenza del provino. Come già discusso nel par.

57.1.3 (effetto degli intagli) il valore di picco dello

sforzo è amplificato dal coefficiente di intaglio Kt.

Per un foro ellittico il coefficiente di intaglio è pari a

b

aK t 21

dove a è il semiasse maggiore e b quello minore

dell’ellisse.

Si supponga che nella zona di massimo sforzo si

sviluppi una frattura, come indicato in Figura 57.24-B.

La frattura può essere idealizzata come un intaglio

ellittico con raggio di curvatura all’apice pari a 0. La

soluzione del problema elastica fornisce un

coefficiente di intaglio che tende all’infinito.

In effetti, la soluzione del problema elastico permette

di individuare l’andamento dello stato di sforzo

complessivo in un intorno dell’apice della critica. In

particolare, la Figura 57.24-B mostra l’andamento

della componente xx, in funzione della distanza r in

direzione y, misurata dall’apice della frattura.

L’espressione analitica per xx(r) è la seguente:

r

Krxx

2

Come si può osservare, per r tendente a zero lo sforzo

tende all’infinito come l’inverso della radice di r. La

forma della distribuzione di sforzo dipende dal

coefficiente K che prende il nome di fattore di

intensificazione degli sforzi.

Il coefficiente K, da cui dipende la forma della

distribuzione dell’intero stato di sforzo attorno all’apice

della frattura, non va quindi confuso con il coefficiente di

intaglio Kt. Infatti, Kt è semplicemente un fattore

moltiplicativo del valore massimo di sforzo, mentre K

determina l’andamento complessivo dello stato di sforzo

all’apice della frattura, in cui i valori massimi di sforzo,

nella soluzione lineare e elastica del problema, sono

infiniti.

L’espressione di K, in generale, è la seguente:

aSK

dove è un fattore di forma, che dipende dalla forma e

dalle dimensioni dell’elemento strutturale in cui si

sviluppa la frattura e da dove si trova la frattura nel

provino, S è lo sforzo applicato agli estremi dell’elemento

strutturale, mentre a è la lunghezza della frattura.

In una sollecitazione a fatica, dove lo sforzo S varia in

maniera ciclica attorno a un valore medio definito dal

rapporto R = Smin/Smax, il fattore di intensificazione degli

sforzi all’apice di una frattura oscillerà con ampiezza K,

attorno a un valore medio, determinato anch’esso da R.

Figura 57.25 – Velocità di propagazione della frattura a

fatica in funzione di K

Fra i risultati più significativi dello studio della

propagazione delle fratture a fatica, si può verificare che,

per un dato tipo di fatica caratterizzato da un valore di R,

la velocità di propagazione della frattura dipende solo dal

K. La misura della velocità è data dalla derivata della

r1picco=kt

0

S

S

r

y

x

A B

apice

S

frattura

r

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lunghezza della frattura rispetto al numero di cicli,

da/dN. Pertanto, fissato il valore di R, in base alla

definizione di K fratture con a elevato sollecitate a

bassi livelli di sforzo, S, propagheranno alla stessa

velocità di fratture con a basso, sollecitate ad elevati

livelli di sforzo.

La Figura 57.25 mostra un tipico andamento della

velocità di propagazione della frattura con l’ampiezza

di oscillazione del fattore di intensificazione degli

sforzi. Nella zona centrale, indicata come Paris region,

in figura, l’andamento di da/dN in funzione di log(K)

è lineare. In tale zona vale la legge di Paris che

prevede:

mKCdN

da

dove C ed m sono costanti del materiale. La legge di

Paris fornisce utili indicazioni sull’avanzamento della

frattura, se C ed m sono note. Va sottolineato, tuttavia,

che la presenza di spettri di carico ad ampiezza

variabile complica notevolmente la previsione

dell’evoluzione delle frattura. In particolare, sono da

menzionare gli effetti dei picchi di carico, definiti

overloads, che plasticizzano l’apice della cricca e

provocano significativi effetti di ritardo nella

propagazione. Quindi, in modo analogo a quanto

osservato relativamente alla legge di Miner, lo studio

della propagazione della frattura sotto l’azione di

carichi ad ampiezza variabile richiede lo sviluppo di

modelli più complicati di quelli presentati in questa

semplice trattazione.

57.2 Cause accidentali e ambientali di

danno

57.2.1 Bird Strike

a collisione con volatili con massa superiore a 1

kg può provocare impatti con energia

enormemente superiori ai livelli di bassa-media

energia considerati nel paragrafo precedente.

