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Ada Fama …MI MANCHI © 2010 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma www.gruppoalbatrosilfilo.it ISBN 978-88-567-3663-2 I edizione gennaio 2011

Ada Fama - Mi manchi

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Ada Fama

…MI MANCHI

© 2010 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l.,Roma www.gruppoalbatrosilfilo.it

ISBN 978-88-567-3663-2I edizione gennaio 2011

Trama

Una serie di eventi, all'apparenza inspiegabili, travolge e sconvolge con violenza le vite di Matt e Danielle. La stessa forza ciclonica che li ha tenuti separati per diciotto anni ora li pone l'uno di fronte all'altra, un padre e una figlia che si sono sempre amati nonostante non si siano mai conosciuti, un padre e una figlia inconsciamente uniti da un racconto scritto di getto sull'onda dell'emotività, un padre e una figlia che ritrovano i propri pezzi mancanti nei loro stessi occhi azzurri, profondi, sognanti. Entrambi legati da un filo invisibile che è rimasto teso per troppi anni e che, se rimanesse tirato, rischierebbe di spezzarsi. Ma non può spezzarsi. Il filo che lega i nostri destini non può spezzarsi, piuttosto può distendersi, facendo sbattere l'una contro l'altra le proprie estremità e costringendole a ricominciare da capo, più ferite forse, ma certamente più forti di prima.

Sorprendente esordio, quello di Ada Fama, scrittrice giovanissima che si pone all'attenzione per la sua incredibile capacità di sapersi ben districare all'interno di una storia complessa, facendo leva non solo sulle sue indubbie qualità narrative e letterarie, ma altresì invitandoci a riflettere e soprattutto a ricordarci che non si arriva ad una meta, se non per ripartire.

Ada Fama è nata in Albania nel 1991. Affetta da glaucoma, ha iniziato a

trascorrere brevi periodi di tempo in Italia per cure mediche e all'età di nove anni vi si è trasferita definitivamente. Ora vive in provincia di Trento, dove frequenta l’ultimo anno del liceo classico.

Ai miei genitori, Davide e Albina, il cui coraggio e amore sono per me la più grande fonte di ispirazione e lezione di vita che si ripete quotidianamente.

E a mio fratello Arber che, attraverso il suo amore incondizionato, mi ha insegnato ad essere una persona migliore.

Tra i due tu sei sicuramente il buono!

PROLOGO

"E SE INVECE..." Tutto il mondo era in subbuglio durante quei giorni. Il presidente degli Stati Uniti

aveva dichiarato apertamente guerra all'Iraq, affermando con determinazione che i governatori di questo paese nascondevano armi di distruzione di massa. Molti stati erano contrari ad aprire fuoco senza motivo, ma il capo della Casa Bianca si lasciò scivolare addosso ogni tipo di critica, rimanendo fermo sui propri obbiettivi.

Per dimostrare al mondo che i sospetti americani sulla bomba atomica erano fondati, il presidente chiese l'invio dei Caschi Blu dell'ONU al fine di effettuare un'ispezione preventiva. Non poteva fare altrimenti se non voleva rischiare di essere fermato "troppo presto"!

Ma qual era il vero scopo di questa guerra?Lo scottante interrogativo divise l'opinione pubblica fra chi concordava con il

Presidente (un gran numero, per la verità) e chi lo accusava di perseguire solo ed esclusivamente i propri interessi. Nonostante tutte le proteste, però, il Comandante in Capo statunitense aveva continuato per la propria strada a testa alta e gli americani avevano troppa paura per impedirglielo, tanto più che quelli che tentavano di farlo venivano immediatamente tacciati di antiamericanismo.

La data dello scoppio della guerra era stata fissata: il 20 marzo 2003, precisamente giovedì 20 marzo 2003. Il Pentagono, una settimana prima dell'inizio ufficiale della guerra, aveva indetto una riunione straordinaria, convocando i comandanti più importanti ed esperti.

Uno di questi era il generale Chris Moore. L'uomo si trovava nella propria casa, con in braccio il piccolo Jacob, nato da due settimane.

Il generale Moore era felicissimo di quella nascita: diventare padre era stata per lui un'emozione troppo forte, che naturalmente gli sarebbe rimasta impressa per sempre nella memoria. Non avrebbe mai dimenticato la prima volta in cui aveva preso Jacob in braccio, non avrebbe mai dimenticato il suo primo pianto, quel volto spaesato come a chiedersi: "E voi chi siete? Io che ci faccio qui? Stavo troppo bene là dentro!". E cercava di fissarsi nella memoria ogni secondo, ogni istante trascorso con suo figlio, compreso quel pomeriggio. Non badava alla televisione accesa e alle notizie sull'imminente guerra che il telegiornale stava trasmettendo (ultimamente parlavano solo di quello, non valeva nemmeno più la pena starli ad ascoltare!); fissava soltanto il suo bimbo, troppo perso in quegli occhi piccoli, in quel viso dolce, in quel corpicino talmente minuscolo da sembrare di cristallo.

Ad un tratto il telefono di casa Moore squillò.Chris, con il suo piccolo stretto fra le braccia, andò a rispondere, non sospettando

minimamente di chi si trattasse.Il suo viso divenne cupo, però, dopo aver ascoltato le parole provenienti dall'altro

capo del filo: «C'è la convocazione ufficiale per elaborare una strategia da adottare in Iraq. Ci sei dentro anche tu, Chris».

L'uomo per un istante sobbalzò impercettibilmente, quindi non rispose, ma chiuse gli occhi mentre tirava un lungo sospiro. Non sapendo cosa dire, il generale abbassò il ricevitore e strinse a sé ancor più forte il proprio figlio. Jacob dormiva tranquillo tra le braccia del padre, ignaro di ciò che sarebbe successo di lì a pochi giorni. Chris fissò il figlio poi, sopraffatto dai sensi di colpa, spostò lo sguardo, che andò a cadere su un giornale appoggiato sul tavolino, accanto al telefono; in prima pagina campeggiava la foto del presidente degli Stati Uniti. Chris, con un'incontrollabile rabbia che gli era montata dentro, prese il quotidiano e lo scaraventò lontano, più forte che poteva. Sfogare tutta la rabbia contro il Comandante in Capo era inutile: era stato lui stesso a scegliere la strada dell'esercito e quelle ne erano le tristi conseguenze.

Mancavano ormai quarantotto ore al "grande giorno" e le unità si erano già spostate nelle basi vicine all'obiettivo.

Secondo la strategia elaborata dal Pentagono, la divisione comandata da Chris Moore sarebbe stata la prima ad attac care. La sera successiva gli aerei sarebbero partiti alla volta dell'Iraq, aquile di metallo piene di bombe, assetate di sangue, di morte e di distruzione. Chris aveva convocato i soldati a lui assegnati, ma era inquieto, non ce la poteva fare. Guardò le centinaia di soldati davanti a sé: erano tutti ragazzi molto, molto giovani, con tutta una vita da affrontare e tanti sogni da realizzare. Quanti sarebbero stati i morti fra quei ragazzi? A chi sarebbe toccato, al biondo dallo sguardo determinato che stava in prima fila o a quello dal volto terrorizzato che se ne stava in fondo? E se Chris fosse sopravvissuto, quanti sensi di colpa avrebbe avuto? Che diritto aveva lui di uccidere migliaia di persone innocenti, che avevano l'unica colpa di essere stati presi di mira dal presidente nordamericano? Non poteva e non doveva farlo.

Ruotando ancora gli occhi tra i giovani soldati, il generale prese un profondo respiro e, consapevole dei rischi che si stava assumendo, disse: «Siamo qui per andare in guerra? E che guerra sia, ma non contro l'Iraq, contro il nostro paese».

I ragazzi lo guardarono perplessi, non capendo ciò che il generale intendesse dire.«Mi spiego meglio: dobbiamo farci venire un'idea per fare in modo di non

cominciare quest'inutile conflitto, ma farla finita una volta per tutte con questa commedia. Quante persone tra di noi se ne torneranno in America avvolte nella bandiera a stelle e strisce? Quanti innocenti moriranno per causa nostra? Vi prego, ragazzi, aiutatemi a progettare un piano per non far scoppiare questa guerra».

Un simile discorso era l'ultima cosa che i ragazzi si sarebbero mai aspettati, specialmente da un militare affermato come lui. Chris, però, era stato fin troppo chiaro: dal suo sguardo fermo trapelava soltanto un sentimento di determinazione. Che fare, che dire, che pensare? Nessuno aveva voglia di affrontare quello schifo, nessuno, nemmeno il più convinto "patriota", non certo dopo il discorso breve ma incisivo del generale!

Fu proprio quel ragazzo così timido e terrorizzato, colui che si nascondeva fra i compagni, ad avere l'idea geniale.

L'intera squadra si mise al lavoro quella notte stessa. Otte nendo l'aiuto certamente non ufficiale di alcune organizzazioni umanitarie, all'insaputa del Pentagono, i ragazzi portarono a termine la propria missione in parte quella notte e in

parte la successiva.9 marzo 2003: l'esercito partì.20 marzo 2003: la guerra scoppiò ufficialmente, ma qualcosa non andò secondo i

piani del Presidente americano.Le macchine da guerra dei soldati comandati dal generale Moore, infatti,

iniziarono a lanciare viveri di ogni genere, anziché bombe. Gli striscioni che sventolavano dai carri armati e dagli aerei presentavano tutti la stessa scritta colorata su sfondo bianco: PACE.

Il Pentagono, considerato l'imprevisto, ordinò la sospensione della guerra e il ritorno di tutti i militari in patria.

Costretto dall'opinione pubblica mondiale, che non concordava più con l'assurdità di quella guerra, il presidente statunitense annullò la lotta armata. Migliaia di vite furono salvate in questo modo, sia tra gli americani che tra gli iracheni. Il capo della Casa Bianca fu obbligato a dimettersi, considerata la misera disfatta, e il generale Chris Moore divenne il capo del Pentagono.

Quel soldato, così timido e spaventato, fu proclamato Premio Nobel per la pace 2003.

Da M.H., reduce più che veterano di Desert Storm. Dedicato a mia figlia. E se invece le cose fossero andate così... chissà dove saremmo ora noi due. Mi manchi.

1

Danielle era seduta a gambe incrociate sul letto. La forte luce solare di un pomeriggio d'inizio estate filtrava attraverso le leggere tende azzurre e si proiettava sul pavimento in legno della stanza. La ragazza, un'espressione concentrata sul volto, teneva stretto in mano un libro e ne assorbiva le parole, una dopo l'altra. Ingannati e traditi - Lettere dal fronte diceva la copertina. Lei leggeva avidamente, ogni secondo più vicina alla conclusione che, comunque, aspettava con un certo miscuglio di preoccupazione, impazienza e timore di rimanere delusa. Muoveva nervosamente il piede e scorreva le righe con un'orrore crescente che le attanagliava lo stomaco. Probabilmente non avrebbe trovato quello che cercava, ma poco importava: quelle parole erano piene di straziante dolore, talmente forti da distrarla dall'obiettivo per cui aveva preso in mano quel libro. Ancora poche, terribili pagine. Quella era la sezione dedicata ai familiari dei soldati, le lettere in assoluto più strazianti: madri, padri, fratelli, sorelle, persino una nonna... insomma, tutta gente stanca della guerra, proprio come quel certo M. H. del racconto che, evidentemente, la guerra l'aveva fatta.

Nel vedere il mittente dell'ultima lettera, Danielle ebbe uno scatto d'ira. Sbatté il piede sul letto, ma cozzò contro la sponda e si fece male. Una smorfia di pochi istanti, quindi tornò alla lettura. Niente, non c'era traccia di M. H., quel "reduce più che veterano" di Desert Storm. Era incredibile, ma persino Michael Moore era riuscito a deluderla in una qualche misura!

Si alzò e si diresse al computer. Premette il tasto d'accensione sul pannello frontale di un moderno pc di colore blu e, fissando lo schermo, puntò i gomiti su una scrivania anch'essa blu e si prese la testa fra le mani. Impugnò il mouse e lo puntò sull'icona del browser. Per la milionesima volta digitò le parole "M. H. veterano Desert Storm" sul campo di ricerca e per l'ennesima volta si vide apparire un unico link che rispondes se pienamente alla sua richiesta. Nulla: l'uomo non si era più fatto vivo e probabilmente non si sarebbe mai più fatto vivo.

Ormai quella era diventata una fissazione e Danielle stava provando a levarsela in tutti i modi dalla testa. Si era messa alla ricerca di una persona che, a quanto ne sapeva, poteva tranquillamente non esistere, magari soltanto un mitoma-ne. Le iniziali M. H avrebbero potuto benissimo essere false e, questione fondamentale, che importava a lei di trovare quell'uomo?

Nonostante tutte le volte in cui si era ripromessa di non farlo più, cliccò sul primo link dei risultati di ricerca, l'unico che corrispondesse pienamente alla sua digitazione.

Ricominciò a leggere quel racconto che aveva ormai imparato a memoria, ma che non poteva fare a meno di leggere almeno una volta al giorno. La sua amica Virginia le aveva più e più volte detto che stava diventando una storia assurda, una fissazione che non l'avrebbe portata da nessuna parte, ma Danielle spesso sopprimeva il proprio lato razionale per dare ampia libertà all'istinto.

"[...] Premio Nobel per la pace 2003".Il racconto era finito, ancora una volta, ora rimaneva da leggere la dedica: "Da

M. H, reduce più che veterano di Desert Storm. Dedicato a mia figlia. E se invece le cose fossero andate così... chissà dove saremmo ora noi due. Mi manchi".

Ogni volta che leggeva le ultime due parole, "mi manchi", sentiva un brivido lungo la schiena e veniva avvolta da una malinconia assai difficile da allontanare. Eppure quel racconto era ormai diventato una droga e, benché ne soffrisse tutte le volte, Danielle non mancava all'appuntamento quotidiano. M. H... che nome poteva nascondere? Mark... Michael... Morgan... Miles... M... e H? Harrison... Hunt... Harvey... tutto questo faceva parte della sequenza rituale: dapprima la battaglia fra Danielle razionale e Danielle istintiva, poi la lettura del racconto in formato cartaceo oppure elettronico, quindi qualche minuto dedicato a pensare al nome completo di questo famigerato veterano di Desert Storm, e da ultimo lo sbattere i piedi per terra, infilare un bel cd nello stereo e provare a sfogare la rab bia che portava dentro ormai da tempo e che non era soltanto dovuta alla frustrazione di essere una pessima 007.

Anche quella volta ripetè l'intera sequenza: chiuse la finestra del sito con stizza, spense lo schermo ma non il computer e si alzò. Afferrò il primo cd di ROCK AGAINST BUSH e lo mise nello stereo. Non mancò nemmeno di alzare il volume al massimo e mettersi a saltare in piedi sul letto.

Tuttavia i minuti di sfrenato divertimento non durarono molto; la porta della stanza si aprì ed una donna di circa cinquantanni entrò: Teresa, la governante.

Danielle balzò giù dal letto e le andò incontro.«Dani, tuo padre mi ha ordinato di farti spegnere, lo disturbi».«Mio chi, mio padre? E perché non viene su lui a chiedermelo?».«Ti prego, non fare storie».«Signor Padre, perché non venite su Voi ad impormi di spegnere con i Vostri

metodi da regime?» domandò la ragazza in tono beffardo, la sua voce sovrastava le note di Baghdad. Teresa le fece segno di tacere, ma la giovane non ubbidì: «Padre, venite a spegnere Voi lo stereo, se vi va!».

La governante assunse un'espressione rassegnata ed uscì dalla stanza.«Makeyour last stand in Baghdad...» cantò urlando Danielle, saltellando in

corridoio.La sagoma di suo padre non ritardò ad apparire in fondo alle scale. L'uomo, poco

più di cinquant'anni ben portati, giacca e cravatta nere su camicia bianca, capelli molto scuri e corporatura piuttosto gracile, salì le scale con rabbia e si fermò davanti alla figlia.

«Allora?» le chiese, l'aria feroce sottolineata da un gesto di stizza della mano.«Allora cosa?» ribatté lei sostenendo il suo sguardo.«Io lavoro tutto il giorno, mi distruggo per darti una bella vita e tu come mi

ringrazi?».«Ti faccio ascoltare un po' di buona musica, non è un ringraziamento adeguato?

Punk californiano... West Coast... non trovi sia spettacolare?». «Non prendermi in giro!» tuonò l'uomo. «Spegni immediatamente quella

robaccia, immediatamente ho detto!».«Questa canzone è bellissima, non ti piace? La balliamo insieme?» domandò lei

allungando una mano per afferrare quella del padre, ma lui fu più veloce, terribilmente più veloce, e le stampò uno schiaffo sulla guancia.

Danielle si sentì girare il mondo intorno: naturalmente non era per la potenza fisica del ceffone ma per quell'atto e tutte le sue implicazioni, qualcosa che Gabriele Castaldo non si era mai permesso, MAI, mai nei diciotto anni di vita di sua figlia. E ora, perché ora sì? La ragazza era al centro di un indescrivibile vortice di pensieri, tutti annebbiati, tutti dolorosi: mamma, morte, schiaffo, liti, odio, disagio, voglia di scappare, incomprensibile cambiamento, paura, solitudine, rabbia, stupore, voglia di piangere, schifo, mamma, morte... Non sapeva dare un nome a tutte queste emozioni. Era rimasta in piedi, con le braccia ciondoloni, in mezzo al corridoio, mentre Gabriele scendeva nuovamente le scale. Anche lui non aveva una bella aria, tuttavia il suo volto impassibile lasciava trasparire molto meno lo stato d'animo.

Danielle, invece, teneva gli occhi chiusi e respirava a fatica, sentendosi trasportata in una dimensione sconosciuta, lontana milioni di miglia. Era sprofondata in una sorta di tunnel, buio e freddo, da cui soltanto la carezza di Teresa riuscì a farla emergere. La donna le sfiorò i capelli e fu allora che Danielle realizzò, in parte, l'accaduto: sentì che fra lei e suo padre qualcosa si era rotto definitivamente, anche quel filo sottile, quasi invisibile ma pur esistente, e li aveva uniti fino a quel momento, nonostante tutto. La giovane scoppiò in un pianto silenzioso ma straziante, al quale Teresa non seppe porre rimedio. Stette fra le braccia della domestica per qualche minuto, poi prese una decisione istintiva: entrò in camera, si guardò allo specchio constatando con disgusto una macchia rossa sulla guancia destra, quindi infilò le prime scarpe che trovò, il cellulare in mano e si precipitò fuori di casa. Teresa provò a domandarle dove stesse andando, ma la ragazza non rispose, le rivolse soltanto un sorriso cordiale, segno di gratitudine per tutta la premura che le aveva sempre dimostrato.

Incominciò a camminare per le strade di Roma, in direzione di casa Biondi,

l'abitazione di Federico, il suo ragazzo. Non era troppo distante e ormai le gambe andavano da sole per tutte le volte in cui aveva fatto quel tragitto. Lei camminava, a occhi socchiusi, intrappolata in una rete di pensieri che sapeva di avere ma non sapeva distinguere. L'unica cosa che riusciva a pensare con chiarezza, la più semplice, era: PERCHÉ? Non riusciva a capire, non era abbastanza lucida per farlo. Non aveva nemmeno il coraggio di ricordare i bei tempi, che ora le sembravano talmente distanti... quasi dimenticati.

Arrivò davanti al cancello della villetta dei Biondi, completamente inconscia di quanti pericoli avesse corso durante quel tratto di strada che aveva compiuto come un automa e di tutti gli insulti che gli automobilisti le avevano rivolto. Guardò il citofono, ma improvvisamente non ebbe voglia di suonare. Appoggiò la testa sulle sbarre grigiastre del cancello e stette lì, immobile, dimenticandosi del mondo che la circondava, di quello schifo di mondo in cui era costretta a vivere.

Era una fredda giornata di febbraio e Danielle, fintamente concentrata su una lezione di italiano, era poco più che una quattordicenne. In realtà stava leggendo l'ultimo bigliettino che la sua migliore amica era riuscita a buttarle mentre la prof era girata a scrivere alla lavagna e sorrideva fra sé: quella sera sarebbero andate al cinema, loro due, da sole, a gonfiarsi di pop-corn e Coca Cola e, forse, apprezzare il

film di cui non avevano nemmeno visto il trailer. La prospettiva era assolutamente allettante e la ragazza non vedeva l'ora di rispondere di sì. Impugnò la penna per farlo, ma all'improvviso qualcuno bussò alla porta: una bidella che le chiedeva di uscire. La giovane, sorriso permanente sul volto, l'aveva seguita in corridoio, dove aveva trovato zia Angela. Senza troppo sforzo, Danielle aveva capito che era successo qualcosa, qualcosa di grave.

Danielle trasalì quando si sentì chiamare; qualcuno le si stava avvicinando.«Danielle, che ci fai lì? Vieni dentro!». Era la madre di Federico. La ragazza non si mosse.La donna le si avvicinò e le posò una mano sulla spalla: «Ehi, tutto bene?».Danielle non aveva smesso di piangere.«Cos'è successo?» ma lei non rispose.«Ok, vieni dentro, c'è Federico».La ragazza si lasciò condurre nell'abitazione, persistendo nel vano tentativo di

fermare i singhiozzi. Era assolutamente impotente contro quella marea che l'aveva travolta con un impeto indescrivibile e che, forse, non voleva nemmeno arrestare. Una parte di lei era stanca di dimostrarsi forte, sempre e comunque, nonostante tutto ciò che le era capitato. La Danielle caparbia, però, non voleva cedere, non voleva mostrarsi fragile, non certo per il motivo per cui tutto ciò stava accadendo.

La signora Biondi la scrutava con apprensione. La conosceva da un anno ormai, ma lei... beh, non era certo una persona allegra, povera ragazza, dopo tutto quello che le era successo, ma era solida, sì, era una roccia, e spesso le era capitato di far notare a Federico quanto lei fosse forte, davvero in gamba. E ora... piangeva in silenzio, con uno struggimento straziante. Le accarezzò la spalla, ma la ragazza nemmeno la notò. Continuava a tenere gli occhi bassi, fissi sulla punta dei sandali, le guance bagnate in modo impressionante.

La signora Biondi aprì la porta a vetri di un fresco ed accogliente salotto e, stringendo il braccio attorno alle spalle di Danielle, la fece accomodare su un ampio divano di color verde scuro. Le sfiorò i capelli con la punta delle dita poi si affrettò in direzione delle scale a chiocciola.

Danielle teneva il volto fra le mani, il respiro rotto dai singhiozzi. La mente ormai era paralizzata, non era in grado di produrre nemmeno il minimo pensiero. Una sorta di vuoto, un qualcosa che forse poteva essere definito anestesia si stava spandendo da un punto preciso del suo cervello, una sensazione sempre più estesa, ogni secondo di più, inarrestabile.

Un ragazzo alto, atletico, capelli scuri a spazzola si avvicinò con ansia crescente a Danielle e si inginocchiò sul pavimento di fronte a lei. Danielle non lo notò. Lui le prese delicatamente i polsi e le tolse le mani dal viso; lei ubbidì. Le alzò il mento con l'indice della mano destra e vide i suoi occhi azzurri sbarrati, vitrei. Le scendevano ancora copiose lacrime, ma il volto non era più una maschera di dolore: un'espressione completamente vacua, le labbra leggermente aperte.

«Dani, ehi, Dani, che c'è?» le domandò il ragazzo accarezzandole delicatamente la guancia.

Il mento di lei ebbe un ultimo tremore, poi, con uno sforzo notevole, i suoi occhi misero a fuoco l'interlocutore.

«Fe-de...» balbettò senza sforzarsi di proseguire.«Sì, sì, sono qui, sempre qui. Cos'è successo?».«Pa-pà... lui... odia... n-non sopporta... prima... musica... dato fastidio e... odia...

odia... non sopporta e...».Federico aveva accostato l'orecchio alle sue labbra per sentire il suo mormorio.

Non aveva capito nulla, stava per essere sopraffatto dal panico. Si sforzò di recuperare l'autocontrollo e fu allora che notò la guancia rossa di Danielle: ora era tutto chiaro.

«È stato tuo papà?» domandò in tono incredulo, la voce stridula, mentre indicava la macchia di rosso ormai sbiadito. Lei annuì debolmente. Federico represse a stento un gemito, la mascella si strinse automaticamente per soffocare l'ira.

Piano, piano: c'era un errore, ci doveva essere! Chi era stato a tirarle uno schiaffo? Suo padre? Ma come si permetteva quel paraculo, come si permetteva? Come poteva solo sfiorarla dopo che l'aveva ignorata per quattro anni interi? Cos'aveva mai fatto lei? Quell'imbecille...

Poi la parte razionale del suo essere ebbe la meglio: che diritto aveva lui, ragazzo ventenne, di giudicare un genitore? Amava Danielle, certo, ma suo padre, beh, era suo padre e...

Ora erano seduti nel rettangolo d'erba nel retro di casa Biondi. Danielle si abbracciava le ginocchia, lo sguardo a terra. Federico le accarezzava piano il braccio e la guardava, colmo di tenerezza e apprensione. Dopo quelle parole che aveva mormorato confusamente, lei non aveva più parlato, si limitava a cenni del capo. Lui aveva capito che evidentemente non era il caso di insistere e si limitava a fissarla. Il sole stava scendendo, una brezza leggera muoveva le fronde degli alberi intorno a loro. Bex, il cane di Federico, teneva il muso affondato nella gamba del suo padrone, ma il ragazzo non gli badava. Più di un'ora... Federico fissava Danielle, Danielle fissava il vuoto.

La signora Biondi uscì con due bicchieri d'aranciata che, in silenzio, appoggiò sulle piastrelle che delimitavano il giardino, a mezzo metro dai ragazzi. Il figlio la ringraziò con un sorriso; lei ricambiò. Naturalmente Danielle non se n'era accorta e la donna le rivolse uno sguardo preoccupato. Sospirò e si girò verso la porta pensando che avrebbe potuto cadere una bomba a cinque centimetri dalla giovane e lei non avrebbe reagito. Povera piccola... povera piccola...

D'un tratto Danielle alzò la testa con uno scatto fulmineo e fissò Federico negli occhi: «Vado da Michelle» disse con tono deciso.

«Dove? Da chi?». Il ragazzo si protese in avanti per osservarla meglio. «Dov'è che vuoi andare?» «Da Michelle, da Keith, i Richards...».

«Vuoi andare a Brighton?». Il ragazzo strabuzzò gli occhi.Lei annuì con vigore. «Lontano, lontano da qui. Ho diciotto anni, Castaldo non

me lo potrà impedire»."E nemmeno ci proverebbe!" pensò il ragazzo con rammarico. «Ma tu hai...».«È stato l'unico pensiero lucido delle ultime ore, l'unica soluzione, capisci?».«No, non capisco. Spiegami: vuoi prendere, andartene in un altro stato, così, di

punto in bianco, piombare in casa loro senza nemmeno averli avvertiti... ma ti pare?».

«Cosa dovrei fare, tornare a casa mia? Anzi... casa sua...». Il suo tono era sempre piatto, privo di qualsiasi espressione, come il viso, del resto.

«No, puoi restare qui, se vuoi».Lei scosse la testa con vigore.Così, quella sera, dopo aver fatto presenza al tavolo dei Biondi pur non toccando

cibo, Danielle si trovò in camera sua, quella che una volta era stata la sua amata cameretta. Aveva iniziato a riempire una valigia enorme, che poi però aveva abbandonato. Scelse un borsone, capiente ma non troppo, ed iniziò a metterci dentro pochi vestiti e gli oggetti più cari — in altre parole le cose che le erano rimaste di sua madre — raccolti in un beauty-case nero che era appartenuto proprio a lei. Richiuse la cerniera e si sfilò i jeans di marca che indossava e li buttò sul letto per sostituirli con un paio di semplicissimi jeans che Virginia si era dimenticata lì: oltre al fatto che si era ripromessa di non portare niente di firmato, ovvero comprato con gli schifosi soldi di suo padre, voleva avere con sé qualcosa della migliore amica. Anche la camicetta verde venne sostituita più che degnamente da una t-shirt dei Beatles che Federico le aveva regalato un paio di settimane prima.

Infine decise che anche il borsone era troppo per le poche cose che voleva portare con sé. Agguantò quindi uno zaino da montagna infilato in una delle mensole dell'armadio. La vista di tutti i vestiti costosi che componevano il suo guardaroba le fece venire la nausea. Per un attimo ebbe l'impulso di buttare tutto a terra e magari calpestarlo, ma l'unica cosa che avrebbe guadagnato sarebbe stato far lavorare Teresa più del necessario. La rabbia rientrò mentre l'anestesia si impossessava di tutto, di nuovo.

Buttò dentro lo zaino compulsivamente quello che aveva pensato le potesse servire, premendo con forza per comprimere i vestiti, in cima ai quali aveva infilato il beauty-case. Sopra questo sistemò il porta cd da viaggio contenente i suoi cinquanta dischi preferiti, tra cui — ricordò a denti stretti — quello che aveva provocato il litigio del pomeriggio. Infilò anche qualcuno dei suoi libri preferiti, poi staccò l'hard-disc esterno del computer, lo avvolse in un panno di velluto e lo piazzò sopra tutto il resto: i suoi dati, tutti i documenti, la musica e i film a cui più teneva non sarebbero rimasti in quella casa, in una memoria rigida che avrebbe finito per fare la polvere.

Scelse con cura un altro paio di oggetti, infine prese il foglio su cui aveva stampato il racconto di M. H, lo piegò e lo infilò nella tasca dei jeans, decidendo che da quel giorno in poi sarebbe stato il suo porta fortuna. "Come se si potesse decidere..." pensò senza però cambiare idea.

Prima di uscire, agguantò il portafoglio, quindi fu pronta a lasciare quella stanza per cui non provava alcun dispiacere, men che meno in quel momento. Le rivolse un ultimo sguar do indifferente, poi si chiuse la porta alle spalle e, a passo deciso, attraversò il corridoio.

Gabriele Castaldo era nel proprio studio, chino su un foglio fittamente scritto. Nel sentir aprire la porta senza alcun preavviso, trasalì; poi piantò due occhi di ghiaccio sul disturbatore, anzi, la disturbatrice, ferma sulla soglia.

Danielle sostenne il suo sguardo costringendolo a sbuffare e girare la testa.«Sapevo che saresti tornata. Fai tanto la ribelle, poi... forza, scusati in fretta

perché devo lavorare».La ragazza non rispose, si limitò a stringere i pugni e serrare la mascella. Era una

fortuna che il torpore generale le impedisse di strillare, piangere o, comunque, avere qualsiasi reazione che avrebbe soddisfatto l'avversario.

«Allora? Sbrigati, devo concludere un contratto».Danielle fece un passo in avanti, incrociò le braccia sul petto e disse: «Io me ne

vado. Non sarò né a casa di Federico né a casa di Virginia, ammesso e non concesso tu sappia chi sono. Sarò fuori città, anzi, fuori dall'Italia».

«Lasciami indovinare, essere irresponsabile... Te ne andrai in Inghilterra da quei tizi... i Richards...».

«Precisamente. Sono solo venuta a dirti che ho con me la carta di credito ma non vi attingerò per molto, giusto il tempo di trovare un lavoro».

Gabriele rise sardonicamente, incapace di immaginarla nel semplice tentativo di lavorare, ma lei non gli diede tempo di ribattere perché era già scomparsa nel buio del corridoio. E non ebbe nemmeno tempo di vedere il suo volto amareggiato, sentire il suo sussurro: «Non volevo che andasse a finire così...».

Abbracciò per un istante Teresa, poi corse fuori, verso la macchina di Federico, verso il buio della notte, verso l'ignoto.

2

Londra. Al Royal London Hospital un medico sulla trentina camminava lentamente in corsia con una cartelletta in mano. Teneva le labbra strette, l'espressione assorta. Sentì dei passi provenire nella sua direzione e alzò gli occhi dal foglio: una giovane infermiera lo salutò. Lui le rispose con un sorriso e tornò a concentrarsi sul foglio continuando a camminare verso il reparto di terapia intensiva.

Un paio di minuti dopo alzò di nuovo gli occhi, ma questa volta per controllare il numero della stanza. La porta era chiusa; il medico bussò. Sul letto un ragazzo sui diciotto anni giaceva pesantemente sedato, un intrico di tubi a coprirne l'esile figura, dalla mano sinistra assorbiva la flebo, una grossa fiala di liquido colma ora per metà. Il braccio destro, ingessato, inerme sopra il lenzuolo, strette fasce intorno alla testa, un paio di cerotti sul volto. Al suo capezzale la madre che lo fissava con occhi gonfi d'amore e stanchezza.

Il dottore la salutò e si chinò ad esaminare il paziente. Guardò con estrema attenzione i monitor che registravano i suoi parametri vitali, facendo qualche annotazione sulla cartellet-ta.

La donna lo seguiva con lo sguardo, incapace di respirare, lo stomaco attanagliato dalla paura. Il tempo non trascorreva mai in quella stanza, mai, e il suo piccolo era sempre in quello stato e lei non poteva fare niente per proteggerlo. Le venne voglia di accarezzarlo, ma non voleva disturbarlo. Sospirò e attese che il dottore parlasse.

«Stazionario» concluse l'uomo con un profondo sospiro. «Avrebbe già dovuto reagire da qualche ora». La sua voce tradiva dolore, empatia con quella donna sofferente in ogni fibra del suo essere.

«Non ce la farà, dottore?». La voce della madre era incrinata, gli occhi rossi.Lui fece l'ultima annotazione: «Vi auguro tutta la fortuna del mondo, di cuore».

Era conscio di non aver risposto direttamente alla domanda, ma non poteva farlo, non aveva risposte.

Due ore dopo, terminato il giro di visite, il medico era seduto nel suo studio, gli occhi inchiodati sulla cartella clinica del giovane paziente in coma farmacologico. Respirava affannosamente, in preda ad una lotta interiore contro un muro che gli impediva di fare di più, sì, più del possibile per quel ragazzo. Era chiaro che una soluzione c'era, ci doveva essere, ma quale? Non poteva rimettersi al tempo che trascorreva e forse a qualche miracolo, in cui non credeva nemmeno un po'. Si morse il labbro inferiore con forza: sentiva che ci stava arrivando, sì, forse stava elaborando qualcosa.

La porta si aprì all'improvviso, senza che nessuno avesse bussato. Il medico ebbe un silenzioso scatto d'ira per essere stato distolto da quella scia di pensieri che lo stava portando nella giusta direzione. Ciononostante, sollevò la testa e vide l'infermiera che aveva incrociato in corridoio qualche ora prima: «Dottore, si sbrighi, il ragazzo!» strillò la donna, il volto una maschera d'orrore. In quel momento anche il

cercapersone si mise ad ululare.Lui era un medico, certamente abituato ad affrontare le emergenze, tuttavia ebbe

un sussulto mentre, correndo nel corridoio, nel suo cervello fu chiaro che non avrebbe più potuto fare nulla.

Si precipitò nella stanza. I monitor erano più che eloquenti, le cuspidi ormai lineari. Si gettò sul ragazzo, controllando il battito cardiaco: inesistente. Praticò i tentativi di rianimazione: inutili. Dispose infine che venisse portato in sala operatoria, con estrema urgenza.

La madre era stata fatta allontanare dalla stanza ed ora stava in corridoio, attonita. Le guance erano rigate di lacrime e... beh, sì, era sola, una madre sola ad occuparsi di un ragazzo adolescente. Luke era un figlio eccezionale, l'aveva sempre sostenuta, e il giorno dell'incidente era uscito a fare la spesa. Dio... se solo non gliel'avesse chiesto, se solo fosse andata lei al supermercato...

L'infermiera si teneva a un metro di distanza, rispettosa dell'indescrivibile dolore della donna, ma nel contempo desiderosa di gettarle le braccia al collo e dirle che era tutto a posto, che ogni cosa si sarebbe sistemata. Eppure sapeva bene che questa non era la verità. Per una frazione di secondo aveva incrociato lo sguardo del dottore e aveva letto scoraggiamento, rassegnazione, sentimenti a cui un medico brillante ed ottimista come lui non era abituato. Le veniva da piangere. Abbandonò qualsiasi remora fintamente professionale e si avvicinò alla donna per accarezzarle il braccio.

Era ormai tardo pomeriggio. Il sole stava donando le ultime sfumature sgargianti alla capitale britannica prima di tuffarsi definitivamente dietro la linea dell'orizzonte. La signora in attesa era ancora lì, in attesa, di fronte alle porte della sala operatoria. L'infermiera, però, non c'era più, richiamata al dovere dalla caposala e la donna ne era dispiaciuta perché ora era sprofondata di nuovo nella sua fredda solitudine. Il tempo non passava, no, non passava in quel maledetto posto.

La porta della sala operatoria si aprì, ne uscì il giovane medico con un volto su cui erano dipinte varie emozioni: mestizia, stanchezza, dolore, rabbia, sconcerto, rassegnazione...

La donna, da qualche istante assopita con il viso fra le mani, non si accorse che le si stava avvicinando e sussultò quando lui la chiamò: «Signora Mason...».

Si drizzò di scatto sulla sedia e fissò gli occhi in quelli del dottore.«Mi scusi...» sussurrò lui, in quel momento insolitamente incapace di qualsiasi

forma di autocontrollo, dote che lo contraddistingueva in ogni occasione.La donna lo guardò ancora per qualche istante, poi emise un urlo talmente

straziante da raggiungere gli angoli più nascosti della corsia, provocando una fitta di dolore a qualsiasi essere umano che incontrava sul proprio percorso.

«Mi scusi... mi scusi... non sono riuscito a fare niente... io... mi scusi...». Il dottore le stringeva la mano, ma lei era ormai distante milioni di miglia da quel posto. Il suo corpo tremava convulsamente, il viso era contratto, i singhiozzi disperati.

«Il mio bambino... il mio bambino...» sussurrava non appena il pianto glielo permetteva.

Il medico era fermo di fronte a lei, la mano stringeva ancora quella di un relitto

che non opponeva resistenza, totalmente ignara di tutto ciò che lì intorno poteva accadere. Anche lui era devastato, i guanti di lattice ancora addosso.

Un collega più anziano gli si avvicinò e gli passò il braccio sulle spalle, trascinandolo via da quella donna che, nel frattempo, aveva affidato a due infermiere.

«Ehi, non è la prima volta, lo sai» gli disse l'uomo mentre lo conduceva verso lo studio.

«Lo so, dannazione, lo so! Ma aveva solo diciotto anni, Jack, una vita intera davanti a sé e io non sono riuscito a fare niente per impedire che morisse».

«Sai meglio di me che non potevi fare niente, ne abbiamo già parlato».«Invece sì! Prima che venissero a dirmi che aveva avuto una crisi, io...».Il collega scosse la testa con forza.Ora solo nello studio, il dottore tirò di nuovo davanti a sé la cartella clinica di

Luke Mason, pur pervaso da un disgustoso senso di impotenza.Erano ormai le dieci di sera, tre ore passate su quella cartella clinica, l'ennesima

cena saltata, quattro o cinque chiamate a cui non aveva voluto rispondere senza nemmeno prendersi la briga di guardare da chi provenivano. Sospirò con rassegnazione, diede un'ultima occhiata alla cartella e la chiuse, per sempre, si disse, sì, per sempre perché per sempre Luke se n'era andato. Mentre si toglieva il camice, si rese finalmente conto che, in effetti, nonostante la rabbia e la frustrazione, aveva fatto tutto il possibile.

Con le mani affondate nelle tasche dei jeans, si diresse verso l'uscita del reparto.«Arrivederci, dottor Holland» lo salutò l'infermiera del turno di notte.Lui le rispose con il classico sorriso e si affrettò verso l'ascensore, appena giunto

sul piano portando un uomo di mezza età che lo ignorò deliberatamente.Mentre la piattaforma, con uno scatto, si lanciava verso il piano terra, il dottor

Holland si portò le mani alla testa. Il male era diventato ormai ingestibile e, del resto, lui non aveva più alcun bisogno di controllarlo. Fece una smorfia di dolore, che vide riflessa nello specchio con la coda dell'occhio. Sorrise amaramente, poi si affrettò ad attraversare l'atrio e a tuffarsi nella notte londinese. Aprì la sua auto scura con il telecomando e vi ci si buttò dentro, ansioso di tornare a casa, assaporando già il piacere del letto.

Bob, un massiccio Labrador color sabbia, lo aspettava con impazienza. Non appena aprì la porta dell'appartamento, il cane si mise a scodinzolare e gli strusciò con insistenza il muso sui jeans.

«Oh cacchio, Bob, hai ragione... tu dovresti anche mangiare qualcosa, non sei mica uno stacanovista tu!». "E forse avresti anche avuto voglia di fare una passeggiata" pensò, ma evitò di far venire strane idee al cane. Si limitò a preparargli il cibo, con grande sollievo di quest'ultimo.

Perfettamente conscio del fatto che il medico sia il peg-gior paziente di se stesso, prese dal frigo una lattina di birra e la stappò con una smorfia: un'altra fitta alla testa. Certo, bere la birra prima di prendere la pastiglia di morfina... senza nemmeno aver mangiato... eccetera, eccetera, eccetera... non pensò troppo a ciò che, con profonda e sincera convinzione, diceva ai propri pazienti e si scolò in fretta il contenuto della lattina.

Bob, ora soddisfatto, gli leccò la mano e lo seguì verso la camera.

Prima di spegnere la luce, Holland diede la quotidiana occhiata alla foto che teneva sul comodino. Gli tornò alla mente, con insistenza, l'immagine della testa martoriata di Luke Mason, l'opprimente senso di impotenza e la cieca disperazione della giovane madre di quel giovanissimo ragazzo.

Un'altra fitta lancinante lo distolse per qualche secondo dai ricordi della giornata, ma decise che non avrebbe preso nessuna medicina quella sera, neppure la meno invasiva, e si abbandonò con rassegnazione sul cuscino, in balia del dolore e dell'intervento non riuscito.

3

L'aereo stava già attraversando il Canale della Manica e Danielle, di tanto in tanto, dava un'occhiata alla distesa azzurra che il velivolo stava superando. Teneva strettamente abbracciate le ginocchia, sentendo distintamente la presenza della cintura di sicurezza che la stringeva in vita. Ma ormai, decise, si trovava comoda in quella posizione, tanto più che era disposta a pagare il prezzo di un po' di dolore pur di far capire al ragazzo sedutole accanto di farsi i fatti suoi. Lui non aveva smesso di guardarla da quand'era salita, eppure Danielle indossava i jeans larghi di Virginia e la T-shirt dei Beatles della sera precedente. Gli aveva rivolto un'occhiata glaciale, ma il tizio era evidentemente un tipo persistente. Optò per l'indifferenza e, pur sentendosi lo sgradito sguardo addosso, almeno fingeva di essere ignorata, esattamente ciò che voleva.

Lei il ragazzo lo aveva già e dio soltanto sapeva quanto le fosse costato lasciarlo. Aveva l'impressione di essere sembrata poco premurosa nei suoi confronti prendendo una decisione tanto drastica, ma del resto cosa poteva fare? I Biondi erano gentilissimi, sin troppo, ma non se la sentiva di rifugiarsi a casa loro per un periodo indeterminato di tempo. Keith e Michelle, invece, avevano una grande casa, nessun figlio, un enorme desiderio di averla con loro e... e soprattutto Brighton era abbastanza lontana da Roma per evitare contatti con suo padre, quanto meno nell'immediato. Stava lasciando tutto, certo, per un tempo che poteva variare dalle due settimane alla vita intera, ma ne valeva la pena, lo sentiva, lo sentiva in pancia, dove sua zia le aveva insegnato a focalizzare le emozioni. Sorrise al ricordo di zia Angela; era partita senza dirle niente... beh, l'avrebbe chiamata dall'Inghilterra. Poi chissà dove si trovavano lei e suo marito in quel momento, entrambi persone che sapevano godersela davvero un sacco.

L'immagine di Federico si sostituì a tutto il resto, spazzando via qualsiasi briciola di ricordo in cui lui non fosse coinvolto.

Strinse i denti nel pensare ai minuti prima del check-in, alle cose belle che le

aveva sussurrato stringendola tra le braccia e a quanto lo amasse. Di nuovo venne pervasa da un forte senso di colpa per non aver nemmeno preso con lui la decisione di andare via. Federico era un ragazzo straordinario, forte, intelligente e innamorato e sapeva benissimo quand'era il momento di mettersi un po' da parte e lasciar fare a lei. E fu per questo che il rimorso di Danielle crebbe ulteriormente. Avrebbe voluto aver agito in modo diverso, avrebbe voluto aver chiesto la sua opinione, il suo aiuto... ma lui non si era espresso e lei non aveva insistito perché lo facesse. Strinse la mascella dandosi della stupida. Contava troppo sulla sua comprensione e, certo, non doveva abusarne.

Portò quasi istintivamente la mano alla tasca destra dei jeans e sentì il foglio spiegazzato, il suo portafortuna. Lo tirò fuori: quel giorno non l'aveva ancora letto e la sua avventura in Inghilterra non poteva certo cominciare senza il rito a cui lei, da

due anni a questa parte, teneva di più in assoluto.Già, e se invece... un sacco di "e se invece" nella sua storia, un sacco di se e di

ma da quattro anni. La mamma... se la mamma fosse stata ancora viva tutto questo non sarebbe mai successo, Gabriele non sarebbe mai stato troppo nervoso ed arrabbiato per sopportare la figlia. Ma anche il racconto di M. H era un grande "e se invece" deluso, perché la guerra in Iraq era scoppiata, oh sì che era scoppiata, e stava ancora colpendo con bilanci disastrosi; lui, a quanto pareva, aveva partecipato eccome alla prima Guerra del Golfo con chissà che conseguenze. Troppi "e se invece..." per fermarcisi sopra un secondo più a lungo.

Iniziò a leggere il racconto, ma con la coda dell'occhio vide che il ragazzo seduto vicino stava spiando. Indignata, richiuse il foglio e gli piantò in faccia uno sguardo che ultimamente aveva riservato solo a suo padre, nei momenti peggiori: «Senti, amico, io non so chi tu sia e francamente non me ne frega nulla. Poiché siamo in un luogo pubblico, mi permetti di farmi i fatti miei in santa pace? Troppa grazia?».

I passeggeri intorno la sentirono e si girarono a guardare il ragazzo sulla trentina che, rosso in viso, ora aveva abbassato gli occhi senza rispondere. Era stato palesemente colto alla sprovvista. Mai avrebbe pensato che quella ragazza dai capelli castani, così graziosa, avesse una simile forza di carattere.

In attesa che la rabbia sbollisse, Danielle guardò fuori dal finestrino e accarezzò delicatamente con i polpastrelli le leggere righe tattili che aveva prodotto la stampante a laser sul foglio che ora stringeva convulsamente.

Federico avrebbe dato l'ultimo esame della sessione, dopo due giorni, e l'avrebbe raggiunta. Era ansiosa di riunirsi a lui. Pensò che sarebbe stato troppo strano ritrovarsi in una città come Brighton, loro due che, insieme, non erano mai usciti dai confini di Roma. Sarebbe stata la cosa più bella di quel periodo. Da sotto la maglietta, tirò fuori la catenina d'argento con il ciondolo blu che lui le aveva regalato a Natale. Lo accarezzò, chiedendosi cosa stesse facendo lui in quel momento, a cosa stesse pensando. Poi dispiegò di nuovo completamente il foglio ed iniziò ad assorbirlo, dopo aver però controllato che il disturbatore del sedile accanto tenesse gli occhi bassi, su un punto fisso ai propri piedi.

Alle tre e mezzo, ora locale, l'aereo atterrò a Heathrow. Fuori dalle transenne, occhi fissi sui passeggeri in uscita, stavano Michelle e Keith: lei una donna slanciata, capelli biondo-tinto, fisico e volto che dimostravano molto meno dei suoi quasi quarant'anni; lui un uomo robusto, alto persino per una donna alta come sua moglie, braccia incrociate sul petto e un'espressione rilassata. Danielle corse loro incontro e fu stretta in un caloroso abbraccio.

Nonostante si sentissero molto spesso, erano ormai trascorsi quattro anni dall'ultima volta in cui si erano visti, dal funerale di Roberta. L'ultima immagine di Danielle che avevano in mente era quella di una ragazza smarrita, arrabbiata, disperata. Ed era per questo doloroso ricordo che la sera prima, non appena aveva sentito la voce incrinata di Danielle al telefono, Michelle aveva acconsentito con trepidazione che la giovane li raggiungesse a Brighton. Povera piccola...

Michelle le passò un braccio intorno alle spalle e, mentre la conduceva verso l'automobile, scorse di nuovo quell'espressione sofferente sul suo volto, pur con due fondamentali dif ferenze: il sorriso che Danielle si sforzava di rivolgere agli ospiti e

la lucidità e determinazione, elementi che nel viso di quattro anni prima la donna non aveva trovato. Non aveva saputo cos'era successo di preciso e non avrebbe chiesto nulla, a meno che non fosse stata Danielle stessa a volergliene parlare. Tuttavia era certa che qualcosa di grave c'era, altrimenti quella roccia di Danielle non avrebbe implorato aiuto in quel modo. E ora era lì e Michelle ne era assolutamente estasiata.

Si infilò con lei nel sedile posteriore, lasciando che Keith facesse da autista. Avevano molto di cui parlare e anche i Richards avevano alcune novità, come la casa nuova oppure il nuovo impiego di Michelle. Tuttavia non c'era nessuna fretta: tutti erano coscienti che quella sarebbe stata più di una vacanza internazionale per la ragazza e sarebbe durata un bel pezzo.

A Brighton, la Land Rover di Keith si fermò nel vialetto di un'alta e stretta villetta a schiera — vicina alle altre case in maniera impressionante, pensò Danielle — di mattoni rossi, tetto a strapiombo e tre piani di superficie. Quella era la casa nuova, certamente non un grande cambiamento dato che si trattava di attraversare una strada, ma la nuova abitazione era più grande e, appunto, nuova.

Mentre esternava le proprie riflessioni, Danielle venne introdotta in un salotto assolutamente accogliente. La luce nella stanza era molta e si spandeva con grazia. Dall'enorme portafinestra entravano i raggi obliqui del sole pomeridiano che si riflettevano nei semplici ma eleganti mobili in noce chiaro. Due ampi divani color crema — gli unici che potessero contenere la massiccia stazza di Keith — contornavano un basso tavolo di noce stracolmo di libri e riviste di ogni genere.

Fu proprio nel mezzo di uno di questi che Danielle si sprofondò, intorno a lei le braccia dei due amici, più che mai contenti della sua presenza. La ragazza era sorridente, percependo ora completamente il loro calore, il calore di una famiglia unita, di gente che si vuole e che ti vuole un sincero bene, completamente disinteressato.

Una volta nella sua stanza, una delle due camere degli ospiti, Danielle appoggiò lo zaino sul letto e, rimasta sola, puntò i gomiti sul davanzale e guardò fuori, in direzione del mare. Gli ultimi bagnanti della giornata costellavano la spiaggia ghiaiosa, in particolare un bel gruppetto di bambini che si rincorrevano e gridavano. Alle loro spalle, la risacca di un mare calmo, invitante, il suo movimento quasi ipnotico.

Danielle lo fissò a lungo prima di cominciare a formulare i primi pensieri di senso compiuto da quando aveva posato gli occhi su quel panorama. Era fuori da qualsiasi dubbio la gioia di essere lì, anche se il ciondolo bruciava a contatto con la pelle, pronto a ricordarle ciò che aveva lasciato alle spalle.

"Non ho lasciato niente, non è per sempre" pensò. E pensò anche di essere contenta di altre due cose: che sua madre l'avesse mandata, anche controvoglia, ad una scuola internazionale dove aveva imparato piuttosto bene l'inglese, e che, sempre sua madre, avesse due amici fantastici come i Richards. Non sapeva se avrebbe raccontato a Michelle tutto ciò che era successo con suo padre, le faceva troppo male. Ma forse era giusto che almeno lei sapesse fino in fondo il perché Danielle si trovava lì. Chissà cosa stava facendo Gabriele Castaldo in quel momento... L'ultima volta in cui si erano visti, circa ventiquattro ore prima, lei lo aveva guardato distrattamente, smaniosa di andarsene il prima possibile. E lui non aveva fatto niente

per fermarla, assolutamente niente, non si era nemmeno alzato dalla sua lurida poltrona di pelle. Non le aveva chiesto il perché anche se, in effetti, il motivo della partenza era chiaro; ma Danielle non era sicura che suo padre lo capisse. E l'ultima cosa che ricordava di lui era quell'agghiacciante risata sardonica, che l'aveva accompagnata fino all'atmosfera sicura dell'auto di Federico, rimbombandole nelle orecchie come un'odiosa melodia, troppo orecchiabile, di qualche altrettanto odiosa cantante pop. Non soffriva, no, non credeva affatto di soffrire. L'anestesia, il cui epicentro era il cervello, era sempre pronta ad estendersi in ogni muscolo quando si trattava di pensare a lui. Questo senso di paralisi le impediva di soffermarsi a lungo sull'uomo, rendendola incapace di pensare anche ai tempi belli che avevano trascorso insieme. E di tempi belli ce n'erano stati, tanti, quegli istanti in cui lei aveva creduto che Gabriele fosse il padre migliore del mondo. I lunghi pomeriggi al parco, sull'altalena, le estati in spiaggia con paletta e secchiello, il Natale quando lui, immancabilmente, si travestiva da babbo natale finché lei, a dieci anni, l'aveva smascherato. In tutto ciò, però, la costante era la mamma. Fin tanto che Roberta era con loro, tutto era diverso, anzi, perfetto.

Danielle non pensava a tutto ciò. Si limitava a fissare le onde del mare e a respirare al loro ritmo. La mente ora era come svuotata, priva di un perno intorno al quale far girare i ricordi.

Ebbe però un tuffo al cuore, contro cui l'anestesia non poté agire, nel vedere un bambino scivolare sui sassi e un padre che correva a prenderlo in braccio e lo stringeva teneramente per consolarlo. La ragazza abbassò lo sguardo, pronta ad accogliere l'ormai familiare ondata di paralisi che si sarebbe impossessata di ogni centimetro quadrato del suo corpo. La valigia poteva attendere, il sonno poteva attendere, la cena poteva attendere... tutto poteva attendere.

Qualcuno bussò delicatamente alla porta, ma Danielle, ovviamente, non lo sentì. Michelle non si fece scrupoli ad entrare e, trovandola lì, immobile, rivolta alla finestra, ebbe un nodo in gola.

«Dani» sussurrò, posandole una mano sulla spalla.La ragazza non sussultò, aveva avvertito la sua presenza pur con la mente su un

pianeta distante anni luce da lì. Con estrema lentezza si girò e fissò i suoi occhi vuoti in quelli nocciola di Michelle. Il nodo alla gola di quest'ultima si ingrossò.

«Vieni, siediti» la invitò, cingendole dolcemente il polso con le sue lunghe dita.La giovane ubbidì, l'anestesia si stava ritirando nella propria tana al centro del

cervello.«Hai voglia di parlare un po'?» chiese la donna, sedendosi sul letto accanto

all'amica.La ragazza alzò le spalle: «Non so, è difficile».«Lo so. Parla solo se ti fa stare meglio, non per fare un favore a me, anche perché

non sarebbe un favore se tu ci stessi male».«Credo di volerlo fare, però. Ne ho tanto bisogno». La ra gazza prese una lunga

serie di profondi respiri, non sapendo da dove cominciare. Cosa dire, parlare dell'ultimo episodio o iniziare da dopo il funerale? Raccontarle dello schiaffo o di tutta l'indifferenza che l'aveva oppressa in quei quattro anni? Sospirò ancora, cacciando con tenacia il senso di paralisi che si espandeva con una prontezza

inaspettata ogni volta che provava a richiamare alla memoria i ricordi in cui fosse coinvolto Gabriele.

Michelle attendeva, pazientemente. Non era affatto curiosa di sapere cosa avesse portato lì Danielle, aveva paura di scoprire qualche cosa di terribilmente indesiderato.

Al piano inferiore, Keith stava preparando la cena, preoccupato quanto la moglie per quella creatura che, quel pomeriggio, aveva visto per la seconda volta così indifesa, vulnerabile. Il pollo stava friggendo in padella, ma lui gli prestava poca attenzione, i palmi premuti con forza sul bancone di marmo. C'entrava per caso quell'essere arrogante e straricco di Gabriele Castaldo con tutto ciò? Eh beh, non sarebbe stato strano, dato che Roberta, da quando si era sposata con lui, era quasi completamente cambiata. Eppure gli era sempre parso che fossero una famiglia felice, due genitori che amavano la propria figlia, quella che lui e Michelle non erano mai riusciti ad avere. Ma in fondo in quel momento non contava. Importava piuttosto pensare a quella ragazza straordinaria. Era convinto ci fosse di mezzo Gabriele. Ma perché? Insensato!

Sbuffò, incapace di immaginarsi il motivo di tutti quei sospetti campati per aria, ma a riscuoterlo rapidamente da qualsiasi pensiero fu l'eloquente odore della carne sul punto di bruciare. Si precipitò sul pollo, deciso a non far giungere il minimo profumo allarmante a Michelle e distrarla dalla conversazione che durava ormai da... mezz'ora abbondante.

Danielle, intanto, aveva iniziato a raccontare tutto, a cominciare dalla prima volta in cui aveva avuto la sensazione di aver perso anche il padre, oltre la madre.

Erano nel salone di casa, la famigerata sera della disgrazia. Danielle stava rannicchiata vicino a zia Angela, incapace di fermare i singhiozzi che le scuotevano il corpo da ore e ore.

La donna le teneva un braccio stretto intorno alle spalle, inutile.Fu a quel punto che, attraverso il velo di lacrime, la ragazza vide il padre che

rientrava dall'ospedale, dopo aver riconosciuto il corpo della moglie. La figlia si alzò e gli andò incontro, ansiosa di sentirsi cingere dalle sue braccia protettive. Ma l'ansia venne disillusa, ogni aspettativa crollò e le certezze iniziarono a vacillare. Danielle, però, era troppo lucida ed intelligente per non prendere in considerazione l'ipotesi per cui il padre fosse talmente scosso — dopo il riconoscimento a maggior ragione — per mostrarsi affettuoso. Si ritirò con uno sguardo tra lo sbalordito e il comprensivo, per tornare a raggomitolarsi accanto alla zia. Era convinta che tutto sarebbe tornato a posto in poco tempo, in qualche giorno o, forse, settimana. Non contava, no, non contava che suo padre non riuscisse a consolarla, per lui era un momento molto difficile. E lei si sarebbe dimostrata matura, lo avrebbe sorpreso con la nuova capacità di forza d'animo e pazienza. Già, Gabriele sarebbe stato orgoglioso di una figlia che non si era abbattuta in una tragedia così crudele, orgoglioso di una figlia che gli sarebbe stata accanto con discrezione, presente quando lui ne avesse avuto bisogno. Il vuoto dentro di lei era sicuramente enorme, forse più di quanto riuscisse a capacitarsi, ma la speranza, anzi, la certezza di stare per creare un rapporto prezioso, unico, con suo padre la consolava in parte. E anche sua madre sarebbe stata orgogliosa di avere una figlia così in gamba, una figlia che non si lasciava

scoraggiare."Ti dirai che sei stata un'ottima madre, mamma, ed in effetti lo sei stata davvero"

pensava Danielle, il braccio della zia sempre intorno alle spalle.Gabriele non si era fermato nel salone; se n'era andato nel proprio studio e ci si

era rinchiuso. Non aveva voluto parlare con nessuno fino al giorno del funerale. Danielle aspettava con pazienza, conscia dell'importanza della propria missione. Ora che suo padre aveva perso la moglie, lei gli avrebbe dato tutto l'affetto di cui era capace. Lo avrebbe protetto, come sua madre faceva quotidianamente. Gli avrebbe stretto la mano nei momenti difficili sul lavoro o in quelli di sconforto per la grande perdita. Sarebbe stata forte, sì, sarebbe stata una roccia per lui, solo per lui. Si vedeva già, seduta sul pavimento dello studio di Gabriele, a chiacchierare con lui del più e del meno. Si immaginava a passeggiare con lui, mentre gli snocciolava i voti di cui lui sarebbe andato fiero.

E invece... e invece non successe nulla di tutto ciò, non si realizzò neppure la minima aspettativa.

Michelle si asciugò le lacrime con il dorso della mano e strinse la spalla di Danielle che, abbracciando le ginocchia, si dondolava a quello che pensava potesse essere il ritmo del mare là fuori.

Michelle non aveva il coraggio di parlare, non voleva interrompere quello sfogo. Aveva ragione a sospettare di non voler ascoltare ciò che era successo a Roma.

Danielle non rispose con nessun cenno alla sua calorosa stretta. Sembrava caduta in uno stato di trance e parlava, con un impressionante e struggente distacco lucido. Raccontò dei tentativi di avvicinarsi al padre, dalle piccole cose come il portargli il caffè in ufficio, a quelle grandi, come il chiedergli, a cena, come stavano andando le cose sul lavoro. Lui sembrava non notare nessuna di quelle attenzioni e, se per caso si accorgeva che sua figlia si dimostrava premurosa con lui, prendeva con forza le distanze. Lo studio ormai era diventato il suo luogo preferito — o, per meglio dire, l'unico che gli permettesse di non pensare, immergendosi il più possibile nel lavoro.

Ogni sera, Danielle passava davanti allo studio con la scusa di andare nel bagno di sotto perché... beh, era più grande, più comodo... un sacco di frasi che aveva immaginato di dire a suo padre qualora lui, con un dolce sorriso, le avesse chiesto perché si prendesse tanto disturbo. Quando lui si fosse accorto del magnifico gesto di Danielle, lei non avrebbe voluto essere trasformata in un'eroina o affini. Voleva soltanto che suo padre le volesse bene, con naturalezza, e la stimasse. Ogni sera, dunque, passava davanti allo studio e vedeva la porta chiusa, ma la luce filtrava da uno spiraglio, sotto la soglia. E quella luce rimaneva accesa fino a tardi, fino a notte fonda quando, esausto, Gabriele si addormentava in poltrona oppure si trascinava di sopra, nella propria stanza, in quel letto troppo grande per appartenere ad una persona soltanto.

D'un tratto Michelle balzò in piedi. Si guardò intorno poi: «Oddio, il pollo!» esclamò precipitandosi fuori dalla stanza.

Danielle si riscosse dal suo stato di trance e la seguì a ruota giù per le scale, quindi in cucina.

Keith, un'espressione sconfitta sul volto, stava combattendo strenuamente perché quel pasto che si era prospettato tanto prelibato non finisse completamente

carbonizzato.Michelle lo spostò senza troppi sforzi, continuando ad inveire contro il mancato

cuoco.«Ecco, ecco cosa sei! Questo sei tu!» strillò indicando il pollo ormai bruciato per

metà «Sei un pollo abbrustolito!».Danielle, in piedi sulla soglia, osservava la scena senza nascondere un certo

divertimento. Erano una coppia fantastica; glielo aveva mai detto qualcuno?Keith, non troppo depresso per il macello combinato, trascinò una sedia da sotto

il tavolo e ci si sedette sopra, guardando intento la moglie che provava a rimediare al danno.

«E adesso cosa mangiamo» continuò lei «il tuo cervello? No, scusa, non ne hai!».Danielle e Keith si scambiarono un'occhiata complice, entrambi divertiti. E lui, in

silenzio, si rese conto che valeva la pena eccome di aver fatto bruciare il pollo. Danielle stava sorridendo ora e quel sorriso era sincero, non cortese, come quello che aveva sfoggiato scendendo dall'aereo. Non c'era pollo che tenesse!

Michelle, con uno scatto nervoso, buttò nella spazzatura tutto il contenuto della padella, quindi incrociò le braccia e guardò il marito con aria di sfida: «Ora, signor Richards? Cos'abbiamo intenzione di mangiare?».

Ma prima che Keith potesse anche provare a proporre la comoda alternativa della cena fuori — bisognava festeggiare Danielle! — la ragazza si mise fra loro, li guardò con aria furba e disse: «Pasta alla carbonara?».

Così, pochi minuti dopo, sotto lo sguardo attento ed affet tuoso dei coniugi Richards, Danielle era intenta a spaccare uova, tagliare pancetta eccetera. Aveva sempre visto Teresa fare quelle cose, ma lei non si era mai cimentata. Benché avesse avvertito i due amici di questo dettaglio, loro non se n'erano affatto preoccupati, anzi, la fissavano con sguardo ancor più curioso. Nel vederla lavorare, si scambiavano cenni d'approvazione soprattutto perché Danielle ormai sorrideva spontaneamente, sinceramente.

Lei, dal canto suo, era troppo concentrata per badare a tutto ciò. Da spettatrice passiva si era trasformata in chef con tanto di aiuto-cuoco a disposizione. Ci mise il massimo dell'impegno e... beh, se lei si impegnava, i risultati erano certamente eccellenti.

Così fu anche per quella pasta che servì con aria fintamente professionale ai due coniugi, impazienti di assaggiare quegli spaghetti che emanavano un profumo delizioso, reso ancor più squisito dal ricordo della puzza del pollo bruciato.

«Fermi, assaggio io per prima!» intimò, obbligando Keith e Michelle a fermare le forchette a mezz'aria. «Ok, accettabili. Prego!» concesse infine.

Michelle assaggiò e la guardò con gli occhi luminosi: non aveva mai mangiato una pasta tanto buona, non in tutta Inghilterra, quanto meno.

Keith le rivolse lo stesso sguardo tra l'ammaliato e il trionfante ed esclamò: «Meno male che ho bruciato il pollo!».

Risero tutt'e tre insieme, di gusto, e di gusto rise pure Danielle che, calata in quell'atmosfera tanto amorevole, aveva per qualche minuto dimenticato tutti i motivi che l'avevano condotta fin lì. Non si sentiva soltanto ben accolta, si sentiva proprio amata, oggetto di un sentimento che troppo poco aveva percepito negli ultimi tempi,

ad eccezione di una persona in particolare, che non era certo suo padre. Ma non fece questa considerazione in quell'istante e il fatto le impedì di rabbuiarsi, di cadere preda dell'anestesia, stato tanto familiare quanto terrificante che l'accompagnava quasi costantemente dal pomeriggio precedente.

Mentre lei fissava il piatto, lottando con uno spaghetto che non aveva alcuna intenzione di farsi ingoiare, Michelle e Kei th si scambiarono un'occhiata eloquente. Erano raggianti, soddisfatti di aver involontariamente fatto qualcosa per quella ragazza che amavano come una figlia, sebbene non sapessero precisamente come si amasse un figlio. Beh, ne avevano parlato alcune volte, dicendosi che se mai ne avessero avuto uno lo avrebbero voluto proprio come lei. E durante quella spaghettata, la convinzione si fece ancor più forte, mista però ad un senso di stupore: com'era strano il mondo... chi quella figlia l'aveva realmente non sapeva apprezzarla fino in fondo.

4

Fiamme... tante fiamme tutto intorno. Davanti un muro di fumo. Non si vedeva la fine di quella distesa di fuoco, sembrava che non sarebbe mai finita. L'aria si stava facendo ogni secondo più carica di fumo, di denso fumo nero, nero come... come il petrolio, da cui era scaturita quell'esalazione. Dov'era il cielo? Dov'era il sole? Sembrava che il mondo fosse fatto soltanto di fuoco e fumo, tanto fuoco e tanto fumo, tantissimo fuoco e tantissimo fumo. Avanti... avanti... ancora altro fuoco e altro fumo. Sarebbe mai finito? No, no, era una maledizione, tutto il mondo era andato in fiamme, tutte le riserve di petrolio stavano bruciando e niente le avrebbe fermate.

Il Boeing KC-135 arrancava a fatica in quel muro d'inferno, i soldati a bordo erano ormai incapaci di respirare. Le maschere dell'ossigeno erano quasi del tutto inservibili, la morte in cabina, con loro, per accompagnare gli ultimi metri del volo. Erano una sessantina, tutti giovanissimi, tutti rassegnati, ma tutti arrabbiati per quella sorte incresciosa, furibondi contro chi l'aveva decretata.

L'aria stava facendosi sempre più densa, i polmoni in fiamme come tutto il resto, le teste che di lì a pochi secondi sarebbero esplose. Ancora una manciata di istanti e poi sorella morte se li sarebbe portati tutti via, tutti quanti.

Di colpo lo scenario cambiò. Ora il soggetto era un lettino, rivestito di verde, e il volto tumefatto di un giovane ragazzo. Intorno a lui cinque persone lavoravano convulsamente, impegnati in una corsa contro il tempo che — glielo si leggeva in faccia — sapevano di non poter vincere. Ma loro persistevano, tenacemente, accanitamente. Rispondevano tutti agli ordini di una sola persona, un uomo apparentemente più giovane dei suoi quasi quarant'anni, il cui volto ora però era una maschera di rabbia, rassegnazione, sconfitta e paura.

All'improvviso venne afferrato da un paio di mani, una voce insistente ripeteva: «Non c'è più niente da fare... non c'è più niente da fare...».

«No!» urlò l'uomo tentando di divincolarsi.Cadde in un buio profondo.Qualcos'altro venne a contatto con il suo corpo, ma questa volta era carezzevole,

morbido.«Bob...» biascicò il dottor Holland ancora assonnato. «Dio, Bob, sto facendo gli

incubi e grido nel sonno come i bambini. Ah! E ho sognato di quel posto di merda, Bob, e ne capisco il motivo. Ho ancora un mal di testa assurdo».

Si rigirò nel letto per fare una carezza al cane e vide che, fuori dalla finestra, l'alba stava cominciando a spazzare via, poco a poco, tutte le stelle.

«Ho ancora un po' di tempo per dormire. Dici che ce la farò questa volta, Bob?».Lo accarezzò ancora per un istante, poi ritirò la mano.Le fitte alle tempie erano lancinanti, l'animo troppo sconvolto. Pur essendo,

ancora una volta, la cosa a cui desiderava pensare di meno in assoluto, il medico ritornò al primo incubo, ricorrente ma sempre terribile. Ad inquietarlo

maggiormente, però, era il secondo: gli era capitato altre volte, durante i dieci anni di carriera, per non parlare delle specializzazioni varie, di vedere delle persone morire. Ma nessuna l'aveva mai sconvolto come quella del giovane Luke. Forse non aveva fatto abbastanza, forse... Certo, questa considerazione sulle morti sconvolgenti non comprendeva il "posto di merda" ma, in ogni caso, quel ragazzo...

Fra questi pensieri, si addormentò per un altro paio d'ore, privo di incubi, prima che Bob, precedendo la sveglia di una trentina di secondi, gli strusciasse il muso contro le braccia.

Il dottor Holland si affrettò verso il Royal London Hospital, in anticipo di una buona mezz'ora rispetto all'orario in cui avrebbe dovuto iniziare il turno. Il mal di testa non l'aveva abbandonato per un solo istante e, a tratti, diventava più insopportabile del solito. Anche a colazione aveva tentato di evitare la pastiglia ma, se non voleva impazzire o, almeno, lavorare decentemente per il resto della giornata, avrebbe dovuto prendere qualcosa una volta in reparto.

Aprì la porta dello studio e ci si precipitò dentro, senza nemmeno richiudersela

alle spalle. Tirò fuori dalla borsa di pelle nera la confezione delle pastiglie di antidolorifico — le compresse di quello meno efficace ma che non avrebbe compromesso la sua lucidità — e andò al lavandino per riempirsi un bicchiere d'acqua.

«Che fa, si droga il nostro Doctor House?» domandò una voce dalla soglia.«Ciao Jack! Ecco, bravo, a proposito: fammi una ricetta di Vicodin che l'ho

finito...».L'anziano medico sorrise.«Beh, pensandoci bene, io e House abbiamo un sacco di cose in comune,

l'iniziale del cognome ad esempio. Ma lui mi batte in tutto il resto, non c'è storia». Riempì il bicchiere e ingoiò la medicina.

«Il fascino c'è tutto invece!» insistette l'amico.«Hai intenzione di regalarmi un bastone per Natale?».«No, non credo, non per ora, vai bene così, quell'aria sofferente da cefalea è

perfetta, le infermiere fanno la fila. E anche Carlton, ho notato...».«Nota pure, tanto non ho nemmeno un quarto del fascino di House e mi piange il

cuore. Però potrei farmi dare qualche lezioncina da Eze...». Entrambi risero. «Comunque sai bene che io sono sposato con Bob e che non mi perdonerebbe mai un tradimento».

Il collega annuì prima di spostare l'argomento del dialogo. «Dormito male questa notte?».

