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DIREPUBBLICA DOMENICA 21 AGOSTO 2016 NUMERO 597 Benvenuti a Yellowstone La copertina. Il gender sbarca a Hollywood Straparlando. Barberis: “La mia storia con il cibo” I tabù del mondo. La mania del collezionismo WASHINGTON È A UNA MICROSCOPICA e micidiale creatura, al batterio della tubercolosi, che i Parchi nazionali americani devono la propria esistenza, divenuta legge nell’agosto di cent’an- ni or sono. Quando a un canadese emigrato nel Missouri, Galen Clark, fu diagnosticata la tubercolosi e i medici gli diedero poco da vivere, lui lasciò la moglie e l’umidità del Midwest e partì per la California per andare a morire — disse — nella magnificen- za vergine del West. Si fermò tra le sequoie della Sierra Nevada e all’ombra di quelle gigantesche conifere, in attesa che la tubercolosi lo consumasse, cominciò a tempestare il Congresso, e il Presidente Lincoln, con petizioni per strappare quella foresta ai taglialegna e ai cercatori d’oro. E ci riuscì. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE VITTORIO ZUCCONI Cult NEW YORK S IN DALLE PROPRIE ORIGINI, gran parte della migliore lette- ratura americana ha raccontato la fascinazione per la natura, creando personaggi che la sfidano interrogan- dosi sul senso ultimo dell’esistenza. Basti pensare a Melville, London e Hemingway: un approccio epico, che nasce paradossalmente dalla relativa gioventù di quella realtà culturale. Con poche eccezioni, tra cui svetta Cormac McCarthy, la grande letteratura contemporanea ha dedicato meno attenzione a questi temi, tuttavia anche il più urbanizzato tra gli scrittori ame- ricani sente una forma di attrazione e struggimento per i grandi spazi incontaminati. Tra costoro spicca Jonathan Franzen, e il suo amore per il birdwatching. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE ANTONIO MONDA L’attualità. Arundhati Roy, “Il capitalismo? Credo che crollerà” La storia. Il mondo visto attraverso la porcellana Spettacoli. Bukowski: quella sera insieme al “vecchio sporcaccione” Next. La spiaggia del futuro L’incontro. Sonia Bergamasco, dal teatro a Venezia Ha cent’anni la legge che ha creato i Parchi Nazionali americani , resi famosi nel mondo anche dall’orso Yoghi. Un affare da trenta miliardi di dollari © HANNA-BARBERA/COURTESY EVERETT Repubblica Nazionale 2016-08-21

597 Cult Benvenutia Yellowstone - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2016/21082016.pdf · 2016. 8. 21. · Walden ovvero Vita nei boschi Henry David Thoreau (1854) Andai

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DIREPUBBLICADOMENICA 21 AGOSTO 2016NUMERO597

Benvenutia

Yellowstone

La copertina. Il gender sbarca a HollywoodStraparlando. Barberis: “La mia storia con il cibo”I tabù del mondo. La mania del collezionismo

WASHINGTON

ÈA UNA MICROSCOPICA e micidiale creatura, al batterio della tubercolosi, che i Parchi nazionali americani devono la propria esistenza, divenuta legge nell’agosto di cent’an-ni or sono. Quando a un canadese emigrato nel Missouri, Galen Clark, fu diagnosticata la tubercolosi e i medici gli

diedero poco da vivere, lui lasciò la moglie e l’umidità del Midwest e partì per la California per andare a morire — disse — nella magnificen-za vergine del West. Si fermò tra le sequoie della Sierra Nevada e all’ombra di quelle gigantesche conifere, in attesa che la tubercolosi lo consumasse, cominciò a tempestare il Congresso, e il Presidente Lincoln, con petizioni per strappare quella foresta ai taglialegna e ai cercatori d’oro. E ci riuscì.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

V I T T O R I O Z U C C O N I

Cult

NEW YORK

SIN DALLE PROPRIE ORIGINI, gran parte della migliore lette-ratura americana ha raccontato la fascinazione per la natura, creando personaggi che la sfidano interrogan-dosi sul senso ultimo dell’esistenza. Basti pensare a Melville, London e Hemingway: un approccio epico,

che nasce paradossalmente dalla relativa gioventù di quella realtà culturale. Con poche eccezioni, tra cui svetta Cormac McCarthy, la grande letteratura contemporanea ha dedicato meno attenzione a questi temi, tuttavia anche il più urbanizzato tra gli scrittori ame-ricani sente una forma di attrazione e struggimento per i grandi spazi incontaminati. Tra costoro spicca Jonathan Franzen, e il suo amore per il birdwatching.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

A N T O N I O M O N D A

L’attualità. Arundhati Roy, “Il capitalismo? Credo che crollerà” La storia. Il mondo visto attraverso la porcellana Spettacoli. Bukowski: quella sera insieme al “vecchio sporcaccione” Next. La spiaggia del futuro L’incontro. Sonia Bergamasco, dal teatro a Venezia

Ha cent’anni la legge che ha creato i Parchi

Nazionali americani, resi famosi nel mondo anche dall’orso Yoghi. Un affare

da trenta miliardi di dollari

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Repubblica Nazionale 2016-08-21

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 28LADOMENICA

La copertina. Benvenuti a Yellowstone

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the

Forrest Gump Robert Zemeckis (1994)Corsi attraverso tutta l’Alabama, e non so perché continuai ad andare. Corsi fino all’oceano e, una volta lì, mi dissi: visto che sono arrivato fino a qui, tanto vale girarmi e continuare a correre

Wild

Il Manuale delle Giovani Marmotte (1969)Se durante una passeggiata nel bosco voi e i vostri amici decidete di abbandonare il sentiero, segnate i vostri passi con vari tipi di segnali

Ranger, turisti

e animali in libertà

festeggiano

il mito made in Usa

della natura

incontaminata

Into

A Horse With No NameAmerica (1971)I’ve been through the desert on a horse with no name. It felt good to be out of the rain. In the desert you can remember your name ‘cause there ain’t no one for to give you no pain

<SEGUE DALLA COPERTINA

V I T T O R I O Z U C C O N I

Il richiamo della forestaJack London (1903)C’era il richiamo che anche ora risuonava nel cuore della foresta. Questo lo riempiva di grande agitazione e strani desideri. Gli faceva sentire una felicità dolce, elusiva

In God’s CountryU2 - The Joshua Tree (1987)Desert sky, dream beneath the desert sky.The rivers run but soon run dry.We need new dreams tonight. Desert rose, dreamed I saw a desert rose. Dress torn in ribbons and bows

Hotel CaliforniaThe Eagles (1976)On a dark desert highway, cool wind in my hair. Warm smell of colitas, rising up through the air. Up ahead in the distance, I saw a shimmering light (...)Welcome to the Hotel California. Such a lovely place

Le avventure di Huckleberry Finn Mark Twain (1884)Avevamo tutto quanto il cielo, lassù, scintillante di stelle,e ci mettevamo a guardarle sdraiati a terra, e discutevamose le aveva fatte qualcuno o se erano venute fuori così, da sole

(Get Your Kicks On) Route 66Nat King Cole (1946)Well, if you ever plan to motor west just take my way that’s the highway that’s the best. Get your kicks on Route 66 well it winds from Chicago to L.A. more than two thousand miles all the way

I POSTER

IN OCCASIONE

DEL CENTENARIO

DEL NATIONAL PARK

SERVICE,

L’ANDERSON

DESIGN GROUP

HA PASSATO

GLI ULTIMI CINQUE

ANNI A CREARE

UNA SERIE

COMPLETA

DI POSTER

DEDICATI

AI PARCHI NATURALI

D’AMERICA.

DISEGNATI

NELLO STILE

VINTAGE

DEGLI ANNI ’30,

INTENDONO

COMMEMORARE

LA NATURA

SELVAGGIA

DEL PATRIMONIO

AMERICANO.

LE IMMAGINI

IN ALTO E IN BASSO:

© ANDERSON

DESIGN GROUP

Walden ovvero Vita nei boschi Henry David Thoreau (1854)Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fattiessenziali della vita e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi

NEL 1864, MENTRE A EST INFURIAVA la guerra civile e i campi si ba-gnavano di sangue, Lincoln firmò il decreto che proclamava in-toccabile “per sempre” la Valle delle Sequoie. Era l’embrione di quello che sarebbe divenuto il sistema dei Parchi nazionali e che un altro presidente,Woodrow Wilson, avrebbe formaliz-zato per legge nel 1916.

Cento anni più tardi, il seme gettato tra le sequoia della Cali-fornia è diventato una nazione dentro la nazione, una strana e magnifica confederazione di parchi, laghi, foreste, praterie, monumenti, edifici che coprono un territorio di trecentono-vantamila chilometri quadrati, più dell’Italia. E rappresenta il background, lo schermo, ma anche il protagonista celebrato

dal cinema e dalla musica, sul quale viene proiettato il mito americano. È un patchwork cu-cito con la modestissima spesa pubblica di tre miliardi di dollari annui, quanto la Marina spende per un singolo cacciatorpediniere lanciamissile, tenuta insieme, rattoppata, accu-dita da un piccolo esercito di ventiduemila ranger professionisti, affiancati nei momenti di alta stagione da duecentomila volontari. Attratti da niente altro che dal desiderio di servi-

re i visitatori e indossare per qualche mese il cappello a tesa larga verde oliva di Ranger Smith, il protagonista dei cartoni di Hanna e Barbera eternamente alle prese con l’Or-so Yoghi e il suo complice Bubu. Per cin-quantacinquemila euro lordi di paga annua-le. Ma neppure un esercito di ducentocin-quantamila uomini e donne in verde (disar-mati a eccezione della Park Police, i ranger incaricati di far rispettare la legge) sarebbe sufficiente a tenere sotto controllo un terri-torio nel quale solo uno dei parchi, il Wran-gell St.Elias, in Alaska, potrebbe tranquilla-mente inghiottire l’intera Svizzera senza ri-schiare l’indigestione. Né badare all’equiva-lente dell’intera popolazione americana, trecentocinque milioni di visitatori che ogni anno li invade in tutte le stagioni. A proteggere i ranger provvede certamente la legge federale che stabilisce la pena di

morte per chi ne uccida uno, ma in cento an-ni è accaduto una sola volta (a assassinare il ranger fu un contrabbandiere di whisky sor-preso a trasportare merce illegale). E del re-sto in terre che brulicano di orsi, puma, ser-penti velenosi, coyotes, alligatori, grandi ra-paci e lupi nessuno dei trentatré caduti in servizio nella storia dei ranger è mai stato ucciso da un animale selvatico.

