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65204F LE0678 INTE [email protected] 12.04.2016 14:45 · Goethe, La teoria dei colori, a cura di Renato Troncon, il Saggiatore, Milano 2008, tranne quella del capitolo 10, che è tratta

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Lisa Strømme

La Ragazza delle fragole

Traduzione di

Silvia Castoldi

[email protected] 12.04.2016 14:46

Titolo originale:The Strawberry GirlCopyright © Lisa Strømme 2016

First published as THE STRAWBERRY GIRL by Chatto and Windus, an imprint of Vintage Publishing. Vintage Publishing is a part of the Penguin Random House group of companies.

Realizzazione editoriale: studio pym / Milano

www.giunti.it

© 2016 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaPiazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia

Prima edizione: maggio 2016

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Per Dagfinn.

La tavolozza su cui mescolo i miei colori

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ÅSGÅRDSTRAND

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Tela grezza

«La chiarezza non abbagliante svolge

la propria azione accanto alla piena oscurità.»

Johann Wolfgang Goethe, La teoria dei colori*

Mi nascondevo dentro il Quadro nella speranza che lei non

vedesse com’ero diventata. A volte funzionava ancora.

Se chiudevo gli occhi e pensavo alle fragole avvertivo il sol-

letico della stoffa strappata sulla spalla nuda, mentre il pennello

del signor Heyerdahl sfrecciava sulla tavolozza e stendeva il

colore sulla tela. Se mi concentravo riuscivo ad assumere un’e-

spressione imbronciata ma obbediente, come quella che aveva

colto lui. Sentivo perfino gli steli sottili del gelsomino intrecciati

tra le dita come una ragnatela, e l’altra mano, tremante per la

fatica, che stringeva la ciotola. Quel prurito alla spalla che non

potevo grattare; non dovevo muovermi, non dovevo parlare,

dovevo star ferma.

Durante l’inverno, quando non c’erano ospiti, lei mi vedeva

* Tutte le citazioni da La teoria dei colori sono tratte da Johann Wolfgang Goethe, La teoria dei colori, a cura di Renato Troncon, il Saggiatore, Milano 2008, tranne quella del capitolo 10, che è tratta da Johann Wolf-gang Goethe, «La teoria dei colori», in Opere / Johann Wolfgang Goethe, a cura di Lavinia Mazzucchetti, vol. V, Sansoni, Firenze 1961.

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com’ero allora: una bambina di dieci anni, ingenua e utile. Ma

arrivata a sedici stava diventando più difficile essere la Ragazza

delle fragole. Quell’etichetta mi aveva sostituita, nascondendo-

mi completamente. Dal momento in cui il Quadro fu terminato

ed esposto al Grand Hotel, tra l’ammirazione degli ospiti prove-

nienti da Kristiania, quel soprannome divenne una targhetta di

legno laccato. Da bambina lo sfoggiavo con profondo orgoglio.

Ora le parti si erano invertite, e la patina esterna si stava scro-

stando come pittura vecchia.

Mia madre era in ginocchio davanti alla stufa. Agitò lo strac-

cio dentro il secchio come se stesse facendo il bagno a un bam-

bino piccolo. Appena mi vide entrare, lo tirò fuori dall’acqua e

lo strizzò con un movimento deciso.

«Dài, Johanne» mi disse brusca. «Si può sapere perché con-

tinui a cincischiare quando c’è un sacco di lavoro da sbrigare?

Siamo all’inizio della stagione, per la miseria! Gli Heyerdahl

arrivano oggi pomeriggio. Non lo sai che a lui il cottage piace

arioso e pieno di luce, senza...?» Alzò la voce e si bloccò, in attesa

della mia risposta. «Senza?»

«Disordine» dissi a denti stretti.

«Ti conviene cambiare atteggiamento, ragazza mia.» Aveva

le maniche già rimboccate fino ai gomiti ma le rivoltò ancora

più su, come per sottolineare il concetto. «Si porterà dietro le

tele e i colori, tutti gli attrezzi. Non può lavorare se c’è disordine

in giro.»

Hans Heyerdahl non era il tipo che badava a certe cose. Era

un pittore e creava più disordine lui di noi quattro messi in-

sieme.

Disegnai una sagoma sul muro con le dita.

«Be’, non startene lì impalata» proseguì mia madre. «Ti ho

già letto la lettera ad alta voce, no?»

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«Sì, mamma. Prima arriva la barca, poi il carro. Dobbiamo

mandare papà e Andreas a prenderli.»