Il dottor Holland assentì facendo una smorfia.«Hai pensato ancora a Luke Mason, vero?».Anche in questo caso la risposta fu affermativa, ma l'aria mesta.«Ti si legge in faccia... Senti Matt, sai bene quello che devi sapere...».«Sì, eppure sono rimasto qui fino alle dieci ieri sera, ma ho ancora la sensazione

che mi sfugga qualcosa. Comunque ho deciso di chiudere definitivamente la questione, se è questo che vuoi sentirti dire».

Il collega scrollò le spalle: «Bah, devo andare. Non pensare troppo che ti sciupi, sarebbe una tragedia». Gli strizzò l'occhio e si allontanò mentre Matt si dirigeva alla

sedia per godersi qualche minuto di riposo in attesa dell'effetto dell'analgesico.Ma avrebbe mai potuto riposare Matthew Holland con tutti i dubbi che gli

ronzavano in testa? Per un istante si guardò con un occhio esterno, razionale, e si giudicò paranoico.

"Andiamo Matt! Gesù è già nato ed è stato crocifisso!" pensò "Cosa vorresti fare tu, compiere miracoli? E allora, dato che sei così bravo, compilo per il tuo mal di testa che ti attanaglia da buoni diciotto anni il miracolo!".

La sera precedente era fermamente convinto che non avrebbe più riaperto la cartella di Luke Mason, e l'aveva persino promesso a Jack qualche secondo addietro, ma si sa che le convinzioni possono vacillare, vacillare a tal punto da svanire. La cartella clinica era lì, sulla scrivania, ed era come se gli facesse l'occhiolino. Avrebbe dovuto farla depositare in archivio quella mattina, però non c'era fretta. Sfogliò il materiale stringendo le labbra, come nello stupido tentativo di mantenere salda la concentrazione. Tutto sembrava normale, ma, appunto, "sembrava". Un incidente in moto, fratture multiple, trauma cranico, emorragia interna... e qualcosa di, come dire, più profondo.

Con la sedia girevole, si spinse verso il computer. Premette il pulsante d'accensione e, mentre faceva saltare lo sguardo dallo schermo ai fogli, pensò di aver sprecato una pastiglia che, sapeva bene fin dall'inizio, non avrebbe fatto alcun effetto contro la sua cefalea cronica. Serrò la mascella provando una gran voglia di prendere una compressa di morfina.

Le sue dita si mossero rapide per completare i campi "nome utente" e "password", quindi ancora qualche secondo di attesa. Sul monitor comparì il nome del Royal London Hospital con una foto della facciata della struttura.

Matt frugò nella borsa e ne estrasse un cd inserito in una custodia di cartone. Dopo averlo esaminato per qualche istante, decise che non faceva al caso suo e agguantò, invece, un hard-disc.

In borsa qualcosa vibrò per un istante, seguito dal pezzo a tastiera di LLet it be. Dandosi dell'idiota per essersi dimenticato di spegnerlo, il professore pescò il

telefonino: Keith. Con un'alzata di spalle, decise che lo avrebbe richiamato in giornata, tuttavia non spese molto tempo a chiedersi cosa volesse il cugino.

Il computer era pronto. Il puntatore del mouse scivolò fra le icone, fino a trovare la cartella desiderata. Il doppio click del tasto destro aprì un file che Matt scorse con attenzione. Trovò un punto particolarmente interessante, che rilesse più volte, ma infine uscì dall'applicazione. Sbuffò. Non ricordava dove l'aveva salvato...

Ora l'unica alternativa rimaneva il libro. Estrasse un grosso volume rilegato in cartoncino spesso e lo aprì circa a metà. Qui, finalmente, qualcosa di interessante arrivò, una serie di dati che il medico comparò con la cartella clinica.

Sulle prime rimase perplesso; non riusciva a dare senso a nulla di ciò che stava pensando. Mezzo minuto dopo si drizzò, strinse con forza i braccioli della sedia, gli occhi vagavano nel vuoto.

«Il sistema immunitario...» sussurrò nel tentativo di dare senso alle sue stesse parole. «Perché non ha reagito in nessun modo? Non è...».

Tutto era sotto i suoi occhi eppure sembrava non avere senso. Matt batté con forza questa volta sulla tastiera e cercò concitatamente.

Bussarono piano alla porta.«Avanti!» disse il dottore, senza smettere di scandagliare lo schermo.Una donna bruna, sulla cinquantina, aprì lentamente la porta, ma non parlò

temendo di disturbare un più che concentrato Holland. Ferma sulla soglia, attese a braccia conserte che il medico terminasse ciò che stava facendo.

Di colpo lui scattò in piedi e si diresse in fretta verso la porta: «Ah, buongiorno! Ci sono urgenze?».

La donna scosse la testa.«Benissimo. Allora, per favore, vada a chiamarmi Eze e, se è libero, anche Parry.

Li aspetto in obitorio».L'infermiera spalancò gli occhi e fece per ribattere, ma le lunghe gambe di Matt

l'avevano già portato a metà corridoio. Non le rimaneva altro da fare se non eseguire. La camera mortuaria del Royal London Hospital era una stanza buia, situata al

piano interrato. Il dottor Holland si precipitò dentro, sperando che Luke non fosse ancora stato portato via. L'orologio che portava al polso segnava le otto e venticinque; impossibile dire se quella madre sconvolta avesse già pensato alle esequie. Si diede un'occhiata intorno: nell'obitorio era presente soltanto un corpo. Si affrettò ad abbassare il lenzuolo che avvolgeva il cadavere e, con un misto di sollievo e nuovo sconcerto, si ritrovò di fronte quel viso martoriato ed inerte che lo aveva tormentato durante le ultime ore.

Passarono pochi minuti prima che la porta si aprisse di nuovo. Illuminate dalla potente luce al neon del corridoio, le figure dell'anziano Jack Parry e di un collega allampanato e stanco si inoltrarono nella penombra della camera mortuaria. I due uomini si disposero ai lati di Matt. L'amico gli rivolse uno sguardo contrariato ma comprensivo; il dottor Eze, dal canto proprio, sembrava soltanto sorpreso.

Matt fece un passo indietro e li guardò: «Credo di aver capito qualcosa, però non mi è chiaro il senso». Sospirò.

Eze era ancora più confuso e faceva roteare gli occhi dal collega al cadavere e viceversa. Si strinse nelle spalle in attesa che Matt si decidesse a proseguire.

«Temo che ci toccherà fare l'autopsia...» deglutì rumorosamente.«Perché?» domandarono all'unisono i colleghi.Matt afferrò la cartella clinica che aveva portato con sé e alla quale aveva

aggiunto un foglio di appunti.«Salve, vorrei parlare con la signora Mason» esordì una mezz'oretta più tardi,

sprofondato stancamente nella poltrona girevole del proprio studio. Non avrebbe saputo dire se il mal di testa si fosse alleviato o meno; se un cambiamento c'era stato, beh, gli risultava impercettibile. Tuttavia non era il momento di preoccuparsene, né quello né le ore successive. Stringeva con forza la cornetta, gli occhi fissi sul portafoto accanto al computer.

«Chi la desidera?».«Dottor Holland, Royal London Hospital». Il silenzio all'altro capo durò per qualche istante, come se l'interlocutore stesse

riflettendo sulla risposta da dare. Infine, quella che poteva essere la voce di una segretaria sulla trentina, rispose: «Mi dispiace, ma la signora oggi non si è presentata

al lavoro e... in realtà è assente da tre giorni».Matt sospirò."Bene" pensò "questa era proprio la risposta che ti serviva. Fa' in modo che non ti

tocchi andare a cercarla per tutta l'Inghilterra".«Grazie» biascicò e rimise la cornetta al proprio posto senza dare

all'interlocutrice il tempo di rispondere. Guardò distrattamente un foglietto su cui era annotato un numero telefonico: ormai lo sapeva a memoria, comunque volle verificarlo. I tasti del vecchio telefono gemettero sotto la sua spinta nervosa. Dall'altra parte il suono era sempre lo stesso: una serie di squilli, a vuoto. Il medico aveva provato a chiamare casa Mason una buona quindicina di volte. Ora era preoccupato: la madre di Luke era scomparsa. Gli avevano raccontato che la sera precedente era uscita dall'ospedale in pessime condizioni, in evidente stato di shock. Aveva chiesto all'infermiera: «E allora perché l'avete lasciata andare?» ma lei si era limitata a scrollare le spalle. Voleva a tutti i costi rintracciarla ed informarla che suo figlio sarebbe stato sottoposto ad autopsia, ma lei era sparita.

Matt ricordava nitidamente quel giovane volto, i tratti alterati dalla disperazione più profonda. Gli riportava alla memoria un altro viso segnato dallo stesso dolore: sua madre. Lui aveva circa l'età di Luke e quel pomeriggio, quel freddo pomeriggio d'inverno, l'aveva vista esattamente così, lì, alla base aerea della California. Sarebbe stata l'ultima volta.

Trasalì quando sentì bussare alla porta. Si rese conto di essere rimasto immobile, con la cornetta a mezz'aria, per qualche secondo o, forse, qualche minuto. Parte del dolore che sembrava ormai cementato, inerme, era esploso con tutta la violenza di cui era capace.

Si affrettò a riporre la cornetta e invitare dentro chi aveva bussato.«Dottor Holland» esordì l'infermiera che lo aveva chiamato anche prima, quella

mattina «la signora Mason è stata rintracciata, sta venendo qui».Il volto teso di Matt si sciolse in un sorriso di sollievo che, però, svanì al pensiero

di dover affrontare un confronto con l'immagine della disperazione.Ringraziò l'infermiera mentre si appoggiava sulla scrivania a braccia incrociate

nel tentativo di riflettere. Il primo pensiero fu che avrebbe dovuto chiamare Keith quanto prima e fu orgoglioso di essersene ricordato una volta tan to.

5

L'automobile rossa fiammante di Michelle procedeva lentamente, bloccata tra decine e decine di altre vetture che si contendevano gli ultimi chilometri per l'aeroporto di Heathrow.

Danielle sorrideva allegramente nel suo sedile alla sinistra della conducente. Proprio questa sarebbe stata una delle cose a cui — molto banalmente, si disse — avrebbe fatto più fatica ad abituarsi. Non era la prima volta che passava del tempo in Gran Bretagna, eppure continuava a fare sforzi titanici per attraversare la strada o dirigersi verso la portiera giusta senza pensarci troppo.

"Che mente chiusa che hai!" si ripeteva, ma nonostante tutto l'Inghilterra continuava a fregarla.

Dalle casse dell'autoradio uscirono le note di Come out and play. Danielle serrò la mascella ripensando, con un moto di nausea, a qualche pomeriggio prima e alla meravigliosa canzone che aveva fatto da disastrosa colonna sonora.

Ma ormai l'abilità nel gestire la potente sensazione di paralisi era aumentata. Perciò lanciò un'occhiata obliqua a Michelle, quindi alzò il volume al massimo: «You'vegotta keep 'em separated... ».

Michelle ricambiò l'occhiata, divertita nel sentirla cantare: non l'aveva mai fatto nei tre giorni dal suo arrivo. Il sole di mezzogiorno la colpiva con violenza, dritto in faccia, ma non era difficile stare dietro senza problemi alle auto che procedevano a venti all'ora.

«Oh, tutti a Heathrow oggi!» sbuffò la donna suonando il clacson in direzione di una utilitaria che si era immessa in carreggiata da una stradina laterale.

Danielle accennò un sorriso, ma non smise di cantare, le sue dita tamburellavano sul pannello del comando per abbassare i finestrini.

Nonostante il condizionatore al massimo, le due facevano fatica a respirare nell'abitacolo afoso.

Pensando di non essersi scomodata ad andare in Inghilterra per farsi ammazzare

dal caldo, Danielle abbassò il finestrino e tuffò fuori la faccia mentre continuava a cantare Come out and play.

Una signora anziana, vestita di tutto punto, la guardò con disprezzo mentre le passava accanto. Danielle non si tirò indietro, incoraggiata dalla risata profonda di Michelle. Fu proprio il richiamo dell'amica però a farla tornare dentro dopo pochi secondi.

«Rispondi tu, per favore!» le chiese, tirandole un telefonino azzurro chiaro.Danielle lesse lo schermo: Keith. Mentre abbassava il volume della radio, rispose

allegramente: «Pronto!». Ascoltò per una manciata di secondi l'inconfondibile timbro da fumatore dell'amico, quindi riferì: «Dice che finalmente un certo Matt ha chiamato e ci sarà».

«Grande!» esclamò Michelle con un ampio sorriso.

«E chi sarebbe?».«Mio cugino, un tipo in gamba» chiarì Keith.«Il cugino e migliore amico di Keith. Te lo presenterò, troppo simpatico!» si

sovrappose Michelle.La ragazza sorrise: il tutto le sembrava molto armonico."Che cartone animato figo che siete..." pensò con gioia.Michelle si infilò in un parcheggio strettissimo, l'unico spazio disponibile: a

destra una Porsche argentata, a sinistra una Mercedes gialla.La donna fece un gesto circolare con la mano.«Prova a sfiorarle queste!» esclamò con un misto di ammirazione e ansia.Danielle le fece cenno di fermarsi e si precipitò fuori per darle indicazioni.Inutile dire che Michelle non era una Schumacher in gonnella... Comunque, con

l'amica che le dava man forte, riuscì a parcheggiare decentemente.Sotto il sole alto e rovente, Danielle la vide scendere: aggraziata, sorridente,

bella.La donna la prese per il braccio e la condusse dentro il terminal. I potenti condizionatori dell'aeroporto diedero sollievo al loro tormento. Erano in

anticipo di mezz'ora, a meno che l'aereo non avesse subito ritardi. Nell'attesa, si sedettero ad un tavolino appartato di un piccolo bar.

Danielle era particolarmente loquace: si sentiva bene, tra pochi minuti avrebbe ritrovato quel pezzo d'Italia che più le mancava. Mentre stappava la lattina dell'aranciata, abbracciò con lo sguardo la folla che si riversava dentro dai cancelli.

Michelle la guardava intenta, soddisfatta almeno quanto lei. La netta sensazione di impotenza che aveva percepito al telefono — e che le si era duplicata nel vederla sconvolta dietro le transenne di Heathrow — ora era svanita. Dio solo sapeva se in realtà Danielle stesse veramente reagendo bene o fingesse soltanto.

Non appena i monitor segnalarono l'atterraggio del volo Alitalia da Fiumicino, Danielle scattò in piedi, il volto raggiante, e si appostò proprio come lei e Keith avevano fatto tre giorni prima. La donna la seguì con passo lento, quanto bastava per avvolgerla con lo sguardo e scaldarsi il cuore. Fu in quel momento che si rese realmente conto di quanto assomigliasse a sua madre, nella fisionomia, nel volto, nella camminata... Si accorse anche di quanto le mancasse Roberta, le loro belle giornate insieme a passeggiare o a fare lunghe nuotate. Tutta la vita allegra che avevano condiviso era ormai scomparsa, per sempre, e non osò nemmeno provare ad immaginarsi quanto tutto ciò mancasse a Danielle.

E ora Gabriele... Certo, Keith aveva sempre sostenuto di non amarlo particolarmente, di non apprezzare qualche atteggiamento a volte altezzoso e un po' prepotente, ma in fin dei conti si era sempre andati d'accordo. Tutto diverso, da un momento all'altro.

Incredibile.Incomprensibile.Terribile.Danielle si girò di scatto e le indicò un punto alle proprie spalle con uno scintillio

negli occhi di uno splendido azzurro, profondo, sognante, ricco di sfumature di sentimenti.

Michelle le sorrise di rimando, inquadrando tra la folla un ragazzo giovane, bel fisico, bel volto, una semplice T-shirt blu come i larghi jeans, uno zaino nero in spalla, in tasca un regalo che non vedeva l'ora di consegnare alla propria splendida ragazza.

6

Matt oltrepassò le porte automatiche dell'ospedale, accolto da una cappa di caldo intenso, impressionante.

L'automobile, nera e parcheggiata al sole, gli riservò un'accoglienza molto simile, se non peggiore.

Era certamente abituato al caldo della costa californiana, ma proprio per fuggire da lì Londra gli era parsa un buon posto dove andare a vivere. Eppure anche lì... Si passò una mano fra i capelli castano chiaro, la fronte imperlata di sudore, una valanga di pensieri giravano in cerchio nella mente.

Ora aveva davanti a sé un weekend intero, anche troppo lungo per i suoi gusti. Non sapendo cosa farsene della vita sociale — nonostante i rimproveri continui dell'amico Jack — si sarebbe messo a lavorare oppure... sì, quel paio di libri che non aveva avuto tempo di aprire negli ultimi mesi. Prima di tutto ciò, però, si delineava l'unica prospettiva interessante, cioè la cena dai Richards.

Svoltò per imboccare l'ingresso del garage: una fitta rischiò di farlo sbandare, mandandolo contro il muro della casa adiacente. Prima di perdere il controllo, Matt fece in tempo a frenare e lasciare che la crisi passasse.

"Ormai ti rimane solo la morfina, drogato!" si disse. E in effetti aveva tentato di evitarla, imbottendosi di analgesici poco efficaci che nulla potevano contro la sua cefalea cronica. Inspirò profondamente e accelerò per infilarsi nel fresco coperto dell'autorimessa.

I passi sugli ultimi scalini vennero accompagnati dal festoso abbaiare di Bob. Ben sapendo ciò che lo aspettava, Matt girò con rapidità la chiave nella serratura e si trovò addosso il suo scodinzolante Labrador. Dopo essersi richiuso la porta alle spalle, si abbandonò in ginocchio sul pavimento, le dita affondate nel pelo di Bob. Era esausto, ma probabilmente una doccia e una dormita di un'oretta lo avrebbero rimesso in sesto.

La Golf 6 procedeva sulla carreggiata in direzione di Brighton. Il traffico era

scorrevole benché un gran numero di macchine si stesse muovendo in direzione della località marina. Tutti insofferenti al caldo, tutti desiderosi di passare il fine settimana fuori casa.

Nel retro dell'automobile, Bob si agitava, in qualche misura infastidito da quel rumore insopportabile che lui certamente non avrebbe saputo classificare come assolo di chitarra dei Metallica. Eppure il suo padrone sembrava apprezzarlo così tanto...

"Snervante!" dovette decidere, abbandonandosi con rassegnazione sui sedili. Non capitava spesso che Matt lo portasse in giro in macchina, tanto più che Bob mostrava un evidente disprezzo per quel modo di viaggiare. Lui aveva zampe robuste con le quali coprire le distanze, che bisogno c'era di un'automobile?

Matt non badava ai suoi movimenti, perso nei propri pensieri e nel sollievo per il

mal di testa passato. Dopo tre giorni di sofferenza, quella sera si era finalmente arreso alla pastiglia di morfina e, beh, era stata davvero una grande liberazione.

Il mal di testa, però, non era stato l'unica compagnia di quelle ultime ore. Sul fronte Luke Mason gli sviluppi erano tanto interessanti quanto inspiegabili. Era evidente che nel corpo del ragazzo fosse presente un qualche tipo di anomalia e ora ne erano convinti anche i colleghi più anziani ed esperti. Ma di cosa si trattasse, precisamente, nessuno avrebbe saputo dirlo.

Sì, quella era una questione degna di occupare il suo intero weekend.Di colpo gli affiorò alla mente la conversazione che aveva avuto con la signora

Mason due giorni prima. La donna si era presentata nel suo studio, naturalmente sconvolta. Aveva gli occhi gonfi, gli abiti sporchi, i capelli scompigliati. Aveva smesso di singhiozzare, almeno temporaneamente, ma era chiaro che sarebbe bastato il minimo accenno a suo figlio per farla crollare di nuovo, completamente, senza difese.

«Signora» aveva esordito Matt «sono ancora mortificato per non essere riuscito a fare di più».

Com'era facile immaginare, la donna era scoppiata a piangere, il corpo scosso da

violenti singhiozzi.Il medico aveva deciso di andare direttamente al punto, inutile infliggere ulteriore

sofferenza a quella madre straziata.«Penso però che suo figlio sia morto per qualcosa di più che l'incidente».La donna ebbe il coraggio di annuire.«I miei colleghi ed io crediamo che sarebbe opportuno fare un'autopsia e... beh,

mi sembrava giusto sapere quello che pensa lei».«Dottore, la prego allora, faccia il possibile per mio figlio ora, dato che, a quanto

pare, il mio piccolo ha ancora bisogno di lei».La signora Mason era estremamente lucida, al contrario di ciò che si sarebbe

potuto ipotizzare nel guardarla.Matt non rispose, il cuore gonfio di dolore e comprensione.«Dottore, lei ha figli?».Il dottor Holland trasalì. Nessuno gli aveva mai fatto quella domanda e... lui...«Sì, una, e ha l'età di Luke».Decise che quella donna meritava il massimo della sua sincerità, meritava di

sapere cose che nemmeno i suoi più cari amici sapevano. Meritava di sapere che era stato davvero male per la morte di Luke perché... nel giro di pochi minuti, un'altra ondata di dolore cementato si abbatté su di lui con la forza di una tempesta. Sì, Luke aveva l'età di sua figlia e proprio per questo avrebbe fatto l'impossibile per lui.

Così glielo promise, con sincerità disarmata e disarmante; le promise che si sarebbe occupato di Luke finché non avesse saputo la verità, tutta la verità, finché non fosse stato profondamente convinto delle cause del decesso.

Bob si era calmato e guardava dal finestrino. Fu questa quiete inaspettata a far riemergere Matt Holland dai propri pensieri. Con un sorriso appena accennato, trovò la spiegazione a tanta tranquillità: il cd dei Metallica era finito e a questo punto l'unico sottofondo era quello del motore, intervallato dal passaggio di qualche altra auto nell'atto di sorpassare o dare la precedenza.

«La tua educazione musicale è deludente, Bob, anzi, fa proprio schifo! Che dici,

è colpa mia?» esclamò con divertimento. Concesse qualche minuto di tregua al cane: la meta era ormai troppo vicina perché valesse la pena cambiare disco.

Il vialetto di casa Richards era libero eccezion fatta per la macchina di Michelle. Matt parcheggiò in un posto in cui poteva non dare fastidio e si affrettò ad aprire la portiera di Bob per vederlo saltare giù con un balzo e correre scodinzolando verso il retro dell'abitazione, da dove proveniva un vociare allegro e un delizioso profumo di cibo.

Il caldo torrido si era attenuato. La solita brezza serale proveniente dal mare si era inghiottita il muro di afa del pomeriggio. Matt lanciò un'occhiata al cielo e pensò che probabilmente quella notte si sarebbe scatenato un bel temporale. Finalmente!

Nel girarsi per seguire Bob, notò qualcosa di strano sulla fiancata dell'auto di Michelle: la portiera destra completamente ammaccata, i segni di un veicolo grigio argentato ben evidenti contro la carrozzeria rossa della macchina dell'amica.

Intanto Michelle si stava dirigendo verso di lui a grandi passi. Nel vederlo chino ad osservare l'orrendo spettacolo, anticipò la sua domanda con una smorfia: «Oggi pomeriggio a Heathrow. Un imbecille incapace... non hai idea di quanto ci siamo impegnate a parcheggiare io e Danielle... lui, invece...».

Matt, che frattanto si stava alzando, rimase fermo a metà. Danielle chi?«Chi è Danielle?» domandò ostentando indifferenza.«La figlia di Roberta, ti ricordi chi è, no? Danielle è di là, adesso te la presento».Tentò di issarsi in piedi, ma l'ondata di emozioni che lo aveva travolto era

impossibile da gestire senza conseguenze. Barcollò e dovette reggersi alla portiera posteriore della sua auto, che era rimasta ancora aperta.

Michelle si avvicinò in apprensione. «Tutto bene?» gli domandò stringendogli il braccio.

Matt annuì prendendo un profondo respiro. «È stata una settimana difficile». Le raccontò brevemente della morte di Luke, dell'estenuante mal di testa e,

perché no, dell'affaticamento da caldo eccessivo. La cosa più importante, però, non poteva essere raccontata né a lei né a nessun altro, non certo in quel momento.

La donna lo prese sotto braccio e lo condusse lungo il vialetto che pochi minuti prima avevano percorso i festosi balzi di Bob.

Seduti sull'erba a gambe incrociate, Danielle e Federico accarezzavano il Labrador color sabbia e ne ammiravano la bellezza. Erano entrambi sorridenti e Bob si era fidato di loro immediatamente. Sdraiato su un fianco, si lasciava coccolare, forse felice di tutti i complimenti che stava ricevendo.

Poco più lontano, Keith stava varcando il cancelletto in ferro rossiccio per portare il cibo pronto in spiaggia.

Quando Matt e Michelle si avvicinarono, i tre stravaccati sull'erba scattarono in piedi. Bob si precipitò verso il padrone, parandoglisi davanti come per indicarne assoluto possesso. Il gesto suscitò l'ilarità del gruppo.

«Lui è Matt, loro sono Danielle e Federico» li presentò Michelle con un ampio sorriso.

I tre si strinsero la mano mentre Bob correva in circolo intorno a loro.

Matt cercò di recuperare tutto l'autocontrollo necessario prima di osservare la ragazza che gli stava di fronte. Era molto bella, in tutto assomigliante a sua madre tranne... tranne per il colore dei capelli e degli occhi, identici ai suoi. I boccoli castano chiaro le contornavano delicatamente il viso, andandosi a posare su spalle tenute dritte in atteggiamento di difesa e contemporaneamente attacco, per finire a metà schiena in un taglio scalato. La stretta di mano, con dita fredde nonostante il caldo asfissiante, era gentile, gli occhi vivaci ma velati di tristezza e dolore guizzavano qua e là.

Matt si sforzò di sorridere senza lasciar trapelare nulla della tempesta interiore che stava vivendo. Emozioni contrastanti si scontravano, ricordi ormai lontani prendevano di nuovo vita, le barriere costruite per chiudere le cicatrici si infrangevano. Era in balia di tutto questo e dello sguardo incuriosito di... sua figlia? la creatura che fino a quel momento non aveva mai potuto vedere. Sua figlia... sua figlia... Danielle...

Stava per essere sopraffatto da tutto ciò, quindi decise di distogliere lo sguardo. Fu salvato dalla visione di Keith che usciva dalla porta-finestra posteriore della casa, le braccia cariche di cibo e altro. Si congedò con un rapido sorriso dal gruppetto e gli andò incontro, intenzionato ad offrirgli qualsiasi genere di aiuto pur di fuggire dallo sguardo di quella ragazza.

«Sta bene?» domandò Danielle con aria perplessa.«Sì, sì, deve soltanto lasciarsi alle spalle un po' di lavoro» spiegò Michelle.Danielle annuì tornando ad inginocchiarsi per accarezzare quel cane spettacolare

che lei aveva sempre desiderato avere.Un'altra macchina si inoltrò nella ghiaia del vialetto, quindi un'altra ancora.

Michelle corse ad accogliere i nuovi ospiti e a presentarli a Federico e Danielle.Le due coppie appena giunte avevano un'aria allegra, rilassata, sicuramente meno

agonizzante di quella del primo ospite. Danielle si presentò con la solita disinvoltura, ma non trovò alcun elemento attraente in loro. L'uomo di prima, invece, le suscitava qualcosa di inspiegabile, una sorta di sentimento di familiarità e sintonia. Benché non fosse stato particolarmente affabile, quasi non si rendesse conto di essere lì, possedeva un elemento che aveva affascinato la ragazza sin dal primo sguardo. Impossibile definirlo.

In quanto al resto della compagnia, si trattava di due coppie molto simili ai Richards, per età e atteggiamento. Le due donne vestite in completi di lino chiaro, pressoché uguali fra loro, gli uomini in pantaloncini corti e t-shirt; nessun figlio. Danielle si chiese se quella fosse la compagnia dei "senza bambini", oppure se la prole fosse semplicemente rimasta a casa. Non voleva esternare un pensiero così stupido, non sapeva che i pargoli erano a casa con le baby-sitter e nemmeno le interessava troppo scoprirlo. Le interessava piuttosto lo strano abbinamento padrone introverso-cane esuberante.

Lo fece notare a Federico; lui si limitò a scrollare le spalle, alzarsi e andare a vedere se qualcuno aveva bisogno di una mano.

Danielle rimase sola con il Labrador sabbia di cui neppure sapeva il nome, il suo

muso appoggiato sulla gamba della ragazza. Lei continuava ad accarezzarlo, rapita.Michelle la chiamò per unirsi al gruppo già comodo sulla ghiaia della spiaggia.

Danielle sollevò con delicatezza il muso del cane e questo, capendo al volo, balzò in piedi, pronto a seguirla. La giovane andò a sedersi vicino a Federico, lo splendido cane tra loro. Poco più in là il cugino di Keith, intento ad ascoltare più che animare la conversazione che si stava svolgendo intorno a lui.

Una delle due donne, Claire, viso affilato, ossa sporgenti e capelli cortissimi, si accomodò accanto alla ragazza ed iniziò a tempestarla di domande: da dove veniva, cosa faceva, perché era andata lì...

Danielle fu sincera in tutto tranne che nell'ultima risposta. Disse che si trovava a Brighton perché aveva voglia di rivedere dei vecchi amici di sua madre — il che era in parte vero — e la sua vacanza in Inghilterra non avrebbe fatto altro che migliorare il suo inglese.

La donna annuiva in continuazione, l'aspetto di chi sta andando a caccia di gossip.

Danielle si rassegnò ad affrontare il lungo interrogatorio pensando che, in fondo, quello era un buon modo per fare un po' di pratica linguistica e non poteva che essere un vantaggio.

Desiderando un attimo di respiro da quell'incalzante conversazione, la ragazza si alzò e chiese a Claire se volesse da mangiare. La donna scosse la testa, così Danielle afferrò soltanto un piatto per sé e lo riempì.

Keith aveva tentato di rifarsi del disastro di qualche sera prima e aveva preparato un pollo dall'aspetto delizioso. Prese quindi un po' di verdura grigliata che lei e Federico avevano aiutato a preparare mentre Michelle sbolliva la rabbia per la macchina ammaccata riordinando maniacalmente casa, dal piano terra alla soffitta.

Tornò a sedersi con il piatto ricolmo: ora aveva un'ottima scusa per non rispondere alle domande di Claire.

Il pollo era effettivamente fantastico, Danielle lo divorò di gusto. Mentre tendeva a Bob gli ossi, lanciò a Keith un'occhiata di approvazione, che lui ricambiò con un sorriso.

Intanto Matt fingeva di seguire la conversazione che animava i suoi amici, ma naturalmente non gliene poteva fregare di meno. Non appena ne aveva la possibilità, sbirciava Danielle con la coda dell'occhio. Lei era lì, e lui non se lo sarebbe mai aspettato. Che ci faceva a Brighton? Era certo che non si trattasse di qualcosa di preventivato, altrimenti Keith gliene avrebbe parlato, certo, in modo del tutto casuale, ma glielo avrebbe raccontato. Quanto sarebbe stato meglio se l'avesse saputo... in quel caso avrebbe potuto pensare a cosa dire, cosa fare. E di sicuro non sarebbe sembrato un imbecille com'era stato pochi minuti prima, quando non era riuscito a dire di più di: «Ciao, piacere di conoscerti!».

Ma forse, chissà... era un bene non averlo saputo prima. Non osava immaginare quegli ultimi giorni, più che sfiancanti, a cui si aggiungeva anche questo pensiero. Pazzesco... era accaduto tutto così in fretta e così improvvisamente che lui, a tratti, non era sicuro di essere sveglio.

"Oddio, non è che la morfina ti sta allucinando?". Trasalì nel constatare quest'ipotesi. Non gli era mai successo considerate le minime dosi di cui faceva uso.

"Non avrò mica esagerato?". Deglutì rumorosamente. Ora l'unico comportamento da avere era quello razionale. Oh, insomma, e il sangue freddo? Era tutto semplice:

concentrarsi con tutto se stesso sulla discussione che si stava svolgendo a pochi centimetri da lui, sebbene non avesse la più pallida idea di cosa si stesse parlando.

L'occasione gli fu immediatamente fornita da un richiamo di Keith, al quale era bastato uno sguardo per capire che c'era qualcosa che non andava, qualcosa che non era il caso di affrontare in quel momento, anzi, qualcosa a cui bisognava evitare di pensare.

Lo sforzo per simulare normalità non era indifferente, ma lui era solito impegnarsi accanitamente per raggiungere gli obiettivi desiderati.

«E tu, luminare della scienza, che ci dici dei tentativi di riformare la sanità statunitense?» gli domandò il cugino.

«Ehm... beh...» impiegò una frazione di secondo per fare mente locale ed iniziare

a destreggiarsi con assoluta maestria nel campo medico-politico, di cui tanto amava parlare.

Era ormai completamente assorbito dalla conversazione quando notò una presenza accanto a sé. Si girò. Il castello di finta normalità crollò in un batter d'occhio. A mezzo metro da lui stava Danielle, seduta con il mento appoggiato sulle ginocchia che abbracciava con forza per mantenere una posizione eretta.

Lei gli sorrise. Lo sguardo era sempre vivace, curioso e triMatt ricambiò prontamente, senza però riuscire ad evitare una sensazione di gelo nelle vene. Quel sorriso... quel sorriso era identico al suo, ne era sicuro! Un particolare che ad un osservatore poco attento sarebbe sfuggito, ma lui ora sapeva di condividere con sua figlia anche questo, oltre al colore di occhi e capelli. E anche molto altro, sperò. Provò per la prima volta l'impulso di abbracciarla e raccontarle tutto, tutti i diciotto anni che aveva trascorso con la voglia costante e pressante di vederla, tutte le menzogne che le erano state dette e che lui aveva detto a se stesso, tutta la sofferenza che alcune irremovibili prese di posizione avevano causato.

«Bella la maglia!» esordì lei con spontaneità indicando la t-shirt nera con la scritta Givepeace a chance che il medico indossava quella sera.

«Grazie!» rispose lui con un sorriso sincero «In effetti anche a me piace. L'ho presa al museo dei Beatles a Liverpool qualche anno fa».

«Che spettacolo... deve essere fantastico».Matt annuì: «Un luogo di culto, una delle cose che devi visitare prima di tornare

a casa».Questa volta fu lei ad annuire, soddisfatta per i toni naturali che la conversazione

stava assumendo. Quando aveva deciso di andare a sedersi lì accanto a lui, Federico non era stato totalmente d'accordo. Gli risultava difficile captare l'elemento di sintonia che Danielle aveva percepito in quell'uomo. Ma si era limitato ad esporre il proprio punto di vista per vederla, pochi istanti dopo, alzarsi e piazzarsi vicino al cugino di Kei th. Lui era rimasto al proprio posto con Bob — che tanto gli ricordava Bex — e il marito di Claire che parlava in continuazione, come la moglie.

«Come si chiama il tuo cane fantastico?».«Bob! Bob come Bob Marley, Bob Dylan...».«Bob! Beh, è uno spasso».«Condivido pienamente. L'unico essere vivente in grado di sopportarmi. Lui è

sempre tollerante, rispetta i miei turni prolungati all'ospedale, il cattivo umore, i fine

settimana in casa a lavorare...».«Quello che una donna non farebbe mai, giusto?».Lui si girò completamente per poterla guardare bene dritta in faccia. Senza

immaginarsi minimamente che l'interlocutrice provava la stessa sensazione, constatò con gioia l'eccezionale feeling con sua figlia, pur non avendola mai conosciuta, pur non avendola vista crescere, pur non avendole mai parlato prima di quella sera.

«Già, quello che una donna non riuscirebbe mai a fare» concluse, con l'aria di chi era stato salvato dall'asfissia di un annegamento certo, di chi aveva completamente superato l'imbarazzo del silenzio. Si sentiva molto più leggero adesso che capiva quanto fosse facile parlare con lei e, soprattutto, quanto fosse piacevole. Era cento, mille, milioni di volte più bella della tenera e minuscola neonata ritratta nella foto sul comodino accanto al letto, quella che salutava ogni sera prima di addormentarsi. Ed era indescrivibilmente più meravigliosa della piccolina immortalata nello scatto che teneva vicino allo schermo del computer in ufficio. E tutto questo perché in quel momento era viva, fatta di carne, ossa, emozioni, voce... non tonalità di colore su carta per fotografie. E la voce... quella l'aveva completamente ereditata da Roberta ed era una cosa positiva perché gli riportava alla memoria un sacco di bei momenti vissuti con la ragazza che aveva amato, moltissimo, per anni.

E ora la sua bambina... ormai ragazza e tra poco donna. E lui si era perso buona parte della crescita.

No. Niente rimpianti, l'importante era stare con lei in quel momento, ora che si erano finalmente ritrovati.

«Cosa dicevi dell'ospedale?».Matt si riscosse e ripercorse rapidamente il discorso per recuperarne il senso.

«Ah, sì, i miei turni prolungati! Lavoro al Royal London Hospital e capita spesso di dover stare lì un po'...».

«No, nulla capita spesso così tanto per fare. Capita perché lui lavora il doppio di quello che dovrebbe, Bob può confermarlo!» si intromise Keith mentre entrava in casa a prendere il dolce.

«Wow!» esclamò Danielle con un sorriso. «E cosa fai, il medico in carriera?».«Sì, più o meno...» replicò lui con una scrollata di spalle.Danielle di colpo si sentì terribilmente invadente. Matt si stava dimostrando

molto gentile, ma le sembrò di essere pressante con la sfilza di domande che stava sfoggiando.

«Scusami, ti sto facendo il terzo grado, non ne ho diritto... » mormorò.«Un po' come Claire con te poco fa?» ribatté Matt con aria divertita.La ragazza annuì e scoppiò a ridere. Aveva proprio fatto bene ad andare lì...Le onde del Mare del Nord si infrangevano a ritmo cadenzato sulla battigia, il

cielo scuro ricoperto di nuvole. Le fiamme del falò si spegnevano poco a poco, non compromettendo comunque l'allegria del gruppo di amici.

La serata volgeva al termine. Si erano divertiti, tutti, e insieme a loro anche Danielle che non sperimentava la sensazione di paralisi interiore ormai da parecchie ore.

Dopo la lunga chiacchierata con Matt, lei, Federico e Bob si erano lanciati in una corsa sulla spiaggia, scelta coraggiosa considerato tutto il cibo squisito che i

Richards avevano preparato. I due ragazzi, infatti, capirono ben presto di non poter competere con l'agile Labrador, brillantemente scattante nonostante la stazza. Così si erano lasciati cadere in riva al mare, Bob pronto a ricevere le coccole del caso.

«Vorrei che fosse lui mio papà» disse Danielle di punto in bianco, gli occhi intenti a scrutare il dolce muso di Bob alla fioca luce che superava la coltre di nubi.

«Non credo sia una buona idea desiderarlo. Ok, in effetti è da un bel pezzo che ti

manca l'affetto paterno, ma non lo conosci neppure e non puoi azzardarti a pensare di volerlo sostituire con l'uomo che si è magistralmente preso cura di te per la maggior parte della tua vita».

Danielle non replicò. Stette immobile e nemmeno tentò di affrontare il nuovo attacco di anestesia. Lo lasciò fluire dentro di sé per minuti interi, mentre la mano accarezzava meccanicamente Bob. Il torpore la tenne preda per lunghi minuti, quindi si ritirò, pronto al nuovo assalto.

Federico aveva ragione. Lei sapeva bene che aveva ragione. Malgrado ciò, qualcosa le suggeriva di pensarla diversamente dal ragazzo. Non aveva la più pallida idea di che natura fosse quella sensazione; non sapeva spiegarla a se stessa e non avrebbe certamente provato a spiegarla a Federico.

Si passò una mano tra i capelli leggermente scompigliati dalla brezza notturna. Si tolse le ciabatte e scattò in piedi: «Hai ragione... sono decisamente irrazionale...» concluse affondando i piedi nella ghiaia fresca della spiaggia di Brighton.

Un'altra corsa, questa volta più tranquilla, li riportò in vista delle fiamme ormai tremolanti del falò.

Bob li precedette per andare a gettarsi contro il padrone, i due ragazzi qualche metro più indietro ora procedevano a passo felpato.

Danielle lanciò un'occhiata piena di affetto e gratitudine a Federico. Lui le passò una mano sulle spalle e la condusse dolcemente verso il resto del gruppo.

In lontananza, un primo lampo schiarì per qualche breve istante la distesa nera del cielo britannico.

L'intera compagnia si mobilitò per riportare in casa tutto ciò che si trovava sulla spiaggia, i segni di un temporale in rapido avvicinamento adesso evidenti.

Uno ad uno, gli ospiti si congedarono.Matt fu l'ultimo ad andarsene e non lo fece prima di salutare tutti — e soprattutto

sua figlia — con un entusiasmo ben preferibile all'aura di tensione che lo avvolgeva quand'era arrivato.

I Richards e i ragazzi lo accompagnarono alla macchina, concedendosi le ultime prodezze del magnifico Bob.

Un altro lampo squarciò il cielo in qualche punto sopra il mare, il tuono non si

fece attendere.La Golf si rimise in moto e uscì dal vialetto con una brusca ma precisa sterzata.Bob e Matt procedettero in silenzio per i primi metri del viaggio, ma il sonno

arretrato rischiava di cogliere quest'ultimo alla sprovvista.«Giovanotto, la pacchia è finita!» esclamò tirando fuori l'iPod dal vano

portaoggetti e il cavo di collegamento all'autoradio. Il rock degli U2 fece guaire Bob. Il cane iniziò ad agitarsi disperatamente nel retro della macchina senza però riuscire

a far sentire in colpa il padrone.Matt sfrecciava nella notte, avvolto dal buio e dai propri pensieri. Serata

assurda... che significato aveva tutto questo? E ora che fare? Non era il caso di parlarne a Danielle o forse... beh, perché no? Probabilmente era giunto il momento che quell'idiota di Castaldo la piantasse di fingere, tanto sapeva benissimo di non essere il padre della ragazza a cui aveva dato il cognome. Danielle Holland... non suonava forse cento volte meglio? Ovvio!

"Sei un imbecille!" ringhiò l'area razionale del suo cervello. E in effetti se ne rendeva bene conto. Che diritto aveva lui di stravolgere la vita della gente? In fondo nemmeno la conosceva e forse a Danielle sarebbe sempre andato bene considerare Gabriele come padre. E sarebbe stato assolutamente logico dato che l'aveva cresciuta lui. Lo immaginò mentre la spingeva sull'altalena oppure le insegnava a leggere. Mentre giocava con lei o l'aiutava a fare i compiti. E Matt si era perso tutto quanto. E quando lo chiamava papà senza sapere la verità... a questo pensiero fu sopraffatto da un senso di nausea che esternò con una smorfia di disgusto.

"Beato Bob che s'incazza solo perché non sopporta la chitarra elettrica!".Un lampo abbagliante, un tuono potente, le prime gocce di pioggia accompagnate

dagli accordi introduttivi di Electrical storm."E bravo Bono, questa notte è tutto una tempesta!" pensò Matt battendo con le

dita sullo sterzo. La vera e propria electrical storm impiegò pochi secondi ad arrivare. Adesso la

notte veniva di continuo schiarita da luminosissimi lampi, la pioggia scrosciante formava un muro d'acqua davanti al parabrezza della Golf. Ora Bob non era più disturbato soltanto dal rock che tanto odiava, ma sussultava ad ogni tuono. Impossibile procedere: la strada era un lago. I chicchi di grandine si abbattevano con fragore sul telaio dell'auto. Londra era sempre più vicina e sempre più irraggiungibile. La velocità di transito si era ridotta al minimo. E il tempo peggiorava ad ogni istante, raggiungendo il colmo con l'aggiunta di un vento piuttosto forte che soffiava dal mare.

Tutto ciò, in fondo, aveva alcuni vantaggi che Matt constatò con uno sbadiglio: il lavaggio della macchina, la distrazione da tutti i pensieri della serata, il fascino di un temporale notturno, condizione atmosferica che aveva sempre amato particolarmente, in quanto momento carico di mistero, confusione naturale proveniente da migliaia di metri lontano. Un brivido di freddo lo costrinse ad accendere il riscaldamento. Mentre girava la manopola, notò nello specchietto retrovisore una macchina grigio-argento quasi attaccata ai suoi tubi di scarico. Gli era parso di vederla molto più indietro, in mezzo ad altre automobili, quando si era immesso nella strada principale dopo la cena da Keith e Michelle. Che fosse la stessa? Girò leggermente la testa, ma pioveva troppo perché riuscisse a vederne anche solo la marca. Tentò di procedere, perplesso. Cosa poteva farci un'automobile così attaccata alla sua? Perché gli era andata dietro da Brighton alle porte di Londra?

"Stasera sei particolarmente imbecille, Matt!" si disse. Assolutamente possibile che anche qualcun altro, oltre a lui, avesse bisogno di andare da Brighton a Londra quella sera; qual era il problema? Cosa ancor più stupida, non era nemmeno certo fosse lo stesso veicolo che aveva visto circa un'ora prima. Sbuffò. Era notevolmente

infastidito dall'acuta irragionevolezza che si era insinuata nella sua mente di solito più che razionale. Si chiese di nuovo se non fosse colpa della morfina e questa volta non fu certo di poter scartare l'ipotesi con la stessa rapidità con cui l'aveva cestinata qualche ora addietro.

Dalle casse della Golf usciva Sunday Bloody Sunday e Matt continuava a tenere il tempo sul volante accompagnandola a tratti con la voce per combattere il sonno. Metro dopo metro Londra era più vicina e, insieme alla capitale, il letto. Era da almeno un paio d'anni che non gli capitava di dormire così poco. Era sicuro però che quella notte non sarebbe andata diversamente dalle tre precedenti, adesso che al mal di testa, agli incubi sul "posto di merda" e alla morte ancora inspiegabile di Luke Mason si aggiungeva Danielle. Sentì un brivido di gioia lungo tutta la spina dorsale nel ripensare a lei. La tensione degli ultimi giorni si era dissolta e che cosa importava decidere quale sarebbe stata la successiva mossa da fare? Contava solo pensare che sua figlia era lì e lui non aveva infranto nessuna promessa perché non era stato lui a cercarla. Proprio in virtù della caratteristica razionalità, Matt Holland non era assolutamente abituato a credere in qualche cosa di, come dire, superiore, eppure quella circostanza era quanto meno sorprendente.

Una svolta a destra, un fulmine, un tuono, un secondo rombo, più feroce, più vicino... Matt sussultò, incapace di realizzare cosa fosse successo. Non riusciva a capire. Forse si era addormentato per un fatale istante, forse aveva perso il controllo... ma Bono continuava a cantare Sunday Bloody Sunday, il motore ruggiva sebbene incapace di sovrastare il rumore della tempesta. Dunque?

La Golf sbandò leggermente e si inchiodò sulla carreggiata. Fu allora che Matt riuscì a comprendere: il veicolo argentato che gli stava dietro aveva terminato la propria corsa contro un muretto. Istintivamente il medico aprì la porta, senza curarsi dei fiumi di pioggia che si riversavano dapprima sull'abitacolo, quindi su di lui. Sbatté lo sportello dietro di sé per evitare che Bob balzasse giù e corse verso l'auto incidentata per prestare soccorso in caso ce ne fosse stato bisogno. I rottami grigio-argento si trovavano ad una cinquantina di metri dalla sua Golf nera e Matt tentò di coprire la distanza nel minor tempo possibile. Inutile. Arrivò giusto in tempo per vedere una figura slanciata che si allontanava a grandi falcate, superando con un balzo un muro di cinta, correndo a perdifiato per essere subito inghiottita dal buio della notte. Il dot tore provò a chiamare lo sconosciuto, ad attirare in qualche modo la sua attenzione. Tuttavia l'urlo gli morì in gola per lo stupore. Davvero il conducente non si era fatto nulla nonostante il forte impatto? Che bisogno c'era di scappare in quel modo? Era soltanto un cretino chi correva nella notte, sotto il temporale, dopo essere appena stato vittima di un incidente? Ovviamente domande del tutto inutili! Così l'uomo non poté fare altro che voltarsi verso il telaio mostruosamente ammaccato di quella che riconobbe essere una Porsche di un modello molto recente, se non addirittura l'ultimo.

Con una scrollata di spalle e la confusione chiaramente dipinta in volto, si incamminò verso la propria auto. Era bagnato fradicio, il freddo gli era penetrato nelle ossa, non aveva concluso niente: tre gran bei risultati, si disse mentre si sedeva di nuovo nell'abitacolo e constatava di invidiare moltissimo il caldo che Bob probabilmente sentiva in quel momento.

Non fu facile far ripartire la macchina che galleggiava sul lago in cui si era trasformata la carreggiata. Solo dopo disperate manovre il motore ripartì per portare avanti la Golf, veicolo solitario in quella notte da lupi.

7

Il sole filtrava in modo insistente nello spiraglio tra le lunghe tende color crema della camera di Matt. Non erano certo un capolavoro artistico, ma a lui non importava che lo fossero. Le aveva trovate già appese quando aveva comprato la casa e per quel che lo riguardava sarebbero sempre rimaste lì. Mettersi a lavar tende era l'ultimo dei suoi pensieri, ma del resto era per queste mancanze casalinghe che aveva assunto una signora tanto scrupolosa che gli tirava a lucido l'appartamento per un paio d'ore ogni mattina. Ogni mattina escluso il fine settimana, che lui negli ultimi due o tre anni aveva passato invariabilmente o in casa oppure in ospedale. E in quanto alle tende... beh, l'importante era che svolgessero il proprio compito e loro adempivano alla grande a patto di essere tirate. Non era successo la sera prima, per questo il medico ne pagò le conseguenze con un gemito d'odio per il riverbero del sole. Si rigirò sotto le due grosse coperte che si era tirato addosso durante la notte per via del freddo che non lo aveva abbandonato facilmente. Si sentiva molto intontito, però aveva cause esterne a cui poter attribuire lo stordimento prima di arrivare all'ipotesi febbre: la morfina, il sonno, eccetera, eccetera, eccetera.

Balzò di colpo in piedi nel ricordare quello che aveva deciso la sera precedente: doveva far chiarezza sul caso Mason, che era diventata una fissazione da un bel pezzo.

Bob si sdraiò in tutta la sua lunghezza sul pavimento accanto al tavolo dove Matt aveva aperto un paio di libri che leggeva e confrontava con avidità mentre, senza quasi guardare il foglio, prendeva una serie di appunti. Il sole ora illuminava una stanzetta più piccola della camera da letto, adibita a studio. Al centro, un tavolo color mogano ospitava computer, stampante, una pila di libri chiusi, diversi fogli sparpagliati e il proprietario di tutto ciò, con gli occhi fissi sugli oggetti con cui stava lavorando. Sedeva su una sedia nera, imbottita e girevole, ma non particolarmente costosa. Alle sue spalle, una libreria bianca era stracolma di libri di ogni genere, dai classici che più classici non si può agli ultimi romanzi visti e comprati quasi per caso. Tutti erano disposti in ordine rigoroso, buona parte iniziati ma mai conclusi per mancanza di tempo o interesse. Di fronte alla biblioteca bianca, si stagliava la gemella nera. Anch'essa strapiena, ospitava un ingente numero di volumi di medicina, alternati con un preciso ordine logico a saggi di sapere vario. Per il resto la stanza era vuota e anche il porta cd, fino a poco tempo prima nell'angolo destro vicino alla finestra, era stato spostato nella camera da letto insieme allo stereo. L'arredamento di tutto l'appartamento era molto semplice, non particolarmente curato. C'era tutto il necessario: che importava che i colori stessero bene fra loro? Tanto più che il tempo che Matt trascorreva in casa era più che esiguo. E Bob non si lamentava certo della diversità di colore fra scrivania e librerie!

La mano del dottore correva convulsamente per riempire, uno dopo l'altro, i fogli della metà di un blocco tutto sommato non troppo spesso. Matt compì un quarto di giro per posizionarsi di fronte al computer acceso e digitare parole chiave

incomprensibili a chiunque non avesse studiato medicina per anni e anni.Il telefono fece fermare le sue dita a mezz'aria. Si drizzò sulla sedia in attesa di

verificare di non essersi immaginato lo squillo. No. Scattò in piedi e andò a recuperare il cordless sul bancone della cucina.

«Ehi Matt, ti sei dimenticato di dovermi portare Bob oggi?». Si trattava del veterinario, che il cane non apprezzava particolarmente ma nemmeno odiava più degli assordanti assoli di hard rock che il padrone gli propinava di tanto in tanto.

«Sì, completamente. Sono un idiota!» concluse con un sospiro rassegnato. Già, se n'era completamente scordato e, beh, non aveva nessuna voglia di abbandonare il filo dei propri pensieri per uscire. Non fece troppa resistenza con se stesso, però. Si infilò il cellulare in tasca, fece cenno a Bob di seguirlo e si precipitò giù per le scale in direzione del garage.

Stava uscendo dal parcheggio della clinica, dopo aver la sciato che il suo cane iniziasse il proprio paio d'ore di seduta, quando il cellulare squillò. C'erano giorni in cui nessuno chiamava, invece quel sabato lo cercavano tutti. Aveva sperato di poter tornare a casa e lavorare un altro po' al caso di Luke prima di rendersi conto che non sarebbe stato possibile in nessun modo.

«Dottore, abbiamo un'emergenza, il dottor Kussle è in malattia».Svoltò nella direzione opposta a quella di casa sperando con tutto se stesso che

non si trattasse di un'emergenza troppo grave. Era certo di non poter sopportare un casino incasinato anche solo la metà rispetto a quello di Luke Mason.

Una volta nello studio, indossò il camice e si preparò più in fretta che poté per rispondere alla chiamata. Ma si bloccò in mezzo alla stanza, gli occhi sbarrati, quando gli tornò alla mente l'immagine della sagoma che correva nella notte, sotto la pioggia. Non ci aveva praticamente più pensato dal momento in cui era successo a causa del freddo, del sonno, della confusione... Tuttavia in quell'istante ripercorse la scena con estrema chiarezza. L'auto ammaccata, la pioggia fittissima, il muretto di cinta, la strada deserta, l'individuo in lontananza... l'individuo in lontananza... indugiò per qualche istante sulla figura che correva scompostamente.

"Il Vicodin che non è Vicodin provoca le visioni anche a te, amico?" si chiese mentre tentava di riprendersi. L'uomo era scappato, il che non lo riguardava in nessun modo. Il suo unico problema ora doveva essere il paziente che aveva bisogno del suo aiuto.

Raggiunse l'infermiera che gli aveva telefonato per dirigersi insieme a lei verso la stanza giusta.

Sul lettino una ragazza di diciassette o diciotto anni, i capelli biondi sparsi sul cuscino, il volto arrossato da... febbre. Accanto a lei una giovane di una decina di anni più grande, a cui Matt non seppe attribuire un ruolo all'interno di un'ipotetica famiglia. Non importava farlo. Si limitò a chinarsi sulla ragazza per tastarle la fronte.

«Che succede?» domandò mentre constatava che la febbre era alta. «È il terzo giorno che ha la febbre alta e non le scende in nessun modo» rispose

l'altra giovane.Matt annuì e proseguì la visita prendendole il polso, quindi misurò la

temperatura. Alta, troppo alta, bisognava fare qualche cosa, subito.«Hai qualche idea di come te la sei presa?» domandò mentre le controllava le

tonsille.«Forse... forse in piscina...» disse lei con voce rauca. «Ho fatto la doccia fredda

per un paio di giorni di fila e sono uscita con i capelli bagnati, e il vento... lo so, sono proprio una volpe, ma il caldo...».

"Già, proprio furba la giovincella!" pensò il medico. Diede alcune disposizioni all'infermiera che gli era stata accanto in silenzio fino a quel momento. Intanto che lei usciva dalla stanza, Matt proseguì con il controllo. Sembrava tutto normale, ed era proprio questo il problema. Se era tutto normale, perché i farmaci non avevano funzionato? Esami più approfonditi, l'unica strada.

«Ho saputo di Luke Mason... l'ha curato lei?» domandò la ragazza tutto d'un tratto.

Matt s'irrigidì. Che c'entrava il suo più tormentoso problema di coscienza dell'ultimo anno in quel momento?

«Sì, ci ho provato, ma evidentemente non ho fatto un buon lavoro».La ragazza si scostò stancamente una ciocca di capelli dalla fronte. «Non è

semplice fare un buon lavoro quando uno subisce un incidente di quella portata».Segreto professionale a parte, era inutile spiegare alla paziente tutti i dubbi che il

caso di Luke aveva suscitato nel medico. Per di più, nemmeno sapeva se erano fondati oppure no. Matt, quindi, non fece altro che annuire. Poi chiese: «Lo conoscevi?». Forse quella ragazza poteva sapere qualcosa che a lui, alla signora Mason e a tutti gli altri sfuggiva.

«Già. Era un mio amico, facevamo nuoto insieme. Mi mancherà moltissimo».«Mi dispiace, era un ragazzo troppo giovane».«Anche a me dispiace. Era davvero simpatico e in gamba. Sono sicura che sarebbe diventato un campione. Era già stato promosso per le

Olimpiadi».«Nuoto?» mormorò Matt sorpreso. In effetti Luke aveva un fisico molto atletico e

se il medico fosse stato più appassionato di sport probabilmente l'avrebbe saputo distinguere da altri tipi di sportivi. La signora Mason però non aveva detto niente. Beh, che importanza aveva?

«E tu?» incalzò il dottore, confuso.«Io? Intende se sono stata promossa? Fra pochi giorni sceglieranno e se questa

febbre non si abbassa...». Gli occhi della giovane si riempirono di lacrime. L'altra ragazza le accarezzò la mano.

«Capisco» sussurrò Matt in evidente imbarazzo. Odiava vedere le persone in quello stato e odiava sospettare di non riuscire a risolvere il problema.

Frattanto ritornò l'infermiera con un carrello di medicinali. Matt prese un paio di pillole e le porse alla ragazza mentre l'infermiera le allungava un bicchiere d'acqua. Aprì un laccio emostatico e lo strinse intorno al braccio destro della giovane. Nell'aprire la siringa e aspirare il liquido dalla fiala, si trovò a sperare con tutto se stesso di essere in grado di non infrangere i sogni di quella giovane nuotatrice. Perché era così coinvolto in quel periodo? Non doveva esserlo, sapeva bene, non doveva esserlo, non lo era mai stato. Era ancora per via di Danielle? Strinse leggermente i denti per scacciare il pensiero e infilò l'ago nella vena della paziente.

Un paio d'ore dopo era di nuovo sulla strada di casa con Bob accucciato nel retro

dell'automobile. Ora il cane era pulitissimo e felice di aver superato la prova veterinario e non sentire gli striduli rumori dalla parte anteriore dell'auto.

Matt, infatti, era immerso nelle proprie riflessioni e non l'aveva sfiorato l'idea di accendere la radio. Stava succedendo un'altra cosa strana al Royal London Hospital, un'altra cosa che lui non sapeva spiegarsi. Nemmeno il sistema immunitario della nuova paziente aveva reagito ai farmaci. Sembrava che gli antibiotici non le facessero alcun effetto. La febbre non scendeva, le difficoltà respiratorie non si alleviavano. Cosa stava succedendo? Cosa cavolo stava succedendo? Gli pareva di rivivere le stesse scene di qualche giorno addietro, la stessa ansia, la stessa perplessità. Solo che questa volta doveva assolutamente riuscire a condurre la vicenda verso un finale diverso. Sospirò. Che si trattasse di un nuovo tipo d'influenza? Non si trattava di qualcosa come... suina, ne era certo, anche perché la reazione ai medicinali da parte della ragazza, Chelsea Daultry, era la stessa di Luke, benché il ragazzo non avesse la febbre, ma avesse subito un incidente. E proprio per la differenza nelle cause non poteva nemmeno essere qualche altro tipo di epidemia che scatenava inutile psicosi in tutto il mondo. Qualcosa in piscina? Forse. Comunque era troppo presto per azzardare qualsiasi ipotesi strana.

«Per fortuna che almeno tu stai bene!» disse a Bob mentre gli apriva la portiera per farlo scendere. Il cane lo affiancò su per le scale e lo precedette in casa. Matt andò direttamente verso lo studio, infilò nella borsa nera i due libri che stava leggendo insieme agli appunti e uscì dall'appartamento dopo aver fatto a Bob una carezza sulla testa. Era già sicurissimo che avrebbe passato il resto della giornata fra studio e stanza di Chelsea.

Le otto di sera: la febbre della ragazza non accennava ad abbassarsi. La giornata era trascorsa esattamente come Matt sospettava. Aveva terminato i fogli del blocco che aveva portato con sé a forza di prendere appunti e ora Luke non era l'unico obiettivo di quella ricerca dannata. Di là, a una ventina di metri da lui, c'era una ragazza che aveva bisogno d'aiuto, immediato, altrimenti non si sapeva come sarebbe finita. Inutile disturbare Jack, era andato in Francia per un weekend lungo con la famiglia. Altri colleghi con cui condividere il problema... no, nessuno disposto a sacrificare il proprio sabato per mettersi a pensare ad un'apparente fissazione del dottor Holland. Già, perché la maggior parte dei medici del reparto riteneva che Matt avesse preso un enorme granchio e non volesse rendersene conto. Assurdo! Comunque fosse, se la doveva cavare da solo. Era eccessivo rimanere lì anche per la notte, ma tutto sommato poteva essere una buona soluzione. Forse sarebbe stato più utile andare a casa, mangiare qualcosa e farsi un paio d'ore di sonno. O addirittura fare un salto a Brighton, un autoinvito a cena. No, casa!

Riempì l'ultimo foglio del blocco per gli appunti e si alzò dalla sedia. Scatto

troppo veloce! Dovette aggrapparsi alla scrivania con entrambe le mani per non ricadere sulla poltrona o addirittura sul pavimento. La testa... di nuovo la testa. L'effetto della morfina era finito, ora toccava fare nuovamente i conti con la bestia che gli attanagliava il cervello.

«Se potessi sterminerei tutto l'esercito con le mie mani» borbottò a denti serrati. Non odiava suo padre che l'aveva convinto ad arruolarsi, odiava chi aveva deciso di fare quella guerra. Tale padre tale figlio, si ripeteva spesso. L'Iraq, sempre l'Iraq.

L'Iraq nel 1990-91, l'Iraq dal 2003 fino a chissà quando. Quante persone, in giro per il mondo, si trovavano nelle sue condizioni? Quanta gente doveva imbottirsi di morfina per non impazzire? E quanti erano realmente morti? E come si era sentito suo padre di ritorno dalla guerra? Non gli era parso di essere stato svuotato, privato per sempre di una parte di sé?

Ralph Holland aveva combattuto nel Vietnam per tre anni interi, dal 1965 al 1968. Aveva vent'anni quando era stato arruolato, non del tutto volontariamente ma neppure con troppo dispiacere. Il governo americano era ormai arrivato al punto di reclutare anche ragazzi più vecchi di lui, persino persone sposate e con figli, quindi non aveva alcuna possibilità di opporsi a quella "chiamata per la patria", come avrebbe desiderato la madre. Tanto più che suo padre sosteneva strenuamente la guerra, definendola "un atto necessario da parte della più grande potenza del mondo". E Ralph era così assuefatto a questi discorsi da non riuscirne a scorgere tutte le implicazioni. In suo padre vedeva un mentore, una guida formidabile, una fonte inesauribile di saggezza. Così, nel maggio del 1965 era partito dalla base Travis — esattamente come avrebbe fatto suo figlio venticinque anni dopo — per volare alla volta di Saigon. Suo padre era un politico attivamente impegnato nelle fila repubblicane e si era assicurato che Ralph ottenesse una buona posizione all'interno delle truppe statunitensi impegnate a "combattere Charlie". Il giovane Holland era stato assegnato, per tanto, al ruolo di accompagnatore. Fondamentalmente era l'autista dei giornalisti e dei personag gi americani e inglesi di spicco in visita nella capitale vietnamita. Il ruolo gli andava molto bene e certo non si stupiva che suo padre parlasse con fervore di guerra, di annientamento del nemico, eccetera, ma quando si era trattato di mandare sul campo il figlio, avesse fatto di tutto per tenerlo ai margini della mischia. Non se ne sarebbe mai domandato il perché. Combattere, dunque, era una parola vagamente inadatta con cui definire il "tassista" dei pezzi grossi, tuttavia Ralph si sarebbe sempre vantato di essere un veterano del Vietnam. Certo, aveva visto morte, distruzione, mutilazioni, povertà, ma il tutto non lo turbava poi molto. Gli avevano insegnato che l'importante era salvarsi le chiappe e sarebbe stato sempre quello che avrebbe cercato di fare. Ci riuscì con successo. Soltanto una volta fu ferito di striscio dalla pallottola di un vietcong mentre portava un giornalista del "Times" in un luogo di combattimento poco fuori da Saigon. Non riteneva che quella fosse una ferita; preferiva pensarla come marchio di guerra, come prova di coraggio, come segno distintivo di un vero eroe benché il tutto non avesse alcun aspetto eroico. In fin dei conti, comunque, l'importante era cavarsela e lui era ritornato a casa, a Berkeley, sorridente ed esaltato. Era maturato nei tre anni di Vietnam, maturato nel senso che ora assomigliava molto di più al padre rispetto a quando era partito. Il vecchio signor Holland ne era orgoglioso. Suo figlio aveva servito valorosamente la nazione, era degno di portare il suo cognome, era degno di essere uno statunitense.

Pochi mesi dopo, nel pieno delle rivolte sessantottine, l'eccitato combattente Ralph Holland aveva conosciuto una ragazza che si dedicava con tutte le proprie forze a contrastare quell'orrore, a muovere le coscienze della gente per far capire a tutti che la guerra era totalmente inutile. Jane Richards era una giovane inglese di vent'anni, particolarmente incazzata per l'assassinio di Bob Kennedy e, soprattutto,

Martin Luther King. Avrebbe preso a calci nel sedere chiunque accennasse anche solo ad un mezzo commento positivo sulla guerra nel Vietnam, chiunque non capisse l'importanza, la fondamentale importanza della pace e chiunque, come diceva lei, "si professasse patriota solo perché aveva il culo coperto". Eppure i due opposti più opposti si erano incontrati e perfino attratti. Nessuno dei due sapeva spiegare come fosse possibile sopravvivere alle continue discussioni sociopolitiche, ciononostante Ralph e Jane si amarono profondamente, fino agli istanti finali delle proprie vite. E dopo un anno dal loro matrimonio, quando all'inizio degli anni settanta le proteste erano alle spalle — e anche Woodstock a cui Jane aveva trascinato un inorridito Ralph — era nato Matthew. Era in tutto identico alla madre: fisicamente e soprattutto cerebralmente. Un ragazzo sveglio, brillante, appassionato e idealista. Determinato fino all'esasperazione, odiava pensare attraverso ragionamenti indotti. Non apprezzava il carattere austero e l'impianto ideologico conservatore del nonno — preferiva di gran lunga che la cittadina costiera portasse avanti la nomea di "Repubblica Popolare di Berkeley" — tanto meno quello accondiscendente del padre, ma rispettava entrambi per quello che erano e significavano per lui. Amava profondamente la madre, con la quale gli capitava spesso di affrontare lunghe ed impegnate discussioni. La trovava splendida, nel suo fisico esile, nei suoi lineamenti dolci, nell'aria fiera e tenace, nel piglio carismatico, nel bagaglio ideologico. A volte gli era capitato di chiedersi che ci facessero i suoi genitori insieme, per poi giungere alla conclusione che la loro era una storia meravigliosa, nonostante tutto.

E nel 1990 Matt si era diplomato con il massimo dei voti alla high school. La madre ne era orgogliosa, apprezzava immensamente il suo spirito intellettuale. Il padre, dal canto suo, gli aveva subito fatto una proposta particolare: arruolarsi nei marines. Matt aveva a stento represso un urlo di disgusto in gola, solo per non offenderlo. Odiava questa prospettiva, la odiava con ogni muscolo. Andare in Iraq ad ammazzare gente in prima linea oppure fare il raccomandato di turno e tenersi nell'ombra in quanto figlio di un veterano del Vietnam, mentre gli altri seminavano morte e distruzione? Entrambe le alternative erano abominevoli. Tuttavia la sua parte razionale aveva preso il sopravvento, come spesso succedeva. Gli Holland non erano una famiglia ricca, anzi. Benché fosse stato veterano del Vietnam, Ralph aveva terminato i suoi giorni di gloria e li aveva terminati facendo l'idraulico. Jane, invece, lavorava per un'impresa di pulizie e si spezzava la schiena a tirare a lucido ogni giorno decine e decine di metri quadrati di pavimenti, vetri e quant'altro. Matt era figlio unico e il suo sogno più grande era andare al college e poi laurearsi in medicina. Ma le spese del college erano enormi e lui sapeva bene che i suoi genitori sarebbero stati disposti anche a raddoppiare i turni di lavoro pur di coprirle. Non gli andava, no, non era ciò che desiderava. Forse l'unica soluzione era accettare la proposta di suo padre: l'esercito. Si sentiva assurdo, tanto assurdo per i ragionamenti che l'avevano portato a quella conclusione. Comunque infine accettò, ritenne che l'Iraq fosse preferibile al fatto di lasciare che i suoi genitori si massacrassero per lui. Aveva paura, una paura atroce, ma ormai aveva scelto. E poi... il bel volto di sua madre contratto in una maschera di dolore alla base aerea della California... Matt sussultò a questo vivido ricordo e lasciò che il dolore intenso gli scorresse nelle vene per qualche istante, mescolandosi alla cefalea. Si strinse la testa fra i palmi con tutta

la forza di cui fosse capace. Era impossibile pensare in quelle condizioni, ma lui non era nella posizione di poter decidere di rimandare i problemi. Se non avesse agito, Chelsea avrebbe anche potuto morire. Un'altra ragazza dell'età di Danielle... Con la vista annebbiata, ruotò gli occhi verso la foto che teneva sulla scrivania. Sua figlia era stata una neonata bellissima, ora era una ragazza splendida e sarebbe diventata una donna straordinaria. Come aveva già notato la prima volta in cui l'aveva vista, constatò che assomigliava moltissimo alla madre, però era centinaia di volte più bella di lei. Un altro impulso di andare a Brighton solo per trascorrere qualche altra ora con lei... stupido! Ma non era forse più stupido stare lì mentre sua figlia si trovava a pochi chilometri da lui? Il poterla vedere non era forse quello che desiderava da anni?

Il cercapersone suonò: doveva correre nella stanza di Chelsea. Non sapeva bene se quella che stava pensando fosse una preghiera o qualche semplice frase dettata dall'ansia. Si precipitò fuori dalla porta e pochi secondi dopo si trovava accanto al letto della ragazza.

Chelsea non riusciva a respirare e si agitava pericolosamente sul letto. Annaspava

alla ricerca di un poco d'ossigeno, l'aria che non sarebbe mai stata in grado di prendere se non fosse stata aiutata.

Matt ordinò il trasporto urgente in rianimazione. Non era affatto sicuro che sarebbe servito a qualcosa, non a quel punto, ma ci sperava con forza. Mollò i fermi del letto e lo spinse fuori dalla stanza.

Dietro di lui la ragazza che era stata l'ombra di Chelsea per tutta la giornata. Piangeva in silenzio. Nessuno aveva tempo di preoccuparsi per lei e nemmeno lo desiderava. Pregava che la sorella ce la facesse, pregava perché quel piccolo angelo che adorava più di se stessa non terminasse lì, non in quel momento, la corsa della propria vita. Aveva evitato di rivelare ai genitori la gravità delle condizioni di salute della sorella. Il padre aveva da pochi mesi subito un infarto, la madre soffriva di attacchi di panico. Inutile precisare dunque che lei si doveva accollare tutte le responsabilità della famiglia. Ma quello che stava succedendo in corsia era troppo. Pazzesco... la forte, sana, atletica Chelsea insidiata da una febbre anomala. Inconcepibile!

Matt sonnecchiava con la testa appoggiata sulle braccia incrociate. Davvero scomodo dormire proteso in avanti sulla scrivania! Necessario, e quello era il momento di fare tutto ciò che era necessario. La crisi respiratoria di Chelsea era rientrata, il che non significava affatto che la ragazza fosse fuori pericolo. Il medico aveva esaminato più e più volte i risultati della TAC e della risonanza magnetica: nessuna infezione evidente a parte la tonsillite. E la tonsillite era una cosa che il sistema immunitario di solito annientava senza particolari difficoltà. Di solito! Quel caso non era solito. Sarebbero stati necessari esami più approfonditi, che il corpo troppo indebolito di Chelsea non poteva affrontare. Ma aspettare che la ragazza tornasse in forze era ancor più pericoloso. La mattina successiva avrebbe dovuto prendere una decisione, che poteva rivelarsi fatale in ogni senso.

Si svegliò intorpidito. Aveva la schiena a pezzi, il collo bloc cato e la mente annebbiata. Diede un'occhiata allo sportivo orologio nero che portava al polso sinistro: le due e mezzo. Era ora di andare a fare un controllo. Si infilò in tasca un

paio di guanti e una mascherina ancora sigillati, quindi uscì a passo felpato nel corridoio deserto.