La spiegazione di questa sorprendente mansuetudine dell’animale più pericoloso, l’essere umano, in una nazione in cui la vio-lenza a mano armata è quotidianità, sta for-se nella definizione che Mark Twain, che si concesse tre giorni di campeggio solitario nello Yellowstone, in Wyoming, diede dei Parchi nazionali: “Sono per l’America quel-lo che le grandi cattedrali sono per l’Euro-pa”. Monumenti scavati non dagli attrezzi degli scalpellini e dalla fatica degli spacca-pietre, ma dalla collaborazione fra il tempo, la natura e il popolo. Insieme con la skyline di Manhattan, la baia di San Francisco e il colonnato palladiano nel pronao della Casa Bianca niente altro dice “America!” con l’im-mediatezza di quelle meraviglie naturali che formano quella che una citazione attri-buita a molti e ormai diventata proverbiale ha definito “la migliore idea che noi ameri-cani abbiamo mai avuto”. Il geyser di Yello-wstone, l’Old Faithful che, fedelmente, sprizza a intervalli regolari dalla Terra co-me fosse controllato dai ranger, la vertigino-sa ferita nel deserto dell’Arizona chiamata Grand Canyon, i monoliti della Monument Valley filmati da John Ford in territorio Na-vajo per le sue Ombre Rosse, la “Vergine del-la Nebbia” come è soprannominata la più impressionante delle cascate del Niagara, gridano “America!” con la stessa immedia-

Repubblica Nazionale 2016-08-21

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 29

Born To Be WildSteppenwolf (1968)Your motor running head out on the highway looking for adventure and whatever comes our way like a true nature’s child. We were born, born to be wild we can climb so high

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Easy rider Dennis Hopper (1969)Ah, certo: ti parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura

The Revenant Alejandro Iñárritu (2015)Quando c’è una tempesta e tu stai di fronte a un albero, se guardi i suoi rami penserai che esso cadrà, ma se guardi il suo tronco, ti accorgerai di quanto sia stabile

L’uomo che sussurrava ai cavalliRobert Redford (1998)Un milione di anni prima dell’uomo pascolavano sulle vaste praterie solitarie vivendo di voci che solo loro riuscivano ad ascoltare

GuaranteedEddie Vedder (2007)Wind in my air, I feel part of everywhere. Underneath my being is a road that disappeared. Late at night I hear the trees, they’re singing with the dead overhead...

Yoghi e BubuHanna & Barbera (1958)Eh eh eh, sono l’orso Yoghi! Bubu, mi è sembrato di vedere un cestino di merende! Oh, ci siamo persi: questo dimostra solo che noi siamo diversi dalla media degli orsi...

Into The Wild Sean Penn (2007)Vivere soltanto vivere, in quel momento in quel luogo. Senza mappe, senza orologio senza niente. Montagne innevate, fiumi, cieli stellati. Solo io e la natura selvaggia

Ma l’Americadi un tempoera più selvaggia

Sulla strada Jack Kerouac (1957)Pensa se tu e io avessimo una macchina da sogno così che cosa non potremmo fare. Lo sai che c’è una strada che va dritto fino al Messico e oltre, fino al Panama?

©RIPRODUZIONE RISERVATA©RIPRODUZIONE RISERVATA

Intervista a Jonathan Franzen

«AMO GLI UCCELLI» racconta mettendo da parte la sceneg-giatura dell’adattamento ci-nematografico di Purity «ma è un amore nato in cit-tà: una volta la mia compa-

gna Kathy mi convinse a seguirla a Central Park per un giro di birdwatching. La seguii scettico, ma nel gi-ro di poche ore vedemmo più di cinquanta specie di-verse. Non riuscivo a crederci, e ciò mi fece riflettere sul rapporto tra natura e città. Si trattò di una folgora-zione, e da allora il mio amore per gli uccelli è solo au-mentato».

Come mai gli scrittori oggi scrivono meno di natu-ra?«Nonostante quello che ho scoperto a Central

Park, l’America era un tempo molto più selvaggia. Lo scontro con una natura primordiale era un tema im-mediato e affascinante. Oggi abbiamo una realtà do-mata, tuttavia esistono autori che raccontano mera-vigliosamente la natura, ma, tranne McCarthy –la caccia alla lupa in Oltre il confine è un momento di let-

teratura altissima lungo centoquaranta pagine- è in-teressante notare che si tratta soprattutto di scrittri-ci: Barbara Kingsolver, Ann Patchett, Annie Proulx».

Questa urbanizzazione dei temi è un fenomeno ti-picamente americano?«È un fenomeno mondiale, ma non dimenticare

mai che la nostra è una terra ancora giovane, dove c’è un salto enorme tra la città e la campagna».

Quali autori hanno raccontato la natura in manie-ra più efficace? «La descrizione della campagna inglese di Tho-

mas Hardy è imbattibile. Tra gli americani mi vengo-no in mente Willa Cather e William Faulkner, anche se le sue descrizioni sono pastorali, molto diverse da quelle di Melville, per il quale la natura è antagoni-sta, un luogo da conquistare».

Esiste un modo diverso in cui uno scrittore ameri-cano descrive la natura da come lo fa un europeo o un asiatico? «Dipende dal periodo storico: James Fenimore

Cooper la racconta in modo molto differente da He-mingway. È sempre una questione di tempi e civiliz-zazione: gli europei la descrivono ad esempio molto diversamente dagli asiatici».

Il conservatore Theodore Roosevelt ha dedicato una parte rilevante della sua presidenza ai parchi nazionali: ritiene che l’ambientalismo sia una pre-rogativa di una parte politica?«Esistono ambientalisti in ogni schieramento, e so

che una regola aurea è quella di non chiedere mai le idee politiche di chi fa la tua stessa battaglia. Noto so-lo che spesso sono le classi ricche a sposare queste cause: si tratta di un lusso. Aggiungo che una trage-dia degli ultimi cinquanta anni è stato il progressivo distacco del mondo repubblicano dall’attenzione ai problemi dell’ambiente».

tezza con la quale la Grande Muraglia grida Cina o la cupola di San Pietro esclama Ro-ma. Anche le lunghe strade dritte che i cava-lieri del nulla a bordo delle loro Harley o i ri-belli senza causa hanno percorso nella nar-razione del mito americano sono, sempre, parte dei Parchi nazionali. Anche la Casa Bianca, insieme con la spianata del Mall di-venuta celebre nel mondo con il Discorso del Sogno di Martin Luther King, anche la piantagione di George Washington o la pic-cola casa a Philadelphia dell’ingegnere mili-tare polacco Taddeo Kosciuszko, che con Washington collaborò nella guerra d’Indi-pendenza, sono parte del National Park, co-sì come tutti i simboli della nazione america-na. È un portafoglio di quattrocentocinque “parchi”, con una responsabilità che si estende dalla protezione dei bisonti all’im-pianto elettrico della casa dell’ingegnere polacco, dai campi di battaglia alla carcassa della corazzata Arizona affondata a Pearl Harbor. Sotto la cupola del ministero degli Affari interni, che negli Stati Uniti non ha compiti di polizia o sicurezza, il Servizio Par-chi deve essere insieme Guardia forestale e Finanza, guida turistica e guardiacaccia, ve-terinario e infermiere, Belle Arti e Protezio-ne Civile. E Ufficio oggetti e soprattutto per-sone smarriti, spesso volontariamente, co-me le quasi mille che ogni anno si avventu-rano nelle zone più remote dei Parchi, into the wild, e poi scompaiono.

Esattamente come le loro controparti di pietra o acciaio che in altre nazioni identifi-cano la storia di quei popoli, così anche i mo-numenti naturali di granito o di arenite, di ghiaccio e di fango che formano l’identità americana, la sua fauna, la sua flora immen-sa — che soltanto nel Parco nazionale delle

Smoky Mountains, in Tennessee, presenta più di cinquecento varietà diverse di alberi e di fiori — ha bisogno di costanti cure. Pro-dotti di erosione geologica che continua, nel lavoro incessante della gravità, dell’ac-qua, del vento, del sole, aggrediti dall’inqui-namento atmosferico e oggi dai mutamenti climatici che accelerano i cambiamenti, i Parchi avrebbero bisogno di dieci miliardi di dollari di restauri, il triplo del bilancio an-nuale. Soldi che invariabilmente il Parla-mento nega o centellina per ridurre la spe-sa pubblica, risultando da tutti i sondaggi che alligatori e orsi, bisonti e lupi non vota-no. Ma la “Buona Idea” che l’America ebbe a metà del Diciannovesimo secolo, che Wil-son rese strutturale e permanente cent’an-ni fa e che Franklin Roosevelt arricchì negli anni Trenta, è esposta a un rischio ben più devastante dell’erosione e della natura, e cioè all’ingordigia di chi concupisce quel le-gname, quelle risorse, quei giacimenti fossi-li e tutte le ricchezze custodite e protette dai mitici ranger.

Eppure, nonostante tutto, oggi questi monumenti, naturali o fatti dall’Uomo, so-no una delle pochissime attività pubbli-che in attivo. Restituiscono ogni anno ai contribuenti quasi trenta miliardi di dolla-ri in biglietti di ingresso in cambio di ap-pena tre di costi. Un colossale affare, per lo zio Sam ingrato e avaro. Soprattutto un investimento che può anche ripagare in utili ben superiori a quelli misurabili in dollari e cent, come scoprì Galen Clark. Il canadese condannato a morte dalla tuber-colosi quando aveva trent’anni morì a no-vanta, salvato dagli alberi che lui aveva salvato.

Sentieri Selvaggi John Ford (1956)Noi pionieri non siamo che dei poveri esseri umani sperduti in questa landa isolata da tutti,e lo saremo per chissà quanto tempo. Ma io credo che non durerà in eterno

<SEGUE DALLA COPERTINA

A N T O N I O M O N D A

Repubblica Nazionale 2016-08-21

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 30LADOMENICA

Arundhati RoyPerché

L’attualità. In lotta

non ho paura

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Repubblica Nazionale 2016-08-21

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 31

NEW DELHI

ARUNDHATI ROY VIVE NELLA ZONA RESIDENZIALE più esclusiva di New Delhi, protetta da solide inferriate e lontana dal caos del mondo attorno che pu-re tutti i giorni ne stimola la creatività. Piccoli cartelli incollati tra le sbar-re d’acciaio della porta recitano pressappoco così: “Scusate le precauzio-ni — spero ne capirete la necessità”. È un isolamento quasi innaturale quello che circonda la scrittrice e attivista indiana al secondo piano della solida palazzina affacciata su una strada silenziosa vicina al cuore del po-tere che controlla, attraverso Narendra Modi, ventinove Stati e sette ter-ritori dell’Unione Indiana. Gli eventi attorno a lei sembrano inseguire le sue stesse profezie, sulle onde dell’intolleranza religiosa e di casta: «Que-sto è un paese ancora feudale, dove è facile dire bugie ed essere creduti da chi vive nell’ignoranza», mi dirà durante il nostro incontro. Nel tinel-

lo illuminato dalla luce provieniente dalle grandi finestre che danno su due terrazze, le sue cagnette — Begum Filthy (“regina zozza”) e Maati Lal (“terra amata”) — saltano da tutte le parti reclamando cocco-le mentre lei prepara un caffè all’italiana con miscela del Kerala, la sua terra. Le chiediamo delle sbarre e dei cartelli, e lei ci racconta della sera quando ha visto in tv un popolare giornalista e show man, celebre per le sue tirate nazionalistiche, accusarla in diretta di arrecare vergogna al suo Paese tanto da non meri-tare nemmeno di farne parte.

