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Laminarie editrice Ampio raggio Esperienze d’arte e di politica Numero quattro Dicembre 2012 Premessa Laminarie • pag. 8 Il teatro e Cage Bruna Gambarelli • pag. 16 Leggere è un rischio Alfonso Berardinelli • pag. 24 ((( Conversazione Spazi tenaci. Intervista a Vainer Marchesini Laminarie • pag. 40 La didascaliaini Gerardo Guccini • pag. 54 ((( Il racconto Al Pilastro • pag. 76 Occhiali • pag. 77 Matteo Marchesini ((( Incontri Storie pilastrine Gioia Gardo • pag. 80 ((( La recensione Gerrit van Dijk: animatore della realtà Andrea Martignoni • pag. 98 ((( Una striscia Bozzetti di scena Febo Del Zozzo • pag. 102 ampio raggio esperienze d’arte e di politica numero 4 laminarie editrice DOM la cupola del pilastro ISSN 2037-3147 € 8.00

Ampio raggio - Esperienze d'arte e di politica n. 4

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Ampio Raggio in an independent cultural magazine published by Laminarie theatre company based in Bologna, Italy www.laminarie.it www.lacupola.bo.it

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Laminarie editrice Ampio raggio Esperienze d’arte e di politica Numero quattro Dicembre 2012 Premessa Laminarie • pag. 8

Il teatro e Cage Bruna Gambarelli • pag. 16

Leggere è un rischio Alfonso Berardinelli • pag. 24

((( Conversazione Spazi tenaci. Intervista a Vainer Marchesini Laminarie • pag. 40

La didascaliaini Gerardo Guccini • pag. 54

((( Il racconto Al Pilastro • pag. 76 Occhiali • pag. 77 Matteo Marchesini

((( Incontri Storie pilastrine Gioia Gardo • pag. 80

((( La recensione Gerrit van Dijk: animatore della realtà Andrea Martignoni • pag. 98

((( Una striscia Bozzetti di scena Febo Del Zozzo • pag. 102

ampio raggioesperienze d’arte e di politicanumero 4 laminarie editrice

DOM la cupola del pilastro

ISSN 2037-3147 € 8.00

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Ampio raggioEsperienze d’arte

e di politica numero 4

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Ampio raggioEsperienze d’arte e di politicaNumero quattro | dicembre 2012 Laminarie editrice ISSN 2037-3147 Direzione Bruna GambarelliCura Federica Rocchi, con la collaborazione di Diletta Venturelli Hanno collaborato Alfonso Berardinelli, Febo Del Zozzo, Matteo Marchesini, Andrea Martignoni, Gioia Gardo e i ragazzi delle Scuole Medie Saffi di Bologna, Gerardo Guccini Un ringraziamento a Margherita Russo, Maddalena Vianello e Giulia Piscitelli (Officina Emilia); Elisabetta Morselli; Giancarlo GaetaTraduzioni in inglese Gabriele Ferri, Federica RocchiProgetto Grafico Alex WesteFotografie Pag.22 Combinazioni di Laminarie, foto di scena di Ilaria Scarpa. Pag.39 Impersonale di Laminarie, foto di scena di Federica Rocchi. Pag.78 Demonstration of the sound of the environment, da DOM al Virgolone: una passeggiata in ascolto del paesaggio sonoro del Pilastro, a cura di Laminarie, in collaborazione con Marco Dalpane, realizzato nell’ambito della rassegna Urto curata da Laminarie, foto di Laminarie. Pag.82 Ragazzi al Pilastro, dall’archivio fotografico–Circolo La Fattoria. Tutti i diritti sono di proprietà di Laminarie. Questo numero è stato chiuso il 11 dicembre 2012 © Laminarie Associazione Culturale 2012

Associazione Culturale LaminarieCorte de’ Galluzzi 11, 40124 Bologna www.laminarie.it

DOM la cupola del Pilastrovia Panzini 1, 40127 Bolognawww.lacupola.bo.it

AbbonamentiÈ possibile sottoscrivere l’abbonamento a tre numeri della rivista al costo di 20 Euro. Per informazioni e sottoscrizioni: [email protected] | T 051.6242160 La redazione accetta collaborazioni esterne. I dattiloscritti vanno inviati all’indirizzo: Associazione Culturale Laminarie Corte de’ Galluzzi 11, 40124 Bologna, o a [email protected] autori degli articoli accettati saranno contattati dalla redazione.

DOM la cupola del Pilastro

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indice

Premessa p. 08 Laminarie

Il teatro e Cage p. 16 Bruna Gambarelli

Leggere è un rischio p. 24 Alfonso Berardinelli

((( Conversazione Spazi tenaci p. 40 Intervista a Vainer Marchesini Laminarie

La didascalia p. 54 Gerardo Guccini

((( Il racconto Al Pilastro p. 76 Occhiali p. 77 Matteo Marchesini

((( Incontri Storie pilastrine p. 80 Gioia Gardo

((( La recensione Gerrit van Dijk: animatore della realtà p. 98 Andrea Martignoni

((( Una striscia Bozzetti di scena p. 102 Febo Del Zozzo

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Premessa • Laminarie

Dom La cupola del Pilastro ha ospitato da febbraio a maggio 2012 la rassegna Urto, che ha segnato il terzo anno di attività del teatro, e che ha confermato la vocazione

di DOM come spazio di produzione dei linguaggi contemporanei, ma allo stesso tempo luogo profon-damente radicato in uno spazio urbano periferico.

Urto si è articolato in tre sezioni:Chance/Change, dedicato a John Cage nel cen-

tenario della sua nascita. Il progetto è stato curato da Laminarie e Marco Dalpane nell’ambito delle iniziative di Centocage – Bologna rende omaggio a John Cage 1912–1992, rassegna che Bologna – Città della Musica

Unesco, con il coordinamento dell’Assessorato alla Cultura e Giovani del Comune, ha dedicato al com-positore americano durante tutto il 2012. Chance/Change, in linea con l’opera e il pensiero del grande musicista americano, ha intrecciato linguaggi e mo-dalità creative diverse, ospitando progetti musicali appositamente creati a DOM, performance realizza-te insieme agli spettatori e ai cittadini del Pilastro, e la nuova produzione teatrale di Laminarie, dal titolo Impersonale. Lo spettacolo, dedicato a Cage, si basa sulla costruzione fisica di un ambiente intorno al movimento fisico di una danzatrice e di un attore, attraverso la messa in luce degli strumenti da mac-chinista che solitamente lavorano dietro le quinte e che vengono invece in primo piano al posto dell’au-tore e della sua personalità. I due corpi in scena sta-biliscono tra loro un rapporto silenzioso e potente, affidandosi alla casualità di operazioni arbitrarie che mutano continuamente e imprevedibilmente la di-namica dello spettacolo.

Residenze ha ospitato quattro artisti che hanno abitato DOM per un periodo, per poi presentare l’esi-to del loro lavoro al pubblico.

Con Imprevisti si è deciso di lasciare alcuni spazi bianchi nel programma di DOM: coincidenze che forse accadranno o forse no, spazi che rimangono in attesa di nuove domande. Si è scelto di uscire dalla logica del “cartellone” teatrale, per cercare una strada meno precisa ma più sensibile, anche in modo rude, rinunciando alla creazione di confezioni azzeccate, rifiutando di stare nelle cose secondo un programma stampato.

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Pensiamo che il vero interesse di Urto, e del progetto di DOM nel suo complesso, stia nel rischio, nell’u-so dei linguaggi dell’arte contemporanea non solo come strumenti di conquista dello spettatore, ma anche come evenienze per indagare un altro senso delle relazioni, sia sulla scena che attorno ad essa.

Questo numero di Ampio Raggio ospita alcune te-stimonianze e riflessioni che derivano dell’esperien-za di Urto, insieme ad altri interventi che sentiamo vicini all’operare di DOM.

Cogliamo infine l’occasione per festeggiare in questo numero della rivista la consegna a Laminarie del premio speciale UBU 2012 per il progetto culturale avviato a DOM. Condividiamo questo importante riconoscimento con tutti coloro che hanno sostenuto il nostro lavoro con la loro presenza.• •

Preface• Laminarie

This issue of Ampio Raggio presents the experience of “Urto” (the project held at DOM La cupola del Pilastro throughout 2012), together with some other texts that are somehow akin to DOM’S working method. Urto was divided in three sections:

Chance/Change was dedicated to John Cage in occasion of his centenary. The project was curated by Laminarie together with musician Marco Dalpane and it was part of “Centocage”, a wide programme of initiatives organized by the City of Bologna - Unesco City of Music throughout 2012.

Residenza (Artist-in-residence) hosted four artists who lived at DOM for a short period and then staged the results of their research in different fields (dance, theatre, literature, visual arts, anthropology).

With Imprevisti (Hazards) Laminarie decided to leave a few empty spots into DOM’s programme: they stand for some coincidences that might or might not occur, some undetermined spots waiting for new questions to be asked.

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DOM La cupola del Pilastro e Laminariehanno vinto il premio UBU 2012sezione “progetti speciali”• Laminarie

I Premi Ubu sono il più ambìto riconoscimento del teatro italiano, ideati e realizzati dal critico e editore milanese Franco Quadri. Giunti alla trentacinquesima edizione e promossi

per la prima volta dalla neonata Associazione Ubu per Franco Quadri, sono stati consegnati a Milano il 10 dicembre presso il Piccolo Teatro Grassi di via Rovello.

DOM La cupola del Pilastro and Laminarie won the UBU Prize 2012 as “special project”• Laminarie

Motivation: «Dom by Laminarie, a space working on the boundaries between production in residency and hospitality, between city and countryside, between migration and memory, between childhood and adulthood, between theatrical research and listening to the nearby Pilastro neighborhood in Bologna.»

UBU prizes are the most important reward for italian theatre, created by critic and editor Franco Quadri thirty-five years ago. UBU 2012 have been curated for the first time by “UBU for Franco Quadri” association, and they were presented on 10th december 2012 at Piccolo Teatro in Milan.

Motivazione:

«Dom di Laminarie, spazio che lavora sui confini tra

produzione in residenza e ospitalità, tra città e periferia, tra

migrazione e memoria, tra infanzia e età adulta, tra ricerca

teatrale e ascolto dell’ambiente circostante al quartiere

Pilastro di Bologna»

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urtoa cura di Laminariefebbraio maggio 2012

Chance/change > mer 29 febbraio, giov 1 e ven 2 marzo ore 21.30LaminarieImpersonale con Febo Del Zozzo e Simona Bertozzi> giov 1 marzo ore 20La personalità è una cosa troppo fragile per poterci fondare un’arteIncontro pubblicoin Centocage–Bologna rende omaggio a John Cage (1912–1992) Residenza > ven 9 marzo ore 21.30Una città fatta a pezziLettura collettiva da Bologna in corsivo di Matteo Marchesini

Imprevisto > 12–16 marzo

> sab 17 marzo ore 17Incontro con Chiara Guidi–Socìetas Raffaello Sanzio Intervengono Lucia Amara ed Enrico Pitozzi Nell’ambito di In contemporanea di ERT Fondazione–Teatro A. Testoni, Casalecchio di RenoCon il patrocinio dell’Università di Bologna, Dipartimento di Musica e spettacolo

Imprevisto > 18–21 marzo

Residenza > sab 31 marzo ore 21.30, dom 1 aprile ore 18Alessandro BedostiPer favore aprite le tende

Imprevisto > 2–5 aprile

Chance/change > sab 14 aprile ore 19Demonstration of the sound of the environment Da DOM al Virgolone: una passeggiata in ascolto del paesaggio sonoro del Pilastroin Centocage–Bologna rende omaggio a John Cage (1912–1992)

Chance/change > ven 20 e sab 21 aprile ore 21.30Laminarie Reunion / Bobby Fischer

> sab 21 aprile ore 20Ascoltare di colpoincontro pubblicoin Centocage–Bologna rende omaggio a John Cage (1912–1992) Residenza > ven 27 aprile ore 19Simona BertozziMimicry, in-credibleProva aperta per gli studenti del Corso di Danza moderna e contemporanea: teorie e tecniche. Corso di Laurea magistrale in Discipline dello spettacolo dal vivo, Università di Bologna

> mar 1 maggio ore 19Il Patto Lettura pubblica della Costituzione

Residenza > dom 6 maggio ore 21.30Isabella Bordoni e Fabrizio VarrialeAdesso & mutoPaesaggio e misura del corpo poeticoAll’interno del progetto Refugee [2011-2014] Lo spettacolo sarà preceduto alle ore 20 dalla proiezione del film ImmaginariEsplorazioni

Imprevisto > 7–18 maggio

Chance/change > sab 19 maggio dalle 22 alle 6 circaSleep Concert Concerto della durata di una notte: il pubblico è invitato a disporsi ad accogliere il sonnoPianoforte Marco Dalpane in Centocage–Bologna rende omaggio a John Cage (1912–1992) Imprevisto > 20–24 maggio

Chance/change > sab 26 maggio ore 19Silenzio!musiche di John Cage eseguite dai bambini che hanno frequentato la scuola Il Tuono in Centocage–Bologna rende omaggio a John Cage (1912–1992)

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Il teatro e Cage• Bruna Gambarelli

E da qui come procediamo?Verso il teatro. Perché è l’arte che somiglia alla natura più della musica. Abbiamo occhi quanto orecchie, e finché siamo vivi sia-mo tenuti ad adoperarli.

John Cage

Le iniziative dedicate a John Cage nel centena-rio della nascita, realizzate a Bologna con il coordinamento dell’amministrazione comu-nale, hanno avuto il merito di riportare nelle

sale le opere di Cage, raramente presenti nelle pro-grammazioni musicali italiane, e sono state anche

un’occasione per riflettere sul rapporto tra il teatro e l’opera di Cage, opera che ha decisamente oltrepas-sato i confini della musica, arrivando a influenzare molte produzioni artistiche del Novecento.

Il teatro contemporaneo ha accolto il pensiero e l’opera di Cage riuscendo spesso ad elaborare produ-zioni interessanti e originali a partire dalle partiture del compositore americano. La portata del pensiero che sostiene l’opera di Cage è stata tale da rimettere in discussione la modalità stessa della disposizio-ne dello spettatore verso la musica, creando una vera e propria rivoluzione nella nozione di ascolto musicale.

Probabilmente molti musicisti hanno ritenuto necessario, in un momento in cui sembrava possibi-le la dissoluzione dell’arte, soffermasi sulla defini-zione di che cosa si dovesse intendere con i termini ‘musica’ e ‘composizione musicale’. Cage stesso si trovò a dover rispondere alle richieste di spiegazioni in merito alle sue composizioni quando forse voleva semplicemente dimostrare che “fare qualcosa che non sia musica è musica”.

I teatranti, non coinvolti nell’esercizio teorico intorno alla questione musicale, forse hanno saputo cogliere con maggiore immediatezza il perno attorno al quale ruota l’opera di questo artista: la capacità di attenzione.

Lo scopo centrale delle sue opere è parso quello di mutare il contesto affinché la capacità di attenzione ai suoni (della natura o volontari) fosse potenziato. Per far questo occorreva creare una drammaturgia dello spazio e del tempo attraverso la creazione di

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uno stato di vuoto. L’artista diventa colui che lascia spazio all’opera, in un certo senso colui che ascolta l’opera stessa.

Il tema dell’oggettività del comporre si indivi-dua non solo nell’attività dei teatranti che si sono formati nella pratica della performance, ma anche in alcuni teorici e artisti di teatro che hanno fatto della fedeltà al testo il loro segno distintivo. Stiamo parlando di autori che hanno scelto di sostituire alla soggettività dell’artista l’opera stessa.

Si situano in questo pensiero anche grandi ma-estri del Novecento come Jacques Copeau o Louis Jouvet, solo per citarne alcuni.