«Perciò sarà meglio darci una mossa.» Mi passò accanto

rapidamente, si allungò verso la mensola in alto e sbatté una

ciotola di legno sui fornelli. «Avanti, cerca un po’ di frutta e

riempila. Sbrigati. Ho bisogno di te per spazzare i pavimenti e

arieggiare le lenzuola.»

«È ancora presto per le fragole» ribattei. «Ci vorranno diver-

se settimane prima che riesca a raccoglierne così tante.»

«Ti ripeto che devi cambiare atteggiamento. Piantala, e vai

nei boschi, forza.» Mi batté le mani davanti al viso. «E se quel

Thomas ti corre dietro, rispondigli che le sue attenzioni non ti

interessano. Chiaro?»

«Sì, mamma.»

«E non gironzolare vicino alla casa dell’altro pittore, il Pec-

catore. La signora Jørgensen ha detto che è arrivato ieri sera e

ha riportato il male in questa città. Quell’uomo non è a posto.»

Si toccò una tempia. «Non è come il nostro signor Heyerdahl.

Non ci sta con la testa. Quando passi davanti al capanno tira

dritto, non guardare neanche il giardino. Sai che lascia i suoi

quadri orrendi fuori ad asciugare. Peccaminosi, ecco cosa sono.

Mette la sua immoralità in bella vista, come se ne fosse orgo-

glioso. Tieni la testa bassa, Johanne Lien. Pensa al buon nome

della famiglia, alla tua reputazione. E adesso vai a cercare della

frutta per gli Heyerdahl.»

Mi piazzò in mano la ciotola e mi cacciò via. Mentre uscivo

di corsa sotto il sole luminoso del mattino si lamentò a bassa

voce perché avevo i piedi nudi e i capelli in disordine. La mollai

lì a borbottare parole senza senso.

Le fragole erano acerbe e dure come piccoli pugni bianchi. La

natura aveva mescolato i colori, ma non li aveva ancora disposti

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sulla tavolozza. Frutta e fiori avevano bisogno di luce e calore per maturare e sbocciare, ma mia madre sembrava convinta che io fossi in grado di costringerli, come per magia, perché ero la Ragazza delle fragole. Per lei quel soprannome non era legato tanto al mio lavoro quanto al Quadro. Era moneta so-nante, il ponte che ci univa alle classi alte, ai ricchi villeggianti di Kristiania, i clienti del signor Heyerdahl, che sciamavano ad Åsgårdstrand tutte le estati.

Il Quadro era un fedele ritratto di com’ero all’epoca. Gli azzurri e i gialli si fondevano a formare una bambina scar-migliata, con un abito sgualcito le cui pieghe erano scurite dalle ombre. La spalla che risplendeva sotto la manica strap-pata dava l’impressione che avessi la pelle intatta, quando in realtà ero sempre coperta di graffi per via dei miei vagabon-daggi nella foresta. Non capivo in che modo il Quadro po-tesse collegarci alle signore che sfilavano per la cittadina nei loro bei vestiti bianchi, adorne di nastri e cappellini. Eppure il signor Heyerdahl alloggiava nel nostro cottage. Doveva pur significare qualcosa, no? Il Quadro ci distingueva dagli altri e quell’insieme di forme, contorni, sfumature e luci pareva trasformarmi in una principessa agli occhi degli ospiti prove-nienti da Kristiania. Per mia madre bastava a dimostrare che in pratica eravamo come loro.

C’era soltanto un cespuglio di fragole che poteva essere ma-turo. Grazie alla sua posizione perfetta, su una collina accanto a un muro, era facilmente raggiungibile e baciato dal sole fin dall’inizio della stagione. L’ unico problema era che si trovava nel suo giardino.

Se per mia madre Hans Heyerdahl era un dio, il Peccatore era il diavolo. A me e Andreas era proibito pronunciare il suo nome, perfino pensare a lui era considerato un tradimento.

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Lei non sapeva cosa mi avesse dato quell’uomo, ignorava le

conversazioni che avevo avuto con lui, i nostri incontri nella

foresta.

Né celebre né affermato, era quasi una stranezza in città.

Era il vicino dell’estate che gli abitanti del luogo non potevano

sperare di comprendere. Era povero quanto noi, a malapena

in grado di pagare l’affitto del capanno; così povero che non

ci preoccupavamo nemmeno di far precedere al suo nome la

parola «signore», come se non fosse un gentiluomo.