Chelsea respirava soltanto grazie alla maschera d'ossigeno. Il suo battito cardiaco si era normalizzato, ma la febbre rimaneva alta. Gli anticorpi, pur sollecitati in molti modi, non avevano reagito. La situazione sarebbe rimasta stazionaria, ammesso e non concesso che non fossero insorte complicazioni. Per quanto? Sarebbe bastato a Matt per avere un'illuminazione? Improbabile, brancolava nel buio totale. Sospirò e si allontanò dalla camera.

In fondo al corridoio, abbandonata su una poltroncina di plastica, sedeva la sorella di Chelsea, il volto fra le mani.

Matt la raggiunse, sebbene non sapesse cosa dirle. Le si sedette semplicemente accanto, troppo stanco per sentirsi particolarmente inopportuno.

«Disturbo?» domandò sottovoce mentre si abbandonava sulla seggiola.«Affatto!» ribatté lei dopo un singhiozzo. «Come sta? Realmente, intendo!»

chiese drizzando la schiena.«Non so. Sinceramente non lo so e il fatto di non sapere è sempre

incredibilmente odioso per tutti, anche per noi».La ragazza annuì.«Non è molto, però per ora si può evitare la tracheotomia, è comunque un buon

segnale».Lei rabbrividì all'idea, ma si limitò ad assentire, non aveva nulla da dire in un

contesto simile.«Hai avvertito i tuoi genitori?».«No, e non credo che lo farò. Non reggerebbero, sono malati, e io non

sopporterei di perderli».«Forse invece dovresti farlo. Le condizioni di tua sorella sono molto più gravi del

previsto».La giovane fu scossa da un singhiozzo silenzioso. «Forse lo farò. Comunque io

penso che il problema sia la piscina. In quel posto succede qualcosa che non so, qualcosa di grave».

Matt strinse le labbra. Anche lui aveva preso in conside razione l'ipotesi, però non si aspettava che qualcun altro la condividesse, non dopo tutto lo scetticismo con cui si era scontrato negli ultimi giorni. La giovane Daultry aveva ragione e le ricerche del problema dovevano partire proprio da lì.

«Dove si allenano?» domandò con interesse crescente.«Nella piscina pseudo-olimpionica vicino al London Aquatics Centre, una tra le

poche rimaste aperta dopo che hanno deciso che le prossime olimpiadi saranno qui».Matt assentì. Non era sicuro di aver capito dove — non era mai stato al London

Aquatics Centre e non aveva la più pallida idea di dove si trovasse — ma gli sarebbe bastata una piccola ricerca oppure qualche domanda ai passanti per sapere. In quel momento non avrebbe capito nessun tipo di indicazione stradale. Il mal di testa era ritornato forte, la stanchezza opprimente.

«Io andrei qualche ora a casa» disse infine mentre si alzava. «Almeno per dar da mangiare al mio cane...».

La ragazza annuì debolmente.

«E credo che dovresti farlo anche tu, e magari tornare domani insieme ai tuoi».La giovane scosse vigorosamente il capo in silenzio.«Sei maggiorenne, fa' come vuoi» concluse con una scrollata di spalle.«Però ha ragione, credo che l'ascolterò. Grazie dottore, di tutto».Lui sorrise e s'incamminò piano verso l'uscita.I guaiti di Bob erano furiosi. Persino il cane affetto da pazienza cronica si era

stufato di aspettare per interminabili ore il padrone. Si era piazzato dietro la porta d'ingresso per bloccarla con tutta la propria stazza in segno di protesta. Eppure, quando sentì Matt girare la chiave nella toppa e spingere la porta, non oppose molta resistenza. Un santo, sì, un santo. Se avesse saputo cos'erano i santi, avrebbe fatto richiesta di avere l'aureola, ben conscio che la sua petizione sarebbe stata immediatamente accolta.

«Scusa Bob... sono pessimo» gli disse mentre lo abbracciava. E certo che una donna non sarebbe mai riuscita a sopportare tanto! Danielle aveva capito tutto della vita e lui sorrise nel ricordare le sue parole. Si chiese se fosse sempre così spontanea o se in quel momento aveva provato lo stesso impulso di sintonia che aveva sentito lui. Domande difficili da farsi alle tre e mezzo di notte...

Come al solito, non aveva fame, ma riempì per bene la ciotola di Bob. Per sé si limitò ad una fetta di torta alla frutta che la collaboratrice domestica gli aveva preparato il giorno prima, giusto per poter prendere un antidolorifico che alleviasse, seppur in minima parte, la cefalea.

La prossima mossa era andare sul campo per scoprire cosa succedeva in quel periodo ai ragazzi del nuoto. Perché qualcosa di strano stava succedendo. Con uno sbadiglio notevole, si diresse verso lo studio. Sarebbe andato alla piscina appena possibile, quindi meglio trovare subito dove si allenavano i nuotatori professionisti. Fece una ricerca su internet e non impiegò molto a scoprire che il London Aquatics Centre era stato chiuso per essere ristrutturato in vista del 2012. Non spese nemmeno molto tempo prima di sapere che — come aveva detto la sorella di Chelsea — gli allenamenti si svolgevano in una piscina delle dimensioni olimpioniche — benché non bollata come tale — che si trovava lì vicino. Matt stampò la mappa per raggiungerla: percorso semplice e abbastanza breve. La confrontò con una cartina di Londra che teneva nella cassettiera della scrivania in un moto di eccessivo zelo. Aveva capito perfettamente. Ora il massimo sarebbe stato una dormita di almeno quarantotto ore, cosa che non sarebbe mai avvenuta.

Pronto a balzare in piedi a qualsiasi accenno di emergenza, agguantò il cellulare e il cercapersone e si diresse in camera con il fedelissimo Bob sempre al seguito.

Non ci furono emergenze, e la sveglia vivente, Bob, non agì quella mattina. Una volta tanto che aveva il padrone a casa meglio goderselo!

Matt era riuscito a farsi nove ore secche di sonno: troppo distrutto per avere qualsiasi incubo.

A mezzogiorno passato si risvegliò e, nel vedere l'ora, soffocò un grido di sorpresa per non sembrare stupido. Balzò in piedi. «La pacchia è finita!» disse a Bob che si era alzato scodinzolando. Aveva il cervello annebbiato e il mal di testa in sottofondo, ma sapeva esattamente cosa fare. Era chiaro che era ormai troppo tardi per combattere contro il destino di Chelsea, anche se avrebbe fatto l'impossibile per

farla guarire. Era ora di agire su un territorio a più ampio raggio, perché se avevano fatto qualcosa a Luke e Chelsea significava che l'avevano fatto o lo stavano facendo anche agli altri atleti in lizza per le olimpiadi del 2012.

Ma prima di andare in piscina, era meglio passare dall'ospedale a controllare come stava la ragazza. E prima di andare al Royal London Hospital, era ancora meglio mettere qualcosa sotto i denti. Si preparò un panino imbottito di tutto ciò che di commestibile — e possibilmente salato — aveva in frigo. Mentre bolliva il barile di caffè che aveva messo sul fuoco, infilò in uno zaino un asciugamano e un costume da bagno, giusto in caso gli fosse venuta voglia di fare una nuotata nel mezzo dell'indagine. Non aveva la più pallida idea se i ragazzi si allenassero o meno di domenica; tanto valeva verificarlo.

Parcheggiò l'auto a qualche isolato di distanza dalla piscina. La giornata era bella e Matt colse l'occasione di fare una passeggiata, lusso che non si concedeva da tempo. In corti pantaloncini beige, maglietta nera e scarpe da ginnastica dello stesso colore, raggiunse il fiume di pedoni che occupava il marciapiede. Non sarebbe stato male avere la possibilità di fare una corsa, l'unico sport che gli piacesse. La densa folla lo impediva. Così si accontentò di mantenere un passo quanto più veloce possibile in mezzo a mamme con passeggini, turisti sbalorditi con la macchina fotografica in mano e gente ferma a chiacchierare in mezzo alla strada. Gran bel posto tranquillo!

Tutto ciò che lo circondava non contava in quel momento. Quello che importava era arrivare alla piscina e trovare qualche risposta. Difficile. Nulla nella vita era semplice e Matt era certo che non avrebbe mollato prima di aver raggiunto l'obiettivo. Non lo aveva mai fatto, tanto meno si sarebbe permesso cedimenti in quella sfida. Anche perché la sfida valeva la vita di una persona in pericolo di perderla e la sicurezza di chissà quante altre. Girò intorno ad un cane lungo e disteso sul marciapiede, poi ad una carrozzina per gemelli. Ancora una volta, faceva molto caldo e i vestiti leggeri del professore non bastarono a tenerlo fresco. Forse avrebbe davvero ceduto ad una bella nuotata, a qualche minuto nell'acqua refrigerante, benché non amasse sguazzarci.

L'edificio fatiscente del centro sportivo era ora visibile nel proprio grigio spento fra numerose altre costruzioni, di colori, epoche e funzioni diverse. Matt spinse la pesante porta a vetri dell'ingresso e si trovò avvolto da un'improvvisa freschezza: fantastico! Di fronte a lui un bancone in scuro legno massiccio. Una donna fra i trenta e i quaranta se ne stava curva su un foglio, una chioma folta di capelli neri e ricci tenuta indietro da un paio di occhiali da sole. Nel sentirlo entrare, alzò gli occhi e non poté fare a meno di ammirarne il bel fisico, l'ampio sorriso e l'aura di fascino che emanava.

«Desidera?» chiese con un filo di voce mentre si drizzava sulla sedia. Anche lei era una bella donna, viso e portamento molto graziosi, ma il medico non la osservò abbastanza a lungo per accorgersene.

«Un biglietto d'ingresso per la piscina, per favore» le rispose infilando una mano in tasca per pescare il cellulare che si era messo a squillare. Non era l'ospedale, nessun collega, non Keith. Soltanto un vecchio amico che avrebbe potuto richiamare in serata. Premette il tasto per mettere la suoneria in modalità silenziosa.

«Certo, certo... ma adesso la piscina è occupata».Matt le lanciò un'occhiata entusiasta nella speranza di sentirsi raccontare che

erano in corso gli allenamenti di nuoto.«Ci sono gli allenamenti dei ragazzi del nuoto agonistico e finiranno soltanto

tra... un'ora circa».Matt cercò di non mostrare la sua esultanza alla notizia. Aveva fatto qualcosa per

meritarsi tutta quella fortuna? Evitò di allargare ulteriormente il sorriso che stava già sfoggiando. «Beh, sono un tipo paziente. Posso prepararmi con calma e passare un po' di tempo sugli spalti ad osservare i professionisti, sempre che sia possibile. Sa, mi affascina molto il nuoto e confesso che non mi dispiacerebbe imparare anche qualcosa».

Certo che lo affascinava il nuoto! Con il fisico che aveva... ah, beata chi l'avrebbe

visto nuotare quel giorno!«Sì sì, è possibile» disse lei scrollando la testa per scacciare quei pensieri

imbarazzanti. «Potrebbe annoiarsi, ma se dice di essere un tipo paziente e aver voglia di imparare...» sfoggiò un sorriso.

Matt annuì, chiaramente conscio dell'effetto che aveva fatto sulla donna. Non sapeva se era bravo a raccontare bugie, oppure se era soltanto merito degli ormoni schizzati dell'interlocutrice. In ogni caso, il biglietto era pronto, in bella mostra sul bancone, e l'uomo ringraziò con un altro sorriso a trentadue denti. Premiare la gentilezza di quella segretaria era il minimo che potesse fare. In quanto a lui, era ormai da un pezzo che l'altro sesso non gli suscitava emozioni particolari. Gli era capitato di avere qualche storia quand'era più giovane, senza mai considerare seriamente la possibilità di formare famiglia. L'unica donna con cui sarebbe forse stato disposto a valutare l'ipotesi era la madre di sua figlia, ma era arrivato alla convinzione che per lei non fosse mai stato esattamente lo stesso. Comunque ora era troppo tardi, in ogni senso.

Anche lui fu costretto a scuotere la testa per non farsi trascinare lontano da pensieri troppo complessi da affrontare. Si infilò nel corridoio che si apriva alla destra del bancone e scese al piano inferiore per appoggiare lo zaino negli spogliatoi. L'angolo vuoto di una panca era pronto ad accoglierlo, accanto ad indumenti, asciugamani e altri oggetti dei nuotatori che si stavano allenando.

Matt uscì dalla stanza con le mani in tasca e salì due rampe di scale per raggiungere una piccola tribuna affacciata sulla piscina. I sedili erano quasi tutti vuoti; soltanto un'ipotetica coppia di genitori, cinque ragazzi bisbiglianti e una donna sulla cinquantina ne occupavano alcuni. Il medico si scelse un posto appartato, nell'angolo sinistro della fila più in alto. Da lì la visuale era ottima.

Ma cosa stava cercando in quel luogo? Risposte. E in che modo contava di ottenerle? Non lo sapeva. Sperava di trovare, scoprire, agire. Sperava, per l'appunto. Però una persona razionale e scientifica come lui non poteva andare avan ti a speranze, tentativi. Forse doveva compiere degli sforzi maggiori. Forse pretendeva troppo da se stesso, forse troppo poco. Confuso e paranoico. Non era mai stato così emotivo in tutta la sua vita.

"Basta!" si urlò nella testa costringendosi a fissare gli occhi sui ragazzi che, sotto l'ordine di un severo allenatore, stavano eseguendo alla perfezione lo stesso

esercizio. Fino a pochi giorni prima anche Luke si allenava con loro. Ora non più, mai più. E forse nemmeno Chelsea sarebbe più ritornata. Disgustoso! Perlomeno l'ultima volta in cui l'aveva visitata stava discretamente bene. Comunque, era necessario prendere una decisione, immediatamente, per abbassare la febbre.

«Le tonsille...» mormorò mettendosi una mano davanti alla bocca per evitare di attirare l'attenzione degli astanti. Probabilmente l'unica soluzione che gli era rimasta era quella di asportare le tonsille. Era conscio di tutti i rischi che comportava l'intervento, tenendo conto delle condizioni fisiche di Chelsea. Ma lei ce l'avrebbe fatta, ne era sicuro. Era una ragazza caparbia e avrebbe lottato strenuamente per rimanere aggrappata alla vita. Ne era certo. O, almeno, doveva sperarlo. Ed ecco che si ritornava alla speranza... sì, si ritornava alla speranza e decise che andava benissimo così perché era l'unica possibilità che aveva per tirare avanti.

La figlia maggiore dei Daultry era stata di parola: aveva seguito il consiglio di Matt. Quando quest'ultimo era arrivato all'ospedale, li aveva trovati tutt'e tre abbracciati, abbandonati sulle poltroncine di plastica disposte in fila in fondo al corridoio. Nel vederlo, i Daultry gli si erano fatti incontro: «Salve dottore! Allora?».

Cercavano risposte — era ovvio che fosse così — ma lui non ne aveva. Si era limitato a sorridere debolmente e a raccontare di nuovo ciò che aveva detto alla sorella maggiore: Chelsea non reagiva.

I ragazzi proseguivano i propri esercizi divisi in due gruppi. Il primo, in acqua, seguiva le istruzioni di un allenatore, il secondo, a bordo vasca, quelle di un altro uomo dall'aspetto intransigente.

Matt si mise le mani sulle ginocchia. Gli esercizi sarebbero stati affascinanti se solo lui avesse apprezzato lo sport. Non era assolutamente vero che aveva un carattere paziente, tanto meno che gli interessava imparare. Tuttavia stette lì, immobile, concentrato. Fissò un paio di ragazzi che eseguivano esercizi di stretching con le braccia, altri due piegati in avanti per distendere i muscoli della schiena, altri che rinforzavano i muscoli delle gambe, eccetera. Li passò attentamente in rassegna, tutti quanti, più e più volte. Sembravano tutti perfettamente sani, invulnerabili. Da ognuno irradiavano entusiasmo e determinazione indescrivibili. Nessuno sospettava di poter essere soggetto a qualsiasi tipo di malattia, anche la più banale.

"E se avessero fatto loro qualcosa per eliminarli dalla competizione?" si domandò Matt ripensando a quanto gli aveva raccontato Chelsea a proposito delle selezioni. Se avessero voluto tagliare fuori dai giochi proprio lei e Luke? Assolutamente stupido azzardarsi a spingerli fino alla morte. Era la strategia più inopportuna all'interno di un complotto, ammesso che di complotto si trattasse. I pezzi grossi avrebbero potuto agire indisturbati senza alcun bisogno di ricorrere a stratagemmi così poco occulti. Avrebbero potuto non sceglierli e basta inventando qualsiasi motivazione assurda.

Gli atleti continuavano ad eseguire i propri schemi di esercizi con continuità e sincronia quasi ipnotiche. Il gruppetto di ragazzi sugli spalti mormorava frasi incomprensibili. La coppia scambiava alcune battute di tanto in tanto. Matt osservava il tutto con la massima attenzione senza trovare niente di interessante.

Prima di uscire dall'ospedale, aveva disposto che a Chelsea venissero urgentemente effettuati gli esami del sangue completi. Gli avrebbero fatto avere il referto il prima possibile. E l'indomani sarebbe stato anche il giorno dei risultati

dell'autopsia sul corpo di Luke.Matt fu riscosso da una concitata serie di voci. Si accorse di fissare il vuoto.

Inquadrò la scena sotto di sé: un capannello di persone intorno ad uno dei ragazzi.Il cuore del medico si fermò per un secondo."Non è possibile... ma allora sono io che porto sfiga!" piagnucolò dentro di sé.

Frattanto si trovava già in fondo agli scalini degli spalti. Raggiunse di corsa il luogo dell'accaduto: «Che succede? Sono un medico, posso aiutarvi!» esclamò facendosi largo tra la piccola folla riunita intorno al ragazzo steso a terra.

«Credo abbia avuto un calo di energia e perso l'equilibrio» spiegò l'allenatore del gruppo del bordo vasca, spostandosi per lasciare che Matt esaminasse il giovane.

Il dottore si chinò.«Il braccio... il braccio... il braccio...» gemeva l'atleta con il viso pallido contratto

in una smorfia di dolore.Matt notò che effettivamente l'osso dell'avambraccio destro era spezzato: il radio.«Tranquillo, tranquillo, ci sono qua io, risolviamo subito. Solo il braccio ti fa

male?» domandò mentre proseguiva col controllo.«Il braccio... il braccio... il braccio...» ripeteva il giovane.«Ok, ok, ho capito. Ho visto il braccio, adesso lo sistemiamo. Ascoltami

attentamente: mi sapresti dire che giorno è oggi?».«Il braccio... il braccio... il braccio...». Il ragazzo si ostinava a non dire altro.Matt si vide confermare la propria diagnosi: trauma cranico. Cadendo, il ragazzo

aveva sbattuto la testa.«Ehi, ehi...» il medico guardò le persone intorno a sé per chiedere il nome

dell'infortunato.«Paul» gli sussurrò l'altro allenatore.«Ehi, Paul, apri gli occhi e guardami. Qui, Paul, me, guarda me».Il ragazzo eseguì.«Sapresti dirmi che giorno è oggi? Il mese... in che mese siamo?».«Braccio... novembre... non lo so... ho freddo...». Tornò a chiudere gli occhi.Matt sospirò: «No no no no, Paul, guardami, forza Paul, qui, me!».Il giovane si sforzò di aprire le palpebre.«Bravissimo, così. È solo il braccio a farti male? Solo il braccio? Brac-cio?». «Sì...» mormorò finalmente.Matt indicò un bastone lungo una cinquantina di centimetri abbandonato sul

pavimento poco più lontano. Non aveva la più pallida idea di che funzione ricoprisse; non gliene fregava nulla in quel momento. Chiese anche un asciugamano e legò come meglio poté l'avambraccio rotto. Sarebbe bastato fino al trasporto in ospedale, il tempo necessario per limitare i danni di quella frattura. Eh sì, il dottore aveva già iniziato ad intessere una fila di sospetti anche su quell'incidente. E questa non era solo paranoia. Era tristemente convinto che il radio non si sarebbe ricomposto, o almeno non tanto facilmente. Ma forse avevano ragione Eze e gli altri a ritenerlo pesante e non dargli troppo credito.

Mentre teneva fermo il braccio di Paul con la sinistra, con la destra si sfilò il cellulare di tasca e lo passò all'allenatore del bordo vasca: «Chiami il tre. Gli spieghi brevemente cos'è successo, dove siamo, e dica che Holland chiede un'ambulanza».

L'uomo obbedì con eccezionale rapidità.Matt stava inginocchiato accanto al ragazzo, tentando di alleviare il suo stato di

shock. Non era facile, il giovane era profondamente scosso.Non appena sentì il suono della sirena, il medico lo sollevò da terra non senza

fatica. I due allenatori lo aiutarono mentre gli altri ragazzi riprendevano i propri posti, pronti a ricominciare gli estenuanti allenamenti che un incidente non poteva interrompere.

«Voi andate, io vi raggiungo in macchina, è qua vicino» concluse Matt, dopo aver spiegato le condizioni del ragazzo alla coppia di soccorritori del Royal London Hospital che era appena arrivata.

L'ambulanza ripartì con una brusca manovra. Il medico rientrò nella struttura dalla porta secondaria. Non aveva bisogno di raggiungere davvero in fretta l'ospedale sapendo che i medici del pronto soccorso si sarebbero magistralmente occupati del giovane Paul.

Gli allenatori lo ringraziarono prima di riprendere i loro posti di comando; lui ribatté con il solito sorriso. Era il suo dovere, era vero, e ai due doveva bastare il sapere questo.

Tutto sommato, però, non aveva notato strani comportamenti, da parte di

nessuno. Questo equivaleva al non aver raggiunto alcun risultato.Rassegnato, incrociò le braccia sul petto e ridiscese negli spogliatoi per andare a

recuperare la borsa, puro accessorio di facciata, come ben sapeva dall'istante stesso in cui aveva pensato di prepararla. Se la caricò in spalla con aria sconfitta e fece per lasciare il corridoio.

"Magazzino". Il cartello sulla porta era eloquente, il da farsi ovvio. Matt si diede un'occhiata intorno: sembrava tutto tranquillo.

"Certo che se tieni lo zaino in spalla è difficile che ti credano se dici di esserti perso!" constatò. Abbandonò la borsa nello spazio dietro le scale e si diresse alla porta di legno chiaro che recava l'insegna. Nella sua vita non gli era mai accaduto di intrufolarsi in luoghi in cui non era il benvenuto. Ma non era certo un vampiro per avere bisogno di inviti! Ovviamente non aveva paura. Era soltanto pervaso da troppi sentimenti per poterli distinguere tra loro. Non la paura, non dopo tutto quello che aveva visto in Iraq. Avrebbero potuto sbatterlo in qualsiasi carcere e non se ne sarebbe preoccupato più di tanto; nulla era peggio della guerra. Ecco: l'unico svantaggio di venire scoperto sarebbe stato il non poter proseguire con le ricerche, non essere capace di salvare Chelsea e tutti quelli che, come lei, stavano rischiando.

Con estrema cautela, abbassò la maniglia di ferro della porta. Una stanza buia, normale, come tutti i magazzini, come tutti gli spazi ricavati nei sotterranei. Infilò la testa per controllare se ci fosse un interruttore accanto alla porta. Lo premette e una luce al neon illuminò oggetti di diverso tipo: decine e decine di scatoloni di cartone, attrezzi da palestra, sacchi di plastica dal contenuto non identificato, qualche mobile in disuso.

Fece alcuni passi verso l'interno del locale.Un magazzino! Dunque? Che ci faceva lì il professor Matthew Holland? Cosa

sperava di trovarci, la filiale segreta di Roswell con tanto di insediamento alieno, oppure il laboratorio di qualche scienziato in carriera che si divertiva a neutra lizzare

il sistema immunitario dei ragazzi? Era imbarazzato da se stesso. Ultimamente era diventato proprio un pollo!

Fece girare lo sguardo intorno alla stanza per qualche altro istante, quindi pensò di abbandonarla. Avrebbe mai potuto farlo? No, non in una situazione incasinata che si rispetti! E se prima si era domandato cosa avesse fatto per meritare tanta fortuna, ora doveva quanto meno riconoscere che la buona sorte si alternava ad un po' di sfiga, solo a tratti. Quello era esattamente il tratto di sfortuna.

Decise che le voci in cima alle scale — voci concitate di ragazzi che avevano probabilmente finito gli allenamenti — erano troppo vicine per permettergli di uscire da lì, recuperare lo zaino dal retro-scala e fingere di stare per andarsene. Ma forse non abbastanza per permettergli di richiudersi la porta alle spalle, spegnere la luce e aspettare. Fece esattamente questo anche se avrebbe preferito la prima alternativa.

Le voci erano sempre più vicine e Matt aspettava al buio. Che un uomo della sua età si mettesse a giocare a guardie e ladri era pazzesco! Ormai era troppo tardi per affrontare una discussione con il proprio orgoglio.

Le voci erano vicine, vicine, e ancora più vicine.Matt ebbe un fremito d'ira e sorpresa quando realizzò che probabilmente i

disturbatori si stavano dirigendo proprio verso il magazzino. Se non altro, l'esperienza dell'esercito gli aveva insegnato ad agire in fretta, a mente lucida e, soprattutto, nascondersi. Nascondersi. Quest'ultimo aspetto della sopravvivenza era chiaramente di grande importanza e il cervello lavorava in modo indipendente per cercare nascondigli anche prima che l'emergenza lo richiedesse. Così aveva agito quello di Matt. Aveva individuato un grosso scatolone dietro il quale rannicchiarsi persino piuttosto comodamente.

Il dottore lo raggiunse in pochi passi e vi si infilò dietro. Caspita! Non giocava a nascondino da trent'anni, era proprio necessario farlo in quel momento?

La porta si aprì con un cigolio. I nuovi entrati non erano certo stati delicati. Le voci di due o tre persone riempirono la stanza.

Matt, dalla sua posizione, non riusciva a scorgere nulla. Po teva solo sperare. Ancora una volta poteva solo sperare. Sentì il suono di qualcosa di pesante che veniva sbattuto a terra: attrezzi utili agli allenamenti, decise.

«Però è stupido che si sia rotto il braccio cadendo a terra! Un nuotatore...».«Lo so, è stupido, ma capita. Un mio compagno lo ha fatto alle elementari. Forse

non è poi così stupido e deve fare un male cane».Matt non poté vedere che il ragazzo annuiva. «E anche Chelsea...».«Sì, ma lei è stupida davvero. Geniale girare sempre con i capelli bagnati,

sempre, ovunque!».Il ragazzo annuì di nuovo, e questa volta Matt immaginò che l'avrebbe fatto pur

non ricevendone conferma.«Vabbè, andiamo!» concluse dopo qualche istante di riflessione.Matt si costrinse a non fare mosse sceme, come rilassarsi troppo presto. Sentì il

clic dell'interruttore, la maniglia che si abbassava e rialzava, la porta che tornava a cigolare per poi chiudersi. Attese un altro po' per sicurezza.

Si odiava, si odiava, si odiava a morte per quello che stava facendo. Che idiozia nascondersi nel magazzino della piscina... giurò a se stesso che non l'avrebbe mai e

poi mai raccontato a nessuno, nemmeno sotto forma di barzelletta.Dopo essersi insultato, decise che era il momento di uscire da quel buco. Compì

con sicurezza i pochi passi verso l'interruttore: intorno a lui tornò ad illuminarsi tutta la confusione del locale, a cui si aggiungevano gli attrezzi che i ragazzi avevano ammucchiato al centro senza particolare cura.

Lanciò un'occhiata di disgusto allo scatolone dietro cui si era nascosto; si rifiutò di cercare di capire cosa contenesse.

Era il momento giusto per uscire? Stette per qualche istante con l'orecchio teso, poi spense la luce ed aprì la porta. Poteva essere più cauto in quest'ultima manovra, ma non gliene importava più molto. Gli bastava uscire da quei sotterranei, il prima possibile.

Le porte dello spogliatoio dove Matt aveva lasciato lo zaino ora erano chiuse. Al di là di queste, un allegro chiasso rag giungeva le orecchie del medico. Per il resto nulla. Il corridoio era deserto, le scale altrettanto.

Matt si affrettò verso il retro delle scale a caccia della sua borsa. La prese e salì la rampa con aria indifferente. Non aveva nemmeno guardato quanto tempo aveva impiegato a giocare a nascondino con i ragazzi, quanti minuti della sua vita aveva sprecato in un'azione totalmente inutile. Non volle farlo. Passò davanti al banco della segretaria e la salutò con un rapido sorriso.

Lei ricambiò augurandogli buona giornata e quant'altro, ma lui era troppo lontano, già fuori dalla porta d'ingresso, per ricambiare.

Niente di concluso, da nessuna parte. E quella sera toccava anche andare a letto ad un'ora decente in vista dei due interventi — forse tre con quello di Chelsea — del giorno dopo.

Il medico si lasciò sfuggire una smorfia nel constatare il tutto.La porta dello studio di Matt si aprì senza che qualcuno avesse bussato.Il dottore era appena arrivato e stava sistemando un paio di cose prima di entrare

in sala operatoria. Si girò per vedere chi fosse entrato: Eze.«Ciao!» salutò Matt appoggiando un foglio che aveva in mano.«Tieni il tuo referto» ribatté l'altro. Sbatté sul tavolo una busta di formato grande,

sigillata.Matt ringraziò: finalmente l'autopsia di Luke.«Stai facendo altre ricerche strafighe, dottor House?». Il tono era chiaramente

tagliente, lo sguardo glaciale.Matt non si stupì troppo della sua ostilità. Da qualche tempo Eze non faceva

altro.«Sì, una molto interessante...» rispose con un sorriso. «Mi sto annotando

meticolosamente tutte le cazzate che i miei colleghi commettono all'interno di questa clinica ora per ora, specialmente gli anatomopatologi. Giuro che mi sto impegnando e non è affatto facile stare dietro a tutte...».

«Noto che sei altrettanto stronzo, oltre che psicologicamente labile». Matt allargò il sorriso sinceramente divertito: «Mi concedi cinque minuti per dare

un'occhiata al mio premio della caccia al tesoro? Poi se vuoi possiamo guardare assieme una puntata del mio modello d'ispirazione!» esclamò mentre agitava la busta.

Eze aprì la porta con un gesto nervoso e uscì senza aggiungere altro.Matt guardò l'orologio: aveva veramente solo cinque minuti prima di doversi

preparare per il primo intervento. Ruppe il sigillo della busta.Dentro, alcune pagine di annotazioni varie, infine il referto.Lo rilesse più volte: diceva che il paziente era deceduto per un'emorragia

intraventricolare. E fin qui nulla di nuovo.L'emorragia, però, non era particolarmente estesa, ciononostante Luke non aveva

reagito nel modo previsto né all'intervento neurologico né alle successive cure. Il problema era esattamente questo. Perché?

Anche il neurologo ne era sorpreso e non sapeva darsi una spiegazione, eppure Eze pareva trovare il tutto assolutamente normale. Non aveva svolto l'autopsia nel modo in cui Matt avrebbe sperato, si era limitato ad accertare le cose che tutti sospettavano. Del resto l'anatomopatologo era lui e non avrebbe tollerato — forse a ragione — che si intervenisse sul suo lavoro. Non da parte di un chirurgo generale dalla credibilità traballante in quel periodo, da un "fissato".

Il medico guardò di nuovo l'ora: bisognava andare in sala operatoria. Forse più tardi avrebbe avuto l'occasione di proseguire quella simpatica discussione con Eze, aggiungendo all'elenco delle "cazzate delle ultime ore" l'innovativo referto autoptico.

Era già tardo pomeriggio quando Matt rimise piede nel proprio studio. Aveva appena finito l'intervento di Chelsea: era stato estenuante. Era contento però di com'erano andate le cose. La ragazza non aveva reagito né troppo bene né troppo male, anzi, in verità non aveva avuto alcuna reazione. E questo se lo aspettava. Non si aspettava piuttosto che l'indebolita Chelsea riuscisse anche soltanto a reggere, a terminare l'ope razione. Era stato chiaro con i Daultry. Aveva spiegato che le alternative non erano molto incoraggianti: intervento ad alto rischio ma con qualche probabilità di successo oppure febbre, febbre alta, finché Chelsea non l'avrebbe più retta.

Loro, pur esitanti, avevano acconsentito. Avevano una buona filosofia: meglio agire se un barlume di speranza c'era.

Ora si trattava di aspettare e vedere come la giovane nuotatrice avrebbe passato la notte. E Matt non avrebbe potuto stare lì a sonnecchiare sulla sedia perché aveva altri due interventi fissati per il giorno successivo.

Con un leggero senso di colpa, si sfilò il camice, prese la borsa e uscì. Un'ultima occhiata a Chelsea, poi... casa.

No, Brighton! E, com'era vero che lui si chiamava Matthew Holland, così il fatto che quella sera ci sarebbe andato. Era stanco di pensare sempre e solo all'ospedale e ai casini che il lavoro portava con sé. Doveva e voleva dedicarsi per un po' all'unica cosa cara che ormai gli era rimasta, alla persona più bella del mondo.

Un attimo di esitazione quando constatò che se Chelsea avesse avuto bisogno lui non sarebbe stato tanto vicino per raggiungerla immediatamente. Poi pensò a due fattori incoraggianti: il primo era che Jack era ritornato reperibile da quel pomeriggio e per qualsiasi cosa avrebbe potuto essere presente, il secondo che anche lui avrebbe potuto correre in caso di necessità: sarebbe rimasto attaccato a cellulare e cercapersone.

Ed eccolo di nuovo sulla A23 insieme a Bob. La dose di morfina della sera

precedente ancora nelle vene, il mal di testa lontano per qualche altra ora.I Beatles cantavano She loves you, l'aria era calda, Brighton sempre più vicina.Quando aveva chiamato a casa Richards per invitarsi a cena, Michelle aveva

risposto: «Stai bene, Matt? C'è qualcosa che non va?».In effetti non gli capitava spesso di andare fuori giusto per il gusto di farlo,

nemmeno a casa del cugino e migliore amico Keith. Non ricordava più l'ultima volta in cui aveva immediatamente risposto di sì ad un invito, figurarsi un autoinvi to. Ma il motivo era assolutamente valido, benché nessuno lo sospettasse.

Svoltò nel vialetto della casa rossa degli amici. Ad accoglierlo, questa volta, proprio la persona che lo aveva portato fin lì: Danielle. Ne fu felice.

E felice era stata anche lei quando aveva saputo della visita. Comunque aveva evitato di manifestarlo apertamente. Quando voleva, era brava a nascondere quello che pensava e ritenne che quella fosse l'occasione buona per farlo dopo quanto le aveva detto Federico alla spiaggia qualche sera prima. Era vero, lei non lo conosceva.

La giovane sorrideva, avvolta nella t-shirt dei Beatles con cui aveva lasciato villa Castaldo.

«Bella anche quella!» fu la prima cosa che Matt disse mentre indicava la maglia con l'immagine dei Fab Four. Chissà chi l'aveva educata alla buona musica... non l'amante del pop commerciale Roberta, tanto meno Gabriele, che probabilmente non aveva la più pallida idea di cosa fosse la musica. Concluse che evidentemente era stata una brillante autodidatta.

«Lo so! Federico non l'ha comprata a Liverpool, ma forse lo farà la prossima volta...». Entrambi sorrisero. «È un piacere rivedervi!».

«Lo sappiamo! Vero Bob?». L'uomo richiuse lo sportello anteriore.Michelle era qualche passo più indietro rispetto a Danielle, sorridente anche lei.«Ti è mai capitato di dormire negli ultimi dieci anni, Matt? No, così, per caso

intendo!» esordì. Lo vide sfinito, teso, preoccupato. Ancora peggio di venerdì sera.«Mah, considerato che mi danno un buono stipendio, tanto vale meritarselo, no?»

ribatté lui mentre apriva la portiera a Bob.La donna scrollò le spalle: «Potrei quasi darti ragione se non avessi un aspetto da

zombie...».«Carina... vabbè, tanto stasera devo fare il bravo bambino perché domani opero».La donna annuì con una sorta di scetticismo sul volto. Non ce l'avrebbe mai fatta

a dormire con un ritmo regolare! Frattanto Bob era già impegnatissimo a giocare con Federico. Il ragazzo adorava

il cane, un po' meno il padrone. Certo, non che lo conoscesse realmente, ma non apprezzava troppo quell'aria da martire, qualche atteggiamento indiscutibilmente affascinante e l'espansività nei confronti di Danielle. Sì, vabbè, era in qualche misura geloso, lo ammetteva con se stesso benché gli costasse fatica. Sapeva benissimo quanto Danielle fosse in gamba, sapeva anche che era stupido essere gelosi di quell'uomo che per età e tutto il resto avrebbe potuto essere suo padre. Eppure lo era, inspiegabilmente, ma lo era. Lo era perché si rendeva conto di quell'irragionevole legame di sintonia che correva fra i due, lo era perché non capiva cosa questo legame fosse; lo era anche perché lui, che conosceva Danielle da anni, aveva spesso

l'impressione di non capirla — soprattutto nell'ultimo periodo — mentre questo uomo sconosciuto aveva subito trovato le corde giuste per farla sorridere, sentire a proprio agio. Insensato, inspiegabile!

«Chi cavolo è quel tuo padrone? Perché si comporta così?» sussurrò Federico a Bob, dopo essersi assicurato che i tre allegri chiacchieranti fossero ancora sul vialetto d'ingresso e Keith all'angolo opposto del giardino a tagliare erbacce.

Il cane guaì debolmente.Non si sentiva affatto stupido a parlare con il labrador, lo faceva sempre anche

con Bex. E non si vergognava nemmeno di fargli domande, pur conscio che le risposte non sarebbero ovviamente mai arrivate.

I tre si spostarono verso il retro della casa. Matt andò a sedersi sull'erba proprio accanto a lui e Bob, invece Michelle e Danielle entrarono a controllare la cena. Federico era imbarazzato. Doveva essere spontaneo, spon-ta-ne-o. Era infantile crearsi dei pregiudizi nei confronti delle persone, non l'avrebbe fatto. Salutare... ci riuscì con, tutto sommato, abbastanza garbo. E ora? Silenzio imbarazzante?

Matt non si accorse della leggera antipatia del ragazzo. A lui era simpatico — se era simpatico a sua figlia... — e comunque il problema non l'aveva sfiorato. Era impegnato a pensare a qualcos'altro, allo straordinario motivo per cui era lì. E lui era il ragazzo dello "straordinario motivo", quindi era fuori discussione non sopportarlo.

«Sei stato tu a educare Danielle alla buona musica?» chiese dopo pochi istanti l'uomo con aria casuale. Guardando quel ragazzo, così giovane e appassionato com'era stato — e forse era ancora — lui stesso, aveva trovato la risposta alla domanda che si era inconsapevolmente posto nel vedere la maglia dei Beatles. Il ragazzo annuì senza particolare entusiasmo. Matt iniziò ad accarezzare Bob mentre aspettava che parlasse.

Federico non lo fece, non aveva intenzione di farlo. Poi alzò lo sguardo sull'interlocutore, deciso a reprimere il sentimento che, pochi istanti prima, aveva classificato come infantile. «Non dico che ascoltasse Britney Spears, ma ci andava vicino!» esclamò infine.

Entrambi risero divertiti. Forse era stupido pregiudicare così male lo strano medico...

Danielle uscì con un bicchiere di vetro in mano. Abbracciò con lo sguardo il trio sul prato. Federico era magnifico, come sempre. Li raggiunse con poche, ampie falcate. Bob era l'animale più bello che avesse mai visto, il suo padrone conservava un fascino misterioso.

«E l'aranciata agli amici non si offre?». Matt sorrideva ancora nel chiederlo; indicava il bicchiere di vetro azzurro che Danielle stringeva nella mano destra.

La ragazza scoppiò in una risata fragorosa: «No... non ci credo... un medico del magnifico Royal London Hospital che non ha mai visto dei multivitaminici...».

Anche Matt ora rideva di gusto. Gran barzelletta, nulla da eccepire! Beh, la bevanda aveva un bel color arancione e lui preferiva di gran lunga sapere che la gente si imbottiva di aranciata piuttosto che di multivitaminici con il placebo come unico effetto.

«Posso?» domandò infine allungando una mano verso il bicchiere.

La ragazza scosse la testa e si scolò il contenuto. Dopo due minuti era lì di ritorno con un tubetto bianco e arancione nella sinistra, un bicchiere d'acqua e un cucchiaio nella destra. Li porse al medico mentre si inginocchiava sull'erba.

Matt prese il tubetto lasciando a Danielle il bicchiere. Se lo rigirò tra le mani:

«Mhm... e dice qualcosa di particolare? Non me la cavo con l'italiano e questi cretini...».

«Pastiglie effervescenti al gusto arancia, venti compresse, e blah blah blah... non credo ci sia qualcosa di interessante per un chirurgo».

L'uomo assentì: «Mhm...». Poi ebbe un leggero sussulto: che bisogno aveva sua figlia di prendere quella roba? Aveva per caso dei problemi?

«E tu perché prendi questa roba? Ti piacciono le bevande frizzanti al gusto arancia?».

Lei sorrise: «Le prendeva sempre anche la mamma». Fu assalita da un'improvvisa tristezza che, però, seppe dominare. «Ormai è una sorta di abitudine». In effetti lo era. Danielle le prendeva ogni sera, prima di cena, e quello in un certo senso suggellava la promessa di un contatto giornaliero ed eterno con quella madre che l'aveva abbandonata troppo presto. Prima di cena... sì, allora, perché quello, quando la mamma era viva, era il momento usuale. Ricordava che da piccola osservava con infinita meraviglia la "caramella" che si tuffava in acqua e diventava una buonissima bevanda con le bollicine. All'epoca la adorava e continuava ad amarla. Per la verità, fino a quella sera il gesto era stato automatico, ma nel preciso istante in cui ripensava a sé, piccola, davanti ad un bicchiere con le bollicine, si chiese che senso avesse tutto ciò. Buona... e poi? Probabilmente il corpo non ne aveva bisogno e di sicuro non serviva a riportare in vita Roberta. Nonostante tutto, decise che avrebbe continuato a compiere quotidianamente quel gesto.

Anche Matt pensava, ma rimuginava su più cose contemporaneamente. Tra queste, però, Roberta occupava un buon posto centrale. Multivitaminici lei? Ma se quando l'aveva conosciuta era una super anticonformista, quella salutista, ambientalista, pacifista, quella che odiava tutto il giro d'affari delle case farmaceutiche eccetera, eccetera, eccetera!... Era pur vero che quell'apparente idealista incallita aveva sposato un viscido imprenditore! Tutto così strano...

«E perché tua madre aveva bisogno di imbottirsi di queste cose, scusa?» sussurrò con gli occhi fissi sul contenitore.

Dall'altra parte ci fu un silenzio teso. Matt lo percepì e si affrettò ad alzare gli occhi: «Scusami, non sono fatti miei, hai ragione. Era solo interesse medico, fa' finta che non te l'abbia chiesto». Che idiota che era stato a fare una domanda così personale! E adesso ci mancava che uscisse con la sparata: "No, scusa tanto, è perché io sono tuo padre, sai? Per questo mi preoccupo! Bella sorpresina, vero?».

Danielle accolse con piacere l'opzione di non rispondere. No, quello era un segreto fra lei e sua madre e non l'avrebbe svelato a nessuno. All'inizio non lo sapeva nemmeno suo padre. Quell'uomo mezzo sconosciuto non aveva diritto di entrare nei fatti suoi. Non avrebbe tradito la mamma!

«E, in ogni caso, questa cosa può avere anche un effetto benefico sugli sportivi, no?» domandò Matt fra i denti. Esaminava il tubetto da ogni angolazione, in ogni centimetro quadrato, poi di nuovo, sopra, sotto, tappo...

«Beh, suppongo di sì, anche se il medico sei tu e se non lo sai tu...». Sia lei che Federico lo fissavano incuriositi.

Lui non li guardava. Una pista si stava formando nella sua mente, una pista da seguire con urgenza. Era certo che l'avrebbe portato da qualche parte.

«Mi regali il tubetto?» chiese alla ragazza mentre continuava a fissare le scritte, i colori, le pastiglie all'interno.

«Sì, se me ne regali una decina a Natale...».«Mmm... questo non posso prometterlo, ma in compenso posso farti arrivare a

casa una cassa formato maxi piena zeppa di aranciata».Tutti e tre scoppiarono a ridere divertiti. Bob scodinzolava allegramente.D'un tratto, Matt si alzò di scatto e, infilandosi il contenitore nella tasca dei jeans,

si diresse verso la casa. Due paia di occhi straniti erano puntati verso di lui.Dentro, Michelle stava apparecchiando in cucina, dalla quale proveniva uno

squisito profumo di... Matt non lo seppe dire. Troppo poco importante per sprecare neuroni!

In corridoio incontrò Keith che usciva dal bagno. Gli chiese il permesso di fare un paio di telefonate e, un minuto dopo, era seduto sul divano, intento a comporre un numero sul cordless bianco panna dei Richards.

La prima chiamata era destinata all'ospedale. Voleva chiedere di Chelsea, preoccupato che le sue condizioni potessero non essere più stazionarie. Lo erano. Glielo confermò un'infermiera, Adrienne, una delle più in gamba, una che lavorava al Royal London Hospital da prima che lui si sognasse di diventare medico: trent'anni. Si fidò. Si poteva fidare di lei, completamente, in pratica.

La seconda telefonata era a casa di Paul Brett, il ragazzo del braccio rotto. Adrienne gli aveva fornito il numero. Lo compose. Non lo faceva soltanto per una curiosità, nella speranza che il ragazzo gli potesse fornire indicazioni utili per proseguire nella ricerca "alla Dr House", come l'aveva definita il collega Eze. O forse sì. In ogni caso, gli interessava sapere come stava il giovane, come procedeva lo sfortunato braccio, come se la stava cavando psicologicamente un altro atleta dai sogni olimpici andati in frantumi. Non doveva essere facile. Forse ci si sentiva svuotati, com'era accaduto a lui quando si era arruolato, o forse Matt Holland stava vivendo un periodo di particolare sensibilità, troppa.

Il telefono squillò a vuoto per parecchio prima che una voce annoiata dicesse: «Pronto...».

Matt sperò vivamente si trattasse di Paul.«Paul Brett?» azzardò.«Mhm...» assentì l'altro. Sì, gli effetti psicologici c'erano tutti, purtroppo.

Peccato...«Io sono Matthew Holland, Matt. Ci siamo visti ieri in piscina, quando ti sei rotto

il braccio».«Mhm... il medico?». L'entusiasmo continuava ad essere sotto i tacchi.«Mhm...» confermò Matt adottando il linguaggio del ragazzo. «Volevo chiederti

come stai e se è andato tutto bene ieri al pronto soccorso».«Fa ancora un male fottuto».Non ne aveva dubbi.

«Ma dicono che guarirà presto».Su questo già di più. Non era certo che la frattura si sarebbe ricomposta nel giro

di qualche settimana, come sarebbe stato normale.«E il resto, tutto bene?».Il ragazzo grugnì un sì. Poi, dopo un sospiro, concluse: «Salterò le olimpiadi.

Cosa vuole che sia? Cosa può fregare di noi a voi medici? Vi basta imbottirci delle vostre cavolate e tanti saluti a casa».

Matt non rispose subito. Non sapeva cosa dire. Era poco lucido e troppo stanco per consolare un paziente incazzato. Paul aveva tutte le buone ragioni per esserlo, era anche legittimo che si sfogasse con il primo capitato, ma Matt non aveva alcuna voglia di essere confortante. Meglio essere duri. Forse sarebbe riuscito a smuovere quel ragazzo apatico, seppur pieno di ragioni di esserlo.

«Cosa vuoi dire, che c'è chi ti ha curato il braccio e allora ti avrebbe imbottito delle "sue cavolate" per il gusto di farlo? Strano modo di concepire l'aiuto, il servizio ai cittadini, al tuo braccio! È colpa mia se sei caduto a terra come un sacco?».

No, così no! Era stato troppo brusco! Ormai però era fatta. Aspettò leggermente angosciato l'effetto delle proprie parole.

Ora fu il ragazzo a fare una pausa. «Non intendevo questo... intendevo che... ho avuto un calo di energie e sono caduto. Avevo bisogno dell'integratore, mi ero dimenticato di prenderlo... e poi, poof!, giù come un salame».

Matt aveva la bocca semiaperta. Cosa significava tutto ciò, che aveva ragione, che aveva sempre avuto ragione? Ok, sempre forse no, ma a proposito dei multivitaminici, integratori, eccetera sì, aveva ragione. Molta ragione! Fissò lo sguardo sul parquet chiaro del salotto dei Richards. Gli integratori... ma che integratori? Com'era possibile che avessero un effetto così devastante? Bisognava fare immediatamente qualcosa.

«Forse non siamo partiti con il piede giusto, Paul. Mi dispiace. Comunque se hai bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa, ti lascio il mio numero».

Il ragazzo cominciava ad essere meno arrabbiato, con se stesso e il mondo. Apprezzò la telefonata e, seppur con titubanza, riuscì anche a ringraziare.

Matt interruppe la comunicazione e si alzò in piedi. Il resto della compagnia — Bob in coda — stava rientrando in casa mentre lui

usciva.«Amici, chiamatemi House, Dr. House...».I quattro scoppiarono a ridere.«Non avevi sempre detto che è un cretino, misantropo, esibizionista, il modo più

semplice per rovinare l'immagine del medico?» puntualizzò Keith.«Evidentemente mi sbagliavo! Questa mattina mi hanno detto che sono stronzo e

psicolabile quanto lui... forse sarò altrettanto intuitivo! Devo tornare a Londra».I quattro lo guardarono con sentimenti differenti: dalla preoccupazione alla

curiosità, dalla confusione alla disapprovazione. Lui, per tutta risposta, si chinò e fece cenno a Bob di seguirlo.

«E la mia pasta al pesto?» domandò Danielle trattenendo il labrador.«La prossima vo...» ma la ragazza scosse la testa con tanto vigore che Matt non

poté fare a meno di tacere. Si rialzò per fissarla negli occhi: inutile discutere.

Constatò con gioia che, almeno da un punto di vista caratteriale, a quanto pareva sua figlia era molto più simile a lui che alla madre.

"Ecco cos'era il profumo di prima!" si disse nel rientrare in cucina con gli altri.La pasta al pesto era eccezionale, i cuochi — Danielle e Federico — impeccabili.

Alla sua collaboratrice sarebbe certamente servito un giretto in Italia, forse gliel'avrebbe regalato a Natale, a patto che imparasse davvero qualcosa. Matt si gustò le penne, ingoiate troppo in fretta in realtà per essere assaporate fino in fondo. Ma non era il caso di pensare troppo allo squisito piatto, non quella sera.

«Londra chiama, diceva il mitico Joe!» esclamò mentre tirava indietro la sedia, pronto a partire per la missione impossibile che ora, forse, non era tanto impossibile.

E Joe Strummer cantava davvero London calling mentre la Golf procedeva sulla strada nazionale. Erano le nove e un quarto, la piscina distava ancora una decina di minuti. Matt si era stupito di sé nel constatare che si ricordava l'orario di apertura del centro: dalle otto di mattina a mezzanotte. Gran bella cosa i siti internet con tutte le informazioni...

Più che parcheggiare veramente, il medico abbandonò l'auto accanto al vialetto

d'ingresso del condominio e corse su in casa con Bob. Sarebbe restato nell'appartamento giusto il tempo di mettersi qualcosa di meglio rispetto ai vecchi jeans e alla t-shirt grigio sbiadito che indossava; la borsa era rimasta nel bagagliaio della macchina dal giorno precedente, non serviva preparare altro.

Questa volta niente passeggiata. Matt si piazzò nel parcheggio più vicino che potesse trovare, distante comunque dieci minuti a piedi. Camminare un po' sarebbe stato piacevole normalmente, ma non con l'ansia di quella situazione. Non era abituato a mentire, non a ficcare il naso negli affari altrui a meno che non gli venisse chiesto, non a rubare. Beh, avrebbe dovuto fare tutto questo. Niente rimorsi, credeva fermamente nell'obiettivo che l'aveva portato a dover affrontare il tutto. Camminava, indifferente, tra altrettanto indifferenti passanti. Aveva la testa talmente piena da non sentire la cefalea, o forse era stata la cefalea stessa a non farsi più sentire, stanca di non riuscire a trovare un posto fra i pensieri del medico. Eh, sarebbe stato bello! Eppure lui avrebbe scommesso di tutto sul fatto che si trattava soltanto di un breve, brevissimo periodo di tregua. Tra le migliaia di controindicazioni, la morfina doveva pure avere qualche effetto benefico!

Il centro era ancora illuminato e relativamente affollato. Al bancone la segretaria del giorno precedente.

"Mi stimo!" si urlò Matt nella testa. Sperava davvero ci fosse lei. Era più o meno certo di come sarebbe andata se fosse stato bravo. Impegno! Altamente immorale, addirittura odioso. Necessario! Povera donna... era un peccato illuderla. Magari era anche fidanzata o sposata... pessimo! Ma era decisamente peggio il deludere — e soprattutto far ammalare o morire — dei ragazzi giovanissimi. Non c'era alternativa o, per lo meno, a lui non ne venivano in mente.

"E... che sarà mai far sognare un po' una donna?" si disse mentre procedeva verso il bancone.

Lei era piegata su una cassettiera, intenta a sistemare una cartelletta. Sentì la porta aprirsi, ma non alzò subito gli occhi per vedere il nuovo entrato. Era decisamente stufa di moccio setti capricciosi e piagnucolanti, andati lì solo per fare

felici i genitori. Ed era pure stufa di quei genitori troppo pazienti, tanto teneri da far cariare i denti. Era stufa delle ragazzine messe tutte in tiro, dei giovani macho che credevano di far miracoli in piscina, e degli anziani che volevano farsi una nuotata per i problemi di artrite e affini. Era stufa di tutto, odiava il mondo intero. E adesso un altro volto raggiante da sfoggiare, un altro biglietto da preparare...

Matt si piazzò davanti al bancone, le braccia incrociate, il sorriso più bello che potesse sfoggiare. Ed in effetti era bello, fisico statuario, sguardo magnetico, sorriso smagliante. Nella sua vita non aveva mai usato quella tattica con troppa intenzione, tuttavia in quel momento puntava tutto sull'aspetto fisico.

La donna tirò finalmente su la testa. Aveva l'aria stanca. Lo guardò e fu costretta a dominare una tempesta interiore. Era di nuovo lì? Sì, era di nuovo lì! Proprio lui! Aveva pensato molto a lui, tutto il pomeriggio della domenica e... beh, sì, anche l'intero lunedì. E adesso era di nuovo lì. Ma questa volta si doveva svegliare! No, no, non poteva fare la tonta come sempre! Si sistemò la camicetta con un gesto innaturale. Era felice di essersene messa una semitrasparente.

«Buona... sera!» esclamò con un sorriso esagerato.Matt, sollevato, annotò tutto mentalmente. A quanto pareva, non era cambiato

nulla dal giorno precedente, gli ormoni erano sempre in circolo a dosi massicce. Ottimo, sarebbe stato molto più facile così. Si protese verso il bancone per appoggiarsi con i gomiti: «Buonasera a te! È più tranquillo di ieri il tutto?».

La donna tossicchiò: «Oh... certo... se vuoi farti una bella nuotata... beh, è il momento migliore della giornata. In realtà c'è un po' di gente in giro, ma tra poco vanno tutti via, quindi...».

«Sono un tipo paziente» ribatté lui con un sorriso allusivo.Lei annuì.«Ne ho proprio bisogno oggi! Un po' di nuoto...». La inchiodò con i suoi profondi

e magnetici occhi azzurro chiaro.Lei subì in pieno il colpo. «Ho avuto una giornata difficile al lavoro» proseguì Matt con aria casuale. «E

non ho nemmeno cenato».Lei ebbe un sussulto. Oddio, l'avrebbe invitata a cena? No, quella sera no, doveva

lavorare fino a mezzanotte!«Magari posso farti un po' di compagnia mentre la maggior parte della gente se

ne va... sempre che ti faccia piacere...».Lei annuì con decisione. Ormai non stava più capendo niente, era estasiata.

Quanto tempo era passato prima che un uomo la trattasse così? Almeno un paio d'anni! Oh... era magnifico, si era quasi dimenticata quella sensazione...

Lui, dal canto suo, rifletteva con entusiasmo sulla prossima mossa da fare. Straordinario, lì, immobile, appoggiato allo stipite della porta accanto al bancone con le mani in tasca. Continuava a sorridere. Ora bisognava attaccare discorso in modo naturale, il più naturale possibile, cosa non troppo difficile per un medico abituato a conversare quotidianamente con pazienti e parenti nelle situazioni più strane. Così cominciò a domandare se la giornata fosse andata bene, se il lavoro fosse pesante, eccetera, eccetera, eccetera. Le risposte erano generalmente quasi monosillabiche. Eccellenti! E anche imbarazzanti, oltre al fatto che provocavano una gran buona dose

di sensi di colpa.Poi, quasi d'improvviso, il centro cominciò a svuotarsi. Erano le dieci e mezzo e

la gente abbandonava in massa la piscina. Solo quattro persone sguazzavano ancora tranquillamente nell'acqua, per nulla intenzionate ad andarsene. Meglio avere compagnia...

«Adesso magari scendo» concluse Matt dopo aver dato un'occhiata alla vasca.La donna annuì per l'ennesima volta.«Senti, non è che mi faresti un piacere?».Lei si drizzò sulla sedia: certamente glielo avrebbe fatto, qualunque cosa fosse!«Credo di avere un gran bisogno di quegli integratori che tenete qui, quelli...».Lei sussultò. Quello era un po' grande come favore! E se l'avessero scoperta? Oh,

beh, l'avrebbero licenziata. Poco male, visto che la pagavano pure miseramente. Ma forse conveniva essere più professionale, o almeno provarci. Forse quella era una prova.

«Mmm... quelli, di solito, li danno i medici agli atleti, e io...».«Ma io sono un medico! Vuoi che non me la sappia cavare con i principi di

quelle cosette?». Fece un gesto con la mano destra per sottolineare le parole. «Li ho già presi, comuni integratori...».

«Ok, ok!» lo interruppe la donna sorridendo. Scattò in piedi e lo oltrepassò per correre giù per le scale, dritto in magazzino, ipotizzò Matt. E dopo pochi minuti era di nuovo lì, accanto a lui, con una bottiglietta da duecentocinquanta millilitri contenente un liquido arancione.

"Anche questo al gusto arancia... originali!" constatò l'uomo. Afferrò la bottiglia con uno splendido sorriso e strinse con delicatezza l'avambraccio della donna per ringraziarla. Quello era il massimo che doveva permettersi di fare, non poteva e non voleva arrivare a livelli da lurido verme.

Lei ricambiò il sorriso con uno altrettanto raggiante. Ormai era persa, completamente, più che mai. Aveva smesso di ragionare già da un pezzo. Stette immobile, in piedi, a guardarlo scendere le scale che conducevano agli spogliatoi. Sospirò, felice.

Lui appoggiò lo zaino nello stesso angolo del pomeriggio precedente, con l'unica differenza che questa volta gli sarebbe toccato cambiarsi e fare una buona oretta di nuoto se non voleva destare sospetti. Beh, certo, faceva sempre bene, ma lui detestava l'acqua zeppa di cloro delle piscine.

"Lavoro!" si disse. E in realtà era ben più che semplice lavoro; era una sorta di sfida personale, una battaglia con se stesso e contro quello che stava succedendo in quello squallido luogo, una battaglia da vincere, ovviamente.

Uscì dalla stanza in costume da bagno, non lo metteva da anni. La bottiglia dell'integratore era assicurata nel fondo dello zaino. Naturalmente non ne avrebbe mai bevuto nemmeno una goccia. E forse avrebbe fatto male perché aveva i muscoli a pezzi a forza di dormire poco, muoversi poco, pensare troppo.

Si tuffò in acqua: odioso! Il potente odore di cloro gli perforava le narici, lasciandolo disgustato. Iniziò a nuotare len tamente, ripensando a tutti gli atleti che aveva visto il giorno prima: lo facevano con una passione straordinaria. Certo, magari ne avrebbero messa molto meno nell'esaminare una risonanza magnetica o

maneggiare un bisturi, ma per il nuoto erano disposti a sacrificarsi, soffrire, e probabilmente farsi ammazzare. Non lo poteva capire, non ci avrebbe mai nemmeno provato.

Ma il peggio era che quel nuoto li stava davvero ammazzando: ne aveva già ucciso uno e feriti altri due, di cui una non era ancora certo che ce l'avrebbe fatta. Non sapeva ancora precisamente di cosa si trattasse, ma avrebbe fatto di tutto, di tutto per scoprirlo.

Continuò a nuotare con calma nell'enorme vasca, in compagnia degli altri utenti sparsi qua e là nell'acqua. Ognuno per i fatti suoi, ognuno immerso nei propri pensieri; il silenzio era interrotto soltanto dal movimento dell'acqua. Non si soffermò troppo a lungo sul ragazzo giovane che gli stava accanto, non sulle due donne di mezza età che nuotavano agli angoli opposti della piscina, e neppure sulla bella ragazza sulla ventina che stava risalendo la scaletta per uscire.

Dal nulla gli ritornarono alla mente alcuni ricordi casuali, episodi di molti anni addietro. Come quella volta, durante la prima settimana di addestramento, in cui aveva perso le scarpe da ginnastica — tanto nuove quanto costose — che Jane gli aveva regalato prima di partire. Si era lamentato, come un moccioso, con un suo compagno alla base da qualche settimana. Si era sentito dare dello stupido con veemenza, il che lo aveva ferito nell'orgoglio. Ma ben presto avrebbe imparato le regole del gioco: tutto si può perdere, tutto si può recuperare. Lo avrebbe imparato a proprie spese, dopo che gli avevano rubato anche la giacca. Aveva toccato il fondo. Si era sentito talmente tonto da abbandonare all'istante qualsiasi recesso di autostima eccessiva. Però era altrettanto incazzato e l'intraprendenza non gli mancava; nei due giorni successivi aveva riconquistato scarpe, giacca, un paio di jeans — che peraltro gli andavano larghi — e qualche oggetto di minor valore. Se si trattava di una lotta per la sopravvivenza, beh, l'avrebbe combattuta strenuamente.

Gli tornò alla memoria l'infinita distesa di fuoco, quell'oceano di luce che era

sicurissimo di non riuscire a superare, non da vivo. I polmoni in fiamme, la testa pulsava, l'ossigeno si faceva ad ogni respiro più prezioso. Premeva la manica della tuta davanti alla bocca per tentare — disperatamente e senza nessun risultato — di filtrare l'aria dal densissimo fumo che la impregnava. Provava a non respirare del tutto, almeno per un minuto: si sentiva scoppiare. Si abbandonò sulla cassa di ferro su cui era seduto e attese, attese qualcosa, qualsiasi cosa, che probabilmente si chiamava Morte. Poi più nulla, il buio totale. E non ebbe nemmeno il tempo di pensare "Eccola!" perché crollò all'improvviso su se stesso. Così pure molti compagni, uno ad uno, fino all'arrivo dei soccorsi, che nessuno di loro vide. Non morì nessuno, ma erano tutti in condizioni pessime, tutti attaccati al respiratore per qualche giorno. Matt fu uno dei primi a recuperare; lo rispedirono immediatamente in campo, dicevano che il nemico era sempre in agguato.

Volò ancor più lontano nel tempo. E gli tornarono in mente anche ricordi più piacevoli, come le estati a Londra dagli zii, quando lui e Keith erano ancora bambini. Gli tornò in mente tutta la banda, una quindicina di ragazzini, tutti agli ordini di Keith, Larry e, soprattutto, suoi. I tempi in cui gli amici inglesi lo prendevano in giro per il suo accento americano erano presto passati, subito lui e il suo carattere testardo e ribelle avevano suscitato un fascino notevole tra gli altri bambini. La banda aveva

conquistato le strade del quartiere, anche i "punti strategici" dei quartieri vicini erano loro. Non erano una banda di bulli, nessuno di loro lo avrebbe mai apprezzato; erano solo ragazzini che facevano finta di essere duri e ingaggiavano lotte per lo più strategiche con i bambini del vicinato. Niente combattimenti corpo a corpo, piuttosto scarpe riempite di dentifricio.

Matt sorrise a quest'ultimo ricordo. Quelle estati dagli zii erano state il periodo più felice di tutta la sua vita. Sperò con tutto se stesso che Danielle ne avesse avuto di altrettanto belli. Non poté dunque fare a meno di tornare alla realtà. Non aveva la più pallida idea di quanto tempo fosse passato da quando era entrato in acqua. Si diede una rapida occhiata intorno e notò che nella vasca rimaneva soltanto il ragazzo. Doveva essere molto tardi. Finalmente trovò un grande orologio appeso alla parete alla sua sinistra: undici e mezzo. Si era fermato anche troppo.

Si passò una mano tra i capelli bagnati mentre, zaino con contenuto preziosissimo in spalla, risaliva la scala per riguadagnare l'uscita dal centro. Sapeva cosa l'attendeva al bancone, e infatti lei era lì, gli occhi colmi di speranza. Non poté fare a meno di maledirsi per quello che aveva combinato. E non poté fare a meno di maledirsi per i continui ed eccessivi sensi di colpa. La salutò senza particolare enfasi — non voleva continuare ad illuderla — e quando lei gli chiese: «Ripassi prima o poi?» rispose con una scrollata di spalle e un sorriso. Non poteva dare di più, non gli interessava avere compagnia, specialmente in quel periodo.

Raggiunse in pochi minuti la Golf metalizzata. Nel momento in cui apriva la portiera, si ricordò della telefonata che aveva ricevuto il giorno precedente e a cui non aveva risposto.

"Larry!" pensò allarmato. Sapeva bene che Larry poteva avere bisogno di lui in qualsiasi istante e lui doveva essere pronto, sempre e comunque. La cosa più urgente da fare era richiamare, immediatamente.

Il telefono squillò a vuoto per qualche momento; Matt si rese conto troppo tardi dell'ora probabilmente indecente. Ma infine una voce chiara e calma rispose.

«Ehi, vecchio acido, sono io!».«Ha parlato lo zuccherino della West Coast...» replicò l'amico all'altro capo

sopprimendo, con divertimento, uno sbadiglio.«Come stai? Hai preso il nuovo libro?».«No, sai che è da un po' che non vado in biblioteca. Comunque è tutto a posto.

Tu?».Matt impiegò qualche istante prima di ribattere. E se si fosse fatto aiutare da

Larry in tutto quel casino? Ma certo! Perché non ci aveva pensato subito?«Sì, dai, anch'io tutto a posto, a parte il souvenir iracheno... comunque se vuoi ho

io un libro. Me l'ha regalato un paziente, sembra interessante...». L'altro pensò per qualche istante. Decise che non sapeva cosa rispondere.«Ce l'ho qua. Te lo porto?».«Adesso?» domandò l'altro tra lo scandalizzato e il preoccupato.Matt annuì.«D'accordo, così ci facciamo due chiacchiere. Giusto ieri ho preso un vino

italiano eccezionale».Il medico sorrise soddisfatto. Si rimise il telefono in tasca e svoltò verso la strada

principale: Teignmouth.Alle tre circa si fermò davanti ad una palazzina grigia di tre piani. Non era

stanco, comunque un caffè forte gli avrebbe fatto un gran bene. O ancor meglio il buon vino di Larry. In quanto agli interventi... avrebbe chiesto a Jack di sostituirlo, dato che l'amico primario, ne era certo, non avrebbe dovuto farne altri. Gran bella cosa la memoria fotografica! Si sarebbe preso un giorno di malattia, non lo faceva da... non ricordava quanto, o forse non l'aveva mai fatto.

Infilò la macchina in uno stretto spazio fra altre due, il solo disponibile, i centimetri appena giusti per non toccare gli specchietti. Una folata gelida lo fece rabbrividire quando scese, la t-shirt nera assolutamente troppo leggera per il clima notturno del Devon, per non parlare dei pantaloncini corti finalizzati soltanto a catalizzare l'attenzione della segretaria della piscina. Dopo essersi strofinato energicamente gli occhi per cacciare il sonno, suonò l'unico campanello senza nome e spinse il portone dopo l'immediato ronzio di risposta. Dentro l'atrio era buio; Matt si mise in punta di piedi per non svegliare tutti gli inquilini. Un fascio di luce illuminava il pianerottolo al primo piano. Quando Matt si avvicinò, la porta si aprì completamente per rivelare un uomo all'incirca della stessa età del medico, capelli completamente rasati, una corporatura spropositatamente massiccia, spaventosamente massiccia, anche Keith sarebbe sembrato piccolo e indifeso a confronto.

L'uomo sorrise con cordialità nel vedere l'amico, che obbligò a fermarsi sulla soglia in silenzio con un perentorio cenno della mano. Gli accostò un piccolo apparecchio d'acciaio e attese.

Il dottor Holland conosceva la procedura alla perfezione e aspettò con le braccia

incrociate.Larry annuì: tutto a posto, nessuno lo stava spiando quanto meno.«Ecco il mio nuovo libro». Matt, sprofondato su una delle due poltrone che,

insieme ad un divano a tre posti, occupavano metà del piccolo salotto di Larry, si sfilò lo zaino di spalla e ne estrasse la bottiglietta che fino a quel momento neppure lui stesso aveva esaminato con molta attenzione.

L'amico lo fissava incuriosito. Non era mai capitato che Matt "chiedesse libri in prestito" — meglio pensare sempre e comunque in quei termini — e non riusciva ad immaginarsi cosa fosse successo. Certo qualcosa di grosso, giudicando il tono fermo della telefonata. Diede un'occhiata alla casella e-mail prima di essere pronto ad ascoltare l'amico: quattro nuovi messaggi negli ultimi dieci minuti, nessuna urgenza. Si accomodò sulla poltrona accanto al medico, ora preparato ad ascoltare qualsiasi cosa gli fosse stata raccontata.

Poi si rialzò di scatto ripensando alla promessa del bicchiere di buon vino. Con il tempo, aveva imparato ad essere un uomo paziente; sapeva benissimo che la fretta portava soltanto a sbagliare. Meglio prendersela comoda.

Nell'attesa, Matt iniziò ad esaminare la bottiglia. Era un contenitore trasparente, il tappo azzurro, l'etichetta anche. Le scritte, bianche, erano più fitte rispetto a quelle sul tubetto di Danielle, ma almeno queste avevano un senso: inglese, tutto inglese, solo inglese.

"Enerjoy".

Il medico si soffermò un poco sul nome del prodotto. Enerjoy. Non l'aveva mai sentito nominare, ma del resto non aveva neppure mai visto le pastiglie che prendeva sua figlia. I rappresentanti delle case farmaceutiche gliene regalavano in continuazione. Non le apprezzava. Di solito stipava tutti i campioni in uno scatolone e li mandava dove ce n'era bisogno. E si liberava anche di calcolatrici, pupazzetti, borse per il computer e gadget vari finalizzati alla pubblicità selvaggia di industrie già ricchissime. Forse, comunque, sarebbe stata una mossa intelligente dare un'occhiata ogni tanto almeno agli integratori...

Larry tornò con una bottiglia di Chianti del 1998 e due bicchieri. Diede un'altra

occhiata al monitor del pc prima di appoggiare il tutto a terra in assenza di un tavolino. Si sporse per far convergere lo sguardo con quello dell'amico sull'etichetta azzurra.

Integratore energetico... 250 cc... a base di vitamine e sali minerali..."Perché la tua passione merita sempre il massimo!" recitava lo slogan a caratteri

cubitali al centro della striscia."Hyper Synthesis Scientifics".«Hyper... Synthesis... Scientifics...» mormorò Matt indicando il nome scritto

sotto lo slogan. Lo lesse, lo rilesse, lo rilesse ancora. Hyper Synthesis Scientifics... «Io l'ho già sentita...».

«Strano! È solo il nome di una delle maggiori case farmaceutiche d'Europa... e in effetti dove potrà mai averla sentita un medico?».

Matt aggrottò le sopracciglia: «Ho già avuto problemi con loro, intendo!» concluse con fermezza. Aveva già avuto problemi con loro, aveva già avuto problemi con loro, aveva già avuto problemi con loro e un'altra serie di case farmaceutiche, altre tre per la precisione, e dopo un momento di confusione dovuto al mal di testa e all'ennesima notte insonne gli fu tutto chiaro, a dieci anni di distanza.

Sospirò e iniziò a raccontare tutto a Larry, a renderlo partecipe della storia che quel "libro" conteneva, cominciando dalla battaglia legale del '98-2001, passando per la morte di Luke e i sospetti, per finire con quella bottiglietta trasparente dall'etichetta azzurro chiaro.