L’obiettivo, non certo semplice da raggiungere, è quello di schiudere le orecchie ai suoni, attraverso la creazione di uno stato di attenzione.

L’attenzione non conferisce una conoscenza in più, ma aiuta ad attingere alla conoscenza. La dif-ficoltà sta nel riuscire a superare lo sbarramento, costituito anche dalle nozioni acquisite precedente-mente che potrebbero impedire l’ascolto.

Il grande attore Loius Jouvet arrivò a teorizzare che: “Quello che si dice la personalità, cioè la sogget-tività dell’individuo, deve venire meno, il soggetto diventa impersonale. E secondo me questa qualità di impersonalità è essenziale nella nostra professione. Siamo impersonali quando siamo veramente atten-ti, non dimenticatelo”.

Spesso le composizioni di Cage sono in realtà azioni performative volte a eliminare l’aspetto sog-gettivo del processo compositivo. Lui stesso a propo-sito della sua partitura più nota, 4’33’’, dice: “Per me

il significato essenziale del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione”.

L’impersonalità di cui parla Jouvet si avvicina al concetto della sospensione del pensiero, che se ap-plicata all’arte dell’attore può permettere di entrare nel personaggio senza prenderne il posto. Quando la soggettività dell’individuo/artista viene meno si produce una separazione, un “vuoto” che porta al distacco dal personaggio, alla possibilità quindi di guardarlo dall’esterno e di riceverlo secondo un pro-cesso evocativo, non di sostituzione.

Ci sembra quindi di scorgere un terreno comune sul quale l’incontro tra l’opera di Cage e quella di alcune produzioni di teatro contemporaneo con-vergono, che si situa esattamente nella consape-volezza che l’artista non è più solo colui che scrive una partitura, ma anche colui che predispone un luogo e un tempo in cui accadranno delle cose non predeterminate.

Sostanzialmente si tratta di ritornare indietro, molto indietro, a quel passato remoto che ci permet-te di superare la personalità per tornare all’ascolto della natura che prepotentemente ci sbalza nel futu-ro. (Jackson Pollock, artista contiguo a Cage, diceva di se stesso: “Io sono natura” ).

L’arte dell’attore si compie nel momento in cui il corpo stesso dell’artista viene attraversato dall’o-pera in una condizione pubblica di attenzione. L’esperienza di solitudine corale in cui si trova l’at-tore richiede un accordo con il personaggio e con lo spettatore che si costituisce sostanzialmente nella

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creazione di uno stato di vuoto, una intercapedine, nella quale si compie un’esperienza soggettiva con-divisa. L’applicazione pratica di questi concetti fa parte del lavoro teatrale dell’attore.

Il grande merito di Cage è stato quello di rende-re evidente il fatto che tutti i suoni possono essere un’opera, se ascoltati in un determinato stato di attenzione. Questione, quest’ultima, che riassu-me l’intero problema del lavoro dell’attore che, pur restando impermeabile al personaggio o all’opera stessa, ci permette, in una condizione di attenzio-ne, di essere recettivi e di attingere alla vera natura dell’opera.

Forse per questi motivi l’opera di Cage è stata, da tempo, assimilata dal teatro contemporaneo. Così, anche in questi mesi di celebrazioni, il teatro ha attraversato senza indugi l’opera di Cage, del resto come lui stesso ci ricorda:

“Un suono non ottiene nulla; senza di esso la vita non durerebbe oltre l’istante. L’azione che incide è teatrale (la musica – separazione immaginaria dell’udito dagli altri suoni - non esiste) inclusiva e volutamente priva di finalità. Il teatro avviene di continuo.”• •

The theatre and Cage• Bruna Gambarelli

John Cage’s greatest merit was to make clear the fact that every sound can be a masterpiece, if they are listened to with a certain attention. This issue sums up the whole problem of an actor’s work that, while being resistant to his character and to the text itself, allows us to be highly responsive and attentive to reach the real nature of a work. This may be the reason why Cage’s work was assimilated by contemporary theatre a long time ago. In this way, even during the recent celebrations for Cage’s anniversary, the theatre community went through Cage’s work without any hesitation. In Cage’s own words: “A sound accomplishes nothing; without it life would not last out the instant. Relevant action is theatrical (music [imaginary separation of hearing from the other senses] does not exist), inclusive and intentionally purposeless. Theater takes place all the time.”

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Leggere è un rischio• Alfonso Berardinelli

[ Il testo che segue è tratto da: Leggere è un rischio, Roma, Gransasso Nottetempo, 2012. Pubblicato qui per gentile concessione dell’autore ]

L’atto della lettura è a rischio. Leggere, voler leggere e saper leggere, sono sempre meno comportamenti graditi. Leggere libri non è naturale e necessario come cammina-

re, mangiare, parlare, o esercitare i cinque sensi. Non è un’attività primaria, né fisiologicamente né socialmente. Viene dopo, implica una razionale e

volontaria cura di sé. Leggere letteratura, filosofia e scienza, se non lo si fa per professione, è un lusso, una passione virtuosa o leggermente perversa, un vizio che la società non censura. È sia un piacere che un proposito di auto miglioramento. Richiede un certo grado e capacità di introversione concentrata. È un modo per uscire da sé e dall’ambiente circo-stante, ma anche un modo per frequentare più con-sapevolmente se stessi, il proprio ordine e disordine mentale.

La lettura è tutto questo e chissà quante altre cose. È però soltanto uno dei modi in cui ci astra-iamo, ci concentriamo, riflettiamo su quello che ci succede, acquistiamo conoscenze, ci procuriamo sol-lievo e distacco. Eppure l’atto della lettura ha goduto in se stesso di grande prestigio, di un’aura speciale nel corso dei secoli e ormai da millenni, da quando la scrittura esiste. A lungo e ripetutamente, per ra-gioni diverse, che potevano essere economiche, re-ligiose, intellettuali e politiche, estetiche e morali, la lettura di certi testi ha avuto qualcosa del rituale. I testi di riuso, come libri sacri, le raccolte di leggi e le opere letterarie, per essere riusati sono stati con-servati e tramandati scrupolosamente. La società occidentale moderna ha trasformato e reinventato, in una certa misura, le ragioni e le modalità del leg-gere. Ma recentemente, negli ultimi decenni, l’atto di leggere, il suo valore riconosciuto, la sua qualità, le sue stesse condizioni ambientali e tecniche sem-brano minacciate. Ne parlò Italo Calvino in tono semiserio ma sinceramente allarmato nell’incipit dell’ultimo dei suoi romanzi:

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bisogno di singolarità. Ma questo duplice assenso crea un conflitto di desideri e di doveri, quando viviamo la nostra quotidianità personale e quando riflettiamo politicamente e scegliamo dei governi.

È rischioso tuttavia anche la lettura dei classici premoderni, quelli che precedono, per intenderci, Montaigne, Cervantes, Shakespeare, i quali hanno reinventato generi letterari fondamentali come la prosa di pensiero, l’epica, il teatro. I problemi e i valori che caratterizzano la modernità occidentale, cioè libertà, creatività, rivolta e angoscia, si manife-stano con chiarezza soprattutto con l’inizio del ‘600 e cresceranno fino a travolgere distruttivamente la tradizione precedente, greco-latina e medioevale. Un lettore attento e libero commentatore di clas-sici antichi come Montaigne si dichiara, con una sincerità forse enfatizzata, uomo senza memoria. Cervantes celebra e mostra impossibile l’eroismo an-tico, ormai nemico della realtà del senso comune e follemente libresco. Shakespeare attenua e riformu-la la distinzione tra comico e tragico, alto e basso, re e buffoni, principi e becchini, eroismo e stanchezza malinconica.

Non per questo si è smesso di leggere i classici antichi: solo che la letteratura moderna non li imita più come era avvenuto fra gli umanisti e i sapienti neo-antichi fra Quatto e Cinquecento. Nel postmo-derno New Age (una variante della postmodernità) il neo-antico è tornato per suggerimento di Nietzsche, in quanto polemicamente “inattuale”. Quindi anche leggere gli antichi può ridiventare rischioso, alme-no quando non è soltanto erudizione e archeologia:

Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. “Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: “No, non voglio vedere la televisione! Alza la voce, se no non ti sentono: “sto leggendo! Non vo-glio essere disturbato!” Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida […].”

Si tratta dei rischi che corre la lettura. Ci sono poi i rischi che corre chi legge, soprattutto chi legge letteratura, filosofia e storia, in particolare quelle scritte in Europa e in America negli ultimi due secoli. Da quando esiste qualcosa che chiamiamo modernità - cioè la cultura dell’indipendenza in-dividuale, del pensiero critico, della libertà di co-scienza, dell’uguaglianza e della giustizia sociale, dell’organizzazione e della produttività, nonché del loro rifiuto politico ed utopico – da allora leggere fa correre dei rischi. È un atto socialmente, cultural-mente ambiguo: permette e incrementa la socia-lizzazione degli individui, ma d’altra parte mette a rischio la volontà individuale di entrare nella rete dei vincoli sociali rinunciando ad una quota della propria autonomia e singolarità.

Società e individuo, autonomia personale e benessere pubblico sono due finalità non sempre conciliabili, a volte antagoniste, fra cui oscilla la nostra cultura. Non possiamo fare a meno di dare il nostro assenso al bisogno di uguaglianza e al

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perché se è vero che per leggere, capire e interessarsi a un autore c’è bisogno di Einfühlung, di immedesi-mazione, anche se si tratta di Parmenide o Virgilio, è altrettanto vero che sentirsi contemporanei dei sapienti presocratici o di un classico latino può in-durre una certa dose di follia anacronistica: almeno in Occidente, la cui storia ci ha spinto a elaborare e idolatrare appunto l’idea di Storia come progresso e rivoluzionamento, superamento incessante di condizioni precedenti e interruzione periodica di continuità. Non siamo in India, dove molti aspetti della tradizione si sono perpetuati così a lungo da aver inibito o reso poco interessante perfino la data-zione precisa di certe loro opere classiche. Noi siamo animati, ossessionati, intossicati dall’dea di storia e dalla volontà di superare, demolire, scavalcare, dichiarare obsoleto il passato. Leggere ciò che quel passato ci dice è perciò diventato pane esclusivo per storici e filologi: viene studiato per essere tenuto a distanza, non per essere letto con immedesimazio-ne. Alcuni neometafisici novecenteschi e attuali, restaurando continuità interrotte dalla nostra storia sociale, rischiano di mettersi in maschera, di recita-re in costumi antichi antiche verità, attualizzando categorie ascetiche e mistiche di cui, nel presente, si riesce ad avere appena un’idea, in mancanza di pra-tiche e di esperienze adeguate.

Il primo rischio per il lettore, il più originario e fra i più gravi, è il rischio di diventare, di voler diven-tare, scrittore; oppure, anche peggio, critico. Non mi metterò a parlare dei qui presenti. Mi limito a

ricordare una notevole ovvietà: i libri sono contagio-si e per subire il contagio bisogna leggerli con pas-sione e, diciamo pure, con una ricettiva ingenuità. Senza essere Don Chisciotte o Emma Bovary, traviati dall’eroismo cavalleresco e dall’amore romantico, ogni lettore appassionato (non solo di romanzi) fa entrare le sue letture predilette nella costruzione della propria identità. La lettura permette di sta-bilire delle vie di comunicazione fra l’io profondo, con il suo caos, e l’io sociale, che deve fronteggiare le regole del mondo. Tra le letture più rischiose ci sono quelle il cui contagio suggerisce, impone di cambiare vita, di fuggire dal mondo o di trasformare radicalmente la società. Chi è stato, chi è cristiano o marxista sa bene di che parlo: il Nuovo Testamento e le opere di Marx e Engels non perdonano chi resta quello che era dopo averle lette. Non sono solo libri, sono tribunali che giudicano ognuno e tutti stabi-lendo leggi e mete metafisiche, storiche, morali, utopiche. L’accostamento blasfemo, un po’ ovvio e comunque ossimorico, fra gli evangelisti e Marx fa capire che si danno casi di analogia per contrasto fra letture di venti secoli fa e letture del secolo scorso. L’attribuzione di valore che una comunità e una so-cietà compiono nella scelta di certi testi, nel modo di leggerli e di rispondere alla lettura, fa di alcune ope-re qualcosa di intoccabile, sottratto alla critica e alla discussione. Il fatto stesso di poter diventare “mar-xisti” in seguito alla lettura di Marx indica che l’au-tore e la sua opera diventano una fonte di certezze indiscutibili, se non di veri e propri dogmi imposti e difesi con il ricatto, le minacce, la coercizione. Nel

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caso di questo tipo di letture, il rischio è che l’assen-so o il dissenso, l’accettazione o il rifiuto espongono il lettore a condanne e rappresaglie sia intellettuali che sociali e politiche. Tutto questo è avvenuto.

Senza arrivare ai casi limite, anche le nostre mo-derne culture secolarizzate, desacralizzate e dissa-cranti hanno attribuito a una serie di libri un valore che, almeno per un periodo di tempo, li consacra. Discuterli, criticarli, rifiutarli, diminuirne e circo-scriverne il valore è sentito allora come una sfida alla “communis opinio”, alla razionalità, all’intelli-genza, alla modernità, al progresso, alla correttezza morale o politica. Più o meno esplicitamente, ogni epoca ha un suo canone. A volte, più canoni o sotto-canoni alternativi. Nel Novecento ci sono stati un ca-none Croce e un canone Contini, un canone Lukács, un canone Eliot, un canone Breton. Sono almeno parzialmente canonici e canonizzanti tutti i critici più autorevoli, ognuno con il suo criterio di scelta: Leo Spitzer (deviazione dalla norma linguistica), Erich Auerbach (divisione o mescolanza degli stili nella rappresentazione della realtà), Viktor Šklovskij (modi dello straniamento), Michail Bachtin (poli-fonia e dialogismo), Walter Benjamin (allegoria e utopia) ecc.

Diventare scrittori o critici dopo aver letto uno o più autori vuol dire, nel primo caso imitare, sfidare, riprendere, cercare di superare un modello o decide-re di abbattere un idolo; nel secondo caso, trasfor-marsi da lettore in superlettore, lettore al quadrato, lettore che scrive su ciò che ha letto, che intensifica l’atto di leggere elaborando metodi per leggere

meglio e per ricavare il massimo profitto scientifico, morale, ideologico dalla lettura. Il critico, in quanto lettore speciale, iperlettore, lettore creativo, lettore-studioso e lettore-giudice, lettore-pedagogo, lettore-filosofo, può tendere a mettersi al servizio del testo (il filologo in senso stretto e in senso lato); mettere il testo al servizio della propria autobiografia più o meno esplicita (il libero commentatore e interprete che attualizza, “presentifica” il testo per illuminare la propria situazione); o mettere i testi al servizio di una qualche teoria o scienza della letteratura. In altri termini, si tratta di modalità di lettura che nell’ultimo mezzo secolo si sono alternate entrando in conflitto e in polemica.