L’aumento del traffico aereo, delle prestazioni dei

velivoli e la tendenza alla realizzazione di strutture di

estrema leggerezza rendono l’impatto da volatile un

aspetto non più trascurabile nella progettazione degli

aeromobili. Si consideri che fra il 1986 e il 1990 si

sono registrate più di 20000 collisioni fra volatili e

velivoli commerciali, con conseguenze che vanno da

danni di piccola rilevanza alla perdita completa del

velivolo. Le normative valide in ambito civile per i

velivoli ad ala fissa e rotante hanno da tempo recepito

la necessità di dimensionare tutte le parti esposte dei

velivoli per ridurre le conseguenze dovute a tali

impatti. Secondo le norme, la struttura deve essere

dimensionata in modo da resistere a impatti di volatili

da 1 kg a 2 kg, rispettivamente per aerei ed elicotteri, a

velocità prossime a quelle di crociera. Il rischio di impatto

da volatile, fortunatamente, non riguarda tutta la struttura

ma risulta, in effetti, la condizione dimensionante per

numerosi parti strutturali quali i bordi di attacco di ali e di

impennaggi, le carenature delle gondole motrici, i radome,

i trasparenti delle cabine e le loro strutture di vincolo.

Una valutazione approssimativa delle forze in gioco può

ottenersi applicando un modello idealizzato di volatile e

considerando l’impatto normale su un corpo rigido.

L’idealizzazione si basa sulla possibilità di considerare,

alle velocità di interesse, l’impatto del volatile come

quello di un getto di fluido, eventualmente caratterizzato

da una certa porosità. Secondo tali assunzioni, la forza

media scambiata con la superficie è pari al rapporto fra la

quantità di moto del volatile e la durata dell’impatto che, a

sua volta, può essere valutata nota la lunghezza del

volatile, considerandolo come un corpo cilindrico, di

lunghezza L0 e diametro L0/2. Risulta:

0

2

0

0L

MV

T

MVF ii

l’Equazione precedente fornisce una indicazione

dell’ordine di grandezza della forza di impatto per volatili

con massa compresa fra gli estremi previsti dalla

normativa e per velocità nell’intervallo 100 ms-1

÷ 200 ms-

1. La Figura 57.26 mostra che forze dell’ordine delle

decine di daN possono essere esercitate su strutture di

grande rigidezza. L’impatto su superficie deformabile può

comunque attenuare tali livelli di forza.

100150

200250

300

1

1.5

20

50

100

Velocity (m/s)Bird mass (kg)

Th

eore

tica

l m

ean

Fo

rce

(daN

)

Figura 57.26 – Stima teorica delle forze medie esercitate

durante un impatto normale di volatile su superficie rigida

Queste considerazioni indicano che l’impatto da volatile

ha conseguenze estremamente gravose per la struttura di

un velivolo. I danni derivanti da tale impatto, tipicamente,

sono tali compromettere seriamente l’integrità degli

elementi strutturali, come è possibile osservare

dall’immagine in Figura 57.27, relativa a una prova di

Bird Strike sul bordo d’attacco di un impennaggio

verticale.

In tali condizioni, lo sforzo progettuale deve essere teso a

proteggere, ad ogni costo, le strutture primarie del

velivolo dai danni derivanti dall’impatto da volatile in

L

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modo da permettere al velivolo, pur seriamente

danneggiato, di atterrare nel più breve tempo possibile.

Figura 57.27 – Danno prodotto dall’impatto di un

volatile su un bordo di attacco di una struttura ibrida

metallo-composito

Figura 57.28 – Filosofie progettuali per strutture

resistenti all’impatto da volatile

Di conseguenza i bordi di attacco, le carenature e le

strutture di vincolo dei trasparenti, devono svolgere la

funzione di barriere protettive nei confronti di strutture

primarie. La Figura 57.28 mostra alcune delle filosofie

di progetto che possono essere messe in atto per

soddisfare questo requisito.

Il caso mostrato in Figura 57.28-A esemplifica una

scelta basata sull’adozione di barriere estremamente

rigide e resistenti. Le forze di impatto, come appena

affermato, possono essere notevolmente ridotte se

parte dell’energia di impatto è assorbita per deformazione

strutturale, come nel caso schematizzato in. Il pericolo è,

tuttavia, di intrappolare il materiale del volatile nella

struttura deformata e di impedirne il flusso, amplificando

in realtà le forze trasmesse. La soluzione in Figura 57.28 –

C, si affida invece alla forma geometrica di un’ulteriore

barriera strutturale, in grado di deflettere il materiale del

volatile. E’ intuibile come le proprietà del materiale

selezionato per realizzare le barriere strutturali giochino

un ruolo di primaria importanza nel progetto di una

soluzione soddisfacente con il minimo aggravio di peso.