8

Danielle entrò nel centro commerciale insieme a Federico e Michelle. Era una vera fortuna che l'asilo dove lavorava quest'ultima fosse chiuso, in questo modo avevano praticamente l'intera giornata da trascorrere insieme.

Quanto a Federico, sarebbe ripartito per Roma nel tardo pomeriggio, cosa che sia lui che Danielle avrebbero preferito rimandare, ma del resto a nessuno dei due andava di abusare della gentilezza dei Richards. Così avevano deciso di vedersi ogni volta che fosse possibile, approfittando di qualche volo dell'ultimo minuto a prezzo stracciato.

Dal canto suo, inoltre, Danielle era fermamente convinta di dover mantenere ciò che aveva detto a suo padre prima di partire: intendeva lavorare, lavorare sodo se ce ne fosse stato bisogno, pur di non pesare agli amici e non chiedere soldi all'uomo che l'aveva fatta scappare dall'Italia. Keith e Michelle si erano opposti — per loro non era un problema, anzi, era un piacere aiutarla in tutti i sensi. La ragazza, però, si era dimostrata talmente testarda che Michelle si era vista costretta a chiedere aiuto ad un'amica proprietaria di un negozio di musica all'interno del centro commerciale di Brighton. Quando Danielle aveva saputo di dover vivere fra cd, strumenti e oggetti musicali vari per almeno cinque ore del suo giorno, era esplosa in un salto di gioia: non poteva chiedere di meglio. E aveva anche aggiunto che un lavoro avrebbe decisamente migliorato la sua padronanza dell'inglese. Assolutamente vero. E avrebbe anche ampliato i suoi orizzonti musicali. Non vedeva l'ora!

Il negozio era un locale piuttosto ampio. Accanto alla porta d'ingresso un bancone bianco, un ragazzo tra i venti e i venticinque chino sopra la cassa. Lunghe file di scaffali bianchi si dipartivano in ogni direzione. Da dietro uno di questi — un espositore di libri biografici di cantanti e gruppi — spuntò una signora dal sorriso smagliante, i capelli biondo platino. Mi chelle le andò incontro con passo aggraziato, i ragazzi aspettarono di essere presentati.

Pattie e il marito avevano preso in gestione quel negozio da molti anni, dal momento in cui avevano capito che con la loro rock band non potevano guadagnare da vivere. Però avevano sperato di poter trasmettere ad altri giovani sognatori la loro passione e si erano dedicati anima e corpo al progetto. I risultati erano stati eccellenti, il negozio sempre pieno. E ora che uno dei dipendenti storici si era dimesso per seguire la propria ragazza a Barcellona, c'era un gran bisogno di aria nuova. Guardò Danielle: era perfetta, soprattutto se l'avesse aiutata con la musica italiana — di cui lei non sapeva assolutamente nulla — e con i turisti dello stivale che non parlavano inglese. E la maglietta dei Beatles che indossava... era un capolavoro!

«Sei assunta!» le disse ancor prima di iniziare una vera e propria chiacchierata.Ora erano tutt'e quattro seduti ad uno dei tavolini del bar accanto al negozio.

Danielle sorrise, soddisfatta. Oltre al fattore musicale, era impaziente di comprarsi qualcosa con cui sostituire la famosa maglietta dei "Baronetti" e i pochi vestiti che

era riuscita ad infilare in borsa prima di correre fuori di casa. Erano passati ormai diversi giorni dal maledetto pomeriggio, eppure non poté fare a meno di lottare contro l'ondata di paralisi. Perse. Suo padre non si era fatto sentire e... beh, nemmeno lei. Decise che l'avrebbe fatto. Sì, contro il proprio orgoglio, contro la stupida testardaggine. Era suo padre, l'avrebbe chiamato quella sera stessa. Forse era assurdo, ma non gliene importava davvero. Forse la natura avrebbe voluto che fosse lui a prendersi cura della figlia e non il contrario, ma la natura non comandava il cuore. Era stata molto arrabbiata e credeva di continuare ad esserlo, invece fu costretta ad ammettere che gli mancava, burbero, irascibile, autoritario... comunque fosse gli mancava. Era troppo difficile vivere senza entrambi i genitori e per giunta in uno stato straniero. Michelle e Keith erano ciò che di meglio avesse mai potuto sperare, ma non i suoi genitori. Federico il ragazzo che amava con tutta se stessa — sentimento incapace di colmare quel vuoto che si era allargato da quando era volata via da Roma.

E per quanto riguardava Matt... aveva pensato spessissimo a lui, più del dovuto.

Non capiva, ma, comunque fosse, non voleva rimuginare troppo. Aveva ragione Federico, era ovvio che in quel periodo fosse particolarmente sensibile.

Si riscosse dal minuto di estraniamento totale e fissò gli occhi sul viso chiaro e luminoso di Pattie. La donna chiacchierava animatamente con Michelle. La ragazza pensò che da giovane doveva essere stata bellissima e lo era ancora, nonostante i quasi sessant'anni, nonostante le rughe e tutto il resto.

Federico le sfiorò delicatamente la mano.Lei lo guardò e sorrise, un tenero luccichio negli occhi. Non voleva che se ne

andasse, non voleva separarsi anche da lui. Era trascorso ormai più di un anno da quando si erano messi insieme. Si erano ritrovati al liceo e il liceo era stato galeotto. Erano un enorme sostegno l'uno per l'altra, indivisibili, mai troppo oltre le poche vie periferiche di Roma in cui vivevano. E ora fra loro il Canale della Manica e uno stato e mezzo. Lo avrebbero superato, entrambi ne erano sicuri.

Pattie tornò a guardare la ragazza: «Cominci domani?».Danielle sorrise e annuì con vigore. Le mattine sarebbero trascorse in fretta così,

soprattutto ora che Federico se ne sarebbe andato.E arrivò anche il pomeriggio, la solita atmosfera frenetica al solito aeroporto di

Heathrow. Federico era pronto per il check-in, Danielle faceva finta di esserlo. Lo abbracciò con quanta forza aveva in corpo. Le rimaneva solo lui.

Il ragazzo fece lo stesso, felice di averla vista a tratti serena durante quei giorni. Non poteva sopportare il ricordo di lei in lacrime, seduta con il viso fra le mani sul divano del salotto di casa Biondi. La tenne stretta per qualche altro istante, poi allentò un poco: «Ehi, Dani, sei in gamba, lo sai. Proprio perché sei in gamba... attenta al medico. Sai cosa penso».

La giovane incassò il colpo come un pugno in pancia. Si sentì priva di qualsiasi barriera difensiva, senza il riparo degli schermi mentali che aveva costruito per tenere i propri pensieri rinchiusi in qualche angolo recondito del cervello. Federico aveva capito tutto e lei non se n'era accorta. Era stata una pessima attrice benché credesse il contrario. Deludente!

E deludente l'aver forse deluso Federico. Ci avrebbe riflettuto più tardi, per il momento si limitò ad annuire. Non sapeva se almeno quello fosse convincente.

L'aereo per Fiumicino decollò, l'auto di Michelle già in carreggiata per tornare a Brighton. Danielle era meno triste rispetto a quanto avrebbe pensato. Tanto più che quello che si stava apprestando a fare richiedeva troppe energie e autocontrollo per perdere la concentrazione. Strinse leggermente più forte il cellulare e, con movimenti rapidissimi, compose il proprio numero di casa. Stava mantenendo la promessa che si era fatta in mattinata, ma chiamare il padre al cellulare era troppo, troppo non tanto per l'orgoglio quanto per l'imbarazzo che — ne era fermamente convinta — entrambi avrebbero provato. A casa, per lo meno, avrebbe risposto Teresa, una sorta di ponte che permetteva sia a lei che a Gabriele di prepararsi psicologicamente prima di affrontare un dialogo civile, come non ne avevano da mesi, da anni.

In perfetta linea con le previsioni, fu la domestica a rispondere.«Ciao Teresa, sono Danielle».«Tesoro, come stai?» la voce della donna esplose acuta nella cornetta.«Benissimo, grazie. L'Inghilterra è ovviamente fantastica. Senti...»."Ce la posso fare, ce la posso fare, ce la farò!" pensò.«C'è papà?».«No» si limitò a replicare l'interlocutrice.Danielle incassò il secondo pugno nello stomaco di quel pomeriggio. Non aveva

nemmeno preso in considerazione l'ipotesi. E se...«Si fa negare?» domandò in tono aspro.«No, fidati di me, piccola. Non c'è, non torna da ieri mattina. Però, in effetti, mi

ha chiesto di non passargli nessuna telefonata, nessuna, per nessun motivo».Danielle spalancò la bocca per esclamare qualcosa, poi ricacciò l'idea. Fissò

piuttosto gli occhi sul bocchettone dell'aria condizionata — un punto come un altro per dominare l'ondata di emozioni che la stava sommergendo.

«Gli puoi dire comunque, per favore, che ho chiamato?». Tentò di mantenere la

voce neutra; non ci riuscì molto bene, Teresa se ne accorse e si maledisse istantaneamente per essere stata troppo sincera. Era ferita, per l'ennesima volta, anche se credeva di non avere ormai più un solo centimetro quadrato esposto alla lama della delusione. Conosceva la domestica alla perfezione: tutto nel tono con cui le aveva parlato di Gabriele lasciava intendere in modo lampante che l'uomo non aveva mai nominato la figlia, oppure fatto intendere di soffrire per lei. E, anzi, aveva chiesto che non gli fossero passate sue telefonate...

Buttò con forza il telefonino sul pavimento dell'auto: non avrebbe dovuto chiamare, era solo una povera ingenua, stupida, stava sbagliando tutto, da sempre.

9

Dalla parte opposta della città una giovane donna camminava da sola in una via deserta dell'East End. Erano quasi le nove di sera, il cielo scuro minacciava tempesta. La donna si tirò indietro la massa di capelli neri e ricci. Stava meditando di prendere la macchina e andare in piscina a fare quattro chiacchiere con la collega che aveva preso il secondo turno quella sera. Magari lui sarebbe tornato, magari aveva bisogno di rilassarsi dopo un'altra estenuante giornata di lavoro. E magari era veramente il caso di darsi una mossa e invitarlo a cena perché, se avesse aspettato che lo facesse lui... ma forse aveva una fidanzata, una moglie! No, questo no, non aveva la fede. Poi, se avesse avuto una fidanzata, non si sarebbe fermato a chiacchierare con lei. Quel modo di fare, quegli occhi... e il polso... se lo accarezzò, sognante. I pantaloncini corti... i muscoli... il sorriso... e gli occhi, soprattutto quelli. Tornò ad accarezzarsi il polso dove lui l'aveva toccata.

Fu un secondo, o forse meno. Qualcosa la colpì alla schiena, lei cadde a terra senza nemmeno fare in tempo a mettere le mani avanti per attutire il colpo. Sbatté violentemente la fronte, la testa iniziò a ronzare come se non dovesse smettere mai più. La schiena mandava fitte atroci, continue, ma la testa stava esplodendo. Nemmeno sentì il sangue che colava copiosamente dal naso.

Qualcosa la costrinse con violenza a girarsi. Una mano la tirò su per i folti capelli. Lei non oppose resistenza — non capiva e nemmeno si sforzava di capire quello che stava succedendo. Non vedeva che buio davanti a sé, il cervello appannato, una serie infinita di pensieri sconnessi. Le gambe non reggevano, cadde in ginocchio. La mano continuava a tenerla per i capelli. Lei non sentiva il dolore, il ronzio ancora in corso. Il sangue pulsava nelle orecchie.

«Cos'hai fatto ieri sera, troia?» le domandò una voce maschile. La sentì lontana miglia e miglia. Non trovò la voce per rispondere e, in realtà,

non aveva neppure colto la frase.«Allora?» insistette la voce, poi qualcosa le colpì lo stomaco.Si piegò in avanti, al limite della sopportazione del dolore. Ma un lumicino di

razionalità riuscì a farsi strada nella sua mente annebbiata: doveva rispondere, subito. Doveva tentarle tutte per far finire quel tormento.

«E-e-e-ro lav-oro...» riuscì a biascicare con la bocca impastata.«E cos'hai fatto al lavoro? Pensa bene».Lei non riusciva ad afferrare. Cercò freneticamente fra i ricordi della sera

precedente, solo l'immagine di Matt. Finalmente le prime lacrime cominciarono a scorrerle sulle guance. Ma non fu in grado di rispondere alla domanda. Se ci fosse stato lui a proteggerla...

Un colpo secco al fianco la fece urlare, però l'aggressore fu rapido a soffocarlo con un pugno sulla mascella. La donna sentì il dolore più forte che avesse mai provato, quello che non aveva immaginato esistesse. Passò qualche secondo prima

che tornasse a respirare, poi tutto lo schifoso sapore del sangue in bocca.«Il medico, troia!» la incalzò la voce gracchiante.Lei perse di nuovo il respiro, ma questa volta non per colpa di botte fisiche. Lui...

lui... lui... che c'entrava lui? Lui era...«L'integratore!» urlò all'improvviso con tutto il fiato che aveva in corpo, un

torrente di lacrime sgorgava dagli occhi verdi. Era esausta, disperata, avrebbe preferito morire che continuare a sopportare tutto questo.

«Brava, finalmente cominciamo a ragionare». L'uomo la buttò a terra con uno spintone.

Lei batté la testa, tuttavia nessun dolore aggiunto poteva essere più potente di quello alla mascella.

«Ti era stato detto di stare lontana da quella scatola, non è così?».La donna mugugnò un assenso.«Bene, non l'hai fatto. E ora ne stai pagando le conseguenze. Sei una così bella

donna... lui non ti apprezza, non ti ritiene alla sua altezza. Ti sta solo usando. Ma io ti apprezzo moltissimo ed è per questo che ti concedo di vivere. Però le condizioni sono due: la prima è che tu non rifaccia mai più l'errore di ieri sera — e dico mai più! — e che non racconti a nessuno — e dico nessuno! — quello che ci siamo detti questa sera. In poche parole, stanne fuori!». Ora si era chinato su di lei e le parlava all'orecchio, il viscido alito caldo in contrasto con la brezza fresca dei minuti che precedono un temporale. «La seconda condizione è che tu mi faccia un po' divertire questa sera. Ne ho un gran bisogno, sai? Eh sì, perché non solo il tuo medico cretino ha estenuanti giornate di lavoro... Se non rispetterai anche solo una di queste due condizioni...» le puntò la pistola alla tempia e la spinse un poco contro il suo cranio. Poi l'abbassò. «Chiaro?».

L'aggressore allungò la mano verso la minigonna che lei aveva indossato in previsione della serata con Matt.

Lei se ne accorse e, senza troppa coscienza, azzardò un urlo.Una volante della polizia stava passando a sirene spiegate nella vietta accanto.

L'uomo la sentì. Con una smorfia, le tirò una botta potente col calcio della pistola e se ne andò.

Lei provò l'ennesimo dolore lancinante, le tornò a mancare il respiro. Prima che il buio dell'incoscienza l'avvolgesse, ebbe il tempo di invocare la morte.

10

In un'ampia stanza, attorno ad un lungo tavolo bianco, sei uomini erano evidentemente impegnati in una riunione piuttosto importante.

I raggi del sole al tramonto, parzialmente bloccati dalla veneziana semiabbassata, illuminavano il volto di uno di loro: colui che sedeva a capotavola. Si trattava di un uomo brizzolato, più di cinquant'anni anagrafici ben visibili sul volto segnato da profonde rughe di espressione. Una cravatta a righe blu e nere ricadeva su una camicia azzurra, sotto la quale era ben visibile la pancia un po' prominente. Non aveva ancora iniziato a parlare, ma tutti gli occhi erano fissi su di lui e sul foglio che teneva in mano. L'espressione del volto era vacua, la mano destra stringeva il bracciolo della sedia.

Con un profondo respiro, si decise ad iniziare: «Oggi, amici, abbiamo un problema». Il tono era fermo, la voce chiara e calma. «Il nostro problema di oggi ha un nome e un cognome e vorrei che lo ricordaste, è importante. E voi sapete cosa intendo con il dire che è importante. Ricordatevi anche che è una nostra vecchia conoscenza. Le informazioni che vi servono ve le darà ora il nostro bravo Antony».

Rivolse all'uomo seduto alla sua destra uno sguardo eloquente, quindi si appoggiò allo schienale della sedia con una smorfia per l'ernia discale mal curata.

«Matthew James Holland, 28 febbraio 1972, Berkeley, California. Laureato con il massimo all'università di Cambridge in medicina...».

«D'accordo, non ci servono le sue prodezze scolastiche, va' al punto».«Lavora a Londra, al Royal London Hospital da sette anni».Il capotavola gli lanciò un'altra occhiata infuocata.«Scusi... capo... » mormorò il giovane uomo che leggeva le informazioni dalla

tabella stampata su un foglio plastificato. Aveva la fronte imperlata di sudore, le mani tremavano leggermente. Nonostante i vent'anni superati da un pezzo, sembrava un timido adolescente al primo appuntamento con una ragazza, o forse uno studente perfezionista beccato dal professore l'unica volta in cui era impreparato.

«Entro stasera, Antony» intimò il capotavola stringendogli con finto affetto il polso.

«Sì, dunque... Matthew James Holland...».L'uomo strinse con forza la presa sul polso.Il giovane Antony represse una smorfia di dolore. «Ha una figlia» riuscì a

proseguire. «Ha diciotto anni e attualmente sta a Brixton da amici».Il capotavola sospirò piano: «Comunque il luogo è Brighton, Churchil Square.

Sta da una coppia, tali Richards. Ricordatevi anche questo, soprattutto questo. È lei il pezzo importante. E, come dicevo, ricordatevi che questo problema ha già avuto a che fare con noi ed è stato graziato. Non accadrà mai più. Voi quattro venite con me, partiamo subito. Il nostro buon Antony, invece, è un po' troppo pauroso a quanto pare».

Il giovane fu scosso da un tremito leggero. Con occhi sbarrati, fissava il

capotavola: «Io... no, io... sto... sto bene... grazie...».L'uomo brizzolato aprì un cassetto posto sotto il tavolo e, con movimenti lenti e

tranquilli, ne estrasse una pistola.Antony aveva le pupille dilatate, il labbro inferiore tremava violentemente. Aveva

visto un'altra volta quella scena. E poi c'era stato un tale tanfo di morte... tanto sangue... oh mamma, e lui che ci faceva lì? Perché si era invischiato in quel casino? Gli avevano promesso soldi, tanti soldi, ma non ne aveva mai visti. Però lui era coraggioso, sì, l'avrebbe dimostrato. Avrebbe dimostrato di essere un ragazzo in gamba, lo avrebbe fatto di certo. Aveva bisogno di soldi, tanti soldi, soldi... le dosi... la coca... ne aveva bisogno, in quel momento, stava impazzendo. Non ne prendeva da otto ore, non poteva resistere più a lungo. Soldi... dosi... il "Lametta"... sarebbe riuscito!

«Capo, io giuro che farò tutto quello che volete. Ho solo bisogno della mia roba. Poi sarò bravissimo, lo giuro».

«Grazie Antony. È bello da parte tua. Sei uno in gamba, amico, e probabilmente te la caverai altrettanto bene di là».

Fece un movimento rapido. Un clic quasi impercettibile. Un uomo accasciato

sulla poltroncina. L'aveva colpito dritto al cuore, giusto per evitare di far soffrire quel povero drogato. Quell'imbecille non era capace di leggere una stupida "scheda anagrafica", sarebbe stato una palla al piede. Per di più, chiedeva soldi in continuazione. Meglio liberarsi subito di certa feccia!

«Portatelo subito via e sistematelo come dico io». Colpì il cadavere in testa con la canna della pistola.

«Ci vediamo stanotte alle tre all'altra base».«Andiamo a Londra, capo?» domandò uno dei rimanenti, tutt'e quattro più o

meno coetanei di Antony. Questo, però, aveva l'aria decisamente più sicura di sé.«Qualcuno ha detto che puoi fare domande?».Il ragazzo scosse la testa, il dubbio dipinto sul volto.«Allora sta' zitto ed esegui. Che te ne frega di dove andiamo? Ricordati le

informazioni che io voglio tu ricordi e basta».«Chiaro capo. Mi scuso».«Portate subito fuori questa massa di merda» terminò il brizzolato sprofondando

di nuovo in poltrona.Erano tutti ragazzi giovani, prestanti e, soprattutto, stupidi e fastidiosi. Sarebbe

stato ben felice di poter fare a meno di loro. Non poteva, non così presto. Eppure sarebbe giunto il momento del dominio assoluto... del dominio anche sul Supremo... non vedeva l'ora.

11

Le porte automatiche di una delle farmacie dell'East End si aprirono. Matt non ci era mai stato e l'aveva scelta proprio per questo. Era abbastanza lontana da tutto: da casa sua, dal Royal London Hospital e dalla piscina. Al bancone una fila lunga, ma lui non aveva fretta. Incrociò le braccia in attesa. Aveva un'aria molto più riposata del giorno precedente, merito del divano di Larry. I due amici si erano fermati a chiacchierare fino alle sette e mezzo, discutendo di tutto e principalmente della bottiglietta di Enerjoy. Erano arrivati ad alcune conclusioni interessanti. Prima di elaborarne altre, però, erano crollati entrambi, Matt sul divano e Larry in poltrona. Comunque il medico aveva fatto in tempo a chiamare l'ospedale per chiedere un giorno di permesso o uno scambio di turno col collega della sera e Jack per affidargli gli interventi. Poi, alle due, aveva lasciato Teignmouth con l'intenzione di non farci ritorno tanto presto a meno che non si fossero verificate emergenze. Larry sapeva il fatto proprio e lo aveva avvertito di stare attentissimo — conosceva bene certi tipi di meccanismi, quello non gli piaceva affatto.

Infine arrivò il suo turno, un farmacista dall'aria estremamente professionale pronto a servirlo.

«Mi servirebbe una confezione di Enerjoy» disse appoggiando i gomiti sul bancone.

Il farmacista scomparve nel retro per un paio di minuti, quindi tornò con una confezione da sei bottigliette, identiche a quella che Matt si era procurato in piscina la sera prima. Si stupì di quanto fosse comune l'integratore, presente anche in una piccola farmacia di quartiere e, per giunta, a basso prezzo. E i flaconi erano identici. Ma il contenuto non poteva, non doveva essere lo stesso! Non potevano vendere in farmacia come aranciata un liquido che alterava l'organismo!

Pagò, stizzito.A casa, Bob era rannicchiato come al solito dietro la porta. Matt si inginocchiò per accarezzarlo, dispiaciuto di doverlo lasciare solo anche

per quella nottata e, soprattutto, stare senza di lui. Come premio per la pazienza, gli riempì la ciotola con il suo cibo preferito.

Ed eccolo di nuovo fuori dalla porta d'ingresso, abbigliamento sportivo ma non da spiaggia, borsa di pelle in mano. Guardò l'ora: era in anticipo, voleva esserlo.

Una volta in reparto, fece scorrere lo sguardo lungo la corsia alla ricerca di qualcuno. La vide.

In fondo al corridoio un'infermiera di mezza età stava uscendo da una stanza spingendo il carrello delle medicine. La salutò con un ampio sorriso, quindi le indicò di seguirlo nello studio.

Adrienne non esitò. Pochi minuti dopo era seduta di fronte al dottor Holland, pronta a ricevere qualsiasi ordine — perché sapeva già dall'espressione del suo viso che le avrebbe affidato qualche compito.

Il medico aprì la borsa di pelle nera e ne estrasse due bottigliette identiche, la prima ora piena per metà, la seconda mai aperta.

«Posso chiederti un favore importantissimo?» le domandò in tono serio.La donna annuì con convinzione.«Domani me le porti in laboratorio, evitando però di registrarle tra le analisi del

reparto?».Adrienne gli rivolse uno sguardo tra il preoccupato e l'indagatore: «Quant'è

importante?».La donna aveva molte qualità professionali e umane, tra le quali la discrezione

assoluta; Matt lo aveva sempre apprezzato moltissimo, a maggior ragione in quell'occasione. «Fondamentale, sennò non te lo chiederei mai. Non sei in nessun modo obbligata, se non lo vuoi fare lo capisco, è legittimo».

«Lo voglio fare, Matt Holland» lo interruppe la donna con voce ferma.«Allora ti devo minimo tre favori, Adrienne Hopes».Sorridendo, la donna allungò la mano per prendere i flaconi, quindi si rialzò: «Lo

terrò presente, ad esempio per una buona parola con Carlton sulle ferie a Natale. No, giusto perché hai un certo ascendente su di lei...».

Matt ricambiò il sorriso e la seguì fuori dalla porta. Si diresse in terapia intensiva. Voleva verificare le condizioni di Chelsea, non la vedeva dal pomeriggio precedente.

I signori Daultry e la figlia non si erano mossi dalle scomode poltroncine nere, tutti e tre con gli occhi gonfi, il viso segnato dalla stanchezza. Matt ebbe una stretta al cuore e sentì più forte nelle vene la voglia incontenibile di fare qualcosa per loro. Si avvicinò con un'aria mesta. Li ascoltò lamentarsi del fatto che i medici non avevano detto loro nulla durante tutta la giornata: erano felici che finalmente fosse arrivato lui, speravano con ogni fibra che la ragazza guarisse, lo pregavano ancora — come se ce ne fosse bisogno — di fare il massimo per lei. Fece del suo meglio per consolarli, senza però alimentare false speranze, promise di andare a trovare Chelsea e aggiornarli sulle sue condizioni, pensò di avere una gran voglia di raccontare loro tutto, ma, naturalmente, non poteva farlo — Larry aveva non troppo scherzosamente minacciato di picchiarlo a morte se ci avesse provato e lui, del resto, ne capiva perfettamente il motivo.

Le condizioni di Chelsea erano stazionarie, sempre stazionarie. Ma il sistema immunitario implorava pietà, la respirazione dipendeva totalmente dalle macchine. E il peggio era non poter fare altro che aspettare che qualcosa cambiasse, tenerla sotto sedativi per non farla soffrire e osservarla, così giovane e piena di sogni, lottare fra la vita e la morte.

Matt invocò qualsiasi entità superiore che lo potesse ascoltare, ammesso che ve ne fossero. Gli toccò essere completamente sincero con i Daultry sullo stato della figlia, per poi vederli sconvolti e stanchi di combattere contro il destino. E non gli riuscì di non pensare a se stesso in una situazione simile. Aveva visto la sua Danielle due volte eppure — nonostante avesse già sofferto parecchio nella propria vita — sarebbe impazzito se le fosse successo qualcosa.

Telefonò a Jack, l'unica persona in grado di farlo sentire un medico meno peggiore quando sospettava di esserlo.

Nessuno rispose.

Sbuffò. Sarebbe comunque rimasto nel proprio ufficio ancora per qualche ora; preferiva meditare tra le quattro mura del suo studio piuttosto che rigirarsi nel letto senza prendere sonno, soprattutto sul pessimo materasso della stanza dei medici di chirurgia generale.

Collegò l'hard-disc esterno al computer. In assenza di libri interessanti da leggere, si sarebbe tenuto occupato con qualche ricerca sulla Hyper Synthesis Scientifics. Tra le cartelle e sottocartelle perfettamente ordinate, trovò tutti gli scan degli atti giudiziari. Sorrise nel ripensare al giorno in cui aveva perso un pomeriggio intero a farli. Era affascinato dal potere dello scanner e il suo, nuovo di zecca, prometteva davvero bene. Era un informatico poco informatico che si esaltava per qualsiasi novità, anche quelle più piccole e insignificanti. Ma il poter conservare i suoi ricordi più preziosi sotto diverse forme lo aveva affascinato davvero. Così aveva messo casa sottosopra, alla ricerca di materiale da dare in pasto al fantastico marchingegno. Gli venne anche in mente il plico di fotografie che aveva salvato sul computer, in particolare quelle di sua madre e della neonata dagli occhi profondamente azzurri che, con i colleghi, aveva spacciato per una nipote.

Aprì una delle immagini.3 settembre 2001. Si ricordava perfettamente quella giornata, nei minimi dettagli.

Il cielo era plumbeo, la pioggia fitta. Aveva affittato una camera in un alberghetto non di alta qualità, uno dei numerosissimi rifugi presi d'assalto dai turisti a caccia delle meraviglie di Washington, DC. Quand'era arrivato, il pomeriggio precedente, aveva noleggiato una utilitaria. La odiò. E odiò fermamente il modo di guidare all'americana, lui, ormai abituato in tutto e per tutto all'Inghilterra. Dovette parcheggiare piuttosto distante dal tribunale e, quando vi giunse, il suo smoking — che aveva comprato apposta per l'occasione benché non li sopportasse — era zuppo: l'ombrello nulla aveva potuto contro il torrente d'acqua in caduta dal cielo. Odiò la pioggia, odiò i vestiti eleganti, odiò i tribunali e tutto il resto. E odiò di nuovo, per l'ennesima volta, le case farmaceutiche, contro cui lui e altri migliaia di ex soldati stavano combattendo ormai da anni per urlare al mondo intero che loro erano stati rovinati per sempre in Iraq, erano stati rovinati, e non solo dal gas nervino, dalle armi batteriologiche, dalle esalazioni di petrolio, eccetera, ma erano stati rovinati dagli interessi di questi stramaledetti colossi dell'industria. Odiò pure l'elemosina, il risarcimento irrisorio che le quattro case farmaceutiche erano state costrette a versare loro, odiò quella gente senza scrupoli, odiò il fatto che un'aula di tribunale fosse soltanto un'illusione di giustizia.

Scorse l'immagine successiva.8 novembre 1998. Un giovanissimo Matt Holland in jeans, scarpe da ginnastica e

giacca sportiva, era seduto tra le prime file dell'uditorio in un'aula di tribunale. Affetto dalla patologia universitaria del mi-segno-tutto-quello-che-dicono, aveva riempito a velocità esorbitante un piccolo bloc notes e sembrava più un giornalista che un teste chiave per il processo. Era la prima udienza, non aveva idea di come funzionassero le cose nell'ambiente.

5 maggio 1999. Lui, giovane ma ormai non troppo ingenuo, si trovava di fronte al giudice, deciso a raccontare tutto ciò che sapeva. Nel rileggere le righe di quel giorno, tornò a provare tutte le emozioni di testimone ad un maxi processo: ansia,

insicurezza, determinazione, voglia di giustizia... e molto, molto altro. E poté pure risentire il proprio giuramento, pronunciato con tono fermo più che mai, di dire la verità, soltanto la verità e nient'altro che la verità. Lo aveva fatto e, anche a distanza di dieci anni, ne andava davvero orgoglioso.

Ebbe l'impulso automatico di chiudere il file appena sentì che bussavano alla porta: nessuno aveva il diritto di entrare nel suo passato.

Ricevuto l'ok, Adrienne spinse la porta: «Penso ci sia bisogno di te di là». La donna vide tutto il panico dipingersi sul suo volto.

"Chelsea!" si urlò nella testa il medico, già quasi fuori dalla porta, i pugni serrati.«Non è Chelsea» lo fermò l'infermiera intuendo i suoi pensieri. «È una ragazza

che viene dal pronto soccorso».Matt trasse un sospiro di sollievo, ma non frenò. La nuova paziente poteva avere

qualsiasi cosa e... poteva essere anche lei una nuotatrice. No, la quarta no! Se fosse accaduto si sarebbe istantaneamente dimesso, non l'avrebbe potuto reggere!

Adrienne lo precedette verso una stanza singola, vuota dal giorno in cui — due settimane prima — una ragazzina ipocondriaca era stata dimessa. La donna spinse la porta.

Dentro, Matt vide due infermiere chine sul letto che campeggiava solitario nel mezzo della camera. Alcuni gemiti, parole consolatorie, atmosfera tesa. E...

"Matt?" si chiese. Ebbe un attimo di blocco. Non era certo di aver capito giusto, ma gli sembrava di sentire il proprio nome pronunciato a mezza voce.

"Matt? Di nuovo? Beh, sai quanti ce ne sono? Non ti chiami mica Socrate!". Si avvicinò.

Un urlo improvviso fece arretrare le tre infermiere. «No, no! Via, no!». La paziente sdraiata sul lettino si agitava, gli occhi spalancati, i capelli neri ricci sparsi sul cuscino.

Matt soppresse un gemito."Eri tu... anche se non ti chiami Socrate".Un'ondata di emozioni varie gli corse nelle vene. Prevaleva la sorpresa, lo

sconcerto. O forse no, prevaleva l'odio per se stesso, il rimorso. No, non lo sapeva. Serrando le labbra, fece un altro passo in avanti.

La donna urlò di nuovo e si agitò nel letto.Il medico sospirò e fece cenno alle tre infermiere di uscire.Adrienne e le colleghe ubbidirono all'istante.Si chinò sulla paziente per prenderle la mano, il coraggio di guardare le

medicazioni gli venne meno.«Non toccarmi, non toccarmi, bastardo!». Lei si divincolò con energia, ormai non

sentiva più alcun tipo di dolore fisico. La sofferenza era tutta psicologica, l'odio bruciante per l'uomo di cui si era fidata e che l'aveva tradita, l'aveva ridotta in quelle condizioni. Non poteva sopportarlo.

«Ehi, Nancy, guardami, guardami!». Tentò di bloccarla per il braccio.«Ti odio Matt, ti odio, ti odio!» gridò lei liberandosi con le ultime energie dalla

sua stretta. Continuava a piangere a dirotto, davanti agli occhi l'immagine dell'uomo con il passamontagna, quel piccolo flash che aveva notato nella periferia del campo visivo mentre lui si era inginocchiato a parlarle nell'orecchio. Faceva male, faceva

tutto molto male, e il dolore era così intenso da impedire alla mente di metabolizzare l'accaduto. Forse non l'avrebbe mai fatto. Forse nulla sarebbe tornato come prima. Non si sarebbe più fidata a camminare da sola di sera per le vie periferiche di Londra, non avrebbe mai più concesso la propria fiducia ad un uomo. Non sarebbe passato giorno senza farle riaffiorare alla memoria quei tremendi minuti. La paura, incandescente. Ma Nancy era troppo disperata per analizzarla nei minimi dettagli, aveva troppi dubbi per capirne l'origine.

Matt si inginocchiò accanto al letto, l'esame di coscienza rimandato alla notte insonne.

«Nancy, ti prego, ascoltami. Cos'è successo?».I singhiozzi divennero più convulsi. Nancy non parlò.Matt non poté fare altro che guardarla piangere, almeno per il momento. Si

concentrò sulla mano ingessata, sul viso pieno di cerotti, sulla mascella gonfia e livida, sul busto di plastica che spuntava di qualche centimetro dalla canottiera rossa, sulle abrasioni e i lividi sparsi sulla pelle. Purtroppo aveva capito tutto, subito. La circostanza era fin troppo chiara, le implicazioni ancor di più. Invocò ancora una volta quella non ben identificata entità superiore che quei bastardi non fossero riusciti a violentare la bella e soprattutto innocente Nancy.

«Vai via, ti prego...» sussurrò la donna. La sua voce era più calma, più rassegnata.Matt si riscosse: «Scusami, scusami, scusami. Perdonami, ti prego. Non dovevo

coinvolgerti nelle mie fissazioni, invece l'ho fatto. Hai tutto il diritto di odiarmi. Spero solo di poterti spiegare un giorno».

«Non mi interessa, fatti i fatti tuoi, tanto l'hai sempre fatto. Mi hai sempre usata come un oggetto e io che credevo... ma tanto siete tutti uguali. Solo che uno così bastardo non l'avevo mai incontrato. Dovrei forse ringraziarti?». Altri singhiozzi strazianti riempirono l'aria.

Matt sospirò.Nancy non oppose resistenza quando lui le sollevò con delicatezza la mano

ingessata per esaminarla. Era troppo stanca per ogni cosa, soprattutto per vivere. Fu un'ulteriore fitta al cuore nel momento in cui si accorse di non provare alcuna emozione mentre lui la toccava. Lo aveva inconsciamente sperato.

Dopo aver esaminato le ferite e il referto del pronto soccorso, Matt lasciò la stanza con passo mesto.

Fuori le tre infermiere e due agenti della polizia. Cosa poteva dire ora? Doveva proteggerla, a tutti i costi, perché non l'aveva fatto fino a quel momento. Anzi, l'aveva condotta lì. E ora era l'unico che potesse capirla.

Ordinò ad una infermiera di somministrare un sedativo leggero a Nancy in modo da farle passare una notte di riposo, seppur forzato. Poi si dedicò alle domande dei due agenti. Non fu difficile riassumere le condizioni di una paziente aggredita. Fu più complicato, invece, convincerli a rimandare almeno di un paio di giorni l'interrogatorio. Non gli importava che Nancy lo accusasse di essere il colpevole di quella storia, non gli fregava che parlasse dell'integratore — se la sarebbe potuta cavare in qualche modo. Esigeva, piuttosto, che non fosse esercitata altra pressione psicologica sulla donna. In lei aveva ritrovato quello sguardo di sconfitta, di odio per la vita che una settimana addietro aveva incontrato negli occhi della madre di Luke.

E alla signora Mason aveva promesso di fare l'impossibile per scoprire la verità. In silenzio lo promise anche a Nancy.

Un'ora più tardi la sola altra presenza in movimento in corsia era Adrienne. Matt la raggiunse in infermieria.

«Adrienne, mi ridaresti le bottigliette, per favore?».La donna alzò le spalle, perplessa: «Perché?».«Meglio che le abbia io, fidati».«Ho detto che lo faccio e lo farò. Non ti fidi, Matt Holland?».Il medico sorrise amaramente: «Al contrario, mi fido troppo. Voglio che tu ne

esca ancor prima di entrarci e questo è un ordine, il primo che ti abbia mai dato».Adrienne lo guardò con serietà. Era un ordine.«Però i tre favori permangono?» riuscì in fine a stemperare con un sorriso. Matt annuì scoppiando in una risata tesa: «Ti aggiungo anche il quarto, Adrienne

Hopes».Strinse i due flaconcini con odio, sentimento che tendeva a non provare, o per lo

meno non lo provava per nulla che non fosse in relazione all'Iraq. E, beh, in effetti quella questione era legata all'Iraq. Già, perché tutto nella sua vita era in qualche modo legato a quella guerra, a quella stramaledetta guerra. Si sedette con rassegnazione sul letto della piccola stanzetta riservata ai medici del turno della notte.

Dalla finestra aperta entravano i borbottii degli ultimi strascichi del temporale che aveva colpito Londra quella sera. Il vento scompigliò alcune carte sulla scrivania nera come la testiera del letto. Un'ambulanza entrò nel parcheggio dell'ospedale mentre la pioggia ricominciava a battere sulla città. Un tuono, qualche auto... era tutto così confuso, fuori e soprattutto dentro. Come muoversi ora? Come? Fu tentato di ingerire un sonnifero, ma si aggrappò al filo solitamente stabile della razionalità che in quel periodo stava vedendo vacillare. Il mal di testa era passato quasi completamente, almeno quello. Era tutto il resto che non andava. Infilò il cercapersone sotto il cuscino. E finalmente, dopo lunghissimi minuti di movimenti nervosi, il sonno prese il sopravvento sulla sua mente troppo stanca per rimanere ancora attiva.

12

Danielle si svegliò molto presto quella mattina. Sarebbe stato il suo primo giorno di lavoro e ne era assolutamente eccitata. Quello che le aveva detto Gabriele nello studio prima che partisse era vero: non aveva mai fatto niente nella sua vita, non era abituata a muovere un dito, non per aiutare a sparecchiare, non per rifare il letto. Teresa aveva sempre pensato a tutto e l'essere figlia di un ricchissimo industriale le aveva certo procurato questa ed altre comodità, oltre al vanto di poter possedere tutto subito. Sì, perché da piccola tendeva a vantarsi con le sue amichette del vestitino nuovo, delle scarpe all'ultima moda, dello zaino più bello eccetera. Finché non si era beccata tre o quattro pessime risposte che l'avevano fatta stare male, chiudersi in camera e piangere per ore. Una di queste se l'era presa in prima media, da quel certo Federico Biondi, un ragazzo insopportabile di terza. Le aveva tirato addosso per sbaglio una pallonata e si era affrettato a chiederle scusa.

«Ehi, i miei pantaloni bianchi nuovi!» e aveva iniziato ad insultarlo.Lui, per tutta risposta, si era chinato e aveva smosso una zolletta d'erba dal

campo da calcio della scuola. Dopo averla sbriciolata con forza fra i palmi, aveva appoggiato la mano destra sul ginocchio di Danielle e se l'era pulita. «Va' a piangere dalla mamma, bimba!» le aveva detto girandosi verso gli amici per proseguire la partita.

Danielle si era sentita mortalmente offesa, ferita nel profondo dell'orgoglio, soprattutto perché alla scena avevano assistito le sue tre amiche — o per meglio dire sottoposte — e il ragazzo che le piaceva. Aveva giurato a se stessa che gliel'avreb-be fatta pagare, a tutti i costi.

Tuttavia non ebbe tempo, perché la fine dell'anno scolastico era vicina. Gli esami per quelli di terza se ne andarono e con loro anche l'odioso Federico. E se ne andò anche tutta la rabbia perché, quando tre anni dopo si rincontrarono al liceo, divennero buoni amici. Eh già, perché nel frattempo tutto era cambiato. Danielle era cambiata, completamente. Ora non sopportava più i soldi del ricco industriale, o, forse, era il ricco industriale che non sopportava più lei. Ma siccome questa seconda ipotesi non si poteva e non si doveva prendere in considerazione, preferiva pensare alla prima anche perché le dava un'aria da ragazza matura e responsabile.

Allungò d'istinto la mano verso il comodino. Piegata in quattro parti, stava una copia del suo racconto preferito. La aprì.

"Bisogna cominciare la giornata al meglio!" si disse sorridendo. Lesse, una volta, due, tre. Infine si decise ad alzarsi e scendere a fare colazione.

In cucina Michelle stava pulendo il bancone. La salutò con uno splendido sorriso.Michelle lo notò e se ne compiacque. Passò con forza lo strofinaccio sul marmo

mentre le chiedeva un favore."Ciao! Michelle dice che stasera sei dei nostri, ma solo se le porti le sue ricette. A

me, invece, porta Bob. Buona giornata! Danielle".Inviò il messaggio con il cellulare dell'amica ed iniziò a sorseggiare il bicchiere

di spremuta d'arancia.Un'ora dopo uscì dalla villetta dei Richards per dirigersi al centro commerciale.

Questa volta era sola. Ormai non aveva alcun problema a girare per Brighton, anzi, si sentiva praticamente a casa. Amava quella città, sebbene l'aria frizzante di Roma fosse qualcosa di insostituibile. Ma Brighton era ormai per lei un luogo protetto, l'unica cosa di cui avesse bisogno in quel momento. Mentre seguiva quel filo di pensieri, non poté fare a meno di darsi della vigliacca, ancora una volta. Spesso, con un po' di alterigia, le risultava automatico pensare di essere una ragazza ormai grande, matura e responsabile, salvo poi ricordare a se stessa di non essere mai riuscita ad affrontare in maniera diretta l'argomento "cambiamento" con il padre. Per concludere con la fuga.

"Già già, proprio responsabile!" brontolò nella testa mentre si spostava a destra

per evitare due anziane signore ferme sul marciapiede a chiacchierare.L'aria condizionata del centro commerciale la avvolse asciugando quasi

istantaneamente le piccole gocce di sudore che le imperlavano la fronte. Una sequela di negozi, una scala mobile, una svolta a sinistra, un corridoio lunghissimo costeggiato da vetrine... ed ecco il Woodstock, il tempio della musica della bella città britannica. Danielle entrò, raggiante. Al bancone trovò Pattie, intenta a battere uno scontrino.

La donna la salutò con un ampio gesto della mano: «La rocker dello stivale, bentornata!».

«Ben ritrovata! Pronta a farmi incominciare?».«Non sarò certo io ad assumermi il fardello!» sorrise e le indicò il ragazzo che li

aveva accolti il giorno precedente.Jay si presentò con una pacca sulla spalla. Il suo compito sarebbe stato insegnarle

quanto più in fretta possibile ciò che c'era da sapere sul Woodstock e, in generale, sul lavoro di commessa. Danielle non era mai stata così ansiosa di imparare. Lo ascoltò mentre le descriveva meticolosamente il contenuto dei vari reparti, le spiegava dove si trovava il magazzino, come segnare gli articoli da ordinare, in che cassetto trovare sacchetti e carta da regalo, eccetera. Infine le raccomandò un sorriso perennemente stampato sul volto, una cortesia quasi melensa e una pazienza senza fine.

«Quando non ne hai più, raschia, raschia fino a trovarla, mi raccomando» concluse in tono serio. Jay prendeva sul serio il proprio lavoro e, del resto, anche Danielle aveva tutte le intenzioni di farlo. Divertita, osservò la sua cresta e il bracciale di borchie, ma soprattutto la passione con cui parlava di dischi, strumenti musicali e quant'altro. Le fu chiaro perché Pattie l'avesse assunto, e le fu chiaro perché avesse assunto anche lei. Era tutto merito di Federico, sempre merito di Federico. Quando l'aveva conosciuto, lei ascoltava tutto ciò che di commerciale potesse esistere. Poi, dopo le prime smorfie, si era abituata ai potenti riff di chitarra elettrica, ai ritmi incalzanti di batterie impazzite; ormai spaziava da velocissime canzoni pop punk da due minuti e mezzo a opere rock da diciassette minuti e più. L'importante era sentire una chitarra!

Dopo aver fatto tre volte consecutive il giro completo del negozio per assicurarsi di aver ben memorizzato tutti i posti, si appoggiò al bancone. Era pronta ad affrontare i primi clienti, tanto più che Pattie era andata a prendere un caffè e Jay era

impegnato in magazzino. Si guardò intorno: un gruppetto di adolescenti — turisti stranieri in settimana linguistica, probabilmente —, un ragazzo con i dreadlocks, due starnazzanti amiche sulla quindicina, qualche altro cliente. Poi si accorse di un uomo, forse trent'anni, comunque mal portati. Era fermo in piedi davanti allo scaffale dei cd di musica straniera. Aveva i capelli castani, la pelle leggermente scura, i tratti mediterranei.

"Ci scommetto le vene che è italiano!" si disse Danielle mentre lo fissava.Lui se ne stava lì, immobile, in una posa innaturale. La ragazza non avrebbe

saputo dire da quanto tempo fosse lì, ma non dovevano essere pochi secondi. Memore delle raccomandazioni di Jay, non lo disturbò, anche perché era evidente che non avesse bisogno d'aiuto dato che nemmeno guardava i cd.

Un po' emozionata nel dover parlare inglese con persone completamente sconosciute, tentò di sfoggiare la miglior pronuncia possibile e soddisfò un paio di richieste, batté qualche scontrino. Infine tornò a rivolgere l'attenzione all'uomo.

Lui continuava a stare fermo.«Che guardi?» le domandò Jay mentre le si avvicinava con le braccia cariche di

dischi.Danielle non rispose; si limitò a indicare lo strano cliente con lo sguardo.Jay lo scrutò a lungo, quindi alzò le spalle. Appoggiò il proprio carico sul

bancone e iniziò a fare avanti e indietro per sistemare la merce appena arrivata.Un quarto d'ora dopo che Danielle si era accorta di lui, il presunto italiano afferrò

un cd a caso e si diresse alla cassa. Danielle ebbe un sussulto, ma si ricordò delle pillole di saggezza che Jay le aveva regalato qualche ora prima. Le incuteva un senso di disagio. Tentò di non pensarci e salutò con cortesia.

L'uomo tentò di mostrare un sorriso affascinante, fallì perché Danielle provò un

senso di disagio maggiore.«Ho conosciuto una donna molto interessante ieri sera» esordì lo sconosciuto

senza rispondere al buongiorno della nuova commessa. «Credi che questo cd faccia al mio caso? Vorrei regalarglielo».

Danielle sentì la sensazione di voler scomparire, ma tenne duro. Si protese in avanti per vedere di cosa si trattasse: Laura Pausini.

"È italiano questo bastardo!" pensò.«Suppongo di sì, se la sua signora è una che apprezza il genere...».«Anche tu sei italiana?» la interruppe lui all'improvviso ri-volgendolesi nella

madrelingua.Danielle si sentì il sangue gelare nelle vene. Come faceva quell'uomo a... Oddio,

la pronuncia! Ma no! Non aveva una pronuncia da inglese, ma... no, non voleva rispondere, quell'uomo non aveva diritto di sapere. Che importava a lui che lei fosse italiana oppure no? Puntò tutto sull'abilità di mascherare le emozioni che aveva acquisito con gli anni: «Mi scusi, signore?» domandò in inglese.

«Problemi, Dan?» domandò Jay accostandosi a lei. La ragazza fece segno di no, ma lui aveva già capito. Lanciò un'occhiata di sbieco al losco individuo e batté quanto più in fretta possibile lo scontrino senza nemmeno salutarlo.

L'italiano prese il sacchetto e uscì, la rabbia mal celata sul volto.«Tutto a posto?» chiese Jay a Danielle mentre la fissava dritto in faccia.

La ragazza annuì, non troppo convinta.Proprio in quel momento Pattie rientrò in negozio.«Danielle è stata bravissima, quindi si merita qualcosa da bere» le disse Jay.Danielle tentò di sorridere con calore mentre lui la conduceva verso i tavolini del

bar adiacente, ma non riusciva a scrollarsi di dosso le sensazioni negative che quello sconosciuto le aveva lasciato in corpo.

«Suppongo ci stesse solo provando!» esclamò Jay nel tentativo di farle superare l'accaduto.

Questa volta Danielle riuscì a sorridere con vero entusiasmo: probabilmente era

soltanto questo.

13

Il corridoio... la stanza buia... tante scatole... molto disordine...Un rumore lo svegliò di soprassalto. Matt infilò istintivamente la mano sotto il

cuscino e controllò prima il cercapersone, quindi il cellulare: un nuovo messaggio.Michelle.Mentre il messaggio si apriva, ripensò al sogno: il magazzino della piscina e la

vergogna che tuttora provava per quello stupido gioco che aveva involontariamente iniziato con i ragazzi del nuoto. Forse si era nascosto dietro lo scatolone di Enerjoy e nemmeno lo sapeva... ridicolo! Sorrise con una punta di autocommiserazione.

Lesse l'sms."Danielle... Danielle..." pensò con un sorriso più ampio che aveva assunto una

sfumatura di dolcezza, non più di beffa."A me porta Bob!". Era una ragazza fortissima, così forte, così spontanea... e

malinconica, sì, evidentemente malinconica nel profondo azzurro dei suoi grandi occhi. Certo che sarebbe andato a Brighton, lo avrebbe fatto subito se fosse stato per lui!

Poi gli saltò all'occhio l'ora: 7.45.Si alzò di scatto, era tardissimo! Aveva terminato il turno, ora avrebbe potuto

andare a casa. A fare cosa? No, sarebbe rimasto lì ancora per qualche ora. Programmò in pochi secondi la mattinata mentre si cambiava. Poi, uscendo dal bagno, vide le due bottigliette di Enerjoy sulla scrivania — se n'era completamente dimenticato. Non faticò ad inserirle nella tabella di marcia, anzi, decise che avevano la quasi assoluta priorità. Se le infilò nella tasca del camice.

L'addetta alle pulizie stava strofinando per la terza volta il tratto di corridoio davanti alla stanza del medico di guardia. Matt la vide vagamente alterata e gli venne da sorridere ricordandosi di quando sua madre si lamentava dei medici che si alzavano tardi, oppure passavano nonostante il pavimento fosse bagnato. Desiderò con tutto il suo cuore che quella donna fosse Jane, desiderò essere uno dei medici su cui lei aveva da ridire. Desiderò molte cose, troppe, tutte insieme.

«Sta bene, dottor Holland?» gli chiese la donna mentre risciacquava il mop con cui aveva lavato il pavimento.

«Sì sì, grazie. E scusi il ritardo e che adesso passerò sul bagnato. Mia madre insultava sempre i medici che lo facevano, mi meriterei lo stesso trattamento».

La donna sorrise, l'alterazione scomparsa dal suo volto rotondo. «Non lo farò, stia tranquillo. Non per questa volta!».

Lui ricambiò il sorriso e passò sul pavimento ancora umido. Una volta nello studio, accese il computer. Trentadue nuovi messaggi; si stupì che fossero arrivati tutti dalle dieci della sera precedente. Li scorse senza troppa attenzione: un invito ad un convegno, la pubblicità di un nuovo farmaco, un vecchio amico degli Stati Uniti che non sentiva da tempo... poi la newsletter dell'università di Cambridge. Gliene arrivavano molte, certo, ma quella gli fece venire in mente qualcosa, anzi, qualcuno:

il professor Grawl. Pensò per qualche altro istante, poi si decise a chiamare.Una zelante centralinista rispose dopo il primo squillo. Matt chiese di parlare con

il docente, ma la donna all'altro capo replicò che era a lezione. Provò quindi a scrivere una mail nella speranza di ricevere a breve una risposta. Doveva assolutamente condividere con qualcuno i propri dubbi e le ipotesi e questo qualcuno non poteva più essere nessun collega del reparto. Si era già esposto abbastanza con risultati a dir poco scarsi. E aveva persino la sensazione che Jack non lo appoggiasse completamente, forse non a torto. E in alcuni casi i vecchi docenti potevano essere il massimo, sia per esperienza che per saggezza.

Sentendosi decisamente brillante a scapito del perenne mal di testa e della particolare confusione mentale di quei giorni, sfruttò i dati che l'università gli aveva fornito in qualità di saltuario collaboratore esterno per accedere agli archivi. Nella sezione dedicata alle case farmaceutiche, trovò parecchie relazioni riguardanti la Hyper Synthesis Scientifics. Scaricò tutto, destinazione il mitico hard-disc grigio scuro della cui capienza ancora si stupiva. Ora poteva iniziare a seguire la tabella di marcia. No, non prima di aver cliccato su quel link che lui aveva contribuito a creare... "Sindrome della Guerra del Golfo (GWS)".

Ritrovò una decina di articoli che lui stesso aveva scritto anni prima sull'argomento, più quelli di altre persone che, come lui, erano passate attraverso il calvario del processo e con tutta probabilità soffrivano ancora dei sintomi della GWS. Non aveva bisogno di scaricare quel materiale, lo aveva già nell'hard-disc, oltre che nella memoria. Ricordava con disgusto ogni minimo particolare, gli bastava davvero. Però non poté fare a meno di trovare tanto affascinante quanto schifoso il fatto di avere a che fare di nuovo con una delle case farmaceutiche che avevano contribuito a rovinare — o almeno rendere assai difficile — la vita a lui e a decine di migliaia di altri ex soldati sparsi per il mondo.

«Dottor Holland, firma lei le dimissioni di Nancy Clover?» gli domandò una delle infermiere di turno appena lo incontrò in corridoio.

La tabella di marcia prevedeva anche la visita a Nancy, ma il rendersi conto di doverla dimettere sebbene si trovasse in quelle condizioni lo lasciò perplesso. Non aveva però più motivi per trattenerla e, se non l'avesse fatto lui, avrebbe firmato qualcun altro.

«Sì, ci penso io» disse prendendo la cartella dalle mani dell'infermiera. Si appoggiò al davanzale di una delle ampie finestre che costeggiavano il corridoio per compilare il resoconto e apporre la firma in calce. Restituì all'infermiera che l'aveva seguito i fogli che andavano archiviati dicendo di voler parlare personalmente con la paziente.

Quando entrò nella stanza di Nancy, la trovò addormentata in un sonno agitato. Tuttavia non fece in tempo a girarsi e uscire perché si sentì chiamare. «Matt?».

Pensò si trattasse di un sogno, o più probabilmente incubo, ma lei insistette. Si avvicinò al letto: «Sì, sono io. Come stai?».

Il suo volto era eloquente, profonde occhiaie, occhi lucidi, labbra serrate nel

tentativo di trattenere il pianto.«Mi dispiace per ieri...» sussurrò infine.Lui incassò le scuse come un pugno, i sensi di colpa triplicati. «Sono venuto a

dirti che puoi tornare a casa».Nancy non fu più in grado di contenere il pianto: «Da chi, dai miei fantasmi?»

disse tra i singhiozzi.«Scusami. Vorrei fare qualcosa, qualsiasi cosa per...».«Shshsh... se c'è qualcosa da firmare fammela firmare e basta».Lui appoggiò un paio di moduli sul comodino insieme ad una delle tre penne

attaccate al taschino del camice.«Buona fortuna, Nancy...» mormorò «E se potrò mai fare qualcosa per te...».«Vedrò di non dartene l'occasione! Sei proprio un bell'uomo, ma credo di non

volerti rivedere mai più!» lo interruppe lei tagliente. A fatica si alzò e riuscì ad apporre una firma con la mano non ingessata. Lanciava alternativamente un'occhiata al foglio e a Matt, dissuadendolo da qualsiasi tentativo di aiutarla.

Conscio di non poter fare o dire altro, lui lasciò la stanza con passo lento.«Ciao Nancy» disse prima di chiudere la porta.Ovvio che quella storia lo provasse molto, ma non poteva fermarsi a rimuginarci

più del necessario. Si diresse verso l'ascensore del personale con la mano sprofondata nella tasca del camice.

«Vita sociale zero, Holland?».Non si era accorto che Eze l'aveva preceduto nell'ascensore. «Cos'era, un invito a

cena? Sei preoccupato che possa soffrire di solitudine?».«Mah... non esattamente. Pensavo piuttosto che in certe situazioni deve essere

davvero difficile trovare qualcuno disposto a sopportarci».«Ecco, appunto, e credo che tu questa mattina non abbia avuto particolare

fortuna. Comunque chissà, potrei sbagliarmi! Anche perché, ti dirò: oltre al Dr. House ho un altro mito. Non so se lo conosci, ma si chiamava Albert Einstein e, beh, era solito dire che tutto è relativo. Attento, in base a questo principio potremmo diventare amichetti del cuore un giorno!».

«Andiamo sulla filosofia? Beh, la questione si fa interessante...». Fece un gesto circolare con la mano destra.

«Ah, dimenticavo, e il tizio diceva anche che la stupidità umana non ha limiti!».«Non ho dubbi!».«Hai ragione a non averne. Io li avevo fino a qualche giorno fa e me li sono tolti,

specialmente in seguito ad una certa autopsia».L'ascensore si fermò al piano terra, le porte scorsero.«Deduco sia il tuo piano, collega! Buona giornata!». Matt premette il due prima

che Eze rispondesse.Il laboratorio delle analisi era una stanza molto ampia, divisa soltanto da tavoli e

macchinari. Una mezza dozzina di persone era impegnata in mansioni varie, la frenesia notevole. Oltre al breve corridoio, situato alla destra della porta d'ingresso, il secondo laboratorio ospitava altrettanti impiegati altrettanto occupati. Dalle stampanti uscivano fogli in continuazione, camici bianchi impegnati alle macchine.

Matt trovò quello che stava cercando dopo una rapida occhiata ad entrambi i locali. In fondo alla seconda stanza un giovane uomo stava piegato su un tavolo, la penna correva veloce su un plico di fogli stampati. Lo raggiunse.

Il ragazzo alzò la testa e gli sorrise: «Ciao! Non sei di turno?».

Matt scosse la testa. «Riesci a prenderti cinque minuti di pausa per un caffè con me?».

Il ragazzo lanciò un'occhiata intorno, quindi richiamò l'attenzione di una collega impegnata ad un computer dall'altra parte della stanza. Con la mano destra le fece segno che se ne sarebbe andato per cinque minuti e seguì Matt verso l'uscita.

Si sedettero ad uno dei tavolini più appartati del bar, in fondo, vicino ai bagni. Una cameriera molto giovane e pesantemente truccata si affrettò a prendere l'ordinazione: due caffè e due fette di torta — solo quando le aveva viste esposte nella vetrina del bancone Matt si era accorto di avere una certa fame. Si tenne sul vago con il giovane collega finché arrivarono le ordinazioni.

«Allora, cosa posso fare per te?» domandò il ragazzo protendendosi in avanti per addentare la propria fetta di dolce.

«Sono così opportunista?». Il sorriso era rilassato nonostante tutto.Il giovane scosse la testa: «Perché?».«Sei la seconda persona che, appena mi guarda in faccia, mi chiede se ho bisogno

di qualche favore».Il ragazzo diede un altro grande morso: «Hai la faccia da opportunista, allora».Risero. «Però in effetti c'è un piacere di cui avrei bisogno».Il ragazzo annuì divertito.«Già! Avrei bisogno di un'analisi un po' personale».«Un po'...» sottolineò l'amico.«Molto» concluse Matt estraendo i due flaconcini di Enerjoy dalla tasca.Il giovane prese un tovagliolo per pulirsi le mani, quindi afferrò una delle due

bottigliette. Era stupito. «E questi?».Il medico si limitò a scrollare le spalle.«Ma che delusione, io pensavo fosse una cosa tipo capelli della prole da

analizzare per accertarsi che non assuma sostanze stupefacenti!».Non poté fare a meno di ridere di gusto e pensare a Danielle, ovviamente.

Avrebbe dato di tutto pur di avere la possibilità di starle vicino e preoccuparsi per lei e i suoi problemi da diciottenne, magari vedersi sbattere la porta in faccia e farglielo pesare per la settimana successiva — stile Jane. Ma non sarebbe stato in grado di far pesare nulla a quella ragazza così perfetta.

«Niente figli!» concluse con aria fintamente triste.«Ah già, tu no, lo scapolo d'oro... di', è ancora persa la Carlton?».«Non credo, ultimamente ha assunto l'aria della donna potente, ha messo quanta

più distanza possibile». Matt fu ancora una volta contento dei toni amichevoli della conversazione.

«Per forza, si è stufata! Nemmeno Brad Pitt se la sarebbe tirata tanto!» replicò il collega continuando a sorridere. Frat tanto si rigirava per le mani le due bottigliette e pensava a quale fosse l'obiettivo di quelle analisi. Alzò uno sguardo interrogativo verso Matt che stava finendo la sua fetta di torta. Appoggiò i flaconcini sul vetro del tavolo ed iniziò a masticare l'ultimo pezzetto di quello squisito dolce al cioccolato in attesa di ricevere qualche spiegazione più esauriente.

«Non posso dirti nulla, ed è per un semplice motivo: non so nemmeno io. Mi faresti l'enorme favore di analizzarle e consegnarmi personalmente i risultati? Il

reparto deve rimanerne completamente fuori, ovviamente». Indicò la bottiglietta piena per metà: «Saresti in grado di conservarmi almeno metà di questo?».

Il ragazzo tirò un sospiro. Stimava moltissimo quel dottore, gli era stato simpatico immediatamente, dalla prima volta in cui si erano incontrati. Capitava qualche volta che andassero a pranzo assieme, comunque non potevano definirsi amici stretti. Però — lo sapeva per certo — se avesse avuto bisogno di qualcosa, avrebbe sempre potuto fare affidamento su Matt, lo sentiva, anzi, era sicuro che uno come lui si sarebbe fatto in quattro. Nonostante lavorasse lì ormai da parecchio, non aveva legami particolari con il resto del personale. Non che il fatto gli dispiacesse troppo, ma era sempre bello sapere di avere un amico pronto a fare qualcosa per te se mai ti fosse servito.

«Metà di questa!» sentenziò mentre si metteva i due flaconi nella tasca del camice.

Matt annuì con sollievo. «Ovvio che pago io!» rispose nel richiamare l'attenzione della giovane cameriera.

«A Manchester questa la chiamano corruzione. E in California?».«Scemo chi si lascia corrompere per una colazione!» ribatté prontamente

alzandosi e allungando cinque sterline alla ragazza. Entrambi risero divertiti. Matt constatò con sollievo di essere riuscito a sciogliersi un po' dopo la tensione delle ultime settimane.

Riaccompagnò il collega in laboratorio, quindi tornò ai piani alti. Non in chirurgia generale, bensì in terapia intensiva.

Sulle sedie nere in fondo al corridoio erano accomodate di verse persone, tra cui l'instancabile sorella Daultry. Evidentemente incapace di contenere più a lungo lo stress accumulato in quei giorni, la ragazza giocherellava nervosamente con una lima per le unghie. Quando vide Matt si affrettò a buttarla nella borsetta arrossendo leggermente e gli si fece incontro: «C'è un medico dentro, è lì da tipo venti minuti e io sto pregando in aramaico».

«Ergo sarebbe carino che andassi a vedere cosa dice».«Già... la faranno santo».«Troppi San Matthew... dovrei chiamarmi Socrate per essere originale».La ragazza sorrise e lo fissò con uno sguardo carico di ammirazione e di

speranza: era una delle migliori persone che avesse mai conosciuto. Tornò ad occupare la seggiola che le era ormai familiare.

Quando Matt entrò nella stanza, un collega di otorinolaringoiatria stava armeggiando con la macchina attaccata a Chelsea. Si avvicinò con passo felpato per non comprometterne la concentrazione. Si fermò in silenzio ai piedi del letto.

«Ciao!» disse infine il medico alzando lo sguardo dal monitor.«Come andiamo?» domandò il dottor Holland chinandosi a sua volta sullo

schermo.«Credo che ormai sia inutile darle altri sedativi. La sofferenza è diminuita, il

corpo in qualche modo sta reagendo e, soprattutto, respira autonomamente. Tu che ne pensi?».

Osservò per qualche altro istante i dati sullo schermo, quindi diede un'occhiata alle note che il collega aveva fatto sulla cartella clinica. «Sono assolutamente

d'accordo, credo che per lei sia il momento di lottare da cosciente. Ti dispiace se sto io qua? Non sono di turno, mentre tu immagino di sì».

Il medico si illuminò: aveva ancora un sacco di visite da fare, ma gli sarebbe dispiaciuto lasciare sola quella giovane e debole paziente. «La lascio in ottime mani, allora!» concluse dirigendosi verso la porta. Non sapeva perché Holland tenesse così tanto a quella ragazza, e francamente non gli interessava molto, solo che qualche volta era tentato di dare credito alle voci che lo definivano... beh, se non proprio pazzo, quanto meno strano. Poi lo vide assorto su quella macchina, deciso, preciso, bravissimo. Era un medico assolutamente in gamba e questo bastava, tutto il resto non lo doveva riguardare. Gli lanciò un'ultima occhiata, quindi si richiuse la porta alle spalle.

Matt calcolò che l'effetto del sedativo sarebbe durato probabilmente un'altra mezz'ora. Erano appena le otto e tre quarti, non gli costava nulla fermarsi lì per la mattinata. Uscì dalla stanza per fare cenno alla maggiore delle Daultry di raggiungerlo.

Lei, che teneva lo sguardo fisso sulla porta, lo vide immediatamente e si precipitò nella sua direzione. Il panico le attanagliò lo stomaco: come stava sua sorella?

«Vuoi venire dentro? Tra poco si sveglia».La ragazza prese un profondo respiro e si sciolse in un sorriso: «San Socrate

Holland...».«Da Berkeley...» precisò lui ridendo.L'infermiera le portò guanti e mascherina. Allison raggiunse il capezzale della

sorella, finalmente le parve di vederla più serena del solito, come se sentisse che tra poco si sarebbe risvegliata. La abbracciò con lo sguardo, il loro legame indistruttibile era divenuto ancor più forte dopo quella sgradevole esperienza e tutta l'angoscia di perderla. Chelsea sembrava un angelo, i capelli biondi spuntavano parzialmente fuori dalla cuffia, il volto pallidissimo ma magnifico. Solo in quel momento Allison si rese conto di aver temuto il peggio, da sempre, ad ogni ora che scorreva senza novità.

I minuti presero a scivolare via lenti. Lei non staccava per un attimo gli occhi dalla sorella, Matt teneva la schiena appoggiata al davanzale della finestra, le braccia incrociate e gli occhi fissi nel vuoto. Forse ce l'avrebbe fatta, forse ce la stava già facendo. Con Luke aveva miseramente fallito, ma non avrebbe permesso che accadesse lo stesso con Chelsea, ora era certo di poterci riuscire.

«Le Olimpiadi sono andate, vero?» domandò Allison all'improvviso.Matt staccò gli occhi dalla parete su cui li aveva puntati e la guardò: «Purtroppo

sì, ma suppongo sia di gran lunga il male minore». Lei si rese conto di non essersi saputa spiegare. Sospirò. «Lo so, per noi è così,

ma lei ne sarà distrutta».«E tu sarai bravissima ad evitarlo».Allison si scostò dalla faccia una ciocca di capelli con il dorso della mano e lo

guardò con speranza; lui si limitò ad annuire lasciando che mille pensieri fluttuassero nell'aria senza bisogno di parlare.

Poco a poco Chelsea iniziò a muoversi. Dapprima si divincolava come volesse uscire da un incubo, poi fu in grado di aprire gli occhi, ma lo sguardo era vitreo: non aveva ancora ripreso completamente conoscenza.

Matt la raggiunse in pochi passi, le afferrò con delicatezza ma decisione il polso sinistro per evitare che con il movimento staccasse la flebo e la pinzetta che la collegava alla macchina. Si sentì un debole lamento provenire dalla gola della ragazza. Finalmente il suo sguardo assunse un'espressione di totale smarrimento. Provò a parlare, ma il suono che emise fu rauco ed incomprensibile.

«Shshshshsh... non parlare, è tutto a posto. Comunichiamo a gesti, ok?» le disse Matt mentre le accarezzava la mano.

Lei lo guardò e sembrò ricordarsi di quello che era successo, gli occhi le si velarono di lacrime. Fu più forte di lei l'impulso di parlare. Di nuovo non ci riuscì.

«Ehi... tranquilla, tranquilla. Ascoltami: se parli la gola ti fa più male, non credo sia gradevole. Andiamo con calma: scommetto tu voglia sapere cos'è successo».

Lei annuì debolmente.«Hai avuto una crisi respiratoria gravissima, adesso va tutto bene. Guarda un po'

alla tua destra...».Chelsea roteò gli occhi e vide la sorella. Non fu più capace di trattenere i

singhiozzi, ma riuscì a non parlare.«Io vado, vi lascio sole, mando un'infermiera per la medicazione» disse lui ad

Allison.Lei gli rivolse un sorriso pieno di gratitudine e tornò a concentrarsi sulla sorella

ancora in lacrime. Le spettava un compito difficile — da qualche anno spettavano tutti a lei — però il fatto che Chelsea continuasse ad esserci era l'unica cosa che contava, nessuna stanchezza, nessuna frustrazione potevano superare questa gioia.

Matt si recò nuovamente nello studio. Per un attimo sperò di trovare sulla

scrivania la busta formato maxi del laboratorio di analisi del Royal London Hospital, poi si rese conto che effettivamente era troppo presto anche solo per immaginare di prendere in considerazione l'ipotesi. Grawl, però, poteva aver risposto. Mosse il mouse per riscuotere il computer dallo standby: la facciata del Royal London Hospital era sempre imponente. Cliccò sull'icona del browser, poi il sito dell'account personale di posta, non il dominio dell'ospedale, non quello dell'università di Cambridge. I nuovi messaggi erano due: il primo un articolo di politica dal titolo interessante che gli aveva inoltrato Keith, l'altro la risposta di Grawl.

Caro Matt, è sempre un piacere sentirti. Penso che dovremmo tenerci in contatto più spesso.

I dati che mi hai riportato nella mail sulla base dei quali riflettere erano parecchi e in effetti tre casi anomali con la piscina come comune denominatore non sono affatto da sottovalutare. Naturalmente sai che avrei bisogno di vedere le cartelle cliniche per darti un parere concreto, comunque prometto che penserò e mi informerò.

Probabilmente non è la risposta che ti aspettavi, ma una cosa te la posso dire: la storia ha una brutta cera, sta' attento.

Aggiornami, lo farò anch'io.A presto, S. Grawl Già, non era la risposta che si aspettava. E forse era anche

stupido non aspettarsi la risposta che aveva ricevuto perché era ovvio che sulla base di una mail scritta di getto un medico non potesse mettersi a fare supposizioni convincenti, ma lui era il professor Grawl e il professor Grawl doveva avere una

risposta a tutto.Ma a quanto pareva no.Rispose con un breve ringraziamento, quindi tornò a pensare: "La storia ha una

brutta cera, sta' attento". Era più o meno la frase che Larry gli aveva chiaramente scandito pri ma di lasciarlo partire da Teignmouth e constatò che, se due persone che non si conoscono dicono la stessa cosa, allora ci deve essere un fondo di verità.

Sulla barra di ricerca scrisse Hyper Synthesis Scientifics, deciso a farsi un giretto serio sul sito ufficiale della casa farmaceutica. Il link ai nuovi prodotti era ben visibile sulla home page. Lasciò che il sistema caricasse.

Lo squillo del telefono, tuttavia, non gli diede il tempo di leggere i nomi dei prodotti che la Hyper Synthesis Scientifics aveva recentemente lanciato sul mercato. Si stiracchiò prima di rispondere.