I suoi strani quadri non contribuivano certo a migliorarne

la reputazione, e i pettegolezzi lo dipingevano come un pazzo

e un ubriacone. I nostri altolocati ospiti di Kristiania, di cui

mia madre era tanto ansiosa di conquistare la benevolenza, lo

evitavano. Alle signore veniva consigliato di distogliere gli occhi

dalle sue opere e di schermarsi con il parasole da quella volgarità

esposta agli sguardi di tutti.

Mi azzardai a pronunciare il suo nome nell’aria fresca, cam-

minando a passi pesanti per soffocare il suono della mia voce.

All’inizio mi limitai a sussurrare quelle due parole grondanti

malvagità. Poi le ripetei più forte. «Edvard Munch.»

Appena mi uscirono dalla bocca, qualcosa scattò alle mie

spalle. Ero stata maledetta? Condannata all’istante? Mi voltai e

vidi Thomas sbucare da un folto di betulle accanto alla strada.

Il suo viso aperto era raggiante e gli occhi castano scuro scin-

tillavano così vividi che, nonostante fossi abbagliata dal sole,

intuii cosa avesse in mente.

«Johanne! Aspetta! Dove stai andando?»

«Devo raccogliere la frutta per gli Heyerdahl.»

«Posso aiutarti?»

Gli feci segno di seguirmi, sforzandomi di non lasciar tra-

sparire troppo entusiasmo. Portai bruscamente una mano alla

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spalla, toccai la stoffa che la copriva e lisciai le cuciture della camicetta.

«Quanto tempo hai?» mi chiese Thomas, strappandomi la ciotola dalle mani.

«Ridammela!» Allungai le braccia, ma lui la sollevò sopra la testa e indietreggiò verso gli alberi, nel tentativo di spingermi a seguirlo. «Thomas! Non ho tempo, non oggi. Ridammela.»

«E va bene» rispose lui, abbassandola. «Però almeno vieni con me in spiaggia. Una passeggiatina sulla riva non ti farà male, no?»

Partì di corsa, lasciandomi lì a fissare il mare, mentre un desiderio ormai ben noto mi invadeva. L’ ampia distesa d’acqua dominava la mia vita e mi incantava sempre. La sua vastità era così infinita che faticavo a credere ai racconti dei pescatori su ciò che si estendeva là dove il fiordo incontrava il mare aperto. Punteggiato solo dall’isola di Bastøy, dalle navi e dalle barche a vela che solcavano la nostra baia, quell’azzurro interminabi-le era visibile da tutta Åsgårdstrand, una cittadina che pareva intagliata nella ripida collina come gesto di sfida da parte degli abitanti del fiordo.

Thomas correva davanti a me. Ero attratta dall’acqua e non avevo bisogno di ulteriori esortazioni. La nostra collina era ri-pida e la pendenza implacabile, perciò era difficile scendere lentamente. Lo seguii con passo incerto lungo Nygårdsgaten fino in fondo al pendio, dove il terreno tornava pianeggiante. Oltrepassammo i capanni dei pescatori in cui avremmo allog-giato durante l’estate, mentre gli Heyerdahl soggiornavano nel nostro cottage. Per abitudine distolsi gli occhi una volta giunta all’ultimo, piccolo e color senape: quello che Munch affittava dalla signora Jørgensen. Attraversammo a spron battuto Havne-gata con la sua distesa di ciottoli e ci dirigemmo verso il molo

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dello stabilimento balneare sul lato roccioso della costa, dove

l’acqua fluiva dal fiordo. Mi si spalancò il petto per il sollievo

e respirai profondamente la libertà della fresca aria di mare.

Thomas si rimboccò i calzoni alle ginocchia ed entrò in acqua.

Io sollevai la gonna e la sottoveste. Presto la sabbia del fondale mi

si insinuò tra le dita dei piedi. Al largo le barche a vela solcavano

le onde, avanzando silenziose come in un sogno a occhi aper-

ti. La spiaggia era tranquilla. Un gruppetto di bambine giocava

con i sassi sulla riva sotto l’occhio vigile della madre, seduta su

uno scoglio e protetta da un parasole. Più lontano un anziano

pescatore stava strofinando la chiglia della sua imbarcazione ro-

vesciata, mentre dietro di lui un uomo barbuto con una corda in

mano intrecciava nodi. Non badarono a noi, e io ne fui contenta.

«Avanti! Fin dove l’acqua ti arriva alle ginocchia» disse Tho-

mas, camminando a grandi passi davanti a me. «Ti sfido!»