Per le leghe di alluminio, la possibilità di sfruttare le

deformazioni plastiche per attenuare le forze di impatto è

di fondamentale importanza, ma il compromesso ottimale

fra la tenacità e la resistenza del materiale impiegato

dipenderà dal tipo di filosofia di progetto adottata.

Tali valutazioni necessitano di strumenti in grado di

analizzare il fenomeno che non può essere affrontato con i

tradizionali metodi di analisi lineare. Non è neppure

realisticamente possibile individuare le soluzioni ottimali,

in termini di approccio progettuale e di selezione del

materiale, basandosi sulla sola attività sperimentale che,

risultando particolarmente complessa e costosa in questo

ambito, deve necessariamente orientarsi verso approcci

molto conservativi per minimizzare i costi e i tempi di

realizzazione e di prova di prototipi dettagliati della

struttura. L’analisi numerica dei fenomeni di impatto da

volatile è quindi di primaria importanza per individuare

soluzioni progettuali e materiali adeguati.

57.2.2 Danno indotto da fulmini

fulmini sono una delle minacce naturali che devono

essere tenuti in considerazioni per ragioni di sicurezza

nel progetto e la certificazione dei velivoli. Secondo dati

raccolti nel periodo 1950-1974 negli Stati Uniti e nel

Regno Unito, su un complessivo di oltre 5000000 di ore di

volo considerate di velivoli commerciali a pistoni,

turboelica e jet, si sono registrati circa 1700 incidenti di

questo tipo, uno ogni circa 3000 ore. La Figura 57.29 si

riferisce a un evento di questo tipo.

Gli esperimenti in volo, condotti utilizzando velivoli

appositamente strumentati a partire dagli anni ’80, hanno

mostrato che ci sono due tipi di interazione fulmine-

velivolo. Nella maggior parte dei casi (il 90%) il fulmine è

innescato dall’intrusione del velivolo in una regione con

un intenso campo elettromagnetico mentre nel restante

10% dei casi si ha l’intercettazione di una scarica naturale

da parte del velivolo.

L’interazione fulmine-velivolo è piuttosto complessa. La

carica elettrica sulla superficie del velivolo subisce una

serie di oscillazioni e scariche elettriche si liberano da e

verso il velivolo in zone estremamente localizzate

con lo sviluppo di forti impulsi di corrente che

attraversano la struttura. Va poi tenuto conto che il

passaggio della scarica nell’aria produce delle

I

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sovrappressioni che applicano un carico impulsivo alle

zone dalle quali le scariche vengono emesse o

intercettate.

Figura 57.29 – Velivolo colpito da un fulmine

Gli effetti del fulmine sul velivolo sono generalmente

poco rilevanti, sebbene casi isolati di perdita del

velivolo si siano verificati in passato.

Gli effetti del fulmine sono tipicamente classificati in

due categorie, diretti e indiretti:

Gli effetti diretti sono quelli causati alla struttura o

agli impianti del velivolo nella zona di scarica o

dovuti all’energia dissipata dal passaggio della

corrente. Questi effetti includono perforazioni,

deformazioni plastiche, fusione, incendio e

vaporizzazione di superfici. La Figura 57.30mostra

il danno causato in una zona di scarica, situata in

prossimità di una estremità alare. L’effetto diretto

più pericoloso è l’innesco di esplosioni nei

serbatoi. Gli effetti diretti includono la distruzione

di apparati elettrici a causa degli altissimi voltaggi

e correnti indotte nei materiali conduttivi.

Gli effetti indiretti sono quelli che risultano

dall’interazione fra i campi elettromagnetici

generati dal fulmine con l’impianto elettrico del

velivolo. Queste interazioni possono generare

voltaggi o correnti che portano al danneggiamento

o al malfunzionamento dei circuiti.

La protezione contro i fulmini si basa su due principi

fondamentali:

1) l’introduzione di adeguati percorsi conduttivi che

permettano alla corrente di passare con la minima

resistenza dai punti di entrata e di uscita della

scarica;

2) il controllo di tutti gli effetti delle correnti indotte

dai fulmini verso, attraverso e dal velivolo in modo

da garantire l’assenza di rischi alla sicurezza del

volo. Uno degli aspetti fondamentali, da questo

punto di vista, è il controllo del possibile passaggio

di correnti in prossimità dei serbatoi, che possono

provocare l’incendio del carburante.