Dall'altra parte dei singhiozzi. Per una frazione di secondo pensò a Nancy, ma per qualche motivo era certo che non si trattasse di lei.

«Matt?» disse una voce di donna rotta dal pianto."Le donne di tutto il mondo hanno bisogno della mia spalla su cui piangere in

questo periodo?".«Sì, chi parla?».La donna si schiarì la gola.«Rose...» balbettò infine.Lui si drizzò sulla sedia, le dita strette intorno alla cornetta. «Ehi, cosa c'è? Hai

bisogno di un giorno di permesso? Ti serve aiuto?».«Vieni a casa tua prima che puoi, ti prego!» riuscì a rispondere lei.«Ok, ti raggiungo subito». Per la testa gli passava tutto e niente. Non aveva la più

pallida idea di cosa potesse essere successo. Se non avesse avuto a che fare con situazioni di emergenza praticamente ogni giorno, era certo che si sarebbe lasciato prendere dal panico. Si sfilò il camice, lo buttò sulla sedia, spense il computer direttamente tramite l'interruttore della presa di corrente, raccolse le poche cose sparse sulla scrivania. Il corridoio era affollato, ma lui era più agile della folla e raggiunse in fretta l'ascensore. Non aveva tempo di dire a qualcuno che se ne stava andando — tanto più che il suo turno era finito ormai da ore.

Con uno scossone, l'ascensore si fermò al piano terra. Matt si precipitò oltre la porta d'ingresso, di corsa in strada. Valutò il traffico: troppo per prendere l'automobile, l'avrebbe recuperata più tardi. Attraversò sfruttando un semaforo verde e in pochi istanti si trovò nella fermata della metropolitana di fronte al Royal London Hospital. Passò la sbarra infilando l'abbonamento nell'apposita macchina e si trovò sulla piattaforma insieme a svariati capannelli di turisti. Non si prese la briga di osservare i tre italiani che, zainetto in spalla e macchina fotografica in mano, erano appena stati a visitare il Royal London Hospital. Ancor meno gli interessava la coppietta di orientali che si scambiava appassionate effusioni incurante degli sguardi di tutti gli astanti.

La metropolitana arrivò dopo un paio di minuti. Ne scese molta gente, altra ne salì. Matt si fiondò dentro facendo lo slalom fra i passeggeri. Si tenne vicino alla porta, dato che avrebbe impiegato solo due fermate a raggiungere la propria meta e aveva una gran fretta di arrivarci.

Il convoglio ripartì con uno scossone, acquistò immediatamente velocità.Cinque minuti dopo Matt si trovò incastrato tra la gente in fermento nella nuova

fermata. Riuscì ad uscirne e, guadagnata la superficie, iniziò a correre verso casa. Era distante, maledettamente distante, pensò che non ci sarebbe mai arrivato. Eppure credeva di abitare vicino ai punti strategici... In quella situazione settecento metri potevano fare la differenza, lo sapeva. La borsa pesava in spalla benché non contenesse il computer. Si ricordò dei due grossi volumi che erano rimasti dentro da quando si era messo a studiare approfonditamente il caso di Luke. Beh, era troppo tardi, doveva trascinarseli dietro. Spesso evitò per un filo di scontrarsi con gli occupanti del marciapiede; i più collaborativi si spostavano da soli, quelli che non lo erano gli rivolgevano sguardi perplessi.

Incurante di tutto ciò, si infilò nella propria via: mancava poco. Quando vide la propria palazzina color giallo scuro, tuffò la mano in borsa per recuperare le chiavi. Il cancelletto era aperto. Infilò la chiave più piccola nella toppa del porton-cino, che scattò con un forte clic. Lo spinse e fece i gradini ad ampie falcate.

Sull'ultimo scalino, davanti alla porta dell'appartamento, stava seduta una donna di corporatura massiccia. Teneva il viso tra le mani puntate sulle ginocchia, i capelli rossi scarmigliati. Singhiozzava debolmente.

Matt si chinò e la prese per una spalla: «Ehi, Rose, sono qui, che c'è?».Lei sollevò il volto rigato di lacrime, i grandi occhi verdi smarriti.«Vieni, parliamo dentro» concluse prendendola per il braccio.«No, non entrare!». Era scattata in piedi all'improvviso e si era parata davanti alla

porta.Lui sospirò, ora più allarmato che mai.«Forza, cos'è successo?». Tentò di spostarla con gentilezza dall'ingresso, ma il

corpo robusto glielo impedì.«Lui... è... io...». Finalmente si scostò dalla porta e lo lasciò passare.Matt aprì. Cadde in ginocchio. Gli erano bastati un respiro e uno sguardo rapido

per capire tutto, l'ultima cosa che si sarebbe mai aspettato.Sul pavimento del salotto, su cui l'ingresso accedeva direttamente, stava disteso

Bob, inerte. Il tanfo della morte aleggiava già nell'aria.Capiva, sapeva di capire, ma non riusciva a realizzare. Bob lungo e disteso,

immobile, e tanto sangue intorno a lui. Rimase a fissarlo per lunghi minuti prima di decidersi ad avvicinarsi. Infine lo fece: si alzò e andò a constatare il massacro. Bob era adagiato su un fianco, le zampe torte in posizione innaturale, il pelo intriso di sangue. Matt ebbe il coraggio di scuoterlo, ma fu costretto ad appoggiarlo nuovamente a terra appena il rivolo di sangue gli lambì le mani. Solo allora notò la gola tagliata da cui era sgorgato il sangue. Per alcuni secondi gli mancò il fiato. Come? Chi? Perché? Il suo cane... la sua compagnia quotidiana degli ultimi otto anni... il suo Bob... Se non avesse sofferto come un dannato nel corso della sua vita, sarebbe scoppiato a piangere per il dolore e soprattutto per la brutalità con cui gliel'avevano ammazzato.

"Maledetto, chiunque sia stato è un bastardo!" si urlava nella testa. Accarezzò il bel pelo sabbia del suo Bob, conscio che quella sarebbe stata l'ultima volta. Anche lui l'aveva abbandonato, troppo ingiustamente, troppo crudelmente, troppo presto,

come tutti gli altri, del resto. Trovò la forza di alzarlo di qualche centimetro da terra e abbracciarlo — almeno in quel caso poteva dare un ultimo saluto.

«Chi... è... stato?» fu la voce di Rose a riscuoterlo dallo stato di paralisi.Si girò adagiando Bob nuovamente sul pavimento: «Non lo so...». Il volto della

donna era pallido, la mascella stretta, le braccia distese lungo i fianchi terminavano nei pugni serrati. Indugiò su di lei per qualche istante con sguardo vacuo, quindi tornò a fissare Bob prima di riuscire a recuperare l'autocontrollo. Avrebbe avuto tutto il giorno per riflettere, ora bisognava pensare a portarlo fuori da lì, ripulire tutto e, priorità assoluta, tranquillizzare Rose i cui problemi di cuore non andavano sollecitati.

«Non ho mai visto tanto sangue...» balbettò lei mentre Matt le passava il braccio intorno alla vita per condurla in cucina. Lo seguì docilmente, il volto smarrito come una bambina.

Matt aveva le mani piene di sangue, la maglietta pure. Indossò un paio di guanti in lattice per evitare di sporcare tutto ciò che toccava; avrebbe pensato più tardi anche a disinfettarsele. Riempì un bicchiere d'acqua e lo porse davanti a Rose con un sorriso d'incoraggiamento.

Lei lo fissò prima di afferrare il bicchiere: «Devo... pulire... tutto... subito...».«No, no, ci penso io, per oggi hai già fatto abbastanza. Ti porto a casa, ok?».«Ma... e... pranzo? E il pavimento?».Lui sospirò: «Il capo dice che adesso vai a casa».Lei annuì debolmente, i pensieri si accavallavano confusamente nella testa. Erano

tantissimi anni, venticinque, no, trenta, sì, forse trenta; erano trent'anni che non vedeva così tanto sangue, tutto assieme. Quel pomeriggio di pioggia, lei, suo fratello, la macchina, l'altra macchina... erano tutti ricordi che aveva relegato lontano dall'area di memoria quotidiana, ma le era tornato tutto su all'improvviso. Calde lacrime tornarono a solcarle le guance.

Matt la guardava appoggiato al bancone, il cordless in mano. Solo dopo molti

squilli ricevette risposta.«Ciao, sono Matt. Bob è morto, puoi raggiungermi quando hai tempo?» chiese

tentando di mantenere una voce composta. Mentre ascoltava il veterinario dire che era estremamente dispiaciuto — "Per i soldi!" pensò in un moto di rabbia — e gli dava appuntamento dopo un'ora, incominciò a pulirsi le mani con il disinfettante. Gliene servì parecchio prima di ottenere il risultato desiderato. Una nuova maglietta addosso, tornò da Rose ancora inebetita con lo sguardo fisso nel vuoto: «Hai la macchina?».

Di nuovo la donna assentì con un cenno della testa.«Vieni con me, allora...» la incitò prendendola sotto braccio.Ancora una volta lei seguì docilmente, facendosi condurre attraverso il salotto

che si costrinse a non guardare.Matt fece altrettanto, ma non poté fare a meno di notare qualcosa con la coda

dell'occhio; tra le chiazze di sangue una parola era distinguibile: "CIAO".Il sangue gli si gelò nelle vene, il cuore incapace di battere per qualche istante.

Potevano essere stati loro, di nuovo loro, dopo Nancy anche questo? Ma certo che erano stati loro! E quello voleva essere un avvertimento a regola d'arte.

"Bastardi, bastardi, bastardi!". Non volle urlarlo, Rose era già abbastanza scioccata. La spinse fuori dalla porta sperando con tutto il cuore che non avesse visto. Ora era in grado di dare un nome, un significato al presentimento che aveva avuto dal momento in cui la domestica gli aveva telefonato piangendo. Sentiva che c'entravano loro, quei bastardi che già gli avevano rovinato la vita anni prima. Non si prese la briga di chiedersi come avessero fatto ad entrare in casa — uomini simili non avevano bisogno di bussare e chiedere il permesso.

Tentò di ricomporsi mentre saliva alla guida dell'auto di Rose. Lei continuava a tenersi il viso fra le mani e Matt pensò che forse aveva visto, aveva visto quel maledetto saluto; solo questo poteva spiegare lo stato di shock. Ma non poteva preoccuparsene che relativamente, tutto il resto del casino ora era in primo piano.

Dopo un'ora circa l'ordine era ritornato in casa Holland. Il veterinario era passato a prendere ciò che rimaneva di Bob per stabilire se fosse morto a causa del taglio alla gola oppure avvelenato. Matt sperava vivamente nella seconda opzione, non poteva sopportare il pensiero delle atroci sofferenze a cui poteva essere stato sottoposto il suo fedele compagno degli ultimi anni. Il veterinario l'aveva anche aiutato a pulire, una sorta di ultimo omaggio al labrador crudelmente ammazzato.

Ora aveva finalmente trovato il tempo di pensare benché pensare facesse male. Larry aveva ragione, Grawl aveva ragione, il suo istinto aveva ragione: insomma, tutti avevano ragione, ma lui era sempre stato troppo testardo per non fare quello che gli sembrava giusto. E ora più che mai aveva intenzione di andare a fondo della storia, alla ricerca di quella verità che la Hyper Synthesis Scientifics voleva evidentemente nascondere ad ogni costo.

Si diede una leggera spinta sulla sedia girevole per poter vedere lo schermo del computer. Aveva bisogno di riordinare le idee e per farlo doveva lavorare: doveva finire un articolo per Cambridge che aveva cominciato da un pezzo e mai terminato, gli appunti dell'ultimo convegno a Parigi, guardare con calma la lista dei nuovi prodotti della casa farmaceutica. Ma in primo luogo aprì la casella di posta elettronica, gesto ormai rituale subito dopo l'accensione del pc.

Il messaggio in arrivo era solo uno questa volta, uno, quello che non avrebbe mai e poi mai voluto vedere.

Da: Amico Simpatico Oggetto: Piacere di conoscerti!Caro dottore, bellina la tua faccia di questa mattina dopo aver visto il cane...

perdonerai, ma la drammaticità faceva abbastanza ridere. E anche la cicciona era abbastanza traumatizzata... tutt'e due tosti, niente da dire!

Ma ora passiamo a noi: vuoi fare il brillante, e su questo non abbiamo dubbi. La brillantezza, però, va opacizzata ogni tanto.

1. La tua segretaria troia.2. Il cane rognoso. 3. TUA FIGLIA.La vista gli si annebbiò, una fitta alla testa assurdamente potente. Tutto prese a

girargli intorno, il mondo ovattato a miglia di distanza. Continuò a leggere con quella che gli parve pura forza della disperazione.

3. TUA FIGLIA.3. TUA FIGLIA.

3. TUA FIGLIA.Indugiò sul terzo punto dell'elenco forse per una forma di acuto autolesionismo.Riprese a leggere: Sorpresa?! Sappiamo chi è: Danielle, giusto? Oh che bel

nome... chi gliel'ha dato, tu o il padre finto?Dottore: va' avanti con quello che stai facendo e la tua giovanotta viene in

villeggiatura da noi.Sono convinto che ci risentiremo presto.Ah, dimenticavo: è un piacere aver fatto la tua conoscenza, salutami Danielle!«No, lei no, bastardi!» urlò accasciandosi sulla scrivania. Provava talmente tante

emozioni che non avrebbe saputo distinguere semmai ci avesse prestato attenzione. Ma non aveva intenzione di farlo. Erano passati diciotto anni dall'ultima volta in cui aveva pianto e a volte avrebbe desiderato potersi sfogare con le lacrime, tuttavia non ne era mai più stato capace, mai più. I pensieri vorticavano a migliaia, nessuno collegato da un senso logico. Li lasciò andare per istanti indeterminati.

Alla fine un bagliore di razionalità iniziò a farsi strada nel tumulto. Si drizzò con molta lentezza sulla sedia.

Non siete altro che un branco di subdoli bastardi che hanno bisogno di ricattare la gente per evitare che la loro merda sia scoperta.

Il Dottore Scrisse di getto ed inviò. Un motto di rabbia lo invase quando apparve

per una volta, due, tre la schermata di errore: non era possibile inviare il messaggio all'indirizzo inserito nel campo del destinatario.

«E siete più pisciasotto di quanto credessi! Perché non volete il confronto diretto?».

Mentre urlava, stringendo con quanta forza aveva in corpo le dita intorno al bordo della scrivania, si ricordò di qualcosa che gli aveva raccontato qualcuno, forse Keith, o forse no, a proposito degli account e-mail istantanei: "utilissimi per disiscriversi dai social network come Facebook" gli avevano spiegato, non suscitando in lui particolare interesse. Eppure in quel momento tutto tornò a galla, il fatto che esistessero domini che permettevano di creare indirizzi validi per un minimo di dieci minuti e un massimo di ventiquattro ore, a seconda del sito. O forse era ancora qualcos'altro, qualche altro metodo schifoso che quegli esseri stavano usando per prendersi gioco di lui.

Rivolse di nuovo lo sguardo allo schermo, il messaggio era scomparso."Pure messaggi che si cancellano da soli, questi bastardi!" pensò stringendo i

denti. Non poteva credere a quello che stava succedendo, non voleva farlo. Gli stava crollando tutto addosso e... il solo riflesso del pensiero che potesse c'entrare Danielle... batté un pugno sulla scrivania.

Fermo, per lunghi secondi, la testa vuota perché troppo piena di cose varie che si accavallavano. Gli occhi sbarrati, guardò quasi per caso lo schermo: un altro messaggio.

Da: Amico di M. Holland Oggetto: In gamba!Ehi, amico, ci aspettavamo esattamente questa reazione, sei stato bravissimo! Sai

che sei un padre modello? Beh, certo, il fatto che tua figlia non sappia i sacrifici che stai facendo per lei e non li possa apprezzare... deve essere assai frustrante, ma potrai rifarti magari scrivendo un'altra storiellina che farà il giro del mondo come quella di

qualche anno fa. Ora: ci aspettiamo che ti comporti esattamente come puoi immaginare che a noi piaccia e confidiamo nel tuo spiccato senso del dovere.

Intanto un caro saluto dai tuoi nuovi amici.Sapeva perfettamente ciò a cui andava incontro, comunque decise di provare a

rispondere. Non ottenne risultato, i bastardi evidentemente erano informatici più che esperti. Spense il computer con un calcio al case, che muovendosi fece staccare la spina. Non sapeva se fosse meglio pensare oppure no. Pensando non risolveva nulla, non pensando ancor meno. Si abbandonò sul tavolo per qualche istante, ma non gli era possibile stare fermo, controllarsi, non tradire la rabbia massiva che gli scorreva nelle vene. Se ne andò in camera; nel cassetto del comodino una bottiglietta di vetro spesso. Aveva bisogno di dormire, subito, senza pensieri. Non era tipo da affrontare così i problemi, ma non era nemmeno tipo da cacciarsi in casini simili. Inghiottì qualche goccia e si appoggiò sul cuscino.

Il torpore cominciò immediatamente ad espandersi in tutto il corpo. Poi qualcosa, lontano, forse il telefono. O forse lo stava immaginando! Uno squillo, due, tre... no, non lo stava immaginando. Scattò in piedi prima che il sonno prendesse il sopravvento. Potevano cercarlo in ospedale, potevano aver bisogno di lui e i suoi pazienti erano l'unica cosa che gli interessasse in quel momento. A parte, beh...a parte Danielle. Fu scosso da un moto di rabbia mentre si trascinava in cucina. Prima di rispondere, si strofinò gli occhi per recuperare un poco di lucidità. Infine afferrò il cordless, il numero sconosciuto: «Pronto!» rispose con voce impastata di sonno.

«Dottor Holland?». La voce era quella di una giovane donna, bassa e velata di tristezza.

Matt fece una smorfia nel solo tentativo di pensare a cosa potesse essere successo questa volta. «Sì, sono io. Chi parla?».

«Sono la signora Mason, la madre di Luke».Lui rivide il ragazzo morto, il volto tumefatto. Premette il palmo aperto sul

bancone.«Ecco... io...». La voce le si spezzò. «Ecco... domani c'è il funerale di Luke e mi

farebbe piacere che ci fosse anche lei, dopo tutto quello che ha fatto per me e mio figlio».

"E dopo che ho messo nei casini la mia di figlia!" gli suggerì la parte di sé ferita. Non la ascoltò.

«D'accordo, ci sarò. Grazie per avermelo detto» rispose dopo aver preso nota delle indicazioni sul luogo e l'orario delle esequie.

Portando con sé il cordless, raggiunse a fatica la camera al limite della sopportazione del sonnifero. Si buttò sul letto: ora il medicinale poteva agire in tranquillità.

Era ormai pomeriggio tardo, il sole quasi completamente scomparso dietro all'orizzonte. Una certa afa incombeva ancora sulla capitale britannica.

Matt si svegliò. Si sentiva malissimo: il mal di testa era tornato acuto come qualche giorno addietro, la schiena indolenzita per la pessima posizione in cui si era addormentato, e ovviamente i pensieri che gli pungevano il cervello come centinaia di aghetti impossibili da staccare. La situazione era più chiara e nel contempo più complicata rispetto a quando si era addormentato. Il concetto era molto semplice:

abbandonare tutto quello che stava facendo, tutto ciò in cui credeva e aveva sempre creduto, per salvare sua figlia oppure sfidare quegli psicopatici della Hyper Synthesis Scientifics? Polizia? Ovviamente improponibile. In primo luogo non avrebbero dato ascolto a lui, semplice cittadino privo di qualsiasi credenziale. E pur ammettendo che qualche buona anima gli avesse creduto, non aveva alcuna prova per incriminare la casa farmaceutica. Aveva le mani legate: o faceva come dicevano loro o faceva come dicevano loro. Eppure doveva esserci una soluzione! Aveva giurato che avrebbe fatto di tutto per salvare tutte le vite possibili, e all'etica professionale si aggiungeva un notevole senso morale. Però... verissimo che tutti i ragazzi che aveva visto quel pomeriggio in piscina erano preziosi, preziosissimi, ma sua figlia lo era di più. Gli vennero i brividi al solo pensiero che le potessero fare del male. E i genitori degli altri ragazzi non provavano forse la stessa voglia disperata di avere accanto a sé per sempre i loro figli? Era un egoista, non era nient'altro che un egoista. Ma egoista sarebbe stato anche permettere che si avvicinassero a Danielle per causa sua.

Aveva un assoluto bisogno di parlare con Larry, subito. Allungò il braccio verso il comodino e fece per comporre il numero, poi si ricordò della meticolosa sorveglianza: quei bastardi avevano di certo messo sotto controllo il telefono. Si ricordò del messaggio della mattina. Forse la cosa migliore era andare a Brighton, sincerarsi che Danielle stesse bene e passare con lei qualche ora prima di prendere qualsiasi decisione. Aveva un bisogno disperato di capire quanto si sentisse legato a lei, benché fosse già certo di amarla più di qualsiasi altra cosa al mondo. L'aveva sempre amata, aveva sempre sentito la sua mancanza, e ora che lei era lì a pochi chilometri di distanza non poteva fare nulla, anzi, doveva restarle lontano per non rischiare di coinvolgerla. Certo che la vita era proprio una beffa!

Si alzò e andò nello studio. Compilò in fretta due ricette di antidolorifico per i problemi alla spalla di Michelle, quindi pronto per uscire. Non aveva alcuna voglia di portarsi dietro il cellulare, tanto anche quello era sorvegliato di sicuro. Raccolse piuttosto il cercapersone che era caduto a terra e lo infilò in tasca per essere disponibile se lo avessero voluto al Royal London Hospital. Prese anche una felpa se per caso a qualcuno fosse saltato in mente di cenare in spiaggia e uscì. Una certa malinconia nel constatare che Bob quella sera non l'avrebbe seguito, non lo avrebbe mai più seguito nelle sue trasferte e non si sarebbe nemmeno mai più infastidito per la scarsa sopportazione dell'automobile. Salì. La tristezza aumentò quando, mentre i Nirvana accompagnavano il suo viaggio con Smells like teen spirit, non c'era nessuno dietro a guaire, arrabbiato perché la voce di Cobain o la batteria di Grohl erano troppo potenti per le orecchie. Niente di tutto ciò e questa volta arrabbiato era lui. Iniziò a cantare a squarciagola per liberare le emozioni che lo stavano sopraffacendo.

14

Danielle stava tirando fuori i piatti dalla lavastoviglie. Michelle stava preparando i gamberetti al burro — la prima volta in cui sperimentava la ricetta — ed era troppo concentrata per prestarle attenzione. Quel primo giorno di lavoro era andato un gran bene. Jay era molto simpatico e Pattie le aveva pure anticipato parte dello stipendio, soldi con cui per ora aveva comprato una sportiva t-shirt blu e un completo felpa-canottiera rosso e attillato. Ora, con una camicia dismessa di Michelle, che sembrava un vestito più che altro, stava piegata sulle stoviglie appena lavate. Era contenta, ma non era riuscita a togliersi di dosso la sgradevole sensazione che le aveva procurato l'incontro con quel tizio italiano. Era... beh, era disgustoso. Non sapeva perché, ma le dava l'idea di essere una persona viscida, da cui stare alla larga. Ne aveva provato paura, sì. Eppure era abituata a girare anche sola per le strade di Roma non percependo mai questo fastidioso sentimento di sfiducia, di imbarazzo, di voglia di scappare. Con la coda dell'occhio, intravide il forno a microonde. Money for nothing fu la prima canzone che le venne in mente: la iniziò a canticchiare. Faceva sempre così quando aveva bisogno di distrarsi. Si ricordò di quando, da piccola, doveva andare in bagno da sola ma il corridoio era buio. E allora, finché arrivava all'interruttore della luce del bagno, cantava a squarciagola per combattere la paura, i possibili fantasmi, vampiri o mostri di qualsiasi genere che si potevano nascondere negli angoli e saltare fuori all'improvviso. Sorrise senza rendersi conto che la tecnica aveva funzionato anche ora, ad anni di distanza: la preoccupazione per lo spiacevole incontro della mattina superata, almeno per il momento.

Una voce catturò la sua attenzione: Keith stava parlando con qualcuno.«Ma allora è arrivato! Rispondere mai però, spreco di soldi! Che poi perché non

ho sentito il rumore della macchina...» borbottò Michelle rinfilando il pacchetto di burro nel frigo.

"Ah già, Matt!" pensò Danielle. Non si sforzò troppo di mentire a se stessa per reprimere il piacere provato nel ricordarsi che il medico sarebbe stato a cena con loro. Infilò l'ultimo piatto nel ripiano e uscì dalla porta-finestra seguita da Michelle.

«Oggi hai una faccia più brutta del solito!» stava dicendo Keith quando le due donne li raggiunsero.

Matt non rispose.«Poca voglia di scherzare stasera, cugino?» continuò l'uomo battendogli un

pugno sul braccio.«Già. Non ci crederai, ma sono disposto a subire le tue ca-volate».«E Bob? Contavo sul fatto che...» domandò Danielle dopo averlo salutato.Lui la interruppe protendendo il palmo aperto rivolto verso terra: «L'hanno...

ucciso» scandì con disgusto.Gli altri tre arretrarono di qualche centimetro scambiandosi un'occhiata turbata.«Già. A quanto pare ai vicini non stava troppo simpatico e...» incrociò le braccia

sul petto in segno di rassegnazione.

«No... Bob...» mormorò la ragazza, lo sguardo basso.«Mhm...» fece lui. Sentiva forte l'impulso di vomitare tutto lo schifo che provava

per la situazione che si era creata, ma naturalmente non avrebbero capito e, anche in questo caso, non avrebbero potuto fare nulla. Tacque in attesa che qualcuno dei padroni di casa si muovesse verso qualsiasi direzione, bastava che si muovesse per evitare che il silenzio imbarazzante continuasse.

«Ehm... beh, i gamberetti» fu Michelle a porre fine alla pausa.Matt cacciò di tasca le ricette: «Erano queste?». Gliele allungò sforzandosi di

sorridere con naturalezza.«Grazie, indiscutibilmente il mio medico preferito!» rispose la donna dandogli

una pacca sulla spalla e spingendolo verso l'interno.La brezza marina si era alzata, piuttosto forte, troppo fresca per godersi la cena in

spiaggia. I quattro amici si sedettero dunque intorno al tavolo della cucina, un piatto di gamberetti fumanti e profumati davanti a ciascuno. L'atmosfera non era delle più allegre, ma la conversazione procedeva fluidamente. Matt era riuscito ad indossare la maschera più impassibile di cui fosse capace, lasciando che quel velo di inquietudine che non riusciva a nascondere venisse classificato come malinconia per il fedele compagno barbaramente ucciso. Ogni volta che guardava Danielle, però, veniva pervaso da un moto di rabbia e sgomento, quasi impossibili da controllare. No, a lei non avrebbero fatto del male, mai, lui non l'avrebbe permesso.

«Vi saluta Federico!» esclamò lei d'un tratto rimettendosi in tasca il cellulare.Matt ripensò a quel ragazzo che la guardava con occhi adoranti. Forse anche lui

all'epoca si comportava allo stesso modo con Roberta. Peccato solo che quest'ultima ci si fosse pulita le scarpe con quello sguardo adorante. Era certo che Danielle non l'avrebbe fatto, evidente da come le brillavano gli occhi mentre parlava di lui con Michelle.

«Perché non torni in Italia?». Si accorse di averlo chiesto quando ormai era troppo tardi. Glielo aveva domandato e nemmeno ci aveva pensato: l'istinto, il conflitto continuo di emozioni, la paura, sì, in fondo c'era molta paura annidata che sperava di combattere allontanandola da lì, dal campo di battaglia.

Lei si irrigidì e gli rivolse uno sguardo indecifrabile. «Non posso e non voglio» rispose infine d'un fiato con voce piatta.

"Idiozia!" si disse lui.«A trovare Federico, intendo. Mi aveva raccontato che di tanto in tanto avreste

fatto così». Abile oratore, lo era sempre stato; era riuscito a mentire, o meglio, a girare la situazione con sufficiente credibilità.

Lei si rilassò. Infine sorrise: «Sì, infatti, dovrei, ma mi sa che torna lui qui».Lui annuì sorridendo.«Sai, Michelle mi ha trovato pure un lavoro e...».Le rivolse uno sguardo incuriosito: sua figlia era appena arrivata in Inghilterra e

si era messa subito a lavorare... era fiero di lei. «Ti ricordi di Pattie?» intervenne Michelle.Lui di nuovo: «Il Woodstock... gran bel posto!».«Già. Poi non posso andare in Italia perché devo andare a Liverpool, no?». Gli

lanciò un'occhiata allusiva.

Lui si sforzò di sorridere, ma di fatto ritornò alla cruda realtà: era andato a Brighton per fare qualcosa, qualsiasi cosa per allontanarla da lì. E Michelle invece andava a trovarle un lavoro... il destino era decisamente più furbo di lui. Con rassegnazione, infilzò un gamberetto e ascoltò il resto della conversazione.

Matt e Keith si trasferirono in salotto non essendo ben accetti aiutanti in cucina. La BBC snocciolava le ultime notizie dall'Inghilterra e dall'estero, ora in primo piano le immagini del G8 trasferito dalla Sardegna all'Aquila. I due cugini lo commentarono, piegando quindi su un animato discorso politico. Di tanto in tanto Matt aveva bisogno di strofinarsi gli occhi per cacciare gli ultimi residui di sonnifero che si era stupidamente imposto in dose massiccia. Reclinò la testa per appoggiarla allo schienale del divano, giusto un momento, solo per...

«Ehi Matt!».Qualcuno lo prese per un braccio e lo scosse. Impiegò qualche istante a mettere a

fuoco: Michelle. Scattò in piedi: «Oddio, devo andare!».«Dove?» domandò l'amica parandoglisi davanti. «Vuoi addormentarti in

macchina?».Lui scosse la testa: «Le donne hanno sempre ragione...».Salì al piano superiore, diretto alla stanza degli ospiti che aveva occupato

Federico, e urlò la buonanotte a Danielle, chiusa nel bagno piccolo.

15

Danielle uscì linda e rinfrescata dalla sua sessione serale di una ventina di minuti al bagno: doccia, denti, crema e capelli. Ma quella sera lo aveva fatto con particolare svogliatezza. I lunghissimi capelli le ricadevano sul pigiama di cotone bianco con la scritta "Goodnight" stampata in azzurro sopra il gatto persiano addormentato su una ciabatta. Era un regalo dell'estate precedente di zia Angela, qualcosa a cui Danielle era molto affezionata perché simile ad uno che sua madre le aveva comprato quand'era piccola. Anche quello fu un momento in cui pensò a Roberta, uno dei tanti. Si abbracciò per scacciare quel senso di solitudine che la prendeva ogni volta che la richiamava alla memoria. Stava lì, le braccia strette intorno al corpo. Dal piano di sotto giungevano le voci basse di Keith e Michelle, la BBC ancora in sottofondo. Danielle non era interessata al dialogo, non le piaceva spiare conversazioni, ma rimase ferma in mezzo al corridoio. Sì, perché alla solitudine ora si era aggiunta l'anestesia nel ripensare a Gabriele. Tutto così confuso, tutto così lontano... quei giorni in cui si fermava ad origliare dietro la porta del suo studio, dopo che avevano litigato, e lei si sentiva in colpa perché magari era stata troppo dura, troppo immatura, troppo... troppo o troppo poco qualcosa che non sapeva spiegarsi, ma temeva di essere. Lui, puntualmente, non la nominava nelle interminabili telefonate che faceva una dopo l'altra.

Si riscosse e compì gli ultimi passi per raggiungere la propria stanza. Abbassò con la punta delle dita la maniglia e si richiuse piano la porta alle spalle per evitare di disturbare Matt che dormiva nella camera accanto. Già, Matt. Gli aveva fatto una strana impressione quella sera, come fosse angosciato da qualche cosa. Non era solo triste per Bob, c'era qualcosa di più. Odiava gli psicologi, odiò pensarsi in quel ruolo ed evitò di continuare a farlo: era un uomo abbastanza adulto per prendersi cura di se stesso. Ma quella strana sintonia che li legava non poteva impedirle di sentire una certa inquietudine nel ripensare al suo volto teso. Inquietudine: era quella la parola del giorno. Era tutto così strano... le salì un brivido lungo la schiena nel ripensare all'italiano del negozio. Poteva giurare di non aver mai incontrato uno sguardo tanto insistente, una presenza tanto fastidiosa, imbarazzante. Era abituata a girare da sola per Roma — sì, magari non di sera, ma pur sempre sola — comunque non aveva mai sentito una minaccia simile. Non sapeva cos'avrebbe potuto fare se non ci fosse stato Jay. Era certa che sarebbero diventati ottimi amici. E poi Matt... Avrebbe potuto giurare che non era stanco, non triste, ma in qualche modo spaventato, preoccupato.

"Oddio, sto impazzendo!" si gridò. No, no, no, non era possibile che si mettesse ad analizzare lo stato d'animo di una persona che aveva visto tre volte in tutta la sua vita. Immancabilmente ripensò a Federico e alle sue parole: era ovvio che avesse ragione. La sua immagine la rasserenò per qualche istante, prese il cellulare e gli scrisse la buonanotte, ma prima di inviare non poté fare a meno di concludere di getto con: «Hanno ammazzato Bob». Era troppo tardi quando si rese conto che forse non era il caso di coinvolgere Matt nei discorsi con il ragazzo.

Si sforzò di mantenere davanti agli occhi l'immagine di Federico, il suo sorriso, il suo volto, ma quella maledetta presenza si insinuava sempre, una macchia nera vagante su una superficie luminosa. Era difficile non pensarci, impossibile scacciare la voce viscida, lo sguardo insistente dello sconosciuto. Si addormentò con un turbinio di pensieri ed emozioni.

16

Tutto luminoso, troppo. E caldo, e luminoso, e confuso. Un sole abbagliante sembrava infuocare tutto il cielo, l'afa densa come un muro di nebbia che impediva il procedere. Lei correva, correva il più possibile, i polmoni in fiamme, la ghiaia tagliente sotto i piedi, la spiaggia infinita davanti agli occhi. Sapeva che da qualche parte c'era una risacca, ci doveva essere, c'era sempre stata, ma ora non era in grado di sentirla e nemmeno le importava. Era attanagliata dalla folle paura. Non vedeva, non vedeva nient'altro che non fosse ghiaia o riverbero del sole. A lato del campo visivo il mare, ma era troppo lontano, anche quello. E le case... si rese conto di continuare a non vederle. Le case... dov'erano? Perché non comparivano? Le voleva, desiderava con tutta se stessa rivedere quella linea infinita di villette rosse tutte uguali fra loro. Ne voleva una in particolare, una con il giardino, quella in cui viveva. Le mancò il coraggio di girarsi per controllare se l'inseguitore fosse ancora lì o meno, sapeva che c'era, sperava solo di averlo distanziato di qualche metro. Non poteva sperare troppo, l'individuo era veloce, più di lei, ma continuò a correre per tante ragioni, perché lei non mollava mai, perché era trascinata dalla disperazione, perché l'ultima cosa che avrebbe mai voluto sarebbe stata finire tra le sue mani.

Poi un sasso più sporgente, l'equilibrio troppo precario. Cadde. Era finita, ormai era tutto finito. Si abbandonò sulla ghiaia, rassegnata, disperata, in attesa di qualcosa che sarebbe arrivato da un momento all'altro.

Arrivò: una mano la afferrò per l'avambraccio.«No!» urlò scattando a sedere.

17

Matt era tornato ad appoggiarsi alla scrivania. Dopo la scelta di arruolarsi nell'esercito, quello era il momento della sua vita in cui era più pieno di dubbi. Dubitava, in primo luogo, di essere mentalmente sano, questione affatto semplice da districare. La sua parte razionale urlava in continuazione che stava facendo le cose più stupide in assoluto che un uomo potesse mai fare, ma lui tentava di non prestarle troppa retta, primo perché la parte razionale nulla poteva contro la tempesta di emozioni che reclamava di essere ascoltata, secondo perché ormai si era imbarcato e non poteva più salpare.

O giochi o giochi; cerca solo di fare meno cavolate che puoi. Queste parole lo avevano spinto ad alzarsi nel cuore della notte. Aveva dormito per qualche tempo che non gli importava quantificare, dopodiché si era rigirato nel letto per lunghissimi minuti. Sentiva la stanza estranea e pensava fosse meglio così: a casa gli sarebbe inevitabilmente mancato Bob e non voleva accollarsi anche quel pensiero al momento. Aveva dunque deciso di fare la cosa più improbabile di tutte.

Danielle si stava agitando nel sonno. La luce del lampione dall'altra parte della strada filtrava tra le tende e permetteva di intravedere il suo volto accaldato, contratto in una smorfia. Matt, appoggiato alla scrivania di fronte al letto, stette ad osservarla per alcuni istanti con le braccia incrociate sul petto, quindi si azzardò a chiamarla sottovoce: «Danielle...». Naturalmente non ricevette risposta.

«Danielle...» tentò alzando un poco il tono.La ragazza continuava a dormire, i lunghi capelli scompigliati le coprivano

parzialmente il viso. D'un tratto trasalì, un attimo prima che Matt si protendesse per sfiorarle delicatamente un avambraccio. Al tocco, mormorò un "no!" fra i denti e si tirò a sedere.

Lui riprese la propria posizione alla scrivania, le braccia sempre incrociate, pensieri e speranze accavallati nella mente.

Gli avrebbe fatto mille domande, non sapeva se era pronto a rispondere. Aspettò.Lei rimase immobile per qualche secondo, poi si strofinò gli occhi, il respiro

accelerato.«Bastardo... chi era?» mormorò in italiano. Matt non comprese. Tentò di

recuperare la calma, la paura ancora viva nelle vene.Infine mise a fuoco la sagoma che si stagliava a circa un metro e mezzo da lei.«Oddio!» balbettò tirandosi di nuovo addosso il lenzuolo.Lui si spostò verso la finestra per cercare di tranquillizzarla: indecisione,

imbarazzo e paura ormai compagni fedeli.«Matt?». La domanda era retorica, implicava una sequela di altre domande.«Sì» rispose l'uomo in un sussurro.Lei attese, ovviamente impaziente di sapere il motivo di quella sorta di visita

notturna.

Lui tornò a guardarla, nuovamente illuminata dal debole fascio di luce del lampione.

«Beh, insomma... è un casino e... adesso proviamo a spiegarlo. Da dove cominciare?».

«Dall'inizio! Non è questa la risposta automatica e stupida ad una domanda altrettanto stupida?».

"Ragazza solare anche alle due di notte!" pensò con sarcasmo.«Già. È poco credibile, Danielle, ma ti giuro che se mi trovo qui... beh, non è

certo con...».«Ok, sei qui con le migliori intenzioni. Ma perché, se è lecito?». Incrociò le mani

e le mise sotto il mento.«Certo che lo è. Il problema è che nemmeno io so precisamente...». Pensò di non

essersi mai trovato a sostenere un dialogo così difficile.«Ah-hah...».«Danielle, ascoltami: ho assoluto bisogno che tu mi segua perché qui sei in

pericolo».Lei drizzò la schiena istintivamente. Se-gui-re? Pe-ri-co-lo? Il sonno

definitivamente scacciato, il cervello annebbiato da diversi tipi di pensieri: non capiva il senso di quel dialogo, meno che mai la strana richiesta. Chi aveva di fronte? Chi era realmente quell'uomo entrato nel cuore della notte in camera sua che ora la implorava, quasi, di seguirlo? Respirò a fatica.

«Perdonami, ma a questo punto mi sorge abbastanza spontanea una domanda: chi cavolo sei?».

"Eccoci!" si disse lui "Sono tuo padre, hai qualche problema con questo? Nah, tutto a posto, vero? Non ti sconvolge il fatto, vero?". Sapeva che se fosse entrato in quella stanza si sarebbe sentito fare la fatidica domanda, ma non doveva, non poteva rispondere, anche se l'avrebbe tanto voluto.

«Credo che mi prenderesti a schiaffi se ti dicessi che mi chiamo Matthew James Holland...».

«Già...» lo interruppe lei con un sorriso.«Chi sono... sono un uomo maledettamente razionale da trentasette anni che si

rende conto di star facendo le cose più irrazionali della sua vita in questo ultimo periodo». Incrociò di nuovo le braccia. «Voglio raccontarti tutto, Danielle, ma non posso farlo qui e ora».

Danielle era a disagio, ma non per il fatto che quella situazione fosse a dir poco assurda, piuttosto perché sapeva bene che l'avrebbe seguito, senza una valida ragione, pur continuando a non capire. Le dava immenso fastidio.

«Provi a spiegarti meglio?» azzardò a fior di labbra.«Non posso, neppure io so molto, ma ti giuro che non ti farò del male, mentre se

restassi qua credo che te ne farebbero. E ovviamente non parlo di Keith e Michelle, sappiamo entrambi che persone meravigliose siano».

Brividi, centinaia di brividi quando collegò: l'uomo della mattina, Bob, lo sguardo perso di Matt. Tutto doveva essere connesso in qualche modo. Si rendeva conto di avere in mano tre soli pezzi di un gigantesco puzzle, tre pezzi che non si incastravano fra loro nemmeno a calci. Mentre si abbracciava le ginocchia in atto di

autoprotezione, provò di nuovo tutta l'inquietudine del dormiveglia. Iniziò a dondolarsi lentamente, ascoltando la lotta fra anima razionale, che le suggeriva quanto tutto fosse una follia, e istinto, che però l'aveva evidentemente spinta tra le braccia del pericolo. Lo fissò e, nonostante il buio le impedisse di guardarlo negli occhi, capì che era sincero. Diede retta alla seconda parte di sé: «Mi fido di te. Sbaglio?».

«No, per quanto riguarda me no, ma ho una fottuta paura che ci stiamo sbagliando tutt'e due a proposito del resto». Ormai era fatta, tuttavia Matt non era affatto sollevato.

«Tu vedi di fare del tuo meglio per mantenere il mezzo giuramento che mi hai fatto prima. Non ho altro bisogno di soffrire, non adesso. Ti prego».

Lui ebbe un attimo di smarrimento, tentando di seguire il filo dei pensieri della figlia. Lo sguardo malinconico, la fuga dall'Italia... tornò alla realtà: «Te lo prometto».

18

Sera, forse le undici, ma non aveva più guardato l'ora da quando aveva preso la decisione. Ora era lì, lo stesso posto della sera precedente. L'aria, però, era meno umida, l'atmosfera più eccitante. Nel pensarci, provò un senso di gioia, che lo portò ad accelerare il passo. Arrivò fino in fondo alla via, quindi tornò indietro. Uscì per un paio di minuti dalla laterale, giusto per controllare che sulla principale fosse tutto tranquillo. Affermativo: fiumi di automobili finalmente un po' più libere dal perenne traffico di Londra, nessun passante sul marciapiede di fronte. Fece il giro dell'isolato per non destare sospetti. E di nuovo lì, di fronte alla palazzina, la luce ancora spenta. Si sedette sugli scalini dell'ingresso e si accese una sigaretta in attesa che lei arrivasse.

Passarono quarantacinque minuti e sei Marlboro; una macchina azzurra parcheggiò, ma lei non era ancora arrivata. Decise dunque di salire a ricontrollare che non gli fosse sfuggita sotto il naso. Accostò l'orecchio: dall'appartamento non provenivano rumori. Bussò per qualche istante, poi tirò un paio di pugni alla porta: nessuno.

Un'anziana signora, in vestaglia e pantofole bianche, aprì un poco la porta accanto a quella su cui l'uomo si stava accanendo. Lui fece finta di non capire le imprecazioni che la donna gli stava lanciando, non aveva voglia di casini, girò sui tacchi e scese.

Il posto sul gradino era ancora pulito, non era ancora passato nessuno. Cacciò di tasca il pacchetto e si accese la settima sigaretta. La sua povera mamma l'avrebbe rimproverato, lo aveva sempre fatto, ma ormai erano anni che non la vedeva, da quando l'avevano sbattuto in carcere e lui aveva voluto tagliare tutti i legami con la famiglia. Aspirò una grande boccata, gli piacque molto. E anche quella sigaretta era finita. Buttò il mozzicone a terra, insieme a tutti gli altri, e lo spense con il piede. Si protese per vedere il conducente dell'auto che stava percorrendo la via.

«Ah!» esclamò a denti serrati, un dolore fitto alla schiena. Si alzò per

fronteggiare la crisi, il ricordo di quell'inseguimento sotto un maledetto temporale, il guidatore della Golf nera troppo bravo per riuscire a stargli dietro senza problemi, la strada impraticabile, l'incidente contro il muro. Era stato proprio un gran peccato abbandonare così una Porsche, splendida anche dopo un'ammaccatura nel parcheggio di Heathrow e lo stampo su quel muretto non ben identificato.

E anche l'ottava Marlboro se ne andò, la riccia non era ancora rientrata e forse per quella sera non l'avrebbe fatto. Magari l'avevano trattenuta in ospedale, o magari la stava ospitando quell'idiota della Golf... sputò e prese a camminare.

L'ennesima automobile si immise nella via, ma questa volta ne scese un uomo. Alto, muscoloso, grandi occhiali da sole nonostante fosse buio, giacca a vento con il bavero alzato. Aveva un passo deciso, le mani in tasca. E gli stava... gli stava andando incontro! L'uomo gettò la sigaretta non ancora terminata e fece di nuovo

l'atto di spegnerla con il piede. Il battito aveva preso ad accelerare, tuttavia proseguì fingendo di non notarlo.

«Ciao amico!» gli disse lo sconosciuto cercando, con inflessione inglese, di imitare un accento del Nord Italia.

Credette di recitare un gran bene mentre alzava lo sguardo e gli sorrideva con cordialità.

«Hai bisogno di un passaggio?».Passaggio? Chi era quel tizio? Ma non era stato mandato solo lui in Inghilterra?«No, grazie, sto aspettando una persona».«Dai, forza, non farti pregare... siamo in tre connazionali, un quarto sarebbe

perfetto».Ora gli stava di fronte e l'uomo poté vedere l'infinita serie di cicatrici che ne

costellava il volto. Capì di che pasta fosse fatto. «D'accordo» mormorò.Lo sconosciuto lo prese sottobraccio e lo trascinò verso la macchina a passo

lesto. Non usò eccessiva delicatezza mentre lo spingeva sui sedili posteriori e si sedeva accanto a lui. L'auto ripartì bruscamente, il rombo del motore come unico sottofondo.

«Amico» l'anglo-italiano gli passò un braccio sulle spalle «Non sei proprio un

tipo quieto, eh?».L'uomo comprese in una frazione di secondo quello che stava per accadere.«Diciamo che ti sei quasi fatto beccare dal tuo obiettivo, stavi per violentare la

prima donna che ti è capitata sotto mano solo perché ti giravano gli ormoni, e oggi ti sei fatto notare dalla ragazza».

Desiderò soltanto aver finito il pacchetto di Marlboro, era un peccato sprecare sigarette così costose.

«Non hai fatto un po' troppo casino?».Non rispose.«Il tuo capo non è molto contento...».Continuò a tacere.«Che facevi qui questa sera?».«Un giro».Gli punzecchiò le costole con la pistola.«Oh-oh... spiacente, la tua bella è da un'amica nel South End, ha bisogno di

riprendersi dalle minchiate che le hai detto».Lui fece mente locale sulla tasca in cui aveva infilato la propria: a portata di

mano.«Ti hanno mai insegnato che al capo non piacciono molto le celebrazioni con il

botto?».Silenzio. Non aveva paura, non gli fregava di vivere, sperava solo che il tutto

fosse veloce e indolore.«Vuoi uccidermi?» domandò di scatto.«Boh... forse no... lo meriteresti?».«Non prendermi per il culo!» sbottò secco.«Oh, acido!».Non colse la provocazione. Con uno scatto rapidissimo estrasse la pistola e la

puntò alla testa del nemico pensando a che bel rumore avrebbe fatto il suo cranio fracassato, il cervello spappolato.

Ma non aveva fatto i conti con i due davanti. Quello nel sedile del passeggero si girò e in una frazione di secondo gli stroncò la vita con un colpo alla testa: fu il suo cranio a scricchiolare sotto il colpo del proiettile con il silenziatore.

Qual è l'ultimo pensiero di un uomo prima di morire? Non ebbe tempo di

formularne, si accasciò sul sedile, il mondo immediatamente nero.L'anglo-italiano fece un cenno al guidatore e, una volta rallentata l'auto, aprì la

portiera posteriore e si liberò del cadavere con un calcio nel fianco.Colui che un tempo era stato un bambino pieno di sogni, poi un adolescente

problematico fra furti e spinelli, e infine un uomo a servizio di un capo che non aveva mai visto, giaceva ora privo di vita in una pozza di sangue su un polveroso sentiero della campagna inglese.

19

Nella penombra rischiarata dal lampione dall'altra parte della strada, visibile dalla porta-finestra, Matt sedeva sull'ultimo gradino della scala a chiocciola in attesa che Danielle scendesse. Forse stava pensando a troppe cose, forse a troppo poche, ma per certo sapeva di avere paura, un'agghia-ciante paura. Non ne aveva avuta nemmeno in Iraq, per lo meno non così tanta, invece adesso... si rifiutava di prendere in considerazione l'ipotesi di perdere la cosa più preziosa che avesse al mondo, ma lo spettro c'era, imponente. Inghiottì. Con un'occhiata intorno a sé, memorizzò gli accoglienti dettagli del salotto del suo migliore amico di sempre: la maglietta sullo schienale della poltrona, il contenitore ricolmo di caramelle e cioccolatini, la pila di libri scomposti nella libreria, il perenne profumo di tè. Lì c'era vita, sì, lì c'era vita e in casa sua no. Aveva impiegato anni prima di decidersi ad accogliere in casa una presenza fissa, viva, Bob, per dare un tocco di allegria a quel covo di solitudine che era il suo appartamento. Ora sarebbe ritornato ad esserlo, un posto da evitare, una base ufficiale di finta vita normale, una casa a cui il reparto di chirurgia del Royal London Hospital era di gran lunga preferibile. Tamburellò delicatamente con la punta delle dita sul parquet.

"Scusa Keith, scusa Michelle, sto facendo un enorme casino e voi non c'entrate niente, non ve lo meritate". Ma ormai era troppo tardi per non farlo.

I passi lungo il corridoio del piano superiore lo fecero alzare di scatto, Danielle comparì poco dopo avvolta dalla camicia spropositatamente grande che indossava anche a cena.

«Niente Beatles?» ironizzò lui nel tentativo di dare un tono allegro all'atmosfera.La ragazza scosse la testa: «Da lavare...». Si sistemò in spalla lo zaino e scese gli

ultimi gradini. «Pronti?» domandò poi tendendogli una mano. Matt distinse determinazione, coraggio, curiosità nel suo tono. «Tu sei pazza...».«Me ne rendo conto. Spero solo di non essere autolesionista»."Lo spero anch'io" pensò lui.«Fossi stato in te, non mi sarei mai fidato di uno come me...» disse poi

incamminandosi lentamente verso l'uscita, la vista aguzzata per evitare oggetti poco visibili e potenzialmente rumorosissimi.

«Pochi discorsi!» tagliò corto lei con voce ferma. «Ormai sono qui e... chissà!... Qualcuno da lassù mi proteggerà».

Il riferimento immancabile a Roberta, che pensò Matt non cogliesse.Lui, invece, capì e provò una fitta di dolore."Forza... se non per me, almeno per lei, ti prego... fa' che io stia facendo la cosa

giusta".Il perenne vento di Brighton sferzò i loro volti quando si tuffarono nella notte più

profonda, in cielo nessuna stella.«Aspetta!» disse Danielle indicando il cancelletto. Con estrema lentezza tornò

indietro e, a tastoni, trovò il citofono in corridoio accanto alla porta d'ingresso."Oddio... Fede..." pensò con amarezza mentre cercava il pulsante per aprire il

cancello della villetta. Glielo aveva promesso, gli aveva promesso di prendersi cura di sé, ma non lo stava facendo. Anzi, per la precisione gli aveva promesso di stare lontana dal "medico", che lui non sopportava affatto. E lei gli dava fiducia, una cieca fiducia.

Prima di premere quello più in alto tra i pulsanti disposti sull'apparecchio, cadde in ginocchio: "Mamma, aiutami, ti prego, mamma, non so cosa sto facendo. Cosa devo fare, mamma? Dimmelo tu!".

Trascorse qualche secondo lì, nel buio, con gli occhi chiusi, tenendo con forza dietro le palpebre l'immagine leggermente sfuocata del volto della madre. Roberta sorrideva, Danielle la ricordava così, e il suo volto sereno le diede l'energia di affrontare quella situazione quanto meno assurda. Mentre oltrepassava la soglia, si accarezzò la tasca dei jeans per controllare che ci fosse il suo portafortuna, quindi si richiuse piano la porta alle spalle.

Ora erano in macchina, il silenzio tangibile fra loro. Nemmeno l'autoradio

cantava. Davanti solo strada, un'infinita carreggiata a due corsie. Matt sapeva benissimo la destinazione, non altrettanto l'itinerario. Diede una rapida occhiata alla sua sinistra: Danielle che sbadigliava in continuazione. Oltre il vetro una strada di campagna che prometteva bene. Vi ci si infilò sotto lo sguardo incuriosito della figlia.

Non aveva la più pallida idea di quanto tempo avesse trascorso a zigzagare tra alberi, massi e simili, ma infine si trovò su una nuova carreggiata. Questa era più stretta ma anche meno trafficata, anzi, deserta; premette l'acceleratore nella speranza che qualche strana legge fisica si inghiottisse quanto prima i troppi chilometri che lo separavano da Teignmouth.

«Ci sono» sussurrò una voce calma. Si girò di scatto verso Danielle non certo che fosse stata lei a parlare. Gli occhi della ragazza erano socchiusi. Poi le vide, tre macchine dietro di lui, la prima delle quali lo stava sorpassando da destra. Premette con una forza disperata sull'acceleratore, ma l'auto ormai gli era a fianco. Lo costrinse a spostarsi a sinistra, sempre più a sinistra, finché non gli si parò davanti.

Tentò una disperata manovra verso il campo che confinava con la strada, ma due delle tre automobili lo bloccarono in mezzo.

Rumore di metalli, fragorosissimo rumore di metalli.Afferrò con disperazione il volante tentando di uscire dalla trappola. Il motore si

era spento. Girò la chiave nell'accensione, la girò di nuovo, poi di nuovo ancora: nulla. Con la coda dell'occhio vide la schiera di uomini — non li contò, era il problema minore — che scendeva dalle tre auto. Come uno sciame di mosche, avevano circondato la Golf nel giro di qualche frazione di secondo.

Non gli rimase altro che strapparsi la cintura di sicurezza, buttarsi sopra sua figlia per farle scudo qualsiasi cosa accadesse e invocare qualcuno Lassù affinché quello fosse solo un pessimo incubo.

20

Una Mercedes bianca si immise nel lungo viale d'ingresso costeggiato su entrambi i lati da alberi secolari. Una cinquantina di metri, quindi l'auto svoltò a sinistra verso una rampa in discesa. Il cancello del garage, azionato dal telecomando del guidatore, si aprì con un leggero clangore metallico. Accese dai sensori, le numerose luci sul soffitto illuminarono l'ambiente a giorno, facendo scintillare le altre macchine parcheggiate, altrettanto costose, altrettanto curate. Anche la Mercedes si fermò in un angolo, ne scese Gabriele Castaldo, volto stanco, borsa di pelle in spalla. Con passo deciso, ad ampie falcate, l'uomo si incamminò verso il buio delle scale che lo avrebbero portato al piano superiore.

Diede un'occhiata al Blackberry che stringeva in mano prima di salire gli ultimi scalini: sorrise.

«Sì, sono io... D'accordo... perché?... Eh?... Va bene... Aspetto». Si infilò di nuovo il dispositivo in tasca, sorriso ancora sul volto.

«Buonasera signore, bentornato!». Teresa gli si fece incontro in mezzo al lungo corridoio su cui si affacciavano le scale a chiocciola. «Ha bisogno di qualcosa? Le devo prepara...».

Lui continuò a camminare verso lo studio: «Vai a dormire Teresa, mi arrangio».«Come vuole». La donna lo seguì con titubanza per qualche altro passo. «Ha

chiamato Danielle, la cercava».Gabriele trasalì, la mente per qualche secondo svuotata. Si girò di scatto, volto

teso, poi tornò sui suoi passi: «Mi arrangio, grazie».Una volta nel suo studio, premette il tasto di accensione sul pc e sprofondò sulla

poltrona di pelle di fronte al monitor. Era talmente stanco che non aveva nemmeno voglia di azionare il massaggio, poi allungò pigramente la mano verso la tasca laterale e premette uno dei tre tasti sul telecomando. I meccanismi della poltrona cominciarono immediatamente a mettersi in moto regalandogli una sensazione di assoluto piacere. No, appoggiare la testa no, si sarebbe immediatamente addormentato e il contratto era maledettamente urgente. Con la coda dell'occhio, trovò il thermos di caffè che Teresa gli preparava sempre, così anche quella sera. Sarebbe stata un'altra fatica allungarsi per prenderlo...

Sullo schermo il panorama rilassante di una spiaggia caraibica era costellato di icone. Ora non poteva fare altro che muoversi! Puntò il mouse sul programma di posta elettronica e attese, testa leggermente inclinata in avanti. Cercò di scacciarsi di dosso il potente sonno strofinandosi energicamente gli occhi, quindi afferrò il thermos e si scolò d'un fiato l'intero contenuto. A lato del suo campo visivo, il telefono, che intravide per una frazione di secondo.

"Mi dispiace, Danielle, mi dispiace un sacco..." pensò.Il monitor ora mostrava la scritta: Messaggi in arrivo (1) e Gabriele sapeva bene

il mittente. Gli vennero in mente gli altri contratti che doveva visionare, non l'avrebbe certo fatto in quel momento. Cliccò e scaricò direttamente i due allegati di

quel messaggio senza testo né oggetto.Downloading... 1% unknown time remaining Una fitta lancinante alla colonna

vertebrale lo fece pentire amaramente delle troppe ore passate davanti al computer. Esausto, appoggiò la testa sullo schienale, giusto un secondo mentre il programma... non riuscì più a combattere il sonno.

21

Erano intrappolati, erano maledettamente intrappolati tra quella ferraglia costosa. Ci era caduto, come un idiota, Matthew Holland era caduto nella trappola di quei bastardi. Sapeva che avrebbe voluto dire tantissime cose a sua figlia prima che succedesse qualsiasi cosa, ma loro erano già lì, a spalancare le porte, e lui non poteva fermarli. Non riusciva a muoversi. Avrebbe dovuto, avrebbe voluto, ma non riusciva a muoversi. Lo sguardo annebbiato, la mente annebbiata...

«Forza dottore, via!» gli disse una voce dalle mani possenti alle sue spalle."Combatti Matt, scemo, combatti!". Ma non era capace. Si trovò sbattuto

sull'asfalto, impotente e indolenzito.Poi vide che stavano tirando fuori dall'auto anche Danielle. In un attimo era in

piedi, l'istinto e la rabbia più forti di tutto. Si avventò sull'uomo che la stava trascinando verso un'auto grande di cui non riconobbe la marca, ma le mani possenti furono troppo possenti e rapide per poterle evitare. Lo trascinarono via, lontano. Cercò di combattere, tirò una testata sulla faccia dell'uomo che lo teneva bloccato da dietro, poi capì che stava per essere colpito.

«Danielle!» urlò con quanto fiato aveva in gola. Un pugno sulla tempia, crollò.Matt si svegliò ansimando. Era tutto buio, un ambiente a cui non era abituato.

Provò a concentrarsi sul proprio corpo, ma non sentiva dolore, e nemmeno la cosa su cui era sdraiato era troppo dura e scomoda.

"Sognavi, Matt, meno male che sognavi!". Si rigirò per qualche secondo nel letto della stanza degli ospiti di casa Richards, incapace di processare quell'incubo. Non voleva pensarci, no no, era meglio non pensarci. Ma era impossibile. Ritornò sulle immagini dell'incubo, una ad una: dalla malsana idea di realizzare quel piano a cui aveva pensato anche in realtà — e apposta aveva parcheggiato ad un paio di isolati dalla villetta —, la confusione, forse paura, e determinazione negli occhi di Danielle, lei che lo seguiva, si era persino immaginato sua figlia mortalmente spaventata, inginocchiata davanti al citofono, a chiedere aiuto, a pregare qualcuno. E gli era sembrato di vivere tutto maledettamente nella realtà, sentimenti e immagini vividi. E l'inseguimento, la trappola...

Gli venne da sorridere. "Se Alice è stata capace di sognarsi quel mattone di libro..." pensò. Eppure ci aveva riflettuto molto, da quando si era svegliato dall'effetto dei sonniferi a casa sua non aveva fatto altro che pensare al miglior modo per mettere Danielle al sicuro. Credeva che portarla da Larry sarebbe stata una buona soluzione. Non sapeva nulla di preciso sul lavoro dell'amico, avevano fatto un patto di amicizia eterna e domande zero, ed era proprio per questo che Matt si fidava di lui. Era certo che Larry lavorava per qualche sorta di agenzia di intelligence, benché non lo avesse mai ammesso esplicitamente. Però niente poteva essere più esplicito di chiamate alle tre di notte per estrazione immediata di pallottole da gamba o affini. Criminale? Troppo poco latitante, troppo amico di personaggi importanti delle alte sfere inglesi per esserlo.

Ma Larry gli aveva anche dato qualche lezione teorica fra una medicazione e un bicchiere di vino italiano. Una di queste, la madre di tutte in realtà, era il primario bisogno di farsi più furbo dei più furbi. Non che Larry pensasse che Matt sarebbe ricorso a qualcuno di questi fondamenti, e non che Matt si giudicasse particolarmente furbo per aver evitato di chiamare l'amico sapendo benissimo che il cellulare era intercettato, ma almeno non si era dimostrato completamente tonto. Fortuna che non aveva messo in atto quel piano assurdo... forse sarebbe andato tutto bene, probabilmente no perché il piano di fiondarsi eroicamente su sua figlia era assolutamente in contraddizione con la regola numero uno: farsi più furbi dei furbi.

Abbracciò il cuscino non sapendo se sarebbe stato in grado di addormentarsi di nuovo fra tutti quei pensieri.

22

Danielle non vide mai il volto della mano che l'aveva afferrata, fortunatamente si era svegliata prima. Ora fissava il buio della stanza con occhi sbarrati, puntati sul soffitto. Non aveva bisogno di vedere il volto della persona che la inseguiva, lo conosceva bene: forse trent'anni, forse di più, capelli castani, pelle leggermente scura.

Sussultò nel ripensare all'uomo e al sogno e allungò la mano alla sua destra, verso l'interruttore, per accendere la luce. Nel buio lo vedeva, dappertutto, e questa era l'ultima cosa che voleva. Perché ne aveva avuto così paura, perché? Fissò le due lampade alle estremità di una barra di legno decorata che fungeva da lampadario, immobile per alcuni secondi. Ma non c'era niente da fare. Le venne da piangere quando pensò che avrebbe voluto correre nell'altra camera, buttarsi tra le braccia di Roberta e chiederle protezione contro i mostri spaventosamente brutti che avevano popolato il suo incubo. Non desiderava altro che poterlo fare, ancora una volta, un'ultima volta.

«Mamma... mi manchi...» sussurrò a fior di labbra. Gli occhi le si velarono e fu costretta a ricacciare il nodo che le si era immediatamente formato in gola.

Poi il dolore e la nostalgia lasciarono posto alla confusione quando le sembrò di aver appena sentito una voce nella camera accanto.

"Matt?" si chiese trattenendo il respiro per poter ascoltare eventuali altri rumori. Spense la luce e si accoccolò contro la parete, orecchie sempre rizzate a qualsiasi voce. Ma non sentì altro e, intenta com'era ad ascoltare, si addormentò senza più pensare all'incubo di qualche minuto prima.

23

L'auto procedeva lenta nella strada di campagna, fra i tre uomini a bordo nessuna parola, nemmeno il rumore del motore era fastidioso, nessuno ci badava immerso nei propri pensieri. Il più giovane — vent'anni da poco compiuti — che stava alla guida si rimise il cellulare in tasca. La puzza di fumo che lo sgradito ospite aveva portato dentro per qualche minuto gli aveva fatto venire una tremenda voglia di sigarette, erano ormai ore che non ne fumava. Fuori discussione al momento. Si grattò il mento e seguitò a guidare.

Uno dei colleghi stava sdraiato sui sedili posteriori, la pistola caduta a terra. Non se ne curava, per il momento non gli sarebbe servita, per la precisione non gli era mai servita, ma sperava di averne presto l'occasione. Ora l'importante era qualche ora di sonno — anche solo un paio — e poi sapeva che sarebbe ripartito al massimo delle sue capacità. Se gli avesse fatto effetto veder morire un uomo? Non era il primo che aveva visto e certo non sarebbe stato l'ultimo. Infilò l'avambraccio sotto la testa e socchiuse gli occhi.

La voce dell'uomo seduto sul sedile anteriore ruppe il silenzio: «Buonanotte a tutt'e tre anche se in camper. Risponderò al vostro buongiorno appena possibile». L'uomo lesse il messaggio con voce piatta, senza pensare niente, senza aspettarsi niente. Nemmeno alzò gli occhi per guardare le reazioni dei colleghi, si limitò a rispondere con un "Ok" e si rimise il cellulare nella tasca della giacca a vento, tanto conosceva benissimo quelle due facce, orribili, ma necessarie da sopportare.

«Letto comodo anche questa notte...» borbottò con una smorfia l'autista.«Già. Quale parcheggio questa volta?» domandò il collega di dietro sbadigliando,

senza più sforzarsi di parlare in italiano e di imitare un accento che tanto non riusciva a imitare.

Il portavoce era lontano mille miglia con i pensieri, appog giato al finestrino, palpebre abbassate, si era già estraniato dai compagni poco graditi e gradevoli. «Par-cheg-gio!» sillabò l'autista con una gomitata. Il portavoce si tirò su: «Ahm... B».

24

L'uomo brizzolato spense il computer portatile che teneva in grembo: anche per quella sera aveva finito. La sveglia sarebbe suonata presto l'indomani ed era già tardi, ma lui non aveva di questi problemi, soffriva d'insonnia fin da ragazzo. Tanto più che, certamente, dover gestire dei ragazzi così stupidi ed inaffidabili non era un compito che lo facesse dormire tranquillo. Notevole, sì, aveva una responsabilità notevole, ma notevole era anche ciò che ne derivava.

L'ultima immagine sullo schermo del laptop, prima di uscire dal browser, era quella di una casa rossa immersa nel buio e nel silenzio. Tranquillizzante per il momento. Appoggiò il computer ai piedi del divano, si infilò i cellulari in tasca e uscì sul balcone.

L'aria quella sera era particolarmente calda. Il brizzolato si sedette a gambe incrociate sul pavimento sporco, incurante dei suoi pantaloni grigio scuro tanto pregiati. Si accese il sigaro che aveva portato con sé e alzò gli occhi al cielo: nessuna nuvola.

«Tutto bene?».La vibrazione del cellulare lo distolse dalla contemplazione pensosa del cielo.

Rilesse il messaggio, per un attimo smarrito, stanco ed incapace di connettere. Gettò la cenere del sigaro sul pavimento e rispose: «Sì, ti salutano tutti».

Il "Supremo"... a volte gli veniva da sorridere nel pensare a lui. Che brutta vita che doveva condurre! Stressato, troppo per godersi una vita come quella che il destino gli offriva: tanti soldi e nessun agio. Sbuffò l'ultimo anello di fumo e spense il sigaro con il piede: lo attendevano all'incirca un paio di ore di sonno.

25

Una giornata che prometteva caldo asfissiante si era inghiottita quella notte piena di incubi. Matt, solo come all'andata, guidava verso Londra. Aveva deciso di imporsi di agire, stanco di pensare a cose improbabili e piani altrettanto improbabili attraverso cui realizzarle. Si appoggiò una mano gelida sulla fronte, metodo che spesso usava per ventilarsi il cervello. Più furbo dei furbi... poteva solo significare agire nel modo che loro non si aspettavano. E fin qui... il problema era capire che cosa non si aspettassero quei bastardi.

Controllò l'ora — 7.15 — poi il cercapersone — nessuna emergenza. Continuò a fissare la strada pensando accanitamente.

Numb batteva nelle casse. Gli venne da sorridere perché avrebbe tanto voluto sentirsi dedicare un testo arrabbiato come quello, gli sarebbe bastato essere considerato nel ruolo del genitore. Alzò il volume: di solito ragionava meglio con la confusione — fenomeno difficile da spiegare scientificamente, ma tant'era. In quel caso, però, stava riuscendo solo a pensare che una dose di morfina gli avrebbe fatto un gran bene.

"Niente morfina" pensò "niente sonniferi, niente schifezze... devi essere lucido! E, soprattutto, paranoie di qualsiasi genere abolite per i prossimi dieci anni!".

Dopo la manciata iniziale di colpi di batteria, Do you know your enemy? iniziarono a domandare i Green Day. Matt rimase concentrato sull'asfalto, battendo distrattamente il ritmo sul volante, infine urlò: «Sì, conosco il mio nemico, lo conosco fottutamente bene!» e spinse con forza sull'acceleratore.

Le familiari strade dell'East End erano già trafficate. Il medico si accodò a un'Audi metallizzata ferma ad un semaforo.

26

Il nuovo giorno trovò Gabriele ancora accasciato in poltrona. Durante la notte si era svegliato parecchie volte indolenzito, ma era troppo stanco per andare a letto, in quel letto per cui provava quasi un senso di repulsione. Troppo grande, troppo vuoto, troppo triste. Impiegò qualche secondo a mettere a fuoco lo schermo del computer, su cui compariva la finestra del programma di posta elettronica con tre nuovi messaggi e un allegato scaricato ma non aperto. Si stiracchiò prima di cliccare sul primo messaggio.

Il mittente era un cliente, l'oggetto la richiesta di un appuntamento per discutere di contratti. Malvolentieri, con gli occhi gonfi di sonno, l'uomo afferrò l'agenda e iniziò a sfogliarla.

Lun 22 settembre.Gli saltò all'occhio quella data evidenziata in rosso, quello che sarebbe stato il

diciannovesimo anniversario del suo matrimonio."Perdonami... perdonami tesoro se non riesco a darle l'amore che vorrei..." pensò

con un nodo in gola. Sbirciò con dolore per un'altra frazione di secondo, quindi si affrettò a cambiare pagina.

L'appuntamento... trovò un pomeriggio in parte libero e rispose al messaggio. Poi, dopo un'ultima occhiata all'allegato della mail della sera precedente, afferrò il Blackberry alla ricerca di un numero che non aveva mai usato.

La linea era libera. Uno squillo, due, tre...

27

Quando entrò in casa, Matt provò un brivido di emozioni miste: non poté fare a meno di anticipare la calorosa presenza di Bob, ma ovviamente rimase deluso. Sospirando, entrò nello studio.

Il non troppo nuovo pc impiegò qualche minuto a caricare, poi il desktop.Matt aprì la casella di posta elettronica sul sito di Cambridge. Il messaggio in

arrivo era uno, risalente alla sera prima: Grawl.Ciao Matt, mi piacerebbe essere aggiornato, il caso mi incuriosisce. Evolve? Sii

intelligente.Buona fortuna.Con stima perenne, S. Grawl "Più furbo dei furbi!" pensò e non rispose. Forse

l'avrebbe fatto più tardi, forse non l'avrebbe aggiornato affatto, in quel momento non poteva: intercettato e senza aggiornamenti. Cambiò sito per aprire l'account personale: due E-mail non lette.

Impallidì nel leggere mittente e oggetto della [email protected] Novità luglio-agosto 2009Non si era mai iscritto alla newsletter, mai, e mai l'avrebbe fatto! Perché, allora,

quella mail? Respirò affannosamente. Lo prendevano in giro, indubbiamente lo stavano prendendo in giro. Era ormai consuetudine spegnere il computer a calci: lo fece anche quella volta. Tanto era da anni che lo voleva cambiare!

Gli ci volle qualche momento per riprendersi, lì, in piedi davanti allo schermo

spento."Cosa abbiamo detto sulle paranoie, Matthew Holland?" si domandò

incamminandosi verso la cucina.Erano già quasi le otto, poteva prendersela con calma, il turno sarebbe iniziato

soltanto alle nove. Mise a bollire il caffè e attese, pensando, con i gomiti appoggiati sul bancone di finto marmo. Non sapeva cosa fare, ma l'esercito gli aveva insegnato alcune cose, una fra queste era: mai stare fermi, fare qualcosa, qualsiasi cosa, senza mai stare fermi. E qualcosa si sarebbe indubbiamente inventato.