Appoggiai la ciotola su una roccia e lo seguii sguazzando

nell’acqua fredda che mi sfiorava le caviglie. Thomas era diretto

verso un gruppo di scogli affioranti, quelli su cui sedevo sempre

da bambina fingendo di essere una sirena.

«Non posso spingermi così lontano oggi» gridai, pensando

al libro nella tasca anteriore della gonna. «Non senza il costume

da bagno.»

«Rompiscatole» ribatté lui.

Unì le mani a coppa, raccolse un po’ d’acqua e la soffiò via

tra le dita, spruzzando zampilli intorno a me.

«Thomas!» strillai.

Se non fosse stato per il libro l’avrei bagnato fino alle ossa.

Invece mi allontanai in cerca di tesori. Un attimo dopo lui mi

raggiunse, mi passò le braccia intorno alla vita e premette il

torace contro la mia schiena.

«Guarda» disse, indicando un punto all’orizzonte. «Un gior-

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no ti porterò laggiù, Johanne.» Sentii il suo respiro accarezzar-mi l’orecchio e avvertii un formicolio allo stomaco quando lui cominciò a ripetere la storia che gli piaceva raccontarmi. «Ti porterò via di qui, all’avventura» aggiunse, posandomi la bocca sul collo. «Farò lo skipper su una grande nave.»

«E dove mi porterai?» gli chiesi, come se non lo sapessi.«In alto mare, in Danimarca e poi in Francia e in Egitto.

Diventeremo ricchi e torneremo coperti di gioielli, e ci chia-meranno il re e la regina di Åsgårdstrand.»

«Parli come Peer Gynt» replicai. «Ma guarda un po’ dove lo hanno portato i suoi viaggi.»

«Almeno alla fine è diventato ricco.»Mi dimenai per sfuggire alla sua stretta e mi voltai a guar-

darlo. «No, era un egoista, e ha perso le sue ricchezze.» Thomas alzò le spalle. «Tu però verrai con me un giorno,

vero, Johanne?» domandò, mentre la sua fiducia in se stesso colava via come acqua da un secchio rotto.

«Tu credi?»«Non vuoi vedere cosa c’è là fuori?» Mi prese una mano tra

le sue. «Non vuoi esplorare il mondo?»Il suono basso della sirena di una barca si propagò per il

fiordo. Mi girai e vidi la Jarlsberg dirigersi al molo, con le ban-dierine al vento per annunciare il proprio arrivo.

Mi tirai su la gonna e scuotendo l’orlo inzuppato corsi verso la spiaggia in cerca della ciotola.

«Aspetta!» urlò Thomas. «Johanne, torna indietro!»«Non ho tempo.»«Dài! Fermati!»Mi stavo già allontanando di corsa.«Stasera danno un ballo al Grand Hotel» insistette Thomas.

«Ci verrai?»

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«Forse», gli gridai di rimando. Forse, se mia madre non mi

avrà uccisa.

Corsi lungo la spiaggia, superando scogli e ammassi di alghe.

I miei piedi conoscevano la strada e trovarono con facilità i

sentieri battuti negli anni dai bagnanti. Afferrai la ciotola e mi

affrettai lungo la riva, superando il Grand Hotel e imboccan-

do il viottolo che portava verso la foresta di Fjugstad. La casa

di Munch sorgeva poco distante, in cima a una ripida collina.

I rami dei cespugli e degli alberi da frutto mi invitavano ad

avvicinarmi.

La staccionata non era mai stata un ostacolo. Tenni la ciotola

in equilibrio sul palmo, mi sollevai la gonna e scrutai le finestre

delle case accanto per controllare che non ci fossero testimoni

del mio «crimine». Non vidi né udii nulla, a parte lo stridio dei

gabbiani che volavano in cerchio sopra di me. Vacillai quando

i miei piedi si posarono sul fil di ferro, che si piegò sotto il mio

peso. Mentre saltavo dall’altra parte la sottana si impigliò in una

scheggia e si strappò.

Evitando le ortiche, atterrai sull’erba alta e iniziai a frugare

tra i cespugli alla ricerca di frutti. Scalciai via i rametti e scostai

i delicati fiorellini bianchi e le foglie dentellate del cespuglio di

fragole, ma non trovai nulla. Mi lasciai cadere in ginocchio e

strisciai sul terreno, scrutando il sottobosco. Infilai le braccia

nell’intrico della siepe, graffiandomi le dita e gli avambracci,

che si coprirono di segni.

«Maledizione!» esclamai. «Al diavolo gli Heyerdahl!»