Figura 57.30 – Danno causato da un fulmine in un’ala di un

velivolo

Le strutture dei velivoli in metallo sono realizzate

principalmente in lega di allumino che offre eccellente

proprietà contro gli effetti del fulmine nelle zone di entrata

e uscita delle scariche e permette il passaggio della

corrente anche attraverso le zone di giunzione.

L’utilizzo dei compositi comporta rischi maggiori. I

compositi rinforzati con fibra di carbonio sono conduttivi,

ma il materiale composito è intrinsecamente meno

resistente ai danni diretti provocati

dall’emissione/intercettazione delle scariche e dal

passaggio della corrente che può causare la pirolisi della

resina e la frattura dei laminati dovuti alle violente

sollecitazioni meccaniche che non possono essere

assorbite mediante la deformazione plastica, come nel

caso dei metalli.

La conducibilità dei compositi può venire aumentata

inglobando nei laminati una rete di fili di rame, applicata

su entrambe le superfici, per aumentare la conducibilità e

favorire il passaggio della corrente. Questo sistema di

protezione, normalmente, non interessa tutte le parti in

composito del velivolo, ma solo le zone strutturali

primarie o i punti più soggetti all’emissione/

intercettazione delle scariche.

57.3 Filosofie di progetto fail safe, safe life e

damage tolerance

paragrafi precedenti hanno mostrato come il danno,

originato da diverse tipi di cause e propagato da

sollecitazioni meccaniche a fatica, svolge un ruolo

fondamentale nelle strutture aeronautiche. In particolare, il

fenomeno della fatica e la possibilità di crescita e

propagazione di diversi tipologie di danno strutturale

indicano l’inadeguatezza di una filosofia di progettazione

che si basi solo su requisiti in condizioni quasi-statiche.

I

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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 57 - MECCANISMI DI DANNO NEI VELIVOLI ATMOSFERICI

Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza

autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.

G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 19 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

Storicamente, i problemi connessi alla fatica e al

danneggiamento delle strutture hanno

progressivamente acquisito un’importanza sempre

maggiore nell’ambito della progettazione dei velivoli.

La progettazione strutturale, prima del secondo

conflitto mondiale, era focalizzata a soddisfare i

requisiti di rigidezza e resistenza in condizioni statiche

e si è evoluta fino a prendere in considerazione,

attualmente, 4 aspetti fondamentali:

la resistenza e la rigidezza in condizioni quasi

statiche;

la vita a fatica della struttura

la propagazione di fratture e danni strutturali per

determinare i periodi di ispezione

la resistenza residua della struttura danneggiata.

L’evoluzione delle filosofie di progettazione è stata

collegata, in molti casi, a incidenti che hanno

evidenziato la necessita di prendere in considerazione

fenomeni sempre più complessi di interazione fra lo

sviluppo del danno e l’integrità strutturale del velivolo.

57.3.1 Evoluzione storica delle filosofie di

progetto

Sviluppo degli approcci fail safe e safe life

Una serie di incidenti negli anni ’40-’50 ha messo in

evidenza che i fenomeni di fatica dovevano essere

tenuti in considerazione per garantire la sicurezza dei

velivoli. Il cedimento dell’ala di un velivolo Martin

202 (1948) e i due incidenti occorsi, a pochi mesi di

distanza, ai velivoli Comet (vedi Figura 57.31),

attribuiti al cedimento a fatica della fusoliera,

mostrarono che il cedimento di un singolo elemento

strutturale poteva portare alla perdita del velivolo e

motivarono lo sviluppo di una filosofia di progetto

innovativa, denominata approccio fail safe, applicata

per la prima volta nello sviluppo del DC 10.

Figura 57.31 – De Havilland Comet

I concetti base della nuova filosofia di progetto sono

evidenziati nella seguente Tabella 57.2. Il concetto

fondamentale è la ridondanza degli elementi strutturali

in modo che, a seguito del cedimento strutturale di un

elemento, sia disponibile un percorso di carico alternativo.

Tabella 57.2 – Caratteristiche dell’approccio fail-safe

Caratteristiche

fondamentali della

struttura

La struttura deve essere in

grado di svolgere la

propria funzione in

presenza del cedimento di

un suo elemento.

Soluzioni costruttive Ridondanza degli elementi

strutturali e possibilità di

percorsi di carico

alternativi.

Requisiti per i

componenti strutturali

Elevata resistenza

strutturale e bassa velocità

di propagazione della

frattura

In anni appena successivi, i fenomeni di cedimento a

fatica si imposero all’attenzione anche in ambito militare.