Versò l'abbondante caffè in una tazza grande e, stringendola nella mano destra, si mise a camminare per casa. Era certo soltanto di una cosa, e cioè che quel pomeriggio sarebbe andato al funerale di Luke Mason ad ogni costo, ci teneva troppo per non farlo. No, ripensandoci, era certo di un'altra cosa: quelli della HSS erano dei bastardi, indescrivibilmente bastardi.

«Che idiota, scotta!». L'imprecazione a denti stretti lo riscosse da quella sorta di ipnosi in cui era caduto. Soffiò per qualche secondo sul liquido nero che emanava una densa nuvoletta di calore, quindi lo trangugiò quasi d'un fiato, incurante delle proteste della lingua. Il caffè era caffè: amaro e bollente, sennò non era caffè! La tazza cadde nel lavandino con un rumore poco rassicurante, ma il proprietario era già in corridoio, diretto verso lo studio. Diede un'occhiata pensierosa alla borsa di pelle:

pronta. Con una smorfia di disapprovazione per il peso, la sollevò da terra. Del resto conteneva cose indispensabili, tutte, tranne forse il volume di millecinquecento pagine che aveva infilato dentro qualche giorno prima; a proposito, l'avrebbe tolto ora.

Il nuovo rumore fu ancor meno rassicurante della tazza di porcellana contro la lamiera del lavandino: plastica contro ceramica, cellulare contro mattonelle.

«Sì, vabbè, e poi?». Fece un gesto di stizza con la mano, sapendo molto bene che quella non era soltanto l'ennesima caduta del suo relativamente nuovo telefonino. Si inginocchiò per esaminare i danni: la batteria sotto una sedia, la parte posteriore della cover spezzata a metà, vicino ad una fiancata della scrivania, il resto del cellulare poco più avanti, lo schermo completamente nero.

E si era rotto anche... Matt si piegò ancora un poco per esaminare. Si era rotto anche il cercapersone.

Ebbe un altro scatto d'ira e tirò un calcio alla borsa che, non ben appoggiata sulla scrivania, si era trascinata nella caduta anche tutto il resto. Prima di raccoglierla per andare, cercò la SIM, che ripose senza troppa cura in un cassetto, quindi accumulò gli altri rottami e li tirò a canestro nel cestino della spazzatura.

"Eh, furbo... ma dove hai la testa, imbecille?". Il cellulare non era un problema — sarebbe passato a prenderne uno quel pomeriggio, probabilmente —, il cercapersone piuttosto... sperò ne avessero in magazzino.

Il reparto era come l'aveva lasciato il giorno precedente: l'eterno viavai di barelle in corsia, infermieri frettolosi alle prese con cartelle e medicinali, parenti eleganti e affettuosi in contrasto con i volti tirati e i pigiami dei degenti. E Jack Parry, con i capelli grigi, gli occhiali sul naso e un paziente con le stampelle a braccetto. Si salutarono.

«Perché avevi il cellulare spento prima?».«Perché sono un idiota, l'ho rotto! E ho rotto anche il cercapersone, devo farmene

dare un altro da Grace, se ne ha...».L'uomo annuì. «Allora, quest'autopsia?».Matt scrollò le spalle: «L'ha fatta con i piedi, come pareva a lui, quasi fosse un

favore a me il fare il suo lavoro...».Parry annuì nuovamente e, con un sorriso, si congedò continuando a reggere il

paziente.Matt rimase un po' amareggiato da quello scambio di battute, ma forse era colpa

sua, forse era troppo abituato ad essere trattato come il figliol prodigo di Jack. Non contava, non in quel momento almeno. Si fiondò nello studio per mettersi il camice, nella speranza non ci fosse troppo lavoro così da poter andare a dare un'occhiata nel laboratorio delle analisi. Fu inaspettatamente accontentato: solo un paio di visite a pazienti recentemente operati, al resto aveva pensato Jack. Forse il figliol prodigo continuava ad essere figliol prodigo, alla faccia di Eze e del suo malsano spirito di competizione.

Il collega del laboratorio analisi era sempre allo stesso tavolo, chino su un microscopio questa volta.

Appena lo vide in piedi di fronte a sé, il ragazzo allargò le braccia in segno di resa: «Che uomo impossibile... sii pressante con l'amministratrice, ne sarebbe molto

più contenta di me!».Matt si guardò rapidamente intorno per non fare figure da stupido. «Eh, ma tu sei

molto più bello e giovane di Carlton...».Risero ad alta voce.«Che scemo... non credo sarebbe felice di una constatazione simile!».«Eh... ci sono altri problemi nella vita, tipo la fame nel mondo!» rispose con

un'alzata di spalle.«Sono pronte, comunque». Il giovane si piegò ed estrasse una busta da una

cassettiera di metallo.Gli occhi azzurri di Matt si illuminarono di un lampo carico di aspettativa. Sul

bianco perfetto della carta nessun sigillo del Royal London Hospital, nessun nome, nessuna scritta; solo una busta candida, chiusa, piena di fogli preziosi. Matt la afferrò soddisfatto: «Ce l'hai fatta anche se il liquido era poco?».

Il ragazzo annuì: «Purtroppo non sono riuscito a conservarne dalla bottiglietta piena per metà...».

«Non importa, è tutto a posto. Ti devo un favore enorme! Tanto ultimamente sto accumulando debiti da tutte le parti...».

«Ci penserò bene, allora!».«Bravo! Fammi sapere quando sai».Il collega annuì con un sorriso soddisfatto.«Mi aspettano su. Grazie!».Prima di uscire, prese due buste con l'insegna dell'ospedale e mise in mezzo la

busta bianca delle analisi sull'Enerjoy: la forma era fondamentale! Figliol prodigo o no, le discussioni in reparto continuavano ad essere accese e acide, sempre meglio fingere di aver ritirato personalmente referti particolarmente urgenti per il reparto.

Mentre correva su per le scale affollate della struttura ospedaliera, pensava

freneticamente ad un posto in cui rifugiarsi per esaminare il proprio trofeo. La cosa più stupida, naturalmente, sarebbe stata andare a festeggiare nel proprio studio — più furbi dei furbi! — ma l'ipotesi bagno, sgabuzzino o qualcosa di simile era assolutamente fuori discussione, sarebbe sembrato un po' come giocare a nascondino con i ragazzi in piscina soltanto per poter dare una rapida occhiata al magazzino. Considerò che in effetti era un vero peccato non essere appassionato di thriller, polizieschi, gialli e quant'al-tro, sarebbe stato più che utile in un'occasione simile, però probabilmente nemmeno i thriller di Dan Brown o i gialli di Agatha Christie potevano valere quanto l'esperienza diretta sul campo.

"Sì, che fortuna fare quest'esperienza però!" si disse giocherellando con gli angoli delle buste, in attesa che un carrello pieno di medicinali entrasse, attraverso la porta a vetri, nel reparto di chirurgia generale.

Ricambiò il sorriso dell'infermiera che lo stava spingendo, arrivata al Royal London Hospital da un paio di settimane, e s'illuminò: sapeva dove andare.

L'infermeria era deserta, solo una gran confusione di cartelle e fogli sul tavolo e l'odore del caffè appena fatto. Quella tradizione era nata dallo spirito parsimonioso di Adrienne, il tutto era più comodo e meno dispendioso, sicché, a qualsiasi ora si entrasse in quella stanza, l'odore era sempre il solito: invitante caffè.

Matt controllò se qualche buona anima gliene aveva lasciato un poco; nulla,

meglio non distrarsi e fare il più in fretta possibile. Forse quella della sorveglianza ad ampio raggio stile Grande Fratello era una fissazione, ma vero anche che la prudenza non era mai troppa. Con aria casuale, aprì le due ante centrali di un armadio in lamiera verde chiaro, di cui, ovviamente, non gli interessava il contenuto. Si chinò cercando il nulla in una scatola piena di carte che non guardò.

"Ti prego... ti prego, ti prego, ti prego... Se Nancy ci ha rimesso, se Bob è morto, qui dentro ci deve essere materiale fondamentale!".

Tirò un profondo sospiro e, con l'indice destro, fece pressione sulla colla che

sigillava la busta. Questa cedette facilmente.

28

Danielle aveva assurdamente sperato di scendere per la colazione e trovare Matt a tavola, ma era arrivata troppo tardi, o, meglio, lui era partito troppo presto. Inghiottì il leggero disappunto e aiutò Keith a sistemare il bancone della cucina prima di mettersi a tavola.

«Ah, ti saluta Matt!» esclamò infine l'uomo aprendo la porta della veranda.«Ehm... grazie!» ribatté lei, faccia e sorriso compiaciuti nascosti dietro la porta

del frigorifero. «E... come stava questa mattina? Ieri era un po'...».«Meglio credo, spero. Non è una persona semplice da capire, ha troppo sofferto

per dare di nuovo fiducia alla vita».Danielle non seppe rispondere, si versò un bicchiere di succo alla mela in attesa

che Keith rientrasse dal giardino."Ha troppo sofferto per dare di nuovo fiducia alla vita...". Forse era stato tradito

più di quanto non lo fosse stata lei?«È il mio migliore amico di sempre, siamo cresciuti insieme, pure a migliaia di

chilometri di distanza. Non gli voglio bene come ad un fratello, gli voglio bene perché è mio fratello».

Lei lo ascoltò con lo sguardo fisso sul verde chiaro del succo filtrato dall'azzurro scuro del bicchiere.

Keith non aveva aggiunto altro, era uscito a sistemare, lei ancora ferma, la sensazione di paralisi mentale mai del tutto scomparsa. E ora era forte quasi come i primi giorni.

Trasalì quando sentì squillare il telefono.«Rispondi tu, Dani?» le urlò Michelle dal piano di sopra.La ragazza si trascinò verso il mobiletto in salotto e afferrò il cordless.«Dani?» le domandò una voce familiare all'altro capo.Danielle impallidì, confusa, ammutolita. Strinse ancor più forte il telefono per

accertarsi che non fosse un'allucinazione. Ora l'anestesia era forte più che mai e faceva... faceva un male atroce per quant'era opprimente.

«Pa...pà?» balbettò infine la ragazza.Il silenzio all'altro capo fu lungo, carico di tanti significati. Danielle riusciva,

inconsciamente eppure chiaramente, ad immaginarsi il volto di suo padre, la mascella stretta per combattere l'imbarazzo e la tensione, le occhiaie per le notti insonni, gli occhi cinici di chi non si aspetta più niente e nemmeno vuole dare più niente a questa vita infame. Poi, improvvisamente, accanto al volto di Gabriele si materializzò quello di un altro uomo disilluso, chissà per quale ragione, dalla vita. Le occhiaie erano le stesse, così come i turni impossibili, ma il sorriso e gli occhi da sognatore di Matt lasciavano spazio ad una speranza, ad una voglia di riscatto, ad una determinazione a credere che nulla fosse finito, perché — pensò lei — nulla è finito finché non lo si decide.

Infine tornò a concentrarsi su suo padre: lo aveva lì, all'altro capo del telefono. Pur negandolo a se stessa, lo aveva sperato per molti giorni, l'aveva voluto con ogni parte di sé già dal momento in cui aveva lasciato villa Castaldo. E continuava a volerlo.

"Nulla è finito, finché non siamo noi a deciderlo!" si ripeté. E certo non era finito il rapporto con suo padre, mai e poi mai lei lo avrebbe deciso. E anche quello aveva promesso a Roberta, purtroppo l'aveva fatto troppo tardi, ma gliel'ave-va promesso, al funerale, quando tutti la abbracciavano e la consolavano, sebbene lei volesse soltanto le attenzioni di suo padre.

Le salì un nodo alla gola: «Papà? Sono felice di sentirti».Gabriele non rispose, lei non pretendeva lo facesse. «Come va lì, Dani?».«Benissimo! Michelle e Keith sono fantastici, come sempre, e...» si fermò in

tempo «E ho conosciuto delle persone molto carine e... ed è venuto a trovarmi anche Federico».

Non ci fu risposta. Danielle lo immaginò annuire leggermente, gli occhi socchiusi.

«Bene» concluse l'uomo con un tono piatto che a lei parve una dolcissima melodia. «Era per... sentirti. Continua a divertirti».

«Grazie papà! È un regalo bellissimo». «Ciao Dani».«Tu come stai, papà?». Finse di non sentire il saluto perché non voleva che quel

momento finisse così in fretta. E poi, pur sapendo che non avrebbe mai ricevuto una risposta sincera, le interessava davvero sapere come stava suo padre.

«Ciao Danielle!» concluse Gabriele con tono leggermente più duro.Ma non importava, no, non importava che la telefonata fosse stata breve, il tono

non troppo cordiale e le domande non approfondite. Suo padre l'aveva chiamata e solo per questo rabbia, delusione, amarezza, voglia di essere più cinica di lui si erano dissolte in un istante. Era una sorta di cammino che lei e suo padre stavano compiendo da anni. La strada era infinita. Gabriele stava davanti e non si girava mai, lei lo seguiva, costantemente, a volte accorciando a volte allungando la distanza, qualche volta la allungava talmente tanto che temeva di perderlo di vista — ad esempio scappando di casa all'improvviso come qualche settimana prima, il bruciante desiderio di non tornare mai più. Ma ora lui aveva guardato indietro, seppure per un attimo, seppure con occhi sfuggenti. E a Danielle era tornata tutta la voglia di quattro anni prima per proseguire quel cammino infinito.

In quel momento, nemmeno si pose il problema se tornare subito in Italia e lavorare sullo spiraglio che si era appena aperto; a Brighton stava troppo bene e, in fondo, quella ora poteva essere considerata una semplice vacanza, non più una fuga.

Terminò di prepararsi, quindi, urlato un "Bye bye!" a Keith e Michelle, uscì dalla villetta, diretta al centro commerciale, sorriso raggiante sul volto.

29

Matt aveva la mente svuotata. Non ci poteva credere, era impossibile che tutto il suo lavoro, le notti insonni, le elucubrazioni mentali, ma soprattutto l'incubo di Nancy e il brutale sacrificio del suo Bob non fossero serviti a nulla. A nulla! Assurdo...

Guardò con schifo i fogli che stringeva fra le mani e si alzò dalla scomoda posizione — accucciato, busto proteso verso l'interno dell'armadio — che aveva mantenuto per troppo tempo, tanto che non sentiva più le gambe. A fatica, si trascinò verso il tritacarte, dove gettò con rabbia fogli di analisi e buste. La macchina si inghiottì con un rumore metallico quello in cui Matt aveva riposto ogni speranza, la prova, la carta con cui incastrare quei bastardi.

"Eh... sarebbe stato bello se fosse andato tutto liscio, eh?". Si passò una mano fra i capelli mentre usciva dall'infermeria. Come sempre, l'unico modo per smaltire la delusione, la confusione, era quello di tuffarsi nel lavoro. Sperò solo di avere molto da fare per non pensare.

Ma ovviamente non ne fu capace. Constatò che era un gran peccato non essere riuscito a salutare Dan quella mattina...

«Matt, posso parlarti un attimo?».La voce era familiare. Il medico si girò, di fronte a lui una giovane donna,

fasciata in un completo elegante nero, i lunghi capelli biondi le arrivavano fino a metà schiena, i begli occhi azzurri messi in risalto da un tocco leggero di matita nera. Era una bella donna, e Matt lo notò pure quella volta, ma notò anche quanto il tutto non gli provocasse alcuna reazione.

«Le solite firme... sai...» sorrise lei con un gesto vago della mano destra, mettendo in mostra lunghe unghie ricoperte di gel trasparente.

Lui sorrise di rimando, capendo perfettamente che l'invito era quello a seguirla in ufficio e che, alle solite pratiche, si aggiungeva qualche altro tipo di discorso. Niente di preoc cupante, era certo che da Amanda Carlton non avrebbe mai potuto ricevere niente di preoccupante. Mentre la seguiva attraverso il corridoio, tenne lo sguardo sul pavimento bianco lucido dove si immaginava le scritte che pochi minuti prima aveva visto sul foglio delle analisi. Fruttosio... maltodestrine... che rabbia!

«Senti Matt» esordì l'amministratrice una volta che furono entrati nel suo lussuoso studio «sai che sei un ottimo medico e io sono la prima ad affermarlo».

Lui annuì, già immaginando il resto del discorso.«Però ultimamente si vocifera che stai facendo delle cose strane. Hai sempre

lavorato più del solito, ma in questo periodo... poi sembra che ti attacchi ad alcuni pazienti in particolare, vedi cose strane anche dove non ce ne sono, hai sempre un'aria assente... stai bene?».

«Sì, grazie» ribatté con un sorriso. Sapeva come prenderla, sempre con gentilezza, era il miglior modo di comportarsi con una persona che non amava affatto mettersi in discussione come lei.

«Non lo so, non sembra... hai uno sguardo ansioso... poi ieri ti hanno visto uscire di corsa...».

"E poi hanno visto anche che mutande ho messo questa mattina?". Non lo disse, l'ultima cosa che voleva era avere anche Carlton alle costole.

«E quella ragazza picchiata che hanno mandato dal pronto soccorso...».Matt tentò di mantenere un'espressione neutra, pur capendo che si stava andando

verso un terreno scivoloso.«Hanno detto che continuava a chiamarti...».«Me?». Doveva fingere, fingere, fingere, e farlo molto bene.«Te, il tuo nome...».«Beh, ho un nome molto comune, no? Tu prova a cercare "Matthew Holland" su

Facebook e te ne verranno fuori a centinaia, tra cui anche una scuola».«Non prendermi in giro, Matt!». La donna si drizzò sulla sedia, lo sguardo

leggermente più duro. «Mi hanno detto come ha reagito quando ti ha visto. Non ti voleva, diceva che era colpa tua, farneticava parole senza senso».

Si era dimenticato del capannello di infermiere che aveva assistito alla scenata di

Nancy. Non sarebbe servito più a nulla fingere di non conoscerla.«Va bene. Siamo stati insieme per qualche mese e... l'ho lasciata. Non l'ha ancora

accettato, mi odia».Lo sguardo della donna era ora più triste che determinato. Immersa nei propri

pensieri, batté sul tavolo con le lunghe unghie. «Sei un uomo maledettamente difficile, lo sai?».

Lui annuì debolmente con un'espressione consapevole.«Firma e va' a lavorare, dai. Ma, ti prego, continua ad essere quello che conosco,

quello che sei sempre stato».«Sono di nuovo io se ti chiedo il pomeriggio per andare al funerale di... una

persona speciale e ti invito a pranzo?».Lei assentì vigorosamente, inanellandosi i lisci capelli con la destra e

allungandogli dei documenti con la sinistra.La pioggia aveva iniziato a cadere con insistenza. Matt terminò di visitare la

giovane paziente che Jack avrebbe dovuto operare l'indomani e uscì dall'ospedale stringendo in mano un ombrello nero che teneva in ufficio per casi di pioggia improvvisa — e a Londra quella era abitudine più che occasio-nalità. Gli venne da sorridere quando ripensò a se stesso più di quindici anni prima. Più di una volta si era visto costretto a comprare ombrelli in giro perché si dimenticava sempre di portarsene dietro uno e, quando aveva finalmente capito che quello non era esattamente un ottimo modo di fare economia — cioè quando era arrivato ad averne una ventina —, si impose anche l'ombrello come capo d'abbigliamento. Non era una mentalità facile per uno cresciuto nelle spiagge del "Surf in USA", ma era disposto a ben di più pur di allontanarsi da quel vortice di dolore che era diventata per lui la California.

Superata la porta a vetri del Royal London Hospital, si diede un'occhiata intorno, meditabondo. Non era il caso di usare la macchina per arrivare alla Christ Church. Era pure in anticipo. Attraversò la strada e si incamminò.

I pensieri, le preoccupazioni gli cadevano addosso come la pioggia battente

sull'ombrello. Accelerò il passo nella speranza di lasciarseli indietro.Dalla porta aperta di un bar gremito provenivano gli incon fondibili accordi di

God Save the Queen, una tra le prime canzoni che Matt aveva imparato a suonare quando, da piccolo, prendeva lezioni di chitarra. Uno dei pezzi preferiti di Jane, a Ralph non sarebbe troppo dispiaciuto censurarlo. Sorrise al ricordo. Avrebbe avuto voglia di entrare in quel bar soltanto per sentire il pezzo in compagnia del popolo della Regina, natio o adottato. Tirò però dritto in direzione di Commercial Street.

Quando arrivò davanti alla Christ Church, un gran numero di persone stava già entrando. Tra loro moltissimi ragazzi, compagni di scuola e di nuoto di Luke. Tenendosi in disparte, li abbracciò con lo sguardo. Avrebbe saputo indicare con certezza qualcuno degli sportivi, sia per la forma fisica sia perché, grazie all'impeccabile memoria fotografica, si ricordava di averli visti in piscina. Osservò tutti con attenzione.

«Signor Holland?».Matt trasalì leggermente. Di fronte a lui si era materializzato uno dei ragazzi per

cui stava lottando.«Ciao Paul! Come va?».Il ragazzo alzò il braccio ingessato con espressione neutra.«Mhm... è così che dici tu, no?».Paul sorrise. «Mhm. Perché lei è qui? E come sta Chelsea?».«Chelsea sta bene!» intervenne un'altra voce, quella di una donna piuttosto alta.

La signora Daultry si stava avvicinando. «Mia figlia è tornata a casa questa mattina, dottore». La donna gli strinse vigorosamente la mano con gli occhi lucidi.

«Mi dispiace non averla salutata, ho avuto dei problemi. Ma sono contento stia bene».

«Sì. Avrebbe voluto essere qui, ma gliel'ho impedito. Era proprio contenta di tornare a casa!».

«Immagino!».«E tornerà tutto a posto, grazie a lei Chelsea sarà...».«Vogliamo entrare?» la interruppe Matt con un sorriso e una leggera pacca sul

braccio ingessato di Paul. «Credo stiano per cominciare».All'interno, il marmo bianco della Christ Church contrastava fortemente con

l'umore cupo dei presenti. Molta gente accalcata davanti alla bara, poco distante un'esile figura di donna-relitto circondata da decine di abbracci, singhiozzi, voci, parole di consolazione, niente che la potesse far stare meglio. Aveva il volto rigato di lacrime, gli occhi talmente gonfi di pianto, sonno e dolore che il bel verde scuro non era più visibile.

Paul, Matt e la signora Daultry seguirono la fila di persone che lentamente si dirigeva verso il transetto della chiesa. Infine si ritrovarono di fronte alla madre di Luke.

La donna, con il corpo scosso dai singhiozzi, abbracciò uno dei migliori amici del figlio, Paul, che nel frattempo era scoppiato a piangere. Lo strinse a sé per qualche frazione di secondo, illudendosi che quello era tutto un gigantesco, maledetto incubo e che il suo bimbo sarebbe presto tornato. Poi gettò le braccia al collo della signora Daultry. Non la conosceva, ma era una madre e la poteva capire.

E in effetti Marie Daultry la capiva molto bene, con tutta la paura che aveva avuto di perdere la sua piccola Chelsea. Era tutto passato, il suo era davvero stato un lungo, maledetto incubo.

La signora Mason, infine, strinse la mano di Matt con la forza della disperazione: «Dottore... è venuto, grazie...».

«Beh, è il minimo dopo che non sono riuscito a...».«Grazie, grazie, grazie...» lo interruppe la donna gettandogli le braccia al collo, il

corpo tremante.Lui ricambiò la stretta, ricordandosi di altre due donne che lo avevano salutato in

simili condizioni, al colmo della disperazione. Una di loro era Jane alla base Travis.La cerimonia fu lunga e mesta. Dal sermone traspariva tutta la partecipazione di

un pastore che conosceva da anni la famiglia Mason, che aveva visto nascere e crescere Luke. E traspariva tutto il dolore delle decine e decine di presenti, in stragrande maggioranza ragazzi tristi, arrabbiati, delusi, persone che volevano troppo bene a Luke per accettare la sua prematura scomparsa.

Al termine, la stessa folla si riversò nuovamente fuori, camminando ancor più lentamente e mestamente, se possibile. Altri abbracci, altri singhiozzi, altri inutili tentativi di consolarsi.

Matt guardò l'ora: gli dispiaceva non poter partecipare al resto della cerimonia, ma doveva rientrare in ospedale. Salutò Paul Brett e Marie Daultry, quindi si mise da parte per aspettare che tutti uscissero. Voleva vedere di nuovo, probabilmente per l'ultima volta, la signora Mason. Riconobbe uno dei ragazzi che l'avevano aiutato a soccorrere Paul, poi un altro, e infine uno dei due allenatori. L'uomo non lo vide, continuò a camminare al braccio di una donna vestita di nero. Matt evitò di salutarlo, non era un buon momento per socializzare.

«Grazie ancora» sussurrò la madre di Luke facendoglisi incontro. Aveva momentaneamente smesso di piangere.

«Grazie a lei, per avermi chiesto di venire».La donna, cacciata una mano nella tasca della giacca nera che indossava, abbassò

ancor di più il tono della voce: «Voglio regalarle questa, è l'ultima medaglia di Luke». Tirò fuori una scatoletta quadrata di color nero.

Matt fece per protestare, ma la donna lo zittì, infilando il contenitore nella tasca del suo impermeabile. «Lo tenga, voglio che lo abbia lei, così si ricorderà di me e mio figlio».

Lui sospirò e strinse di nuovo la mano di quella donna di cui nemmeno sapeva il nome, ma conosceva fin troppo bene il dolore.

«Le auguro il meglio, signora». Non sapeva se fosse esattamente ciò che vorrebbe sentirsi dire una persona che ha appena perso un figlio, ma lo disse comunque, di cuore.

Si avviò, tuttavia ebbe la sensazione di avere degli occhi addosso. Sentendosi sciocco, si girò per verificare. Naturalmente non vide nessuno, ma la sensazione rimase netta. Lanciò un'ultima rapida occhiata, fingendo di star osservando la facciata della Christ Church.

A grandi passi, si avviò lungo Commercial Street, sotto la pioggia ancora battente.

La porta del bar davanti a cui era passato prima era ancora aperta, un ragazzo stava entrando proprio in quel momento. Dalle casse ora usciva Thunderstruck, altro pezzo che Matt aveva amato suonare in compagnia. E se prima non aveva potuto fermarsi a godere di un capolavoro come God Save the Queen, decise che almeno gli AC/DC meritavano la sua attenzione.

All'interno, l'alto vociare era accompagnato dal rock pos sente della band australiana, quasi tutti i tavoli pieni di personaggi variegati. Matt guardò di nuovo l'ora e andò a sedersi ad un tavolino in un angolo, abbastanza vicino ad una cassa, a debita distanza dal resto dei clienti. Agguantò il giornale sul vuoto tavolino accanto e si immerse in un articolo di politica, sempre politica, una delle sue grandi passioni. Aveva spesso pensato ad una seconda laurea, in scienze politiche, ma l'amore della sua vita, la medicina, non glielo permetteva: i turni in ospedale erano troppo intensi, lui troppo coinvolto.

«Buongiorno! Desidera?» gli domandò un ragazzo poco più che adolescente. Ordinò una birra grande e tornò ad immergersi nella cronaca da Downing Street e il mondo.

Infine si ricordò dell'oggetto che gli pesava nella tasca sinistra. Lo estrasse.Si trattava di un contenitore di plastica nera dal lato di una decina di centimetri,

alto un paio. Matt cercò l'apertura del coperchio, lo trovò. L'interno era rivestito di velluto nero, due lembi del quale ricoprivano un altro oggetto. Il medico li sollevò. Una medaglia rotonda di color oro riportava in rilievo uno stemma che Matt non seppe interpretare e la scritta Champion Under 18 Competition. La prese delicatamente in mano, abbastanza pesante. La ripose e...

Matt sgranò gli occhi e richiuse il contenitore. Tentando di mantenere un'espressione neutra, se lo ricacciò in tasca e bevve in poche sorsate la birra che nel frattempo il giovane cameriere gli aveva portato.

30

Larry Chilton camminava avanti e indietro davanti ad una porta chiusa. Immerso nei propri pensieri, constatò che in qualche modo doveva urgentemente contattare Matt. Era questione matematicamente certa che lo stessero intercettando, quindi il telefono era completamente fuori discussione. E pure la mail. Sapeva troppo bene come andavano quelle cose e sapeva che loro sapevano che Matt sapeva. Gran casino. Forse era troppo pericoloso anche andare a Londra, ma in qualche modo doveva confrontare i risultati con lui — a prescindere da quali fossero — e decidere come agire. Era preoccupato. E se Matt avesse fatto qualcosa di sbagliato, spinto dall'istinto di fare la cosa giusta che in realtà in questi casi poteva rivelarsi terribilmente sbagliata? Si appoggiò alla parete spoglia e attese, inalando il pungente odore di medicina del laboratorio di analisi.

La porta in legno scuro di fronte a cui Larry stava appoggiato si aprì dopo qualche minuto. Ne uscì una giovane donna dalla figura slanciata, i capelli rossi e molte lentiggini sul volto, tenendo alcuni fogli in mano: «Eccole!».

Larry fece un passo e allungò la mano, sguardo curioso ed impaziente. Provò a leggere i caratteri stampati in nero sul bianco perfetto di quella carta, ma i dati gli risultavano pressoché incomprensibili.

«Non capisci niente?» ironizzò la donna con un sorriso malizioso.Larry annuì.«Beh, dunque...» continuò lei impossessandosi dei fogli dopo avergli passato un

braccio sulle spalle. «E una soluzione composta in gran parte da acqua, naturalmente, ricca di carboidrati. Per la precisione, si tratta di fruttosio e maltodestrine, ottime fonti di energia per sportivi sotto sforzo».

«E la miglior fonte di energia per uno stakanovista che non dorme da quasi trentasei ore qual è?» domandò l'uomo atti randola a sé e stampandole un bacio appassionato sulle labbra evidenziate da un tocco di rossetto viola. Era tanto bella quanto pettegola, a prescindere dal risultato di quelle analisi, non doveva sapere più del necessario, anzi, in realtà non avrebbe nemmeno dovuto aprire la busta, Matt non doveva correre neppure il minimo pericolo. Ormai era tardi, tanto valeva ingraziarsela.

«Questa!» decretò lei infine mettendogli le braccia intorno al collo.

31

Matt correva sotto la pioggia che non aveva per un attimo smesso di cadere, scoppiata con il temporale che si era scatenato a mezzogiorno. Con il cappuccio dell'impermeabile tirato su a coprirgli i capelli, aveva deciso che l'ombrello era troppo ingombrante perché valesse la pena usarlo. Correva sotto l'acqua, disperatamente voglioso di arrivare quanto prima al confine col South End, la borsa di pelle a tracolla, pesante come sempre.

Svoltò l'angolo e si trovò di fronte ad un condominio alto una decina di piani. Era quello? Non ne era certo, era stato lì una volta, di sera, quando l'aveva accompagnata a casa dopo cena, ma era ripartito subito. Si fermò a riflettere per qualche istante, poi decise che era il posto giusto. E per trovare il piano... avrebbe guardato i nomi sui campanelli.

Lo fece, suonò su quello che portava la scritta "A.C. Carlton".La porta si aprì quasi immediatamente, all'interno un intenso profumo di incenso,

il sottofondo di un pezzo a pianoforte di musica classica che Matt non conosceva.«Matt?». Amanda Carlton, pur sorpresa, si spostò di scatto per aprirgli il

passaggio. «Vieni!».La vide ancora una volta bellissima, in un leggero abito di cotone azzurro, e vide

pure quanto lei lo vedesse bello, infine vide per l'ennesima volta quanto il tutto non gli interessasse. «Ho bisogno del tuo aiuto».

La donna gli lanciò uno sguardo interrogativo.«Devo andare in Italia, urgentemente, c'è un mio amico che sta molto male. Ha

fatto un incidente questa mattina. Potrei avere qualche giorno di permesso?».Pochi minuti dopo casa Carlton era alle spalle, davanti soltanto le scale del

sottopassaggio che portava alla metropolitana, in testa centinaia di pensieri, così come centinaia erano le persone che affollavano la stazione quel pomeriggio. Matt non badò a nessuna di loro. Si fiondò nel primo convoglio disponibile che andasse verso Gatwick.

Anche l'aeroporto era pieno, gente diversa, frettolosa e urlante esattamente come alla fermata della metropolitana. Ed esattamente come alcuni minuti prima, Matt tirò dritto ad un bancone per il check-in nel terminal delle partenze.

«San Socrate Holland?» lo salutò una voce sorpresa dall'altra parte.Lui osservò meglio. «Allison Daultry?!».La ragazza annuì vigorosamente. Il suo volto ora era rilassato, i quasi trent'anni

invisibili dietro ad un sorriso smagliante, una pelle liscia e un trucco leggero.«Mia sorella è a casa».«Lo so, ho visto vostra madre qualche ora fa al funerale di Luke». Matt si

appoggiò al bancone per riprendersi dalla corsa con cui era entrato in aeroporto.La giovane sospirò. «E lei? Partenza? Abbandona i pazienti?».«Eh no, così no, non farmi sentire in colpa!». Entrambi sorrisero. «Qual è il

prossimo volo?».

«Per dove?».«Per qualunque posto!».La ragazza parve totalmente spiazzata da quella risposta. «Ma...».Lui confermò con decisione.«Ok. Il prossimo della nostra compagnia è fra un'ora per Amsterdam. C'è ancora

qualche posto, ma il gate sta per chiudere».«Sei fantastica!» concluse Matt pescando il portafoglio dalla borsa.La ragazza sollevò lo sguardo dallo schermo e, prima di prendere soldi e

documenti, lo fissò negli occhi: «Non lo sta facendo perché ama andare all'avventura in viaggio, vero?».

«No. E, a discapito del cognome, non sono mai stato in Olanda. Comunque dovrei chiederti un'altra cosa, magari da un'altra parte, però».

La giovane terminò la pratica, stampò il biglietto e consegnò il tutto al proprietario. «Mi segua».

Passando attraverso un corridoio incredibilmente quasi deserto, i due giunsero ad

un angusto ufficio, mal illuminato da una finestrella ricoperta di sporche tende beige.Matt si infilò la mano in tasca ed estrasse il contenitore nero. «Ho assoluto

bisogno che stia al sicuro e qui per certi versi è un posto molto più sicuro di casa mia. A questo punto penso tu possa capire in che cosa consiste l'aiuto che ti chiedo». Sollevò il coperchio.

La ragazza diede una rapida occhiata, perplessa.«Lo so, sono stupito anch'io, ma è importante. Potresti farlo per me?».«Questo ed altro» rispose lei con un sorriso sincero sebbene teso. «Ora si sbrighi,

stanno per chiudere i cancelli».Matt le passò la scatola e le strinse la mano. «Grazie Allison. Ti auguro tutto il

meglio».«Buona fortuna a lei». Allison ricambiò la stretta con altrettanta intensità, le sue

lunghe morbide dita dimostravano ancora una volta tutta la gratitudine e l'ammirazione che provava per l'uomo che le stava di fronte.

Matt lasciò la ragazza ancora meditabonda con il contenitore in mano per correre verso il gate che lei gli aveva indicato.

Non impiegò molto a raggiungere la pista d'atterraggio, quindi occupare il proprio posto all'interno di un Boeing turistico di medie dimensioni. Nulla importava del mondo circostante. Voleva rimanere solo con i propri pensieri e il mal di testa, arrivato all'improvviso con la solita fitta atroce. Poche speranze di dormire, ma poche speranze anche di stare sveglio e ragionare. Che poi perché avesse deciso di azzardare questo passo non risultava chiaro nemmeno a lui. Era vero che aveva raccolto tutto il denaro contante che aveva in casa in previsione di emergenze di qualsiasi tipo, ed era pure vero che aveva appositamente buttato a terra il cellulare e il cercapersone, incapace di pensare a metodi più geniali con cui allontanarsi di qualche centimetro da quegli infami. Comunque azzardare una mossa simile probabilmente sarebbe stato sconsigliato dagli esperti in materia, come il mitico Larry da cui, peraltro, non aveva più ricevuto notizie. E ora eccolo, im barcato su un volo per Amsterdam, senza sapere se si sarebbe fermato lì o per dove avrebbe proseguito.

Sbuffò di dolore prima di cacciare entrambe le mani in borsa per controllare se, per caso, aveva dietro qualche libro che non fosse uno dei soliti volumi di saggi sulla medicina.

"Negativo, capitano!" pensò rassegnandosi a leggere un libricino sulle biotecnologie che aveva comprato qualche mese prima ad una conferenza a Dublino.

«Ciao! Come ti chiami?».La voce veniva dal sedile accanto, era quella di un bambino sui sei anni dai

capelli rossicci, il viso paffuto e una maglia con la stampa di un topolino sorridente. Matt lo guardò con curiosità. Nemmeno si era accorto della sua presenza!

«Io sono Matt. Tu?».Il bambino lo fissò per qualche lungo istante. «Mi chiamo Stefan». Gli tese la sua

piccola mano, che Matt strinse con un sorriso compiaciuto. «Perché vai in Olanda?».«Beh...»."Ma Danielle era così curiosa da piccola?" pensò.«Perché mi piace e ci sono dei miei amici».«Piantala di disturbare, Stefan!» intervenne il padre, seduto alla destra del

bambino.Matt rivolse un ampio sorriso all'uomo, quella conversazione non lo disturbava

affatto.«E tu perché ci vai?».«Perché lì c'è la mia nonna. Cosa fai?».«Mmm... sto leggendo...».«Non adesso! Sempre, intendo!».Matt scoppiò a ridere: «Il dottore».«E guarisci sempre le persone?».«Ci provo».«Quindi non le guarisci sempre!».«Non è sempre possibile» rispose l'uomo scuotendo la testa.«E quando non le guarisci cosa succede, che diventano stelle come mia sorella?».Matt impiegò qualche secondo per processare quella domanda. Quel bambino

sembrava tanto la fotocopia di lui da piccolo, pieno di domande su domande rivolte a Jane e non solo, disposto a chiacchierare anche con i sassi.

«Non lo so, non sono certo di che cosa succeda dopo, ma sì, probabilmente diventano stelle».

«È vero, è vero, diventano stelle come il piccolo principe!» concluse il bambino sventolandogli sotto il naso una copia illustrata del capolavoro francese.

"Diventano stelle..." rifletté l'uomo. Questo significava che anche Jane e Ralph lo erano diventati, e pure Luke e tutti i pazienti che aveva visto morire negli anni della sua carriera. E stelle erano pure tutti i morti della Prima Guerra del Golfo, quelli della Seconda e di qualsiasi altra guerra. E stella era diventata anche Roberta, che era stata la sua stella per molti anni e continuava ad illuminarlo di una luce particolare.

Non si diede tempo per definirsi idiota, come succedeva sempre quando per la mente gli frullavano pensieri poco razionali.

«Sì, hai ragione, diventano stelle. Ti va se ne leggiamo insieme un pezzo?».Ora sapeva perfettamente la destinazione, che quel bambino tanto somigliante al

piccolo principe, così semplice, curioso e intelligente gli aveva involontariamente rivelato.

32

Quella di svegliarsi alle sette e mezzo per essere al centro commerciale poco prima delle nove stava ormai diventando un'abitudine per Danielle. Amando cambiare suoneria della sveglia ogni mattina, quel giorno toccò ai Muse darle il buongiorno, e lo fecero con una fantastica cover di Can't take my eyes off you.

Sbadigliò rumorosamente e ripensò a Federico nell'ascoltare le note di quel pezzo che ben amalgamava le sensuali tonalità di una baliad alla potenza rock della band inglese. Ed era stato proprio Federico a fargliela sentire — come tutta la musica che ascoltava, del resto — una sera d'estate nella sua veranda. Era stata una serata bellissima, con tanto di stelle, brezza leggera, intenso profumo d'estate e musica. Erano passati pochi giorni da quando lui l'aveva invitata ad uscire e, sulla panchina di un parco, le aveva dimostrato ciò che provava. Anche quella era stata una giornata indimenticabile.

Le mancava. Era andato a trovarla per troppi pochi giorni, ecco un altro motivo per tornare in Italia al più presto. Pazzesco come soltanto un giorno prima fosse tutto diverso, lei fosse diversa. Ora la speranza si era riaccesa, la voglia di essere amata forse sarebbe stata finalmente soddisfatta; e si rendeva conto di starsi molto probabilmente illudendo, ma non gliene importava, preferiva illudersi, sperare, che essere attanagliata dall'orribile morsa di paralisi mentale.

La sera prima aveva detto a Federico della telefonata. Lui, certamente più obiettivo, non soggetto ad una così devastante tempesta di emozioni contrastanti, si rendeva conto di quanti castelli in aria stesse costruendo la ragazza. Non osava però dirglielo, per molte ragioni: perché forse aveva ragione lei, perché sarebbe stato inutile farla stare ancora male, e perché, finalmente, forse avrebbe smesso di venerare quel racconto assurdo di un padre esaltato e, ancora, perché non si sarebbe fatta più strane idee, come desiderare un padre diverso da quello che aveva, magari uno che conosceva da qualche ora.

Ma Danielle smentì tutto ciò. Oltre a preferire consapevolmente di illudersi, anche quella mattina rilesse in un paio di minuti il racconto portafortuna. E ripensò persino a Matt e a quanto la attirasse, praticamente come una calamita.

I Muse avevano finito il loro minuto di performance concesso dalla sveglia del cellulare. Danielle fece ripartire la canzone e, stiracchiandosi, iniziò a canticchiare.

«Dan, è pronto!» urlò Michelle dalla cucina.La ragazza si stiracchiò ancora per qualche momento. Infine saltò dal letto e

afferrò il beauty-case nero sul comodino.Un'oretta dopo era sul pullman diretto al centro commerciale. Intrappolata nella

calca mattutina di turisti e qualche inglese che trovava più comodo usare i mezzi pubblici che sfidare il traffico, pensò che effettivamente sarebbe stato bello ricevere una telefonata anche quel giorno. Illudersi, ma non così tanto. Riuscì a trovare il cielo in un angolo di finestrino e si perse a fissare lo scroscio della pioggia.

Con una brusca frenata, l'autobus si fermò davanti all'imponente struttura che

ospitava alcune decine dei negozi preferiti dal popolo di Brighton.Danielle non scese subito, persa nelle gocce d'acqua che si susseguivano cadendo

pesantemente sull'asfalto, poi si accorse del centro commerciale, giusto in tempo per precipitarsi fuori, il cappuccio dell'impermeabile tirato sulla testa per non bagnare i capelli piastrati.

Le porte a vetri del complesso si aprirono con il solito ronzio, la consueta folata di aria condizionata, il vociare dei primi lavoratori intenti ad aprire le proprie attività avvolsero Danielle quando, pulite le scarpe bagnate sullo zerbino, varcò la soglia.

Ma fu costretta a fermarsi immediatamente. Le salì un brivido lungo la schiena che nulla aveva a che fare con l'aria condizionata, seppur troppo fredda per una giornata di maltempo. Era qualcos'altro, una brutta sensazione che aveva provato anche due giorni prima.

Lui era lì, o meglio, lei lo temeva. Naturalmente l'ultima cosa che sarebbe mai venuta a sapere era che l'uomo che l'ave va terrorizzata due mattine addietro giaceva ancora privo di vita, in una pozza di sangue, da qualche parte sulla strada fra Brighton e Londra, nemmeno poteva immaginarsi il suo corpo che iniziava a dare i primi segni di decomposizione. Si spostò di lato per lasciar passare una signora che stava entrando nel centro. Appoggiata ad una colonna di fronte ad una profumeria, si abbracciò nel tentativo di far svanire quella sensazione di gelo.

"Che stupida che sei, Danielle Castaldo..." si disse, ancora incapace di rimediare al freddo. Si chiese come mai non ci avesse pensato così insistentemente il giorno prima, probabilmente era troppo contenta della telefonata del padre. Per un attimo le ritornò il sorriso.

«Ehi, Dan, tutto bene?». Jay era comparso di fronte a lei, un sorriso allegro sul giovane volto.

«Ehi!» esclamò la ragazza alzando lo sguardo. «Tutto bene, sì, sì sì sì, tutto bene. Stavo solo... pensando ad un regalo per Michelle e mi ero fermata a guardare la vetrina».

La menzogna era palese anche per un ragazzo ingenuo come Jay. Decise però che non lo riguardava, non avrebbe insistito, sarebbe stato un ottimo confidente soltanto nel caso in cui lei l'avesse voluto. Le mise una mano sul braccio: «Andiamo, Pattie ci aspetta!».

Lei lo seguì verso la scala mobile simulando una tranquillità che nulla aveva a che fare con il suo reale stato d'animo.

Pattie stava svuotando uno scatolone di cd appena arrivati. I ragazzi si misero subito all'opera, così, in pochi minuti, lo scaffale delle novità era a posto, e anche l'umore di Danielle, distratta dalle chiacchiere dei due, che ormai poteva considerare buoni amici. Erano tutte paranoie, decise che sì, quelle dell'inquietante connazionale erano tutte paranoie.

Non fu esattamente dello stesso parere quando, alle quattro circa, dopo che la giornata aveva completamente mutato volto con uno splendido sole, nel negozio entrò un uomo sulla trentina e dai tratti mediterranei. Danielle inghiottì rumorosamente aggrappandosi al bancone.

"Jay... Jay... dove sei?". Lo cercò con lo sguardo, non aveva il coraggio di osservare il nuovo cliente. Poi si sentì completa mente stupida e si girò verso la

porta. L'uomo era fermo davanti ad uno degli scaffali di dvd. Sul volto rilassato, nessuna somiglianza con lo sgradevole ospite di due giorni prima, e nemmeno i tratti mediterranei erano in fondo così mediterranei. Danielle tirò un sospiro di sollievo.

Il cliente impiegò molto poco a scegliere un film il cui titolo Danielle nemmeno guardò quando batté lo scontrino. Si limitò, piuttosto, ad essere gentile e sfoggiare la miglior pronuncia di cui fosse capace. Lui pagò e uscì soddisfatto. Lei, dal canto suo, sentiva di essersi liberata di un peso opprimente. Puntò i gomiti sul bancone e guardò Jay riemergere da dietro un espositore di chitarre.

«Vuoi andare a fare una pausa?» le chiese il ragazzo raggiungendola.«Mah... quasi quasi... grazie!». Prese il portafoglio dalla borsa e si precipitò al

piano inferiore.La vetrina della pasticceria era zeppa di ogni ben di dio. Danielle scelse un

dolcetto alla crema, per poi sedersi a sbocconcellarlo su una delle lunghe panchine che si distendevano in mezzo al corridoio. Davanti a lei, due bambini si rincorrevano rumorosamente, un gelato precario nella mano di ciascuno. Ancora una volta pensò che sarebbe stato troppo bello avere un fratello o una sorella, non importava se maggiore o minore. L'aveva chiesto per anni a Roberta, ma soltanto dopo la sua morte aveva capito perché la sua richiesta non poteva essere esaudita, perché sua madre non poteva rimanere incinta.

Se avesse avuto qualche anno in meno si sarebbe messa a giocare con i due bimbi. Ingoiò l'ultimo boccone di merenda e si alzò dopo aver abbracciato con lo sguardo quei due piccoli, probabilmente fratelli. A passo veloce, si diresse verso i bagni del personale, costruiti in posizione strategica cosicché il pubblico non potesse arrivarci tanto facilmente. Avevano il vantaggio di essere sempre puliti e, soprattutto, sempre liberi. Anche quel pomeriggio.

Lavate le mani con un sapone che sapeva troppo di limone per profumare, prima di uscire Danielle si girò un'ultima volta per guardarsi nello specchio.

Il sangue le si gelò nelle vene.

33

Il sole si era già tuffato dietro l'orizzonte olandese quando il Boeing atterrò allo Schiphol di Amsterdam. Il piccolo Stefan si era addormentato con la testa reclinata sul braccio del padre e Matt continuava a fissarlo incuriosito. Naturalmente durante tutto il volo aveva pensato a quanto sarebbe stato bello avere lì accanto una piccola Danielle di cui soddisfare le curiosità, una piccola bambina da accompagnare dalla nonna. Si era immaginato loro tre vivere insieme a Londra, o magari addirittura in California, e volare in Italia per le vacanze. E lo pensò anche mentre fissava quel padre premuroso accarezzare la testa del figlio e sussurrargli parole dolci nell'orecchio per svegliarlo.

Padre e figlio si alzarono, Matt li seguì nello stretto corridoio che conduceva all'uscita.

Stefan gli si affiancò sulla scaletta che scendeva verso la pista: «Ciao!».Matt inspirò prima di rispondere, ma un denso odore di benzina gli invase i

polmoni. Vertigini... gli venivano ogni volta che sentiva quella maledetta puzza. Quando andava a rifornire la macchina, doveva stare attento a non respirare — o almeno non profondamente — mentre diceva di volere il pieno. Faceva sempre e solo il pieno per andare dal benzinaio il meno frequentemente possibile e, soprattutto, doveva assolutamente evitare il self service altrimenti avrebbe rischiato di svenire con la pompa in mano. E tutto questo? Naturalmente faceva parte del gigantesco souvenir iracheno.

"Maledetti..." non poté fare a meno di pensare per l'ennesima volta.Dovette aggrapparsi al corrimano della scaletta per non crollare davanti ai

passeggeri che stavano scendendo. Le gambe... gli stavano cedendo le gambe...Stefan gli prese un dito e lo strinse: «Ehi, ho detto ciao!».Matt fece del suo meglio per riprendersi: «Scusami... ciao!». Regalò un largo

sorriso al piccolo principe. Il bimbo non lo lasciò andare fino al ritiro dei bagagli. Gli faceva domande in

continuazione, su tutto, sotto lo sguardo imbarazzato del padre che temeva che Stefan stesse infastidendo quell'uomo sconosciuto e sin troppo gentile.

Ma al medico tutto ciò non dispiaceva affatto, anzi, si sentì terribilmente solo quando la vocina acuta del piccolo amico si fece distante, sempre più distante, inghiottita infine dalle porte automatiche del settore arrivi. Fu allora che il mal di testa tornò potente come quando era arrivato. Prima di adoperarsi per cercare un volo verso la sua destinazione finale, trovò un tavolino vuoto in un piccolo bar del centro commerciale dell'aeroporto e vi si sedette con la testa stretta fra le mani, intenzionato a consumare una cena veloce. Mangiò un panino e rimase lì, al suo posto, ad aspettare che la cefalea si alleviasse.

Dagli altoparlanti una giovane voce annunciò dapprima in olandese, poi in un buon inglese, un volo per San Francisco.

Matt scattò in piedi, rischiando di cadere a terra causa testa non ben funzionante; si aggrappò al tavolo. Fortuna incredibile che avesse trovato una coincidenza che coincideva così bene, sperava solo di essere ancora in tempo per prenderla: non aveva alcuna voglia di passare una notte intera in quell'aeroporto.

La fila al banco del check-in era lunga. L'uomo si accodò. Dopo molti minuti di attesa, un giovane ragazzo gli procurò gentilmente quello che cercava: uno degli ultimi posti per il volo verso l'aeroporto internazionale di San Francisco ora era suo. Biglietto alla mano — era costato un bel po' ma ne valeva la pena —, Matt si diresse al metal detector insieme al resto dei passeggeri pronti a volare per la California, tra cui qualche bambino saltellante, niente a che fare con il piccolo principe Stefan. L'enorme borsa di pelle passò il controllo, insieme alle pastiglie di morfina per cui Matt dovette mostrare il certificato, e pure l'iPod che un funzionario eccessivamente zelante volle controllare. Il medico raccolse i propri oggetti dal nastro, li buttò alla rinfusa in borsa, se la rimise in spalla e si incamminò a grandi falcate verso la pista. Già pregustava il potersi fare una lunga dormita ora che era riuscito a far passare le sue preziosissime medicine.

L'aereo compì le virate necessarie per poter prendere quota. A Matt era stato

assegnato un posto vicino al finestrino, accanto ad un impettito uomo di affari probabilmente della sua stessa età. Niente bimbi loquaci, gli dispiaceva, sarebbe stato bello scambiare quattro chiacchiere con qualcuno e quell'uomo pareva proprio non aver voglia di essere disturbato, impaziente di accendere il laptop che teneva sulle ginocchia e che non poteva usare durante il decollo. E quel ricco sfondato di Gabriele Castaldo, tutto soldi niente cervello, era così? Ovviamente, anzi, forse peggio! Preferì non continuare a pensarci. Tirò fuori dalla borsa la confezione di pastiglie di morfina e chiese ad una giovane hostess un bicchiere d'acqua con cui prenderle.

Non erano passate nemmeno quattro ore da quando era atterrato lì che già ripartiva. Doveva essere pazzo. Qualcuno, una volta, gli aveva detto qualche cosa del tipo: «Anche se quella nei marine è stata l'esperienza più brutta della tua vita, sappi che non potrai mai cancellarla, se non altro per la grinta. Quella la conserverai per sempre». Lui aveva risposto che avrebbe preferito restituire anche quella pur di dimenticare, ma, proprio perché nonostante tutto era ancora insita in lui, gli sarebbe tornata utile, almeno in un'occasione simile. L'avrebbe sfruttata. Avrebbe sfruttato fino in fondo ciò che gli aveva rovinato la vita per tentare di salvare quella di altre persone. E non era certo buonismo. Era anche una sorta di vendetta personale, lui contro una multinazionale superpotente come la Hyper Synthesis Scientifics, un semplice medico contro una delle case farmaceutiche più grandi al mondo con cui aveva un conto aperto da circa diciotto anni, una sfida tipo Davide contro Golia — gli piaceva vederla così perché da sempre sosteneva che gli uomini sono megalomani, e lui forse più di altri.

Amsterdam si stava rimpicciolendo man mano che si saliva, il cielo più scuro ad ogni secondo, non contaminato dalle potenti luci della capitale olandese; Iggy Pop aveva iniziato a cantare The Passenger nelle cuffie. Il businessman accanto batteva freneticamente sui tasti del suo computer portatile, ma Matt era troppo stanco per tornare a guardarlo e farsi trasci nare dalla corrente dei soliti pensieri. Chiuse gli

occhi e si fece cullare dalle note di One, che aveva preso il posto del pezzo dell'Iguana".

34

Una mano grande, calda, viscida le si premette sulla bocca. Un'altra la tirò per i capelli. Non vedeva nulla allo specchio, era stata trascinata dietro la porta di uno dei tre gabinetti. Danielle tremava, incapace di analizzare quella situazione. Non aveva nemmeno avuto il coraggio di gridare. Aspettava l'evolversi di una vicenda il cui svolgimento non poteva prevedere in nessun modo.

Ora l'uomo le teneva la testa stretta tra il palmo della mano, che continuava a tenerle premuto sul volto con forza, e il proprio petto, appoggio utile per poter avere una mano libera. E quella mano libera serviva per...

Infine Danielle iniziò a capire quello che sarebbe successo, iniziò a capirlo quando si sentì qualcosa di maledettamente duro puntato alla tempia destra. Una pistola, senza dubbio. Brividi... brividi... brividi cominciarono a scuotere violentemente il suo corpo.

«Ehi, piccoletta!» sussurrò l'uomo nel suo orecchio in una lingua che nulla aveva a che fare con quella dell'orribile ricordo di due giorni prima, ma era altrettanto orribile. «Credo che dobbiamo fare due chiacchiere».

Lei provò a sbirciare con la coda dell'occhio. Vide solo un paio di grandi occhiali da sole e il bavero di un impermeabile tirato sulla bocca.

«Cosa vuoi da me?» fu in grado di domandare dopo qualche istante, la voce soffocata dal palmo sudaticcio dell'uomo, i denti battevano per la paura. «Vuoi i soldi di mio padre? Potevi direttamente fare un giro in Italia».

L'uomo ridacchiò: «Nah... è un insulto alla mia professionalità! Ti piacciono le sorprese, Danielle?».

Ebbe un conato di vomito nel sentire il suo nome, che tanto amava, pronunciato da quell'individuo.

«Assolutamente no!» rispose con tutta la fermezza possibile ad una ragazza in condizioni simili.

«Peccato... mi sa che ne avrai qualcuna! La prima è che dobbiamo farci un

viaggetto insieme».«A casa mia si chiama rapimento» ribatté lei impulsivamente.«Sei una ragazza in gamba. Attenta a non deludermi, mi raccomando».«Per carità, non sia mai!».«Appunto!» concluse l'uomo stringendole ancora un poco la mano sulla bocca.

«Ascoltami molto molto bene: tu adesso lascerai questo bagno come se niente fosse successo. Uscirai dal centro commerciale attraverso l'uscita del personale. Dietro ti aspetterà una macchina».

Danielle non ne poteva più dell'alito caldo dell'uomo sulla faccia, il suo bisbiglio era insopportabile. Strinse i denti.

«Niente cazzate, ragazzina. Io sarò dietro di te, a debita distanza, ma pronto a spararti se tenterai di scappare. Ah, non contare troppo sulle telecamere di sicurezza.

Quelle che interessano il nostro percorso sono state disattivate».Non voleva, ma non poté fare a meno di sentire la prima lacrima iniziare a

rotolarle sulla guancia."Mamma... perché, mamma? Ti prego, mamma, aiutami tu!".«Forza bambola, fuori!». Il rapitore la spinse sgraziatamente verso la porta del

bagno.Danielle decise che non c'era alternativa se non quella di appellarsi ad una

benevolenza superiore. Era inutile pensare di fare chissà che piano, non era mai stata un'abile stratega, tanto meno in quel caso in cui un minimo sbaglio l'avrebbe rovinata. Paralizzata dalla paura, uscì dal bagno e, come un automa, cominciò ad incamminarsi lentamente verso la porta di servizio.

Percorse il corridoio che conduceva all'uscita, desiderando con tutte le forze di poter dare una potente testata al muro e farla finita. Passò accanto a due signore coinvolte in una discussione animata, sperando di poter mandare loro un SOS con la forza del pensiero. Guardò la vetrina illuminata di un negozio di scarpe, pregando che il bastardo che la stava inseguendo si fulminasse.

E poi giunse davanti alla porta. Prima di spingere il mani-glione, sfiorò con un

dito la tasca sinistra dei jeans: il foglietto ripiegato in quattro c'era, invocò — pur sentendosi stupida — la sua protezione. Quindi aprì la porta.

"Certo che la cosa più assurda è andare con le proprie gam-bine dritti dritti dai rapitori!" si disse. Che fare, altrimenti? A passo ancor più lento, camminò sull'asfalto del parcheggio, il desiderio più grande che il terreno si aprisse sotto i suoi piedi e la inghiottisse. E nemmeno pioveva quel giorno, sennò avrebbe potuto sperare in una punizione divina per quei bastardi. Fece degli altri passi, vide un furgoncino bianco con la portiera posteriore chiusa, capì che sarebbe dovuta salire lì. E se si fosse incendiato proprio in quell'istante? Sarebbe stato stupendo! E se fosse arrivato, chissà, Hulk e l'avesse accartocciato con un soffio? Beh, quanto meno lei avrebbe creato una religione che lo venerasse. E se, semplicemente, fosse comparso Gabriele all'improvviso e l'avesse salvata, sparando al tizio che la stava inseguendo? Si sarebbe battuta perché fosse nominato "Padre migliore del mondo". E se?...

Invece non successe alcun miracolo, tanto meno il risveglio di soprassalto, al buio, nel letto di camera sua a Roma o Brighton. E la macchina era ogni secondo più vicina, poteva sentirne il motore acceso, sempre più distintamente.

«Fede...» sussurrò con le lacrime agli occhi, il cuore a pezzi, prima di sollevare il piede destro per salire su quel maledetto veicolo che l'avrebbe condotta Dio solo sapeva dove.

35

L'aereo iniziò ad abbassarsi di quota mentre sorvolava la California. Come la mano romantica di un pittore impressionista, l'alba pennellò in pochi secondi la tela nera del cielo regalandole tonalità sgargianti, indescrivibili, risvegliando il mondo addormentato con il calore e l'energia che solo questo brevissimo momento della giornata sa e può sprigionare. Uno splendido sole stava emergendo dall'Oceano Atlantico per tuffarsi, a fine giornata, nelle acque della West Coast. L'enorme Atlantico, che Matt aveva attraversato in un sonno profondo per effetto della dose di morfina. Si risvegliò con la sensazione di levitare, dovuta all'imminente atterraggio; l'iPod si era scaricato, un auricolare gli era caduto sulla spalla sinistra, l'altro si era appeso al collo della sua t-shirt grigia. Lui non si era accorto di nulla. Si stiracchiò e, percosso da un brivido di freddo, si allacciò la giacca che aveva portato con sé soltanto grazie alla pioggia di Londra. Con un sorriso fra l'amaro e il nostalgico, guardò fuori dall'oblò. La familiare vista dell'immensità del Pacifico e l'illusione di stare per atterrare sull'acqua erano magnifiche, come sempre, uno spettacolo che non rivedeva più da molti anni. Gli era mancato.

Proprio nel momento in cui i passeggeri che affrontavano per la prima volta quel viaggio iniziarono ad esclamare, tra l'inorridito e lo stupito: «Atterriamo in acqua!», la pista dell'SFO comparve per accogliere il loro velivolo di notevoli dimensioni. L'uomo accanto a Matt fu rapidissimo nello slacciare la cintura, raccogliere le proprie cose e scattare in piedi. Il medico, invece, rimase ancora per qualche istante con gli occhi incollati al finestrino, in attesa che la folla diminuisse. Infine scese, evitando accuratamente di inspirare mentre era ancora vicino all'aeroplano.

Si allontanò a grandi passi dal velivolo, questa volta senza qualcuno che lo tenesse per mano e lo tempestasse di domande sul come e il perché di tutto, per arrivare, dopo diversi minuti, al terminal. Mostrando il passaporto americano, sbrigò in pochi secondi la burocrazia e poté lasciare l'aeroporto. Erano le sei e mezzo di mattina, l'aria ancora frizzante di una giornata che però sarà torrida. Sapeva già cosa fare: noleggio automobile, direzione Berkeley senza un attimo di ripensamento. Se ci avesse pensato sarebbe stato capace di tornare indietro senza aver concluso niente.

L'annuncio pubblicitario di un autonoleggio non gli diede tempo di pensare il classico "Che ci faccio qui? Sono un idiota". Peccato fosse ancora chiuso. Sbuffò. Un tassista gli offrì una corsa, per cui Matt dovette contrattare dato che i contanti che aveva con sé non erano infiniti e la carta di credito fuori uso. Infine montò sul taxi, il guidatore un giovane ragazzo brasiliano. Mentre si allacciava la cintura, Matt si chiese se quel ragazzo dall'aria affabile non facesse parte del loro piano, un piano secondo cui lui non aveva assolutamente fatto la fur-bata del secolo, un piano che loro immaginavano prevedesse un breve ritorno a casa, una partita a scacchi in cui stavano per fargli scacco matto, per cui la fuga improvvisa era inutile.

"Troppo tardi, sia quel che sia!" si rassegnò protendendosi per scambiare quattro

chiacchiere con il tassista.Il ragazzo era in gamba, non impiegò molto ad inghiottirsi i quasi quaranta

chilometri che separavano l'SFO da Berkeley, eppure Matt avrebbe preferito fosse stato lentissimo, non gli sarebbe dispiaciuto trovarsi davanti a strade intasate. Voleva rimandare quel momento il più a lungo possibile. Invece giunse, all'improvviso. La vista di quella palazzina a cinque piani nella periferia della sua città natale lo fece trasalire. Inghiottì tutte le sensazioni di disagio, malinconia, nostalgia, rabbia, dolore che si stavano inseguendo in lui. Impossibile. Pagò e, ringraziando, uscì dal taxi.

Era fermo, a braccia incrociate, davanti al portoncino d'ingresso quando un'anziana signora gli passò accanto per entrare. La conosceva, la signora Ellberg, una buona vicina, cara amica di Jane. Lei naturalmente non lo riconobbe, Matt ebbe l'impulso di salutarla, ma non lo fece, sarebbe stato sottoposto ad un lunghissimo interrogatorio che non aveva voglia di affrontare. Aveva deciso di non voler incontrare nessun parente, nessun vecchio amico, nessun conoscente durante quella brevissima permanenza; voleva starsene solo con i propri ricordi.

Seguì la signora Ellberg dentro la palazzina, su per due piani di scale, dove lei si fermò. Lui proseguì al terzo.

Si fermò di colpo, sull'ultimo gradino.«Jennifer?» bisbigliò più a se stesso che alla ragazza che si stava richiudendo alle

spalle la porta di fronte alla rampa di scale.Lei trasalì e si avvicinò.«Maaatt!» urlò mettendosi la mano davanti alla bocca.«Ehi, tesoro, come stai?». Matt la abbracciò, era scoppiata a piangere. «Ehi, Jenn,

tranquilla, va tutto bene».«Lo so, adesso che ti ho rivisto va tutto bene, è vero». Si pulì alla bell'e meglio

gli occhi con le maniche della leggera maglietta lilla, il bel viso da trentenne rigato da lacrime che non poteva, non voleva fermare. Tutte di sorpresa, di gioia. Ricambiò l'abbraccio con quanta forza aveva in corpo.

«Cosa ci fai qui? È più o meno da un secolo che non ci vediamo...».«Avevo bisogno di tornare, era il momento giusto».«Ma... ma va tutto bene a Londra?».Lui sospirò. In un certo senso sì e in un certo senso no. Non poteva dirlo, sarebbe

stato troppo lungo spiegare.«Sì» tagliò corto. «Tu perché eri qui?».«Per la casa. Vengo spesso a pulire, sistemare, è importante per me».Lui la strinse di nuovo: «Grazie, tesoro. Mi sei mancata. Sei libera a pranzo?».«Certo! Anche se avessi un appuntamento con il presidente degli Stati Uniti mi

libererei... anzi, puoi venire da noi! Papà sarebbe mol...».«No, grazie. Ti prego, fammi il favore di non dire ai tuoi che sono qui, tanto

meno al nonno. Ripartirò molto molto presto e ho bisogno di prendermi un po' di tempo per stare da solo con... loro».

La ragazza annuì: «Il pranzo con me è ancora valido, però!».«Certo!» rispose lui con un ampio sorriso. Le prese gen tilmente la chiave di

mano e si diresse verso la porta: «Qui all'una?».Jennifer fece per seguirlo in casa, ma Matt le fece cenno di no con la testa.

«Qui all'una?» ripetè.La ragazza annuì. Prima di scendere le scale, gli si gettò di nuovo al collo: «È... è

bellissimo rivederti, qui».Le rispose con un sorriso e la guardò scendere le scale. In mano la chiave

bruciava. Matt la strinse per sfogare tutta la battaglia interiore che lo stava sconvolgendo. Sapeva che non sarebbe stato semplice ritornare, non dopo diciotto anni, lo sapeva nel momento stesso in cui, ascoltando il piccolo Stefan parlare di stelle, aveva deciso che quello era il momento giusto per fare ciò che rimandava da anni.

"Forza Matt, poche paranoie!" si disse mentre si girava per infilare la chiave nella toppa. Spinse con delicatezza quella porta color marrone scuro su cui, una volta, durante il primo anno di scuola elementare, aveva dato sfogo alla sua vena artistica con un pennarello rosso. "CIAO MAMMA!" era la scritta che Jane si era ritrovata al ritorno dal vicino negozio di alimentari. Matt ricordò la sua faccia furiosa e, soprattutto, la forte sensazione di delusione: lui voleva essere carino, perché sua madre l'aveva presa male?

Trovò il coraggio di attraversare la soglia.Dentro quasi tutto era come l'aveva lasciato, solo l'odore di chiuso misto a

qualche pesticida e al detersivo che Jennifer aveva appena usato erano più forti. Matt fece qualche passo incerto attraverso il corridoio, nel salotto di dimensioni non molto grandi che una volta era stato il posto più grazioso che avesse mai visto. Ora il lungo divano verde era ricoperto da un'enorme telo di plastica, così pure le due poltrone che gli stavano di fronte, al di là di un tavolino di legno su cui era stata messa una cerata blu a fiori. La credenza era stata completamente svuotata e anch'essa avvolta nella plastica; sopra soltanto una scatola di cartone con la scritta "Foto".

Matt la strinse fra le mani. Era certo di sapere quello che c'era dentro: fisicamente leggera, conteneva i momenti più preziosi della sua vita, spaccati di anni americani misti ad estati inglesi e vacanze qua e là. Sospirò. Seppure non completamente sicuro di volerle riguardare, spostò la polverosa plastica che ricopriva una delle due poltrone e vi si sedette.

La scatola era chiusa da una singola striscia di nastro adesivo sottile che il medico non fece fatica a strappare con le unghie, seppure inesistenti più che cortissime. Le quattro alette di cartone si sollevarono per mostrare il primo album: quello delle nozze dei suoi genitori. Ammirò il grazioso portamento di Jane, avvolta in un vestito immacolato con inserti in pizzo, il sorriso radioso sul viso. E la serietà felice di Ralph, sguardo innamorato mentre, in un'istantanea, danzava con la sua principessa. Gli Holland e i Richards, uniti a festeggiare un evento così importante sulla Bay Area californiana.

Nella raccolta successiva iniziava a comparire sempre più spesso un bambino a cui gli sposi di prima avevano dato il nome di Matthew James Holland. Sorrise alle foto di sé da neonato, rise di gusto nel rivedere quelle scattate a Londra insieme a Keith e la compagnia di amici, ma decretò che la più divertente era quella che ritraeva lui e un altro paio di amici mentre suonavano ad una festa, l'atteggiamento molto ostentatamente rock, l'essenza non poi così tanto.

Quel bambino cresceva, un poco di più in ogni foto, fino ad arrivare ai diciotto

anni, nell'ultimo album che, no, non conosceva bene, che non aveva passato intere serate d'inverno a guardare e commentare con sua madre, seduti a gambe incrociate sul divano, una tazza di tè o cioccolata fumanti ad attenderli sul tavolino. La prima foto era quella della consegna del diploma, massimo punteggio. Altre foto scattate durante la cerimonia, altre ancora alla festa. Alcune dell'estate 1990 in Inghilterra, ma nessuna con Roberta. Infine il ritorno negli Stati Uniti e la partenza per l'addestramento.

Era quasi giunta la fine dell'album e Matt non aveva il coraggio di girare pagina per guardare l'ultima foto, era sicuro al cento per cento di cosa ci avrebbe trovato. Girò. Gli occhi gli si velarono immediatamente.

L'immagine ritraeva lui stretto in un abbraccio dai suoi genitori alla base Travis della California circa a metà gennaio 1991. Il soldato Matthew James Holland aveva completato il proprio addestramento e, insieme a parecchie centinaia di colleghi, partiva per ingrossare le fila statunitensi in vista della mastodontica operazione Desert Storm. Jane piangeva, figlio e marito inutilmente impegnati a consolare lei e se stessi.

Il vortice di pensieri, ricordi, emozioni che Matt aveva cercato di reprimere per lunghissimi anni si abbatté su di lui con violenza, lasciandolo quasi senza fiato. Ormai era troppo tardi per staccare gli occhi da quella foto, così iniziò a richiamare alla memoria, a ricordarsi di ogni piccolo particolare, a partire da quel volo verso il deserto che sembrava non finire più. Lui se ne stava raggomitolato nel proprio sedile, la testa appoggiata al finestrino. Il più grande desiderio era che tutto quello che stava per iniziare fosse solo un grande incubo. In fondo si era trovato catapultato in una situazione che non avrebbe mai voluto esistesse, perché non doveva uscirne indenne, e non solo fisicamente?

Non poteva sospettare che quel mese e mezzo sarebbe stato il peggiore della sua intera esistenza.

Cominciò a sperimentarlo con l'abominevole vista dei primi cadaveri, ammassi indiscriminati di uomini, donne, bambini, grovigli di corpi che cadevano privi di vita sotto le loro bombe. Le immagini erano ancora vivide nella sua mente. Ma ancor più vivido era il ricordo del collega addetto allo smistamento della posta, quell'altissimo ragazzo texano di cui non ricordava più il nome che, a circa due settimane dall'inizio di Desert Storm, gli consegnò una busta.

«Matt, questa te la mandano da casa».Tutta la fatica, la frustrazione, la voglia di abbandonare tutto, il senso di colpa,

l'odio nei confronti di se stesso e il mondo che aveva accumulato in quella giornata, una delle più faticose dell'intera missione, erano scomparsi in un attimo per dare spazio alla gioia di leggere qualcosa dalla mano di sua madre; non arrivavano molte lettere lì, Desert Storm era un'operazione troppo intensa per concedere distrazioni di qualsiasi genere, ma lui ne aveva ricevuta una, ne era estasiato.