Dovresti esserti abituata ad essere attaccata, no?«Infatti credevo di esserlo, ma guardavo pietrificata l’uomo indemoniato che mi sgridava dallo scher-

mo come fossi la bambina cattiva al cospetto della Grande Famiglia Indiana. Vede, in molte case di questo paese, dove non arriva alcuna istruzione, si crede a tutto quel che dice la tv. E poi dovevi veder-lo, se ne stava lì, col dito puntato davanti alla teleca-mera, a darmi della sediziosa perché dico che il Kashmir non è parte dell’India o perché rifiuto di identificarmi nell’idea di una nazione ammantata di significati mistici quando è poco più di un’entità amministrativa. Sì, mi ha terrorizzata, mi ha fatto sentire accerchiata. Era la prima volta che venivo addidata come nemico pubblico in questo modo, in diretta tv».

Durante un’altra intervista mi avevi detto: “Vo-gliono spingere gli intellettuali liberi a tacere non attraverso la censura, ma attraverso la pau-ra che può incutere la folla”. «Non accade solo in India. Quando incontrai la

scrittrice musulmana Taslima Nasreen non aveva un posto dove andare dopo le verità che aveva scrit-to e detto sul suo Bangladesh. Questo è fascismo al-lo stato puro. Qui puoi parlare apertamente della Palestina e della repressione compiuta da Israele, ma non del Kashmir, un popolo a maggioranza isla-mica che l’India considera suo e che controlla con centinaia di migliaia di soldati e di paramilitari. Ta-bù è parlare male della politica di Modi e special-mente collegarla all’ideologia della sua casa ma-dre, gli ultra religiosi hindutva della RSS».

Però alcuni lo fanno, e anche piuttosto aperta-mente.«Sì, è vero, per fortuna molti intellettuali non te-

mono di esprimere il loro dissenso. Guarda quanti, me compresa, hanno restituito i premi ricevuti dal governo o da qualche istituzione culturale in segno di protesta verso il clima di intolleranza che si respi-ra. E uscire allo scoperto vuol dire che qualcosa si muove al di fuori del sistema dei partiti politici, in questo monoteismo politico e religioso che riscrive i libri di storia. Sai che ci sono gruppi di “difensori delle vacche”, così si autodefiniscono, che vanno in giro a linciare chi mangia carne bovina e a frustare davanti a tutti, dopo averli denudati, gli “intoccabi-li” che ripuliscono le pelli delle carcasse sacre?».

Vuol dire che per paura, da quella sera vivi barri-cata in casa?«No, non esageriamo, però quando esco mi met-

to sempre il velo come fanno tante tradizionaliste e come fanno le tribali (una parte del suo sangue è tribale, ndr), soprattutto per coprire questi capelli che ormai mi rendono subito riconoscibile. E poi, francamente, visto che mancano spero solo tre o quattro mesi alla fine del mio nuovo lavoro di narra-tiva, sto pensando di passarli così, in clausura».

A proposito del tuo lavoro. Sta per essere pubbli-cato a ottobre “Cose che si possono e non si pos-sono dire”, un altro dei tuoi testi a metà tra il re-portage e il saggio, frutto dell’incontro che hai avuto due anni fa a Mosca assieme all’attore John Cusack con Edward Snowden e Daniel Ell-sberg. Inoltre, stai anche finendo il secondo ro-

manzo a quasi vent’anni di distanza da “Il dio delle piccole cose” (su cui vige il massimo riser-bo: non si sa né titolo, né di cosa tratti, ndr). Co-minciamo da quest’ultimo: ci può dire di che co-sa parla? «È una collezione di storie maturate in questi ul-

timi vent’anni, che non ho affatto passato con le mani in mano. “Scrivi troppo poco, troppo poco”, mi ha rimproverato l’editore di Zed Books, ma non vedo perché tutte le altre pubblicazioni non debba-no essere considerate scrittura. La verità? Sto pen-sando che dopo questo romanzo non vorrei davve-ro più fare niente».

Niente?«Sai... in fondo io sono una persona tranquilla, e

non mi piace dipendere da quelli che si aspettano sempre qualcosa da me».

Intervistatori compresi...? Difficile immaginar-ti lontana dalla scena e dalla lotta...«Vedi, io sono cresciuta in un villaggio tra le ban-

diere rosse del Partito comunista che sventolava-no in tutto il Kerala. Eppure quando nel libro Cam-minando con i compagni raccontai il mio viaggio con i maoisti, fui attaccata da tutti i fronti per aver tradito i veri ideali del marxismo nei quali in realtà ancora oggi mi riconosco. Lo stesso accadde al tem-po de Il dio delle piccole cose. Ma nonostante il mio scetticismo verso certi partiti e movimenti, nel ve-dere il processo di decimazione delle sinistre in In-dia e tutto il mondo, l’assorbimento di Cuba e del Vietnam nella sfera di influenza americana, provo un senso di tristezza. E di allarme. I poteri forti non capiscono che quella socialista resta l’unica alter-nativa anche per loro quando il capitalismo crolle-rà, cosa che credo avverrà. Contrariamente a quan-to si pensi, la storia è uno studio del futuro, non del passato».

E la sinistra indiana dove ha sbagliato?«Nel non farsi carico dei veri problemi: del crude-

le sistema delle caste, della questione del Kash-mir, dei suicidi dei contadini indebitati. È diventa-ta una sentinella dei diritti umani invece di perse-guire la vera giustizia».

Che cosa intende?«Cos’altro sono le Organizzazioni non governati-

ve se non il sostituto delle politiche che gli Stati sa-rebbero tenuti a fornire ai propri cittadini in termi-ni di educazione, sanità e servizi? Dopo aver ridot-to in macerie interi paesi e sistemi sociali per crea-re l’attuale assetto del mondo, i soldi ritornano sot-to forma di carità per curare i disastri compiuti, e per giunta solo verso una piccola parte delle vitti-me. Peccato che molta sinistra non sembra ancora averlo capito».

Parlando del viaggio tra i maoisti e i contadini che lottavano contro le miniere, raccontò che fu un poliziotto a spiegarle qual’era il problema e anche la curiosa soluzione che proponeva.«Sì, disse che quella povera gente non conosce-

va l’avidità. E che per inculcargliela l’unico modo

era regalare a ciascuno di loro un televisore. Con le armi non sarebbero mai riusciti a sconfiggerli».

Torniamo al suo incontro con Snowden, l’uomo che ha fatto scoppiare il “datagate”, e con Ell-sberg, la Gola profonda dei segreti sporchi del Pentagono durante la guerra del Vietnam. «Quei quattro giorni a Mosca per me sono stati

un’esperienza esaltante, con sprazzi di assoluta al-legria cameratesca. Immagini: quattro cervelli di estrazione totalmente diversa, in una pomposissi-ma stanza del Carlton Hotel, a due passi dal Cremli-no, sotto l’egida di Vladimir Putin, tra milionari ubriachi e donne mezze contadine e mezze super-modelle-escort. Ed mi ha detto subito: “Lo so per-ché sei qui, per radicalizzarmi”. Ho riso, ero consa-pevole di essere con due uomini che hanno profon-damente creduto di agire nel bene. Snowden esal-tò Bush dopo l’11 settembre e salutò la guerra in Iraq perché, mi ha detto, “credevo nella propagan-da”. Ellsberg è cresciuto come tutti i bambini ame-ricani onorando la bandiera ogni mattina a scuola e da grande preparò fedelmente le prove manipola-te per un intervento in Vietnam come richiesto da McNamara. In quella stanza al Carlton, Ellsberg si è commosso recitando una poesia di Sir Walter Scott intitolata Patriottismo: “Respira con l’anima così morta l’uomo che mai disse a se stesso: questa è la mia terra nativa”».

Certo suona surreale vederla così in sintonia con due ex top dell’intelligence americana, per quanto pentiti...«Non si può non ammirarli per aver denudato

pubblicamente se stessi assieme all’ipocrisia di un governo che decide le sorti del mondo, il più delle volte sbagliando, dopo aver creato le condizioni per un attacco. Non solo in Vietnam e Iraq, in Libia, in Siria, Afghanistan, in Congo, in tutte le guerre “giuste” dell’America nate dopo il 2001, per non parlare dell’inizio della Guerra fredda. Diverse Agenzie prepararono rapporti segreti secondo i quali i sovietici avevano tra le centoventi e le mille testate missilistiche, ma erano appena quattro e malfunzionanti».

Snowden compare poco nel libro...«Per paura di urtare il leader del Paese che lo

ospita, ma c’è la sua lucida descrizione di un mon-do supercontrollato da tanti piccoli Grandi fratelli che non conosciamo eppure sanno tutto di noi. Re-darguisce chi non fa niente per non scivolare negli scenari descritti da Ellsberg sulla base di documen-ti del Pentagono, peggiori di un nuovo 11 settem-bre».

Nel libro accenni anche alla tua visita nell’am-basciata ecuadoriana a Londra dov’è rinchiuso da più di mille giorni il fondatore di Wikileaks, Julian Assange. Mi pare che tu attribuisca più a lui che a Snowden e Ellsberg l’aura dell’eroe, sbaglio?«Fu Assange ad aiutare Snowden a trasferirsi

da Hong Kong a Mosca dove oggi vive da rifugiato di lusso. Assange invece è pallido, provato: non si può stare tanto tempo senza sole e ossigeno in un dannato appartamento di Londra con le finestre sorvegliate dai cecchini. Ma non è per le sue peggio-ri condizioni di vita che lo ammiro, è perché ha avu-to il coraggio di voltare le spalle da solo e per primo all’ideologia dei poteri dominanti. Per questo lo odiano di più».

Non credi proprio al concetto di patria?«No, proprio non riesco a identificarmi con

un’entità del genere, né con l’idea di patria di Ell-sberg e Snowden. Anche dopo le sue rivelazioni, Ed si è fatto fotografare su Wired con una bandiera americana sul petto dicendomi che qualcuno gliel’aveva buttata addosso. Io non riesco a com-muovermi per un Paese, io mi commuovo davanti allo spettacolo di un fiume che scorre nella valle».

A Mosca avete parlato di guerre, di sfruttamen-to, di terrorismo, e poteri con i loro sinistri retro-scena. Una nota di ottimismo mai?«Sì, nel libro ho anche scritto che in fondo gli es-

seri umani, pure incapaci di vivere senza guerre, sono anche incapaci di vivere senza amore».