Durante la seconda guerra mondiale, nonostante l’intensa

attività progettuale, ben pochi velivoli superavano la vita

operativa necessaria a far sorgere problemi di fatica.

L’esperienza in altri ambiti costruttivi, dove la fatica si era

imposta da tempo come uno dei problemi fondamentali,

venne ignorata.

Nel 1958, una serie di 5 incidenti portarono alla perdita di

altrettanti B 47 (Figura 57.32). Le perdite furono attribuiti

a fenomeni di fatica nelle ali. In risposta a questi eventi,

l’USAF sviluppo un approccio progettuale che prendeva

direttamente in considerazione i fenomeni di fatica. Tale

filosofia di progetto, detta safe life, si basava

sull’esecuzione di prove a fatica sull’intera struttura del

velivolo. Il verificarsi dei cedimenti a fatica nei diversi

elementi strutturali indicava i limiti di servizio degli

elementi stessi che venivano ridotti di un fattore di

sicurezza, tipicamente pari a 2 o 4.

Figura 57.32 – Boeing B-47

La Tabella 57.3 indica gli aspetti fondamentali

dell’approccio safe life.

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Tabella 57.3 – Caratteristiche dell’approccio safe-life

Caratteristiche

fondamentali della

struttura

La struttura, nel periodo di

servizio, resiste

all’accumulo di danni a

fatica senza essere

soggetta a degrado

Soluzioni costruttive Elementi strutturali con

comportamento a fatica

noto. Individuazione dei

limiti di servizio di ogni

elementio.

Requisiti per i

componenti strutturali

Lunga vita a fatica

dell’elemento. Enfasi sul

periodo di nucleazione dei

difetti a fatica.

Sviluppo dell’approccio damage tolerance

La filosofia di progetto safe life è valida e adeguata in

molti casi, ma si rivelò inadatta a prevenire le rottura a

fatica in materiali ad alta resistenza e bassa tenacità

come le leghe alluminio-zinco. In particolare è

l’impossibilità di considerare la propagazione di danni

non nucleati a fatica, ma originati da aspetti, quali la

corrosione, difetti tecnologici o indotti da eventi

accidentali, che non sono considerati nei test di

laboratorio.

In ambito commerciale, tra il 1970 e il 1980, si rende

anche necessaria un’evoluzione dell’approccio fail

safe. Nel 1977 si verifica il cedimento di un

impennaggio di un Boeing 707 per la cui struttura,

progettata secondo un criterio fail safe, non era

previsto alcun programma di ispezione. In assenza di

un programma di ispezione tuttavia, non è chiaro come

rilevare il cedimento dell’elemento ridondante e come

garantire l’integrità del percorso alternativo di sforzo.

Nonostante il peso aggiuntivo, necessario per

assicurare le caratteristiche fail safe a tutti gli elementi

strutturali, la struttura non può volare in presenza di

elementi degradati senza rischiare di andare incontro,

prima o poi, a un cedimento catastrofico o a un

accelerato degrado strutturale.

La soluzione a queste nuove problematiche fu lo

sviluppo di una filosofia di progetto denominata

damage tolerance. Tale approccio può essere

considerato una generalizzazione o un affinamento

dell’approccio fail safe, ma è invece alternativo

all’approccio safe life.

Tuttavia, nella filosofia di progetto damage tolerance,

che sarà analizzata con più dettaglio nel paragrafo

successivo, gioca un ruolo fondamentale il programma

di manutenzione e di ispezioni.

Secondo questa filosofia di progetto, infatti, la

struttura del velivolo deve essere progettata in modo

da sopportare la presenza di danneggiamenti che, originati

da difetti non rilevabili con metodi semplici di ispezione,

si siano propagati nell’intervallo di tempo fra due

ispezioni successive. Nelle prime applicazioni

dell’approccio (B1-A e C5, mostrato in Figura 57.33) .

i programmi di ispezione vennero definiti a partire da test

a fatica su due cicli di vita completi del velivolo.

Attualmente, l’individuazione dei piani di ispezioni

prevede un’intensa e coordinata attività numerica e

sperimentale, che sarà brevemente descritta nel par.

57.3.2. Tuttavia, l’aggiornamento dei piani di ispezione è

intrinseco nell’approccio damage tolerance a causa di

molti fattori: Alcuni sono legati allo sviluppo e all’utilizzo

dei velivoli:

con la realizzazione di nuove versioni, la massa del

velivolo tende sempre ad aumentare rispetto al

progetto originale

i piloti, soprattutto in ambito militare, divengono più

confidenti con il velivolo e lo spingono a prestazioni

maggiori

vi è una grande variabilità di utilizzo fra diversi

operatori, per lo stesso velivolo.