Il progetto strutturalistico e semiologico, inte-grando metodi di analisi testuale e teoria generale della letteratura, ha prodotto soprattutto un rischio: quello di evitare alla lettura i suoi rischi, mettendo il lettore al riparo, aldilà o aldiqua delle sue reazioni soggettive. I libri, gli autori, le opere erano conside-rati solo in quanto oggetti testuali da analizzare. Le varianti empiriche, circostanziali, soggettive dell’at-to di leggere venivano rimosse. Leggere era conside-rato un atto culturalmente degno e corretto solo se le procedure di analisi erano stabilite a priori come deontologicamente degne e scientificamente corret-te. Il professionista della lettura si presentava come il superamento, la trascendenza del lettore empiri-co. L’atto di leggere veniva bonificato, disinfettato dai germi dell’occasionalità e dalle interferenze della soggettività non professionistica del lettore. La scienza (una scientificità per lo più malintesa,

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derivata dal modello delle scienze esatte) metteva al bando psicologia, etica, politica e riflessione filoso-fica. Il modello strutturalistico-semiologico diffuse in tono trionfalistico e progressivo il messaggio se-condo cui la grande tradizione della critica moderna, impura, moralistica, impressionistica, ideologica e prescientifica, era ormai superata. Sembrò una definitiva interruzione di continuità con il passato recente. Si usava la Poetica di Aristotele e la tratta-tistica retorica come antidoto contro i classici della critica dal Settecento a metà Novecento. Metodi di analisi e teoria della letteratura sembravano rendere inutilizzabile, in blocco, una vicenda culturale che da Schiller ad Adorno, da Coleridge e Baudelaire fino a Eliot, Leavis, Wilson, Sartre, da De Sanctis a Gramsci e Debenedetti, nella quale la letteratura era stata letta in rapporto alla società e ai valori che potevano orientare la critica sociale. Nonostante il momentaneo trionfalismo, questa parentesi non durò molto. Il modello analitico-teorico e neoreto-rico, venne messo in crisi da quello ermeneutico e dalla comparsa di una teoria della ricezione. Anche l’ermeneutica, come la retorica, non è una specialità moderna, ha le sue radici in Platone, Aristotele e poi soprattutto, come è noto, nell’interpretazione me-dievale dei diversi livelli di senso delle sacre scrittu-re. Nel Novecento l’idea di ermeneutica, da Dilthey e Heidegger a Gadamer e Ricoeur, si chiarisce come rapporto dialogico con quell’ “interlocutore muto” che è il testo, a partire da un lettore e interprete la cui esistenza o Dasein stabilisce le condizioni a pri-ori dell’interrogazione e comprensione del testo. Il

testo non è più, perciò, un dato, è un rapporto fra i poli di un processo che ha sull’altro versante il letto-re. In un teorico della ricezione come Wolfang Iser (L’atto della lettura) ciò che più importa è il modo in cui si realizza la comprensione da parte del letto-re, dato che il testo sprigiona significato solo nella pratica di lettura, che naturalmente non è sempre uguale a se stessa. Le novità introdotte dall’erme-neutica e dalla teoria della ricezione sembrano delle ovvietà: ma spesso così vanno le cose quando si teo-rizza. Che cos’è l’ermeneutica se non la versione filo-sofica di quanto la critica letteraria aveva sempre fat-to da quando esiste? E che cos’è la critica letteraria se non critica orientata nel presente e dalle esigenze del presente, cioè critica coinvolta, globalmente re-sponsabile e, secondo la nostra terminologia un po’ bellica, “militante”? È in questo senso che la critica va distinta dallo studio letterario di tipo accademico e va connessa con la critica della cultura, e in ultima istanza con la critica della società.

Su quest’ultimo punto può soccorrere T. S. Eliot con il suo pratico buon senso, quando si chiese quali sono “le frontiere della critica”: quando, cioè, la cri-tica letteraria smette di essere “letteraria” (usando la letteratura per capire altre cose) e quando, all’altro estremo, smette di essere “critica” (cioè giudicante). Mentre nell’ermeneutica con la nozione e il termine di Dasein si indica, si nomina il presupposto della situazione e della prassi interpretativa, nella critica letteraria si procede compromettendo ogni presup-posto circostanziale con i contenuti specifici che intervengono nell’esperienza di lettura. I rischi della

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lettura vengono da un processo interpretativo in cor-so; non vengono tematizzati filosoficamente, ma di-spiegati nella dialettica discorsiva, saggistica di un racconto critico. La critica non si limita al testo con le sue strutture, né al lettore con le sue reazioni, né alle intenzioni dell’autore. Sarebbe molto difficile, fra i classici della critica moderna, trovarne uno che si fermi al testo, o alle proprie reazioni di lettore, o alle sole intenzioni dell’autore. La critica letteraria è un’estetica in atto, non in teoria, la sola estetica empirica e pluralistica e forse (io almeno lo credo) la sola che conti. I tentativi di definire la letteratura in generale, cercando formule valide per l’intero corso della storia e per tutti i generi, non hanno dato risul-tati durevoli; anche quando, anzi soprattutto quan-do, certe teorie e definizioni hanno avuto successo, spingendo la critica all’uso di tautologie rassicuran-ti: la poesia è intuizione lirica, la poesia c’è quando domina la funzione poetica del linguaggio, l’essenza della letteratura è la letterarietà… Questo formulario non incrementa ma impoverisce e paralizza l’eserci-zio della critica. E in certe categorie professionali di specialisti fa della lettura un atto preordinato, pre-concepito, metodologicamente corretto, praticabile e replicabile senza rischi.

Come sappiamo tutti e come hanno notato anche gli storici della lettura, il primo, uno dei primi let-tori “senza metodo” è stato non per caso Montaigne, l’inventore del saggio moderno, informale o perso-nale. Prima di lui, nel Rinascimento, i lettori colti leggevano compilando “quaderni di luoghi comuni” nei quali raccoglievano citazioni, osservazioni, passi

letti. Si trattava di strumenti che sostituivano la mnemotecnica. Montaigne si rifiuta di copiare e compilare, “non annota i libri che legge per trarne estratti e citazioni (…) nella redazione degli Essays non utilizza repertori di luoghi comuni, ma compo-ne liberamente, senza attingere a ricordi di lettura o senza interrompere la concatenazione dei pensie-ri con riferimenti libreschi” (Guglielmo Cavallo e Roger Chartier).

Certo Montaigne non era un critico letterario. Ma i suoi saggi mostrano un uomo che riflette su di sé e sul genere umano leggendo e avendo letto. Come let-tore non studioso di testi, rappresenta un momento ineliminabile dell’attività critica. Per essere un iper-lettore, il critico deve restare semplice lettore, letto-re senza difese, senza pinze, forbici e bisturi, lettore ricettivo che accetta i rischi della lettura, sospende l’incredulità e crede, almeno finché legge, a quello che legge. Il lettore di libri può tenere un diario di letture e può succedere che scriva come Henry Miller un’autobiografia, I libri nella mia vita che, dice, “tratta di libri in quanto esperienza vitale”: e le sue conclusioni sono che “bisognerebbe leggere sempre di meno e non sempre di più” e che pur non avendo letto come uno studioso, sentii di aver letto “alme-no cento volte di più di quanto avrei dovuto leggere per il mio bene”. Ma l’essenziale per un tipo come Henry Miller era, sì, scrivere, ma soprattutto vivere. Credeva fermamente (e anch’io lo credo) che gli il-letterati “non sono certo i meno intelligenti tra noi”. Ma intelligenti, o come dice Miller, “rivoluzionari - e cioè ispirati e ispiratori” devono essere i libri. Perché

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un rischio della lettura, il rischio in realtà più fre-quente, è leggere quel tipo di libri che sarebbe stato meglio non leggere, o che sarebbe stato meglio che non fossero stati pubblicati e scritti. Il libro in sé non è un valore. Lo è solo se vale. E nel caso presente di sovrapproduzione libraria i peggiori nemici dei libri che vale leggere sono i troppi libri che li sommergo-no e da cui cerchiamo a fatica di difenderci.

Uno dei critici più interessati ai vari rischi della lettura è stato George Steiner. “Leggere bene” ha scritto “significa correre grossi rischi. Significa ren-dere vulnerabile la nostra identità, il nostro auto-controllo (…) chi ha letto la Metamorfosi di Kafka e riesce a guardarsi allo specchio senza indietreggiare è forse capace, tecnicamente, di leggere i caratteri stampati, ma è analfabeta nell’unico senso che conti realmente”. Per Steiner il “leggere bene” non è un fatto tecnico neppure nel senso dei metodi di analisi e interpretazione. È una qualità dell’espe-rienza. Nel saggio “Una lettura ben fatta” (in Nessuna passione spenta) Steiner mostra una certa nostalgia per i rituali della lettura e per il libro come oggetto di culto e strumento di autoformazione umanistica: “Leggere bene significa rispondere al testo, implica una responsabilità che sia anche risposta, reazione”. Trascurare i refusi senza correggerli è già un peccato di omissione e di disattenzione: “una bestemmia contro lo spirito e contro la lettera”. È da questa ap-passionata etica della lettura che nascono la filologia e la critica.

Negli immediati dintorni, ma anche da un diverso punto di vista, nascono le polemiche di

Susan Sontag e di Enzensberger. Sontag, in Contro l’interpretazione, difende la lettura come percezione intensificata contro la mania di interpretare scavan-do sotto la superficie di opere letterarie e artistiche. Enzensberger difende a oltranza, contro la lettura corretta e ideale, le letture reali anche se difettose, parziali, utilitaristiche, edonistiche, sperimentali, in quanto atti individuali irriducibilmente anarchici e idiosincratici.

Nella lettura i rischi sono dovunque. A volte li corre il testo, a volte li corre il lettore. Altre volte an-che l’autore: quando per esempio le sue poesie, come lamenta Enzensberger, vengono usate a scuola per tormentare gli studenti con l’obbligo dell’interpre-tazione giusta, fino a nausearli per sempre di quella cosa incomprensibile e noiosa chiamata poesia, e di quegli individui da evitare che sono i poeti.

Per quanto mi riguarda, corsi il mio rischio leggendo ai miei studenti di Venezia un passo del diario di Kierkegaard che si apriva con questa frase: “L’uomo comune io lo amo, i docenti mi fanno ribrezzo”. Mi ero messo nei guai. Dunque: Kierkegaard o l’università? Aut aut. Senza pensarci molto, due anni dopo, scelsi Kierkegaard e mi dimisi dall’insegnamento.• •

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Alfonso Berardinelli (1943) è uno dei saggisti italiani più originali e polemici. Si è occupato di teoria dei generi letterari (poesia,

saggio, romanzo) e ha discusso di metodi dell’insegnamento e di funzione della critica. Tra i suoi libri: La poesia verso la prosa.

Controversie sulla lirica moderna (Bollati Boringhieri 1994), L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Einaudi 1997), Nel paese

dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (Donzelli 2001), La forma del saggio (Marsilio 2002), Che noia la poesia. Pronto

soccorso per lettori stressati (con H.M. Enzensberger, Einaudi 2006), Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione (Quodlibet

2007), Che intellettuale sei? (Nottetempo 2011), Non incoraggiate il romanzo (Marsilio 2011). Ha fondato e diretto con Piergiorgio

Bellocchio la rivista «Diario» (edizione fotografica integrale Quodlibet 2010).

Reading is risky• Alfonso Berardinelli

The act of reading is at risk. Reading, wanting to read, being able to read are becoming less and less desirable behaviors. Reading books is not as natural and necessary as walking, eating, talking or exercising the five senses. It’s not a primary activity, neither physiologically nor socially. It appears later, as it involves a rational and voluntary self-care. Reading any piece of literature, philosophy, science, when it’s not done for professional purposes, is a luxury, a virtuous or slightly depraved passion, a vice that society does not censor.

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((( ConversazioniSpazi tenaciIntervista a Vainer Marchesini, presidente WAM

• Laminarie

[ Questa conversazione si è svolta a margine dell’incontro pub-blico Ostinata mente, a cura di Federica Rocchi e Simona Bezzi, tenutosi il 30 novembre 2012 presso Officina Emilia a Modena nell’ambito del festival Periferico 2012.L’incontro, cui hanno partecipato oltre a Vainer Marchesini an-che Michelina Borsari (direttrice del festivalfilosofia) e Riccardo Paterlini (Teatro Sociale di Gualtieri), si è focalizzato intorno ad alcune storie in cui la creatività della ricerca e il radicamento in un luogo diventano strumenti di reazione alle avversità del nostro tempo (come il terremoto o la crisi economica) e mezzi per conti-nuare a praticare una visione innovativa del futuro di un territo-rio. Al centro del discorso, la cultura come modello di sperimenta-zione e innovazione, che sa mettere a frutto le competenze e la ricerca anche in ambito industriale e sociale. Le storie presentate mostravano come sostenere la ricostruzione significa ripartire da uno spazio fisico, da relazioni sociali e reti di competenze se-dimentate in luoghi, che richiedono il ripensamento del modello economico “globale”. Si tratta di esperienze e di riflessioni che hanno in comune la capacità di creare le condizioni per il cambia-mento restando attaccati a un’idea e a un luogo, tenacemente, con la testa prima ancora che fisicamente. ]

Ci faccia un breve ritratto di WAMHo fondato WAM nel 1969, anche se a quei tempi dovevo dire che l’aveva fondata mio padre perché solo così la gente mi prendeva sul serio: ero consi-derato troppo giovane per aver aperto un’azienda. Cominciai con sessantaquattro mila lire e con un’i-dea: fabbricare un tubo con un’elica dentro per tra-sportare il cemento, una coclea. Era una cosa molto semplice ma nessuno ci aveva pensato, del resto in quegli anni era più facile: avevi un’idea e lavorando la realizzavi. Oggi WAM dà lavoro a 2300 persone e ha stabilimenti produttivi in quattro continenti. La società oggi ha due caratteristiche fondamentali: innanzi tutto l’internazionalizzazione, che oggi vuol dire globalizzazione e delocalizzazione. Ma questi termini non hanno necessariamente un’accezione negativa, significano semplicemente che, soprattut-to a partire dagli anni duemila, l’azienda ha costru-ito e operato per quei mercati in cui si è insediata, segmentando i processi industriali e spostandoli in quelle aree dove era più conveniente o utile. L’altra caratteristica di WAM è l’innovazione, basata sulla specializzazione del prodotto e sulla strategia.

Qual’è stata la reazione di WAM al terremoto? I nostri uffici erano situati esattamente a 500 metri dall’epicentro del terremoto del 29 maggio scorso. Tutta la città di Modena ha sentito il terremoto, ma le persone lì non hanno percepito di essere in pericolo di vita. Noi eravamo al terzo piano, e vede-vamo le colonne che si spostavano di mezzo metro. Mio figlio è riuscito a buttarsi sotto la scrivania e si

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spostava da una parte all’altra della stanza insieme al tavolo. Abbiamo veramente avuto paura di crollare insieme all’edificio. Poi bisogna pensare che in quel momento nel capannone c’erano 600 persone, e che per tutte queste persone il terremoto è sembrato veramente infinito. Per fortuna eravamo preparati perché abbiamo sempre eseguito numerose prove di evacuazione, e per fortuna non abbiamo avuto crolli e neanche un ferito. Ma questo lo abbiamo imparato dopo molto tempo perché appena siamo usciti non riuscivamo a capire chi era rimasto dentro: non si poteva assolutamente tornare dentro al capannone. Nei luoghi di raccolta la gente non era rimasta per-ché tutti erano corsi dalle proprie famiglie e quindi non eravamo in grado di fare la conta. Fino alle un-dici siamo rimasti in questa situazione di angoscia, poi finalmente un ragazzo ha potuto controllare i tornelli all’uscita e così siamo riusciti a capire quan-te persone erano scappate e abbiamo capito che era-no tutti in salvo: nessun morto e nessun ferito.

Ma naturalmente le persone poi hanno avuto la brutta notizia che le case erano crollate o comunque non erano agibili e non potevano entrare in casa. La gente era tutta in strada. Immaginate che in un attimo la vita intera viene stravolta, le persone non hanno la possibilità di portare un bambino in casa, non hanno acqua corrente. Se non fosse stato per i volontari che prontamente sono intervenuti sareb-be stato un disastro. Bisogna ringraziare le forze dell’ordine, i volontari e i sindaci che dopo trenta minuti o un’ora avevano già provveduto nel cercare di arginare la situazione. Anche se forse il momento

peggiore è arrivato alla sera, quando le persone si sono rese conto effettivamente che non potevano tornare a casa, il momento in cui ti fermi a pensare e capisci che tutto quello che avevi costruito non c’è più, ti è stato tolto.