«Wow, stupendo!» aveva esclamato ringraziando il soldato. A gambe incrociate sul suo materassino gonfiabile, aprì la busta senza nemmeno degnarsi di guardare cosa c'era scritto all'esterno. Si stupì di non trovare la scrittura di Jane, l'anima letteraria della famiglia, in quelle righe apparentemente buttate giù alla bell'e meglio. La grafia era quella di... "Papà? Ma se non ha mai scritto nemmeno il suo

curriculum! Forse la vecchiaia..." pensò sorridendo allegramente.Caro Matt, prima di tutto voglio dirti che ci manchi moltissimo. Ci manchi ogni

giorno, sempre di più, con il tuo buon umore e il tuo essere una persona speciale, unica.

E ci manchi ancor di più da quando ha iniziato a mancarci un'altra persona. Non so come dirtelo, figliolo, non trovo le parole.

La mamma è... morta, ieri. Un ictus, ieri mattina.Ora ci protegge dal cielo, spero, e farà in modo che io ti possa riabbracciare,

spero.Ti voglio tanto tanto tanto tanto tanto tanto bene.Il tuo papà Matt era paralizzato, incapace di piangere, di urlare, di disperarsi,

incapace di capire, persino di non credere. Era svuotato. Fissava quel foglio, quelle maledette righe, senza nemmeno rendersi conto di essere sveglio; aveva gli occhi sbarrati, la bocca semiaperta, il cervello spento. Non riusciva nemmeno ad arrabbiarsi per quelle parole che, a chiunque altro, sarebbero sembrate crude, non ad immaginarsi il dolore di suo padre, non a desiderare di tornare immediatamente in California per rivederla un'ultima volta, non a pensare di disertare perché quella guerra gli aveva portato via ciò che di più prezioso aveva al mondo. Si abbandonò sul materasso, lo sguardo vacuo fisso nel vuoto, la lettera scivolata per terra.

Le ore presero a trascorrere. Nessuno dei suoi compagni aveva il coraggio di domandare cosa fosse successo, tutti immaginavano si trattasse di qualche notizia terribile; così lo lasciarono solo perché nessuna parola avrebbe potuto sollevarlo da quello stato. Infine fu Alex, un ragazzo di Seattle di cui Matt stava diventando molto amico, ad avvicinarsi: «Ehi, Matt, su, non puoi stare lì così per il resto della missione.

Devi pensare alla pelle, non possiamo pensarci noi per te».«È morta mia madre, ma a te che cazzo te ne può fregare, bastardo?» urlò Matt

inferocito avventandoglisi addosso. Altri due ragazzi furono pronti a bloccarlo e tenerlo inchiodato al letto.

Fu dopo quello sfogo che la devastante consapevolezza della perdita si fece strada in lui come un fiume in piena. Il dolore atroce si abbatté con violenza sul suo corpo in quel momento troppo fragile per sostenerlo benché addestrato al combattimento. Scoppiò silenziosamente a piangere. Alex era riuscito nel suo intento: fargli superare, quanto più in fretta possibile, la fase di paralisi mentale di cui lui era stato preda per troppo tempo quando, tre anni prima, aveva perso entrambi i genitori in un incidente stradale, quella fase di cui ancora portava i segni indelebili sui polsi.

Il brillante studente di Berkeley rimase con il viso stretto tra le mani per il resto della notte a piangere torrenti di lacrime che nemmeno sapeva di avere. Davanti agli occhi, come in un nastro lunghissimo che si svolgeva, gli passavano tutte le immagini più belle della sua vita, in continuazione, con martellante ripetitività. E fu quando quel nastro iniziò a sbiadire per le troppe volte in cui era scorso che, mentre l'alba stava risvegliando il deserto iracheno, ebbe il coraggio di tirare fuori dalla tasca dell'uniforme la foto scattata alla base Travis che sua madre gli aveva mandato a pochi giorni dalla partenza. Altre lacrime, altro dolore, ma ora anche la

consapevolezza di non poter fare altro che andare avanti, per lei, per se stesso, e anche per suo padre che, come aveva scritto, sperava con ogni muscolo di poterlo riabbracciare quanto prima. Ralph gli aveva risparmiato i dettagli, ad esempio il fatto che Jane si fosse sentita male quando al telegiornale avevano parlato di un attacco iracheno al contingente americano e che, da quell'istante, aveva continuato a mormorare il nome del figlio per i successivi quaranta minuti di agonia, finché il medico che l'aveva soccorsa non l'aveva dichiarata deceduta. Dettagli crudeli, inutili.

Ma in guerra non gli fu risparmiato nulla: le giornate continuavano ad essere intense, le immagini come sempre terribili, e lui passava attraverso tutto questo con una ferita sanguinante nel cuore che pensava non si sarebbe mai, mai cicatrizzata. Aveva avuto la lucidità per capire il ruolo fondamentale che Alex aveva giocato nella sua sopravvivenza; lo aveva ringraziato, un abbraccio fraterno che aveva suggellato la loro amicizia che era sopravvissuta anche attraverso un oceano di distanza.

Una settimana e mezza dopo, il ragazzo texano si presentò di nuovo con un'altra lettera. Matt sussultò, tuttavia gli sembrava ovvio che non potesse essere accaduto nient'altro di terribile. Pensò che probabilmente suo padre gli aveva scritto per consolarlo o chiedergli come stava, dato che non aveva ricevuto risposta. L'incipit della lettera era identico a quello della precedente, ma la scrittura non era quella di Ralph. Non la riconobbe.

Caro Matt, come stai?Dicono che presto finirà tutto, preghiamo perché questo accada, ci manchi

moltissimo.Mi hanno ripetuto di aspettare, quasi obbligato, in realtà, ma non mi sembrava

giusto perché sei un ragazzo in gamba e, soprattutto, perché meriti di sapere. Prego affinché la mia sia la decisione migliore.

Ieri mattina abbiamo trovato Ralph nel suo letto con una confezione di pastiglie vuota. Purtroppo era troppo tardi.

Ho combattuto con le ambasciate perché mi dessero la possibilità di raggiungerti, ma mi è stata negata, l'operazione è troppo pericolosa per i civili. Mi dispiace, vorrei essere lì con te in questo momento.

Ti prego, ti prego, ti prego, sii forte.Ti vogliamo bene e ti abbracciamo tutti.Zio Will «Nooo!!!» gridò questa volta senza dare tempo alla paralisi di

sopraggiungere. Non credeva che un dolore così grande si potesse duplicare, invece accadde ed era probabilmente peggiore perché sapeva che giorni d'inferno l'avrebbero aspetta to, perché non poteva nemmeno pensare a suo padre come ragione per sopravvivere e perché suo padre si era suicidato, questa era la cosa più terribile. Che senso aveva che lui lottasse quando neppure suo padre era stato in grado di farlo? E, soprattutto, che senso aveva lottare per tornare in California e non ritrovare nessuno? Pianse di nuovo, un'altra notte intera, e Alex era ancora lì per aiutarlo, questa volta niente provocazioni, questa volta una presenza silenziosa, quasi angelica.

E fu proprio perché in quei giorni era stato preso a coltellate in faccia dal destino che non provava paura della morte in quell'aereo, sopra quei pozzi di petrolio in fiamme, anzi, sperava addirittura di essere abbracciato da lei e portato dai suoi

genitori, ovunque fossero. Ma probabilmente qualcun altro non la pensava così, qualcun altro aveva deciso che per lui il cammino era diverso. Il giorno del suo diciannovesimo compleanno fu dichiarato il "cessate il fuoco". Avrebbe dovuto essere il giorno più felice della sua vita, eppure non riusciva ad essere entusiasta, no, perché a casa sua nessuno stava festeggiando la notizia, perché presto gli sarebbe toccato tornare in quella casa vuota e perché forse stava meglio lì, dove il dolore era infinitamente maggiore del suo. Tornare alla bella vita californiana... ne provava disgusto.

Fu costretto ad affrontare anche questo, come se un fato sadico si stesse prendendo gioco di lui. Seduto tra due coetanei di Los Angeles eccitati all'idea di tornare presto a casa, Matt passò il volo di ritorno più o meno come aveva trascorso quello di andata: raggomitolato nel proprio sedile, isolato dal resto del mondo.

Alla base aerea della California lo accolse il caloroso abbraccio di zio Will e il sorriso allegro ed ingenuo di una bimba di dieci anni, Jennifer. Non poté fare altro che soddisfare le curiosità della cugina e ricambiare lo sguardo dello zio, misto di dolore e comprensione. Il momento peggiore non era ancora arrivato, ma stava giungendo inesorabile con il trascorrere dei minuti e dei chilometri. Infine il giovane soldato Matthew Holland si ritrovò davanti alla porta di casa propria, da cui era partito col volto pulito e tutto sommato allegro di un adolescente, e in cui ritornava segnato dal dolore, dalla stanchezza, dalla perduta voglia di lottare, sentimenti che si rispecchiavano su un viso scavato e triste. Non permise a Jen e zio Will di entrare in casa con lui, voleva affrontare da solo il calvario che lo attendeva dietro la porta. La spinse. Il profumo di Jane, esattamente come lo ricordava, gli invase le narici, la loro presenza dovunque lì intorno. Adocchiò un pezzetto di carta sul tavolo, lo raccolse: Tesoro, perdonami, perdonami, perdonami. Non ce la facevo più a vivere con il dubbio che tu potessi non tornare, non potevo più affrontarlo senza di lei, il suo coraggio, il suo sorriso.

Ti voglio bene, papà Non poteva più reggere. Crollò sul divano e si abbandonò ad un pianto disperato lungo non ebbe il coraggio di vedere quanto.

Rimase su quel divano per ore e ore, senza rispondere ai continui squilli del telefono, chiedendo allo zio, entrambe le volte in cui bussò alla porta, di andarsene perché aveva voglia di stare solo, ignorando deliberatamente lo stomaco che reclamava cibo. Solo, con i loro ricordi, con le atrocità dell'Iraq e quel mal di testa che aveva cominciato a manifestarsi per accompagnarlo durante tutto il resto della sua vita. Non si cambiò, non mangiò, non si alzò se non per andare in bagno fino a quando qualcuno bussò alla porta e questa volta non era zio Will. Questa volta il visitatore era più insistente, tenace, fastidioso. Matt fu costretto ad alzarsi ed aprire: davanti a lui Keith insieme ai genitori, tre volti cupi ma ostinati. Gettò le braccia al collo del cugino e scoppiò di nuovo a piangere. «Portami con te» gli sussurrò «ti prego. Non posso andare avanti qui, morirei anch'io». E la famiglia Richards esaudì la sua richiesta senza porsi domande di alcun genere, l'infinito dolore del ragazzo bastava a convincere tutti che la soluzione migliore fosse quella. Lo aiutarono a preparare le valige e, salutati i parenti più stretti, presero insieme il primo volo per l'Inghilterra. Berkeley era ormai dietro le spalle, relegata nel cassetto dei ricordi tristi, e Matt non ci avrebbe fatto ritorno fino al momento in cui un bambino di sei

anni, su un volo per Amsterdam, gli aveva parlato di stelle. All'epoca non aveva avuto il coraggio di andare a vedere il luogo in cui le sue due stelle personali erano commemorate, ma ora voleva farlo, aveva bisogno di affrontare completamente questa sofferenza per poter tornare a Londra a combattere contro i mulini a vento.

Si asciugò le lacrime che gli erano cadute copiose mentre ruotava senza posa nel vortice dei pensieri; non aveva pianto da quando era stato in quella casa per l'ultima volta. Guardò di nuovo la foto: gli era mancato il coraggio anche di riguardare la propria copia dal viaggio di ritorno dall'Iraq, l'aveva segregata in una teca insieme a tutta la documentazione che riguardava la sua parentesi nei marines. Con delicatezza, ripose tutti gli album nella scatola. Un'altra cosa per cui gli era mancato il coraggio era il pensare di utilizzare in qualche modo la casa dei suoi genitori. In realtà gli mancò anche in quel momento, ma ci avrebbe pensato quanto prima, l'arredamento avvolto in plastica impolverata emanava troppa tristezza per continuare ad esistere e la casa era ancora bellissima perché la desolazione la facesse da padrona. Si alzò dalla poltrona. Anche la cucina era ricoperta di teli di plastica, attraverso la quale il verde chiaro era comunque ben visibile, così come il blu dei mobili di camera sua, il letto dove aveva dormito per diciotto anni, la scrivania su cui aveva imparato a scrivere, l'armadio in cui aveva cominciato a collezionare magliette di artisti rock. E pure l'arredamento color nocciola chiaro della stanza dei suoi genitori era plastica più che altro. Gli sembrò di rivedere Jane, seduta a cucire o a leggere un libro, su quel letto enorme, mentre Ralph magari era fuori sul balcone a fumare una sigaretta, con i gomiti puntati sul davanzale. Alternate alla polverosa trasparenza della plastica, enormi scatole di cartone invadevano l'intero appartamento, contenenti chissà quali oggetti che Matt era abituato a vedere da piccolo. Non ne toccò nemmeno una, sarebbe stato troppo in un giorno solo, rimase piuttosto fuori sul poggiolo ad aspirare la familiare aria di Berkeley e ascoltare le consuete, frenetiche attività del suo quartiere.

Lì lo trovò Jen quando lo raggiunse all'una.«Vuoi una sigaretta tipo zio?» gli chiese con un sorriso dolce, capendo, dal suo

sguardo, che aveva pianto, aveva sofferto da capo quell'anno terribile, ma che era pronto a ricominciare, veramente, e questa volta non ricominciare tentando di dimenticare, piuttosto usando il passato come fondamento per il futuro.

«Sì, ti prego, se ne hai una da offrirmi sì».La ragazza frugò nella borsetta, tirò fuori un pacchetto e gliene accese una, gli

occhi lucidi.«Deve essere successo qualcosa di pazzesco per farti tornare, non ci sei venuto

nemmeno quando mi sono sposata».«Ti sei sposata a Oakland e lì c'ero!» puntualizzò lui.«Pignolo... lo so! Ma sono una manciata di chilometri e tu sei venuto fin lì e

niente Berkeley».«Sono bravo a scappare dai casini e questa volta il casino è a Londra. Ma non ho

intenzione di saltarlo, volevo venire qui per essere più forte nell'affrontarlo».«Ti ascolto. Abbiamo un intero pacchetto di sigarette e un pomeriggio tutto per

noi».«E uno stomaco che brontola no?».

«Anche, ma ci pensiamo dopo. Dunque?».«Beh, dunque... il casino ha un nome: Danielle».«E due gambe chilometriche, i capelli biondi e tutto il resto. Una donna

bellissima di cui il nostro si è finalmente innamorato ma...».«Una bellissima donna è vero, i capelli castani in realtà, una notevole

componente d'intelligenza e un sorriso che assomiglia molto a quello di mia madre».Jennifer si drizzò, confusa.«E sì, ne sono innamorato, molto, moltissimo, ma non nel senso in cui intendi

tu».«Nah, ti prego, niente storie del tipo "è una carissima amica..." eccetera!».«È una figlia!» la interruppe lui.«Beh, tutte lo siamo, anch'io lo sono!».«Già, ma tu non sei mia...».Jennifer spalancò la bocca, incredula. Non sapeva esatta mente bene cosa si

domandasse ad un cugino che avevi sempre creduto ostinatamente single ma che all'improvviso ti raccontava di avere una figlia, già grande per giunta.

«Ma... ma come?...».Matt si schiarì la gola ed incominciò a raccontarle quella parte di vita di cui non

aveva mai parlato con nessuno, la fantastica ragazza italiana che aveva conosciuto a Brighton e tutto il resto, fino ad arrivare alla storia recente, alla cronaca degli ultimi giorni che aveva per protagonista Danielle ospitata a casa Richards.

«O mamma... il casino è grande davvero!» mormorò la donna."Perché tu non sai l'altra parte, tesoro!" pensò riferendosi ai maledetti assoldati

della HSS che lo stavano perseguitando come fantasmi. Non l'avrebbe coinvolta.«Già, enorme! Mi accompagni al cimitero?» cambiò discorso.Jen annuì vigorosamente e lo prese sotto braccio, pronta a precipitarvisi prima

che cambiasse idea.

36

Jay aveva finalmente terminato di servire un gruppetto di fastidiosi pseudo-musicisti, quattro ragazzi quattordicenni o quindicenni che si davano tante arie di aver capito tutto della musica.

«Eh, no, questo così non va bene per me...».«No no, perché io quando suono spacco!». Eccetera...E guardò l'ora per capire quanto tempo aveva perso dietro ai mocciosetti. Quattro

e mezzo. Sgranò gli occhi: dov'era finita Danielle? Le pause duravano massimo un quarto d'ora, il tempo di andare in bagno, mangiare qualcosa e sgranchirsi le gambe; non che, in realtà, Pattie avesse particolari problemi se duravano un po' di più, ma mezz'ora... Danielle, poi, le cui pause duravano solo cinque minuti, estasiata com'era dal nuovo lavoro. Si strinse nelle spalle, avrebbe aspettato ancora un poco prima di dire qualcosa a Pattie. Servì un altro paio di clienti, altri cinque minuti trascorsi; un'altra ragazza e tre cd di cui fare lo scontrino, un altro cliente, un altro cd, altri cinque minuti. Sbuffò.

Pattie uscì dal magazzino.«Pat, Danielle è andata in pausa quaranta minuti fa e non è ancora tornata.

Pensavo che potrei andare a cercarla, non vorrei avesse qualche problema».«Ok, sto io qui e ti mando uno squillo se nel frattempo torna. Comunque non ti

preoccupare, è una donna, le donne si perdono dietro alle vetrine».Il ragazzo sorrise e uscì a passo veloce. Diede un'occhiata nel bar accanto al

negozio, dov'erano andati a prendere da bere insieme due giorni prima, niente. Attraversò il corridoio sbirciando dentro la maggior parte dei negozi, fece il giro del piano continuando a guardare dovunque, salì al piano superiore, diede un'occhiata nei bagni, prese l'ascensore per scendere al piano terra, anche lì diede un'occhiata praticamente in ogni dove, assolutamente nulla. All'uscita del personale incontrò la commessa di un negozio di vestiti di fronte al Woodstock, nonché amica di Pattie.

«Ehi, ciao! Hai mica visto Danielle da qualche parte?».La ragazza ci rifletté per qualche istante: «Mmm... credo di averla intravista

mentre usciva, ma poi...».Jay ringraziò. Era sconsolato: erano passati altri venti minuti, di Danielle

nemmeno la minima traccia. Tornò in negozio, frustrato.Anche Pattie ora iniziava a preoccuparsi. Non sapeva se chiamare Michelle —

magari era tornata urgentemente a casa, però non avrebbe avuto nessun senso, in tal caso li avrebbe avvertiti — oppure evitare di farla preoccupare. E il fatto che Danielle avesse lasciato lì la borsa poteva solo significare che era ancora nel centro commerciale, dove altro poteva essere andata? Ma se era ancora lì cosa cavolo stava facendo?

«Oddio, Pattie... in effetti questa mattina l'ho vista un po' strana...» le confessò Jay sfregandosi le mani.

«Strana come?». La donna si rizzò puntando i palmi sul bancone per sfogare la

tensione.«Beh... quando sono arrivato era appoggiata ad una colonna, giù, con lo sguardo

perso nel vuoto, ma mi ha detto che stava pensando a che regalo prendere a Michelle».

«E tu le hai anche creduto, magari?».«No, si vedeva che non era la verità, però non ho voluto andare oltre, non erano

fatti miei...».Pattie fece una smorfia, tenne per sé tutte le imprecazioni che le passavano per la

mente. Perché doveva avere problemi con una ragazza appena assunta? E perché questa ragazza doveva avere a che fare con una sua carissima amica? Sempre pensato, gli affari fatti tra conoscenti sono grandi casini! Scomparire così — poof! — di punto in bianco in un centro commerciale... sembrava una barzelletta!

I minuti trascorrevano inesorabili senza novità. Non era capace di stare alla cassa e servire i clienti, era troppo nervosa, aveva dato a Jay il compito di farlo mentre lei riordinava un magazzino già perfettamente in ordine. Il cellulare di Danielle era squillato due volte. Non gliene fregava niente della privacy, se l'era messo in tasca qualora fosse arrivato qualcosa di illuminante, ma niente: la prima chiamata era di Michelle, Pattie non aveva risposto, e la seconda di Federico, non aveva risposto neppure a quella. E cos'avrebbe potuto dire: "Ciao, no, scusa, è solo che non so dov'è finita!". Scoppiò in una risata isterica.

«Pattie!» la chiamò Jay dopo qualche tempo. La donna si precipitò fuori, speranzosa, illusa più che altro, di trovare la sua nuova commessa; invece si trovò di fronte l'ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento, Michelle. Trasalì.

«Ciao!» esordì l'amica con leggerezza mentre le si faceva incontro «Sono venuta a prendere Dan».

«Già già già già...» cominciò a borbottare Pattie stropicciandosi il bordo della maglietta gialla che indossava. «Sì, sarebbe carino che tu la riportassi a casa... sì, molto, perché se la ri-port...».

«Tutto bene, Pattie?». Ora Michelle guardava incuriosita, l'interlocutrice sembrava in stato confusionale.

«Bene? Sì sì! Dicevamo che volevi riportare a casa Danielle e che, sì, sarebbe molto bello, il problema è che noi... ecco... non sappiamo dov'è finita».

«Dov'è finito cosa?» domandò Michelle confusa.«Insomma... più di un'ora fa Danielle è andata a fare una pausa e non è più

tornata. L'abbiamo cercata per tutto il centro commerciale, non c'è».Michelle si prese il viso tra le mani, il corpo invaso da brividi.«Non... c'è?».Pattie annuì con rassegnazione.«Siete degli idioti, i-dio-ti!» urlò la donna uscendo dal negozio di corsa. I clienti

del Woodstock la guardarono attoniti, Pattie rimase imbambolata, Jay era indeciso sul da farsi, infine rimase al proprio posto e batté mestamente lo scontrino di un libro.

Michelle corse fuori dal centro commerciale e si abbandonò in lacrime su una panchina. Non capiva bene il senso del tutto: Danielle scomparsa? Ma scomparsa

come, perché? Era certa si trattasse di qualcosa di maledettamente serio, Daniel le era una ragazza troppo in gamba per fare sciocchezze. Eppure il fatto era quello: la figlia della sua migliore amica, di cui lei avrebbe dovuto prendersi cura, scomparsa nel nulla. Pianse ancora per qualche secondo con il volto tra le mani prima di pescare il cellulare in borsa: «Keith, Danielle è scomparsa, qui al centro commerciale non la trovano più, non c'è, è da più di un'ora che non la vedono, ho paura».

Il marito tentò di domandarle dettagli, ma lei aveva già riattaccato. Continuò a singhiozzare.

«Michelle, mi dispiace... è che...». Pattie giocherellava nervosamente con una ciocca di capelli mentre, di fronte all'amica, spostava il peso da una gamba all'altra. «Ma io non pensavo... insomma, non è che scompaia gente tutti i giorni! Oddio... e adesso? Mio dio...». Si mise una mano davanti alla bocca.

Michelle non la sentiva nemmeno. La sua mente era impegnata ad elaborare centinaia di pensieri al secondo, dai peggiori ai più auspicabili, ma nessuno coerente. Infine alzò lo sguardo lucido, tormentato: «Ti prego, Pattie, taci un attimo. Non è colpa tua, ok, ho reagito male, ma sta' un attimo zitta, ti prego, mi stai facendo impazzire!».

La donna sospirò e si sedette sulla panchina accanto all'amica; avrebbe voluto dire ancora tante cose, mandare un sacco di imprecazioni, disturbare santi, morti e affini, tuttavia fu capace di dominarsi per qualche minuto, l'angoscia comunque crescente.

In silenzio attesero l'arrivo di Keith, trafelato ed esterrefatto, e delle due volanti della polizia che giunsero insieme a lui. Gli agenti chiesero a Michelle di seguirli in centrale, con lei fu portato via anche Jay in quanto persona che per ultima aveva visto Danielle.

Seduta sulle poltroncine della sala d'attesa della stazione di polizia, il braccio del marito intorno alle spalle, Michelle continuava a singhiozzare, pregando, imprecando, sentendosi in colpa. Keith si sforzava inutilmente di consolarla, ma era preoccupato almeno quanto lei.

Dentro, Jay si stava scervellando nel tentativo di fornire quanti più dettagli possibile per essere utile a quella ragazza che iniziava a piacergli, alla sua datrice di lavoro nonché sti mata amica Pattie e a quella donna che piangeva come una bambina spaventata. Rifletté intensamente. Aveva già raccontato di aver notato qualcosa di strano in Danielle quel giorno, qualcosa di cui comunque lei non voleva parlare, per continuare con la storia della pausa eccetera. Ancora nulla di particolarmente utile. Continuò a dondolare sulla sedia. Di solito la polizia non era molto gentile con i punk, invece quell'agente lo stava trattando con infinita cortesia.

"Perché ha bisogno del mio aiuto!" pensò, ma non era esattamente il momento di fare i punkettoni brillanti, forse Dan era in pericolo e lui non doveva contribuire affinché ci rimanesse.

«Forse lo so!» esclamò d'un tratto.L'agente alzò lo sguardo dal foglio su cui stava scrivendo: «Dimmi!».«L'altro ieri, credo... no, ne sono certo, era l'altro ieri. In negozio è venuto un

tizio, un po' inquietante in effetti, di cui Danielle ha avuto molta paura. Oddio, lui sembrava ben un tipo schifoso, ed è per quello che non ho indagato, pensavo lei si

sentisse un po' importunata e basta».«E puoi parlarci di questo tizio?».Jay richiamò alla mente l'immagine dell'italiano che era stato da loro due giorni

prima, tentò di farne un identikit. Il risultato fu buono.L'agente scambiò qualche battuta concitata con un paio di colleghi, poi tornò alla

scrivania: «Questo tizio è stato ritrovato qualche ora fa, morto ammazzato, nella campagna londinese. Le indagini si intrecciano, la questione si complica molto. Dobbiamo risalire a chi ha ucciso quell'uomo per capire».

Ma avrebbero avuto notevoli difficoltà a risalire a quei tre ragazzi che ora sfrecciavano sull'autostrada in un furgoncino blu: il capo era stato molto più in gamba di quanto la polizia inglese avrebbe mai potuto sperare di essere. La ragazza era dietro, muta, immobilizzata ed immobile, legata, ma non si sarebbe mossa anche se non lo fosse stata, paralizzata probabilmente dalla paura. Loro tre erano sprofondati nel silenzio più totale, a fare da sottofondo solo il rumore del motore. Non avevano ancora ricevuto istruzioni sul da farsi, ma spe ravano di liberarsi presto di quel pacco ingombrante: li stava un po' annoiando il caso, loro avevano bisogno di movimento, non di fare da balia ad una ragazzina di diciotto anni.

Il telefono di qualcuno squillò. Danielle non riusciva a capire chi ne fosse il proprietario e per la verità poco le importava, sperava solo che quelli — non aveva visto quanti erano, ma certamente si trattava di più di due — venissero fulminati. Era passata la fase della paura. Non se ne capacitava, aveva pensato di morire d'infarto, invece no, ora non tremava più. Forse era quella l'enorme forza delle persone rapite, coraggiose e capaci di sopravvivere anche alla scarica più forte di adrenalina, o forse il peggio non era ancora arrivato e l'infarto era pronto per lei. I polsi e le caviglie le facevano male, legati strettissimi, e anche la schiena, appoggiata su qualcosa di duro che non poteva vedere a causa della benda sugli occhi. Sentiva freddo. Aveva perso la cognizione del tempo e dello spazio. Dal momento in cui era salita per così dire volontariamente su quel furgoncino, la sua vista era stata coperta da una benda nera, e anche la sua bocca, legate da un paio di mani grandi, rudi, appartenenti a qualcuno che si era ben guardato dal parlare. Sapeva che era inutile urlare, il conato di vomito, però, era stato più forte di lei: quella benda puzzava, molto, chissà da dove l'avevano tirata fuori, le faceva schifo. Si era piegata leggermente in avanti per affrontare la nausea, ma le mani l'avevano bloccata. Il veicolo era poi partito a tutta velocità, lei ora immobilizzata da quattro mani che le stavano legando polsi e caviglie. I carcerieri erano troppo forti perché le venisse anche il solo pensiero di dimenarsi, scalciare, far loro pure un minimo di male; gli arti non rispondevano. Si rese conto che ad un certo punto si erano fermati da qualche parte, Danielle era stata trasferita probabilmente nel bagagliaio, gettata su un giaciglio terribilmente scomodo. Un gemito soffocato che forse loro non avevano nemmeno sentito. Si dovette abituare a stare lì, rannicchiata, poca aria dopo che il baule era stato chiuso. E si erano fermati di nuovo, questa volta l'avevano coperta con qualche cosa, sollevata e buttata da qualche altra parte. Qui c'era più spazio, ma faceva più freddo. Poi la sensazione di vuoto sotto di sé, non capiva cosa fosse, ne fu spaventata per qualche secondo. E infine anche quello era terminato, lei gettata di nuovo, ora nessuna coperta addosso. Questa volta aveva distinto il rumore del bagagliaio che si chiudeva e del motore di

una macchina, ma quello di prima... cos'era?Stava pensando a tutto e contemporaneamente a nulla, tantissimi brividi in corpo.

Abbandonò la testa sul pavimento duro della sua gabbia e chiuse gli occhi. L'immagine di Federico. Le scese una lacrima, avrebbe terribilmente voluto fosse lì con lei. Impossibile. Si affiancò l'immagine di suo padre. Avrebbe voluto anche lui, la sua protezione, come quando da piccola si faceva male, Gabriele la prendeva in braccio e la coccolava sussurrandole parole dolci. Le scese un'altra lacrima. Il volto stanco e pallido di suo padre fu sostituito da quello sorridente, benché ugualmente stanchissimo, di Matt. Provò un miscuglio di emozioni, non sapeva classificarle: forse un misto di serenità, affetto e... nostalgia? Si sentì in imbarazzo nel constatarlo.

"Ma cavolo, idiota, pensa a Michelle, Virginia, chi cavolo vuoi tu, ma non a lui, non ora!". Ma l'immagine rimaneva lì. Si rassegnò.

Non poteva vedere i movimenti del furgoncino, ad esempio il fatto che il guidatore era improvvisamente uscito dall'autostrada al primo casello in seguito ad una brevissima telefonata, e della volante della polizia che, invece, era uscita al successivo. Non poteva vedere che era ormai notte, che i tre viaggiatori del furgoncino parlavano a gesti, che in realtà il furgoncino era cambiato e così pure la rete autostradale. Poco le sarebbe importato di tutto questo, comunque, tanto meno le importava di capire il motivo di quel rapimento — del resto era certa volessero i soldi di suo padre —, le interessava solo essere sana e salva.

E questo interessava anche alle persone che le volevano bene: Michelle, Keith, Pattie e Jay erano ora a casa Richards, la prima ancora in lacrime. Seduti intorno al tavolo della cucina, tentavano di processare l'accaduto e capirne il perché. Keith aveva più volte tentato di chiamare Matt, aveva bisogno del suo sostegno, ma il cellulare era spento, il telefono di casa squillava a vuoto e in ospedale avevano risposto che si era preso una settimana di ferie.

"E dove cavolo le sta passando solo dio lo sa!" aveva pensato a quella risposta. Ora il compito più difficile era chiamare in Italia, Gabriele e Federico meritavano di sapere. Decise di rimandare il più a lungo possibile, forse più tardi ci sarebbero state novità.

37

Jen lo abbracciò: «Sono troppo felice di averti rivisto...».«Anch'io, tanto».«Hai bisogno di qualcosa?».Lui rifletté per qualche secondo, in effetti aveva bisogno di qualche cosa. «Hai

del denaro contante? Non posso usare la carta di credito...».Jennifer tirò fuori il portafoglio e gli infilò un paio di banconote da cento dollari

in mano. «Ok?» domandò sorridendo.Lui annuì: «Anche troppo! È un prestito». La abbracciò e corse al gate.Erano le otto e mezzo di sera e dopo nemmeno quindici ore in California era già

pronto a ripartire. Scalo a New York, poi Heathrow. Non si era neppure accorto del jet lag che era di nuovo sull'aereo. Ma quel viaggio l'aveva rigenerato, completamente, aveva avuto proprio l'effetto sperato. E anche il mal di testa era scomparso, certamente grazie all'effetto della morfina; tuttavia gli piaceva sperare che tuffarsi di nuovo in quella realtà tanto dolorosa, che aveva sempre cercato di cancellare, avesse avuto un effetto positivo anche da quel punto di vista.

Le compagne di viaggio questa volta erano due anziane signore con accento scozzese. Matt sorrise in saluto e si abbandonò sulla sua poltrona. La donna seduta accanto a lui gli porse un pacco di biscotti, lui rifiutò ringraziando, prese dalla borsa il libro sulle biotecnologie e lo utilizzò come espediente per dormire. Gli An Emotional Fish cantavano Celebrate dentro un iPod completamente ricaricato al ristorante dov'era stato a pranzo con Jen.

Niente morfina, ma anche questa volta un sonno pesante prese il sopravvento. La signora sul sedile accanto gli posò una mano sul braccio per svegliarlo quando atterrarono a New York: «Mi scusi, credo che dobbiamo scendere...».

Lui sobbalzò. Leggermente imbarazzato, ringraziò la donna e la seguì giù per il corridoio.

Era notte fonda e nonostante ciò il JFK brulicava di passeggeri. Il medico si

fiondò in uno dei bar sempre aperti."Quando arrivo a casa mi faccio quarantotto ore di sonno!" pensò sbadigliando

davanti ad un'enorme tazza di caffè. Il suo sguardo cadde sulle postazioni internet installate dall'altra parte della stanza, fu colto dal panico: erano due giorni che aveva tagliato completamente i contatti con il mondo. Keith lo stava sicuramente cercando e forse anche Larry, anzi sperava che quest'ultimo lo cercasse. Sorseggiò la bevanda fino all'ultima goccia e si spostò davanti ad uno dei terminali, già acceso, il logo del bar. Cliccò sul browser, digitò il sito della posta, poi...

"Sì, alza la bandierina rossa e urla ciao amici, sono qui! Mi vedete abbastanza bene?" pensò allontanandosi inorridito dal computer. Finì di insultarsi prima di pagare il conto e andare a fare un giro per l'aeroporto. Sulla porta fu colto dalle note di Time is running out, in onda sulla radio del locale.

Le note del brano risuonavano ancora nella sua mente mentre l'aereo lasciava una delle piste del JFK. Si rimise le cuffie dell'iPod, la cui scelta casuale cadde proprio sul pezzo dei Muse. Matt sorrise perdendosi con lo sguardo nella notte di New York prima di addormentarsi.

Anche Heathrow arrivò tra minuti di sonno, musica e pensieri. Il medico questa volta non aveva nemmeno guardato il vicino di posto, si limitò a prestare attenzione a dove camminava nello scendere. Il sole stava già scomparendo all'orizzonte, una brezza leggera preannunciava pioggia, il cielo delle otto di sera ancora chiaro. Matt prese la metropolitana per attraversare la città. I convogli affollati, l'aria densa di una giornata calda d'estate, lunghi minuti di viaggio, infine la fermata di fronte al Royal London Hospital. Scese in fretta dalla metropolitana per fiondarsi sulla sua automobile. Poco importavano i residui di quarantotto ore di viaggio, non sarebbe passato da casa, sarebbe andato direttamente a Brighton. Provò una strana sensazione nell'aprire la portiera: era come se loro fossero lì, come se lo stessero aspettando, come se gli leggessero nei pensieri e avessero previsto ogni singola mossa fin dall'inizio.

"Non serviva la bandierina rossa, avevano già capito tutto, caro il mio Matthew

James Holland!" constatò con un moto di disgusto mentre girava la chiave per avviare la sua Golf. La sensazione era forte; non poteva essere soltanto suggestione quella che lo faceva sentire osservato, maledettamente, fastidiosamente, odiosamente osservato. Non si scoraggiò, non certo pensando allo splendido sorriso della sua bimba che avrebbe ritrovato a qualche chilometro da lì. Uscì dal parcheggio e si immise in carreggiata, la radio a tutto volume questa volta non per aiutarlo a riflettere, ma a scacciare i brutti pensieri, la potente voce di Freddie Mercury e la bellezza di I want it all nell'abitacolo insieme a lui.

I chilometri cominciarono a correre, così come la pioggia che si era scatenata a pochi minuti dalla sua partenza. La sensazione rimaneva intensa come nel primo momento in cui l'aveva provata, e altrettanto urtante, ma non vedeva nulla di sospetto negli specchietti retrovisori, il che lo portava facilmente a pensare agli effetti allucinogeni della morfina. Non era esattamente a proprio agio. Sangue freddo, certo, mente lucida, certo, improvvise situazioni di pericolo da affrontare, certo, ma quelle rimanevano tutte cose affascinanti per un adolescente appena arruolato, non per un uomo di trentasette anni in viaggio da quarantotto ore. Tant'era. Premette l'acceleratore.

Anche casa Richards era incorniciata da enormi gocce di pioggia, le luci del piano terra accese, un'altra macchina nel vialetto oltre a quelle di Keith e Michelle. Matt trovò uno spazio libero per parcheggiare, pronto ad affrontare lo stupore degli amici per la visita improvvisa, incapace di collegare quella Bmw di colore blu scuro a qualche proprietario di sua conoscenza. Attraversò a grandi falcate la ghiaia senza nemmeno tirarsi il cappuccio della giacca sulla testa.

«È permesso?» domandò spingendo la porta.Keith gli si parò di fronte in pochi secondi senza dargli il tempo di cogliere le

sfumature dell'atmosfera che aveva invaso la casa: «Tu? Qui? Ma dov'eri finito?». Il tono era sorpreso, ma non completamente interessato.

«In California. Sono tornato a casa». Lo disse mentre si dirigeva verso la cucina,

da cui venivano alcune voci... "Pianto?" si chiese, ma la scena che gli si mostrò davanti non gli diede tempo di

dubitare: Michelle, con la testa appoggiata sul tavolo, era scossa dai singhiozzi, sul capo la mano di Pattie, in piedi accanto a lei. Sulla sedia di fronte stava Federico, lo sguardo perso nel vuoto.

«Ehi, Mich, che succede?». Preoccupato, si precipitò sull'amica e le accarezzò la spalla.

La donna alzò la testa, il volto rigato di lacrime; lo guardò smarrita per qualche istante con i suoi splendidi grandi occhi, quindi gli gettò le braccia al collo: «Sei tornato... dov'eri finito?».

«A Berkeley, ma non importa. Cos'è successo?».In altre circostanze lei sarebbe stata felicissima della risposta, era ormai da anni

che le persone che gli volevano bene aspettavano quella decisione, quel coraggio. Ma quella sera non importava così tanto, o meglio, altre cose importavano di più.

«È... è scomparsa... Danielle» rispose la donna con voce flebile. «Non so... non sanno perché... chi...».

Un'enorme lastra di ghiaccio lo colpì in pieno petto, frammenti taglienti si diffusero nel resto del corpo.

«È colpa mia...» sussurrò crollando sulla sedia che stava dietro di lui. «È colpa mia... è colpa mia...». Strinse con forza la gamba del tavolo per aiutarsi a trattenere la rabbia.

«Colpa tua? Colpa tua?» urlò Federico alle sue spalle. Gli si era rapidamente portato di fronte, il pugno chiuso, pronto ad essere sferrato. Keith non faticò a trattenerlo e spingerlo di nuovo al suo posto.

«Colpa tua?» gridò Michelle inorridita con volto contratto. Pattie era immobile.«Che diavolo stai dicendo?» chiese Keith. Dietro di lui Federico continuava ad

imprecare a denti stretti.«Sì, è colpa mia. Sto facendo delle ricerche in ospedale, sono affari grossi, mi

hanno scoperto. E Danielle c'entra... e c'entra perché... è mia figlia, e loro lo sanno».In realtà Matt non disse nulla di tutto ciò, non confessò la propria colpa, si limitò

ad abbracciare Michelle per infonderle il coraggio che non aveva. Il ghiaccio ancora in circolazione.

Tutti si aspettavano un commento, ma che commento poteva fare lui, causa

dell'avverarsi del suo incubo più grande? Quei bastardi l'avevano presa, quei bastardi lo stavano controllando anche in quel momento, quei bastardi avrebbero potuto farle del male.

«Non è possibile...» mormorò. I suoi sforzi non erano serviti, anzi, probabilmente l'avevano spinta da loro. Lasciò andare Michelle e si abbandonò sulla sedia accanto a Federico.

Pattie se ne andò dopo qualche minuto. Rimasero loro quattro a condividere angoscia, attesa, speranze, lunghissimi silenzi, soprattutto quelli.

Anche Matt si congedò, nel cuore della notte.«Ho assolutamente bisogno di tornare a casa, sono in viaggio da più di due

giorni. Torno fra qualche ora» disse prima di alzarsi. Federico gli lanciò uno sguardo

in cagnesco che non vide. L'aria era gelida, la pioggia era gelida, l'auto era gelida, ma il suo corpo di più. Miliardi di brividi. Perse qualche secondo ad ascoltare il suono delle gocce d'acqua sul parabrezza, poi girò la chiave nell'accensione, la radio trasmetteva le prime, inconfondibili, note di Time is running out: ancora quella canzone a ricordargli quanto il tempo corresse, quanto fosse insufficiente. Mugugnò premendo sull'acceleratore.

Parcheggiò la macchina sul ciglio della strada. Pioveva ancora a dirotto, non se ne curò, avvolto nell'impermeabile, percorse a passo lento la stradina che portava verso la scogliera. C'era un vento fortissimo. Si arrampicò sulla roccia, dove collassò, psicofisicamente esausto. La pioggia batteva sul suo corpo rannicchiato, sui capelli scompigliati di una testa china a nascondere il volto, sulle braccia che abbracciavano le ginocchia, sulle migliaia di pensieri che fluttuavano nell'aria, sulle Seven Sisters che si ergevano di fronte a lui nel loro maestoso bianco, debolmente illuminate dai lampioni della stradina. Non si degnò di guardarle. Rimase immobile, nella stessa posizione, per un paio d'ore, finché vento e acqua non gli si insinuarono sin nelle ossa; la nuova scarica di brividi lo riscosse dallo stato di torpore in cui era caduto, pochi minuti prima che l'alba lambisse la costa britannica con le sue migliaia di sfumature. Lanciò un'occhiata vacua ai sette scogli che emergevano fieramente l'uno accanto all'altro a poca distanza da lui, quindi tornò sui propri passi per recuperare la Golf e ritornare a casa.

Mentre guidava verso Londra, ebbe d'un tratto il netto impulso di compiere una manovra brusca e stamparsi su una non identificata struttura in massiccio cemento armato che stava a lato della carreggiata. Non aveva niente da perdere, era in trappola. Sarebbe andata a finire malissimo, lo sentiva, perché si era spinto troppo oltre, limite che gente di quel calibro non poteva tollerare venisse scavalcato. Rallentò un poco. Indolore, sarebbe stato tutto facilissimo, sapeva bene come provocare l'incidente per morire sul colpo, tutto velocissimo. A che scopo continuare a vivere ora che non poteva fare più niente, ora che non aveva più niente? Tanto per cominciare, sarebbe dovuto sottostare alle loro condizioni, qualunque fossero, e in ogni caso loro erano talmente bastardi che non gli avrebbero mai restituito sua figlia.

"Tesoro... " pensò con un nodo in gola. Accelerò, e lo fece proprio per quel sorriso, per quegli occhi profondi e malinconici che sperava con tutto se stesso di rivedere, lo fece per quella figura slanciata che pregava di riabbracciare, lo fece per quella ragazza a cui un giorno non troppo lontano voleva dire la verità, tutta. La grinta del marine o quella di un padre disperato? Qualsiasi cosa fosse, vi si aggrappò: non era da lui mollare così, non dopo tutto il rancore che aveva provato nei confronti di Ralph per aver deciso di abbandonare il campo di battaglia.

In casa, dopo una lunga doccia per riscaldarsi, accese il computer stringendo un'enorme tazza di caffè bollente e ignorando deliberatamente il led lampeggiante della segreteria telefonica. Il telefono squillò anche in quel momento; lo lasciò andare.

«Sono Matt Holland. Non sono in casa. Potete lasciare un messaggio dopo il segnale acustico se volete. Grazie».

Una calda voce familiare seguì l'acuto bip della segreteria: «Ehi, Matt, sono Jen. Avevi promesso di chiamarmi quando saresti arrivato e... beh, sono un po'

preoccupata, tanto più che non rispondi nemmeno al cellulare. Richiamami se puoi. Ti voglio bene, mi manchi già».

Guardò l'ora: sei e mezzo, dieci e mezzo circa in California. Jen era sempre stata

una persona straordinaria, mancava già anche a lui, ma non afferrò la cornetta, l'avrebbe richiamata più tardi, inserì l'iD e la password nei campi del sito di posta.

Le e-mail in arrivo erano molte, ma la prima lo fece raggelare. Nessun mittente, "RIECCOCl!" l'oggetto.

Caro il nostro dottore, non te la stai passando molto bene, eh? Capita...Spiacenti per te, hai permesso che venisse a trovarci. Ma puoi riprendertela,

tranquillo. Prima di tutto da' un'occhiata al link in basso. Leggi bene il materiale e facci un articolo con i fiocchi. Lo inserirai direttamente sul sito.

Poche furbate, amico! Controllo massivo.Un abbraccio, gli amici tuoi e della tua figliola "Poche menate, Matt!" si ripetè.

Non aveva tempo da perdere. Cliccò sul link che lo portò sul sito della Hyper Synthesis Scientifics e alla pubblicità di uno degli ultimi prodotti lanciati sul mercato: un antidolorifico.

"Sì, e poi? Magari mi obbligano anche a prenderlo per la mia cefalea...". Studiò meccanicamente i dati di quello schifoso medicinale. Terribilmente scadente, il medico che l'aveva brevettato aveva addirittura pubblicato in Lichtenstein, a quanto pareva nemmeno i mezzi illeciti della HSS riuscivano a fare più di questo per divulgare in paesi economicamente importanti quella spazzatura. E ora volevano un articolo ufficiale firmato da un medico angloamericano, laureato a Cambridge, che — lo ammise senza finta modestia — era riuscito ad ottenere per merito una buona fama nazionale.

«Che schifo...» borbottò a denti stretti. Ma non poteva fare lo schizzinoso, il manico del coltello lo avevano loro. Cominciò a battere freneticamente sulla tastiera le righe di un articolo simile a quelli che scriveva di solito per appoggiare prodotti veramente degni di nota. Qualche scrupolo morale. Se lo fece passare immediatamente, avrebbe pensato a rimediare a quel disgusto una volta che Danielle fosse tornata da lui.

Tornò sull'articolo ufficiale per confrontare alcuni dati. Non aveva nemmeno letto

la firma, tanto era lo schifo, ma in quel momento gli saltò all'occhio: Thomas P. Eze (Royal London Hospital)

"Lurido bastardo... ecco chi è il parassita!". Si trattenne dall'urlare il resto delle imprecazioni che gli passavano per la mente. Aveva sempre pensato che Eze fosse uno schifoso opportunista, dietro i cui cinquant'anni e le tre lauree in università importanti si nascondessero compromessi in quantità industriale, però aveva sperato di sbagliarsi, con tutto se stesso. E invece no. Lui, da buon idiota, non aveva nemmeno preso in considerazione l'ipotesi per cui la spia fosse umana. E probabilmente era stato lo stesso Tom Eze ad imbottire di integratori la squadra di nuoto, probabilmente era uno dei medici a cui aveva accennato Nancy prima di dargli la bottiglietta di Enerjoy. Che voltastomaco...

Ormai era troppo tardi, si sforzò di non pensare all'ondata di nausea e delusione che lo stava invadendo, il doppiogiochismo di Eze non era il suo problema

principale. Terminò di scrivere il pezzo, lo incollò nello spazio che gli era stato indicato e crollò sulla scrivania, tutte le energie prosciugate dal viaggio, dall'ansia, dalla rabbia. Si addormentò così, la mano destra stringeva ancora il mouse, la testa sul braccio.

38

Gabriele Castaldo se ne stava seduto in macchina ormai da ore. Attesa... attesa... attesa... e adesso anche impazienza. Odiava fare quello che stava per fare, lo odiava dal profondo, ma era un uomo abituato a sottostare a quella che nel mondo classico avrebbero chiamato dea Necessità. I tratti del suo volto, perennemente duri, erano contratti in una smorfia di stanchezza. Erano passati parecchi giorni dall'ultima volta in cui era riuscito a farsi una vera e propria dormita. Non aveva tempo da perdere, specialmente in seguito a quella telefonata. E forse ne aveva già perso troppo.

Diede un'occhiata al Blackberry: ancora nulla. Sbuffò. Doveva fidarsi, sarebbe andato tutto bene, i suoi uomini erano in gamba, li pagava apposta profumatamente. Tuttavia, probabilmente per deformazione professionale, non si fidava mai fino in fondo di chi lo circondava. Beh, se ci avessero impiegato ancora molto sarebbe uscito e si sarebbe arrangiato.

L'aria era ferma, il sole ancora alto. Aveva freddo. Che cavolo di clima era quello? Così freddo alle cinque di pomeriggio... e quell'aria umida che gli faceva venire il mal di schiena... Maledisse l'Inghilterra. Reclinò il sedile anteriore su cui stava sprofondato scompostamente e chiuse gli occhi.

Il Blackberry vibrò. Gabriele scattò a sedere e lesse il messaggio.OK. Erano le uniche due lettere che comparvero sullo schermo. L'uomo sorrise e

scese per spostarsi sui sedili posteriori.

39

Danielle si risvegliò. Intorno a lei era buio pesto, l'ambiente angusto, l'odore di umido. Ipotizzò che quello su cui stava sdraiata fosse un materasso; certo, doveva essere malandato, la puzza di muffa che emanava era intensa. Ma ancor più intenso era lo strano odore che le riempiva le narici ogni volta che inspirava. Non sapeva da dove venisse, poi si accorse di una striscia bagnata che le bloccava la bocca.

"Sonnifero? Oppio? Droga? Cosa?" si domandò imponendosi di respirare poco, piano, per evitare di mettere in circolo quella sostanza che già le impregnava il corpo. Infatti si sentiva confusa, come se avesse la febbre alta. Provò a muovere gli arti intorpiditi: impossibile, erano legati. Piagnucolò. Tentò almeno di pensare al tempo: anche quello però era impossibile, soprattutto per un'acerrima nemica dell'orologio come lei. Lacrime incontrollabili iniziarono a cadere su quel qualcosa non troppo simile ad un cuscino su cui appoggiava la testa.

"Un ricordo bello, ti prego, trova un ricordo bello...". Si impegnò per cercarne uno, ma le uniche cose che le tornavano alla mente erano le mani che l'avevano legata e l'alito caldo dell'uomo che la minacciava. L'incoscienza era di gran lunga preferibile. Inspirò a pieni polmoni e ci cadde.

40

Dopo che si era svegliato ricurvo sul computer con un potente mal di schiena, Matt si era spostato in camera, dove si era immediatamente addormentato. Lì si trovava ancora una decina d'ore dopo, quando fu destato dallo squillo del telefono. Impiegò un paio di minuti a realizzare, abbastanza perché il chiamante si stancasse; non importava, importava, piuttosto, prepararsi per tornare a Brighton. Rose aveva riordinato casa senza disturbarlo, gliene fu molto grato.

Minuti dopo era in strada, diretto alla fermata della metropolitana. Non voleva andare in macchina, odiava la sensazione di essere braccato che aveva provato quella notte, preferiva confondersi in una folla di sconosciuti tra i quali non avrebbe corso alcun pericolo.

Non la pensò esattamente allo stesso modo qualche istante dopo. Mentre stava per sbucare dal vialetto di casa sua, fu bloccato: un paio di mani forti lo prese per le braccia e gliele tirò all'indietro.

«Ah!» si lamentò Matt fra l'indolenzito e lo sbigottito.L'uomo gli tirò una ginocchiata nella schiena: «Shshsh... taci dottore!» gli

bisbigliò all'orecchio, l'accento era strascicato."Allegria... adesso rapiscono anche me! Dolci..." ebbe tempo di riflettere. A quel

punto poteva solo sperare lo portassero da Danielle.«Se non fai lo scemo non ti faremo male. E tutto molto pacifico, davvero!». Il

simpaticone interruppe i suoi pensieri."Ecco, appunto, non fare lo scemo!" s'impose Matt con sarcasmo.«E quale sarebbe questo pacifico progetto internazionale di pace? C'entra

l'ONU?». Non ci riuscì.«Rido!» ribatté l'uomo che continuava a stringergli le braccia. «Non

cammineremo molto. Niente palazzo di vetro purtroppo. Io ora ti supererò e tu mi seguirai. Non provare ad andare a New York perché c'è il mio collega dietro, se ci provi ti ci spedisce lui».

Matt annuì mentre l'altro gli mollava le braccia e lo superava a lunghe falcate."Però... originali! Ti rapiscono chiedendoti di seguirli...". Si sentiva tanto una

barzelletta. Ma non fece idiozie, camminò dietro all'uomo di corporatura massiccia avvolto in un leggero impermeabile grigio, ancora bagnato dalla breve e fitta pioggia che aveva da poco smesso di cadere.

L'uomo procedette a passo spedito per un paio di minuti, poi svoltò in un vicolo stretto in cui Matt non era mai entrato, si fermò davanti ad una lussuosissima Buick nera con i vetri oscurati. Aprì la portiera posteriore e, senza girarsi, fece cenno al medico di entrare.

Non potendo fare altrimenti, Matt eseguì. Non fu nemmeno in grado di esclamare di sorpresa quando inquadrò l'uomo accanto a cui stava seduto.

«Ci sono voluti quasi venti anni, ma ci rivediamo, signor Matthew Holland».«A quanto pare sì, signor Gabriele Castaldo...» ribatté Matt recuperando tutto il

proprio autocontrollo.Si guardarono negli occhi: i sorrisi di entrambi erano sarcastici, i sentimenti

d'odio reciproco non minori della prima e unica volta in cui si erano visti, il dolore in parte condiviso per una vita non semplice; due volti stanchi, segnati in modo diverso dal tempo, due sguardi differenti, quello cinico ed impenetrabile di Gabriele, quello sofferente e comunque sognatore di Matt.

«Dove cavolo è mia figlia?» domandò Gabriele in tono duro.«Quale, quella a cui ho dato il mio patrimonio genetico, oltre che un pezzo di

cuore, naturalmente?».«No, quella che ho cresciuto per diciotto anni!».«Ah... quella che ogni volta che guardi negli occhi pensi che non è figlia tua ma

di qualcuno che tua moglie ha amato di più...».«Avrei voglia di spaccarti la faccia, Matthew Holland!» urlò Gabriele stringendo

con forza lo schienale del sedile anteriore. «Non basta dare un po' di sperma per avere una figlia...».

«E nemmeno un po' di euro!» ribatté Matt, l'implacabile tempesta interiore celata dietro un calmo tono di voce. Voleva esasperare quell'acido bastardo.

«Ma l'affetto forse sì, e l'affetto non lo si dà a distanza».«Oddio... non che far scappare di casa una ragazza appena ha compiuto diciotto

anni sia un grande sintomo di affetto, ora che ci penso...».«E tu che cazzo ne sai?». L'impassibile industriale aveva abbandonato qualsiasi

velleità di cinismo, il suo volto arrossato emanava sconcerto, rabbia, odio, dolore. Catapultato in una situazione così assurda... Ma perché non aveva mollato a tempo debito quella troia? Perché era maledettamente bella, perché la amava con la stessa intensità anche dopo quattro anni che era morta.

«Cosa ne sai tu, imbecille, del motivo per cui mia figlia, che porta il mio cognome, che ho cresciuto io, è venuta qui?».

La verità era che Matt non ne sapeva assolutamente nulla. Il suo unico obiettivo era far incazzare quell'uomo che diciotto anni prima gli aveva dato il colpo di grazia. Ma ora era evidente che aveva toccato un tasto assolutamente dolente per provocare quella reazione.

«Un vero padre capisce tutto...» azzardò.«Piantala...». Gabriele era tornato a recuperare l'autocontrollo. «Non sono qui per

parlare di cavolate» concluse a occhi bassi. «Dov'è?».«Secondo te? Se lo sapessi la lascerei lì?».Gabriele sospirò: «So che l'hanno rapita a causa tua. Perché?»."È veramente il momento di piantarla" pensò Matt.«E come lo sai?».«Perché, secondo te, sono talmente imbecille da lasciarla venire qui, da sola, allo

sbaraglio?».«Forse...» rispose il medico con una scrollata di spalle.Gabriele non replicò.«È colpa mia. Ho avuto dei problemi in ospedale, ho iniziato a fare delle ricerche

che non avrei dovuto. Quando mi hanno minacciato di rapirla... beh, ho lasciato perdere, ma probabilmente era troppo tardi. E io non sono riuscito a fare niente per

impedirlo...». Gabriele sbuffò: «Patetico... Tutte queste cose le so già, grazie. A che punto sei

con queste ricerche?».Matt inghiottì: «Non ho trovato quello che speravo».«Potresti raccontarmi tutto? Magari senza fare il brillante... forza, siamo civili, è

per il bene di Danielle».Matt si rilassò sul sedile ed iniziò a raccontare, dal ricovero di Luke alle analisi.

Lo mise a parte della storia soltanto a grandi linee, tralasciò i dettagli sui pazienti e le loro identità, sugli ultimi sviluppi e, soprattutto, sulla scatoletta che gli aveva consegnato la signora Mason.

Alla fine Gabriele sbuffò di nuovo: «Se ti chiedono di fare qualcosa, fallo senza discutere. Intanto di lei mi occupo io».

«E intanto con questo incontro ce la siamo giocata bellamente. È da settimane che mi intercettano, mi pedinano...».

«Tu sta' tranquillo. Gli uomini che scelgo personalmente sono in gamba, non mi piace avere a che fare con gli idioti, come invece piaceva a mia moglie, a quanto pare».

Matt incassò, quel bastardo aveva in parte ragione, e scese dall'auto."Forse un giorno ci sarà qualcosa per cui dovrò essergli grato... Sarà mai

possibile?" si chiese facendo un cenno di saluto assolutamente poco cordiale a Gabriele.

Gabriele si protese in avanti superando con la testa la portiera che il medico aveva lasciato aperta: «E ricordati, Matthew Holland, se le succede qualcosa, qualsiasi cosa, prima trovo e ammazzo loro, poi te».

Matt deglutì. Cosa poteva fare, insultarlo in turco? Saltargli addosso? Prenderlo a pugni? Semplicemente girò sui tacchi e si avviò verso casa, e lo fece perché quel bastardo aveva tutte le ragioni per parlare così.

"Certo... in quel caso mi ammazzerai, ammesso che mi trovi vivo prima che io stesso l'abbia fatto!" pensò mentre camminava a passo di marcia.

Non sapeva più se andare a Brighton fosse la cosa giusta: era ancora stanchissimo e per di più sconvolto dall'incontro che aveva appena fatto. Rivedere quell'uomo, dopo diciotto anni, aveva riattivato ricordi sepolti, aveva fatto prendere vita ad una parte del suo cervello che aveva smesso di funzionare, era come se la sua intera esistenza si fosse svolta a cavallo fra il 1990 e il 1991 e tutto quello che i due anni avevano significato si stava abbattendo improvvisamente, intensamente su di lui con forza inaudita. Aveva bisogno di fare qualcosa, ma non sapeva che cosa cavolo fare. Rientrò in casa con un'espressione sconfitta.

Il computer era rimasto acceso. Matt si buttò sulla sedia girevole, la sensazione che i bastardi gli avessero scritto di nuovo era fortissima.

Bentornato!Non si sarebbe mai abituato a deliri così spiccati dell'intelletto umano, impresa

ardua immaginarsi cosa contenesse il resto del messaggio. Aprì. Sgranò gli occhi nel vedere il volto di una persona che conosceva, purtroppo, ma conosceva.

VIOLENTATA SENZA PIETÀ, MA TUTTO VIENE MESSO A TACERE QUANDO SI TRATTA DI PERSONE APPARENTEMENTE RISPETTABILI.

Lei è Nancy, giovane bella e semplice dell'East End che ha avuto la sfortuna di incrociare sul proprio cammino un brillante medico di fama nazionale: Matt Holland.

«Tutto viene messo a tacere quando si tratta di persone apparentemente rispettabili» confida la ragazza.

«No...» gemette Matt accasciandosi sulla poltrona «Ti stanno usando in un modo così squallido...». Sospirò a denti stretti e pregò solo che lei stesse bene.

Ti piace il titolo? Potrebbe fare un giretto formidabile fra i tabloid domani... sarebbe divertente in effetti vedere tutte le reazioni: insulti, sdegno, licenziamento... chissà le persone che ti hanno sempre stimato molto, poi... che delusione!

Nah, troppo patetico! Non ci piace poi così tanto il pathos, sai? È per questo che preferiremmo che eseguissi e basta. Non è difficile, sostanzialmente si tratta di rifare il lavoretto di questa mattina. Ecco: volevamo solo darti un incentivo in più!

Buon lavoro!Noi "Ma dove cacchio la trovate tutta questa stupefacente originalità, pezzi di

merda? Invidiabili assai!" pensò mentre cliccava sul link della Hyper Synthesis Scientifics per ripetere precisamente lo stesso schifo di quella mattina. Se non ci fosse stata di mezzo Danielle, la reputazione avrebbe potuto anche andare a farsi benedire per quello che lo riguardava. Ridursi a collaborare con loro soltanto per la buona fama... sarebbe andato contro almeno ad una dozzina dei propri saldi principi.

Scrisse, questa volta per un vasodilatatore pubblicato in India — non da Eze ma probabilmente da un medico altrettanto inaffidabile —, quindi abbandonò il pc per trasferirsi nella stanza ad uso multiplo. Il suo fedele pianoforte era lì in attesa: il suo lucido smalto nero raccoglieva un sacco di ricordi, i tasti ora ricoperti da una fascia di velluto verde avevano tante volte assistito ai duetti delle mani di un bambino alle prime armi e una madre paziente nell'insegnamento. Era l'unica cosa di valore che Matt si fosse fatto mandare dagli Stati Uniti quando si era trasferito. Vi si sedette di fronte ed iniziò a suonare il Notturno in mi bemolle maggiore dell'Opera 9.2 di Chopin, il suo pezzo preferito in assoluto, melanconicamente struggente, romanticamente sublime. Si perse fra quelle note composte con una perfezione geniale. E gli accordi del magnifico musicista polacco si portarono via ogni paura, ogni residuo di rabbia, ogni attimo di tristezza e dolore; solo una rinnovata speranza, magari, un giorno, di non essere da solo di fronte a quel pianoforte a suonare Chopin, ma di farlo ascoltare alla persona che più amava al mondo.

Lasciò che le note fluttuassero intorno a lui per un buon paio d'ore, prevalentemente Chopin, finché il cielo di Londra incominciò a tingersi di scuro facendo cadere la stanza nella penombra. Matt diede un'occhiata all'orologio da polso: tempo di fare un salto a Brighton, prima che qualcuno chiamasse la polizia — il telefono era squillato un altro paio di volte.

Dopo aver mangiato al volo la bistecca che Rose gli aveva preparato, si infilò

rapidamente la giacca e scese in garage, altroché mezzi pubblici, con quei figli di puttana non sarebbe stato al sicuro da nessuna parte. Si sarebbe limitato a giocare al loro gioco.

41

Era ancora tanto buio tutt'intorno. Danielle si era svegliata battendo i denti, l'ambiente umido era micidiale per una persona legata ad un lettino, coperta soltanto da una maglietta a maniche corte e un paio di jeans leggeri. I piedi, fasciati dal paio di sandali neri senza tacco che si era portata da casa, erano gelidi. E a svegliarla, oltre ai brividi e all'intorpidimento di braccia e gambe, erano stati dei rumori che continuava a sentire: provenivano dall'esterno ed era come se si avvicinassero.

"Dio... no, non voglio vederli..." pregò Danielle stringendo i pugni. Capì che i brividi non erano solo di freddo. Aveva paura. Le sarebbe piaciuto piangere, ma non ci riusciva. La benda sulla bocca si stava asciugando e probabilmente stavano venendo a cambiarla. Non voleva vederli, no, no, no, no, non voleva trovarseli di fronte. Perché quello non era solo un maledetto incubo?

Distinse dei passi pesanti, delle voci concitate, risate. Erano almeno in due. Voleva essere fra le braccia di Federico, così forte e protettivo, brillante, la risposta sempre pronta, la parola giusta al momento giusto, il sorriso smagliante. Dio solo sapeva dov'era lui in quegli attimi, Dio solo sapeva se lui sapeva. E Dio solo sapeva quanto avrebbe, pur assurdamente, desiderato essere di nuovo nel giardino dei Richards, seduta a gambe incrociate accanto a Matt, affascinata dalla sua aura misteriosa, persa nel suo sguardo assorto, in contemplazione dei suoi gesti naturali. Tutto molto fiabesco se uno dei due fosse venuto a salvarla...

La porta si aprì all'improvviso, un paio di mandate di chiave che la ragazza non aveva fatto in tempo a sentire, immersa com'era nel sogno ad occhi aperti in cui stava tentando di rifugiarsi. Poi un fascio di luce illuminò due figure che stavano entrando nella stanza barcollando. Ora non parlavano più, ridevano in preda ad un'euforia alcolica. Infine furono sopra di lei. Sussultò. In un lampo le era tutto chiaro. Avrebbe fatto di tutto per impedirlo.

«Ehi! Ciao!». Uno dei due le alitò addosso un misto di alcol e qualcos'altro, contornato da un accento del nord Italia, mentre le prendeva il polso sinistro. Danielle tentò di divincolarsi, ma naturalmente l'uomo era troppo forte, tanto più che lei era legata. «No... no... buona...» sussurrò lui in tono fintamente dolce. «Oh! Cos'è questo?». Le sue dita si erano impigliate nel braccialetto che Federico le aveva regalato quand'era andato a trovarla a Brighton, una catenina in oro bianco su cui erano inseriti un cuore e una stella, lo scopo quello di completarla con quanti più ciondoli possibili per il tempo che sarebbero stati insieme — la promessa era l'eternità.

«No, quello no, ti prego, no!» urlò la ragazza attraverso la fascia che le tappava la bocca all'uomo che stava tirando il braccialetto senza nemmeno degnarsi di aprirlo in maniera civile.

«Prezioso, eh? Cucciola... magari il regalo del moroso...».Danielle avrebbe voluto insultarlo in cinese, ma era troppo tardi, la catenina

aveva ceduto alla pressione di quelle dita maledettamente forti. Strizzò gli occhi

nella speranza di cancellare l'incubo che stava vivendo. Chiese perdono a Federico dentro di sé.

Intanto l'altro uomo le aveva già slegato i piedi e si stava occupando del braccio destro.

"Ora o mai più!" si gridò Danielle nella testa. Raccolse tutta la forza che aveva dentro di sé, attingendo soprattutto a quella della disperazione, e si alzò di scatto in piedi sul letto tirando un pugno all'uomo di destra, un calcio a quello di sinistra. Guidata dal fascio di luce che proveniva dalla porta aperta, si diresse verso l'uscita, barcollando un po', in realtà, a causa del formicolio alle gambe. Ma loro erano ubriachi, si disse che avrebbero barcollato ben peggio. Le stava andando addirittura meglio di quello che sperasse: li vide ancora riversi a letto, scossi da risate per quel gesto inaspettato. Lei ora era in un corridoio, di fronte una rampa di scale, a lato qualcosa che non le interessava. Con il respiro affannato, iniziò a salire i gradini, aggrappata al corrimano nel tentativo di trovare lì le energie che le stavano venendo a mancare. Continuò a salire, prima rampa, seconda, il pianerottolo non aveva porte, soltanto altri scalini. Iniziò a salirli.

«Ferma!». Una figura massiccia le era comparsa improvvisamente di fronte. Danielle sussultò, ma l'uomo non le diede tempo di reagire, la prese per la vita, la sollevò da terra e se la caricò senza difficoltà in spalla come fosse stata un sacco privo di vita. La ragazza iniziò a scalciare, tuttavia la possente corporatura dell'uomo sembrava non risentire di alcun colpo. Era lei, piuttosto, che stava combattendo anche solo per respirare, il suo stomaco compresso dalla spalla del rapitore.

«No... per favore no... basta!» gli sussurrò nell'orecchio.Lui continuava a scendere le scale, diretto alla prigione: «Shshsh... pazienza,

finirà prima o poi!»."Grazie al cavolo, bastardo!" pensò stringendo i denti. Non poteva fare altro che

sottostare ai loro capricci. Ma perché l'avevano rapita? Questo pretendeva di capire.L'uomo la riportò nella stanzetta umida, spostò con un paio di calci i due colleghi

che erano ancora riversi sul letto e ce la buttò. La legò senza che la ragazza gli opponesse resistenza — era stanca, sapeva che non sarebbe servito a nulla — e le strinse la bocca con una nuova fascia, ben imbevuta di sonnifero o quello che era. Prese i colleghi per le braccia e li spinse fuori imprecando a denti stretti.

Danielle tirò un profondo respiro: voleva addormentarsi, non voleva pensare, non voleva soffrire, voleva solo dormire.

42

Larry si rigirava nel letto. Non aveva dormito, era preoccupato. Aveva deciso di non tornare a Londra il giorno precedente, non ne aveva avuto il tempo, ma era davvero il caso di andare a vedere cosa stava combinando Matt, soprattutto dopo che non lo aveva trovato in casa due mattine prima.

Allungò il braccio verso la ragazza bruna che gli dormiva accanto e le fece una carezza delicata sulla guancia.

Lei, sorridente, aprì due occhi scuri e luminosi.«Scusami» le sussurrò Larry baciandole la fronte «ma devo correre via. Ho

un'emergenza a Londra». La giovane assunse un'espressione imbronciata, ma Larry era già sgattaiolato fuori dal letto, vestito in un minuto, pronto a uscire, richiamato al dovere dalla difficoltà di un amico.

Lei lo imitò, peccato solo che tutto fosse finito così presto...Arrivò a Londra sotto una leggera pioggerellina, sette circa. Protocollo di

sicurezza? Non in casi estremi come quello. E quello era un caso decisamente estremo. Raggiunse il deserto vialetto di casa Holland sperando che l'appartamento non lo fosse altrettanto. Se lo avessero seguito pazienza, avrebbe preso Matt e sarebbe scappato.

Sfruttando il cancello aperto da un'automobile in uscita, Larry scese nel garage. Imprecò. La Golf non c'era. Parcheggiò e si mise in attesa a motore spento.

Rimase lì ad aspettare, a braccia incrociate, per buoni quarantacinque minuti, mentre l'amico tornava da Brighton in una macchina carica di pensieri, paure e speranze. Keith, Michelle e Federico erano esausti. Era massacrante non sapere il perché: se almeno qualcuno avesse chiamato per chiedere un riscatto, o qualcosa... invece silenzio. Ma in realtà nulla era poi così silente, lui lo sapeva fin troppo bene. Si sentiva terribilmente in colpa anche per il fatto di non poter parlare, ma aveva deciso che per il momento era meglio così, avrebbe dovuto dare troppe spiegazioni, raccontare cose che avrebbero fatto male a tutti quanti. Anche lui era esausto.

Scese in garage: un fuoristrada nero bloccava il passaggio."Larry? Finalmente!" era sollevato. Incastrò carambolesca-mente la Golf in uno

spazio strettissimo. Pochi secondi dopo era saltato sulla macchina dell'amico.«Allora, West Coast?» gli domandò Larry battendogli una mano sulla spalla.«Meno male che sei arrivato, stavo impazzendo. È scoppiato tutto. L'hanno

rapita».Larry si drizzò sul sedile: «Chi?!».«Mia figlia!». Lo disse con una naturalezza di cui si sarebbe stupito in un

momento più opportuno.Larry dominò presto lo sconcerto, tuttavia ebbe tempo di rivedere lo sguardo

illuminato di Matt mentre gli raccontava la straordinaria novità di quei giorni, la notte in cui l'aveva raggiunto a Teignmouth. Non l'aveva visto così felice da prima dell'Iraq. Sospirò.

«Mi dispiace... ma perché?». Si rese però conto di aver collegato tutto nel momento stesso in cui stava ponendo la domanda.

«Perché... perché stanno ammazzando dei ragazzi e hanno paura di essere disturbati».

Larry gli allungò un'occhiata di comprensione.«Ho fatto fare le analisi, ma non sono ancora riuscito a rintracciare la persona di

mia fiducia che di solito si occupa di queste cose. Purtroppo la ragazza del laboratorio ha fatto in tempo a guardare e ho avuto l'impressione volesse dirmi qualcosa».