Altri fattori devono prendere in considerazione

l’invecchiamento del velivolo.

Figura 57.33 – Lochkeed C5

E’ importante sottolineare che l’approccio damage

tolerance non ha eliminato gli approcci fail safe e safe

life. Per quanto riguarda il fail safe, come si è visto, la

damage tolerance può essere integrata nell’approccio e

può essere considerata un affinamento dell’approccio

stesso.

Infatti, secondo le specifiche FAA, per un elemento fail

safe si deve poter dimostrare che “l’eventualità di un

cedimento catastrofico o una eccessiva deformazione

strutturale che possa influenzare negativamente le

caratteristiche di volo del velivolo, non sono probabili

dopo il cedimento a fatica o il danneggiamento parziale

rilevabile dell’elemento stesso”.

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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 21 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano

L’approccio safe life, invece, è alternativo alla damage

tolerance, ma è ancora seguito per alcuni elementi

strutturali. Alcuni operatori, come ad esempio l’US

Navy, dove la possibilità di seguire adeguati

programmi di ispezione su velivoli imbarcati è ridotta,

emettono requisiti basati su un approccio safe life più

conservativo di quello originale. Alcuni studi

dimostrano che il dimensionamento ottenuto è

paragonabile con quello derivante da un approccio a

damage tolerance.

Gli sviluppi dei tre diversi approcci sono in qualche

modo collegati alla disponibilità di metodi numerici

sempre più raffinati e allo sviluppo e messa a punto di

nuove procedure per effettuare controlli non distruttivi.

Per la filosofia fail safe è infatti indispensabile poter

calcolare gli stati di sforzi in strutture iperstatiche e in

presenza di cedimenti. L’avvento dei codici a elementi

finiti ha facilitato questo compito.

Nel caso della damage tolerance, la possibilità di

prevedere le velocità di crescita delle fratture, fornita

dai metodi analitici e numerici propri della meccanica

della frattura, è di grande importanza nella possibilità

di applicare l’approccio limitando a costi accettabili

l’attività sperimentale sui singoli componenti e sul

velivolo completo.

Invecchiamento strutturale e danno diffuso a fatica

Il danno a fatica e i fenomeni descritti nel par. 57.1

sono responsabili di difetti che, secondo l’approccio

damage tolerance, possono evolvere, nell’intervallo fra

due ispezioni successive, fino alle dimensioni

rilevabili dai controlli previsti dal programma di

manutenzione.

Tuttavia, la generazione di danni diffusi, non ancora

rilevabili dai controlli, può portare a uno stato,

denominato danno diffuso a fatica, nel quale la

velocità di propagazione delle fratture nucleate dai

difetti è accelerata e la tollerabilità della struttura al

propagarsi dei danni è ridotta. L’approccio damage

tolerance può prendere in considerazione anche

fenomeni di questo tipo a patto, tuttavia, di rivedere il

programma di manutenzione del velivolo. Tale

necessità sancisce lo stato di invecchiamento (aging)

del velivolo e porta ad aumentare i costi di

manutenzione.

Il problema fondamentale connesso con la stato di

danno diffuso a fatica è la difficolta di rilevarlo,

poiché, presi singolarmente, i danni e le fratture che lo

caratterizzano hanno dimensioni minori (anche meno

di 1 mm) rispetto a quelle rilevabili con i metodi di

ispezione.

A queste problematiche è stato attribuito l’incidente,

avvenuto nel 1988, a un B 737 (Figura 57.34) che ha

comportato la perdita della parte superiore della

fusoliera dalla cabina piloti fino all’attacco delle ali.

Figura 57.34 – Incidente B 737 Aloha Airlines (1988)

In particolare, il problema è stato individuato nel degrado

(umidità, cicli di congelamento dell’acqua, corrosione)

degli incollaggi a freddo a coprigiunto presenti nella

fusoliera del velivolo. La struttura, anche in questo caso,

era progettata fail-safe, ma il cedimento dell’incollaggio

ha comportato il trasferimento del carico attraverso dei

rivetti che, per il particolare dimensionamento della

chiodatura, erano particolarmente soggetti alla formazione

di fratture, in particolare in ambiente corrosivo. Lo stato

di danneggiamento dei rivetti risultava sotto i livelli di

rilevabilità ai controlli e, preso singolarmente, non

avrebbe rappresentato un rischio per la sicurezza.