PER FORTUNA OGGIMOLTI INTELLETTUALI

NON TEMONO DI ESPRIMERE IL LORO DISSENSO. TANTI, ME COMPRESA, HANNO RESTITUITO I PREMI RICEVUTI DAL GOVERNO PER PROTESTA VERSO IL CLIMA DI INTOLLERANZA CHE SI RESPIRA

LA SINISTRA INDIANAHA SBAGLIATO NEL NON FARSI CARICO

DEI VERI PROBLEMI: DEL CRUDELE SISTEMADELLE CASTE, DELLA QUESTIONE DEL KASHMIR, DEI SUICIDIDEI CONTADINI INDEBITATI

AMMIRO ASSANGE PIÙ DI TUTTI, NON SOLO PER LE SUE DIFFICILI

CONDIZIONI DI VITA, MA PERCHÉ HA AVUTO IL CORAGGIO DI VOLTARE LE SPALLE DA SOLO E PER PRIMO ALL’IDEOLOGIA DEI POTERI DOMINANTI

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IL PERSONAGGIOARUNDHATI ROY È UNA SCRITTRICE INDIANA CHE HA VINTO IL BOOKER PRIZE NEL 1997 PER IL ROMANZO “IL DIO DELLE PICCOLE COSE”. È NOTA PER IL SUO IMPEGNO POLITICOE SOCIALE PER CUI È SPESSO OGGETTODI ATTACCHI NEL SUO PAESE. IL SUO PROSSIMO SAGGIO “COSE CHE SI POSSONO E NON SI POSSONO DIRE”, SCRITTO CON L’ATTORE JOHN CUSACK, USCIRÀ IN OTTOBRE PER GUANDA IN CONTEMPORANEA CON L’INGHILTERRA

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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R A I M O N D O B U L T R I N I

Una rara intervista alla scrittrice de “Il dio delle piccole cose”, da sempre schierata con i più deboli,

alla vigilia di un nuovo romanzo a vent’anni dal primo. “Il capitalismo? Credo che crollerà”

Repubblica Nazionale 2016-08-21

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 32LADOMENICA

Quella

UNA DELLE PASSIONI di Heinrich Himmler, a par-te la “soluzione finale”, era la porcellana. Co-me lo era stata per Marco Polo, che nel 1291 era tornato dal Catai con un fiabesco vasetto grigioverde di materiale sconosciuto in Euro-pa; per l’imperatore cinese Yongle che agli inizi del ‘400 aveva fatto costruire con l’argil-la del monte Kao-lin una torre a nove piani, dopo aver conquistato il trono sterminando la sua famiglia e quella dei suoi oppositori si-no “al nono grado di parentela”; per i re di Francia Luigi XIV e XV, che mandavano in Ci-

na i colti gesuiti anche perché tornassero carichi di incantevoli oggetti di porcellana, senza però riuscire a scoprirne il segreto; per Augusto il Forte, Elettore di Sassonia e per Carlo di Borbone re di Napoli che ne aveva sposa-to la nipote Maria Amalia. La porcellana è stata un’ossessione, una malat-tia, un vizio, un simbolo di potere e lusso. Un tempo rara e misteriosa, ha ac-compagnato la Storia: e la sua storia avventurosa e drammatica la racconta Edmund de Waal, (autore dell’inaspettato best-seller Un’eredità di avorio e ambra), l’artista inglese che l’ha scelta per le sue candide o nere opere mi-nimaliste. La strada bianca è la storia di una passione e di un pellegrinag-gio: quello di de Waal nei luoghi e nel tempo, per rintracciare l’itinerario del-la porcellana e di chi fu colpito dal fascino arcano di quel “bianco perfetto”, che nei secoli della miseria e dello sfruttamento, ha causato la morte per sili-cosi di migliaia di operai, artigiani, artisti. E, per esempio, poco dopo l’inau-gurazione, alla Tate Modern di Londra, nel 2010, l’immensa installazione di Ai Weiwei, composta da cento milioni di semi di girasole di porcellana fat-ti e dipinti a mano in Cina, è stata chiusa per motivi di salute. L’artista viag-giatore inglese da Londra va a Jingdezhen, la capitale della porcellana cine-se, da Venezia a Dublino, da Versailles a Plymouth, da Dresda ai monti Ap-palachi, territorio degli indiani cherokee, per tornare in Europa, a Dachau dal tragico passato. Racconta anche di quel 1972, quando il presidente ame-ricano Nixon porta in dono a “Sua Eccellenza presidente Mao Zedong e al popolo della Repubblica Popolare Cinese”, una coppia di cigni con i loro pic-coli a grandezza naturale, di porcellana del New Jersey: in quella Cina, in quell’antico Catai, dove la porcellana è stata inventata mille anni prima, esportata duecento anni dopo in Europa, che solo nel XVIII secolo ne ha sco-perto la formula. Il viaggio si conclude nel 2013 alla galleria Gagosian di New York, dove de Waal espone una installazione composta da duemila-quattrocentocinquantacinque vasi, uno per uno creati da lui alla ruota, usando “tutti i bianchi riusciti, tentati, consolatori, malinconici, intimidato-ri, briosi”, di cui si è innamorato. Neppure de Waal sapeva la storia della por-cellana di Allach, un sobborgo alla periferia di Monaco di Baviera, fondata nel 1935 da tre artisti appartenenti alle SS: Heinrich Himmler li finanzia, vuole porcellana nazista “di alto valore artistico” da vendere ai nazisti, da regalare ai nazisti e prima di tutto a Hitler, che ama solo statuette bianche e molto kitsch: Federico il Grande a cavallo, lo schermidore a torso nudo, sol-dati in marcia, fanciulle nude, ma anche orsi, cervi, cuccioli di volpe, cani bassotti. Alla fine del 1940, privata degli artigiani tedeschi mandati al fron-te, la manifattura viene spostata a Dachau, dove i deportati muoiono a mi-gliaia: si tratta di una forza di lavoro gratuita, di schiavi, e un centinaio ac-cetta di lavorare ai forni e alla ruota, per un po’ di cibo, di vita in più. Sono loro, i martiri, le vittime, a produrre quelle statuine di porcellana, quei ser-vizi da tè, quei vasi, su cui appongono il simbolo delle SS, il doppio fulmine runico. Pochi giorni prima che nell’aprile del 1945 le truppe americane en-trino in quell’immenso luogo di annientamento che è Dachau, la fabbrica viene chiusa, i pezzi di firma nazista seppelliti, gli stampi salvati: un paio di anni dopo verrà ripresa nella zona occupata dagli americani la produzione di cagnolini e orsi e Bambi della Allach, senza il simbolo runico. La fabbrica ha naturalmente cambiato il nome ma non il responsabile, che da un gior-no all’altro, da Hauptsturmführer Karner è diventato Herr Karner, da SS a cittadino qualsiasi. È in Germania che è nata la prima vera porcellana euro-pea: l’ha voluta cocciutamente Augusto detto il Forte, Elettore di Sassonia, grande sprecone, con le sue innumerevoli amanti (solo due mogli) e la pas-sione del lusso: e per esempio dorme in una camera tappezzata di piume

sottile linea

N A T A L I A A S P E S I

Dal lontano Catai alle SS

di Himmler, il mondo

raccontato dalla porcellana

bianca

La storia. Annales

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esotiche. Dice di essere contagiato dal “virus ceramicus”, ha finanziato e te-nuto come prigionieri perché altri regnanti non li rapiscano, il matematico Tschirnhaus che da vent’anni ci prova e che finirà per lasciarci la vita, e il giovane alchimista Böttger, che diceva di saper mutare vili materiali in oro. Non è vero ovviamente, ma all’ennesimo tentativo, i due ottengono final-mente quello che viene chiamato oro bianco, la vera porcellana dura di cui solo i cinesi conoscevano gli enigmi, o qualcosa di identico: una scintillante, perfetta teiera bianca non meno preziosa di quel che arriva dall’Estremo Oriente, dalla Cina ma anche dal Giappone e dalla Corea. Augusto è final-mente appagato e il 24 aprile del 1708 firma il decreto che fonda la manifat-tura di porcellana di Dresda, la prima dell’intero Occidente: da lì escono le meraviglie di Meissen. Ma Augusto non si accontenta; e nel 1717 perde la testa per grandi vasi cinesi di epoca remota, bianchi e blu, che Federico Gu-glielmo I di Prussia e Brandeburgo non vuole vendergli: però, alla fine, ac-cetta di barattarli con un reggimento di seicento dragoni, “uomini in cam-bio di porcellana”. Ormai la porcellana non è più un segreto e nei palazzi no-bili d’Europa si costruiscono salottini tutti foderati con le diverse porcella-ne ottenute da argille bianche trovate nei diversi paesi, o importate. Persi-no dall’Australia. A Vienna dal 1718, a Chantilly dal 1725, a Doccia dal 1735, a Capodimonte dal 1743, a San Pietroburgo dal 1744, a Chelsea dal 1745: entro la fine del XVIII secolo ovunque si moltiplicano le produzioni d’arte e domestiche. E l’Inghilterra? È diventato re Giorgio I, che è un prin-cipe tedesco, viene da Hannover, ha portato con se la servitù, il cuoco e qual-che servizio di Meissen, ma della porcellana non gliene importa niente. Co-sì il suo regno è il primo in cui le manifatture di porcellana non sono volute e protette dalla casa reale o dai grandi aristocratici, come invece dovunque, anche in Francia: dove il Duca di Orleans ha fondato i laboratori di Saint-Cloud, il Principe di Condè quelli di Chantilly; il re Luigi XV quelli di Sèvres, diventati manifattura reale, la sola cui è permesso usare l’oro. I ric-chi servizi da tavola, da tè, da caffè e da cioccolata invadono ormai anche le dimore della borghesia opulenta. Nel Regno Unito le manifatture di porcel-lana nascono senza privilegi nobiliari, sono il rischio di ricercatori e produt-tori privati che non sempre ce la fanno, come il quacchero William Cookwor-thy, che lavora decenni per scoprire la formula giusta, le giuste proporzioni di caolino e petunzè, un tipo di feldspato di cui è piena anche la Cornova-glia, il giusto altissimo calore dei forni, ma poi non trova chi lo finanzi. Men-tre avrà grande fortuna l’abile Josiah Wedgwood che ha inventato la cream-ware, una ceramica color avorio che non è proprio una porcellana, ma è mol-to bella: consegna un primo servizio a Carlotta di Meclemburg, regina con-sorte di re Giorgio III, che consente di battezzare la produzione di Sto-ke-on-Trent ”Queen’s wave”, ceramica della regina. C’è anche una storia che assomiglia a quella di The revenant-Il ritorno in cui Leonardo Di Caprio, premio Oscar per l’interpretazione, cacciatore di pelli del primo Ottocento nei territori degli indiani americani, sopravvive ad ogni orrore della natura e degli uomini. Il 16 luglio 1767 un avventuriero inglese, Thomas Griffiths, si imbarca per l’America, naviga per due mesi, arriva a Charleston e da lì si inoltra verso il territorio cherokee, molto pericoloso; abitato, come scrive, da “questa strana gente color rame” molto battagliera, infestato da bandi-ti, da cacciatori spietati, da animali feroci, tra tempeste e gelo, e finisce pu-re in galera. In novembre finalmente raggiunge il monte Ayoree, da cui si può estrarre la preziosa polvere bianca. Ne ottiene cinque tonnellate e riparte verso Charleston: è la fine di dicembre, il viaggio sarà terribi-le. Griffiths e la polvere bianca richiesta da Wedgwood, sbarcano in Inghilterra nell’aprile del 1777. Nei secoli le manifatture di Jingde-zhen continuano a produrre per il mondo, anche ora a prezzi “cine-si” da supermercato. Però, quando nel maggio 1966 Mao annun-cia la Rivoluzione Culturale, anche la porcellana è il passato da di-struggere, le Guardie Rosse fanno a pezzi i laboratori, bastona-no i vasai. Ma poi ci si accorge che le spillette di porcellana con l’effige di Mao costano meno di quelle di metallo, e bisogna far-ne milioni e milioni, e anche statuette del Grande Timoniere, il tutto sottoposto a rigidi controlli. Nelle case della nostra borghesia spiritosa, che già ha comprato il Libretto Rosso, entrano i primi Mao bianchi ormai da collezione. Adesso nei mercatini ci sono decine di diversi Mao colorati e non più minacciosi né preziosi né ambiti.