«Strano davvero! Quelle analisi sono una bomba, Larry. Da sole significano relativamente poco — infatti me ne sono sbarazzato sperando che, se mi stavano controllando, pensassero che avevo deciso di rinunciare. Ma combinate con tutte le analisi dei pazienti che mi hanno fatto iniziare ad essere sospettoso...».

«Stanno provando — e, maledizione, riuscendo! — ad alterare il ciclo di Krebs dei nuotatori agonistici in modo che produca più energia del normale. Ciò significa più velocità e resistenza nelle competizioni, ma ciò significa anche problemi di im munodeficienza. Tutto merito di quei cavolo di integratori! Non contengono solo fruttosio e maltodestrine, come ti avrà detto...».

«Frena, frena! Sono un pessimo biologo, lo sai. Passiamo al lato pratico: perché starebbero cercando di farlo?».

«2012... Londra...» ribatté Matt con una smorfia.«Olimpiadi...». Anche l'aria di Larry era disgustata. «Ok. Adesso raccontami

tutto, tutto quello che è successo negli ultimi giorni. Ci dobbiamo attivare immediatamente. Qualsiasi elemento può essere fondamentale».

Volto affranto, Matt tornò al momento in cui era uscito da casa di Larry, sforzandosi di raccontare ogni minimo dettaglio: Nancy, Bob, la cena a Brighton, le analisi e i risultati, la decisione di tornare in California e la "sorpresona" che aveva trovato al ritorno e naturalmente tutte le mail ricevute e i due articoli che era stato costretto a scrivere, collaborazione tra Eze e HSS compresa. E raccontò anche della visita di Gabriele Castaldo.

«Sono mortificato...» concluse mestamente Larry «Non ho fatto un buon lavoro. Ma rimedierò. La troveremo, te lo giuro, la ritroveremo prestissimo. Adesso attivo il mondo intero. Penso però sia il caso che tu venga con me, preferisco nasconderti in una Hummer blindata che lasciarti qui a fingere normalità».

«Se me ne vado potrebbero ucciderla, Larry!» urlò il medico in preda ad un moto isterico.

«Lo so, Matt, ma potrebbero farle del male anche mentre tu ed io stiamo qui a perdere tempo».

«Perché? Perché, Larry, perché lei? Se volevano sfruttarmi potevano farlo, sono disposto a scrivere tutti gli articoli che vogliono, sostenere tutte le conferenze che vogliono, inventarmi tutte le idiozie che vogliono, ma non lei! Potevano uccidermi direttamente se volevano tapparmi la bocca...».

«No, perché era questo stato di oblio in cui volevano ridur-ti. E tu che fai, gliela dai vinta? Ti arrendi? Ne hai passate tante, Matt».

«Sì, però forse è proprio per questo che non ce la faccio più».

Larry gli posò una mano sulla spalla: «Ti fidi di me?».Matt sospirò. Un sacco di immagini nella sua mente, lui e Larry in situazioni

assurde, tra cui la più surreale era certamente quella in cui l'amico l'aveva chiamato per una medicazione, ma sofferente non era riuscito a coordinare la squadra e così lui, Matt e l'autista si erano trovati a fare di notte un tour di Londra sotto gli spari di gente folle. Larry aveva rischiato la vita per salvarlo.

Annuì.L'amico gli rivolse un sorriso d'incoraggiamento e avviò il motore.Un paio di chilometri dopo si scambiarono al posto di guida per dare modo a

Larry di iniziare a smuovere la sua rete di contatti. Matt guidava in silenzio, concentrandosi su cose futili come il rombo del motore o la targa dell'automobile davanti a lui, tutto pur di pensare il meno possibile. L'amico batteva freneticamente sui tasti di due cellulari di ultima generazione fra chiamate, sms ed e-mail.

A Teignmouth, a casa Chilton, la situazione si profilava molto simile: Matt, inutile nelle ricerche, non poteva fare altro che dedicare tutta la sua attenzione ad un libro che aveva scelto a caso tra l'esigua collezione di Larry. Sprofondato in poltrona, di tanto in tanto alzava gli occhi verso l'amico per tentare di capire a che punto fosse, senza domandare, senza disturbare. Lo vedeva muoversi di continuo dal computer al telefono al frigo. Larry si stava ingozzando di tutto ciò che trovava, lui non aveva fame, aspettava, movimenti nervosi e cadenzati a indicare l'impazienza repressa. Non avrebbe saputo dire di cosa parlava il libro che stringeva fra le mani. Bastava leggere, o perlomeno far finta.

«Mi dai ID e password del tuo account di posta?». Larry fece crollare i suoi sforzi di mantenere la mente vuota.

Matt alzò lo sguardo: «Sì, cosa pensi di fare? Usano indirizzi che...».Larry sollevò la mano destra dal mouse e gli fece cenno di raggiungerlo:

«Vogliamo capire da dove ti mandano le mail». Smorzò le proteste dell'amico ancor prima che nascessero. «So che sono account temporanei e che i messaggi si auto cancellano, ma so anche il livello delle persone con cui collaboro».

«Non sarà pericoloso?» domandò Matt mentre digitava sulla tastiera le proprie credenziali.

Larry si girò per guardarlo negli occhi: «Non sarà pericoloso operare un paziente di — che so! — appendicite? Ha i suoi rischi, eppure lo fai, lo fai e ci metti il massimo impegno».

«Hai ragione» Matt tornò al proprio posto «Scusami». Si rendeva conto di essere insopportabile, l'ansia non era una giustificazione.

Ore dopo, mentre il sole fluttuava verso ovest, la situazione non era cambiata molto. Larry si teneva in stretto contatto con i suoi due informatici attraverso una linea criptografata, e comunque il linguaggio di cui si servivano era di per sé decisamente criptico, codici serrati adeguati ad una questione di alta segretezza. I collaboratori di Larry erano molto preparati, sfortunatamente lo erano anche quelli della Hyper Synthesis Scientifics. Accesa battaglia fra brillanti menti informatiche.

Il tic nervoso di Matt si era accentuato finché, sfinito, il medico non era scivolato in un sonno profondo sebbene inquieto.

«Ehi, Matt, sveglia!». All'improvviso Larry gli era accanto. «Ci siamo, forse!».

Matt scattò in piedi non dandosi nemmeno il tempo di realizzare. Senza chiedere il come e il perché — aveva già fatto troppe domande — si infilò l'impermeabile e lo seguì giù per le scale, in una Aston Martin blindata accanto alla quale sostava un'altra auto, di più modeste dimensioni ma comunque di alta sicurezza; il tutto gli provocò un brivido di inquietudine.

Partirono alla volta dell'International Airport di Exeter. Come gli spiegò Larry durante il tragitto, la prima e-mail era stata inviata da Londra, le altre da Milano. Quattro uomini erano partiti da Londra un'ora prima in avanscoperta, la presenza di Larry era fondamentale per una questione di coordinamento e Matt non poteva rimanere solo, abbandonato al proprio destino; gli uomini dell'automobile di scorta li avrebbero protetti.

"Protetti..." la parola gli riecheggiò nella mente con un che di spaventoso.Larry parcheggiò la supermacchina da 007 in uno spazio riservato alle partenze

con voli privati. Scesero. Alle loro spalle quattro uomini che Matt evitò di guardare con attenzione: odiava tutto questo. Un aereo di piccole dimensioni li aspettava a motori accesi, il pilota in piedi accanto alla scaletta del velivolo. Salutò con fredda formalità i sei uomini, lanciando un'occhiata di timoroso rispetto a Larry. Il dettaglio non sfuggì al medico: non si era mai reso conto fino in fondo di quanta influenza potesse avere una persona così cordiale ed espansiva come l'amico. Lo seguì in silenzio dentro l'aereo.

Pomeriggio tardo. L'Inghilterra stava scivolando sotto le ali del jet che dopo un paio d'ore circa sarebbe atterrato all'aeroporto milanese di Linate. Larry teneva gli occhi incollati allo schermo del computer portatile che si era portato da casa, troppo concentrato per sprecare neuroni nell'aggiornare l'amico che gli lanciava occhiate ad intervalli pressoché regolari. Gli era stato solo detto che sarebbero andati a Milano e a lui non serviva sapere altro, non sarebbe stato utile a tranquillizzarlo. Guardava fuori dal finestrino dapprima l'isola britannica, poi il Canale della Manica. Tutte quelle misure di sicurezza stavano iniziando a fargli capire quanto quel gioco fosse pericoloso. Non aveva più la forza di ragionare, mantenere la calma.

"Dio, ti prego, aiutala, aiutami..." si abbandonò a ciò che non faceva da anni, che forse non aveva mai fatto: pregare. Era l'unica cosa che gli rimaneva, forse la più importante. Tutte le sue certezze erano cadute, una ad una, sotto la spinta di eventi incontrollabili, dettati dall'inguaribile predisposizione umana al male.

Il jet atterrò con poche manovre esperte sulla pista più lontana dai terminal di Linate. I sei uomini scesero nel solito pesante silenzio. L'odore di benzina era intenso, a discapito dell'equilibrio di Matt. Nel piccolo parcheggio adiacente le piste private due Mercedes classe S in attesa.

«Ci dividiamo, è più sicuro per te». Larry gli indicò l'auto verso cui si erano già diretti due dei quattro uomini. «Va' con loro. Sanno già quello che devono fare. Andrà tutto bene». Lo disse benché non ne fosse affatto certo. Era terribilmente preoccupato.

«Ok. Grazie Larry».L'amico gli sorrise prima di scomparire dietro la portiera blindata dell'altra

macchina. Matt lo imitò. Da dietro uno dei due uomini di scorta gli passò la cintura di sicurezza.

Ma l'auto non partì. Larry era già andato, loro ancora fermi. Matt sbirciò le espressioni degli altri tre per capire se tutto fosse nella norma. Pareva di sì. Sospirò. L'odore di benzina l'aveva seguito anche in macchina. Fu costretto ad appoggiare la testa, l'auto continuava a rimanere immobile.

«Non li seguiamo?» domandò con titubanza all'autista. L'espressione confusa con cui l'uomo lo guardò gli fece capire che non parlava inglese.

«Aspettiamo qui che localizzino il punto che ci interessa» intervenne l'uomo seduto alle sue spalle. «È più sicuro».

Matt annuì e cadde in un profondo silenzio, condiviso con gli altri tre.Trascorse una buona ora e un quarto prima che succedesse qualche cosa: il

cellulare dell'autista squillò. L'uomo scambiò qualche battuta in italiano — assolutamente incomprensibile per Matt e i due della scorta —, quindi accese il motore e si lanciò fuori dal parcheggio. Il medico allungò uno sguardo interrogativo al ragazzo alle proprie spalle.

«Tutto a posto. Anche questo era previsto».Tornò a girarsi. La periferia di Milano correva al di là dei vetri oscurati della

Mercedes. Matt la osservò per evitare di pensare all'atmosfera opprimente che aleggiava nell'automobile.

Corsero per una ventina di minuti circa su strade e stradine fra le quali nessuno dei tre stranieri si sarebbe saputo orientare, ma l'autista era troppo milanese per sbagliare qualcosa in quel tragitto. Dall'alto dei suoi cinquant'anni e passa e della lunga esperienza nel campo, cercava di immaginarsi cosa ci facesse lì quell'uomo castano dall'aria smarrita che evidentemente non c'entrava nulla con quel tipo di affari. E non era di certo stato rapito, troppo slegato e troppo ansioso di arrivare alla meta.

E finalmente ci arrivarono alla meta: una cascina in aperta campagna padana.

Erano le otto, il cielo ancora chiaro e limpido di una giornata soleggiata. L'auto si fermò ad una cinquantina di metri dal casolare illuminato.

«Aspetta ad uscire!» ordinò il ragazzo della scorta a Matt che aveva già la mano sulla maniglia della portiera. «Qui siamo al sicuro».

Il medico obbedì. Teneva gli occhi fissi sull'ingresso della struttura di cui l'unica caratteristica che notò fu l'enorme dimensione; l'ultima cosa che gli interessava erano i dettagli della probabile prigione di sua figlia.

Poi le vide, due figure che si avvicinavano a loro: una era l'inconfondibile stazza possente di Larry, l'altra la snella corporatura di Danielle che si trascinava, sostenuta dal braccio sinistro di Larry.

Matt fece scattare la portiera e si precipitò fuori ignorando deliberatamente le proteste dei due ragazzi della scorta. «Danielle!» esclamò.

La ragazza sollevò la testa che teneva piegata verso terra. Continuando a camminare piano, ciondoloni, lo fissò per alcuni secondi con sguardo vacuo prima di capire chi fosse l'uomo che le stava andando incontro.

«Matt...» mormorò alla fine.«Sì, tesoro, sono io». Coprì a grandi falcate gli ultimi metri che li separavano.Danielle gli si gettò fra le braccia: «Allora sei venuto... e mi hai portato anche

Bob?».

Matt sospirò. «È tutto a posto, è tutto finito, sta' tranquilla» le sussurrò accarezzandole la testa.

«Ho freddo... ho tanto freddo...». Tremavavisibilmente.«Resisti, piccola, adesso ce ne andiamo. È tutto a posto!» ripetè. Sollevò lo

sguardo verso Larry, un sorriso e un'occhiata interrogativa sul suo volto. L'amico annuì ad indicare che effettivamente stava andando tutto bene. Matt strinse ancora un poco più forte la figlia.

«Potete tornare alla macchina, dobbiamo occuparci delle ultime cose» spiegò Larry mentre si incamminava verso la cascina.

Matt girò la testa per controllare quanto fosse distante da lì l'automobile,

pensando al fatto che Danielle non poteva camminare molto. Decise che l'avrebbe presa in braccio. La Mercedes era scomparsa.

43

Il telefono di casa Holland stava suonando ininterrottamente da dieci minuti; la segreteria telefonica era piena di messaggi, vecchi anche di tre giorni, e non ne accettava altri. L'apparecchio continuava a squillare a vuoto.

All'altro capo Keith, cordless stretto in mano, volto teso. Imprecava ad ogni squillo che non riceveva risposta.

"Dai, cavolo, non puoi essere scomparso anche tu!" si urlò in testa in preda ad una crisi di nervi. Provò un'altra volta e giurò a se stesso che quella sarebbe stata l'ultima.

Michelle si era addormentata in sala, accoccolata sul divano, Federico se ne stava a gambe incrociate sulla poltrona a fissare senza alcun interesse le foto di una rivista che aveva pescato a caso da un'alta pila accanto alla televisione.

Keith emerse dalla cucina: «Io vado a Londra, devo controllare, non mi sembra normale quello che sta succedendo».

Federico posò la rivista sul pavimento: «È colpa sua, ne sono certo. Non ha un comportamento normale!».

«Federico, piantala!». L'espressione di Keith si era fatta dura. «Ti rendi conto di quello che stai dicendo? Solo perché non lo sopporti! Se hai bisogno di sfogarti insulta me, ma per piacere evitiamo di dire stupidaggini!».

«Scusami, non volevo mancarvi di rispetto...» mormorò il ragazzo a testa bassa.Michelle si era svegliata. Aveva colto il senso del discorso, ma non voleva

intervenire e non solo perché sarebbe stato inopportuno, piuttosto perché in qualche misura condivideva il pensiero di Federico, fermo restando che anche lei amava Matt come un fratello. Aveva però notato qualcosa di strano nel momento in cui gli aveva presentato Danielle e nella sua espressione ogni volta che la guardava. Poi quella sequela di sparizioni improvvise... si odiò per essere sospettosa.

«Forza, andiamo a dare un'occhiata per sicurezza!» esclamò alzandosi in piedi all'improvviso.

44

Matt ebbe un tuffo al cuore. Cosa stava succedendo? Non era tutto a posto?!«Larry...» chiamò l'amico con voce incerta mentre lo cercava con lo sguardo. Lo

vide seduto sugli scalini d'ingresso del casolare. «Cosa succede?».Larry Chilton si alzò e mosse qualche passo nella loro direzione: «Pensavi fosse

tutto così semplice? Povero il mio ingenuo Matt...».Il sangue gli si gelò nelle vene. Combatté per cercare qualcosa da dire; non gli

veniva nulla di razionale.«Ma tu pensi davvero che saremmo riusciti ad arrivare qui, a scoprire questo

posto in così poco tempo? Pensi che avrei ingaggiato tutti questi uomini per la tua patetica storiellina di padre disperato?».

Matt notò che teneva una pistola nella mano destra. Strinse Danielle leggermente più forte.

«Chiaro che no! Purtroppo per voi, ovviamente...». Rise.«Chi sei diventato, Larry?». Non era soltanto deluso; profondamente scosso,

sorpreso, arrabbiato, amareggiato.«Eh, Matt... tu pensi che le persone non cambino mai. Invece sei venuto dalla

persona sbagliata nel momento sbagliato, cosa posso farci? Hai iniziato a dirmi cose vere sulla ditta per cui lavoro da mesi e mi hai dato un sacco di elementi utili di cui occuparmi. Poi hanno rapito la tua bimba, e quale migliore occasione di farvi rincontrare per un'ultima volta?».

«Sei un bastardo...» biascicò a denti stretti Matt.«Eh, capisco... tempi duri per fidarsi dell'amicizia...».«Ti ricordi? Avremo avuto ventidue o ventitré anni. Era il cuore della notte, mi

hai raggiunto a casa a Cambridge, fortuna che ero da solo perché eri in condizioni mostruose. "Ehi, Matt, aiutami, ti prego, fa un male fottuto!" mi hai detto. "Oddio, Larry, che cacchio è successo?" ti ho domandato. "Per favore, non farmi domande, non ti posso dare risposte, ma ti giuro su mia madre che non sto facendo niente di male, anzi, sto cercando di combatterlo". E io chiaramente ti ho creduto. Sarò stato al terzo anno di università... anestetico, laccio emostatico, bende e dita, non avevo nemmeno le pinze... Ti ho strappato fuori la pallottola e tu non hai detto niente, hai solo stretto i denti, così ho pensato: "Ecco chi doveva fare la guerra in Iraq, non io!". Ho iniziato a stimarti, ammirarti, e ogni volta che venivi da me in condizioni simili... beh, avevo la speranza, la fiducia che al mondo si stesse muovendo qualcosa per il meglio».

«Continui ad essere patetico, lo sei sempre stato».«Non è patetismo, è che non sono stronzo come te, è differente!» urlò spostando

Danielle un poco a destra, l'obiettivo quello di farle da scudo. L'unica cosa che voleva era che lei si salvasse, aveva solo diciotto anni e una vita intera davanti, aveva tantissimo da dare al mondo e non se ne sarebbe andata per colpa sua, non l'avrebbe mai permesso.

«Beh, dai, ti potrei anche concedere un paio d'insulti... in fondo stai per morire...».

«E mi concedi anche un'altra cosa, essere onnipotente? Mi concedi di chiederti il perché? Cazzo, Larry, perché?».

L'uomo si avvicinò un altro po'.«I motivi sono tanti. Uno di questi è che sono stanco di fare il bravo bambino, la

vita è molto più eccitante così. Un altro è che mi pagano, moltissimo, molto più di quanto non facciano i servizi segreti britannici».

Matt ebbe un conato di vomito. Spostò Danielle a destra di alcuni altri centimetri.«No!» ordinò Larry. «Lasciala lì o le sparo subito».Matt si bloccò. Ogni sua cellula gridava odio, rabbia, dolore.«Dov'è la chiavetta, Matt?».Altra corrente gelida. «Che chiavetta?!».«Quella che Luke Mason ha rubato dalla borsa dell'allenatore e che sua madre ti

ha affidato. Dove l'hai nascosta?».Il medico si sentì sulle spalle anche il peso della responsabilità della vita di

Allison Daultry; non aveva più pensato a lei, l'aveva lasciata sola con il pericolosissimo compito di custodire quella scatoletta. Si maledisse. «Quindi Luke non è morto in un incidente stradale!» esclamò all'improvviso. «L'avete ucciso voi, maledetti bastardi!».

«Piantala!» comandò di nuovo Larry. «Dov'è?».«Al sicuro». Il tono di Matt ora era glaciale. Intanto dentro di sé continuava a

pregare, aggrappato con la forza della disperazione al barlume di speranza che ancora rimaneva, stessa forza della disperazione con cui stringeva sua figlia.

E lei gli circondava la vita con altrettanta intensità.«Il tuo senso dell'umore mi sta stufando».«Capirai... uno è più simpatico quando sta per morire!».Larry sorrise con ironia.Mirò.Un colpo.

45

Jennifer scese di corsa le scalette dell'aereo. A Londra era sera, le dieci circa, l'aeroporto di Heathrow come sempre movimentato, una calca di gente frettolosa stipata sul bus diretto ai terminal. Li guardò con disinteresse.

Era partita da San Francisco con il primo volo disponibile dopo che Matt aveva continuato a non rispondere per un giorno e mezzo. Aveva un qualche tipo di presentimento sulla cui natura non voleva indagare, sperava solo che il suo intuito femminile fosse completamente fuori strada. Suo marito si era offerto di accompagnarla, ma lei aveva pensato che — considerato che sarebbe andato tutto bene — non ce n'era bisogno, sarebbe stato bello trascorrere ancora un po' di tempo con Matt. E magari avrebbe avuto l'occasione di conoscere la famosa Danielle.

Attese il timbro sul passaporto e si affrettò fuori dal terminal degli arrivi. Salì su uno dei caratteristici taxi di Londra, direzione East End, un indirizzo che conosceva a memoria, l'indirizzo di una casa in cui non era mai stata.

Il tassista era un ragazzo sudafricano piuttosto loquace. Jen ne apprezzò l'allegria, serviva a soffocare le ansie che aveva tentato di reprimere durante l'intero volo. Tra una battuta e l'altra, lanciava occhiate fuori dal finestrino per ammirare quella città in cui era stata soltanto una volta, da bambina, un'estate insieme a Matt e zia Jane. Si era divertita troppo, non voleva più tornare negli Stati Uniti. Sorrise mentre si lasciava cullare dai ricordi.

Il taxi entrò in un vialetto periferico e frenò davanti ad un condominio. Jen pagò la corsa in dollari. Quando scese, il peso del presentimento che si era alleggerito durante il tragitto la investì di nuovo in pieno, ora che si trovava vicina alla verità. Usò l'ingresso che le aveva indicato il tassista per entrare. Raggiunse la colonna dei campanelli, trovò il nome del cugino; stava per suonare quando un condomino uscì.

«Mi scusi, saprebbe dirmi in che appartamento abita Matt Holland?».«Primo piano, vicino alle scale» rispose l'uomo spostandosi per lasciarla passare.Jen ringraziò e si precipitò dentro l'atrio buio, su per due rampe di scale, davanti

ad una porta chiusa. Verificato che il nome sul campanello fosse quello che cercava, la donna suonò. Pregò che le aprisse Matt.

L'uomo che la accolse aveva effettivamente molte caratteristiche comuni con suo cugino.

«Keith?» azzardò.L'interlocutore annuì mordicchiandosi il labbro mentre pensava.«Mmm... Jennifer!» esclamò infine.Si abbracciarono con la nostalgia di due persone che non si vedono da tantissimi

anni.

46

Larry scoppiò a ridere.«Non credere che mi sia dimenticato di quello!» esclamò indicando il giubbotto

antiproiettile che gli aveva fatto indossare prima che scendessero dalla macchina a Exeter.

«Potevi anche farne a meno...».«Di cosa?».«Di darmi il giubbotto e far finta di spararmi...».«Perché?! Fa scena!».Matt odiava odiare, ma in quella circostanza odiò molto.«Dov'è la chiavetta?». Il tono di Larry si era fatto di nuovo duro.Il medico non rispose.«Alternative: o mi dici dov'è oppure le sparo».«Premesso che ci sparerai comunque, la domanda è: perché a lei, Larry? Non ne

sa niente! Se vuoi mantenere questo cavolo di segreto spara a me, no?». Danielle rimaneva inerte fra le sue braccia, la testa appoggiata sul suo petto, come se stesse dormendo.

«O mi dici dov'è oppure le sparo!» ripetè Larry.«No caro il mio cretino, tu non spari a nessuno!».Un colpo ci fu, ma non in direzione di Danielle. Era partito dalle loro spalle e

aveva preso Larry dritto in testa. L'uomo si accasciò a terra in un attimo.Matt non provò pietà per l'amico di una vita, solo tanto sollievo. Si girò per

guardare chi fosse il benefattore dall'accento non troppo inglese.«Gabriele?» mormorò a fior di labbra.«Già! Ultimamente sembra che stiamo diventando amichetti per la pelle!»

ironizzò avvicinandosi. «Posso salutare mia figlia?». Le posò una mano sulla spalla.«Dan... c'è... tuo papà» le sussurrò Matt.La ragazza sollevò la testa. Allungò un'occhiata inespressiva a Gabriele, quindi si

strinse ancor più forte a Matt e tornò a nascondere il volto. Gabriele arretrò di qualche metro. Alle sue spalle era comparsa la figura di un

uomo brizzolato, cinquantanni circa; fissava la scena con l'aria di chi la sa lunga.«Hai ragione tu, è tua figlia, ha scelto te. Che bel quadretto che fate lì così...».Matt abbassò due occhi colmi d'orgoglio verso sua figlia. Annuì in direzione

dell'eterno rivale che era appena diventato un alleato.«Peccato che non durerà molto...»."Ma perché ci amano tutti così tanto? Ne sono commosso!" si disse, mentre

un'altra ondata di ghiaccio si espandeva in lui. «Ma allora anche tu sei del giro...» commentò mestamente.

Gabriele assentì con un sorriso soddisfatto. Poi si girò verso l'uomo brizzolato: «Hai disinfettato tutto, Giovanni?».

«Siamo noi, capo!» replicò prontamente il brizzolato.Gabriele annuì nuovamente: «Grazie Giovanni, è stato bello lavorare con te».

Premette il grilletto prima ancora che Giovanni Gasparetti avesse tempo di portare la mano alla propria arma, prima che capisse che il Supremo l'aveva fregato, ancora una volta. Anche lui cadde a terra privo di vita.

«Non parlavi di affetto l'altra volta, Gabriele?» azzardò Matt. Era terrorizzato, non dalla propria morte, di cui sentiva il profumo, ma dal rischio che stava correndo Danielle e dalla perversa facilità con cui quella gente camminava a braccetto con il male.

«No, Matthew Holland, nessun affetto quando vivi per quattordici anni accanto ad una persona che non ti ama. Nessun affetto quando cresci una bambina a cui l'unica cosa che hai dato è il cognome. Nessun affetto dopo che scopri che tua moglie è anoressica perché è infelice accanto a te. Nessun affetto, no Matthew Holland, nessun affetto dopo che la persona che hai amato per una vita intera decide di schiantarsi contro un muro perché è depressa e ti lascia tre stramaledette righe come saluto».

Matt era paralizzato. Non riusciva a credere che quello che stava dicendo Gabriele fosse vero.

«Nessun affetto quando hai per le mani una joint venture con una società colossale come la Hyper Synthesis Scientifics. Se poi entrambe le parti hanno un contenzioso con un certo uomo...» lo indicò con disprezzo «l'affetto diventa ancor più scarso».

«Dimmi, Gabriele Castaldo: anche tu hai intenzione di farci fuori entrambi o saresti così carino da risparmiare Danielle?».

Gabriele scoppiò a ridere: «Ma dai... è più dolce che muoiate insieme adesso che vi siete ritrovati, no?».

"Ti prego, fulmina questo bastardo!" si urlò il medico nella testa.«Dimmi tu, piuttosto: vorreste essere seppelliti a Roma con Roberta oppure tu

preferiresti Berkeley, insieme ai tuoi?».«Non sei solo un bastardo, Gabriele, ma sei anche maledettamente stupido!»

gridò Matt spostando Danielle dietro di sé.«Hollywoodiano il tentativo di salvarla...». L'industriale scoppiò a ridere. «Prima

di morire, però, dimmi dov'è la chiavetta».«Considerato che comunque morirò posso anche farne a meno, non credi?».Un quarto proiettile partì.

47

Chi era la persona che la stava sorreggendo? Aveva un buon profumo. Federico, forse? O Gabriele? No, era Matt, lo aveva visto, era lui, era venuto a prenderla, a salvarla, a portarla via. Ma da chi? Da che cosa? Non lo sapeva. Sapeva solo che voleva andarsene insieme a lui, lontano.

D'un tratto era sussultata violentemente. Un rumore, un boato, tanto vicino al suo orecchio. Si strinse ancor più forte alla persona che stava abbracciando, ma chi era? Non le importava, avrebbe soltanto voluto un letto. Una voce familiare stava urlando, non capiva che cosa, la sentiva tanto lontano.

«Dan... c'è... tuo papà» si era sentita dire dopo un tempo indefinito. Stavano parlando con lei? Papà? Si ricordava di quella parola. L'immagine dell'uomo con cui aveva litigato in continuazione per... troppo tempo. Accanto a lui Matt. Lui, voleva andare con lui, lo abbracciò ancor più stretto e sprofondò di nuovo la testa sulla sua spalla.

Il mondo le stava girando intorno. Sarebbe cascata? Letto... letto letto letto... una spiaggia infinita davanti ai suoi occhi, avrebbe voluto sdraiarsi al sole, sulla sabbia. Stava cadendo.

"Cado..." pensò, ma chi la sorreggeva era lì, la strinse.Le voci continuavano ad esistere, a migliaia di chilometri di distanza. Non capiva

cosa si dicessero, le davano fastidio, avrebbe voluto farle tacere.Altri due boati non troppo distanti tra di loro, ma più lontani.Ora volava, seduta da qualche parte, volava, era bello, e anche se stava per cadere

era bello volare."Cado... cado... cado... cado...". Ma la persona era sempre lì a sostenerla e la

resse anche quella volta, stretta.Un altro boato, più vicino, molto più vicino.Cadde insieme a colui che la stava tenendo.

48

Gabriele aveva premuto il grilletto.Ma se l'esperienza di marine da un lato ha la capacità di rovinarti la vita, a volte

può capitare anche che te la salvi.Aveva capito che quel figlio di puttana avrebbe sparato e aveva capito che

doveva tenersi pronto. Quando il proiettile partì, l'istinto di sopravvivenza da soldato gli suggerì di buttarsi a destra. Lo fece. Si trascinò dietro anche Danielle, facendo quanta più attenzione poteva per coprirla con il proprio corpo.

Attesa. Non fiatò. Si aspettava un secondo sparo, che di fatto arrivò. E questa volta il suo istinto di sopravvivenza non poteva più nulla, questa volta solo qualche essere superiore poteva prendersi cura di loro. Chiuse gli occhi, non voleva vedere. Credette di star pregando concitatamente. Sì, stava pregando, e lo stesso stavano facendo le persone che li amavano ad un Canale della Manica di distanza.

Keith raccontò a Jen gli avvenimenti pazzeschi di quegli ultimi giorni. La donna scoppiò a piangere, sia perché vedeva confermarsi i suoi dubbi peggiori, sia perché soltanto ora si rendeva conto di quanto fosse grande il casino londinese del cugino, talmente grande che Matt non l'aveva nemmeno voluto condividere con colui che considerava a tutti gli effetti un fratello. Non fu lei a svelare la parte di verità che le era stata raccontata. Si limitò a prendersi il viso tra le mani e iniziare a pregare affinché ogni cosa si risolvesse per il meglio.

E lo stava facendo anche Michelle, accovacciata per terra, abbracciando le ginocchia, schiena appoggiata sulle gambe del marito. Non era certa che l'ansia si potesse moltiplicare, invece lo sperimentò nell'istante in cui aprì l'appartamento di Matt usando la chiave di scorta che lui aveva lasciato a Brighton per ogni evenienza. Si sforzava di immaginare dove potesse essere finito, ma mai — neppure con la fantasia più spiccata — sarebbe arrivata a figurarsi il polveroso terriccio su cui lui e Danielle stavano distesi, immobili, ad illuminarli l'ultimo chiarore di una giornata sul punto di morire.

Il quinto e sesto sparo di quella sera di metà estate avevano centrato in pieno il bersaglio.

La gamba destra di Gabriele Castaldo.Solo dopo lunghissimi secondi d'ansia Matt aveva avuto il coraggio di riaprire gli

occhi per capire che cosa fosse successo — perché non stava soffrendo ancora? Perché non era ancora morto? — e aveva visto due uomini che si fiondavano su Gabriele, riverso a terra, e lo sollevavano di peso. Un terzo uomo di corporatura robusta, invece, si era incamminato verso di loro. Matt rimase a terra, l'istinto gli suggeriva che non era ancora il momento giusto per alzarsi.

L'uomo li raggiunse ad ampie falcate: «Buonasera, sono Marco Biondi, padre di Federico». Gli tese una mano per aiutarlo ad alzarsi.

Matt lo guardò con occhi sbarrati. Si issò in piedi senza staccarsi per un attimo dal contatto con la figlia. Lei sonnecchiava ancora, in piedi, tutto il peso appoggiato

su di lui. E lui... e lui non poteva credere che fossero ancora lì, a respirare l'ultima afa di una giornata torrida, fissare negli occhi un uomo sconosciuto, sentire ancora il cuore battere, all'impazzata, i polmoni riempirsi di aria, di vita.

«È tutto finito, signore, è tutto finito. Siamo venuti qui per fermarli e a quanto pare ci siamo riusciti appena in tempo. Lei... è stato straordinario, ha evitato un proiettile molto ben mirato».

«I marines...» disse Matt con un filo di voce più a se stesso che all'interlocutore, mentre ripuliva il terriccio dal braccio e dai capelli dell'ancora inerte Danielle.

Marco sorrise.«Danielle, come stai?». Le posò una mano sulla spalla.La ragazza sollevò di nuovo la testa. Gli lanciò un'occhiata incuriosita.«Marco?... Dov'è Federico?» riuscì infine a domandare con grandissima gioia di

entrambi: stava superando l'effetto di qualsiasi cosa le avessero dato.«Ti aspetta a casa, in Inghilterra!» le rispose, ma lei era già tornata a nascondere

la testa sulla spalla di Matt, lo sguardo di nuovo vacuo.«Come avete fatto?» chiese il medico.Marco Biondi sospirò: «Era da un po' che li seguivamo. Il resto... ci conceda una

zona franca sul mestiere».Matt annuì. Gli occhi nocciola di quell'uomo robusto parlavano di autorità,

autocontrollo, lunga esperienza, bravura, soddisfazione, vittoria. Credette di leggere tutto ciò, ma evidentemente non era tanto bravo a capire cosa passasse per la testa altrui; con Larry aveva maledettamente sbagliato, sperò che l'errore non contasse più ormai. Nonostante la diavoleria della perseveranza, aveva bisogno di fidarsi di qualcuno, da solo non poteva farcela.

«Posso fidarmi di lei, signor Biondi?».«Capisco la domanda. Ha ragione a farla. Non posso fare nulla per convincerla,

ma mio figlio ama molto Danielle e io amo molto mio figlio».Anche se non l'avesse detto... l'avrebbero trovata.«La chiavetta a cui tenevano così tanto è in una cassetta di sicurezza a Gatwick.

Ho coinvolto anche una persona che non avrei dovuto, Allison Daultry, una dipendente dell'aeroporto. Tengo moltissimo al fatto che sia al sicuro».

«Anche noi. Tra qualche giorno un agente la accompagnerà a ritirare la chiavetta, intanto faremo in modo che la ragazza stia bene».

«E ci sono altri due ragazzi da proteggere, due ragazzi che portano i segni indelebili di questa follia nel loro sistema immunitario. Sono la prova vivente delle sperimentazioni della HSS. Paul Brett e Chelsea Daultry. Li affido a lei, signor Biondi; la prego, abbia cura di loro».

«Lo prometto, signor Holland. Voglio arrivare fino alla fine di questa storia, è da anni che questi bastardi si fanno i loro porci comodi sotto il nostro naso». Infine gli spiegò a grandi linee qual era il piano per farli rientrare a Londra. Gli tese la mano.

Matt ricambiò il calore della stretta. «Grazie mille».Marco Biondi si incamminò verso due uomini in attesa, Matt prese in braccio

Danielle e si diresse all'automobile che il salvatore gli aveva indicato, una Porsche Cayenne blindata a motori accesi. Fece sdraiare la figlia sui sedili posteriori, le fece indossare il giubbotto antiproiettile che Biondi gli aveva dato per lei e le si sedette

accanto, la testa castana innaturalmente semiaddormentata sul suo grembo.Lo sconosciuto autista era già partito con una brusca accelerazione, il potente

rombo dell'auto inghiottito dalla notte milanese, l'aria frizzante di una notte che urlava vittoria, vittoria, forse affrettato azzardare sperarlo, ma in quella corsa verso casa non si poteva leggere altro che vittoria. Le note di un disco italiano che il medico non riconobbe tenevano compagnia all'aria calma seppur concentrata di un guidatore sulla quarantina circa. L'uomo aveva risposto con un napoletano «Buonasera!» al saluto inglese di Matt e ora teneva gli occhi incollati sulla strada. Si lanciò dentro il casello più vicino dell'A1 e si accodò ad un altro paio di macchine nella corsia ad alta velocità.

Matt teneva gli occhi bassi sul volto di Danielle. Prima gli era parso che stesse riacquistando lucidità, invece probabilmente si trattava soltanto di un momento, intervallato al sonno da droghe.

"Di cosa cavolo ti hanno imbottito?..." pensò mentre le arruffava i capelli.«Dan, mi senti?». Le diede un colpetto sulla guancia. «Ehi, Dan, sono Matt,

riesci a sentirmi?».La ragazza batté un paio di volte le palpebre, ma gli occhi rimanevano vitrei.«Mi scusi, penso di aver bisogno di un caffè!» esclamò Matt sporgendosi verso

l'autista.«No, non capisco...». L'uomo scosse la testa."E chi lo sa l'italiano?!". Fece mente locale su quelle poche parole che

conosceva: «Cafe... impotante... ragaza... deve svelia, presto».«Ah, capito!» esclamò infine l'autista. «Mo mi fermo da qualche parte a

pigliarlo».Matt non capì nulla della risposta, ma gli bastò che l'uomo avesse afferrato e lo

ringraziò quando lo vide rallentare per immettersi nella piazzola di un autogrill. L'autista fece molto di più: scese con un balzo dall'auto per tornarvi dopo

nemmeno cinque minuti con in mano due bicchieri di plastica ricolmi di caffè.«Uno pure per lei, dotto'!» sorrise porgendoglieli.Matt non comprese precisamente, ma ringraziò di nuovo perché il sorriso del

compagno di viaggio gli aveva riscaldato il cuore dopo un giorno così infernale. Inspirò l'intenso aroma della bevanda — gli mancava troppo! — ma i due interi bicchieri forse non sarebbero bastati a risvegliare Danielle. Le alzò leggermente la testa: «Dan, ascolta, adesso devi bere questo, ok?». Le avvicinò il bicchiere alle labbra. «Bevi... bevi, tesoro, così, bevi... bravissima!».

La ragazza iniziò a deglutire lentamente la bevanda calda. Impossibile immaginare cosa percepisse del mondo esterno, mentre lui sperava che la sua idea avesse un qualche tipo di effetto. Le porse delicatamente il secondo bicchiere.

Frattanto l'autista aveva riconquistato l'autostrada, la notte italiana ancora un fedele alleato contro eventuali "microbi sfuggiti" — come Marco Biondi aveva definito gli uomini della Hyper Synthesis Scientifics.

Passò più di mezz'ora prima che Danielle incominciasse a muoversi, sbattere le palpebre ed assumere un'espressione cosciente. Matt la osservava intento. Lei si sfregò gli occhi, si massaggiò le tempie prima di guardarlo.

«Matt?» domandò stupita.

Lui si limitò ad annuire chiedendosi se quella non fosse soltanto l'ennesima volta in cui lo domandava senza rendersene realmente conto.

«Dove siamo? Dove stiamo andando?».Probabilmente, invece, questa volta era lucida.«Non ti ricordi nulla?».Lei rifletté. «Credo che... beh, l'ultima cosa che ricordo è quella stanza buia e

fredda...». All'improvviso gli strinse il polso. «Oddio, ce ne stiamo andando da lì o hanno preso anche te?». Aveva la voce incrinata.

«Ehi... ehi, tranquilla, va tutto bene, stiamo tornando in Inghilterra, a casa».Lei gli lanciò un'occhiata sorpresa. «Ti avevano portata in Italia. Adesso è tutto a posto, credimi». Pregò perché fosse

così, pregò perché quel minimo dubbio che rimaneva fisso in lui sparisse definitivamente.

Danielle cadde in un profondo silenzio per istanti lunghissimi. «Dimmi, allora: perché tu sei qui?».

«Sono venuto a prenderti!» ribatté con leggerezza.«Perché stai facendo tutto questo per me, Matt?».La domanda fu una pugnalata. Se la aspettava, oh sì che se la aspettava, e quella

volta non poteva dirle una cosa del tipo "Voglio raccontarti tutto, Danielle, ma non posso farlo qui e ora" — frase con cui ricordava di aver evitato il problema nel sogno di giorni addietro. Era il momento di dirle tutto. Era stanco di portarsi dentro un peso che ormai non aveva più nessun senso reggere, era stanco di mentirle.

Sospirò profondamente: «Tutto il mondo era in subbuglio durante quei giorni. Il presidente degli Stati Uniti aveva dichiarato apertamente guerra all'Iraq, affermando con determinazione che i governatori di questo paese nascondevano armi di distruzione di massa. Molti stati erano contrari ad aprire fuoco senza motivo, ma il capo della Casa Bianca si lasciò scivolare addosso ogni tipo di critica, rimanendo fermo sui propri obiettivi».

Lei lo aveva ascoltato a bocca aperta, ma ora...«Per dimostrare al mondo che i sospetti americani sulla bomba atomica erano

fondati, il presidente chiese l'invio dei Caschi Blu dell'ONU al fine di effettuare un'ispezione preventiva. Non poteva fare altrimenti se non voleva rischiare di essere fermato "troppo presto"!».

«Ma qual era il vero scopo di questa guerra?».Avevano preso a scenderle calde lacrime mentre, parola per parola, ripeteva

insieme a Matt le prime righe del racconto che l'aveva ossessionata negli ultimi anni. Violenti singhiozzi iniziarono a scuoterle il corpo.

Anche Matt era basito. Non poteva credere che le sue righe avessero raggiunto proprio la persona desiderata. Quella dedica, chiosa di una storia di per sé stupenda, aveva commosso migliaia di lettori, fatto il giro del mondo su giornali e web. In molti si erano chiesti chi ne fosse l'autore; lui aveva taciuto, condiviso il segreto soltanto con il proprio vecchio computer, perché nulla gli importava della celebrità, sperava piuttosto che fra i numerosi lettori ci fosse lei, Danielle. E Danielle c'era stata. Poteva essere semplice casualità? Avrebbe risposto di sì fino a qualche settimana prima, quando quel groviglio di avvenimenti non l'aveva ancora costretto a

puntare il dito contro alcuni lati del proprio essere. I suoi occhi si velarono delle lacrime di gioia e dolore che aveva represso per troppo tempo.

Danielle infilò la mano nella tasca destra dei jeans e ne estrasse un foglietto spiegazzato. Lo aprì e lo lesse ad alta voce: «Da Matthew Holland, reduce più che veterano di Desert Storm. Dedicato a mia figlia. E se invece le cose fossero andate così... chissà dove saremmo ora noi due. Mi manchi». Finalmente poteva completare quelle iniziali che per troppo tempo le erano parse fastidiosamente misteriose. E conosceva non solo le iniziali, ma anche l'uomo che le portava; per la precisione gli voleva già bene.

«Non ce la posso fare, non riesco a reggere tutto...» sussurrò. «Sono appena uscita da un rapimento e scopro che mio padre non è mio padre e che mia madre mi ha mentito per anni».

"E non hai ancora scoperto che era anoressica, che si è suicidata e che il tizio che ti ha cresciuta voleva farti fuori!" pensò lui con rammarico, non immaginando che la ragazza sapeva da anni la prima di queste tre verità; si limitò ad accarezzarle i capelli.

«Aiutami...» implorò lei con voce rotta dal pianto.«Sono qui, e questa volta starò attento a fare le scelte giuste, te lo giuro,

tesoro...».Si abbracciarono condividendo così paure, gioie, confusione, speranze.La Cayenne sostò nel parcheggio del Guglielmo Marconi di Bologna. Giuseppe,

l'autista, aspettò che giungessero due agenti, che riconobbe come alleati, prima di permettere ai propri passeggeri di scendere.

Matt lo ringraziò come poté, prevalentemente a gesti, quin di si incamminò dietro ad un terzo uomo di scorta, Danielle di nuovo appoggiata a lui, le gambe ancora deboli e intorpidite a causa delle corde che l'avevano immobilizzata per troppe ore.

In quell'occasione il volo non era completamente privato: sarebbero arrivati a Parigi con un aereo di linea per poi prendere un jet per Londra, Biondi aveva detto che così era più sicuro. L'agente-guida li condusse in una sala d'attesa gremita di gente. Padre e figlia trovarono posto in un angolo e si sedettero sulle uniche due sedie libere; intorno a loro persone impegnate in attività di ogni genere.

Danielle piangeva ancora.«Raccontami tutto, ti prego, dall'inizio» gli chiese prendendogli la mano.Il check-in non avrebbe aperto prima di un'ora, avevano tempo e voglia per

parlare di verità. Matt socchiuse gli occhi e cominciò a raccontare un passato pieno di dettagli che conosceva solo in parte.

Quella era la loro storia, non diversa dalle sublimi opere del magnifico Shakespeare che Roberta amava leggere, non meno travagliata, non meno effimera, quella felicità totale che scivola subito in qualche altro genere di sentimento, ma che sotto la pelle lascia per sempre la sensazione di avere, per un istante, vissuto in paradiso.

Era estate, non secoli fa, non in un'epoca diversa; era la famosa estate del 1990. Una ragazza dai lunghi capelli scuri guardava distrattamente fuori dal finestrino, il braccio di mare del Canale della Manica dopo poco avrebbe ceduto posto

all'Inghilterra, l'isola in cui era stata mandata in vacanza per qualche settimana. Il padre esigeva che la giovane Roberta tornasse a casa con una buona padronanza dell'inglese, a lei poco importava. Preferiva piuttosto pensare a qualche settimana di divertimento, lontana dal soffocante albergo di famiglia e dai frequenti litigi tra i suoi genitori che avrebbero fatto meglio a divorziare molti anni prima. Non le importava nemmeno troppo di lasciare il suo ragazzo, Gabriele, che non amava e mai avrebbe amato.

Tornò ad immergersi nel proprio romanzo, Londra sempre più vicina, Roma e

tutte le difficoltà di una vita da diciottenne poco incline a rispettare il volere familiare ogni secondo qualche chilometro più distanti.

E, finalmente, ecco ben visibili gli imponenti terminal di Heathrow. L'aeroplano atterrò, ne scesero decine e decine di passeggeri che, in pochi minuti, si affannavano già per raggiungere le proprie valige. Roberta non correva, si limitava ad osservare, ammaliata, tutti i dettagli del nuovo stato in cui si era ritrovata dopo soltanto un paio d'ore di volo.

Un uomo di mezza età, valigetta di pelle in mano, non la notò e la spinse: incanto terminato. La ragazza recuperò i propri bagagli e si diresse verso un gruppetto di tre persone: genitori e figlia. Quelli erano sicuramente i Wallwood, la famiglia che l'avrebbe ospitata. La ragazza, Michelle, era proprio identica a quella che lei si era immaginata dalla descrizione nell'ultima lettera che aveva ricevuto.

Le due si fissarono per qualche istante, quindi si corsero incontro. Michelle la prese sotto braccio e, con esuberanza e calore nella voce e una scintilla di contagiosa vivacità negli occhi, la presentò ai genitori. In quell'istante Roberta ebbe l'immediata certezza che quello sarebbe stato un profondissimo legame d'amicizia che sarebbe durato per sempre.

La sera era ormai calata sulla costa della cittadina di Brighton quando le due nuove amiche uscirono di casa, avvolte in lunghi abiti eleganti, trucco leggero sui loro volti sorridenti. Si diressero verso un ristorante non troppo distante dalla villetta dei Wallwood. Dentro, ad uno dei tavoli in fondo, una decina di ragazzi chiacchierava allegramente.

Appena le vide entrare, quello seduto a capotavola si alzò e si incamminò verso di loro con passo deciso: era Keith, il ragazzo di Michelle. Statura esageratamente alta, corpo possente, sembrava più grande dei diciotto anni che quel giorno compiva. Strinse con calore la mano di Roberta e la condusse verso il tavolo. Le presentò il resto del gruppo e, per ultimo, un ragazzo che Roberta aveva notato già ad un primo rapido sguardo alla tavolata: «Lui è Matt, mio cugino. Mi sa che ti tocca sopportarlo per tutta la serata dato che l'unico posto libero è vicino a lui».

Roberta allungò la mano, certa fin da subito che non le sarebbe dispiaciuto affatto

sedere accanto a quel bel ragazzo dai capelli chiari, volto perfetto e occhi azzurri da sognatore.

Un paio d'ore dopo la compagnia si trasferì in spiaggia. E non importava se la costa inglese era lunga chilometri e chilometri, a differenza del tavolo; lei e Matt erano ancora insieme, seduti l'uno accanto all'altra sulla ghiaia. Il resto del gruppo era isolato dal loro mondo, fatto solo di sguardi, sorrisi e un bellissimo cielo stellato.

Lui le raccontava della California, dell'amore per la musica e del sogno di studiare medicina. Lei gli parlava di Roma, di libri e del desiderio di uscire quanto prima dall'opprimente ambiente familiare.

Poi, d'un tratto, lui le prese la mano: «Andiamo a fare una passeggiata?».Lei sapeva, capiva, voleva. Il suo cuore iniziò a palpitare quando gli strinse la

mano. Aveva accuratamente evitato di parlare di Gabriele, non voleva rovinare un momento così magico, e comunque non le importava. Quella sera, davanti a sé, vedeva una lunga distesa di spiaggia, in cielo brillava una luna pienissima, ma nella sua mente era impressa soltanto la profondità e bellezza degli occhi azzurri del ragazzo che le camminava accanto. Lo amava, lo sentiva. Aveva letto centinaia di storie d'amore senza mai credere nel miracolo dell'amore a primo sguardo, ma quella sera ogni certezza crollò, quella sera la storia era la sua e voleva viverla fino in fondo. Aveva il cuore in gola e già desiderava con forza che quel momento non finisse mai.

Lui si fermò, le passò un braccio sulle spalle e l'avvicinò a sé. In entrambi si fece subito largo la consapevolezza che non avrebbero dimenticato mai quegli istanti.

I giorni presero a trascorrere con una rapidità inconcepibile. Roberta non vedeva l'ora che fosse sera per poter stare di nuovo con lui, sebbene a volte il senso di colpa l'aggredisse.

Matt era combattuto. Sapeva che tra breve avrebbe dovuto tornare negli Stati Uniti, ma per il momento il più grande desiderio era poter fermare il tempo. Ogni mattina guardava quella maledetta busta ed era perfettamente conscio di non poter fare niente per essere felice. Poi, puntualmente, il pen siero tornava a lei e tutto il dolore spariva e nel contempo si acutizzava.

Forse il progresso tecnologico sfiderà anche lo scorrere del tempo, ma non l'ha ancora fatto e certamente non lo aveva fatto nel 1990. Per Matt era l'ultima sera in Inghilterra, l'ultima sera di felicità per molto tempo, forse. Stringeva la mano di Roberta, un peso enorme nel ripensare a ciò che le stava per dire.

Infine la abbracciò e la baciò teneramente.«Io domani parto, parto e non torno, non presto almeno. Mi sono arruolato

nell'esercito e fra quattro giorni comincio l'addestramento. Mi manderanno in Iraq a fare... la Guerra... del Golfo».

Aveva parlato tutto d'un fiato, ma sulle ultime parole cedette. Socchiuse gli occhi, in attesa che lei dicesse qualcosa, qualsiasi cosa.

La confusione iniziale lasciò inesorabilmente posto al dolore che la travolse mentre quella frase si chiarificava dentro di lei.

Matt la sentì tremare sotto la propria stretta, il suo corpo piccolo e grazioso percosso da una lunga serie di singhiozzi strazianti. Li ascoltò, non poteva farne a meno. La accarezzò, la baciò, provò a consolare quell'anima inconsolabile, ma lui stesso era disperato.

Quella fu la notte più bella e dolorosa della vita di entrambi. Trascorsero insieme ogni secondo, le luci dell'alba li trovarono abbracciati, stretti l'uno all'altra sulla spiaggia ghiaiosa di Brighton.

E riecco Roberta dopo qualche tempo, seduta sull'enorme prato di una sontuosa villa nella periferia di Roma. In piedi, accanto a lei, il suo eterno fidanzato, quasi il

promesso sposo di altri tempi, diventato effettivamente marito alcuni mesi addietro. Tra le sue braccia dormiva una bambina bellissima di tre mesi, gli occhi troppo azzurri e profondi per essere quelli dell'uomo di cui portava il cognome. Quella creatura era il più bel ricordo che le rimaneva di Brighton, di quelle due settimane che avrebbe portato sempre dentro di sé come un marchio indelebile. Lo amava ancora e non aveva fatto nulla per nasconderlo il pomeriggio precedente quando, sotto una pioggia battente, lui era immobile davanti alla porta e la fissava con la penetrante bellezza dei suoi occhi azzurri.

Dopo due mesi dal giorno in cui aveva ricevuto la lettera con la sconvolgente notizia e la foto allegata, Matt aveva preso finalmente il coraggio di andare da lei. Voleva sapere il perché e voleva che lei glielo dicesse mentre lo guardava in faccia, che non si nascondesse più dietro centinaia di parole dolci, esigeva di sapere il motivo per cui lei aveva scelto il ragazzo che aveva sempre detto di non amare, pretendeva di conoscere la ragione per cui sarebbe stato costretto a stare lontano da sua figlia per la vita intera.

Roberta era in lacrime: «Ti prego, se mi ami rispetta questa mia scelta, ti supplico. Se non lo fai per me fallo per lei».

Ma lei chi, se non l'aveva nemmeno mai vista?! Avrebbe voluto vedere sua figlia, ma c'era lui, il viscido ricchissimo industriale ad impedirglielo. Entrambi assolutamente disposti ai metodi estremi per eliminarsi a vicenda! Matt sapeva che l'avrebbe spuntata di gran lunga, però gli bastò incrociare lo sguardo supplichevole della donna che amava per farlo correre fuori dal giardino di quella villa, sotto un temporale violento, direzione aeroporto, direzione Inghilterra, direzione nuova vita che voleva costruire lontano da Berkeley e dalla vecchia vita caduta a pezzi, lontano da lei e da quella parentesi terribilmente breve, meravigliosa e allo stesso tempo dolorosa.

Si giurò che avrebbe fatto di tutto per dimenticarla, tentare di cancellarla da un'esistenza troppo maledettamente infelice per essere reale. E mantenne quello stupido giuramento talmente bene che non la sentì per anni e anni e, quando si fu pentito di questa scelta, era ormai troppo tardi per rimediare: Roberta era morta. Quella sera aveva chiamato a casa Richards per invitare i coniugi ad una cena per l'indomani. Aveva risposto Michelle che, tra i singhiozzi, gli aveva raccontato che la mattina seguente sarebbero partiti per l'Italia. Era crollato in ginocchio sul pavimento quando aveva realizzato, il telefono gli era scivolato di mano, Michelle urlava «Matt, ci sei?» nella cornetta, ma lui non rispondeva più.

Aveva passato la notte seduto sul letto a riflettere su ciò che era stato e ciò che

poteva essere, la solita serie di se e ma che sapeva bene non l'avrebbero portato da nessuna parte. Aveva riflettuto a lungo anche sulla possibilità di andare al funerale, giungendo infine alla conclusione che probabilmente non sarebbe stato rispettoso nei confronti di lei e delle sue scelte — per non parlare del fatto che lì avrebbe incontrato la faccia ancora da rompere di Gabriele e una neonata diventata ormai adolescente che non si poteva più semplicemente ignorare. Si era messo da parte, un'altra volta.

La chiamata del volo per Parigi fece tacere Matt. Due dei tre agenti si avvicinarono per scortarli al velivolo.

Intanto Danielle continuava a piangere, benché il racconto di quella piccola parte

oscura di vita dei suoi genitori fosse momentaneamente terminato. Non era in grado di focalizzare il sentimento che più la torturava: se la delusione nei confronti della madre, oppure il peso dell'enorme novità, o ancora il fatto che Gabriele avesse una giustificazione — pur minima — per il modo in cui si era comportato con lei dopo che Roberta era morta. Si aggrappò a Matt, conscia che era troppo presto per vederlo come un padre, e si lasciò condurre verso la pista.

Circondati dalla presenza guardinga dei tre agenti di Biondi, Matt e Danielle fissavano in silenzio il vuoto. Lei teneva la testa appoggiata sulla sua spalla. Ognuno era immerso nei propri pensieri, che in realtà vertevano tutti su un unico argomento. Trascorsero così, senza scambiare parola, tutto il volo dapprima fino a Parigi, poi anche il tratto verso Londra, divisi eppure uniti da una fitta rete di emozioni.

Infine, mentre l'aereo si stava abbassando di quota per atterrare su una delle piste di Stansted, Danielle esclamò con naturalezza: «Oh, comunque mi sa tanto che devo insegnarti un po' di italiano. Hai fatto una figuraccia prima con l'autista...».

Matt sorrise: «Va bene! E io ti insegnerò l'inglese».«Ma quello lo so già, non ti pare? Almeno so dire "Grazie, sei stato molto

gentile..." eccetera!».«Ok, ma non sai cos'è... una MRI» ironizzò lui messo alle strette. «Una risonanza magnetica!» fu la risposta immediata, precisa.«E chi te l'avrebbe insegnato, qualche professore che dice che chilly significa

caldo perché si confonde con la salsa messicana?».«No... il Dr. House con i sottotitoli...».Matt assunse una finta aria disgustata: «Ah già... il mio alterego... quell'uomo mi

perseguita!».Risero. La sintonia che avevano trovato sin dal primo momento in cui si erano

incontrati era sempre lì, pronta a confermare quanto il loro legame fosse già forte; avrebbe reso tutto molto più semplice, ne erano certi.

Arrivarono a casa nel cuore della notte. Matt e Danielle si scambiarono un'occhiata sorpresa nel sentire le voci provenienti dall'interno. Le riconobbero.

«Sembra ci stiano aspettando con il tappeto rosso...» mormorò lei, felice ed incredula che tutto fosse finito, che poteva assaporare di nuovo aria di libertà, che ci fossero persone che le volevano un mondo di bene.

Gli agenti li invitarono ad entrare. Matt aprì la porta: in un attimo si trovarono circondati dalle braccia di quattro persone altrettanto felici, altrettanto incredule, altrettanto ansiose di vedere la fine di quel maledetto incubo.

Le cose da raccontare erano moltissime, ma la priorità era la salute di Danielle, controllare che quei bastardi si fossero limitati ad imbottirla di sonnifero e soprattutto farla riposare. Naturalmente di tutto ciò si occupò il suo medico preferito.

Lei, però, non voleva riposare. Aveva perso giorni preziosi nella più totale paura di non farcela. Nei momenti di lucidità fra un cambio di benda e l'altro, sperava che l'inferno finisse quanto prima, certa che non sarebbe finito bene; ma sperava comunque di non continuare a soffrire in quella maniera. E invece il peggio era passato. Non era il momento di dormire, aveva tenuto il cervello disconnesso per troppo tempo, adesso voleva pensare, parlare, sapere.

Avvolta in una maglietta dei Beatles che le aveva prestato Matt e che le calzava

enorme, Danielle ne aveva usurpato anche il letto e se ne stava lì, sdraiata, a raccontare a Federico, seduto accanto a lei, la pazzesca parte di verità di cui era appena venuta a conoscenza.

Ora, finalmente, il ragazzo capiva lo sguardo che tanto lo infastidiva, dava un senso alla complicità naturale che i due avevano immediatamente trovato. E ringraziava il cielo per il proprio padre, perché — come gli aveva detto Matt con semplicità e gratitudine — se in quel momento aveva la possibilità di riabbracciare Danielle era soltanto grazie a lui, Marco Biondi, l'eterno modello di ispirazione per Federico. Lo ammirava sempre più.

E anche Michelle adesso capiva e si malediceva per aver dubitato. Seduta sul divano accanto al marito, guardava Matt e si lasciava cullare dalla storia incredibile che lui stava raccontando, mentre Jen gli teneva un braccio stretto intorno alle spalle.

Lui, dal canto suo, aveva molto di cui ringraziare, innanzitutto per la splendida figlia che aveva infine avuto occasione di conoscere e riportare sana e salva a casa con sé.

L'alba, carica di colori, si insinuò attraverso le tende del salotto per illuminare i loro volti, carichi di emozioni.

49

Primo pomeriggio. Casa Holland si era svuotata. Michelle, Keith e Federico erano tornati a Brighton, Matt era uscito ad accompagnare a Heathrow Jen, che aveva deciso di ripartire, poi avrebbe fatto un salto a Gatwick a ritirare la chiavetta USB, sempre scortato da un paio di agenti. E un agente se ne stava anche seduto in salotto mentre Danielle, in camera, era finalmente riuscita ad addormentarsi. Era talmente stanca che l'enorme voglia di riflettere non era riuscita ad averla vinta sulle sue palpebre pesanti.

Lo squillo del telefono la svegliò. Fortunatamente il chiamante non fu molto paziente, in ogni caso non avrebbe risposto, non ne aveva il diritto. Si girò. Sul comodino di Matt la cosa che le era saltata all'occhio appena entrata quella notte, la propria foto da neonata. Le venne da piangere, lo fece. Era bello sapere che Matt l'aveva sempre pensata durante tutti quegli anni, che non si era mai stancato di volerle bene, che le aveva dedicato un racconto così bello. Che storia assurda... Era una sensazione terribilmente strana quella che stava provando, il venire a sapere qualche cosa che mina le certezze di una vita intera, fa esplodere dalle fondamenta il castello che ci si è costruiti in lunghi anni. Ripensò alla sera sulla spiaggia di Brighton.

«Vorrei che fosse lui mio papà». Quant'era parsa insensata quella frase? Eppure... e a proposito di quello che aveva creduto suo padre per diciotto anni, le vennero i brividi quando ripensò a lui, al fatto che prima o poi avrebbe dovuto guardarlo negli occhi per affrontare insieme a lui la verità rimasta nascosta per troppo tempo. Non era affatto certa che ci sarebbe riuscita, per lo meno non tanto presto. E non era certa che lui l'avrebbe voluta rivedere ora che lei sapeva e lui non doveva fingere un ruolo che non gli apparteneva. Altri brividi nel considerare quest'ipotesi.

Rimase immobile, con lo sguardo fisso sulla foto, per un buon paio d'ore, finché qualcuno non bussò alla porta della camera. Era Matt.

«Come stai?».Lei scese dal letto e, dominando un capogiro, gli andò incontro.«Come una terremotata, sia dentro che fuori».Si sorrisero. Poi lui le porse lo zaino con cui era arrivata dall'Italia: «Sono andato

a prendertelo a Brighton, ho pensato che potevi averne bisogno».«Sei fantastico! Trattamento da paziente o da figlia?».Lui si limitò a guardarla con dolcezza. «Ti lascio, avrai bisogno di sistemarti. La

maglia dei Beatles è bellissima, ma potresti starci dentro sei volte».Danielle rise: «Grazie!».A gambe incrociate sul letto, aprì lo zaino. In cima, come sempre, il beauty-case

di Roberta. Lo tirò fuori e si diresse verso il bagno. Seduta sul bordo della vasca, aprì la cerniera per prendere lo spazzolino da denti. Fu solo in quel momento che si accorse di qualcosa che non aveva mai visto: una tasca interna la cui lampo sembrava una cucitura.

"Wow!" pensò. Fece scivolare le dita sulla nuova cerniera, la aprì e infilò indice e medio per constatare le dimensioni di quella tasca segreta.

Un pezzo di carta catturò l'attenzione dei suoi polpastrelli. Lo estrasse. Era una busta, di piccolo formato, sulla cui superficie campeggiava la scritta: "Per Danielle". Fra l'incuriosito e lo sconcertato, staccò la linguetta di chiusura con l'unghia dell'indice destro. Dentro una lettera. La prese, la grafia lasciava chiaramente intuire il mittente: sua madre.

Ciao tesoro.Non so quando leggerai questa lettera, ma spero... no, non so nemmeno cosa

sperare. Spero che tu la legga e basta perché ti meriti di sapere la verità.La prima cosa che volevo dirti, piccola mia, è che sono stata una pessima madre.

Mi odio, odio, odio per tutti gli sbagli che ho fatto con te e con le persone che ho amato e mi hanno amata. Sappi, però, che ho fatto tutto pensando fosse il me glio per te, anche se probabilmente non è stato affatto così.

Quello che vorrei fosse chiaro, amore, è che sei la persona più preziosa che ho al mondo. Non ho fatto nulla per dimostrartelo, ma è così.

Danielle era di nuovo scoppiata in lacrime. Non voleva andare avanti con quella lettera, non voleva leggere la depressione e frustrazione di sua madre messe nero su bianco, non voleva pensare a lei come una donna debole, triste, piena di rimpianti. Voleva conservare il ricordo di una donna affettuosa, piena di premure e sorrisi per lei, una donna orgogliosa, la madre migliore del mondo, una donna che lei voleva amare nonostante le scoperte delle ultime ore. Sapeva già la verità, non aveva bisogno di leggerla su un pezzo di carta scritto evidentemente in un momento pessimo, magari fra lacrime e dolore. Roberta era sua madre, la donna più straordinaria che avrebbe mai potuto conoscere.

Prese il coraggio e strappò quella lettera che — pensava — non avrebbe fatto altro che aggiungere sensazioni strazianti a quelle che già stava vivendo. E con quella lettera strappò per sempre anche la verità, quella completa, quella che solo Roberta conosceva ed ora era stata definitivamente sepolta con lei. La verità di quella sera a Brighton, la sera del giorno in cui Matt era partito per San Francisco, quella sera in cui lei aveva salutato Michelle e se n'era andata a fare un giro in spiaggia per sfogare il dolore. Si era seduta in riva al mare e, con il volto tra le mani, aveva iniziato a liberare la tristezza di quell'addio con un fiume di lacrime, l'acqua che le lambiva i piedi.

«Ehi, Roberta!» una voce la chiamò d'un tratto da dietro le spalle. Si girò. Era Keith. Anche lui stava piangendo, i grandi occhi azzurri pieni di dolore, sul volto un'espressione sconfitta. Si sentiva in colpa: avrebbe dovuto impedire quello che stava per accadere, Matt non sarebbe mai stato bene in un ambiente che odiava con tutto se stesso, non sarebbe mai stato felice di una decisione presa come ripiego economico. E lui non era riuscito ad impedirgli di partire...

Si abbracciarono, uniti dalla stessa disperazione. E fu la stessa disperazione a dividerli anche un'ora dopo, quando, ancora uniti, capirono quello che era successo, lo sbaglio che avevano appena commesso. Ne erano imbarazzati, pentiti tanto da giurare l'uno all'altra che non ne avrebbero mai più riparlato, che avrebbero per sempre condiviso il segreto senza farsi del male e farne alle persone che amavano.

E riducendo in minuscoli pezzettini quella lettera traboccante di autocommiserazione, Danielle aveva per sempre cancellato la verità di quella settimana in cui i Richards, non ancora sposati, erano andati in vacanza a Roma, tre anni dopo l'intensa estate del 1990; aveva per sempre cancellato la mattina nella quale, ispirata dai supertelefilm americani, Roberta era entrata nella stanza dove avevano dormito Michelle e Keith e aveva cercato qualche capello di quest'ultimo per togliersi l'atroce dubbio che si portava dentro. Non ne aveva trovati, ma la sera, quando la coppia di amici era rientrata dai quotidiani giri turistici, aveva guardato Keith negli occhi ed era stata assalita dalla consapevolezza di sapere la verità. Eppure non aveva mai voluto appurarla. Aveva preferito non condividere con lui la bruciante incertezza di una possibile paternità, l'ultima cosa che desiderava era rovinare lo splendido rapporto che lui e Michelle condividevano da anni.

«Dan, va tutto bene?» sentì la voce di Matt da dietro la porta.Ancora in lacrime, buttò a terra i pezzetti di carta e aprì la porta. Gli si gettò tra le

braccia.Lui vide i coriandoli sul pavimento. Non le chiese di cosa si trattasse,

semplicemente le arruffò i capelli. «Ehi, piccola, andrà tutto bene, vedrai. Sei una ragazza fortissima, sei una roccia».

«Ti prego, mi dici qualcosa che mi distragga?» domandò Danielle fra i singhiozzi.

«Anche due se vuoi! La prima è che la maglietta ti sta benissimo anche se probabilmente dentro ci sarebbe spazio anche per Ringo Starr. La seconda è che domani devo tornare al lavoro e non ne ho nessuna voglia».

«Strano! Quando ti ho conosciuto sembrava vivessi solo in ospedale...».«Sì, ma prima di tutto penso che prenderò a pugni il mio collega bastardo appena

lo vedrò, e non vorrei farlo. Poi mi fa schifo l'ambiente, l'ipocrisia, la falsità, la meschinità delle persone che mi circondano. Penso che qui ci sia già abbastanza gente in gamba, vorrei andarmene in un posto in cui abbiano veramente bisogno di me, tipo, non so, in qualche zona di guerra con la Croce Rossa, Emergency o qualcosa di simile».

Danielle alzò la testa e lo guardò negli occhi: «E vorresti farlo anche adesso che hai una figlia a cui pensare, papà?».

Si abbracciarono nuovamente.Ora anche Matt piangeva. Sapeva che i giorni successivi sarebbero stati

difficilissimi: raccontare a Dan tutta la verità su Gabriele, ritornare al lavoro e affrontare un faccia a faccia con Eze, lottare per conquistare il rinvio a processo dei dirigenti della HSS e dei loro complici, eccetera; ma non importava poi molto. Si era appena sentito chiamare con il nome più bello del mondo.

«Ti prego, ripetilo» le sussurrò.«Ok, papà».

Ringraziamenti

Non è molto comune fra i lettori, lo so, ma di solito a me piace leggere anche i ringraziamenti, per intero, ed immaginare chi stia dietro ad ogni nome e perché quel qualcuno meriti di essere ringraziato. Forse qualcun altro lo farà ora per me...

Innanzitutto vorrei ricordare e ringraziare mia zia Eli, che purtroppo non ha visto questo libro venire alla luce, ma il cui entusiasmo per la mia passione per la scrittura mi ha accompagnata in ogni cosa che ho scritto. Un enorme riconoscimento va al dottor Carlo Alberto Bonini, alla sua completa, costante e disinteressata dedizione alle persone e alla sua missione, iniziata in Italia, approdata in Albania, per poi stanziarsi in Africa. Un grazie speciale, inoltre, va sicuramente alla sezione di Arco dell'Associazione Agimi e ai suoi membri. Sono stati proprio loro che, come una seconda e grande famiglia, mi hanno accolta a braccia aperte nel bellissimo Stato in cui ora vivo. Grazie, quindi, a zia Piera e alla sua presenza costante e materna; a zia Benedetta, Nadia, zia Emi e nonna Bruna, zio Sergio e Franco, zia Luisa e zio Agostino, zia Maria Rosa; ricordo con immenso affetto e non ringrazierò mai abbastanza zia Maria e nonna Luisa, tra tutto il resto, le mie più grandi insegnanti di italiano. Grazie ad Alice, che ha reso più belle le mie giornate in ospedale, e a tutta la famiglia Bertagnoli per il sostegno, l'affetto e l'amicizia. Grazie ad Irene per la paziente lettura del manoscritto e i preziosissimi consigli. Ringrazio Luca per essersi scervellato con bme sul titolo e aver accolto Matt Holland come "uno di noi" (con mia estrema soddisfazione!). Ringrazio Lorenzo che, con tempismo perfetto, mi ha aiutata a superare in maniera fenomenale un possente blocco dello scrittore. Grazie a Dani, mio perenne punto di riferimento. Grazie a Jessica, Sara e Luigi per il costante appoggio. Un grazie di cuore a tutti coloro che mi hanno sempre dimostrato entusiasmo per questo libro e a quelli che lo stanno aspettando con impazienza.

Ringrazio infinitamente il Gruppo Albatros Il Filo per aver creduto in questo libro e avermi sostenuta. Grazie, quindi, a Danilo Bultrini, Gaia De Simone, Manuela Cambio e il resto della squadra. Infine, di nuovo e dal profondo del cuore, ringrazio la mia famiglia per avermi sempre incoraggiata: mio padre, tra l'altro, anche per le lezioni di ambito militare e mio fratello per quelle automobilistiche, fondamentali in alcuni punti di questo libro. Grazie, siete la famiglia più bella del mondo!