Avevate appena terminato di costruire un nuovo tetto per il risparmio energetico, con un grande investimento. Che danni ha avuto l’azienda?I nostri capannoni erano inagibili, le macchine era-no rimaste dentro e non si potevano portare fuori. La produzione era ferma. Il capannone di ferro era intatto, è venuta giù una capriata in quello di ce-mento. Abbiamo capito subito che bisognava fare presto, prestissimo, che mesi di fermo sarebbero stati troppi. Il giorno seguente ho organizzato subito tre gruppi di lavoro e abbiamo deciso che la priorità era togliere un po’ di disperazione dalla faccia della gente.

Ogni giorno in cui non si lavora è un giorno in cui perdi clienti conquistati in una vita, e se perdi clien-ti perdi lavoro, quindi posti di lavoro, e se a queste persone avessimo tolto anche il lavoro gli avremmo tolto tutto davvero. Cosa ci ha insegnato il terremo-to? Che di lavoro si può morire, ma senza lavoro si muore di certo.

Così dopo due settimane avevamo 100 dipendenti al lavoro, dopo sei settimane l’80% delle persone era tornata ad avere il suo lavoro e dopo otto settimane il 100% era stato sistemato, non a Cavezzo perché i la-vori erano fermi, ma li mandavamo fuori. Abbiamo organizzato per giorni e giorni tutte le corriere che

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avrebbero portato i dipendenti a Modena, Ravenna, Poggio Rusco. Abbiamo speso più di duemilacin-quecento euro per il trasporto. E non c’era lavoro, le cose erano nei magazzini, non avevamo i macchi-nari, ma mandavamo lo stesso i dipendenti a lavo-rare: ecco questa secondo me è la funzione sociale dell’azienda.

È molto interessante questo concetto di funzione sociale dell’azienda...Se non l’avessimo fatto noi chi l’avrebbe fatto? Ci sarebbero stati giorni in più di disperazione. È più importante alleviare un po’ la disperazione o perde-re qualche soldo per l’azienda? La risposta è ovvia. E quindi tutti quanti hanno lavorato per riuscire a compiere questo piccolo miracolo, che si è dimostra-to anche produttivo perché hanno aiutato ad accele-rare la ripresa delle attività. E alla fine sono coincisi entrambi gli aspetti: se non avessimo avuto quest’i-dea di rinascita immediata si sarebbero rallentati i lavori.

Dopo il terremoto ha deciso di ricostruire WAM a Cavezzo e non da qualche altra parte del mondo...Sì, una delle cose che è emersa nell’immediato post terremoto è che c’era molta paura che le aziende se ne andassero dal modenese. Ci fu un convegno per tranquillizzare l’opinione pubblica, nel quale dicemmo che trovare un altro territorio che pote-va ottenere i risultati in termini di produzione, di innovazione e di know how non era possibile. In questo territorio infatti c’è una fortissima cultura

dell’innovazione, sia a livello del singolo che di filie-ra. Qui tutti sono degli innovatori, sia l’operaio che l’artigiano: sanno come si fanno le cose e questa cul-tura meccanica non si trova in altre parti del mondo. È una terra dove il lavoro fa parte della cultura, è insito negli uomini... Per trovare un luogo e una cultura così spiccata della meccanica, dove ricreare quella ricerca all’innovazione che abbiamo costruito in quarant’anni... mi ci vorrebbero altri quarant’an-ni, ma non ce li ho. Del resto, abbiamo diciassette aziende nel mondo e quindi ci siamo già all’estero. Tuttavia, a Cavezzo c’è la testa pensante dell’azien-da, e quindi la parte che fa girare tutto il resto. E questo non è spostabile. Considerando poi i sistemi moderni di comunicazione si è sempre in collega-mento: puoi fare una videoconferenza parlando con tre o quattro nazioni differenti e avendo come unica preoccupazione il fuso orario. Il mondo è diventato piccolo piccolo coi mezzi moderni. Solo gli uomini sono rimasti sempre gli stessi... Un territorio che esprime profondamente una grande cultura dell’innovazione, e che il comparto meccanico ha saputo inter-pretare da sempre... Nel ‘73, qualche anno dopo aver aperto l’azienda, ho brevettato una coclea verticale, per portare il ce-mento su nei silos. È un’idea da niente, ma non ci aveva ancora pensato nessuno. Poi mi sono messo a studiare le polveri. Il successo dipende sempre dalla conoscenza. Come lavorare con le polveri? Non lo sapeva nessuno. Abbiamo brevettato valvole, filtri, sistemi di raccolta.

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Il motore principale dell’innovazione è la cultura, che si forma con gli anni e con la perseveranza. In WAM il primo reparto che abbiamo messo in funzio-ne è stato il reparto prototipi e poi il reparto innovazione e sviluppo. Ritengo che l’innovazione sia la parte più importante di un’azienda e si fonda sulla strategia. Una buona strategia deve tenere a mente le richieste del mercato, ma anche rischiare di fare le cose in modo nuovo. E poi ci sono la cultura del luogo e le caratteristiche della società in cui si opera. Per co-struire un’azienda è necessario conoscere i bisogni della clientela, in un certo senso conoscere l’animo umano e le sue declinazioni in culture diverse. Noi abbiamo 800 lavoratori in Cina, 650 qua in Italia, dipendenti in Germania, India, se non conosciamo queste culture come faremo mai a gestire le cose? Ecco che diventa un’esigenza l’ampliamento della conoscenza.

Qual è il comune denominatore dell’innovazione e della cultura?La curiosità. Se sei curioso di conoscere delle cose, stai già innovando dentro te stesso. Ogni cosa nuova imparata è una conquista, diventa un patrimonio della persona e dunque è un’innovazione... Einstein diceva di aver visto molto lontano perché era salito sulle spalle di chi già aveva visto molto in là, quindi partendo da conoscenze molto alte riuscì a elevarsi ulteriormente. L’innovazione è anche essere consa-pevoli delle conquiste di chi ti ha preceduto, e poi aggiungere qualcosa in più. Hai voglia di vedere dall’altra parte, e magari non ci ha ancora guardato

nessuno e sei stato fortunato, l’hai già trovata l’in-novazione... altre volte invece devi lavorarci per molto tempo. La genialità non è un’idea che arriva, ma è un percorso che gli uomini fanno, spesso an-che in modo non cosciente.

E poi è importante la capacità di un imprenditore di sviluppare la propria cultura, anche leggendo e studiando: io mi sono riletto anche due o tre volte i classici. Ora mi sto leggendo il De Bello Gallico, che a scuola odiavo tradurre, perché quando cercavo nel dizionario di latino le uniche frasi tradotte erano quelle di Cicerone e non di Giulio Cesare...

In che fase della sua carriera ha compreso la centralità dell’innovazione per un’azienda? Quando ho cominciato a fare l’imprenditore nel 1968 non avevo strategia, non sapevo che cos’era di preci-so il mio lavoro, non sapevo nulla. Devo dire anche che avevo studiato fino alle superiori ma non avevo fatto l’Università e non avevo avuto la possibilità di crearmi idee in ambito economico ed aziendale. La mia era una formazione di tipo meccanico, nel 1967 lavoravo in un’azienda di costruzioni, all’ufficio acquisti. Immaginai di riprogettare una macchina che compravamo, pensai che potevo farla funzio-nare meglio delle altre che esistevano sul mercato. Allora non pensavo certo al mercato globale, ma a quello locale: io avevo come riferimento ciò che vedevo a Modena. Presi la buonuscita e con i soldi fondai il primissimo nucleo della WAM, si chiamava “Marchesini Vainer”. Il primo anno di attività co-struii tre coclee, a mano, con saldatrice e cannello.

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La cultura imprenditoriale è nata poi passo dopo passo.

Dal punto di vista della gestione aziendale ho im-parato praticamente tutto da autodidatta, ho fatto molti corsi e ho studiato molti libri. Devo dire anche che negli anni Settanta le materie economiche non erano molto dibattute, uno doveva arrivarci con l’analisi, con la riflessione, con lo studio. C’erano dei libri sì, ma in un certo senso l’impresa era solo un’idea: o eri una grande impresa, o un artigiano. E poi non c’erano tutte le complicanze che ci sono oggi legate alla globalizzazione.

Nel tempo ho iniziato a fare corsi di francese e di inglese all’interno della mia azienda, facendo venire direttamente i professori madrelingua in fabbrica, e poi in seguito anche corsi di economia aziendale.

È stato verso il 1982 che ho cominciato a scrivermi le cose che volevo fare per capire quali erano i punti di forza e di debolezza, ho iniziato ad analizzare mol-tissime aziende concorrenti e di successo. Quindi fu di quegli anni la presa di coscienza di cosa significas-se, nella competizione, saper far meglio degli altri. Ecco che nacquero le prime strategie, e capii che è questo il motore dell’innovazione.

Ora posso insegnare qualcosa a tutti i cinquan-tasei manager che sono a capo dei vari reparti della mia azienda. E dico sempre loro che è la passione che serve, è mattone dopo mattone che si creano le grandi cose, ma soprattutto i grandi pensieri...

Qual’è stata la sua formazione scolastica?La mia formazione prima delle superiori è

stata all’Osservanza, un collegio dei frati minori a Bologna, dove studiavo greco e latino. In seminario ho imparato una cosa straordinariamente impor-tante, che è la meditazione. È molto importante che in un momento della giornata uno stia solo con se stesso, e con una parola deve pensare per mezz’o-ra... e approfondire, senza stancarsi mai di andare in fondo. E la vita dell’imprenditore è anche questo alla fine, cioè approfondire continuamente le si-tuazioni che lo riguardano, perché se vuole trovare la soluzione deve andare all’essenza dei problemi. A volte tra gli imprenditori si trovano personaggi un po’ brutali... ma di certo, come diceva Socrate, nel loro lavoro sono bravi, perché hanno la cultura del lavoro, anche se magari non hanno altri tipi di cultura; l’imprenditore di successo è comunque una persona che ha approfondito, studiato ed analiz-zato per poter prendere decisioni. Significa che gli imprenditori, anche senza saperlo hanno tutti una cultura, perché altrimenti farebbero continuamente errori e non starebbero sul mercato. Se si prendono le giuste decisioni, anche se non si è coscienti, allora si ha una cultura.

Le differenze poi sono dettate dalle scelte della vita, io se non fossi diventato imprenditore potevo diventare sacerdote e spero che avrei fatto bene an-che questo mestiere...

Come lo definirebbe lei?Una missione, una vocazione, e bisogna sentirse-lo dentro. Cosa che io non ho più sentito dopo un certo periodo. In questo momento sono agnostico,

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ma devo dire che la ricerca della santità è una delle attività che mi ha dato più soddisfazione nella vita: i momenti che ho passato di felicità, bellezza, quasi di estasi quando attraverso la meditazione cerchi di sublimarti, cerchi di andare in alto verso la santità, non li ho più sentiti.

Si può definire anche il mestiere dell’imprenditore come una vocazione?La vocazione vera a propria, per quanto mi riguarda, viene dopo. Io ho scelto di fare l’imprenditore per un motivo diciamo “speculativo”, perché da ragazzo immaginavo che aprendo un’attività per conto mio avrei guadagnato di più rispetto a fare l’impiegato, mestiere che stavo svolgendo fino a quel momento. C’è stato alla base un ragionamento razionale.

Dopo è venuta la vocazione, quando hai soddi-sfatto i tuoi primi impulsi e desideri e capisci che la vera vita non sono i soldi ma ben altro, allora trovi gli stimoli e i valori che a quei tempi ignoravi. Col terremoto devo dire che molti di questi valori si sono concretizzati, l’idea di darmi da fare per riportare i dipendenti al lavoro per esempio.. L’esempio dei ragazzi che con le case distrutte venivano a lavorare, che poi non si lavorava, perché non avevamo modo di entrare nelle fabbriche. Ma si stava lì insieme e si pensava a come fare, a come risolvere le cose, si ana-lizzava insieme la situazione...

La ricchezza non sono i soldi, non è la finanza. La ricchezza è nelle cose, nel lavoro che trasforma le cose, nella manifattura, nell’ingegno che produce gli oggetti...

Secondo lei che cos’è per un imprenditore il rischio?È il pane. Il processo decisionale è: l’analisi, la de-cisione, la realizzazione e il controllo. Il controllo viene fatto per capire se la tua analisi era corretta e questo significa che in tutto il processo c’è il rischio di sbagliare per il semplice fatto che ci sono dei vincoli interni e dei vincoli esterni. Come in guerra sai qual’è il tuo fine: puoi immaginare le azioni per raggiungere il tuo fine ma non puoi tenere conto di tutti i fattori esterni che possono farti cambiare le tue azioni e quindi devi avere sempre il “piano b”. Il rischio è insito anche nell’analisi stessa. Poi bisogna quantificarlo, abbiamo un margine di rischio del 30-40%, data anche dal fatto che non sappiamo come si comportano gli altri. Le aziende quando nasco-no hanno una percentuale di rischio maggiore ma hanno anche una percentuale di crescita maggiore e in base all’analisi di questo si può dare l’età all’a-zienda e al suo imprenditore. Quando non ha più voglia di rischiare significa che l’azienda ha voglia di consolidarsi.

Com’è la sua giornata quotidiana?Io sto in ufficio, dove non dovrei stare sempre per via del terremoto. Ma dato che non sono Schettino non abbandono la mia nave. Si comincia alle 8. Ho circa 160 ore di riunioni al mese, che da sole fanno l’orario normale di un impiegato, oltre alle riunioni non programmate. Quindi le mie otto ore non sono suffi-cienti e devo lavorarne almeno 12 al giorno, anche il sabato e la domenica mattina.

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Questo da circa 45 anni?No fino a trent’anni fa lavoravo di meno, perché ero più giovane e avevo bisogno di più tempo e la dome-nica mattina andavo a giocare a pallone. Ho giocato fino a quasi 50 anni e per me la domenica era dedica-ta allo sport. Poi quando ho smesso ho cominciato a lavorare anche la domenica mattina. Nessuno mi ha obbligato, potrei anche smettere. Trovo che questa sia un’attività bellissima, soprattutto quando si fa un’analisi di coscienza professionale e si concepi-scono progetti per il futuro. Perché è quando non si fanno più progetti per il futuro che si invecchia. Io faccio continuamente progetti a medio e lungo termine, come se la vita non finisse mai. Per me il lavoro è una passione e sono stato sempre disponibi-le a sacrificargli molto tempo, e poi del resto non ho trovato altre attività più piacevoli.

Il futuro poi è questo: fare le cose, produrre, in-ventare le soluzioni ai problemi. E non arrendersi mai. E del resto l’unica cura che conosco è il lavoro, altre non ce n’è...• •

Vainer Marchesini, imprenditore e presidente di WAM, azienda metalmeccanica con oltre 2.300 dipendenti e oltre 40

stabilimenti nel mondo. Lo stabilimento di Cavezzo è stato duramente colpito dal terremoto e Marchesini ha portato avanti

con ostinazione un progetto immediato di riavvio dell’attività produttiva, evitando la delocalizzazione, ma valorizzando le

competenze e le risorse umane che ha nel tempo coltivato a Cavezzo.

Tough venues Inteview with Vainer Marchesini• Laminarie

Vainer Marchesini is a entrepreneur and president of WAM, an Italian engineering industry with more than 2.300 employees and 40 factories worldwide. His main factory in Cavezzo (Modena, Italy) was almost destroyed by the earthquake on May 29th 2012. Since then, Marchesini is stubbornly carrying out a plan for immediately resuming the production in the Modena area by refusing to relocate his industry abroad. On the contrary, he is determined to enhance the mechanical skills of his human resources in Cavezzo, whom he nurtured in the last 40 years. In this conversation with Laminarie, Marchesini explains the importance of culture and innovation for an industrial enterprise and the value of human solidarity in the occasion of such a tragedy as an earthquake.