FRAMMENTI DI WILLIAM

COOKWORTHY

COCCI RISALENTIAGLI ESPERIMENTIDI COOKWORTHY (1768)CON LA PORCELLANA

PORCELLANA

DI ALLACH

MARCHIO BAVARESE(1935) PER STATUETTE DONO DI COMPLEANNO DI HIMMLER A HITLER

BROCCA YONGLE

BROCCA CINESE A CAPPUCCIO DI MONACO DI EPOCA YONGLE (1403-25)

IL LIBRO

“LA STRADA BIANCA” (413 PAGINE 20 EURO,TRADUZIONE DI CARLO PROSPERI) DELL’ARTISTA E SCRITTORE EDMUND DE WAALSARÀ IN LIBRERIA DAL PRIMO DI SETTEMBRE.NELLA FOTO: DE WAAL CON UNA SUA OPERA NELLO STUDIO DI LONDRA INSIEME AL CANE ISLA

TAZZINA

DI MEISSEN

UNO DEI PRIMI ESEMPI EUROPEI DI PRODUZIONE DI PORCELLANA (1715)

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 34LADOMENICA

LOS ANGELES

“UMANITÀ, NON LO SEI MAI STATA”. Sono le parole che chiudono una famosa poesia di Charles Bukowski, e sono anche quel-le che hanno ispirato un breve documen-tario basato su un’intervista che feci al-lo scrittore e poeta americano nel gen-naio del 1981 e che ora sarà presentato fuori concorso per le Giornate degli auto-ri al Festival di Venezia.

You Never Had It — An evening with Charles Bukowski si intitola, ed è un do-cumentario che mi ha ovviamente ripor-

tato indietro negli anni, quando ero agli inizi della mia carriera di giornalista a Los Ange-les e avevo da poco finito il mio dottorato di ricerca alla Ucla. La mia passione erano gli scrittori della Beat generation: Jack Kerouac, Allen Ginsberg, John Fante e l’allora famo-sissimo Charles Bukowski. Avevo spedito una lettera presso la sua casa editrice, la Black Sparrow Press, e dopo qualche tempo ricevetti una sua risposta, col disegnino dell’omino che fuma con la bottiglia a terra con cui sempre accompagnava la sua firma. Ci mettem-mo d’accordo per un’intervista e diventò la prima di tante, dando il via a un’amicizia dura-ta anni, fino a quando la nascita di mio figlio Matteo, giusto trent’anni fa, pose fine alle ine-vitabili notti di vino e di fumo (di solito le Bidi, quelle indiane) cui la presenza di Bukowski costringeva.

In realtà a lui ero arrivata già due anni prima grazie a una mia grande amica a cui il do-cumentario è dedicato: Fernanda Pivano. Fu lei, nel ’79, a chiedermi di accompagnarla nella casa di San Pedro dove Bukowski abi-tava. Mi impressionò il modo in cui lui la ri-cevette quel pomeriggio: sulla porta di ca-sa le baciò la mano da vero gentiluomo, poi con la sua futura moglie Linda Lee Beighle ci fece accomodare in salotto, servendo tè e chiacchierando amabilmente di letteratu-ra, del suo stato di salute, della vita a San Pedro.

Hank, così lo chiamavano gli amici, vive-va con Linda Lee in una casa su due piani con vista sul porto, con un grande giardino e in una stradina tranquilla. Una ca-sa bohémienne, con un grande e como-do divano, tante pol-trone, un ampio ta-volino da caffè sem-pre pieno di portace-neri stracolmi, bot-tiglie di vino, cara-melle. Gli scaffali, invece, erano pieni di libri, soprattutto quelli scritti da Bukowski, tutte le edizioni straniere in cui era stato pubblicato, e dap-pertutto i suoi disegni realizzati per ogni li-bro che scriveva. La cucina, grande, dava sul salotto e la camera da pranzo era piena di piante, felci soprattutto, appese ovun-que. E poi gatti, tanti gatti che giravano tranquillamente dentro e fuori l’apparta-mento.

Linda Lee, che all’epoca aveva un nego-zio di sandwich biologici (iniziava la moda dell’organic e del cibo salutare e il negozio si chiamava il Dew Drop Inn, a Redondo Beach) vive ancora in quella casa, sempre circondata di gatti, forse i figli dei figli dei gatti che Bukowski aveva amato tanto. Di tanto in tanto va a visitarlo nel vicino cimi-tero di Green Harbor, dove una semplice la-pide blu sulla sua tomba dice “Hank 1920 — 2004 Don’t Try”. Non provare.

Furono anni di lunghe chiacchierate. Lui si alzava tardi, poi andava all’ippodromo, alle corse, e solo quando rientrava, di sera, si poteva andare a trovarlo. Mi raccontava che le femministe lo odiavano perché legge-vano solo alcune delle cose che lui scriveva, e che poi si infuriavano perché non riusciva-

no ad andare avanti. Mi diceva anche che non gli piaceva la sinistra americana: «So-no solo dei bambocci ben nutriti che urlano slogan. Alla maggior parte di loro interessa soltanto trovarsi un lavoro, o la marijuana, o la cocaina, o andare in discoteca. La sini-stra americana è una straordinaria stronza-ta fatta di pance bianche che vengono dal nulla». L’unica cosa davvero radicale in America è l’iperbole dei mass media, dice-va quando gli contestavo le sue idee. Con Hank era una continua sfida: «Sì, sono mol-to egoista», diceva, «non voglio salvare il mondo né le balene». L’alcool, ammetteva, è una fuga, ma «è un dio piacevole, che ti permette di suicidarti, di risvegliarti e di uc-ciderti di nuovo».

Era difficile, Hank, e il vino non aiutava: nell’84 sposò Linda Lee, ero andata al loro matrimonio festeggiato in un ristorante di San Pedro dove lui s’era messo in testa il cappellino di Linda e brindava e ballava con i pochi amici invitati; poi la sera stessa, a casa, eravamo rimasti ancora in meno, e l’alcool riprese il sopravvento facendo riaf-fiorare la sua rabbia contro Linda, che lo amava ma che lui accusava di averlo sposa-

&Il documentario

Si intitola “You Never Had It.An Evening with Charles Bukowski” il documentario di Matteo Borgardt che verrà presentato come evento speciale fuori concorso nelle Giornate degli Autori al Festival del cinema di Venezia. Frutto di una co-produzione italo-messicana per Alevi e Itaca Films, il documentario sarà proiettato il 2 settembre

L’autrice

Silvia Bizio da più di trent’anniscrive di cinema da Los Angelesper “La Repubblica” e per “L’Espresso”

Io

Spettacoli. Maledetti

S I L V I A B I Z I O

Bukowski

LE IMMAGINI

TRE MOMENTI

DELLA SERA

DELL’INTERVISTA,

IL 10 GENNAIO 1981,

A CASA BUKOWSKI,

A LOS ANGELES,

UNA LUNGA SERATA

PASSATA

A BERE MOLTO VINO.

IN BASSO,

LA CAMERA DOVE

HANK SCRIVEVA.

AL CENTRO

SILVIA BIZIO

AL MATRIMONIO

DI BUKOWSKI.

A SINISTRA,

DUE SCHIZZI

DELLO SCRITTORE

CON IL DISEGNINO

DELL’OMINO

CHE FUMA

CON LA BOTTIGLIA

IN TERRA CON CUI

ACCOMPAGNAVA

LA SUA FIRMA

Mettendo ordine in garage la nostra

Silvia Bizio ha trovato alcune vecchie

videocassette. E così una lunga serata

dell’81 a parlare di alcol, vitamine

e sinistra americana col “dirty old man”

della beat generation

è diventata un documentario

Repubblica Nazionale 2016-08-21

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 35

to per interesse — ovviamente tutte cose in cui lui per primo non credeva, ma l’alcool svegliava la bestia.

L’intervista che è alla base del documen-tario venne registrata il 10 gennaio del 1981. Andai a casa sua con una troupe, tre persone per cinepresa, suono e luci. Quella che doveva essere una cosa al massimo di un paio d’ore si trasformò in una lunga sera-ta in cui si continuò a bere (Hank amava il vino rosso, Petit Sirah soprattutto, ora che se lo poteva permettere dopo anni in cui aveva bevuto solo birra). A un certo punto lo convinsi perfino ad andare al piano di so-pra, nella sua camera, dove scriveva sulla sua vecchia macchina che per scaramanzia non voleva mai cambiare, e poi sul balcone e poi nella sua camera da letto: mi sedetti e, quando notai quanto era duro il materas-so, lui, finendo di fumare una sigaretta il cui mozzicone poi buttò regolarmente a ter-ra, disse: «Non so, Linda ha portato questo maledetto materasso quando è venuta a vi-vere con me...».

Quella sera si aprì come raramente era successo, almeno a me, rivelando aspetti di sé che non immaginavo. Come la scelta di non fare più sesso fatta da lui e da Linda. E poi i suoi commenti sugli scrittori. Pochi si salvavano: Céline, Dostoevskij, D.H. Law-rence, Camus, e sopratutto John Fante, che aveva scoperto in una biblioteca di Los Angeles sfogliando fra le pagine dei con-temporanei. Parlammo di corse di cavalli, di vitamine, della morte e a un certo punto del libro che stava scrivendo, che poi sareb-be diventato Panino al prosciutto (Ham on Rye), pubblicato nel 1982: il libro più diffici-le, diceva, sulla sua infanzia brutta e violen-ta, il legame fra le cinghiate che regolar-mente riceveva dal padre, un militare dell’esercito che era stato di base in Germa-nia (dove Hank era nato), e la scrittura.