«Stai perdendo tempo.»

La voce spalancò una porta nella mia memoria.

Con un brivido mollai le foglie che stringevo tra le mani e

rimasi immobile, un attimo dopo mi girai e vidi Munch in piedi

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dietro di me che mi guardava. Indossava una giacca scura che

gli pendeva addosso, come se l’avesse ereditata da un fratello

maggiore, e un panciotto grigio. Aveva una bocca ben disegnata,

sensuale, che mi faceva sentire in colpa quando la guardavo. Il

labbro superiore, curvo e pieno, era incorniciato da baffi sotti-

li; quello inferiore era turgido, quasi imbronciato, come fosse

di un bambino. Aveva la mascella squadrata e occhi azzurro

chiaro, colmi di tristezza. Immaginai che quella tristezza non

fosse un’emozione passeggera, bensì uno stato d’animo sempre

presente in lui, come un’àncora.

«Johanne?» disse, con un mezzo sorriso.

«Sì, sono io.» Mi sistemai la gonna strappata. «La mamma

voleva che cercassi della frutta per gli Heyerdahl.»

«Io e mia sorella abbiamo raccolto le fragole mature stamat-

tina. Vieni in casa.»

Avrei voluto rifiutare. Mia madre mi avrebbe scuoiata viva

se avesse saputo che ero stata beccata nel tentativo di rubare le

fragole, e per di più proprio da lui. Tuttavia non potevo rinca-

sare a mani vuote e, sebbene il volto di Munch fosse serio, i suoi

occhi erano gentili.

«Be’, non possiamo lasciare Hans senza fragole, vero?» mi

domandò, raccogliendo la ciotola che avevo posato sul palo

della staccionata.

Teneva in mano un album da disegno beige, con i margini

consumati e la copertina scarabocchiata e macchiata di caffè.

Se lo infilò sotto il braccio e si voltò per risalire la collina. Io lo

seguii, posando i piedi sporchi nel punto in cui le sue scarpe

avevano appiattito l’erba. Quando alzai la testa verso la cima

notai immediatamente i quadri.

Due grandi tele, alte quasi quanto me, si stagliavano poco

lontano. Come bagnanti adagiate sotto il sole, erano appoggiate

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al muro bordeaux della dépendance che gli serviva da studio.

Erano talmente affascinanti che non potei evitare di guardarle.

Una rappresentava una figura femminile scura che fissava con

aria malinconica quella che sembrava la propria ombra. Era

così profondamente sconsolata che mi sentii stringere il cuore,

e un’ondata di infelicità mi salì alla gola.

L’ altro quadro era un paesaggio lussureggiante dove un

uomo e una donna si riposavano sotto un albero. La donna

indossava un grembiule azzurro e reggeva in mano una ciotola

di bacche rosse che accesero la mia curiosità, e per qualche

motivo acuirono la mia tristezza. Avrei voluto toccare la coppia.

Sembravano addolorati.

Quando raggiungemmo il capanno Munch chiamò la sorel-

la. «Inger! Johanne sta cercando delle fragole.»

Mi fermai incerta davanti all’ingresso, mentre lui saliva gli

scalini della porta sul retro.

Mi voltai di nuovo verso la coppia del quadro e notai che la

donna era incinta: il ventre gonfio era visibile sotto le bacche

rosse. Erano ciliegie, e l’albero, proprio come lei, era carico di

frutti, rigoglioso e nel fiore degli anni. Però l’uomo era stanco e

aveva le membra pesanti. Era accovacciato su un ceppo, con un

bastone da passeggio appoggiato al fianco. Al centro del dipinto,

il segno circolare lasciato da un ramo appena tagliato deturpava

il tronco, privando l’uomo e la donna della loro felicità.

«Salve» disse Inger, comparendo sulla soglia.

Mi costrinsi a distogliere lo sguardo dai dipinti e la osser-

vai con un sorriso tirato. Era vestita di nero da capo a piedi,

a eccezione di un colletto bianco arricciato intorno al collo.

I capelli castano scuro erano raccolti in una crocchia severa

dietro la nuca.

«Le abbiamo raccolte stamattina» disse, porgendomi la cio-

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tola piena come se fosse un atto dovuto nei miei confronti. «Ce

ne sono tante.»

Guardai il mucchietto di fragole, consapevole che erano tutte

quelle che avevano.

I lineamenti di Inger erano simili a quelli di Munch, anche

se l’espressione di lei era più cordiale di quella del fratello, e gli

occhi più grandi e più scuri. In un certo qual modo somigliava

alla donna della tela, tormentata dalla propria ombra.