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Tre insegnamenti didascalici:Eschilo/Sardou/Beckett• Gerardo Guccini

[ Articolo tratto dall’intervento di Gerardo Guccini a DOM il 28 ottobre 2012 nell’ambito della rassegna Coda – Teatri del Presente ]

Didascalia deriva dal greco “didáskein”: “insegnare”, “istruire”. Nella tradizione drammatica, tale termine indica le parti del testo che non debbono venire dette da-

gli attori e che comunicano, tanto ai lettori che a chi intende allestire il dramma, cosa avviene in scena, gli intenti dei personaggi, le loro emozioni, la com-posizione scenografica dell’ambiente. La cultura tea-trale greca conosceva e utilizzava la parola didascalia alla quale, però, attribuiva significati molto diversi da quelli attuali. Per meglio chiarire il contesto, in-cominciamo con l’osservare un altro termine egual-mente derivato da “didáskein”. E cioè “didáscalos”: “maestro”, “istruttore”. Questi guidava la rappresen-tazione indicando cosa doveva essere fatto e come. All’epoca delle prime tragedie eschilee, didáscalos e autore coincidono, poi, nell’ambito delle Dionisie cittadine, si afferma dapprima la rescissione fra il ruolo dell’autore e quello del protagonista scenico e, in seguito, anche la tendenza a rappresentare opere già composte, premiando l’allestimento e non più il testo allestito, che, in origine, doveva essere

assolutamente inedito, originale. Così, a seguito di questi cambiamenti, le funzioni del didáscalos e quelle dell’autore si distinguono nettamente1. Il didáscalos-non-autore è un ruolo più simile a quello del regista, ovviamente, fatte le debite differenze: nessuno nell’antica Grecia si aspettava, infatti, allestimenti sorprendenti d’una tragedia già rappre-sentata, ma tutti, questo sì, pretendevano spetta-coli ben fatti, con bravi attori, musiche abilmente eseguite, movimenti coordinati, bei costumi e belle maschere.

Il didáscalos è, in un primo momento, l’autore stesso che segue – quasi “officia” – l’allestimento tragico, agendo sia sullo spettacolo che al suo in-terno, poi si trasforma in un esperto di tecniche teatrali: le didascalie, quale figurano nei testi della tradizione occidentale2, fanno, per l’appunto, le veci del didáscalos-autore, esplicitandone le competenze spettacolari e gli intenti progettuali. L’antica Grecia, però, non conosceva l’accezione contemporanea di “didascalia”.

Certo, si parlava di didáscalos per indicare colui che insegnava ad allestire la tragedia, ma quando si utilizzava la parola didascalia, questa, anche in ambito teatrale e trattando di drammaturgia, si-gnificava, niente più né meno, che insegnamento o informazione. Così le Didascalie del teatro greco redatte da Aristotele (e andate quasi completamente

1 Cfr. P. Ghiron Bistagne, Recherches sur les acteurs de la Grèce antique, Paris, Les Belles Lettres, 1976, pp. 125-134.

2 Cfr. V. Lochert, L’écriture du spectacle. Les didascalies dans le théâtre

europèen en XVI et XVII siècle, Droz, 2009.

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perdute) non riguardano le realizzazioni spetta-colari, ma riportano gli argomenti dei drammi partecipanti ai concorsi drammatici con la data e il piazzamento ottenuto. Si tratta cioè di una crono-logia che, utilizzata come materiale di studio e non certo come sussidio all’allestimento scenico, venne consultata da eruditi e storiografi fra cui Callimaco, che ne ricavò un Indice dei poeti drammatici con la lista di tutti i vincitori degli Agoni tragici e comici a partire dall’anno in cui vennero introdotti per le prime volte nel programma delle Dionisie cittadine e delle Lenee (dal 440 al 352 a.c.)3.

Le Didascalie aristoteliche rispecchiano insomma il significato letterale del termine “didascalia”, tra-smettendo ai posteri un patrimonio di insegnamen-ti e informazioni che, integralmente conservato, avrebbero consentito di ricostruire con maggiore precisione di quanto non sia ora possibile le storia del teatro greco. D’altra parte, se l’accezione contem-poranea della parola didascalia era ignota ai greci lo si deve principalmente al fatto che i testi drammati-ci non presentavano integrazioni didascaliche: per immaginare l’evento spettacolare, i lettori potevano fare infatti riferimento alle numerosissime didasca-lie implicite disseminate all’interno dei testi dialogi-ci4, dove i personaggi – per chiarire al pubblico cosa stesse effettivamente accadendo e supplire, così,

3 Cfr. A. Sambataro, Una biblioteca pubblica senza pubblico. Modelli culturali di organizzazione libraria nel periodo ellenistico, «Biblioteca oggi», XVI (1999), pp. 36-42.

4 Cfr. G. Cancellor, Le didascalie nel testo, in C. Molinari (a cura

di), Il teatro greco nell’età di Pericle, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 127-146.

alle deboli connotazioni scenografiche degli spazi scenici – fornivano informazioni sugli abbigliamen-ti, sui rumori, sulle collocazioni prossemiche, sulle azioni in corso di svolgimento eccetera. Non è però esatto dire, che, in tutto il teatro greco, non vi fos-sero didascalie. Page afferma «che il testo originale, sia che fosse di mano dell’autore o che si trattasse di una copia autentica contemporanea, doveva essere coperto da dozzine – anzi da centinaia – di didascalie, e che per qualche ragione queste furono del tutto eliminate nel processo di trasmissione del testo stesso»5. Di certo, le indicazioni didascaliche degli autori non sono pervenute, mentre i testi sono stati parzialmente risarciti di questa spogliazione da tardi trascrittori, che hanno aggiunto una manciata di prescrizioni (dette parepigrafé) indicanti suono o movimento. La scena del risveglio delle Erinni nelle Eumenidi di Eschilo ne presenta ben quattro, che, come osserva Oscar Taplin, costituiscono «l’esem-plare più adatto ad essere ricondotto alla volontà dell’autore»5. Parlando delle funzioni e dell’uso della didascalia non possiamo quindi non partire da que-sto straordinario episodio, che ha per protagonisti lo spirito di Clitemestra e le furie che dovrebbe tormen-tarne l’uccisore. Vale a dire, il figlio Oreste, il quale ha trafitto la madre per vendicare la morte del padre Agamennone.

Eschilo scrive in tarda età la trilogia dell’Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi), che gli fa vincere an-cora una volta la gara tragica delle Dionisie cittadine 458 a. C.), mettendo un freno al rampante Sofocle.

5 Ivi, p. 149.

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Eschilo concorre per vincere: lui, l’inventore del secondo attore – o deuteragonista – che aveva dato inizio alla forma propriamente drammatica della pratica tragica, dimostra in quest’opera di sapersi servire da maestro del terzo attore – o tritagonista – introdotto dal più giovane Sofocle, e, soprattutto, in-venta, per così dire, il serial tragico. Per capire la por-tata innovativa di quest’unicum drammatico, occorre ricordare che i tragedi, partecipando alle Dionisie cittadine, dovevano comporre una tetralogia com-posta da tre tragedie e un dramma boschereccio, e che le tre tragedie erano autonome l’una dall’altra. Visto che gli argomenti tragici provenivano da un corpus relativamente ridotto di saghe e miti, poteva accadere che si venissero progressivamente a forma-re gruppi di opere che svolgevano una stessa materia narrativa pur appartenendo a diverse tetralogie. Ad esempio, Edipo re (fra il 429 e il 425 a. C.), Edipo a Colono 406 a. C.) e Antigone 442 a. C.) di Sofocle, narrano la saga degli Epdacidi, ma non per questo vennero composte in successione né rientrano in una stessa tetralogia. Invece, l’Orestea mise il pubblico ateniese difronte ad una concatenazione narrativa che si svol-geva nell’arco della stessa giornata: la prima trage-dia mostra il ritorno del re Agamennone e si conclu-de con l’uccisione del sovrano ad opera della moglie Clitemestra e di Egisto, il suo giovane amante; la seconda mostra il ritorno e la vendetta di Oreste, che uccide Clitemestra ed Egisto; la terza tragedia ha per oggetto il percorso penitenziale di Oreste, dapprima tormentato dalle Erinni, e poi assolto dalla sentenza dell’areopago ateniese, istituito per l’occasione da

Atena. Concatenandosi in un’unità formale di am-pie proporzioni, la tre tragedie dell’Orestea acquisiva-no al genere tragico le possibilità narrative dell’epica (passaggi di luogo, salti temporali, concatenazioni di protagonisti, peripezie molteplici) – e, oltre tutto, anticipavano il serial. Nella parte iniziale della terza tragedia figura il dialogo fra Clitemestra e le Erinni, che contiene le più articolate didascalie esplicite del teatro greco. Rileggiamo il brano:

CLITEMESTRA Tutte queste cose vedo calpestate sotto i piedi, e lui è fuggito, se ne è andato via come un cerbiatto: dal fondo delle reti, agil-mente, spiccò il volo, facendosi beffe di voi. Ascoltatemi, poiché è in gioco la mia anima in ciò che vi dico: tornate in voi, o dee sotterranee. Io, Clitemestra, immagine di sogno, vi chiamo ora.CORO (Mugolio)CLITEMESTRA Sì, mugolate pure, ma lui intanto è fuggito lontano. I miei, non io, hanno chi li protegge.CORO (Mugolio)CLITEMESTRA Troppo tu cedi al sonno, e non senti pietà del mio soffrire: se ne sta andando Oreste, l’assassino di me, sua madre!CORO (Gemito)CLITEMESTRA Tu gemi, tu dormi: non ti alzerai al più presto? Quale altro compito ti è destinato se non fare del male?CORO (Gemito)CLITEMESTRA Sonno e stanchezza, potenti congiu-rati, hanno spento l’impeto della feroce idra.

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CORO (Stridulo mugolio ripetuto) Prendi! prendi! pren-di! prendi!fa’ attenzione!CLITEMESTRA In sogno tu insegui la preda, e la-tri come un cane che mai abbandona l’affanno della fatica. (vv. 110-132. Traduzione di Maria Pia Pattoni)6

Non è assolutamente detto che queste indicazio-ni di suono – mugolio, mugolio, gemito, gemito, stridulo mugolio ripetuto – siano state scritte da Eschilo, anzi è quasi certo che siano opera d’un tar-do trascrittore. Dunque, il problema da porsi non è perché l’autore le ha scritte, ma quali elementi della drammaturgia eschilea hanno fatto sì che il tra-scrittore sentisse il bisogno di integrare le didascalie implicite del testo con un seguito di didascalie espli-cite. Anche qui, come ovunque nella tragedia greca, gli “insegnamenti” che indirizzano l’azione scenica sono abilmente distribuiti all’interno delle battute. È Clitemestra stessa che ci dice che il coro mugola, geme e parla nel sonno, rendendo di fatto super-flua l’esplicita indicazione didascalica, che, pure, è motivata dal fatto che, in questo caso specifico, le didascalie implicite non si limitano, come accade di norma nella tragedia antica, a descrivere quanto ac-cade, ma indicano la presenza di battute non scritte e vuote di parole. I mugoli e i gemiti s’inseriscono, infatti, fra le osservazioni e le pressanti sollecitazio-ni di Clitemestra costituendo una quasi-relazione,

6 Eschilo, Orestea, introduzione di Vincenzo Di Benedetto,

traduzione e note di Enrico Medda, Luigi Battezzato, Maria Pia Pattoni, Milano, BUR, 2011, pp. 479-481.

uno pseudo dialogo. Inserendo con funzione di battuta un seguito di didascalie esplicite, il trascrit-tore riporta, dunque, alla rasserenante formula del dialogo quest’alternanza di espressioni linguistiche e gemiti animali. Non di meno, non di un dialogo si tratta, poiché i gemiti e i mugolii non sono suscitati dalle osservazioni di Clitemestra, ma dal sogno delle Erinni che, simili a una bestia collettiva, imma-ginano d’inseguire Oreste. Paragonandole a cani addormentati, Eschilo forniva allo spettatore la chia-ve per penetrare il senso della scena alla luce della proprie conoscenze dirette. Come cani da caccia assopiti, che sognano la preda e muovono le zampe mugolando, anche le Erinni sostano, ora, in una zona sospesa fra lontananza dal reale e scatenamen-to istintuale («In sogno tu insegui la preda»).

Per inscenare il rapporto fra interlocutori estranei al mondo dei vivi, Eschilo esce dalla tradizionale for-mula dialogica: precipita le Erinni in un sonno agi-tato e animale, e fa sì che lo spettro di Clitemestra si rivolga loro con disprezzo, osservandone l’inefficace agire onirico. La didascalia del tardo trascrittore bizantino ripristina invece la forma dialogica. E cioè legge “come se” fosse un dialogo l’enigmatica compresenza di dramatis non-personae che s’incrociano, le une sognando, l’altra tornando dai morti, senza potersi parlare reciprocamente.

La didascalia, per sua specifica funzione, tende ad appianare gli enigmi del testo dialogico oppure, all’opposto, mostra come costituire quelli della rap-presentazione spettacolare. Non c’è autore più espli-cito, popolare e deciso a corrispondere alle esigenze

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e ai gusti del proprio pubblico di Victorien Sardou7, eppure, proprio l’apparato didascalico evidenzia come, nel suo teatro, la ricerca dell’effetto intercetti l’enigmatica espressività senza parole delle presenze e dei movimenti scenici.

Avvicinandoci a Sardou, entriamo nel teatro del secondo Ottocento: regno d’un molteplice avanza-mento della spettacolarità, dove, da un lato, sul ver-sante dell’innovazione drammaturgica e culturale, la tecnica della didascalia si rigenera e affina pre-disponendo le possibilità della “scrittura scenica”8, mentre, dall’altro, sul versante dell’intrattenimen-to, le ricostruzioni “a effetto”, le ambientazioni eso-tiche e le immaginazioni realizzate sfociano in even-ti di proporzioni colossali. In breve, il teatro (seppu-re, più al livello europeo che non nel caso italiano) rivaleggia con gli ambienti e le scene d’azione del ge-nere romanzesco, che rifornisce la scena di vicende pre-filmiche come I tre moschettieri e la Regina Margot di Dumas padre o il Giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne. Per intenderci, gli attuali musical di successo non s’inquadrano fra gli sviluppi della svolta regi-stica fra Ottocento e Novecento, mentre appaiono 7 Cfr. per una recente visione critica e d’insieme I. Moindrot

(a cura di), Victorien Sardou. Le théâtre et les arts, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2011.

8 Le ottocentesche relazioni fra progettualità didascalica e progetti per la scena concretamente attuati maturano le condizioni della svolta registica (cfr. F. Perrelli, La seconda creazione. Fondamenti della regia, Torino, Einaudi, 2005) e pongono altresì le basi d’una drammaturgia d’autore sconfinante nella “scrittura scenica” (cfr. G. Bartolucci, La didascalia drammaturgica: Praga, Marinetti, Pirandello, Napoli, Guida,1973). Estranea alle problematiche storiche e d’impianto essenzialmente tipologico, il rapido excursus di E. Gegic, Dida. Didascalia e testo drammatico, Ed. Infinito, 2008.

contigui alla grande spettacolarità ottocentesca, che, proprio perché basata su movimenti, immagini e suoni, richiede una testualità fittamente intessuta di didascalie quando non addirittura progetti di rea-lizzazione autonomamente editi (come, per quanto riguarda l’opera, i Livrets de mise en scène o le Disposizioni sceniche ricordiane).