Participò a quella serata il suo fotografo ufficiale, Michael Montfort, morto anche lui più di dieci anni fa. Tantissime delle im-magini e del sonoro erano rovinate, total-mente incomprensibili, mentre altre erano soltanto sgranate, disturbate, e quindi an-cora utilizzabili. Solo quando mio figlio Mat-teo, oggi filmaker, ritrovando per caso quel-le nove cassette Umatic dentro una scatola dimenticata per così tanti anni in garage, mi disse che avrebbe voluto farne un docu-mentario, mi sono accorta con una certa sorpresa di quanto il nome e i libri di Char-les Bukowski abbiano ancora una così am-pia risonanza tra le giovani generazioni. Quanti giovani artisti, musicisti, fotografi, filmaker si dicono appassionati di Bukow-ski. Nel documentario le immagini origina-li si fondono a quelle nuove che Matteo e i suoi amici fotografi hanno girato di Los An-geles con una vecchia Super8, mentre la musica è stata composta da due diverse band californiane, Young The Giant e Tra-velers.

È un piccolo miracolo sentimentale quel-lo che Bukowski, oggi come quarant’anni fa, continua a provocare. Quanto a me, quella serata con Hank nel gennaio dell’81 rimarrà per sempre. Credo di essere stata fortunata ad aver ritrovato quelle cassette prima che il tempo potesse distruggerle ir-reparabilmente. Soprattutto, credo di esse-re stata fortunata di poter condividere con altri la mia straordinaria serata con Char-les Bukowski.

L’INTERVISTAAVREMMO DOVUTO CAVARCELA AL MASSIMO IN UN PAIO D’ORE, E INVECE PASSAMMO LA SERA A BERE VINO ROSSO ORA CHE AVEVA UN PO’ DI SOLDI, PETIT SIRAH SOPRATTUTTO, A FUMARE SIGARETTE INDIANE E A CHIACCHIERARE DI TUTTO E A LITIGARE SU TUTTO. IN SALA C’ERA UN TAVOLINO PIENO DI BOTTIGLIE E DI PORTACENERI STRAPIENI DI CICCHE. CON HANK ERA UNA CONTINUA SFIDADICEVA SEMPRE: SÌ, SONO MOLTO EGOISTA E ALLORA? IO NON VOGLIO SALVARE IL MONDO NÉ TANTOMENO LE BALENE

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DOMENICA D’AGOSTO. LA CITTÀ È SEMIDESERTA, calda, noio-

sa. Telo, costume, infradito e via: siamo in spiaggia. Ciambella e braccioli sotto l’ombrellone, ci tuffiamo. Proprio mentre abbozziamo una “ranocchia” sbilen-ca imparata da bambini, in lontananza c’è qualcosa che vola alto. Avanti e indietro, lungo la costa. Non abbiamo le allucinazioni, non abbiamo preso un’inso-lazione. Un drone veglia sulla nostra sicurezza, su quella delle spiagge più isolate, sulla vegetazione sel-vaggia esposta agli incendi e sulle imbarcazioni. Sen-za rendercene conto, ci stiamo allontanando troppo dalla riva. È che in acqua il tempo scorre sempre più

veloce. Occhio, si è alzato il vento e le onde sono diventate difficili da gestire. Niente panico però: al polso indossiamo un bracciale dotato di bussola e fischietto con un cu-scino autogonfiante che ci mantiene a galla.

«Abbiamo salvato la pellaccia», direbbe Marco Baratella, il paramedico milanese che sta portando in Italia questo genere di apparecchi. Il braccialetto galleggiante che ci ha aiutato in mare poco fa si chiama Kingii: approdato quest’estate dopo aver raccolto 365 mila euro in soli sei mesi con una campagna di crowdfunding su Indiego-go, è già protagonista di un progetto pilota con i bagnini di Ravenna. Ideato dal cali-forniano Tom Agapiades, scosso dalla morte per annegamento di un suo caro amico, resiste a punture e a tagli e supporta fino a centotrenta chilogrammi di peso. Co-me lui, ne arriveranno altri. Un’ondata, questa volta non pericolosa, di nuovi di-spositivi sviluppati per la sicurezza e la prevenzione, ma anche per il divertimen-to e lo sport, ci sta travolgendo. Probabil-mente non diventeremo campioni olim-pionici come Michael Phelps, o abili soc-corritori alla Baywatch, ma potremo alle-narci tenendo costantemente sotto con-trollo le nostre prestazioni oppure fare il bagno in mare, lago e piscina certi di es-sere protetti il più possibile.

Non solo droni e bracciali galleggian-ti, dunque. Anche boe “intelligenti”, co-stumi performanti, cuffie per non veden-ti, maschere per scattare foto 3D e realtà virtuali per incoraggiare i bambini a non avere paura dell’acqua.

Il mercato si sta dirigendo soprattutto verso oggetti indossabili sempre più sofi-sticati, piccoli e leggeri, completi e resi-stenti, sempre meno invasivi e sempre più adattabili ai ritmi quotidiani. In una parola: “smart”. Sono dotati di sensori fi-sici, di applicazioni e di connettività auto-noma che determinano l’accuratezza delle loro misurazioni e il loro appeal, nonché il valore economico. Le stime del Global Swimming Gear Market 2016-2020, dell’agenzia di ricerca britan-nica Technavio, sono piuttosto chiare a proposito: entro i prossimi quattro anni, il business globale di attrezzatura per il nuoto varrà oltre trentuno miliardi di dol-lari. Grazie alla crescente popolarità dell’attività sportiva, l’industria si sta concentrando sull’innovazione dei pro-dotti e sull’introduzione di design e di sti-le seguendo gli ultimi trend della moda. Le future implementazioni saranno rin-

tracciabili tutte in un solo, piccolo dispo-sitivo: miniaturizzazione, convergenza, trasportabilità, comunicazione in tempo reale sono le principali caratteristiche. Esempi? Nel corso di un allenamento, po-tremo monitorare ogni nostra movenza al fine di ridurre lo sforzo e massimizza-re la prestazione, semplicemente indos-sando un costume sensorizzato e idrore-pellente, uno smartwatch resistente fi-

no a quaranta metri in immersione, o un piccolissimo gadget incastrato agli oc-chialini con feedback audio immediato. Nuoteremo a ritmo costante in completa sintonia con l’acqua, respirando con un boccaglio che compensa gli squilibri mu-scolari tra le spalle e con auricolari per Mp3 capaci di ridurre al minimo ogni ru-more esterno utilizzando la conduzione ossea dello zigomo.

Grazie ai dispositivi del nuoto hi-tech avremo a portata di mano ogni tipo di da-to che riguarda le nostre attività: il nume-ro di vasche percorse, la frequenza car-diaca e respiratoria, la pressione sangui-gna, la velocità, il tempo trascorso, la ca-denza e la qualità delle bracciate, le calo-rie bruciate, lo stile di nuoto e l’efficacia della virata. Tra una pinnata e l’altra, dei sensori posti vicino alla nostra tempia, dietro alla testa o sulla schiena, rileve-ranno una serie di informazioni che l’In-ternet delle cose memorizzerà e scam-bierà tra dispositivi interagenti, sfrut-tando la diffusione di connettività wi-fi, Bluetooth Smart, Nfc e Gps. Ciò vuol dire che potremo modificare all’istante i mo-vimenti in acqua, correggere la “ranoc-chia” sgraziata per trasformarla in una magnifica “farfalla” e sviluppare un pro-gramma di allenamento per quando avremo imparato ad usare la tavoletta. Così, la prossima volta che andremo al mare, faremo una bella figura. Senza af-fogare.

E a proposito di annegamenti, proprio dagli Stati Uniti stanno arrivando gad-get indossabili anche dai più piccoli. Con-nessi allo smartphone dei genitori o a ri-cevitori esterni, lanciano allarmi lumino-si e sonori quando il bambino tocca l’ac-qua o rimane in immersione per troppi secondi. Del resto, la morte da annega-mento sta diventando un fenomeno tal-mente rilevante da richiamare l’atten-zione anche delle aziende high tech: è tra le prime cinque cause di mortalità in-fantile tra gli uno e i quattordici anni in ben quarantotto su ottantacinque paesi al mondo, Italia compresa. Numeri della

Non la

spiaggiasolita

P I E R A F E D U Z I

Lanciata dall’Atlantic Shark Conservancy per notificare ai bagnanti la presenza di squali bianchi vicino a Cape Cod

Blind Cap avvisa l’atleta non vedente dell’avvicinarsi del termine della vasca con una vibrazione

Garmin Swim mostra in tempo reale i dati relativi alla nuotata condivisibili con la community online di 80 milioni di nuotatori

Il braccialetto L’app

Xmetrics monitora l’allenamento e invia feedback audio real-time. Sincronizza automaticamente i dati con tablet e smartphone

Il chip che lancia l’allarme in caso di pericolo

la muta antisqualo, la boa “smart”. L’industria

hi-tech è alla ricerca di soluzioni performanti

o anche solo “safe” per nuotatori da vasca

e da ombrellone. Eccone alcune. Geniali

Gli occhialini

Powerbreather ha doppio tubo simmetrico per respiraresenza riemergere dall’acqua e affaticare il collo e le spalle

Un mare di invenzioniin acque più che sicure

Stealth Wetsuit di HECS Aquatic rende “invisibili”. Isola il 95% delle onde elettriche del corpo umano percepibili dagli squali

Aquarius, performante e idrorepellente, aumentala velocità, il galleggiamento e il controllo, riducendo la fatica

Finis Neptune si agganciano agli occhialini e trasmettono i suoni all’orecchio tramite conduzione ossea dello zigomo

Clever Buoy è dotata di sonar e lancia un allarme tramite sistema satellitare e Google Plus se rileva squali nelle vicinanze

Gli auricolari La boaKingii è un salvagente da polso con bussola, fischietto e un cuscino auto-gonfiante dalla durata di 48 ore

La cuffia Lo smartwatch

Next. Vacanze smart

LE NOVITÀ

Il boccaglio

La muta

Il costume

Repubblica Nazionale 2016-08-21

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 37

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World Health Organization confermati dai rapporti del nostro Istituto Superiore di Sanità: i decessi in acqua si assestano a quattrocento casi all’anno con un tasso di mortalità media attorno ai sette per milione di abitanti.

Molto presto la tecnologia integrerà le attuali strategie di prevenzione e di in-tervento. «Ma non sarà un’alternativa», sostiene Giuseppe Marino, presidente

della Società Nazionale di Salvamento: «Non si può parlare davvero di sicurezza in acqua senza assicurare la presenza di persone che sappiano prestare soccorso. Affidiamoci pure ai droni, ma al contem-po cerchiamo di usare al meglio ciò che già abbiamo». O dovremmo avere. I ba-gnini, per esempio. Un miraggio sul ses-santa per cento delle spiagge italiane.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

iSwimband è indossato dai bambini e avvisa i genitori via smartphone se entrano in acqua o vi restano troppo a lungo

L’allarmeSmart Swimming Goggles offre informazioni sull’ambiente marino, identifica e comunica con gli altri sub e scatta foto 3D

Comparso dapprima in Australia per proteggere bagnanti e surfisti da attacchi di squali, è utile per vigilare sulle coste

La maschera Il drone

Repubblica Nazionale 2016-08-21

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 38LADOMENICA

Crema di ceciCeci lessati,

spadellati

e frullati

con foglioline

di menta e qualche

goccia di limone.