In definitiva, il cedimento strutturale può essere attribuito

a un diffuso stato di danno a fatica. Nello stesso periodo,

l’ordinata di forza di un B 747 della Jal, riparata

malamente, è ceduta provocando un grave incidente che è

stato anche in questo caso attribuito allo stato di danno

diffuso.

Questi eventi hanno portato alla ribalta il tema della

tolleranza al danno di velivoli in stato di invecchiamento.

L’effetto, oltre a un intensa attività di revisione dei

programmi di manutenzione, ha portato ad esaltare il

ruolo delle ispezioni non-distruttive per l’individuazione

dello stato di danno a fatica diffuso. Anche i metodi di

analisi per la predizione di tale stato sono stati indagati e

migliorati.

57.3.2 L’approccio damage tolerance

Caratteristiche e fasi dell’approccio

La damage tolerance è la caratteristica della struttura che

permette di mantenere un’adeguata resistenza residua per

un determinato periodo di utilizzo in assenza di

riparazioni. Tale resistenza residua deve essere mantenuta

in presenza di specifici livelli di fatica, corrosione, danni

accidentali e difetti di origine tecnologica.

Lo schema alla base dell’applicazione damage tolerance è

semplice ed è illustrato nella generalizzazione riportata in

Figura 57.35. Il tempo (in ore di volo) per la prima

ispezione è basato sul tempo possibile perché un difetto

tecnologico [A] possa propagare fino a [B]. [B]

corrisponde a una dimensione del difetto intermedia fra

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soglia di visibilità e un livello critico oltre il quale il

danno è propagato sopra la soglia di tollerabilità. Il

tempo per le ispezioni successive alla prima è dato

dall’intervallo in cui un difetto possa propagare

dall’effettiva soglia di visibilità [C] fino all’effettivo

livello critico [D].

Figura 57.35 – Esempio idealizzato di applicazione

dell’approccio damage tolerance

L’applicazione dell’approccio damage tolerance

richiede il completamento di una serie di passaggi che

comportano intense attività sperimentali e numeriche.

La Figura 57.36 schematizza le fasi necessarie per

l’applicazione dell’approccio.

Figura 57.36 – Fasi per l’applicazione dell’approccio

damage tolerance

Un primo obiettivo è l’individuazione delle aree

critiche nella struttura del velivolo. Per area critica si

intende una parte strutturale che, danneggiandosi

parzialmente o cedendo, compromette la sicurezza del

velivolo e necessita di essere ispezionata. A questo

scopo, le considerazioni di maggiore importanza

derivano dall’esperienza in servizio di velivoli simili. I

risultati dell’analisi strutturale sono anch’essi

fondamentali, in quanto permettono di individuare le

zone con i più alti livelli di carico. Un’ulteriore

considerazione è la facilità di ispezione: le zone più

difficili da ispezionare vengono analizzate con

maggiore dettaglio. Le aree critiche sono oggetto di

una attività di indagine sperimentale e numerica per

valutare la crescita di potenziali danni.

Un secondo aspetto della damage tolerance è

l’individuazione degli spettri di carico. E’ un aspetto

critico e delicato, poiché la propagazione delle fratture è

fortemente influenzata dall’effettivo andamento del carico

e tali dati sono necessari per compiere prove affidabili o

per applicare i modelli previsionali più evoluti sviluppati

nell’ambito della meccanica della frattura (cfr. par. 57.1.4

e 57.1.5). Si usano inizialmente gli spettri di carico

acquisiti in servizio per aerei di tipologia simile,

introducendo assunzioni conservative in assenza di dati

certi. In seguito, gli spettri sono aggiornati sulla base di

nuovi dati acquisiti in servizio. Vanno raccolti dati sulle

raffiche e sugli andamenti temporali delle azioni di taglio

e momento nelle ali e nella fusoliera. Si acquisiscono dati

sui carichi in manovre speciali, quali il rifornimento in

volo o le missioni di spegnimento incendi.

Il terzo obiettivo nell’applicazione della damage tolerance

è l’identificazione della dimensione iniziale del difetto con

cui condurre le analisi o le prove di propagazione delle

fratture. A causa dell’intrinseca concentrazione di sforzi,

le aree critiche sono spesso localizzate nei fori per le

giunzioni. Per il tempo di ispezione, quindi, si fa spesso

riferimento a tali aree.

Una volta acquisiti gli spettri di carico e valutata la

dimensione iniziale del difetto, è possibile iniziare a

studiare i limiti operativi nelle aree critiche. Si utilizzando

metodi numerici e sperimentali. Le prove servono per

validare i modelli numerici e stabilire a che livelli di

carico è possibile troncare gli spettri (eliminando le

oscillazioni di più lieve entità che non influenzano la

crescita del danno) con l’obiettivo di velocizzare le prove.