Fra i principali autori di pièce à grand spectacle vi sono Victorien Sardou e David Belasco. Il melodram-ma fece letteralmente incetta delle loro dramma-turgie: Tosca di Puccini e Fedora di Giordano proven-gono dagli omonimi drammi di Sardou, mentre la Madama Butterfly e La fanciulla del West pucciniane trasferiscono sulle scene del teatro musicale le cor-rispondenti pièce di Belasco. Spiccano, in questo filone operistico, le didascalie musicate, fra cui la famosa pantomima funeraria di Floria Tosca intor-no al cadavere di Scarpia. Scrive Sardou: «Floria sta per uscire, poi, vedendo i candelabri accesi, va per spegnarli, ma cambia idea: ne prende uno per mano e va lentamente a deporre quello che porta nella sinistra alla sinistra di Scarpia, passa davanti al cadavere, volgendo le spalle al pubblico, e deponen-do l’altro alla destra del morto»9. Qui, però, vorrei soffermarmi su una situazione drammatica, che i librettisti Illica e Giacosa hanno completamente escluso dal rifacimento operistico di Tosca.

Atto Secondo. Siamo in un affollatissimo salone di Palazzo Farnese. La nobiltà romana è in festa. È infatti giunta la notizia che l’esercito borbonico 9 V. Sardou, La Tosca, a cura di Guido Davico Bonino, Torino,

Einaudi, 2012, p. 88.

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MARIA Sua sorella è ricca e bella.SCARPIA Vostra Maestà mi crede colpevole?MARIA La tua risposta è semplice... arresta Angelotti.SCARPIA Questa notte stessa.MARIA Tanto meglio per te, perché difficilmente riusciremmo a scongiurare il cattivo umore del re. (Si volge. Grandi grida salgono dalla piazza)PRINCIPE D’ARAGONA Vostra Maestà non vorrà dare a questo buon popolo la gioia di testimoniar-le la sua adorazione?MARIA Ma certo! I bravi romani!

Un coro e un’orchestra, sulla piazza, suonano un saltarello. Le acclamazioni raddoppiano. La regina risale verso la finestra di mezzo, a destra del gran tavolo, seguita dal suo entourage e s’affaccia al balcone10.

Cosa dice, in sostanza, Maria Carolina al suo capo della polizia? Se vuoi riscattarti catturami Angelotti, devi farlo, non perché sei un bravo poliziotto ma perché sei talmente marcio e corrotto che se non lo catturi subito tutti penseranno che ti sei lasciato corrompere per lasciarlo andare. È un dialogo fra disonesti che stanno al vertice del potere. La regina sa che il suo capo della polizia è corrotto, ma gli va bene così, perché proprio il fatto che abbia pessima fama lo rende senza difesa, manovrabile e, in defi-nitiva, ricattabile. Infatti, fra i due, quella che in questo frangente manifesta con maggiore chiarezza

10 V. Sardou, op. cit., p. 43.

comandato dal generale Mélas ha messo in fuga Bonaparte. Lo slancio rivoluzionario della Francia sembra così troncato. Sul fondo della sala ci sono tre finestre che danno sulla piazza illuminata. A destra c’è il palco per la musica dove si deve esibire Floria Tosca, a sinistra c’è un grande specchio e il trono destinato alla regina di Napoli, Maria Carolina, che entra da sinistra venendo omaggiata dai presenti. Dopo aver salutato la cantante, Maria Carolina rico-nosce il suo capo della polizia, il barone Scarpia: le indicazioni didascaliche modellano la situazione, facendo del dialogo fra questi personaggi una fosca confabulazione di tono malavitoso:

MARIA Ah, sei tu, Scarpia?... (Avanza e si trova sola con lui, in proscenio: gli altri si ritirano per discrezione). Ebbene, quali notizie di Angelotti? (Intanto il prin-cipe di Aragona e Trivulzio si trattengono, a destra, con la Tosca).SCARPIA Nulla ancora di positivo, Maestà, se non che egli non dovrebbe aver lasciato Roma.MARIA Bada che quest’avventura non ti sia fatale. Tu hai parecchi nemici.SCARPIA Gli stessi di Vostra Maestà.MARIA E quella gente sa spargere cattive voci sul tuo conto.SCAPIA Arresto ogni giorno quanti calunniano la regina.MARIA Si constata che Angelotti, chiuso in prigio-ne da un anno, è riuscito a fuggire solo otto giorni dopo il tuo arrivo.SCARPIA Mi si accuserebbe?...

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la propria propensione al crimine, è proprio la so-vrana, che, per accelerare l’arresto di un ribelle, non trova di meglio che ricattare il proprio capo della polizia.

Per passare dall’atmosfera mondana della sala a questo losco dialogo, Sardou prevede che tutti si allontanino. Attorno alla regina e Scampia, che avanzano verso il proscenio, si fa il vuoto. Un vuoto complice dell’illegalità al potere: ogni personaggio è consapevole di non dovere ascoltare quello che si dicono la sovrana e il poliziotto. Fra i due sussiste un’intimità, che non occorre nascondere: Maria Carolina, non appena vede Scarpia, gli da del tu davanti a tutti. È un tratto confidenziale che, da un lato, estrae Scampia dal novero dei cortigiani, dall’altro, non potendo venire corrisposto, eviden-zia la debolezza del suo destinatario. Il poliziotto, insomma, è ricattabile ma non può ricattare, non è più un semplice cortigiano ma proprio l’estraneità alla corte lo rende del tutto inerme nei riguardi del potere regio. L’isolamento prossemico del suo dia-logo con la regina evidenza dunque il nocciolo nero del potere, la rischiosa fragilità di chi vi partecipa da subordinato e l’accondiscendente complicità del mondo sociale.

Grazie all’uso delle indicazioni didascaliche, Sardou separa i due personaggi dal contesto mon-dano e festivo del salone ritraendoli in una sorta di primo piano, al quale segue un effetto ancor più originale ottenuto disgiungendo dagli astanti il solo Scarpia, che parla fra sé nonostante l’evidente compresenza d’una società che, non udendo, per

convenzione scenica, quanto dice il personaggio posto in posizione avanzata, rende in termini con-cretamente simbolici il fatto di non essere, in quel momento, una rappresentazione drammatica della corte, bensì una sua raffigurazione di natura pura-mente plastica e visiva.

LA FOLLA Evviva la regina... (Poi) Angelotti!... Angelotti!... A morte! […]MARIA (al verone della finestra centrale, volgendosi verso Scarpia, solo in mezzo alla scena) Li senti, Scarpia? Vogliono la testa di Angelotti.SCARPIA (freddamente) Sì, Maestà.LA FOLLA Scarpia! A morte Scarpia!MARIA E anche la tua... (I presenti ridono)SCARPIA (guardando fieramente il gruppo formato a sinistra da Capréola, Trivulzio e da altri che ridacchiano) Naturalmente, la canaglia romana sarebbe la più ripugnante, se non esistesse quella napoletana. (le grida si affievoliscono, poi la musica continua. Scarpia, solo, va verso il gran tavolo. Gli altri, in fondo, in piedi o seduti, guardano tutti verso la piazza). Insomma, se Angelotti scappa, la mia rovina è vicina, e questi cortigiani, che la fiutano, già se la spassano alle mie spalle11.

Segue il lungo monologo in cui Scarpia, spronato dall’incombente pericolo, escogita il piano che gli permetterà di giungere ad Angelotti, facendo leva sulla nota gelosia di Tosca. Le modalità relazionali e combinatorie, che s’intrecciano in questa scena,

11 Ivi, p. 44.

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sono d’una complessità impressionante. C’è la liason dangereuse che congiunge la regina e Scarpia, tra-sformando gli astanti in una folla di spettatori che assistono, non già a un dialogo, essendo le comu-nicazioni fra i due personaggi di natura criminale e quindi interdette al pubblico, ma a quanto la regina fa intenzionalmente trapelare della posizione di Scarpia, rendendo ufficiale che della sua morte si può impunemente parlare e ridere. L’oggetto spetta-colare cui assiste la corte è dunque la rovina del capo della polizia («questi cortigiani […] già se la spassano alle mie spalle»). O, meglio, il suo accenno, il suo avvio. C’è poi il monologo interiore di Scarpia e, in corrispondenza a questo, l’ulteriore trasformarsi dei presenti in un gruppo scenografico che avvolge l’affannato dipanarsi dell’intelligenza del protagoni-sta drammatico, al contempo ragno, che si prepara a imprigionare e a inghiottire Angelotti, Tosca e Caravadossi, e mosca impigliata nella ragnatela di Maria Carolina. Il parlare e congetturare di Scarpia, solo, difronte a un gruppo di persone immobili che guardano fuori della finestra, costituisce una situa-zione teatrale inesauribile. E cioè una situazione che non vive solo in relazione alla storia rappresentata, ma ricava la sua pregnanza intersecando catego-rie assolute come il tempo fluente, in divenire, di Scarpia, che cerca in tutti i modi di salvarsi, e la temporalità congelata d’una mondo sociale reificato in forma di figura. Teatralmente, mi sembra si veri-fichi qualcosa del genere nel concertato dell’Atto III dell’Otello verdiano, dove Jago, con recitativo duttile e continuo, stringe le maglie dell’intrigo, mentre il

coro, Desdemona, Emilia, Cassio e gli ambasciatori veneziani celebrano la temporalità cristallizzata ed espressiva delle forme musicali. Ad un analogo intreccio perviene anche Sardou, ma lo strumento cui affida il suo pensiero teatrale non è la lingua alta della musica, bensì l’umile didascalia.

L’ultima didascalia di cui ci occuperemo è quella che apre That Time, testo scritto da Samuel Beckett fra il giugno del 1974 e l’agosto del 1975 per l’attore Patrick Magee.

Sipario. Scena buia. Luce lentamente sulla faccia dell’Ascoltatore, tre metri circa sul livello del pal-coscenico a metà tra il centro e la quinta.Vecchia faccia bianca, lunghi capelli bianchi sparpagliati e visti dall’alto, a raggiera.Le voci A B C sono le sue e gli arrivano dai due lati e dall’alto.Vanno e vengono ritmicamente senza interruzio-ne del flusso generale salvo i due intervalli indica-ti. Vedi nota a p. 40.Silenzio di 7 secondi. Gli occhi dell’ascoltatore sono aperti. Il suo respiro è udibile, lento e rego-lare12. (Traduzione di Carlo Fruttero)

La descrizione della dinamica scenica richiede si riporti anche la nota cui fa riferimento la didascalia:

12 S. Beckett, That time, in Id., Racconti e teatro, traduzioni di Edda Melon, Floriana Bossi, Carlo Fruttero e Carlo Lucentini, Torino, Einaudi, 1978, pp. 39-52:41.

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I momenti della sola e stessa voce A B C si succe-dono senza soluzione di continuità, a parte i due intervalli di dieci secondi. Tuttavia i passaggi dall’uno all’altro dovranno essere debolmente ma chiaramente percettibili. Se la triplice fonte e il contesto non bastassero a questo effetto, si accen-tuerà l’effetto meccanicamente (per esempio con un triplice «pitch»)13.

Le tre voci parlano di tre distinte età dell’Ascol-tatore. La voce “C” parla delle sue sensazioni da vecchio; la voce “B” parla dei suoi amori maturi; la voce “A” delle sue sensazioni infantili. Ogni voce riguarda, dunque, un diverso livello mnemonico dell’Ascoltatore, e, alternandosi alle altre due, si fa spettacolo grazie alla didascalia iniziale, che im-mette i contenuti verbali in una struttura di tipo performativo. That time non è né un monologo né un flusso di coscienza né l’emanazione d’una identità disturbata e rescissa. L’Ascoltatore, infatti, recepisce come dette da fuori di sé le immagini d’un vivere senile, maturo e infantile, mentre i flussi mnemo-nici, non solo sono tre, il che esclude la possibilità di considerarli espressione d’una stessa affabulazione interiore, ma si alternano secondo un meccanismo strutturale rigidamente controllato. La didascalia, qui, trasforma in spettacolo un testo letterario, che, isolatamente preso, non individua schemi o possi-bilità di realizzazione. In altri termini, la didascalia di That time non si limita a precisare le implicazioni spettacolari del testo, ma addirittura le fonda. È una

13 Ivi, p. 40.

modalità intrinseca al teatro di Beckett, che oscil-la fra svolgimenti performativi implicati da testi dialogici o monologanti e svolgimenti performativi descritti da testi didascalici, che possono prescrivere sia movimenti scenicamente integrati ad azioni ver-bali (come in That time e Not I) che movimenti affatto affrancati da sostegni linguistici (come in Acte sans paroles I e II)14.

La didascalia di That time funziona come una specie di “hostess” d’aereo. E cioè spiega schemati-camente che cosa bisognerà fare, con la differenza, che, fortunatamente, nella maggior parte dei casi, le istruzioni fornite dall’hostess non vengono messe in pratica, mentre quelle didascaliche si realizzano (o dovrebbero realizzarsi) puntualmente.

Le voci si alternano una all’altra in tutti i modi, tranne che nel modo cronologico (ABC), non essen-do Beckett interessato alla composizione di storie lineari: abbiamo A-C-B, A-C-B, A-C-B, C-A-B, C-B-A, C-B-A, C-B-A, B-C-A, B-A-C, B-A-C-, B-A-C, B-A-C. Ogni quattro successioni delle tre voci c’è la pau-sa preannunciata all’inizio del testo. Una stessa didascalia viene ripetuto due volte: «Silenzio di 10 secondi. Respiro udibile. Dopo tre secondi gli occhi si aprono»14.

Siamo partiti da un testo dove i personaggi del coro non parlano ma mugolano e gemono, ed ora, dopo duemilacinquecento anni di drammi e didasca-lie, arriviamo a una presenza scenica che non parla,

14 Cfr. C. Segre, La funzione del linguaggio nell’«Acte sans parole», in Id., Le strutture e il tempo, Einaudi, Torino 1974, pp. 253–74; poi in Sergio Colomba (a cura di), Le ceneri della commedia, Bulzoni, Roma 1997, pp. 211–32.

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ma ascolta e respira. La didascalia, non essendo pa-rola da dirsi ma evocazione di presenze, esplicita la perenne nostalgia del testo per l’organismo corporeo che lo rende teatro, e che, non potendo essere esso stesso parola, elemento linguistico del dramma, vie-ne avvicinato dai segni didascalici che ne nominano – e quasi chiamano – le manifestazioni fisiologiche: il mugolio, il gemito, l’essenziale respiro.

• •

Gerardo Guccini insegna Drammaturgia e Teorie e tecniche della composizione drammatica all’Università di Bologna. Nel 1995 fonda con Claudio Meldolesi il semestrale “Prove

di Drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”. Dal 2002 è Responsabile Scientifico del CIMES (Centro di Musica e

Spettacolo – Dipartimento delle Arti – Università di Bologna). I suoi studi riguardano in particolare il teatro del Settecento,

gli aspetti spettacolari della regìa lirica e il contemporaneo teatro di narrazione.

Three lessons about stage directions:Eschilo/Sardou/Beckett• Gerardo Guccini

A stage direction, not being composed by words to be said but by an evocation of a presence, expresses the perennial longing of a text for a corporeal organism that makes it theatre and, not being itself a word, a linguistic element of the drama, is approached by the didascalic signs that nominate - and almost evoke - physiological manifestations: a moan, a groan, an essential breath.