Nella versione

libanese (hummus)

dentro anche cumino

e crema di semi

di sesamo (tahin)

ParmigianaIn versione integrale

con melanzane fritte, light — cotte

in antiaderente

— oppure

originaria (senza mozzarella).

Da gustare il giorno

dopo la preparazione,

a temperatura

ambiente

Pomodori ripieniDoppia declinazione:

la polpa senza semi insieme a caprino

fresco, capperi

e basilico, oppure

riso integrale bio

con dadolata

di zucchine, carote

e melanzane.

Sopra, pois

di maionese

Insalata di farroI chicchi lasciati

callosi in cottura

per accogliere condimenti diversi,

da pesto genovese

e datterini maturi

ai cubetti di primo sale

e scamorza

con olive,

pinoli e verdure

grigliate

CapresePomodori

cuori di bue maturi, tagliati in fette

consistenti,

conditi con un filo

d’olio, una fogliolina

di basilico

e pochissimo sale (meglio senza).

Sopra, mozzarella

o fiordilatte

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LA DIETA PIÙ FACILE DELL’ANNO. Non costa (anzi), non impegna, non richiede sacrifici. Se la grigliata di carne e/o pesce è stata a lungo parte integrante della cartolina vacanziera, il fronte del no-barbecue estivo avanza compatto e allegro, trionfante gra-zie alle voci autorevoli di dietologi ed ecologisti. Niente di asso-luto o definitivo e soprattutto niente integralismi da pasdaran della proteina vegetale. Semplicemente, la scelta di trasforma-re la celebrazione della costoletta in passerella dell’orto, con uo-va e formaggi a rinforzare le fila degli ingredienti in gara.

In queste settimane terrazzi e balconcini, giardini e davanza-li danno il meglio di sé, in un tripudio di colori e maturazioni. Fioriscono il basilico (a scapito delle foglie, una piccola iattura)

e le zucchine, che sembrano non smettere più di sbocciare. I filari di pomodori gronda-no rosso, le melanzane si vestono da sera nel loro seducente viola-nero, i peperoni pas-sano dal verde al giallo al rosso senza soluzione di continuità. E poi la frutta, ormai sdo-

Sapori. Della terra

L’appuntamento

A Langhirano il 2 e 3 settembre Festival del Prosciutto

di Parma, con laboratori del gusto, incontri, visite

ai prosciuttifici e degustazioni comparate dei “cugini” crudi

in arrivo dal resto d’Italia e dal mondo. Anteprima

a Parma il 27 agosto

NESSUN INTEGRALISMO DA PASDARAN

DELLA PROTEINA VEGETALE MA SOLO

LA SCELTA DI TRASFORMARE

LA CELEBRAZIONE DELLA COSTOLETTA

IN PASSERELLA DELL’ORTO

CON POMODORI, FARRO, ZUCCHINE,

PEPERONI, FRUTTA,MELANZANE.

SPECIAL GUEST: UOVA

E MOZZARELLE

Il libro

Si può richiedere gratis sul sito della rivista “Il Salvagente”

il nuovo libro-inchiesta “Extravergine per davvero”,

che racconta l’ultimo scandalo e la condanna dell’Antitrust

per pratica commerciale scorretta nei confronti

di alcuni grandi marchi

La novità

Si chiama Tony la nuova app italiana che permette di accedere ai menù

dei ristoranti selezionati, scegliere i piatti e ordinarli

direttamente. Anche il conto è accessibile dallo smartphone: si paga con un clic utilizzando

la propria carta di credito

piatti

Agosto greenUn’estate senza carneche vien dalla campagna

L I C I A G R A N E L L O

Repubblica Nazionale 2016-08-21

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 39

PanzanellaIl riciclo del pane raffermo toscano (sciapo), ammollato, strizzato, sgranato con le mani, lavorato con pomodori, cetrioli, cipolla, olio, pepe, sale e aceto rigorosamente di vino

Scammaro Per la non-frittata di magro, la pasta avanzata ripassata con aglio, olio, capperi, olive nere e peperoncino, dorata e compattata schiacciandola sul fondo della padella. Prezzemolo alla fine

SangrìaVino rosso poco tannico insieme a pesche, arance, limoni, stecche di cannella, chiodi di garofano e zucchero (poco), battezzato con un bicchierino di Cointreau o Grand Marnier

CaponataSoffritto di sedano e cipolla, poi aggiungere pinoli tostati, capperi, olive e basilico. Dentro le melanzane a tocchetti infarinate e fritte, poi salsa di pomodoro, aceto e zucchero. Far riposare

Anguria o CocomeroIl Cucumis Citrullus, rinfrescante e ipocalorico - 3,7 mg per 100gr - è perfetto per l’estate: vitamine (A, B, C), fosforo, potassio e magnesio (anti-crampo). Con zucchero, amido e gocce di cioccolato, si trasforma nel delizioso gelo siciliano

Pesche ripieneBen mature, tagliate a metà e denocciolate. Nell’incavo, insieme alla polpa, burro, zucchero, amaretti e tuorli, poi in forno. Cacao o fondente grattugiato nell’impasto o alla fine

©RIPRODUZIONE RISERVATA

ganata dal ghetto della sezione dolci, grazie alle architetture golose a base di pesce cru-do. L’Italia intera trasformata nel paese di Bengodi formato green, anche grazie all’al-ternarsi di acquazzoni e sole cocente, come nemmeno il più premuroso dei giardinieri.

Comincia dal cesto delle verdure, il menù dell’estate vegetariana. La divisione tra va-canzieri e cittadini perde di significato, perché basta evadere qualche ora dal tran tran quotidiano per approvvigionarsi in campagna. Dalla Val d’Aosta alla Sicilia, agrituri-smi e fattorie didattiche si propongono nella doppia veste di ristoranti e fornitori di ma-terie prime, senza dimenticare i mercati contadini e perfino le bancarelle lungo le pro-vinciali di chi vende le eccedenze del proprio orto.

L’ideale è fare la spesa prima di scegliere il menù. Perché se i pomodori sono “indie-tro”, inutile pensare di proporre la caprese, se i peperoni sono sani e croccanti vale la pe-na organizzare una doppia teglia in forno per sbucciarli facilmente e fare una pepero-nata monumentale, magari frullandone una parte da spalmare sui crostini. In quanto alle uova, diffidare da capannoni e mangimi, gusci giganti e rossi supercolorati. Le gal-line felici becchettano a piacimento, fanno uova tendenzialmente piccole, dai tuorli non necessariamente arancioni, ma dalla consistenza definita e cremosa.

Altra tappa d’obbligo, quella nelle malghe, alla caccia dei più buoni formaggi del mondo, quelli da latte di pascolo. I francesi dividono le due tipologie, ovvero di pianura e d’alpeggio. Le grandi tome della Savoia appena tagliate esibiscono minuscoli pois vio-letti: sono i pistilli delle genziane, che si ossidano scomparendo nel tempo di un sospi-ro, testimoni effimeri ma straordinari della golosità delle mucche libere. Al sud si va per mozzarelle, scegliendo le aziende che lavorano il latte crudo, garanzia di stalle puli-te e passione infaticabile. Infatti, se pastorizzare e congelare permette di gestire i tem-pi della produzione, lavorare il latte crudo significa alzarsi per filare e mozzare tutte le notti, nessuna esclusa. Se questi sono gli ingredienti, impossibile sbagliare: vi aspetta un finale d’agosto da gran gourmet. A fine pranzo, l’unico fastidio sarà caricare la lava-stoviglie.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

L’ipocaloricoaddio alleabbuffate in spiaggia

SE L’ESTATE AL MARE è lo

specchio fedele della

mutazione antropologica

italiana, la tavola è la sua

scena chiave. Dalle

colazioni al sacco dell’era fascista ai

nostri apericena pieds dans l’eau.

Fino agli anni Trenta, quando

vengono introdotte le ferie retribuite,

i ricchi erano i soli a potersi

consentire la villeggiatura. Con i suoi

sontuosi annessi gastronomici, quelli

che Goldoni descrive nella sua

Trilogia. Gli altri al massimo si

permettevano una scampagnata. A

base di abbuffate e zingarate,

processioni e indigestioni, balli e

sballi. La vera svolta arriva negli anni

del Sorpasso e del miracolo

economico, quando cabine,

ombrelloni e rotonde sul mare

diventano tutto un banqueting.

Allora un’Italia ex povera, ma bella

nonostante il sovrappeso, esorcizza lo

spettro della miseria a forza di

fettuccine, abbacchio e cocomero.

Cerimonie caloriche officiate da

imponenti madri matrone, mentre

pupi e consorti sguazzano tra le onde

come tritoni-chiattoni.

Poi si entra nell’era dell’insalata di

riso e della pasta fredda, sorelle del

buffet e parenti strette di barbecue,

piatti di carta e posate usa e getta.

Una ventata libertadora, figlia di una

mobilità sociale che inventa nuove

abitudini mangerecce e alleggerisce

le donne dall’oneroso onore di regine

dei fornelli. Farfalloni, eliche e

conchiglie con tonno, gamberetti,

olive, mais, rucola e palmito sono un

buon compromesso tra edonismo e

femminismo, all’insegna di

un’informalità che esonera dai must

tradizionali. Sia dei piatti, sia dei ruoli.

Da questo dadaismo alimentare

discende la vacanza destrutturata dei

Millennials. Tanto liberi dal passato

che possono permettersi di

rimpiangerlo. E di rispolverarlo,

rimescolarlo, reinventarlo,

contaminarlo. Con ricette fusion che

mettono insieme la nostalgia del

vecchio e le commodities del nuovo,

la neofrugalità green e l’Arcadia bio,

la cucina di nonna e il free-from, i

grani vintage e il km zero. Tradizioni,

ribellioni, radicalizzazioni. Come la

recentissima messa al bando di

qualunque prodotto munito di codice

a barre. Perché in quella tracciabilità

si nasconderebbe la mano invisibile

degli untori globali.

Risultato, un ready made fatto di

passioni e ossessioni, credenze e

tendenze, utopie e nostalgie

continuamente updatate. Usi e

consumi a tempo determinato per

un’estate interinale.

M A R I N O N I O L A

Repubblica Nazionale 2016-08-21

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laRepubblicaDOMENICA 21 AGOSTO 2016 40LADOMENICA

ROMA

ORDINA UN SUCCo DI ARANCIA E LIMONE ASPRISSIMO che sorseggia diligen-te. Nel Solleone di agosto Sonia Bergamasco è più diafana che mai. I capelli biondi corti, gli occhi azzurri senza trucco, la camicia chiara e vaporosa. Quartiere Prati, a un passo da casa sua, «ma io non ho un bar di riferimento, Fabrizio invece sì ne ha uno dove s’incontra

con i genitori della scuola». Fabrizio è Gifuni, collega, marito e padre delle due fi-glie, more come lui, che ridono e saltano in costume da bagno nella schermata “Home” del cellulare di Sonia. Si siede al tavolo del localino bio scelto a caso e arri-va l’implacabile coppia da selfie: «la vedremo sempre nella serie con Zingaretti?».