«Sono per gli Heyerdahl» le spiegai, con aria colpevole.

«Sì, da quassù ho visto arrivare la barca. Abbiamo uno splen-

dido panorama.» Inger sorrise. «Tu sei la Ragazza delle fragole,

vero? Sei cresciuta rispetto all’estate scorsa.»

Munch uscì di nuovo dalla casa. «I soggetti dei quadri cre-

scono e cambiano, Inger, come la vita. Sono la vita. Mutano a

seconda del nostro umore e dell’ora del giorno. Sono diversi

ogni volta che li guardiamo.»

Lo osservai mentre parlava, agitando le mani e tracciando

immagini nell’aria.

«E i tuoi quadri come vanno, Johanne?» mi domandò.

«Oh, sono solo schizzi» risposi. «Non ho i colori, la mamma

direbbe che sporcano. Però sto leggendo il libro che lei mi ha

dato. Lo leggo tutti i giorni.»

«Perché non torni domani? Puoi prendere un po’ dei miei.

Ho intenzione di cominciare a mescolarli da...» La sua voce

sommessa si affievolì mentre le mani si muovevano in cerchio,

come a voler completare la frase.

«Mia madre non me lo permetterebbe.»

«Non è necessario che lo sappia, o sbaglio?» replicò Munch,

lanciando uno sguardo malizioso alle fragole tra le mie mani.

«No, immagino di no.»

«E allora ci vediamo domani. Terrò da parte una tela per te.»

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Il sole mi scottava la schiena mentre correvo su per Nygårdsga-

ten, consapevole di essere terribilmente in ritardo. Con la gonna

strappata e le braccia sporche sembravo uno schizzo appallot-

tolato e gettato via, un’idea cancellata con un tratto di matita.

Ma riuscivo solo a pensare all’indomani. Il giorno dopo lo avrei

rivisto, il giorno dopo avrei dipinto.

Appena girai intorno alla cima della collina scorsi davanti

al cancello un’amica della mamma, la signora Berg. Paffuta e

grassottella, dopo pochi passi giù per il pendio sembrava stanca

quanto me che lo avevo risalito tutto di corsa. Teneva il seno

prosperoso appoggiato alla staccionata, che la sorreggeva a fa-

tica, e scambiava con mia madre i pettegolezzi della giornata.

Rallentai e proseguii camminando.

«Mio Dio, Johanne, ma guardati» disse la signora Berg, fissan-

do il mio vestito e i piedi sporchi. «Sei stata in guerra?» Era una

lavandaia e, come mia madre, aveva un’ossessione per i colletti

inamidati e le gonne perfettamente stirate. Le macchie sugli abiti

erano un’onta capace di rovinare una reputazione. Molto pro-

babilmente agli occhi della signora Berg io ero una causa persa.

Mia madre arrivò al volo dalla cucina. Si era cambiata: in-

dossava la sua migliore gonna gessata e una camicetta bianca

che in genere metteva soltanto per andare in chiesa. Quando mi

vide il suo corpo snello, già teso, si irrigidì ancor di più.

«Si può sapere dove sei stata? Sono le dodici passate. Arri-

veranno da un momento all’altro. Ho dovuto lavare i pavimenti

e sistemare le lenzuola da sola.»

Lanciò un’occhiata allo strappo sulla mia sottana. «Come

hai fatto a...? Ma guarda come ti sei ridotta!» esclamò, con voce

acuta e indignata.

«Ne volevi una ciotola intera» le dissi.

Lei strinse le labbra e gonfiò le guance, come se avesse la

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bocca piena di vapore. Se fossimo state sole mi avrebbe dato una

sberla, bella forte, ma gli occhi scintillanti della signora Berg le

fecero sbollire la rabbia.

«Lo vedi, Benedikte» aggiunse. «È per questo che ha bisogno

di lavorare. Per tutta l’estate non fa altro che correre in giro,

sembra un ragazzino di strada. Certo, vende la frutta, ma ne

ricaveremo di più come domestica.»

«Che cosa vuoi dire?» chiesi.

«Io e la signora Berg ti abbiamo trovato un lavoro. Andrai

a servizio dall’ammiraglio Ihlen e dalla sua famiglia, a Borre.»

«Ma io raccolgo fragole» risposi, incredula.

«E continuerai a raccoglierle. Puoi farlo nel tempo libero,

però dal lunedì al sabato lavorerai come domestica. Cominci

domani.»

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