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((( Il raccontoAl Pilastro • Matteo Marchesini[ Tratto da Bologna in corsivo. Una città fatta a pezzi, di Matteo Marchesini, Pendragon 2010. Pubblicato qui per gentile concessione dell’autore ]

A volte, nella sua casa al Ravone e alla scuola elementare, Giulio sentiva parlare del lon-tano quartiere Pilastro: e sempre con aria misteriosa, affascinata e sprezzante. Dopo

una rissa, un compagno gli aveva detto: “zitto, che ho amici al Pilastro”; e il padre l’aveva nominato a proposito di oscuri fatti di sangue. Così crebbe in lui un’idea mitica e nera del posto. E un giorno, anziché rientrare da scuola, prese il 20 verso nord. Scese da-vanti a uno stinto centro commerciale, e iniziò a gi-rare tra i palazzoni e gli orti. Ma non vedeva niente e nessuno: solo mura scrostate, e come il vuoto lascia-to dopo che avessero tolto tutte le botteghe e i portici che circondavano il suo quartiere. Poi, in quel de-serto apparvero due figure. E, miracolo! erano la sua colf col figlio Yusuf. Lei si agitò, chiamò “la signora” a prenderlo. Ma la fuga fruttò a Giulio un bel tema: in cui trasfigurò il viaggio infilandovi tutte le squal-lide avventure che non aveva avuto. Suo padre, che era cronista, gli disse “bravo”, e volle che lo leggesse a Yusuf. Giulio temeva che s’arrabbiasse. Ma veden-do gli occhi del coetaneo spalancarsi ammirati, capì che quella bugia scritta era diversa da tutte le bugie che aveva detto finora, e che ormai non era più un bambino.

Gli occhiali • Matteo Marchesini

Da anni, al buio, quando non so più niente o quasile stesse mani mi tolgono gli occhialicon la stessa dolcezza che si sasenza futuroe un breve tocco d’ironia per meche li dimentico ancora e sempre addossoperfino nell’amore - sì, malgrado i voltimutevoli le stesse mani ripidecon identico cuore, con ugualecura da anni mi piegano gli occhialisu un comodino, un pavimento, un letto,su un fianco nudo o sul bicchiere o il librodi un poeta minore - e poi da anni gli stessicapelli tiepidi (ricci più spesso,lisci se m’illudo)mi cadono di colpo sopra il pettocome un vento che taglia, ma non dura.Così, con questa stessabreve ironia, e con la stessa dolcezza che si sasenza futuro,nel futuro una mano toglierà(ripida, identica a mille altre mani)dal buio del mio sguardo i vecchi occhiali,farà più uguali amore e cecità.

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Matteo Marchesini è nato nel 1979 a Castelfranco Emilia e vive a Bologna. Tra i suoi libri: la raccolta di poesie Marcia nuziale

(Scheiwiller 2009) le satire di Bologna in corsivo. Una città fatta a pezzi (Pendragon 2010), i saggi di Soli e civili (Edizioni dell’Asino

2012). Collabora con il Corriere di Bologna, Radio Radicale, Il Foglio e il Sole 24ore.

At Pilastro• Matteo Marchesini

Giulio happened to hear about the far-away neighborhood Pilastro at home or at the Ravone elementary school. Those conversations always had a mysterious, intrigued and yet scornful tone. After a rough-and-tumble, one of his mates told him: “Shut up, I have some friends at Pilastro”; and his father named it while talking about some obscure act of violence. And a legendary and dark idea of that place grew inside him. So one day, instead of going home after school, he took a bus heading north. He got off in front of a faded mall and he walked around amongst housing projects and vegetable gardens. But he didn’t see anyone around: he could only see flaking walls, and a sense of emptiness as if somebody took away all the stores and the arcades around his house. Then, suddenly, in the middle of that emptiness, two people appeared. And, as if by a miracle, they were his housemaid with her son Yusuf! The woman got all agitated, and immediately called “the lady” to pick him up. But, thanks to this escape, Giulio wrote a good essay in school, telling about some sordid adventures, which he actually had not gone through.His father, a journalist, said “good job” and insisted that Yusuf read the essay. Giulio was afraid that his friend would get mad but, instead, he opened his eyes wide with deep esteem and Giulio understood that this particular lie was different from any lie he had told so far, and that he was not a child anymore.

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((( IncontriPilastrinità• Gioia Gardo

Minuti rubati” è il titolo della rubrica del martedì sul Corriere di Bologna di Matteo Marchesini, poeta e scrittore che da tem-

po ormai collabora con Laminarie.È stato leggendo le sue storie che ad alcune in-

segnanti di lettere è venuto in mente che ai ragazzi delle scuole Saffi forse sarebbe piaciuto farsi rubare qualche minuto vissuto in presa diretta al Pilastro.

Quel rione che si raggiunge solo se proprio ci si vuole andare, svoltando dalla via San Donato sulla destra, ignorando il Meraville, che per molti è il solo motivo di passare da quelle parti, è un luogo fortis-simamente connotato per chi ci vive, nel bene e nel male. I ragazzi usano l’aggettivo pilastrino come contrapposizione al resto del mondo, chi ne conosce qualcuno lo sa.

Ebbene, proprio gli studenti più restii a scrivere in questa occasione hanno raccontato con entusia-smo, a volte con furore.

Parlano di noia, di paura, di estraneità e di biso-gno di rapporti ferini e intensi, narrano di espedien-ti per passare qualche ora fuori dal solito tran-tran parco-doposcuola-centrocommerciale e di adulti che non danno il buon esempio. A dir la verità indicano anche qualcuno che ce l’ha fatta e a cui poter guarda-re. Talvolta si ripetono, talvolta rilanciano storie che

sanno di leggende metropolitane. Chissà se lo sono.Nulla di edulcorato, questo è garantito.I testi sono stati letti dai cittadini del quartiere

una sera d’inverno al teatro Dom, senza i ragazzi. Gli adulti stavano in cerchio con le sedie, tra loro Matteo Marchesini che leggeva storie bolognesi, di quelle che si bruciano ogni giorno qua e là nei vari rioni cittadini. E la presenza dei ragazzi si sentiva, in quel teatro circolare che non smette di sapere di legno, dove lavorano e si divertono quotidianamen-te, perché è un luogo pilastrino, con tutto quel che comporta.• •

Gioia Gardo insegna lettere nella scuola secondaria di primo grado. Ha lavorato nelle gallerie d’arte, nel campo dell’editoria e della formazione manageriale e professionale; ha svolto attività

di ufficio stampa ed giornalista pubblicista dal 1999.

Pilastro stories• Gioia Gardo

“Minuti rubati” (Stolen Minutes) is the title of a weekly column about Bologna by journalist and poet Matteo Marchesini on the “Corriere di Bologna” newspaper. This column inspired some teachers from Saffi High School in Bologna to ask their students to write a piece about their neighborhood, called Pilastro. This neighbourhood in the outskirts of Bologna has a very strong character, for better or for worse, for those living there. Kids call themselves “pilastrini” (people from Pilastro) as an oppositive adjective to the rest of the world. And those kids, who usually refuse any kind of writing, decided to write about their neighborhood with passion, sometimes with fury. The following text have been read at theatre DOM by citizens of Pilastro on a winter night a few months ago.

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Il Quartiere non è infame• S.S.Vivo a Bologna, al Pilastro: il quartiere non è infame.Ci sono tante balotte, ci sono gli adulti, i ragazzi grandi e i bambini.Ci sono anche tanti bambini che hanno 10 o 11 anni e che si credono grandi.I ragazzi e i bambini vanno al parco, ai giardini.Gli adulti invece si vedono al bar. • •

Gas, il campione del mondo• Joseph BolowoodInizia tutto con un ragazzo di 23 anni che decise di fare boxe e diventare il campione del mondo.Il suo nome era Gas Pasha, ma chi lo sa se il suo so-gno si avvererà.Un giorno chiese a suo padre se poteva fare boxe e suo padre accettò ma solo perché aveva capito che avrebbe guadagnato molti soldi.Gas andava in palestra al Pilastro dove aveva fatto subito amicizia e così, dopo un solo incontro stravin-to per KO, Gas scoprì che questo era ciò che voleva: diventare l’eroe del quartiere grazie alla boxe. Così decise di iscriversi al campionato.Il campionato si fece vicino al Virgolone su un ring improvvisato.Gas era sicuro di sé, il pubblico tifava per lui, italia-ni, rom come tunisini.Il primo incontro durò cinque round. Gas vinse.Così capitò per il secondo, il terzo, il quarto... vinse anche il campionato.

Storie pilastrine

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Il pubblico era in delirio e Gas non ci credeva di aver vinto, era felicissimo, ma così felicissimo che stava per piangere.Furono bei momenti quelli.Oggi Gas ha una palestra che si chiama come lui, lì lui allena le giovani promesse del Pilastro, ragazzi che gli ricordano com’era lui.• •

Il virus • M.F.Al Pilastro le persone erano diventate carnivore a causa di un virus: io e il mio cane avevamo la missio-ne di salvare gli altri abitanti.Io giravo per il Pilastro ma non vedevo nessuno in giro: le scuole erano vuote, anche le strade e i giardi-ni: tutti temevano gli altri.Gli autobus passavano, ma dentro non c’era nessuno.Finalmente su un autobus ho visto un anziano: sta-va male, ma cercava di parlarmi.Mi avvisava che se volevo portare a termine la missione avrei dovuto prendere una margherita e bruciarla.Io pensavo a una pizza “margherita”, ma in realtà lui mi fece capire che intendeva il fiore.Io sono andato al parco, ho raccolto una margherita e l’ho bruciata: le persone del Pilastro sono tornate normali, potevano uscire di nuovo!• •

Ring• Denis PilasIl mio amico Michele negli ultimi due anni aveva passato tutti i pomeriggi in palestra e, da magrolino che era, era diventato enorme anche grazie a quelle pillole che prendeva dal suo personal.Un suo compagno gli aveva raccontato che al Pilastro si allenava uno fortissimo a boxe: Zac Samir. Decise di sfidarlo convinto che bastassero i muscoli a vincere.Prese il 20 e andò a chiedergli di combattere.Zac non vedeva l’ora. I due si rividero sul ring.Michele vede Zac tranquillo, l’arbitro suona la cam-pana e Michele subito reagisce, Zac prende colpi ma alcuni li schiva, poi tira un pugno alle costole all’avversario e così, dato che Michele era imbottito di tranquillanti, vince per ko.• •

Da poco• S.M.H.Io mi sono trasferito qui da poco, e del Pilastro non è che ne so un granchè.Tanta gente dice che la gente del Pilastro è cattiva e che ci sono tanti criminali.Io non sono d’accordo: quello che c’è al Pilastro c’è dappertutto, e la maggior parte dei cittadini, qui come altrove, è buona e onesta.A me il fatto che è piaciuto subito del Pilastro, per me che sono straniero, è che ci siano tanti ragazzi stranieri: è bello, quando sei lontano dal tuo paese, stare con la gente che viene dal tuo paese o dal tuo continente.

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Al Pilastro ci si conosce tutti, per questo per me è come una famiglia. (G.F.)

Il Pilastro è un posto bello, divertente ma anche pericoloso.La notte di Capodanno sembra una guerra, sembra sia scoppiata una bomba dalla quantità di fuochi di artificio!(B.A.)

Nel 2012 è caduta tanta neve: al Pilastro le strade era-no bloccate, le macchine non andavano più.La gente spalava la neve, i ragazzi si tiravano le palle di neve.Io non avevo mai visto il Pilastro con la neve. (M.F.)

La gente del Pilastro si saluta e si rispetta, alcuni però non salutano e si fanno i fatti loro. (C.S.)• •

King of 40127 • L.S.Era la mia balotta: il nostro passatempo preferito era “fare casino” perché al Pilastro non c’era mai niente da fare.Eravamo in tanti, poi ci sono stati dei litigi e molti se ne sono andati.Dopo un po’ di tempo i litigi sembravano finiti, e avevamo ricominciato ad uscire insieme: basta casi-ni, facevamo sfide di ballo.

Poi però i litigi sono ricominciati: a me sinceramen-te piaceva di più tempo fa.• •

Un incubo che non si cancella dalla coscienza• Rama TunnoCiao, sono Rama e vi voglio raccontare una storia pi-lastrina vera che è successa nel 2009, in estate.Stavamo giocando a calcio io, Nicki, Din, Jeremi e Bobbi quando arrivò anche la cugina di Nicki. Io guardai l’ora e dissi che dovevo rientrare perché era-no già le sette di sera e avevo detto a casa che sarei tornato per le sei. Tutti risposero che andava bene, ma che loro sarebbero rimasti ancora un po’. Ovvio -pensai- loro abitano qui dietro.Quando arrivai a casa mio fratello mi disse che i miei amici che avevo lasciato al parco erano quasi stati accoltellati ma che se l’erano cavata perché erano riusciti a scappare. Io dissi: “Ma di che parli? C’ero io fino a cinque minuti fa”. Lui rispose: “Grazie al cielo non c’eri anche tu” e io mi misi a piangere. Lui mi consolò e disse che mi doveva spiegare com’e-ra andata.“Appena te ne sei andato Din per sbaglio ha tirato il pallone contro la finestra di un tipo e l’ha rotta.” In breve il proprietario dell’appartamento disse dal bal-cone che sarebbe sceso per dargli una bella lezione. I ragazzi lo offesero e lo presero a parolacce dicendo di rendergli il pallone. Lui si raccomandò di aspettarlo e scese sul serio.Lo aspettarono. Quello scese con un coltello enor-me, tipico da macellaio, con quello bucò il pallone

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davanti a loro poi cominciò a rincorrerli. Loro scapparono veloci ma il vecchio li rincorreva, prese Jeremy, mentre gli altri trovarono una cantina aper-ta. Gliela aveva aperta il papà di un nostro amico che aveva visto la scena.Salirono poi dal padre del nostro amico e si misero affacciati alla finestra. Il tipo che aveva preso Jeremy diceva di volerlo accoltellare ma Jeremy gli svenne tra le braccia così lo portò in cantina.Una signora dette l’allarme correndo al bar dei cine-si, raccontò la storia. La gente che era al bar le disse di chiamare la polizia mentre loro andavano a caccia dell’uomo.In mezzo a quelli c’era anche mio padre, che chiamò a casa per chiedere se ero tornato. Mia madre lorassicurò.La polizia lo prese, Jeremy finì all’ospedale.Ma non è finita: il vecchio non si sa come estrasse la pistola dalla fondina del poliziotto e con quellaminacciò i genitori della sua vittima. Il poliziotto lo sbatté a terra e lo fermò.La storia finì così e tutti se la ricordano come un in-cubo che non si cancella dalla coscienza.• •

Un sogno in periferia• Youssi BynightCalogero è un ragazzo di famiglia benestante con quelle educazioni tradizionali tipiche del meridione. Stanco di essere sempre fuori dai gruppi, preso in giro per i suoi modi troppo educati, decide di andare in cerca di nuove avventure, in un posto adatto a lui.