Sonia Bergamasco, cinquant’anni d’età e trenta di palcoscenico, non è ancora abituata alla popolarità da fidanzata televisiva di Montalbano e antagonista cine-matografica di Checco Zalone. Prossimamente sarà madrina alla Mostra di Vene-zia «vestirò un Armani colorato e farò un discorso semplice. Vedrò molti film», ma è già proiettata al 2017 quando «debutterò da regista, senza essere in scena, al Pic-colo di Milano».

Il teatro è la sua grande passione, non la prima. «La recitazione è ar-rivata per caso. Stavo per diplomarmi al Conservatorio, era morto mio padre ed ero in un momento di malessere, di sbando». Quello con il pianoforte è stato un rapporto di odio-amore anche se «con il tempo lo strumento è diventato un amico, una presenza costante. Allora, però, pensai di abbandonare. Era una scelta che altri aveva-no fatto per me. A cinque anni studiavo con una ex cantante dolcis-sima, mi piaceva. I dolori sono iniziati al Conservatorio. Sono entrata

a dieci anni suonando i valzer di Chopin. Mi hanno chiuso il piano, messo a fare un anno di martelletti». La bimba pallida si è rinchiusa nel “monastero musicale”. I due fratelli hanno mollato, lei ha proseguito per tutti i dieci anni. «Sono sempre stata un soldatino. Andavo al Conservatorio da sola. Ho rinun-ciato al gioco, iniziato a isolarmi per concentrarmi. Era neces-sario per come ero fatta io. Oggi la musica fa parte della mia lin-gua artistica, anche a teatro». Educata a pensare che ogni cosa si conquista con la fatica, il soldato Sonia si è reso presto indi-pendente. «Dopo la morte di mio padre la situazione in famiglia era difficile. Dovevo cavarmela da sola. Qalche mese ospite da una violoncellista, poi ho trovato ai Navigli una cuccia tutta mia, ci entrava a malapena il pianoforte. Avevo trovato la mia stra-da». L’attrice è nata a Milano, città a cui sente di appartenere.

«Mi sento lombarda, sì. Le prime volta a Roma, restavo agganciata al trolley, non vedevo l’ora di ripartire. L’impatto è stato duro, ma poi sono stata adottata dal par-rucchiere napoletano Mimmo, dal suo clan. Aveva mille amici, mi ha fatto vivere la città. Gli sarò grata per sempre. A Roma sono nate le nostre figlie, è una città che ti dà tanto. Anche se oggi Milano è un palcoscenico grande, Roma arranca».

L’incontro dell’attrice con il teatro è passato per il Piccolo: «Vedo un bando ap-piccicato al muro e penso: perché no? Venivo da letture pazze, Joyce affrontato troppo presto. Amavo la poesia, più affine alla musica. Ho preparato il provino da sola, in segreto. Dopo l’ultima delle tre prove in teatro con Strehler, Giulia Lazzari-ni viene dietro le quinte e mi dice “Sonia, tu fai una cosa interessante: tu non dici le cose, le solfeggi”. Ho capito di essere una mosca bianca, ma che questo funziona-va. Ho avuto per la prima volta una percezione positiva. L’idea di una porta che si apriva». Rotto il guscio, il sentiero era luminoso. «Condividere tutto con trenta per-sone era uno shock per me, dopo tanto isolamento. Io parlavo pochissimo, ma i compagni hanno avuto la voglia e la pazienza di scoprirmi. Sono stati anni di cura. Amo gli attori anche quando sono antipatici, odiosi, superficiali. Li amo, mi ricono-sco». All’inizio di carriera «spendevo le energie a tranquillizzarmi. Una fatica estrema per arrivare al grado di semplicità da cui gli altri partivano», poi è andata meglio. Tra gli incontri fondamentali, quello con Carmelo Bene. «Ero disoccupata, a Torino. Vengo a sapere di provini a Roma. Mi presento nel teatro in via Aventi-na, dove Bene in ciabatte provava l’Adelchi e faceva anche pseudo provini a ragaz-ze, riempiendole di insulti furiosi, barocchi, divertiti. Mi siedo in un angolo, per tre giorni. Mi scova e mi dice: “ma tu non sali sul palco?”. Lo faccio. Poi, in una pausa, al bar mi chiederà di lavorare con lui». Diventa la fata di Pinocchio, ma anziché tin-gere la lunga chioma biblica di azzurro, l’azzera. «Lavorare con Carmelo era come stare a bottega da un pittore. C’erano momenti in cui scompariva e non sapevo che sarebbe stato di me. Abbiamo provato per ore, giorni, mesi. In scena c’erano Pinocchio e la fatina, come in un carillon magico. È lo spettacolo che ho amato di più. Ma che fatica: ero imbottita come una bambola, una fata cattiva che cambia-va una serie di maschere di lattice, pesantissime. Ho rinunciato ai capelli».

Quella per il mestiere è diventata un’ossessione «che io sento come una via, la mia via. Una strada aperta». Uno spartiacque fondamentale è stata la maternità «desiderata all’ennesima potenza. Le mie figlie hanno regalato la possibilità di vi-vere il presente. Mi sono liberata dall’angoscia, dal senso fisico di oppressione, per-fino respiratoria. Con loro oggi vivo un presente che racchiude tutto».

Il cinema è arrivato con Silvio Soldini. «Mi ha scovato a teatro, ho fatto un provi-no terribile ma mi ha voluto lo stesso nel suo corto». L’incontro importante è stato con Giuseppe Bertolucci. Gli occhi di Sonia si fanno lucidi «L’amore, probabilmen-te è stato un lavoro di immersione collettiva. Giuseppe era una grande anima. Un amico caro, da allora e per sempre». Marco Tullio Giordana l’ha voluta terrorista in La meglio gioventù,«l’ho rivisto da poco e ne sono fiera, un set pieno di compa-gni d’Accademia. In quel gruppo io ero la compagna di Fabrizio Gifuni, che era amico di Gigi (Lo Cascio) e Alessio (Boni). Nel film ero la fidanzata di Gigi che ucci-de Fabrizio». Della coppia Gifuni è quello più portato alle relazioni pubbliche. «È anche un padre presente, la divisione è equa e necessaria, visti i rispettivi impe-gni. Ci organizziamo giorno per giorno». In una carriera dalle scelte mai scontate e

facili («non ho iniziato a fare l’attrice per il successo, ma tutti vogliamo essere amati»), la grande popolarità è arrivata sulla soglia dei cinquanta. «È stato un anno speciale, sereno. Il grande divertimento di un’ipercommedia o un grande racconto popolare come Montalbano sono belle possibilità che offre il nostro mestiere». Il suo funzionario in carriera vessato dall’impiegato Zalone in Quo vado? è un ritratto degno di Franca Valeri: «Considero l’accostamento un grande onore. Mi sento vicina a quella femminilità problematica, arrovellata ma esilarante. Ho amato quel personaggio, ho sofferto veramente per le sce-

ne ridicole, cercato di difendere questa donna, vittima del tormentone di Chec-co». Grande sintonia con Zalone «mi ha solo bocciato un vestito elegante che avevo scelto per la scena della seduzione: “Deve essere più puttana”». Spiega che si sono incontrati attraverso la musica «Luca (Medici, il vero no-me di Zalone, ndr) è un musicista. Ha tempi e controtempi e tu non puoi andargli sopra. Mi sono messa in sintonia con la sua particolare comicità». Tra i complimenti per il film, le hanno fatto piacere quelli di Liliana Cava-ni e Marco Tullio Giordana. «E soprattutto l’entusiasmo dei bambini, le mie figlie erano molto fiere». L’altro grande bagno di popolarità è stata l’avventura televisiva con Montalbano. «Il regista Alberto Sironi mi ha fatto entrare in un mondo speciale, la Sicilia fuori dal tempo, l’invenzio-ne e sogno di Camilleri. Schiere di turisti seguono i cartelli stradali per “casa di Montalbano”. Che bella l’invenzione di un autore che diventa una realtà geografica». In attesa di debuttare da regista in una produ-zione del Piccolo, Memoria di due giovani spose da Balzac, ora l’atten-de la Mostra di Venezia. «Voglio vedere i film italiani, incontrare Sam Mendes, gustarmi La La Land, adoro i musical, con le mie ragazze abbiamo visto Mamma Mia! mille volte». Sonia Bergamasco ha sco-perto il piacere nel passaggio di testimone. «Non amo dare consigli,

ma è bello incontrare tante giovanissime. E scoprirle attente anche agli itinerari non clamorosi. Non so se per me sia un valore o un dato di fat-to, ma mi riconosco nella lentezza come percorso di vita».

SONO SEMPRE STATA UN SOLDATINO. ANDAVO AL CONSERVATORIO DA SOLA. HO RINUNCIATO AL GIOCO, INIZIATO A ISOLARMI PER CONCENTRARMI. ERA NECESSARIO PER COME ERO FATTA IO. OGGI LA MUSICA FA PARTE DELLA MIA LINGUA ARTISTICA, ANCHE A TEATRO

Il teatro è la sua grande passione, non la prima. “La recitazione è

arrivata per caso. Stavo per diplomarmi al Conservatorio, era mor-

to mio padre ed ero in un momento di sbando”. Poi gli anni tra Ro-

ma e Milano, l’incontro con Strehler e Carmelo Bene “Mi presento

nel teatro dove lui in ciabatte provava l’Adelchi. Mi dice: ‘ma tu

non sali sul palco?’. Lo faccio”. E diventa la fatina del suo “Pinoc-

chio”. Poi la tv con Montalbano, il cinema con Zalone e il successo

di massa. Oggi finalmente è se-

rena “Le figlie mi hanno regala-

to la possibilità di vivere il pre-

sente. Mi sono liberata dall’an-

goscia, con loro vivo un presen-

te che racchiude tutto”

Sonia

©RIPRODUZIONE RISERVATA

A INIZIO DI CARRIERA SPENDEVO LE ENERGIE A TRANQUILLIZZARMI. PARLAVO POCHISSIMO, MA I COMPAGNI HANNO AVUTO LA PAZIENZA DI SCOPRIRMI. AMO GLI ATTORI ANCHE QUANDO SONO ANTIPATICI, ODIOSI, SUPERFICIALI

SONO FELICE DI ESSERE MADRINA

DEL PROSSIMO FESTIVAL DI VENEZIA: VESTIRÒ UN ARMANI

COLORATO, FARÒ UN DISCORSO SEMPLICE

VEDRÒ MOLTI FILM, SOPRATTUTTO ITALIANI, E POI

VORREI INCONTRARE SAM MENDES

Bergamasco

‘‘

A R I A N N A F I N O S

‘‘

‘‘

L’incontro. Determinati

Repubblica Nazionale 2016-08-21