Tali prove sono spesso eseguite su provini semplici, che

isolano un dettaglio strutturale. La dimensione iniziale del

difetto, tipicamente, non influenza la distribuzione di

sforzo nella struttura e, sotto tale assunzione, gli sforzi da

applicare al dettaglio strutturale possono essere ricavati

dai carichi di volo attraverso analisi strutturali al

calcolatore eseguite per la struttura integra. I modelli

previsionali di crescita della frattura, validati dalle prove,

sono applicati per calcolare i tempi di propagazione. Gli

effetti ambientali devono essere sempre tenuti in

considerazione nei modelli. La presenza di ambienti

chimicamente aggressivi può essere presa in

considerazione applicando coefficienti derivanti da prove

effettuate a vita costante. Dai modelli analitici, corretti per

la presenza di effetti ambientali, nascono le stime dei

tempi d’ispezione, che possono venire successivamente

corrette in seguito a test completi a fatica o alle evidenze

emerse durante la vita operativa del velivolo.

Pur non essendo indicato in Figura 57.36, la corretta

valutazione del livello di danno delle soglie di danno

individuabili dai metodi di ispezione (visiva e NDI), fa

parte dell’approccio. La damage tolerance comprende

quindi anche la valutazione dei metodi di ispezione.

Previsione dello stato di danno diffuso a fatica

La filosofia di progetto damage tolerance, o se si

preferisce, l’introduzione dei concetti di damage tolerance

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nella filosofia di progetto fail safe, è stata elaborata

dagli anni ’70, ed il suo successo è dimostrato dal

continuo utilizzo e dalla riduzione degli incidenti

attribuibili a problemi strutturali. Rare critiche sono

state portate al processo affermando che è troppo

conservativo.

Gli incidenti più recenti hanno tuttavia dimostrato che

una problematica fondamentale è l’individuazione del

danno diffuso a fatica (WFD: Widespread Fatigue

Damage). Lo stato di danno diffuso a fatica, di cui si è

trattato nel par. 57.3.1, è caratterizzato da due possibili

scenari:

a) molteplici cricche in un solo elemento strutturale

b) cricche in molteplici elementi strutturali

Si parla di WFD quando la dimensione e la densità di

tali cricche sono sufficienti per degradare la capacità

della parte strutturale di tollerare i danni per i quali è

stata inizialmente progettata. La corrosione e la

corrosione-fatica svolgono un ruolo fondamentale,

nelle costruzioni metalliche, per lo sviluppo di

situazioni potenzialmente pericolose.

Come è già stato osservato par. 57.3.1, le criticità

connesse al WFD possono essere tenute in

considerazione, nell’approccio damage tolerance,

modificando i piani di ispezione, possibilità che fa

intrinsecamente parte dell’approccio stesso. Da queste

considerazioni si può comprendere, quindi, come sia

del tutto essenziale individuare o prevedere la

comparsa di tale stato.

Applicando un approccio derivante da studi effettuati

negli anni ’90, un fattore di sicurezza pari a 2 è

consigliabile per tenere conto degli effetti

dell’invecchiamento del velivolo e della corrosione-

fatica nei tempi di ispezione dei componenti

aeronautici. Tale valore è presumibilmente

conservativo e dovrebbe essere individuato caso per

caso.

Un’altra possibilità è includere una previsione

affidabile della nascita di WFD nell’approccio

damage tolerance. A questo scopo ci si può affidare a

metodi probabilistici. L’analisi del rischio deve tenere

conto di danni accidentali, quali quelli provocati da

combattimenti, distacchi di parti dal motore, difetti

tecnologici o danni durante la produzione. La domanda

è: in tale caso quale probabilità esistono di cedimento

catastrofico della struttura. L’individuazione di uno

scenario in cui le probabilità di frattura superano

determinati limiti segna l’insorgere del WDF e

permette di fornire una guida per l’aggiornamento dei

programmi di manutenzione.

Bibliografia

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“Proprietà significative delle leghe di alluminio nella progettazione ad assorbimento di energia delle strutture

aeronautiche”

La Metallurgia Italiana, N. 3, 2008.

[2] Niu, M.C.Y.:

“Airframe Structural Design”

ConMilit Press Ltd, 1988.

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Kluwer Academiker Publisher, 2001

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“The interaction of lightning with airborne vehicles”

Progress of Aerospaca Science, 39(2003), pp. 61-81.