Calogero non ha amici nella sua zona e quindi va in un piccolo quartiere, il Pilastro, lontano dal suo.Aveva sentito parlare del Pilastro da un suo compa-gno di scuola che glielo aveva descritto così: è un quartiere abitato da gente di varie nazionalità, con molte persone che vengono dal sud dell’Italia. Ecco la parola magica per lui. L’attrazione principale, gli disse, è il Virgolone con il suo immenso parco e i suoi quattro grattacieli.Matteo, arrivato in questo quartiere con il 20, iniziò subito ad esplorare. C’erano tanti palazzi alti, tan-tissimo verde, un campo da calcio, una gelateria, una biblioteca, un centro commerciale, tutto vici-nissimo. E c’erano tantissimi ragazzi in giro senza madri ansiose intorno.Esplorando, esplorando si fece sera. Andò dai suoi zii a cena (la mamma li aveva avvisati del suo arri-vo). Il menù comprendeva: scaloppine ai funghi, spaghetti allo scoglio, insalata e come dolce la torta napoletana.Dormì da loro, il giorno seguente tornò verso casa, contento della sua giornata al Pilastro e di avere sco-perto il sogno di ogni napoletano.• •

La verità• Abdul Bolo-PilastroIn una mattina d’estate di quattordici anni fa un ragazzo di nome Lucas decise di sfidare la parola dei suoi amici.Era da più di due mesi che parlavano male del Pilastro, dicendo cose tipo: “Oh, sai che un giorno

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un mio amico è andato al Pilastro e non è tornato intero?”, “Sai che dicono che hanno massacrato di botte Riccardo?”.A queste storie qui, bé, Lucas non ci credeva.Era già da un paio di settimane che provava ad ar-rivarci, ma in un modo o in un altro veniva sempre fermato o dai suoi amici o dai suoi genitori.Allora un giorno disse chiaro e tondo ai suoi che vo-leva andare al Pilastro e la risposta dei suoi fu: “Sei scemo?”Ma lui, testardo, ci andò di nascosto.Dopo quasi un’ora e mezzo e due autobus, da Rastignano arrivò al Pilastro.Appena scese alla fermata Pirandello sentì un certo languorino così si fermò in gelateria a mangiarsi un bel gelato.Dopo aver finito si diresse verso il centro commercia-le di fronte... era stupito!Entrò e vide un sacco di negozi, andò dal tabaccaio a prendere le chewingum, andò al Conad a prendere una bibita e poi uscì dirigendosi verso il Virgolone. La prima cosa che gli venne in mente fu che era proprio un bel parco quello di fronte a lui, pieno di giochi e verde, come nella sua zona, in centro, non ce n’erano.Verso le quattordici passò dal campetto da calcio e un gruppo di ragazzi lo invitò a giocare con loro.Verso le quattro del pomeriggio un ragazzo di nome Juan lo accompagnò al Meraville, lì si divertirono un mondo: andarono da Pittarello e alla Decathlon.Tornato a casa aveva voglia di raccontare la sua bel-la esperienza. Nessuno ci credette perché spesso il

sentito dire vale di più di chi racconta cose vere ma meno sensazionali.Fatto sta che al Pilastro c’era tutto quello che voleva e da quel giorno ci andò più spesso.• •

Da domani sarai il mio migliore amico• Youssin BoloMergen arrivò in Italia che aveva dodici anni, dopo un anno aveva già imparato la lingua italiana, fatta eccezione per gli articoli che usava ancora a caso. Mergen andava a scuola: faceva la seconda media l’anno in cui era arrivato.A scuola era un ragazzo molto bravo sia nello studio che nel comportamento ma i compagni lo avevano preso di mira: molti gli tiravano un pugno o una coppa o un calcio per vederlo in difficoltà.Lui li lasciò perdere per una settimana, ma non seppe resistere di più. Dopo sette lunghi giorni si decise: appena uscirono da scuola Mergen prese il compagno di scuola che odiava di più per il collo e gli disse: “È la prima e l’ultima volta che alzi la mano a me, capito?”. Il compagno di Mergen, con una paura addosso che quasi si vedeva, disse: “Va bene, da oggi in poi tu sarai l’amico mio più caro” poi Mergen lo prese e gli diede due schiaffi a sancire l’accordo. Gli ripeté: “Mi raccomando, non farlo più” e poi gli spu-tò in un occhio sibilando “Sparisci schifoso...”.Il giorno dopo si rividero a scuola e diventarono migliori amici, incominciarono ad uscire insieme e continuarono per anni e anni a girare insieme al Pilastro.• •

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La patente• Lahcen PilastrinoUn giorno Kustran con il suo amico di nome Andrej erano fuori, era mezzanotte, non avevano soldi e avevano fame, mentre camminavano per strada vi-dero un portafoglio in una macchina, una BMW 645.Videro che fuori non c’era gente così per prima cosa presero il portafoglio, lo stereo (che poi vendettero) mentre la macchina la bruciarono.Nel portafoglio c’erano 450 euro, per lo stereo prese-ro 95 euro e in tutto si fecero su 545 euro.Andarono a mangiare e bere e spesero 35 euro. Con gli altri 510 euro decisero di prendere vestiti. Andarono e spesero tutti i soldi, presero i vestiti e andarono verso la fermata ad aspettare l’autobus che arrivò dopo 5 minuti. Salirono senza biglietto perché non avevano più neanche un cent; dopo 15 minuti fecero un incidente, arrivò la polizia, i controllori, l’ambulanza.Per prima cosa l’ambulanza portò via Kustran che si era rotto un braccio e una gamba, invece Andrej si era rotto solo la mano. I controllori andarono all’o-spedale da Kustran e Andrej a vedere come stavano (e anche a chiedergli il biglietto). Dissero che non ce l’avevano, convinti di passarla liscia, dato che erano all’ospedale. I controllori fecero la multa a tutte e due di 51 euro a testa.Dopo che uscirono dall’ospedale andarono dall’avvo-cato a raccontargli tutto. L’avvocato prese il nome e il cognome di tutti e due e poi pensò tutto lui: fece causa all’ATC.Arrivò il giorno che ricevettero i soldi dei danni e a

Kustran furono riconosciuti 5.345 euro, ma l’avvo-cato si prese 2.500 euro. A Kustran rimasero 2.845 euro, invece ad Andrej in tutto arrivarono 2.000 euro, ma l’avvocato si tenne 550 euro per cui gli ri-masero 1350 euro.Con questi soldi andarono a fare la patente della macchina perché ormai avevano 18 anni passati. Andarono a chiedere: in tutto costava 345 euro per ognuno, facendo l’esame, la guida e tutto.E così presero la patente.• •

Appuntamento• Mirsha marocchinaC’era una volta una ragazza di nome Susanna che abitava al Pilastro. Susanna aveva molte amiche tra cui una di nome Sonita. Un giorno le due litigarono perché Sonita aveva sparlato di Susanna.Sonita chiese a Susanna di incontrarsi fuori da scuo-la, vicino al bar bruciato, ma Susanna scoprì che la sua ex amica voleva picchiarla invece che discutere, perciò chiamò con sé Sofia. Sofia andò all’appunta-mento e usò il suo cane per dividerle.Dalle finestre dei palazzi le donne guardavano fin-gendo di stendere e poco dopo tutti vennero a sapere che due ragazze facevano a botte.Ad un certo punto Sofia si stancò di tentare di fare ragionare le altre e lasciò andare il suo cane. Dopo un po’ arrivò un’altra ragazza di nome Sharon che tentò di difendere Sonita picchiando Susanna, così Sofia le disse di non intromettersi. Sharon si arrab-biò e cercò di prendere Sofia per i capelli ma non ce la

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fece. Sofia, furba, le strappò una ciocca piegandola verso di sé e le tirò una ginocchiata in bocca.Nel frattempo le pettegole del Pilastro andarono a dire della rissa alla prof che uscì da scuola, le separò e le chiamò tutte in presidenza, anche se il fatto era accaduto fuori dal cancello, in più chiamò i genitori.Alla fine non solo due persone fecero a botte, ma quattro e le sgridate a casa durarono giorni perché tutti sapevano.• •

Io ne sto fuori• Alessandro D’ArienzoEra il mio primo giorno alle scuole medie Saffi, io prima vivevo in un paese fuori Bologna. Poi, sicco-me ero stato bocciato due volte nella mia scuola, de-cidemmo di trasferirci. Il Pilastro era tranquillo, così almeno era ai miei occhi.Ero uscito da scuola per andare a casa mia, quando vidi dei ragazzi seduti su una panchina sotto un al-bero, al riparo dai raggi del sole, che mi guardavano. Con passo veloce mi allontanai da loro e finalmente arrivai a casa. Appena entrato mi sdraiai sul letto, accesi la televisione e piano piano mi addormentai. Mia madre mi svegliò per la cena. Dopo mangiato scesi con il mio cane per fare una passeggiata.Camminando mi ritrovai davanti alle Saffi, vidi dei ragazzi arrampicarsi sul tetto, accesero un petardo e lo tirarono verso di noi; io, ingenuamente, li man-dai a quel paese. Saltarono giù e, con aria minaccio-sa, corsero verso di me.Per prima cosa presi il mio cane in braccio e corsi più

veloce che potevo. Un altro gruppo di ragazzi mi vi-dero, si alzarono e fermarono gli altri ragazzi.Incominciò una scazzottata e uno mi disse di scap-pare. Capii che quei ragazzi erano quelli seduti sulla panchina il giorno prima.Appena arrivai a casa appoggiai il mio cane e non dissi niente a nessuno.Sentii delle sirene e capii che qualcuno aveva chia-mato la polizia. Il giorno dopo tornai a scuola e i ra-gazzi non c’erano più.Tutto si era risolto tra loro: si erano eliminati gli uni con gli altri.Da quel giorno il Pilastro non fu più abitato da bande.• •

Al capolinea• SabrìC’era una volta una ragazzina di nome Gaia di dodici anni che abitava al Pilastro. Un giorno insieme alla sorella maggiore Ilenia andarono nel giardino del Pilastro sperando di incontrare una loro ex amica di diciassette anni, molto più grande di loro, e chiarire con lei.Gaia prima di uscire prese le mutande che Jennifer aveva dimenticato una volta che aveva dormito a casa sua e se le mise in tasca. Organizzò un piano per chiederle spiegazioni e ridarle le mutande.Le due sorelle si misero sedute sulle panchine del parco Pasolini convinte di trovarla lì ma poi la videro al capolinea insieme ai suoi amici. Gaia attraversò la strada e andò dritta alla fermata senza dire una parola.

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Gaia chiese a Jennifer perché era andata in giro a sparlare di loro, ma Jennifer non dava spiegazioni e continuava a chiacchierare con i suoi amici.Gaia allora si arrabbiò, tirò fuori le mutande che te-neva in borsa e gliele tirò in faccia.Jennifer fece una brutta figura ma non fece niente, lanciava solo sguardi di paura e vergogna intorno.Tutti ridevano. Gaia le disse che stava parlando con lei e che doveva guardarla in faccia. Jennifer le ri-spose male e così la dodicenne iniziò ad agitarsi ma per fortuna un amico la prese e disse a Jenny che era meglio che se ne andasse via perché la conosceva e sapeva che stava per tirarle un pugno.Jennifer le sue mutande le lasciò per terra e se ne andò.Quelle mutande girarono per giorni per tutto il Pilastro. Tutti le calpestavano e quando vedevano la loro proprietaria si mettevano a ridere per la brutta figura che aveva fatto una di diciassette anni per col-pa di una di dodici.• •

Storie di bulli e cappelli• Maruen BolognaUn giorno, mentre stavo ritornando a casa, vidi cin-que bulli che stavano rompendo cassonetti e portici. Quando mi videro vennero verso di me. Io cercai di scappare ma un bullo che veniva a scuola da me e si chiamava Adan mi rincorse perché mi voleva rubare il cappello.Eravamo verso via Casini e, appena mi riconobbe, scappò perché aveva paura che andassi dai suoi

genitori dato che sapevo dove abitava, in via Frati.Mi nascosi e dopo quindici minuti di attesa vidi che andavano da un signore anziano a chiedere soldi e sigarette, il vecchio disse di no e così la banda co-minciò a insultarlo e a sputargli addosso.Il giorno dopo a scuola durante l’intervallo, Adan mi evitava così io andai da lui. Mi chiese che cosa volevo ed io gli domandai come mai faceva parte di quella banda e perché mi voleva rubare il cappello, gli dissi che doveva mollarli perché con quella gente si sareb-be rovinato la vita.Incominciò a uscire con me e i miei amici, Andrea, Paulo, Daniel ecc. Si divertiva con noi ma all’im-provviso i suoi vecchi amici ricominciarono a girar-gli intorno, lo guardavano male, gli facevano pres-sione. Lui gli chiese cosa volevano, ci aspettavamo la rissa ma loro semplicemente se ne andarono.Col tempo cominciò ad andare meglio a scuola, fu promosso all’esame di terza con otto e andò alle superiori.• •

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((( La recensioneGerrit van Dijk: animatore della realtà• Andrea Martignoni

Gerrit van Dijk (1938-2012) è uno di quegli ar-tisti per cui la tristezza della recente scom-parsa è almeno in parte alleviata dalla con-sapevolezza che la sua arte e i suoi film,

così diversi uno dall’altro e così indissolubilmente legati alla sua personalissima poetica, rimangono nel presente e rimarranno nel futuro. Gerrit, malato da diversi mesi, ha continuato fino all’ultimo a nu-trire la sua curiosità ed è partito per l’ultimo dei suoi tanti viaggi, da Haarlem, nei Paesi Bassi, alla vigilia del suo settantaquattresimo compleanno.

Gerrit van Dijk cresce artisticamente come pittore ma, dopo essersi affermato a livello internazionale rimane folgorato dalla visione dei film di animazio-ne di Norman McLaren. Da quel momento la sua pittura e il suo immaginario artistico si mettono in

movimento. Come McLaren, van Dijk sperimenta e ammaestra al servizio della propria arte le più diver-se tecniche di animazione, mantenendo costante la sua inossidabile e tagliente ironia e la preferenza per temi dal forte impegno sociale e di denuncia.

Tra i molteplici riconoscimenti tributati ai suoi cortometraggi animati, I move so I am, vero e proprio manifesto dell’artista-animatore, vince nel 1998 l’Orso d’Oro a Berlino come miglior cortometraggio, replicando il premio vinto nel 1989 con Pas a Deux, quest’ultimo disegnato a quattro mani con l’artista e animatrice francese Monique Renault.

I move so I am (http://www.youtube.com/watch?v=COz7zJ9w9bc) si apre con una sequenza animata in cui due matite disegnano due mani fino a comporre Mani che disegnano, una delle famose immagini del grafico e incisore Maurits Cornelis Escher, conterraneo di van Dijk. L’atto autoreferen-ziale della mano che disegna se stessa si sviluppa, nell’arco degli otto minuti della durata del film, in un turbinio di immagini in movimento e colori in continua evoluzione al cui centro rimane l’autore del film in un eterno disegnare cancellare e ridisegnare il proprio corpo, senza apparente soluzione di conti-nuità. Nello sfondo visivo e sonoro compaiono innu-merevoli riferimenti alla biografia e alle ispirazioni artistiche dell’autore. La tecnica del Rotoscopio1 utiliz-zata da van Dijk raggiunge in questo film uno

1 Il Rotoscopio è una tecnica del disegno animato in cui il disegnatore ricalca le scene a partire da una pellicola filmata in precedenza.

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dei punti più alti nella storia del cinema di animazione.

Ancora più complesso è il successivo The last words of Dutch Schultz. (http://www.youtube.com/watch?v=ty0rBt5lcH8) Il film riprende il monologo esistenzialista in punto di morte del gangster ebreo-americano Dutch Schulz, ucciso in un agguato or-ganizzato dalla mafia italo-americana per eliminare un personaggio divenuto, sia per il potere “legale” che illegale di New York, il “nemico pubblico nu-mero 1”, nella prima metà degli anni Trenta. La ricostruzione storica girata dal vero, in cui appare anche van Dijk col suo inseparabile cappello, si me-scola abilmente con l’animazione e la rielaborazione di materiali d’archivio degli anni Venti e Trenta. Il testo di Dutch Schultz è interpretato dalla voce di Rutger Hauer.

Gerrit van Dijk può essere considerato come il pion-iere del documentario sociale animato: un “anima-tore della realtà”.• •

Andrea Martignoni, performer e sound designer, insegna Storia dell’animazione presso il Master in animazione

all’Accademia di Palermo, collabora con festival internazionali in qualità di membro di giuria e realizzando master-class,

workshops, letture su argomenti legati all’animazione e al suono.

 

Gerrit van Dijk: a reality animator • Andrea Martignoni

Gerrit van Dijk (1938-2012) can be considered as the pioneer of social animated documentary: a “reality animator”.

Gerrit van Dijk began his artistic career as a painter but his artistic imaginary and his painting was set in motion after he was struck by Norman McLaren’s movies. Just as McLaren did, van Dijk experimented several animation techniques and he preferred to work on themes with a strong social engagement, always facing them with stainless and sharp irony.

His works I move so I am and The last words of Dutch Schultz can be both seen on YouTube.

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((( Una strisciaBozzetti di scena• Febo Del Zozzo

Impersonale Circo a due Esagera Dietro le aste avanti il mondo

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•finito di stampare nel mese di dicembre 2012 a Bolognapresso la tipografia Rabbi